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La diffusione del virus in Africa

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La struttura del virus HIV

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AIDS o Sindrome da immunodeficienza acquisita Sindrome secondaria all’infezione da retrovirus HIV; è

caratterizzata dalla progressiva compromissione delle difese immunitarie e dall’insorgenza di gravi patologie, come cancro (frequente è il sarcoma di Kaposi) o encefaliti, oppure dalla comparsa di infezioni opportuniste che si

sviluppano nei pazienti debilitati dalla malattia. L’individuo infettato dal virus diventa portatore asintomatico ed è detto

“sieropositivo” perché nel suo sangue è possibile riscontrare la presenza di anticorpi anti-HIV; può sviluppare in seguito la sindrome vera e propria

(AIDS conclamata). Quando questa compare, provoca un rapido deperimento fisico; l’esito dell’AIDS conclamata è infausto. Il termine AIDS è

l’acronimo di Acquired ImmunoDeficiency Sindrome, sindrome da immunodeficienza acquisita

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La trasmissione del virus HIV avviene attraverso il contatto con il sangue di un soggetto infetto e per via sessuale. Per tale motivo l’ AIDS viene annoverata nel gruppo delle malattie a trasmissione sessuale (MST). L’ infezione si diffonde più rapidamente tra individui che hanno spesso rapporti sessuali non protetti con partner diversi e tra i tossicodipendenti. Il virus può anche essere trasmesso dalla madre sieropositiva al feto, attraverso la circolazione sanguigna placentare, o al bambino dopo la nascita, attraverso l’ allattamento al seno.

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Nel caso del contagio per via sessuale, l’HIV presente nello

sperma e nelle secrezioni vaginali si immette nella

circolazione sanguigna del partner non infetto attraverso

piccole abrasioni delle mucose (genitali o orali), già presenti o

formatesi durante i rapporti sessuali. Il contagio si verifica

allo stesso modo negli individui omosessuali ed eterosessuali.

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La trasmissione del virus tra tossicodipendenti riguarda

coloro che fanno uso di droghe iniettabili, come

l’eroina, e che impiegano siringhe già usate; in tal caso,

anche piccole quantità di sangue depositatesi sull’ago o

aspirate al momento dell’estrazione della siringa, possono essere sufficienti a

infettare il successivo utilizzatore di questa.

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Particolari vie di contagio sono quelle che si stabiliscono tra pazienti portatori di HIV e operatori sanitari, e viceversa, e nel corso di

trasfusioni sanguigne. La probabilità di contrarre l’infezione per queste vie in realtà è piuttosto bassa, per le misure di prevenzione e le

condizioni di sterilità adottate in ambito sanitario e grazie ai test di routine per l’individuazione dell’HIV effettuati nelle emoteche. La

donazione del sangue non comporta per il donatore alcun rischio.Non vi è prova che l'HIV possa essere trasmesso attraverso l'aria, le punture di insetti, il sudore, la saliva, oppure tramite il contatto con persone infette, purché non vi sia scambio di sangue o di secrezioni genitali: dunque, il virus non si diffonde con una stretta di mano, o

impiegando gli stessi attrezzi da lavoro di un sieropositivo, o indossandone un abito. Ciò è dovuto al fatto che l'HIV non sopravvive a

lungo quando viene esposto all'ambiente. Invece, la condivisione di oggetti come rasoi, spazzolini da denti, bende, non è immune dal

rischio di contagio.

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Il virus HIV attacca specificamente alcuni tipi di cellule umane: i macrofagi; un sottogruppo di linfociti T-helper caratterizzati dalla presenza, sulla superficie esterna

della membrana plasmatica, di recettori proteici indicati con le sigle CD4 e CCR5. Questi linfociti vengono perciò chiamati linfociti T-CD4+.

Dal rivestimento esterno del virus sporgono due tipi di glicoproteine, le gp120 e le gp41. La gp120 viene riconosciuta e legata dai recettori CD4; questo fenomeno

induce una modificazione della struttura della gp120, che si lega anche al recettore CCR5. La formazione di tale complesso a sua volta determina uno scatto della

glicoproteina gp41 verso la membrana plasmatica della cellula ospite e, dunque, l’avvio dell’infezione da parte del virus. L’HIV inietta il suo patrimonio genetico, ovvero i due filamenti di acido ribonucleico (RNA), e i suoi enzimi (trascrittasi

inversa, proteasi e integrasi), nel citoplasma della cellula ospite.La trascrittasi inversa dà inizio alla sintesi di un filamento di acido

desossiribonucleico (DNA) complementare a ciascun filamento di RNA; si forma dunque un doppio filamento ibrido di DNA ed RNA. Infine, l’enzima degrada la

porzione di RNA e completa la sintesi di una molecola di DNA a doppio filamento.L’enzima integrasi determina l’integrazione del DNA virale entro il DNA della cellula

ospite (formazione del cosiddetto provirus); questo patrimonio genetico ibrido, sfruttando gli organuli della cellula ospite, dirige la sintesi di nuove proteine e

componenti virali. Le proteine virali neosintetizzate si trovano in una forma inattiva; per azione dell’enzima proteasi, vengono tagliate in modo da convertirsi nella forma

attiva. Quando i virus neoformati fuoriescono dalla cellula ospite, rimangono avviluppati da una porzione della membrana plasmatica, che costituisce il

rivestimento esterno al capside proteico, tipico di questi retrovirus. La cellula ospite, ormai degradata, muore.

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La progressione dell’AIDS non è graduale, ma

avviene secondo fasi di durata differente. Il decorso può essere

monitorato mediante il rilievo della viremia e attraverso la conta dei linfociti T-CD4+, valori entrambi ricavabili da

analisi del sangue.

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La viremia è un parametro che indica il numero di copie di RNA presenti in un millilitro (ml) di sangue; poiché ciascun HIV possiede due molecole di questo

acido nucleico, il numero di virus presenti corrisponde alla metà del valore di

viremia. La conta dei linfociti rileva il numero di linfociti T-CD4+ in un microlitro

(µl) di sangue e permette di stimare quanto le difese immunitarie del paziente

siano effettivamente compromesse.

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Entro 1-3 settimane dall'infezione, compaiono sintomi aspecifici, che perdurano per circa 2-3 mesi e sono simili a quelli di un'influenza o di una mononucleosi

(febbre, cefalea, eruzioni cutanee, sudorazione notturna, dolore ai linfonodi posti ai lati del collo e malessere) e pertanto difficilmente ascrivibili ad HIV. In questa

fase, denominata 'sindrome retrovirale acuta', l'HIV si riproduce in grande quantità, circola nel sangue e si infiltra negli organi del sistema linfatico, in

particolare linfonodi, tonsille, milza, e nel tessuto linfoide localizzato a livello dell’apparato digerente. In queste regioni, infatti, è presente la quasi totalità dei linfociti bersaglio del virus, che solo in piccola parte circolano liberamente nel

sangue.Nella fase acuta la viremia aumenta drasticamente, passando da 0 a circa 1

milione di copie di RNA/ml di sangue; si assiste invece a una notevole diminuzione del numero di linfociti T-CD4+, che da 1000-1100/µl di sangue

scendono a 450-500.

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Dopo circa 4-6 mesi dall’infezione, la risposta immunitaria dell’organismo contro l’agente patogeno determina il raggiungimento di un equilibrio (set point) tra i virus

di nuova formazione e quelli che vengono distrutti. I sintomi scompaiono e l’individuo infetto, detto sieropositivo, entra in una 'fase asintomatica', che in media

si protrae per 6-7 anni.Nella fase asintomatica la diminuzione dei linfociti T-CD4+ sembra inizialmente

arrestarsi; per 1-2 anni il numero può risalire fino a 600-650 linfociti/µl di sangue. Negli anni successivi, si verifica nuovamente un lento decremento che determina,

dopo circa 6-7 anni dall’infezione, una discesa fino al valore di 300 linfociti T-CD4+/µl di sangue. La viremia, dopo il picco raggiunto nella fase acuta, scende fino a 3500 copie di RNA/ml di sangue; dopo circa 1-2 anni dall’infezione, ricomincia a salire gradualmente e, dopo 6-7 anni dall’infezione, assume il valore di circa 4500.

La fase asintomatica rappresenta lo stadio della malattia più pericoloso da un punto di vista epidemiologico, perché per un tempo piuttosto lungo permette il

mantenimento di condizioni di salute generalmente buone e, quindi, non induce nel sieropositivo la consapevolezza della sua condizione e l’attuazione di

comportamenti volti a evitare il contagio di altri individui (ad esempio, l’uso del preservativo durante il rapporto sessuale). Per questo motivo, è consigliabile che

tutti gli individui che hanno comportamenti “a rischio”, ad esempio frequenti rapporti con partner diversi, o che abbiano comunque il sospetto di avere avuto uno scambio

di sangue con un sieropositivo, si sottopongano a test diagnostici, come il test ELISA (vedi oltre), per accertare se vi è stata trasmissione del virus.

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Dopo circa 4-6 mesi dall’infezione, la risposta immunitaria dell’organismo contro l’agente patogeno determina il raggiungimento di un equilibrio (set point) tra i virus di nuova

formazione e quelli che vengono distrutti. I sintomi scompaiono e l’individuo infetto, detto sieropositivo, entra in una 'fase asintomatica', che in media si protrae per 6-7 anni.

Nella fase asintomatica la diminuzione dei linfociti T-CD4+ sembra inizialmente arrestarsi; per 1-2 anni il numero può risalire fino a 600-650 linfociti/µl di sangue. Negli anni successivi,

si verifica nuovamente un lento decremento che determina, dopo circa 6-7 anni dall’infezione, una discesa fino al valore di 300 linfociti T-CD4+/µl di sangue. La viremia,

dopo il picco raggiunto nella fase acuta, scende fino a 3500 copie di RNA/ml di sangue; dopo circa 1-2 anni dall’infezione, ricomincia a salire gradualmente e, dopo 6-7 anni dall’infezione, assume il valore di circa 4500. La fase asintomatica rappresenta lo stadio della malattia più

pericoloso da un punto di vista epidemiologico, perché per un tempo piuttosto lungo permette il mantenimento di condizioni di salute generalmente buone e, quindi, non induce nel

sieropositivo la consapevolezza della sua condizione e l’attuazione di comportamenti volti a evitare il contagio di altri individui (ad esempio, l’uso del preservativo durante il rapporto

sessuale). Per questo motivo, è consigliabile che tutti gli individui che hanno comportamenti “a rischio”, ad esempio frequenti rapporti con partner diversi, o che abbiano comunque il

sospetto di avere avuto uno scambio di sangue con un sieropositivo, si sottopongano a test diagnostici, come il test ELISA (vedi oltre), per accertare se vi è stata trasmissione del virus.

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Non tutti i sieropositivi entrano nella fase sintomatica. La sindrome vera e propria, o AIDS conclamata, viene diagnosticata quando la conta dei linfociti T-CD4+ risulta inferiore a 200/µl di sangue o, anche in presenza di valori più alti, quando compare una delle malattie opportuniste dell’AIDS. La grave debilitazione delle difese immunitarie (condizione detta

immunodepressione) rende infatti il paziente facilmente soggetto ad ammalarsi; vi è perdita di peso, deperimento fisico, estrema debolezza. Quando il numero dei linfociti T-CD4+ diviene inferiore a 50, i malati entrano nella fase di AIDS

avanzata, che può durare da pochi mesi fino a 2-3 anni. Il decesso per AIDS non è dovuto direttamente all'infezione da HIV ma alle malattie opportuniste. Le patologie attualmente considerate come correlate all’AIDS sono circa 25. L'infezione più comune è la polmonite da Pneumocystis carinii, causata

da un protozoo che normalmente colonizza in modo innocuo le vie respiratorie. Anche la polmonite batterica da Streptococcus pneumoniae e da Haemophilus influenzae e la tubercolosi sono spesso associate all'AIDS. Nell'ultimo stadio,

infezioni diffuse da Mycobacterium avium possono causare febbre, perdita di peso, anemia e diarrea. Altre infezioni batteriche dell'apparato digerente (dovute a Salmonella, Campylobacter, Shigella o altri batteri) provocano spesso diarrea,

perdita di peso, anoressia e febbre.Nei pazienti con AIDS si osservano frequentemente micosi o infezioni da funghi. Il mughetto o candidosi orale (infezione

della bocca da Candida albicans) si presenta precocemente nella 'fase sintomatica' in un alto numero di pazienti. Altre micosi sono le infezioni dovute a varie specie di Cryptococcus, importante causa di meningite che colpisce il 13% dei pazienti affetti

da AIDS. Inoltre, può presentarsi l'istoplasmosi, dovuta al fungo Histoplasma capsulatum, che colpisce fino al 10% dei pazienti, provocando perdita di peso, febbre e complicazioni respiratorie o, se l'infezione raggiunge il cervello, complicanze

gravi del sistema nervoso centrale, fra cui alcune forme di demenza. Sono comuni anche infezioni virali, causate soprattutto da membri della famiglia degli Herpesvirus, tra cui quella da

Citomegalovirus (CMV), che colpisce la retina e può causare cecità, e l’infezione da virus di Epstein-Barr (EBV), che può provocare una trasformazione cancerosa delle cellule del sangue. Sono inoltre comuni le infezioni da virus Herpes simplex

(HSV) di tipo 1 e 2, che causano lesioni orali e perianali.Molti pazienti con AIDS sviluppano vari tipi di cancro, il più comune dei quali è il sarcoma di Kaposi.

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Attraverso il prelievo di un campione di sangue è possibile accertare la condizione di sieropositività in tempi relativamente rapidi rispetto al

momento dell’infezione virale.

TESTDiapositiva 16 ELISA E WESTERN-BLOT

TEST BASATO SU PCRDiapositiva 17

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Il più rapido test per verificare se un individuo è venuto a contatto con il virus HIV e il suo organismo ha sviluppato contro questo una risposta specifica, è il cosiddetto test

anti-HIV, o test ELISA (Enzyme-Linked Immunosorbant Assay). Con il semplice prelievo ed esame di un campione di sangue, è possibile attraverso questa prova verificare se nel corpo del soggetto esaminato si sono sviluppati anticorpi anti-HIV: se ciò viene

riscontrato, il test risulta positivo, e l’individuo viene definito sieropositivo. In realtà, la precisione del test ELISA non è del 100%; pertanto, per convalidare una diagnosi di sieropositività viene effettuata una seconda indagine, detta test Western blot, basata sullo stesso principio del test ELISA ma più precisa. Il risultato del test Western blot

risulta decisivo per la diagnosi. Poiché comunque il test ELISA è meno costoso, esso viene eseguito di routine come primo screening.

Il test ELISA e il Western blot non possono essere eseguiti immediatamente dopo che l’individuo è venuto a contatto con il virus; infatti, occorre solitamente un periodo di

circa tre mesi affinché il sistema immunitario produca una risposta anticorpale contro il virus. Prima di tale periodo, dunque, il soggetto risulta comunque negativo ai test

sierologici. In questa fase, per la determinazione della presenza dell'HIV possono essere utilizzati altri metodi, che rilevano direttamente la presenza di alcune componenti del virus. Se il paziente risulta negativo ai test dopo sei mesi dal momento del possibile

contatto con l’HIV, esso può con sicurezza ritenersi non contagiato.

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Una recente tecnica dell’ingegneria genetica, la reazione a catena della polimerasi (PCR), permette di esaminare direttamente il materiale

genetico contenuto all’interno dei linfociti che sono bersaglio del virus HIV, e di verificare se è avvenuto un processo di integrazione del genoma virale con quello dei linfociti. Tale indagine può essere eseguita molto

precocemente rispetto ai test ELISA e Western blot, e permette di rilevare una condizione di sieropositività anche a poche ore dal possibile contatto

con il virus.

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Vi sono attualmente diversi approcci per la terapia

dell’AIDS, nessuno dei quali risulta essere in grado di debellare definitivamente l’infezione virale, ma può comunque rallentare la

progressione dell’AIDS e rendere più bassa la carica

vitale del sieropositivo.

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Il processo di sintesi del DNA virale viene catalizzato dall’enzima trascrittasi inversa. Pertanto, una delle due grandi famiglie di farmaci

diretti contro l'HIV è quella degli inibitori di questo enzima. Tra questi vi sono la zidovudina o AZT, la ddI, la ddC e la 3TC. Questi composti

vengono inseriti dalla trascrittasi inversa nella catena in formazione del DNA, che diventa così totalmente inutilizzabile per la sintesi delle proteine

e per le possibilità di riproduzione del virus.Nonostante la loro azione sia specifica per l'enzima virale, questi composti non sono privi di effetti collaterali: rischiano di interferire con il processo di duplicazione del DNA che avviene al momento della mitosi, provocando

effetti di intossicazione, specialmente nelle cellule in rapida divisione come quelle del midollo osseo. Un altro problema legato all'uso di tali

farmaci è la comparsa di ceppi virali resistenti nell'organismo dei pazienti. Generalmente, l'impiego di questi diversi composti in modo alternato o

combinato può ritardare la comparsa dei ceppi resistenti, ridurre la tossicità e migliorare la sopravvivenza dei pazienti.

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L’enzima virale proteasi agisce tagliando le proteine virali inattive e convertendole nelle forme attive. I farmaci appartenenti alla classe degli inibitori delle proteasi

impediscono a questo enzima di svolgere la propria funzione. I principali composti

che agiscono in tal senso sono il saquinavir, il ritonavir e l'indavir. Il loro impiego può causare effetti collaterali

(diarrea, nausea, dolori addominali, calcoli renali e alterazione delle percezioni sensoriali) e disturbi come aritmie

cardiache.

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La somministrazione di AZT in associazione agli inibitori delle proteasi in varie combinazioni, a partire dalle prime settimane di

infezione, sembra determinare risultati molto incoraggianti. Tuttavia, è necessario esercitare molta cautela nella valutazione di questa terapia

che, peraltro, è estremamente costosa, comporta pesanti effetti collaterali ed esercita la sua efficacia solo nelle prime settimane di

infezione (cioè proprio quando la maggior parte degli individui infetti non è ancora conscia della propria condizione e, di conseguenza, non

è consapevole di dovere assumere farmaci).Tale intervento è detto 'precoce' perché deve iniziare

tempestivamente, specie in presenza di viremia molto elevata; 'aggressivo' perché alla zidovudina si devono associare altri preparati antivirali, come la didanosina, la zalcitabina, la mivudina, la stavudina ecc. Questo indirizzo terapeutico incontra gravi difficoltà, sia di tutela

della privacy, perché per poter fare una diagnosi precoce si dovrebbero eseguire test diagnostici non appena si sospetti una

condizione di rischio, sia di fattibilità economica, perché ci sarebbero più persone in cura e per tempi più lunghi.

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La terapia genica potrebbe essere applicata introducendo nei linfociti un gene estraneo che interferisca con le proteine

regolatrici virali (proteine fabbricate dall'HIV per regolare il funzionamento del proprio patrimonio genetico). Se fosse possibile inserire questo gene nelle cellule staminali del midollo osseo (le cellule che si dividono continuamente,

dando origine, tra le altre, a tutte le cellule mature del sistema immunitario), tutti i linfociti originatisi da queste

risulterebbero resistenti nei confronti del virus. Alcune sperimentazioni cliniche mirate a determinare l’efficacia della

terapia genica applicata all’AIDS sono già in corso.Inoltre, sono stati avviati studi per la messa a punto di un vaccino che possa esercitare un'azione sia preventiva (in

grado di proteggere le persone immunizzate in caso di contatto con il virus), sia curativa (prolungando la vita o diminuendo la distruzione del sistema immunitario delle

persone già infette). Numerosi vaccini sono attualmente in fase di sperimentazione clinica.

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Altri trattamenti cercano di bloccare i processi cellulari dell'ospite, indispensabili all'HIV per la propria duplicazione. Uno dei principali

vantaggi di questo approccio è la riduzione del rischio della comparsa di ceppi resistenti, dal momento che esso esercita una bassa pressione

selettiva nei confronti del virus; il problema della tossicità rimane invece, anche in questo caso, irrisolto. Dai risultati di alcuni studi pubblicati negli Stati Uniti nel 1999, alcune proteine enzimatiche

contenute nella saliva sembrerebbero capaci di neutralizzare l’HIV: in particolare, il lisozima e la ribonucleasi sarebbero molto efficaci nell’inibire il virus, e aprono nuove strade alla sperimentazione

farmaceutica.

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L'impiego di trattamenti farmacologici contro le infezioni associate all'AIDS si è tradotto in un reale beneficio clinico, prolungando la vita di

numerosi pazienti. Ad esempio, i farmaci utilizzati di recente nella profilassi e nella terapia della polmonite causata da Pneumocystis carinii

hanno fortemente contribuito alla diminuzione dell'incidenza di questa infezione e del gran numero di decessi che essa provocava tra i malati di AIDS. Altri esempi sono i composti antimicotici, come l'amfotericina B e il

fluconazolo, e un farmaco contro il Citomegalovirus, costituito da una miscela di ganciclovir e di altre sostanze.

Dal momento che gran parte di questi trattamenti deve essere somministrata sotto controllo medico e per un lungo periodo di tempo, nel

tentativo di ridurre i costi correlati al ricovero ospedaliero dei malati si stanno diffondendo sistemi di cura e di assistenza domiciliare (vedi

Assistenza sanitaria). I servizi sociali forniti da strutture sanitarie pubbliche e da associazioni di volontariato (come LILA e ANLAIDS)

cercano, inoltre, di fornire ai malati di AIDS un sostegno morale e materiale durante il decorso della malattia.

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I primi casi di AIDS furono osservati all'inizio degli anni Ottanta del Novecento: si trattava di decessi di maschi omosessuali, peraltro sani, vittime di infezioni che, in

precedenza, erano state osservate soprattutto in pazienti che avevano subito trapianti e, per limitare il pericolo del rigetto

dell'organo trapiantato (vedi Trapianto), erano stati sottoposti a terapie immunosoppressive, cioè alla somministrazione di

farmaci che rendono le naturali difese del corpo meno aggressive nei confronti di agenti estranei.

Nel 1983 il medico e virologo francese Luc Montagnier e altri scienziati dell’Institut Pasteur di Parigi isolarono, dal linfonodo

di un uomo a rischio di sviluppare l'AIDS, quello che sembrava essere un nuovo retrovirus umano. Poco tempo

dopo, sia il gruppo di Robert Gallo al National Cancer Institute di Bethesda, nel Maryland, sia il gruppo guidato da Jay Levy all'Università della California a San Francisco, isolarono un

retrovirus da persone infette dal virus ma non malate (denominate sieropositive) e da pazienti con AIDS conclamata

(ovvero, che manifestavano già il quadro clinico della sindrome). Tutti e tre i gruppi avevano così isolato quello che

oggi è noto come HIV.

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