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INDICE Presentazione (Andrea Canevaro) Premessa Capitolo 1 Difficoltà in matematica e nell’apprendimento della ma- tematica 1.1. Il senso della difficoltà in matematica 1.2. Specificità delle difficoltà in matematica 1.3. Difficoltà nascoste dell’apprendimento della matematica 1.4. Le difficoltà, un’analisi oggettiva generale 1.5. Difficoltà ed errori 1.6. Dare spazio alla consapevolezza 1.7. Influenze di fattori psicologici sulla difficoltà 1.8. Errori specifici Capitolo 2 Ostacoli nell’apprendimento della matematica 2.1. La teoria degli ostacoli 2.2. Ostacoli ontogenetici 2.3. Ostacoli didattici 2.4. Ostacoli epistemologici 2.5. Qualche osservazione aggiuntiva 2.6. Ostacoli ed errori 2.7. Ruolo della storia nella prassi scolastica e studente come costruttore di nuova conoscenza 2.8. Lo studente come ricercatore 11 15 19 41

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INDICE

Presentazione (Andrea Canevaro)

Premessa

Capitolo 1 Difficoltà in matematica e nell’apprendimento della ma-tematica

1.1. Il senso della difficoltà in matematica1.2. Specificità delle difficoltà in matematica1.3. Difficoltà nascoste dell’apprendimento della matematica1.4. Le difficoltà, un’analisi oggettiva generale1.5. Difficoltà ed errori1.6. Dare spazio alla consapevolezza1.7. Influenze di fattori psicologici sulla difficoltà1.8. Errori specifici

Capitolo 2Ostacoli nell’apprendimento della matematica

2.1. La teoria degli ostacoli2.2. Ostacoli ontogenetici2.3. Ostacoli didattici2.4. Ostacoli epistemologici2.5. Qualche osservazione aggiuntiva2.6. Ostacoli ed errori2.7. Ruolo della storia nella prassi scolastica e studente

come costruttore di nuova conoscenza2.8. Lo studente come ricercatore

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Capitolo 3Immagini, modelli e misconcezioni

3.1. Immagini e modelli dei concetti3.2. Significati intuitivi dei concetti3.3. Esempi di modelli intuitivi3.4. Un’interpretazione costruttivista dell’idea di mi-

sconcezione3.5. Esempi di misconcezioni3.6. Conflitti «interni» e conflitti «sociocognitivi»3.7. Misconcezioni «evitabili» e «inevitabili»3.8. Esempi di misconcezioni evitabili e inevitabili3.9. Le posizioni degli «oggetti» matematici3.10. Misconcezioni derivanti da incoerenze nei libri di

testo3.11. Il caso dell’altezza delle figure geometriche3.12. Geometria senza vincoli spaziali3.13. Ripensare criticamente le misconcezioni proprie e altrui3.14. Misconcezioni relative agli enti primitivi della geo-

metria3.15. La rilettura di una provocazione3.16. I concetti figurali3.17. Ostacoli e misconcezioni insieme

Capitolo 4Il contratto didattico

4.1. Pratiche e metapratiche rintracciabili a scuola4.2. Nascita degli studi sul contratto didattico4.3. Esempi4.4. C’è un inizio nei comportamenti contrattuali?4.5. Esempi e riflessioni sul contratto didattico4.6. Un ulteriore esempio4.7. Effetto Topaze4.8. Effetto Dienes4.9. Effetto Jourdain

Bibliografia

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Chi nasce entra nel mondo e trova un linguaggio, ovvero la «lingua materna», ma trova anche la «matematica materna»?

La lingua si impara dalla nascita, entrando in un mondo che parla. Chi nasce ascolta, percepi-sce, emette dei suoni, imita ciò che sente, e le lallazioni diventano un richiamo che chi è accanto riconosce come parola. Inizia un processo che può portare a parlare. È la «lingua materna». I pro-blemi sono rappresentati dalla differenza fra tale espressione linguistica e la lingua «ufficiale» di una comunità allargata, o possono essere rappresentati da particolari problemi, quali la sordità, l’afasia, l’autismo. Ma una grande maggioranza di persone ritiene che la lingua sia un percorso «naturale», e che l’insegnamento linguistico possa procedere da quella base sostanziale.

Per la matematica, è probabile che la stessa ampia maggioranza abbia altre convinzioni.L’idea diffusa è che la matematica sia interamente «trasmessa». Al più, vi sono convinzioni

molto radicate che alcuni bambini e alcune bambine siano portati naturalmente alla matematica («abbiano il bernoccolo della matematica»).

Queste convinzioni naturalistiche condizionano fortemente le percezioni delle difficoltà, e quindi i modi di affrontarle. È noto che i soggetti con sindrome di Down erano ritenuti «natural-mente» incapaci di far funzionare il pensiero matematico. Si diceva che ne erano privi, sostenendo che non sapevano andare oltre i numeri a una cifra, ed erano privi di pensiero astratto. Per molti, matematica e pensiero astratto erano legati da un’unica sorte.

Qualcosa dunque è cambiato. Ma crediamo che non tutte le conseguenze di questo cambiamen-to siano state «coscientizzate» da chi ha compiti educativi in ruoli sociali (familiari) e professionali (insegnanti, educatori sociali, psicologi e altre professioni «d’aiuto»).

PresentazioneAndrea Canevaro

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LA DIDATTICA E LE DIFFICOLTÀ IN MATEMATICA

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LA DIDATTICA E LE DIFFICOLTÀ IN MATEMATICA

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Il testo di Bruno D’Amore, Martha Isabel Fandiño Pinilla, Ines Marazzani e Silvia Sbaragli, affrontando il tema delle difficoltà, può aiutare a capire meglio un assunto importante: veniamo al mondo e troviamo la lingua e la matematica, e queste due cose sono più connesse di quanto si creda, unite da un processo culturale e fisiologico che ha una strutturazione storica complessa e affascinante. Tiene insieme dimensioni «micro» e «macro»: l’individuo, con le sue caratteristiche specifiche e originali, i suoi limiti sia ordinari che, in qualche caso, speciali; e il periodo ampio che chiamiamo «era». Il fascino sta nel fatto che le due dimensioni si influenzano reciprocamente e quindi non possono essere rappresentate come una dentro l’altra. Per questo parliamo di strut-turazione complessa.

Si pensi ai soggetti già citati con sindrome di Down, ma possiamo aggiungere gli individui con lesione cerebrale: non molti anni sono passati dalla convinzione diffusa (presente ancora, e in indi-vidui la cui preparazione culturale rende quasi incredibile la permanenza di tale convinzione) che la lesione, colpendo il linguaggio, renda impossibile il pensiero. Le tecnologie, e non solo, hanno reso possibile scoprire l’inattendibilità di tale convinzione. Crediamo che queste dimensioni «micro» influenzino la dimensione «macro» in cui sembra che dobbiamo solo essere immersi.

Chi cresce deve compiere esplorazioni in molti modi, non solo con la propria esperienza di-retta, ma attraverso processi deduttivi e induttivi, composizioni di dati osservati o ipotizzati; deve continuamente adattare ciò che ha ordinato nella propria memoria. È un processo di crescita mai uniforme, mai identico. Comincia dall’inizio della vita, e la scuola ha un grande compito: far passare un processo naturalistico individuale in una strutturazione allargata e codificata capace di immettere in una potenzialità ampia e in continuo divenire.

Questo passaggio è delicato. Possono nascere difficoltà, alle quali si possono aggiungere le dif-ficoltà nel riconoscimento delle difficoltà. Sembra un paradosso, e in parte lo è.

Le difficoltà possono essere affrontate a partire da alcune «credenze»:

• ritenere che le attitudini (l’intelligenza) siano dati innati, e che la proposta didattica possa spostare di poco, o niente, gli esiti della dotazione;

• ritenere che vi siano processi di apprendimento nel segno della continuità (dalla «lingua materna» all’educazione linguistica), e altri nel segno della più netta discontinuità (la matematica);

• ritenere che chi ha difficoltà previste da una diagnosi di tipo sanitario debba avere una strada a cui sono stati tolti gli ostacoli (un percorso facilitato), in una previsione di apprendimenti meno impegnativi;

• ritenere che chi dimostra di avere difficoltà accompagnate da una diagnosi di tipo sanitario, debba esercitarsi e allenare la propria volontà, ripetendo esercizi secondo un modello ritenuto normale.

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PRESENTAZIONE

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PRESENTAZIONE

A queste «credenze» possiamo contrapporre altrettante ipotesi di lavoro:

• i processi di apprendimento vivono un intreccio di aspetti informali e formali che riguardano tutti i campi del sapere e le diverse discipline;

• la continuità e la discontinuità sono sempre necessarie, e devono giocare in un intreccio costruttivo dinamico e variato;

• la resistenza all’apprendimento è parte integrante dell’apprendimento, e toglierla di mezzo per facilitare un soggetto con particolari difficoltà può essere un modo per accrescerne le difficoltà (si pensi a chi ha problemi di dislessia o discalculia, e viene incitato a esercitarsi. Un sadismo certamente non voluto e frutto di ignoranza del problema);

• tutti i soggetti possono essere aiutati a cercare la propria strategia di apprendimento. La pluralità di strategie può accompagnare una prospettiva unitaria.

La riflessione che Bruno D’Amore, Martha Isabel Fandiño Pinilla, Ines Marazzani e Silvia Sbaragli compiono sullo statuto dell’errore interessa una concezione dell’impegno didattico che cerca di liberarsi dell’innatismo (la causa dell’errore è interna, stabile e incontrollabile: «L’allievo ha commesso un errore perché non è intelligente») per una dimensione costruttivista (la causa è interna, variabile e controllabile: «L’allievo deve ancora lavorare per superare il suo errore»).

E questo riporta ai mediatori e alla logica del domino che dovrebbe connetterli.Possiamo utilizzare l’immagine di chi vuole attraversare un corso d’acqua che separa due sponde

e non vuole bagnarsi: mette i piedi sulle pietre che affiorano, forse butta una pietra per costruirsi un punto di appoggio (un mediatore) dove mancherebbe… E i mediatori si collegano uno all’altro. Se un mediatore non invitasse a quello successivo, non sarebbe più tale. Potrebbe trasformarsi in feticcio, in prigione, in sosta forzata, in illusione di paradiso raggiunto…

Chi legge troverà un testo impegnativo e affascinante. Il compito di chi introduce, oltre a testimoniare una condivisione che in questo caso è anche amicizia, può essere quello di dare uno sfondo complementare: non specifico (non da matematico), ma da studioso curioso, che frequenta da anni le compagnie (non cattive) di chi vive qualche difficoltà.

Chi legge si conforti: gli errori possono essere fecondi. E le difficoltà possono far capire me-glio.

È meglio pensare un mondo imperfetto e incompleto e sentirsi utile per contribuire a miglio-rarlo.

Buona lettura!

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Sebbene gli studi e le ricerche teoriche ed empiriche sul complesso processo di insegnamento-apprendimento della matematica siano le più consolidate e le più sviluppate, rispetto alle analoghe di altre discipline, è sotto gli occhi di tutti il fatto che, a fronte del sempre maggior impegno di ricercatori ed insegnanti, prosegue un fallimento strutturale nell’apprendimento da parte degli studenti.

Nonostante le spinte innovative e le sempre maggiori conoscenze che la ricerca produce, i con-vegni, le riviste, i testi che divulgano ed illustrano i risultati delle ricerche, la matematica continua ad occupare un posto di rincalzo nelle simpatie di adulti e giovani, a produrre risultati negativi, a costituire una delle discipline di minor interesse. I giovani che si iscrivono alle facoltà scientifiche sono in netto calo mondiale (anche se le iscrizioni ai corsi di laurea in matematica in Italia sono in leggera ripresa).

Nel processo di insegnamento-apprendimento della matematica c’è qualche cosa che non va; ci sono cioè troppe difficoltà nell’apprendimento della matematica.

Di che cosa si tratta?A fronte di molti studi condotti soprattutto da psicologi su cause funzionali, organiche, senso-

riali ecc., cui si fa solo un rapido cenno in questo libro, analoghi lavori di analisi, studio, ricerca, sperimentazione sulle difficoltà nell’apprendimento della matematica, dal punto di vista della ricerca in didattica della matematica, non sono moltissime.

Certo, tra i più recenti, per limitarci al panorama italiano, spicca, per complessità e profondità, quello di Rosetta Zan (2007). Ma noi riteniamo che una pluralità di interventi e di studi, anche tra loro diversi, seppure ad intersezione non vuota, possano aiutare il lettore ad orientarsi in que-

Premessa

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LA DIDATTICA E LE DIFFICOLTÀ IN MATEMATICA

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sta letteratura. Più sono gli stimoli, più è pensabile che vi sia un impulso ad analizzare le proprie situazioni d’aula, a scavare nei motivi, nelle cause di queste difficoltà, non solo a scopo analitico, bensì anche per poter intervenire con consapevolezza di causa e dunque con specificità.

Così, abbiamo deciso di raccogliere le nostre idee e le nostre proposte di riflessione su questo argomento e di proporre questa analisi dividendola in quattro momenti che sono poi i capitoli del libro:

– il primo, di carattere espositivo generale;– il secondo, proponendo in dettaglio la teoria degli ostacoli;– il terzo, analizzando l’idea di misconcezione;– il quarto, verificando come il contratto didattico costituisca specifica difficoltà;– una bibliografia finale piuttosto estesa aiuta inoltre il lettore desideroso di approfondire l’argo-

mento.

Si tratta di una piccola goccia nel mare delle difficoltà, ce ne rendiamo ben conto, ma è un aiuto a coloro che, disarmati di fronte a molteplici ripetuti errori sempre uguali, non sanno più che fare. Forse uno stimolo critico, forse una raccolta di esempi, forse quel minimo di teoria che eleva l’esempio a idea più generale, potranno essere d’aiuto al lettore-insegnante.

La nostra ferma convinzione è che un insegnante debba essere messo in grado di riflettere sulle difficoltà, sugli errori (che ne sono le evidenziazioni esterne), sulla ricerca della cause, sullo studio degli interventi di rimedio; non si può formare un insegnante di matematica solo in matematica ed in didattica, bisogna anche già inserirlo nelle specifiche difficoltà delle situazioni d’aula più realistiche e meno demagogiche.

La nostra speranza è che questo libro aiuti quell’insegnante che avrà la volontà di leggerlo, meditarlo, riconoscervi situazioni già vissute, usarlo.

Gli autori

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PREMESSA

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PREMESSA

Note al testo

1. La terminologia di didattica della matematica usata in questo libro non viene quasi mai spiegata, perché si ritiene che essa sia oramai abbondantemente diffusa tra gli insegnanti di matematica. In generale, comunque, si fa riferimento a D’Amore (1999a).

2. Questo libro, nel tempo, è stato pensato, discusso e realizzato all’unisono dai quattro autori, tutti membri del NRD di Bologna. Tuttavia ciascuno dei quattro autori ha profuso più intensamente la propria opera singola e specifica nel tema-capitolo che più degli altri rappresenta il suo campo di studio e di ricerca attuali. Cosicché, si può dire che: Martha Isabel Fandiño Pinilla si può considerare autrice del Capitolo 1; Bruno D’Amore del Capitolo 2; Silvia Sbaragli del Capitolo 3; Ines Marazzani del Capitolo 4.

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1.1. Il senso della difficoltà in matematica

Alla voce «difficoltà», un comune ma assai diffuso vocabolario della lingua italiana (quello di Nicola Zingarelli, edito da Zanichelli in Bologna), riporta: «Qualità di ciò che è difficile. Com-plicazione disagio ostacolo. Impedimento». La stessa identica voce si trova sulla Enciclopedia Zanichelli.

Le definizioni hanno in comune una sorta di incoerenza tra un aspetto oggettivo (disagio, ostacolo) della difficoltà ed uno più soggettivo («difficile» per chi?, rispetto a che cosa?). Noi cre-diamo che questa incoerenza regni sovrana sia nella visione popolare delle difficoltà, sia in quella più prettamente scolastica. Una materia è definita «difficile» sulla base della generalità statistica dei risultati ottenuti, ma non ci sono caratterizzazioni oggettive di ciò (Fandiño Pinilla, 2002, lo dimostra ampiamente nel caso della matematica).

Ora, limitandoci alla difficoltà in matematica, essa può assumere almeno tre «sensi» diversi, per quanto ci riguarda:

• la difficoltà in matematica dell’allievo,• la difficoltà specifica di alcuni argomenti della matematica,• la difficoltà dell’insegnante nel gestire una situazione matematica,

CAPITOLO 1

Difficoltà in matematica e nell’apprendimento della matematica

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LA DIDATTICA E LE DIFFICOLTÀ IN MATEMATICA

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ricalcando, più o meno nella stessa direzione proposta da Zan (2007), una struttura a triangolo che richiama alla mente il cosiddetto «triangolo della didattica»: allievo, insegnante, sapere (D’Amore, 1999a; per una analisi fine di questo schema, si veda: D’Amore e Fandiño Pinilla, 2002).

1.2. Specificità delle difficoltà in matematica

Le difficoltà in matematica possono essere analizzate anche in modo più specifico, seguendo una indicazione che distingue varie componenti nell’apprendimento della matematica (Fandiño Pinilla, 2005b). Esso può infatti constare di apprendimento:

• concettuale (noetica);• algoritmico (es. saper eseguire operazioni o sequenze composte di atti elementari);• strategico (es. risoluzione di problemi);• comunicativo (es. argomentazione, validazione, dimostrazione ecc.);• della gestione di diversi registri semiotici.

Che le difficoltà in questi apprendimenti siano specifiche è sotto gli occhi di tutti: ci sono infatti studenti che hanno costruito concetti, ma non sanno eseguire algoritmi; studenti che eseguono al-goritmi, ma non sanno che concetti ci sono alla base di tali esecuzioni; studenti che hanno costruito concetti e sanno eseguire algoritmi, ma non sanno risolvere problemi; studenti che hanno costruito concetti, sanno eseguire algoritmi, sanno risolvere i problemi, ma non sanno comunicare quel che han-no personalmente costruito… E così via: è piuttosto facile fare esempi per ogni livello scolastico.

Dunque, lo studio delle difficoltà può essere specifico delle singole componenti dell’apprendi-mento della matematica. Tuttavia, alcune si intrecciano tra loro.

allievo

insegnante sapere

appr.semiotico

appr.comunicativo

appr.algoritmico

appr.concettuale

appr.strategico

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DIFFICOLTÀ IN MATEMATICA E NELL’APPRENDIMENTO DELLA MATEMATICA

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DIFFICOLTÀ IN MATEMATICA E NELL’APPRENDIMENTO DELLA MATEMATICA

Relativamente pochi studi specifici sono stati dedicati alla difficoltà di gestire le diverse rappre-sentazioni semiotiche che lo studente incontra fin dal primo giorno di scuola (si veda: D’Amore, 1998, 1999b, 2002a, b, per esempio). In uno di questi lavori (2002b) si ipotizza che una delle cause più diffuse del fallimento nell’apprendimento della matematica sia proprio dovuto alla incapacità di gestire contemporaneamente diversi registri semiotici e questo fatto si conferma con numerosi esempi tratti dalla vita d’aula.

Proprio le specificità in questo campo furono prese (a volte inconsapevolmente) a prototipi da alcuni studiosi del recente passato anche per distinzioni notevoli.

Per esempio, la differenza tra il «sapere» (concettuale) ed il «saper fare» (un non ben definito ibrido a metà strada tra l’algoritmico e lo strategico) venne preso come specifico della dicotomia: apprendimento di conoscenze-apprendimento di competenze. Oggi questa visione così riduttiva e banale è stata abbondantemente superata (D’Amore, Godino, Arrigo e Fandiño Pinilla, 2003).

Tornando alla terna cui si è fatto cenno nel paragrafo 1.1., sulla difficoltà specifica di alcuni argomenti della matematica c’è poco da dire; è sotto gli occhi di tutti.

Per esempio, costruire la conoscenza dell’oggetto matematico «proprietà commutativa dell’addi-zione in N» ha sempre un esito positivo fin dai primi livelli di scolarità; mentre costruire la conoscen-za dell’oggetto matematico «frazione» ha quasi sempre un esito disastroso (e non solo ai primi livelli di scolarità). Ciò significa che vi sono ostacoli epistemologici all’apprendimento (di alcuni temi) della matematica; a questo argomento notevole dedicheremo l’intero Capitolo 2 di questo libro.

Allo stesso modo, che esistano oggettive difficoltà dell’allievo in matematica è pure sotto gli occhi di tutti; alcune di queste hanno origini sensoriali o fisiche o neurologiche oggettive e riscontrabili, di cui ci occuperemo brevemente nel paragrafo 1.4.; altre sono più subdole e, a nostro avviso, strettamente legate alle difficoltà dell’insegnante nel gestire una situazione matematica, in aula. Ciò perché alcune difficoltà sono nascoste tra le pieghe della pragmatica della comunicazione (o, più in generale, della interrelazione) umana. A queste dovremo dedicare alcuni paragrafi di questo Capitolo 1 e poi, su versanti più specifici, i Capitoli 3 e 4.

Ma vi sono difficoltà più difficili da riconoscere e da accertare, e dunque alle quali è più com-plesso porre rimedio.

1.3. Difficoltà nascoste dell’apprendimento della matematica

Alle difficoltà più «subdole» dell’apprendimento della matematica hanno dedicato studi e ri-cerche alcuni tra i più notevoli studiosi del settore.

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LA DIDATTICA E LE DIFFICOLTÀ IN MATEMATICA

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Tanto per far capire di che si tratta, ci limiteremo qui a due esempi.Primo esempio. Una delle più nefaste difficoltà è quella rilevata da Brousseau e che consiste nel

fatto che l’insegnante convinca sé stesso e gli allievi che quel che stanno facendo in aula è buona matematica anche quando non lo è affatto. Al passaggio ad altro livello scolastico o alla prima dif-ficoltà o al cambio di insegnante, questa situazione rivela fallimenti che a volte sono insuperabili. Per spiegare di che cosa si tratta, riportiamo un lungo brano tratto da D’Amore (2007a):

L’insegnante propone ai suoi allievi un problema che egli ritiene essere analogo ad un problema che aveva loro proposto precedentemente, ma nel quale essi avevano fallito. Egli spera che essi riconosce-ranno la similitudine e che utilizzeranno la correzione e le spiegazioni che egli ha dato per riprodurre lo stesso metodo di risoluzione, in modo da affrontare con successo la nuova situazione. Egli raccomanda dunque fortemente ai suoi allievi di cercare e di utilizzare questa analogia. Questa procedura riesce, cioè ha successo agli occhi dell’insegnante. Ma essa costituisce in realtà una frode epistemologica. L’allievo produce una risposta esatta, ma non perché egli abbia compreso la sua necessità matematica o logica a partire dall’enunciato, non perché egli abbia «compreso e risolto il problema», non perché abbia appreso un oggetto matematico, ma semplicemente perché ha stabilito una somiglianza con un altro esercizio; egli non ha fatto altro che riprodurre una soluzione già fatta da altri per lui. Quel che è peggio, egli è consapevole che questa era la richiesta da parte dell’insegnante. Crederà d’aver compreso la questione matematica in gioco, mentre non ha fatto altro che interpretare un’intenzione didattica espressa esplicitamente dall’insegnante e fornire la risposta attesa.

Questo «abuso dell’analogia» che Guy Brousseau ha messo in evidenza fin dagli anni ’70, ma sul quale si basano ancora oggi molte azioni didattiche in aula, è una delle forme più correnti di quello che lui stesso definì «effetto Jourdain», uno degli effetti del contratto didattico [al quale dedicheremo l’intero Capitolo 4]. L’insegnante ottiene la risposta attesa con mezzi che non hanno alcun valore e fa credere all’allievo (alla famiglia, alla istituzione) di aver compiuto un’attività matematica che era il traguardo da raggiungere.

L’attività dell’allievo deve rispondere dunque a due costrizioni incompatibili:

• quella determinata dalle condizioni a-didattiche che determinano una risposta originale e l’orga-nizzazione di conoscenze specifiche;

• quella determinata dalle condizioni didattiche che hanno come scopo di far produrre la risposta attesa, indipendentemente dalla sua modalità di produzione.

Questo tipo di attività produce all’apparenza situazioni di successo, mentre prepara invece la strada a fallimenti successivi, a clamorose difficoltà che sembrano poi inspiegabili: «Ma come, l’anno scorso andavo così bene in matematica e quest’anno…».

Secondo esempio. Alla proposta in aula di eseguire la moltiplicazione tra binomi (x+1)(x-1), l’al-lievo A risponde x2-1; il professore approva; alla proposta (x+2)(x-2), A risponde x2-2; il professore

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2.1. La teoria degli ostacoli

Una vera e propria teoria degli ostacoli che si frappongono all’apprendimento della matematica fu proposta una prima volta da Guy Brousseau nel 1976 (Brous-seau, 1976-1983a)1 e sistemata in modo definitivo negli anni successivi (Perrin-Glorian, 1994, pp. 112-115 e segg.).

Daremo una prima panoramica iniziale; dopo di che faremo alcuni commenti e suggeriremo qualche approfondimento.

L’apprendimento, in quanto adattamento all’ambiente e ingresso nel mondo della comunicazione sociale, comporta di necessità rotture cognitive, assimilazione ed accomodamento di immagini e di concetti, formazione di modelli, modifica di modelli intuitivi, accettazione di concezioni, modifiche di linguaggi, modifica di sistemi cognitivi, inserimento di fatti nuovi in script abituali, adattamento di frame consueti, iniziazione a registri semiotici opportuni e dominio di essi, nonché delle varie trasformazioni semiotiche relative ecc. Nello stesso processo di insegnamento-apprendimento, da una parte è bene che si formino idee transitorie, ma dall’altra bisogna fare i conti con il fatto che tali idee resisteranno (tenteranno di resistere) poi al tentativo di superarle. Le rotture sono necessarie. Ma vi sono allora dei fenomeni evidenti di resistenza all’apprendimento, che occorre esaminare, gli ostacoli.

CAPITOLO 2

Ostacoli all’apprendimento della matematica

Fig. 2.1 Guy Brousseau, medaglia Felix Klein 2003.

1 Come vedremo meglio più avanti, l’ispirazione filosofica di questa idea si può certo far risalire a Bachelard (1938). Può essere utile la lettura di Ferreri e Spagnolo (1994).

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LA DIDATTICA E LE DIFFICOLTÀ IN MATEMATICA

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LA DIDATTICA E LE DIFFICOLTÀ IN MATEMATICA

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Si usa dire in che un ostacolo è un’idea che, al momento della formazione di un concetto, è stata efficace per affrontare dei problemi precedenti, ma che si rivela fallimentare quando si tenta di applicarla ad un problema nuovo. Visto il successo ottenuto (anzi: a maggior ragione a causa di questo), si tende a conservare l’idea già acquisita e comprovata e, nonostante il fallimento, si cerca di salvarla; ma questo fatto finisce con l’essere una barriera verso successivi apprendimenti.

Tuttavia questa «definizione», se ben si adatta ad alcune tipologie di ostacoli, non calza a pennello ad altri; molto più semplicemente, allora, si potrebbe dire che ostacolo è sinonimo di qualche cosa che si frappone all’apprendimento trasmissivo insegnante-allievo atteso, qualunque ne sia la natura.

Prima di procedere, un esempio.Nell’insieme N dei numeri naturali (0, 1, 2, 3, 4, 5, …), ogni elemento generico n ha un ben

determinato successivo n+1; questo concetto viene conquistato in maniera implicita e naturale, senza bisogno di insegnamenti espliciti, fin dalla più tenera età; è implicito nella conta dei numeri naturali che i bambini costruiscono in modo quasi automatico fra i 2 e i 4 anni. Ma l’oggetto matematico «successivo di un numero dato» viene reso esplicito e reso oggetto di apprendimento nella scuola primaria, attorno ai 6 anni di età, e facilmente costruito. Esso si forma, diventa co-noscenza corretta e spendibile in aula; ma assume spesso la forma seguente: ogni numero (di non importa qual insieme numerico) ha un successivo. Quando si giunge a Q (insieme dei razionali), il che capita più o meno in terza primaria quando si incontrano le prime frazioni o i primi numeri scritti nella forma con la virgola, l’idea di successivo persiste, è una conoscenza precedente che ha avuto successo, ma qui invece dovrebbe perdere di significato. Infatti: non esiste il successivo di 3 5

e non è certo 4 5

come si sente dire o come si legge perfino su certi libri di testo, perché tra 3 5

e 4 5

vi sono altre infinite frazioni, per esempio 35 50

. Così: non esiste il successivo di 1,4 e non è

certo 1,5 come si sente dire o come si legge perfino su certi libri di testo, perché tra 1,4 e 1,5 ci sono altri infiniti numeri, per esempio 1,42.

Nella necessità didattica di superare tali ostacoli, si dovrebbero studiare occasioni didattiche strutturate appositamente per fornire agli allievi prove della necessità di modificare le loro conce-zioni.

Come abbiamo già detto, questa idea di Brousseau ha visto la luce attorno alla metà degli anni ’70; egli fornisce (in quei primi lavori di ricerca ed in successivi) alcune caratteristiche degli ostacoli:

• bisogna sempre tener presente che, in generale, un ostacolo non è una mancanza di conoscenza, ma una conoscenza;

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OSTACOLI ALL’APPRENDIMENTO DELLA MATEMATICA

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OSTACOLI ALL’APPRENDIMENTO DELLA MATEMATICA

• l’allievo usa questa conoscenza per dare risposte adatte in un contesto noto, già incontrato;• se l’allievo tenta di usare questa conoscenza fuori dal contesto noto, già incontrato, fallisce, ge-

nerando risposte scorrette; ci si accorge allora che si necessita di punti di vista diversi;• l’ostacolo produce contraddizioni, ma lo studente resiste a tali contraddizioni; sembra allora ne-

cessitare di una conoscenza più generale, maggiore, più approfondita, che generalizzi la situazione nota e risolta, e che comprenda la nuova nella quale si è fallito; bisogna che questo punto venga reso esplicito e che lo studente se ne renda conto;

• anche una volta superato, in modo sporadico l’ostacolo riappare lungo il corso del percorso co-gnitivo dell’allievo.

Come abbiamo già detto, però, questa caratterizzazione degli ostacoli non sempre si adatta a qualsiasi loro tipologia, quindi bisogna guardarla ed accettarla in modo critico.

Si usa distinguere in didattica della matematica tre tipi di ostacoli, che brevemente commen-teremo:

• di natura ontogenetica,• di natura didattica,• di natura epistemologica.

2.2. Ostacoli ontogenetici

Ogni soggetto che apprende sviluppa capacità e conoscenze adatte alla sua età mentale (che può essere diversa dall’età cronologica), dunque adatte a mezzi e scopi di quella età: rispetto alla costruzione di certi concetti, cioè all’appropriazione di certi oggetti matematici, queste capacità e co-noscenze possono essere insufficienti e possono costituire quindi ostacoli di natura ontogenetica.

Per esempio, l’allievo potrebbe avere limitazioni neurofisiologiche anche solo dovute alla sua età cronologica. In realtà, si potrebbero categorizzare meglio gli ostacoli, con una ripartizione più fine.

Ostacoli genetici sono quelli legati al corredo cromosomico di un individuo, quello che fornisce a ciascuno vari comportamenti innati; questi comportamenti possono essere causa di ostacoli, a volte anche insuperabili; gli esempi sono numerosissimi e comprendono funzioni primarie, come gli istinti (per esempio l’istinto di sopravvivenza) e funzioni superiori, come la predisposizione alla comprensione ed all’uso della lingua materna; o problemi legati a deficit sensoriali; o altro.

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Ostacoli ontogenetici propriamente detti sono più legati allo sviluppo dell’intelligenza, dei sensi e dei sistemi percettivi. Messe a parte le patologie, che qui non discutiamo, gli ostacoli in questo campo sono legati all’evoluzione individuale; se per esempio l’ostacolo è legato alla maturazione psichica individuale, allora tale ostacolo verrà rimosso dal superamento di quella fase, anche solo per motivi cronologici. Tale tipo di ostacoli può essere anche di durata limitata nel tempo.

In questo tipo di ostacoli, la ricerca in didattica della matematica può fare poco; altri sono i settori di studio che si sono dedicati a questa vasta problematica; noi qui la trascuriamo per man-canza di specificità.

2.3 Ostacoli didattici

Ogni docente sceglie un progetto, un curricolo, una metodologia, interpreta in modo personale la trasposizione didattica, secondo le sue convinzioni sia scientifiche sia didattiche; egli crede in quella scelta e la propone alla classe perché la pensa efficace; ma quel che è efficace effettivamente per qualche studente, non è detto che lo sia per altri. Per questi altri, la scelta di quel progetto si rivela un ostacolo didattico.

Sapere accademico TRASPOSIZIONE DIDATTICA

sapere da insegnare INGEGNERIA DIDATTICA

sapere insegnato

La scelta del contenuto rientra nella trasposizione didattica, la scelta della metodologia rientra nell’ingegneria. Sia l’una che l’altra, sono scelte compiute dal docente, in base alle proprie con-vinzioni. Sia l’una che l’altra possono non essere efficaci per tutti gli studenti e rivelarsi dunque fallimentari per alcuni.

Per esempio, per motivi legati al fatto che la scuola dell’obbligo finiva piuttosto presto, un po’ in tutto il mondo si è deciso, molti anni fa, di insegnare i numeri razionali, nella loro forma di scrittura con la virgola, fin dalla scuola primaria, ed in un momento in cui il bambino sta ancora assimilando (e con grande sforzo) idee relative ai numeri naturali. Ciò comporta che, nella con-cezione del bambino, non ci sia una vera e propria possibilità di assimilare con successo i numeri

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OSTACOLI ALL’APPRENDIMENTO DELLA MATEMATICA

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espressi nella forma decimale; egli finisce con l’accomodarli insieme ai naturali in un unico modello generale di numero. Grazie alla ricerca, sappiamo oggi che, per i bambini della primaria, i numeri decimali sono dei «naturali con la virgola», come ha dimostrato lo stesso Brousseau (1983b). Oggi si sa che questa concezione è assai radicata e persiste talvolta fino all’università; essa costituisce un ostacolo didattico piuttosto diffuso alla comprensione dei numeri reali.

Nello stesso senso, i numeri interi (cosiddetti relativi, cioè dotati di segno) sono interpretati né più né meno che come «numeri naturali relativi», cioè numeri naturali dotati di segni; uno studio del campo concettuale dei cosiddetti numeri naturali relativi si trova in Gonzáles Marí (1995).

Un altro esempio: l’attività di misura dei segmenti e le usuali considerazioni a questo proposito sono state evidenziate come ostacoli didattici alla comprensione dell’equipotenza di segmenti con-siderati come insiemi di punti; così pure la scelta del docente di scuola primaria di far diventare modello (stabile) l’immagine (instabile) del segmento come filo di perle (i punti), si rivela ostacolo didattico al momento dell’introduzione della densità in Q e ancora più (quasi insormontabile) della continuità in R (Arrigo e D’Amore, 1999, 2002).

2.4. Ostacoli epistemologici

Ogni argomento a carattere matematico ha un suo proprio statuto epistemologico che dipen-de dalla storia della sua creazione da parte di un individuo, dalla sua evoluzione all’interno della comunità matematica, dalla sua accettazione critica nell’àmbito della matematica, dalle riserve che gli sono proprie, dal linguaggio in cui è espresso o che richiede per potersi esprimere.

Ciò comporta che vi siano oggetti della matematica la cui natura è tale da costituire ostacolo non solo nell’apprendimento ma anche, e prima ancora, nella sua accettazione nella comunità scientifica.

Questo fatto è interessante perché permette di conoscere a priori quali dei concetti matematici che si desiderano far costruire ai propri allievi nel corso di un percorso didattico costituiranno ostacoli epistemologici all’apprendimento.

Detto in modo più esplicito: quando nella storia dell’evoluzione di un concetto si individua una non continuità, una frattura, cambi radicali di concezione, allora si suppone che quel concetto abbia al suo interno ostacoli di carattere epistemologico sia ad essere concepito, sia ad essere accettato dalla comunità dei matematici, sia ad essere appreso. Quest’ultimo punto si manifesta, per esempio, in errori ricorrenti e tipici di vari studenti, in diverse classi, stabili negli anni.

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3.1. Immagini e modelli dei concetti

Le immagini mentali e i modelli sono argomenti legati alla tematica della costruzione dei concetti e alle difficoltà che gli allievi incontrano per raggiungere questo obiettivo.

L’immagine mentale è il risultato (figurale o proposizionale) prodotto da una sollecitazione in-terna o esterna. L’immagine mentale è condizionata da influenze culturali, stili personali, in poche parole è un prodotto tipico dell’individuo, ma con costanti e connotazioni comuni tra individui diversi. Essa può essere elaborata più o meno coscientemente (anche questa capacità di elaborazione dipende però dall’individuo), tuttavia l’immagine mentale è interna ed almeno in prima istanza involontaria. L’insieme delle immagini mentali elaborate (più o meno coscientemente), tutte relative ad un certo concetto, costituisce il modello mentale (interno) del concetto stesso.

Ossia, lo studente si costruisce un’immagine di un concetto C; egli la crede stabile, definitiva. Ma ad un certo punto della sua storia cognitiva, riceve informazioni di C che non sono contemplate dall’immagine che aveva; egli deve allora adeguare la vecchia immagine ad una nuova, più ampia, che non solo conservi le precedenti informazioni, ma che accolga anche le nuove. La nuova imma-gine è una conquista culturale, una nuova costruzione più potente, più «vicina» al concetto C.

Si crea così un conflitto tra la precedente immagine, che lo studente credeva definitiva, relati-vamente a quel concetto, e la nuova; ciò accade specialmente quando la nuova immagine amplia i limiti di applicabilità del concetto, o ne dà una versione più comprensiva. Dunque, il conflitto cognitivo è un conflitto «interno» causato dalla non congruenza tra due immagini, o tra un’imma-gine ed un concetto.

CAPITOLO 3

Immagini, modelli e misconcezioni

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LA DIDATTICA E LE DIFFICOLTÀ IN MATEMATICA

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Tale situazione può ripetersi più volte durante la «storia scolastica» di un allievo. Molti dei concetti della matematica sono raggiunti grazie a passaggi, nel corso degli anni, da un’immagine ad un’altra più potente e si può immaginare questa successione di immagini come una specie di scalata che si «avvicina» al concetto C.

Durante questa successione di immagini, c’è un momento in cui l’immagine I cui si è pervenuti «resiste» a sollecitazioni diverse, si dimostra abbastanza «forte» da includere tutte le argomentazioni e informazioni nuove rispetto al concetto C che rappresenta. Dunque, le nuove sollecitazioni, invece di costringere a distruggere un’immagine per costruirne una nuova, finiscono con il confermare la bontà del fatto che I sia l’immagine giusta, corretta, definitiva di C. Una immagine di questo tipo, si può chiamare modello M del concetto C. Dunque il modello di un concetto è, tra le immagini, la definitiva, quella che racchiude il massimo delle informazioni e che si dimostra stabile rispetto ad un buon numero di ulteriori sollecitazioni.

«Farsi un modello di un concetto», dunque, significa rielaborare successivamente immagini deboli e instabili per giungere ad una di esse definitiva, forte e stabile.

Si possono verificare due casi:

• il modello si forma al momento giusto, nel senso che si tratta davvero del modello atteso, auspicato in quel momento, proprio quello previsto per quel concetto dal Sapere matematico al momento in cui si sta parlando; in questo caso, l’azione didattica ha funzionato e lo studente si è costruito il modello atteso del concetto;

• il modello si forma troppo presto, quando ancora avrebbe dovuto essere solamente un’immagine debole che necessitava di essere ulteriormente ampliata; a questo punto per l’allievo non è facile raggiungere il concetto perché la stabilità del modello è di per sé stessa un ostacolo ai futuri apprendimenti.

3.2. Significati intuitivi dei concetti

Per andare più in profondità in questa trattazione, si riserva il nome di modello intuitivo a quei modelli che rispondono pienamente alle sollecitazioni intuitive e che hanno dunque un’accettazione immediata forte (D’Amore e Sbaragli, 2005).

Seguendo le parole di Fischbein (1985a):

Il livello intuitivo si riferisce alla dinamica dell’accettazione soggettiva di un enunciato matematico come cosa evidente e certa.

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IMMAGINI, MODELLI E MISCONCEZIONI

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Di conseguenza:

Il termine «intuitivo» può avere, nei confronti dei modelli, due significati distinti tra loro connessi: uno è il significato generale di rappresentazione pittorico-comportamentale, l’altro si riferisce più specificamente alla capacità che certi modelli hanno di suggerire direttamente una soluzione come quella che si impone per la sua evidenza.

È in questo tipo di modello che si crea una corrispondenza diretta tra la situazione proposta ed il concetto matematico che si sta utilizzando.

Tale modello si crea di solito come conseguenza della proposta da parte dell’insegnante di un’immagine forte e convincente di un concetto che diventa persistente, confermata da continui esempi ed esperienze.

Si possono formare cioè dei modelli che finiscono con l’avere molta forza di persuasione e molta rilevanza nelle competenze dell’allievo: in altre parole sono dominanti sul piano intuitivo proprio grazie a questa rispondenza tra situazione descritta e matematica utilizzata per farlo:

Un modello intuitivo […] induce sempre effetti di accettazione immediata. […] Se il modello è realmente buono e se è stato realmente ben compreso, le sensazioni di evidenza e di certezza sono imposte dal modello stesso come un fatto globale colto in un’unica comprensione sintetizzante. (Fischbein, 1985a)

Ma non è detto che questo modello rispecchi il concetto in questione; in certi casi ci si scontra, talvolta, con modelli creatisi con la ripetizione, ma niente affatto auspicati:

L’esistenza di incompatibilità e di contraddizione nelle relazioni tra il livello concettuale e il fondamento intuitivo rappresenta una delle principali fonti di idee sbagliate e di errori nell’attività matematica dei bambini. (Fischbein, 1985a)

Si verifica spesso che, in situazioni nelle quali non c’è un esplicito richiamo ad una competenza cognitiva forte, il modello intuitivo di un concetto emerge con energia. Si può ipotizzare infatti che, anche quando lo studente più evoluto si è costruito un modello corretto di un concetto, mo-dello assai vicino al sapere matematico, in condizioni di normalità il modello intuitivo riappare, dimostrando la sua persistenza.

Come sostiene Fischbein (1985a):

L’insistere eccessivamente nel fornire suggerimenti intuitivi usando rappresentazioni artificiali e troppo elaborate può fare più male che bene. Chiaramente la matematica è una scienza formale: la

Fig. 3.1 Efraim Fischbein (1920-1998).

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validità dei suoi concetti, enunciati e ragionamenti è basata su fondamenti logici; le argomentazioni non possono essere sostituite da processi intuitivi. Gli studenti devono divenire consapevoli di questo punto essenziale e devono imparare a pensare in questo modo specifico. Ciò significa che devono abituarsi ad accettare concetti o enunciati che non hanno alcun significato intuitivo. Forzando eccessi-vamente l’introduzione di interpretazioni intuitive per ogni concetto matematico, si riesce soltanto a impedire la comprensione della specificità della matematica. Ma, d’altra parte, dobbiamo essere consa-pevoli che noi tutti (bambini, insegnanti e matematici!) abbiamo la tendenza naturale ad attribuire ad ogni concetto o enunciato un’interpretazione intuitiva, cioè un’interpretazione che, per quanto possibile, presenti il corrispondente concetto o enunciato come qualcosa di accettabile in modo immediato, evidente, comportamentale.

3.3. Esempi di modelli intuitivi

Un classico esempio proposto dalla letteratura come modello intuitivo è il seguente: avendo accettato il modello di moltiplicazione tra naturali ed avendolo erroneamente esteso a tutte le moltiplicazioni, in qualsiasi campo numerico — modello intuitivo rafforzato dalle raffigurazioni schematiche (cosiddetto per schieramento) —, si forma quel modello «parassita» che si può enunciare così: «la moltiplicazione accresce sempre».

Ma poi fatalmente arriverà il giorno in cui si dovrà moltiplicare per 0.5 ed allora il modello (ormai formatosi) non funzionerà più e la sua supposta regola generale dell’aumento crollerà.

A questo punto assimilare la nuova situazione per accomodare il modello precedente ad uno nuovo non è affatto facile. Si crea quindi la necessità didattica di non rendere stabile quell’immagine troppo presto, allo scopo di poterla poi ampliare successivamente, nel tentativo di costruire un modello del concetto di moltiplicazione in modo ottimale, che tenga conto dei successivi amplia-menti, per esempio ai numeri razionali.

Non è un caso che molti studenti evoluti (anche universitari!) si dichiarino meravigliati di fronte al fatto che tra le due operazioni: 18×0.25 e 18:0.25 la prima è quella che dà un risultato minore, manifestando così la presenza del modello scorretto sopra menzionato creatosi nella scuola primaria.

Lo stesso esempio è citato da diversi Autori a proposito di misconcezioni e sarà quindi appro-fondito nel paragrafo 3.5.

Queste idee di Fischbein valgono in generale e non solo nel caso dell’operazione di moltiplica-zione; analogo è il modello erroneo della divisione che «diminuisce sempre». Inoltre, per quanto

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concerne la divisione, se non si conosce un po’ di didattica della matematica, si può correre il rischio di dare allo studente un altro modello intuitivo che finirà con il produrre un modello indesiderato: in una divisione A:B, «il numero B deve essere minore del numero A» oppure, detto in altro modo: «si deve sempre dividere un numero più grande per uno più piccolo» (Deri, Sainati Nello e Sciolis Marino, 1983).

In effetti, capita spesso che l’allievo, avendo diviso per anni un numero più grande per uno più piccolo, si sia formato il modello intuitivo che il dividendo deve essere maggiore del divisore. Le proposte fornite dalla scuola spingono a credere a ciò: si tratta sempre di ripartire molti oggetti tra poche scatole oppure di raccogliere diversi oggetti in pochi contenitori. Ma ciò comporta allora che, di fronte alla seguente proposta: «15 amici si dividono 5 chilogrammi di biscotti. Quanti ne spettano a ciascuno?»,1 lo studente, anche di scuola superiore, venga spontaneamente spinto ad eseguire 15:5, calcolando non quanti biscotti spettano a ciascun amico, ma «Quanti amici a ciascun chilo di biscotti», così come rispose uno studente di I liceo scientifico di Lugo (Ra) in occasione dell’intervista realizzata da D’Amore (1993a), quando lo si mise a riflettere sul suo «15:5».

In situazioni nelle quali non c’è un esplicito richiamo ad una competenza cognitiva forte, il modello intuitivo dell’operazione emerge sempre con energia: proprio la reazione sorpresa e divertita dello studente evoluto dimostra che lui stesso non si è reso conto del fatto di aver usato un modello intuitivo al posto di uno più elaborato e significativo.

Sempre a proposito di divisione, famoso e interessante è il seguente problema proposto da Efraim Fischbein (1985a): «“Con 2 dollari si può comprare una bottiglia di 0,75 l di aranciata. Quanto costa 1 l di aranciata?”. Per superare questa difficoltà si possono usare varie strategie. Una di queste consiste nel fare ricorso a un problema, connesso all’altro per analogia, ma i cui dati numerici vadano d’accordo con le richieste intuitive. Per esempio: “Con 10 dollari si possono comprare 5 l di aranciata. Quanto costa 1 l?”. […] Con la stessa procedura si può risolvere anche il problema di partenza».

Se si chiede a persone di qualsiasi età di risolvere il primo problema senza riferirsi al secondo, si noterà un certo imbarazzo. Dato, poco dopo, anche il secondo ed evidenziata l’analogia dei due problemi, molti saranno disposti ad ammettere con sincerità che, mentre il secondo problema si risolve immediatamente con la divisione 10:5, risolvere il primo con l’analoga divisione 2:0,75 crea

1 È uno dei problemi di una serie di 42 presentati in Deri, Sainati Nello e Sciolis Marino (1983) e ripreso da D’Amore (1993). Gli studenti che si scelsero per le prove andavano dalla scuola primaria alla prima liceo scientifico. Dunque, non si sta parlando necessariamente di «bambini piccoli», di riflessioni sulla sola scuola primaria, come qualcuno con suffi-cienza potrebbe credere. Questi modelli intuitivi emergono con notevolissima forza a dispetto dell’età e della cultura.

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forti imbarazzi a causa del contrasto tra significato formale e significato intuitivo della divisione (sull’analogia si veda Sbaragli et al., 2008, dove è stato ripreso anche questo esempio).

Questi sono solo alcuni dei numerosi esempi proposti da Efraim Fischbein nei quali l’Autore mette in evidenza il seguente fondamentale aspetto:

Di conseguenza si può supporre che siano proprio i numeri e le relazioni tra essi a bloccare o a facilitare il riconoscimento dell’operazione di divisione come procedura risolutiva. Ogni operazione aritmetica possiede, oltre al suo significato formale, anche uno o più significati intuitivi. I due livelli possono coincidere oppure no.

Proseguendo nell’analisi delle classiche operazioni di scuola primaria, per quanto riguarda l’ad-dizione, Fischbein, raccogliendo un’idea di Gérard Vergnaud (1982), mette in evidenza un ulteriore esempio di non coincidenza tra significato formale e significato intuitivo proponendo una famosa terna di problemi additivi a una tappa (cioè problemi che si risolvono con una sola operazione di addizione) che appare citata in moltissimi testi:

P.A Intorno ad un tavolo ci sono 4 ragazzi e 7 ragazze. Quanti sono in tutto?P.B Giovanni ha speso 4 franchi. Egli ha ora in tasca 7 franchi. Quanti franchi aveva prima?P.C Roberto ha giocato due partite. Nella prima ha perso 4 punti, ma alla fine della seconda partita

si è trovato in vantaggio di 7 punti. Che cosa è successo nella seconda partita?

Tutti e tre i problemi si risolvono con la stessa operazione 4+7; ma essi hanno percentuali di successo incredibilmente diverse:

• Il problema A è ben risolto già in II primaria (all’età di 7 anni): i risolutori arrivano a sfiorare il 100%. Qui, d’altra parte, c’è perfetta coincidenza fra significato formale e significato intuitivo: l’addizione è l’operazione che risolve problemi di unione tra raccolte (prive di elementi comuni). Ma quasi nessuno degli stessi ragazzi risolve il problema B e quei pochi che lo risolvono più o meno tirano a indovinare: dopo tutto ci sono solo due dati numerici a disposizione, 4 e 7.

• Il problema B è risolto, anche se con difficoltà, in IV o V primaria (all’età di 9 o 10-11 anni); diciamo che, comunque, le soluzioni corrette ottenute con consapevolezza raggiungono una discreta percentuale;

• Il problema C è causa di insuccesso pressoché totale. Ancora in I e II media (all’età di 11 o 12-13 anni), ha percentuali di risoluzione solo di circa il 25%, o anche meno, in accordo con le prove fatte da Vergnaud e da Fischbein.

La resistenza all’uso dell’addizione in situazioni considerate di non congruenza tra significato formale e significato intuitivo, sono testimoniate non solo nella scuola primaria, ma anche in tutta

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IMMAGINI, MODELLI E MISCONCEZIONI

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Fig. 3.2 Gérard Vergnaud.

la scuola media. Si veda, per esempio, Billio et al. (1993), dove si analizzano anche situazioni esplicitamente denunciate da allievi in opportune interviste.

La sottrazione, poi, per sua stessa natura, presenta almeno due diversi significati intuitivi, a fronte di un unico significato formale; tali significati intuitivi si possono evidenziare ricor-rendo ancora a due problemi suggeriti da Fischbein (1985b) che si risolvono entrambi con una sottrazione; ma, in un caso — quello che ha come significato il togliere via (come lo chiama Fischbein) — la cosa è intuitiva perché c’è coincidenza tra si-gnificato formale e significato intuitivo; nell’altro caso — quello del completamento a — sembra essere più spontaneo il ricorso a strategie additive:

• Se togliamo 3 palline da un insieme di 10 palline, quante palline rimarranno?• Ho 7 palline, ma me ne occorrono 10 per giocare. Quante palline devo aggiungere a quelle che

ho già, per poter cominciare a giocare?

Continuando a seguire Fischbein (1985b):

Quando si cerca di risolvere un problema non ci si affida soltanto al livello algoritmico, anche se tutto il bagaglio di algoritmi necessari è virtualmente presente nella mente. Come abbiamo già sottolineato, il processo risolutivo comprende anche il contributo delle rappresentazioni intuitive. Quando l’algoritmo e il livello intuitivo lavorano in accordo si ottiene una semplificazione. In que-sto caso il ruolo della rappresentazione intuitiva non si nota neppure; ma se tra i due livelli c’è una relazione di conflitto, l’incidenza degli aspetti intuitivi diventa evidente.

Chiarita la distinzione tra immagini e modelli, approfondiamo l’importante aspetto delle mi-sconcezioni.

3.4. Un’interpretazione costruttivista dell’idea di miscon-cezione

Uno dei termini più usati da decenni nella ricerca in didattica della matematica è la parola «misconcezione». Tale termine viene interpretato in modi diversi da vari Autori e assume il più

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delle volte connotati semplicemente negativi, come sinonimo di «errore»;2 ma noi, a partire dagli anni ’90, abbiamo scelto di dare a questa parola un senso più costruttivo ed elaborato:

Una misconcezione è un concetto errato e dunque costituisce genericamente un evento da evitare; essa però non va vista sempre come una situazione del tutto o certamente negativa: non è escluso che per poter raggiungere la costruzione di un concetto, si renda necessario passare attraverso una misconcezione momentanea, ma in corso di sistemazione. (D’Amore, 1999a)

In questa prospettiva, le misconcezioni possono rappresentare concezioni momentaneamente non corrette, in attesa di sistemazione cognitiva più elaborata e critica.

Tale proposta semantica del termine «misconcezione» è stata sottoposta per anni a prove di coerenza e di efficacia, che ne hanno rilevato l’importanza e l’utilità dal punto di vista didattico; per questo la riteniamo fondamentale per le nostre successive considerazioni.

Entriamo in maggiori dettagli.Le immagini che uno studente si fa dei concetti in alcuni casi possono essere delle vere e proprie

misconcezioni, cioè interpretazioni errate delle informazioni ricevute; tali immagini-misconcezioni, essendo in continua evoluzione nella complessa scalata verso la costruzione di un concetto, non sempre risultano di ostacolo all’apprendimento futuro degli allievi, a meno che esse non diventino forti e stabili modelli erronei di tale concetto.

Tutto ciò deriva dalla forza e stabilità del modello, caratteristiche che sono di per sé stesse di ostacolo ai futuri apprendimenti, rispetto alla dinamicità e instabilità delle immagini.

Sappiamo come sia difficile per l’allievo costruire un concetto, soprattutto quando il modello che si forma rappresenta solo un’immagine-misconcezione che avrebbe dovuto essere ulteriormente ampliata per riuscire a contemplare i diversi aspetti del concetto stesso.

Dal punto di vista didattico, quando un insegnante propone un’immagine forte, convincente, persistente e in alcuni casi addirittura univoca di un concetto, tale immagine si trasforma in modello

2 Le contestazioni più diffuse all’uso del termine «misconcezione» sono basate sulla connotazione negativa implicita nel prefisso «mis», ma anche sulla messa in discussione della possibilità di parlare di «correttezza» e di «scorrettezza» in termini assoluti. A tal proposito Colette Laborde dichiara: «Il termine misconcezione che ha origine negli Stati Uniti potrebbe non essere il termine più appropriato se ci si riferisce alla conoscenza degli studenti “non corretta”. La nozio-ne di “correttezza” non è assoluta e si riferisce sempre ad un dato sapere; il sapere di riferimento può anche evolversi. I criteri di rigore in Matematica sono cambiati considerevolmente nel tempo. Ogni concezione ha un suo dominio di validità e funziona per quel preciso dominio. Se questo non avviene, la concezione non sopravvive. Ogni concezione è in parte corretta e in parte non corretta. Quindi sembrerebbe più conveniente parlare di concezioni rispetto ad un dominio di validità e cercare di stabilire a che dominio queste appartengono» (D’Amore e Sbaragli, 2005, pp. 145-146).

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intuitivo. Come abbiamo mostrato nel paragrafo precedente, tali modelli rispondono pienamente alle sollecitazioni intuitive e hanno dunque un’accettazione immediata forte; si crea così una sorta di rispondenza diretta tra la situazione proposta ed il concetto matematico che si sta utilizzando. Ma questo modello potrebbe non rispecchiare il sapere matematico chiamato in gioco, generando così un modello erroneo che vincola l’apprendimento futuro. Più «forte» è il modello intuitivo, più difficile è infrangerlo per accomodarlo ad una nuova immagine più comprensiva del concetto.

In questi casi, le misconcezioni, che potrebbero non essere considerate in senso negativo, se viste e proposte come momento di passaggio, diventano ostacoli per i successivi apprendimenti, difficili da essere superati. Si tratta allora di non favorire anticipatamente l’insorgere di modelli, in quanto accomodare un modello erroneo trasformandolo in un nuovo modello comprensivo di una diversa situazione non è affatto facile, dato che il modello è per sua stessa natura forte e stabile.

Didatticamente conviene quindi lasciare immagini ancora instabili, in attesa di poter creare modelli adatti e significativi, vicini al Sapere matematico che si vuole raggiungere. Per un excursus storico dell’interpretazione e dell’uso del termine misconcezione si veda D’Amore e Sbaragli (2005) e Zan (2007).

3.5. Esempi di misconcezioni

Tra gli esempi di modelli intuitivi proposti nel paragrafo 3.3. si trova: «la moltiplicazione ac-cresce sempre»; lo stesso esempio è spesso citato da diversi Autori (per esempio Zan, 1998, 2007) a proposito di misconcezioni.

In D’Amore e Sbaragli (2005), si è scelto tale esempio come caso concreto di una tipica mi-sconcezione in matematica; di esso vengono mostrate specifiche peculiarità in senso didattico, storico ed epistemologico.

In questo articolo, i due autori mettono in evidenza come la formazione prematura di un modello concettuale di moltiplicazione, quando si ha a disposizione solo l’insieme N dei numeri naturali, genera spesso misconcezioni quando si passa ad un altro insieme numerico, tra le quali la più conosciuta e difficile da superare è appunto che «il prodotto è maggiore dei fattori». Ad esem-pio, il tentativo di continuare ad applicare tale modello quando la moltiplicazione viene eseguita sull’insieme Q dei numeri razionali, per esempio fra frazioni o fra numeri con la virgola, si rivela fallimentare. Risulterebbe allora utile didatticamente, come abbiamo già detto, lasciare immagini in continua evoluzione cercando di non creare troppo presto modelli forti e stabili.

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Per entrare più in dettaglio, consideriamo l’insieme N dei numeri naturali; sia × l’ordinaria moltiplicazione definita in N (interna).

L’immagine concettuale che viene proposta per tale operazione si fonda su due specifici riferi-menti espliciti:

• formale: la moltiplicazione è definita come un’addizione ripetuta (cioè 5×3 è 5+5+5);• grafica: la moltiplicazione è rappresentata graficamente da un rettangolo di punti-unità (per

esempio 5×3 è rappresentata da 3 file di 5 punti-unità).

La moltiplicazione in N, qualora dovesse limitarsi ad N e non dovesse essere estesa a Q, non crea le tipiche misconcezioni segnalate da decenni dai ricercatori a questo proposito; ad esempio, la misconcezione più diffusa esplicitata sopra, in N è una concezione vera: effettivamente, in N, il prodotto è sempre maggiore dei fattori (a parte il caso in cui siano coinvolti numeri un po’… «particolari» come 0 ed 1).

Come abbiamo già evidenziato, questa misconcezione è basata principalmente sul fatto che la peculiarità più evidente ed intuitiva della moltiplicazione in N, cioè il fatto che il prodotto è maggiore dei singoli fattori, viene meno in Q.

Sia la «giustificazione formale», sia quella «grafica» perdono di senso quando uno dei due fattori non è più un numero naturale, per esempio è un numero razionale del tipo 0.2:

• che senso ha giustificare l’operazione 5×0.2 considerando l’addizione di 5 a sé stesso per 0.2 volte?

• che senso ha giustificare la stessa operazione 5×0.2 considerando 0.2 file di 5 unità?

Secondo alcuni Autori, sarebbe allora opportuno cambiare nome e simbolo alla moltiplicazione. Effettivamente, l’idea di conservare nome e simbolo avviene, il più delle volte, dopo che lo studente potrebbe essersi oramai fatto un modello (stabile, duraturo) dell’operazione × in N, «arricchito» dunque ineluttabilmente dalla misconcezione che lo accompagna e che diventa «parassita» in Q. Questi Autori suggeriscono tale espediente didattico sulla base della convinzione che l’operazione di «moltiplicazione» definita in Q non è la stessa di quella prima definita in N.

Ma noi abbiamo optato la stessa proposta di terminologia, diffusa peraltro in tutto il mondo, basandoci essenzialmente sul fatto che la storia e la prassi insegnano a denominare sempre «mol-tiplicazione» quella/e operazione/i, sia che sia/no definita/e in N che in Q (che in altri campi nu-merici). Questa visione è sostenuta dal fatto che bisogna semplicemente riconoscere che (N, ×

N) è

una struttura isomorfa ad una sottostruttura di (Q, ×Q), il che costituisce un esempio facilmente

dominabile di uno dei momenti più interessanti della matematica e della costruzione del pensiero matematico: l’estensione da una struttura ad un’altra. Detto ciò, ha senso storico, epistemologico

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e didattico pensare che la moltiplicazione in Q sia un’estensione che conserva il nome della molti-plicazione in N. Il che rende lecito uniformare ×

N e ×

Q nell’unico simbolo usuale ×.

Accettato questo, assume grande rilevanza didattica il passaggio della operazione di moltipli-cazione da N a Q, un’operazione che conserva il nome giacché si tratta di una estensione, come abbiamo detto.

Certo, questa scelta, peraltro la più seguita, genera qualche problema didattico di costruzione di immagini prima, di modelli poi, al momento opportuno, con le conseguenti problematiche relative alla formazione di misconcezioni che, per non avere pesanti ripercussioni negative, devono restare a livello di immagini e non diventare modelli.3

Se ciò avviene, queste misconcezioni non saranno concepite come errori definitivi e del tutto negativi, come fraintendimenti ineludibili e non superabili, ma come momento di passaggio, errori momentanei, sotto controllo dal punto di vista del docente, in attesa di sistemazione.

Tale misconcezione, come vedremo nel successivo paragrafo, è da ritenersi inevitabile, non essendo direttamente imputabile alla trasposizione didattica o all’ingegneria didattica, ma alla necessaria gradualità di presentazione del sapere che, inevitabilmente, in quel dato momento della storia didattica dell’individuo, non è esaustivo del concetto matematico.

Analogo a questo esempio è il seguente riportato da Stavy e Tirosh (2000):

In matematica, alcune proprietà spesso funzionano per sistemi fino a un certo numero, ma crollano quando la realtà dei numeri si fa più estesa. Ad esempio, quando confrontiamo due numeri naturali mediante la linea dei numeri, si potrebbe affermare che il numero più lontano dallo zero sia il numero più grande. Quando viene applicata ai numeri relativi, tuttavia, questa regola può spingerci, non cor-rettamente, a stabilire, ad esempio, che -5 è più grande di -2 perché «esso è più lontano dallo zero». La regola «il più lontano-il più grande» è valida per tutti i numeri naturali, ma non per quelli relativi.

Tale misconcezione può essere interpretata come inevitabile a meno che l’insegnante, invece di cercare di superarla e di non radicarla nella mente dello studente, la espliciti e confermi nel momento in cui tratta i numeri naturali.

Si può notare che gli studenti arrivano alla stessa conclusione sbagliata anche quando non ten-gono conto del ruolo del segno meno, riferendosi unicamente al valore assoluto del numero.

Le due Autrici appena citate, proseguono riportando i seguenti esempi:

3 Non vogliamo entrare nello specifico di questo esempio, tuttavia facciamo notare che molti Autori, tra i quali Fisch-bein, insistono sulla necessità di mostrare diversi modelli per l’operazione di moltiplicazione (ma il discorso vale in generale). Nelle condizioni di apprendimento scolastico, però, bisogna mettere in conto una certa inevitabilità della nascita di misconcezioni e dunque sviluppare processi di controllo per conoscerli e riconoscerli negli allievi.

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In generale, quando due numeri naturali, n e n+a (anche a è un numero naturale), vengono confrontati, gli studenti, sin da piccoli, sanno che n+a>n. Molti studi sull’educazione matematica riportano che quando si chiede di confrontare una coppia di espressioni numeriche o algebriche […], spesso gli studenti applicano in modo non corretto la loro conoscenza dei numeri naturali […] (Bell, 1982; Fischbein, 1987; Hart, 1981). Quando chiedemmo di confrontare due espressioni ad esempio, 4x e 2x, che differivano in una quantità rilevante A (A

1>A

2, cioè, 4>2), gli studenti dedussero che

B1>B

2 (vale a dire 4x>2x). Allo stesso modo, quando confrontano due espressioni comprendenti n e

n+a, essi affermarono che: «-(n+a)>-n, x(n+a)>xn, (n+a)x>nx, x(n+a)>xn, e così via». […] Gli studenti deducono che, poiché n+a è maggiore di n, il senso dell’ineguaglianza tra le intere espressioni, B

1 e

B2, sarà conservato.

Per indagare tali misconcezioni è possibile fornire i seguenti esercizi di confronto di espressioni algebriche che furono consegnati da Rapaport (1998) a studenti dalla I alla IV superiore:

Segna dentro il riquadro >, =, < oppure «impossibile da determinare»

4x 2x

3(a+b) 2(a+b)

3x/2 5x/2

Questo lavoro rivelò che un’ampia maggioranza di allievi in ciascuna classe fornì risposte sba-gliate del tipo: «4>2, perciò 4x>2x; 3>2, perciò 3(a+b) > 2(a+b); 5>3, perciò 5x/2>3x/2».

Situazioni analoghe possono essere pensate per le potenze. Ad esempio, Kopelevich (1997) chiese ad allievi di II media, I, II e III superiore di confrontare le seguenti espressioni:

• Rami sostiene che se t è maggiore di m (t > m), allora at > am. Ha ragione Rami? Sì/No.• Dana sostiene che se a è maggiore di b (a > b), allora at > bt. Dana ha ragione? Sì/No.

Anche in questo caso, almeno il 50% degli allievi di ognuna di queste classi eseguì in maniera sbagliata ciascuno di questi problemi, affermando che se t > m, allora at > am e che se a > b, allora at > bt. Eppure, quando venne chiesto agli stessi studenti di mettere il simbolo giusto (>, =, < oppure «impossibile da determinare») tra le espressioni a3 e a4, oltre il 65% di allievi di ciascuna di queste classi affermò che a4 > a3.

Tutti questi esempi di misconcezioni legate alle conseguenze dell’ampliamento di un insieme numerico, possono essere interpretate come misconcezioni inevitabili (vedi paragrafo successivo) da tenere sotto controllo da parte del docente.

Continuando ad analizzare alcuni classici esempi di misconcezioni, Zan (2002) ribadisce l’impor-tanza di tale campo di studio all’interno del particolare filone di ricerca relativo all’interpretazione di

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errori, sostenendo come il termine «misconcezione» sia spesso sostituito da espressioni alternative, pur rimanendo, al di là del nome, un fondamentale campo di studio per la ricerca in didattica:

Se i comportamenti fallimentari causano errori, l’individuazione dei comportamenti fallimentari riconduce al classico filone di ricerca — trasversale — che è dato dall’interpretazione di errori. Ap-paiono interessanti in questo senso tutti i contributi che avanzano ipotesi interpretative sull’origine degli errori sistematici: in particolare quelli sui «misconcetti».4

A tal proposito Zan (2002), riferendosi alle ricerche di Brown e Burton (1978) riportata nel paragrafo 2.6. a proposito delle 5 sottrazioni in colonna, mette in evidenza come gli errori siste-matici siano successivamente stati inquadrati come misconcezioni.

In Fandiño Pinilla (2005a) risultano interessanti i seguenti ulteriori esempi riguardanti le fra-zioni:

Anche nel caso dell’equivalenza, si è visto come lo studente faccia fatica a capirne il senso nei casi discreti; se abbiamo 3 palline bianche e 6 nere, possiamo dire che le bianche sono 1/3 del totale delle palline; ma se abbiamo 6 bianche e 12 nere, lo studente potrebbe faticare a capire che, all’aumento evidente del numero di palline, non corrisponda anche un aumento di quel 1/3. […] Ho la frazione x/y e divido tanto x quanto y per 2. Ottengo una nuova frazione. Questa è la metà di x/y, uguale a x/y o il doppio di x/y? Le risposte più diffuse sono «la metà» e «il doppio» a qualsiasi età, mentre la risposta «uguale» è assai scarsa, specie tra gli allievi più giovani.

Gli esempi potrebbero continuare ancora a lungo, ma terminiamo qui questa trattazione per non appesantire troppo il testo.

3.6. Conflitti «interni» e conflitti «sociocognitivi»

Nella complessa scalata per l’ampliamento e adattamento delle immagini, si creano conflitti cognitivi che, come abbiamo visto, sono conflitti «interni» causati dalla non coincidenza tra due concetti, o tra due immagini, o tra un’immagine ed un concetto, o tra un modello intuitivo che

4 In realtà si evita sempre più spesso di usare il termine originario misconceptions, preferendo espressioni alternative quali alternative conceptions o implicit theories. I motivi di questa scelta derivano dalla connotazione negativa che quel prefisso mis comporta, evitando così di mostrarne una certa qual varietà di interpretazioni. Invece, in D’Amore e Sbaragli (2005), si finisce col fornire alle misconcezioni una «definizione» problematica tutt’altro che totalmente negativa, così com’è proposta anche in questo testo.

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non corrisponde al modello matematico del concetto ed il modello matematico stesso (con la com-plicazione eventuale della nascita di modelli parassiti). In ogni caso, c’è una lotta tra il desiderio inconsapevole di tenere salda una immagine acquisita e nuove informazioni su un concetto che essa non riesce ad «inquadrare».

La cosa si complica ancora di più quando, obiettivamente, ci sono più significati intuitivi che devono essere «tradotti» in un solo significato formale, come, per esempio, nel caso della sottrazione o in quello della divisione.

Ma il conflitto può anche essere sociale oltre che cognitivo interno.Supponiamo che lo studente abbia un’immagine stabile o un modello intuitivo o un modello paras-

sita o una misconcezione su di un certo argomento e che ritenga si tratti di opinione condivisa da tutta la classe (o forse, più in generale, da tutta la società). Un bel giorno tale convinzione entra in conflitto con quella proposta dall’insegnante o da una nuova situazione e, in quella occasione, lo studente si accorge che quella sua convinzione non è affatto condivisa da un compagno o dalla classe. Si accorge di essere isolato; per esempio il compagno o gli altri compagni non si meravigliano affatto di una proposta che lui non riesce, invece, ad accettare perché non collima con la sua costruzione concettuale.

Un solo classico esempio: un quadrato è spesso disegnato e proposto nei libri di testo con i lati orizzontali e verticali, il rombo spessissimo con le diagonali orizzontale e verticale:

Lo studente si è fatto l’idea che i quadrati devono essere così ed i rombi invece così, ed è con-vinto che la sua concezione sia la stessa di tutti i compagni di classe; crede cioè, implicitamente, che si tratti di un’idea largamente anzi totalmente condivisa. Un bel giorno l’insegnante disegna un quadrato con le diagonali orizzontale e verticale:

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Non lo chiama però «rombo», come lo studente si aspetta, bensì ancora «quadrato». Il nostro studente sussulta: il maestro si è sbagliato? Ma si accorge invece che il compagno o il resto della classe accetta questa denominazione: si tratta sì di un conflitto cognitivo, ma non solo sul piano individuale «interno», bensì pure sul piano sociale perché mette quello studente in conflitto con un modello che riteneva condiviso.

Spesso lo studente non ha consapevolezza di quel che succede, avverte disagio, sente che c’è qualche cosa che non va, ma non sempre (anzi, quasi mai) sa rendersi conto di che cosa sia a causare tale stato di disagio. Spesso, poi, lo studente reagisce a questa situazione con insofferenza, in modo disturbato, creando una barriera tra sé e l’insegnante, tra sé e gli altri, tra sé e la matematica.

Alla base dei conflitti ci sono, come abbiamo più volte detto, delle misconcezioni.Tale evoluzione è spesso nella natura stessa della didattica. L’esplicitazione, da parte dell’allievo, di una

misconcezione avviene con quella segnalazione di un malessere cognitivo che si chiama usualmente e banal-mente «errore» (D’Amore, 1999a): lo studente sbaglia, cioè non dà la risposta attesa dall’insegnante.

Sta all’adulto, al docente, rendersi conto che quelli che lo studente crede essere modelli corretti o concetti corretti sono in realtà delle misconcezioni.

Dare agli errori una sola connotazione negativa e non interpretarli come quei segnali di malessere cognitivo detti sopra, è troppo semplicistico e banale: non si tratta solo di valutare negativamente lo studente che sbaglia; si tratta, invece, di dare gli strumenti necessari per l’elaborazione critica (rimandiamo al paragrafo 2.6.).

In un certo senso, dato che anche i bambini molto piccoli hanno concezioni matematiche ingenue ma profonde ottenute empiricamente o per scambio sociale (D’Amore et al., 2004), si potrebbe addirittura pensare che tutta la carriera scolastica di un individuo, per quanto attiene la matematica, sia costituita dal passaggio da (mis)concezioni a concezioni sempre più elaborate e comprensive, verso modelli corretti dei concetti attesi e voluti dall’attività didattica.

In un certo senso, concezioni momentanee non corrette, in attesa di sistemazione cognitiva più elaborata e critica non sono eliminabili, né costituiscono di per sé stesse un danno. Sembrano un delicato momento cognitivo necessario di passaggio, da una prima concezione elementare (ingenua, spontanea, primitiva ecc.) ad una più elaborata e vicina a quella corretta (quella attesa dall’insegnante).

Alla base di questo tipo di problematiche, poniamo alcuni studi di Piaget sui processi di equi-librazione ed accomodamento ed in particolare una delle sue ultime opere dedicata a questo tema (1975), anche se oggi c’è stata una grande evoluzione di ricerche in questo campo.5

5 Esse invadono anche la fissità funzionale, l’effetto Einstellung, i parassiti cognitivi ecc.; per non dilungarci troppo, rinviamo a D’Amore, 1993.

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Questo atteggiamento però rischia di radicare nella mente degli allievi modelli scorretti, come il «modello della collana» sopra presentato, che vincolano l’apprendimento matematico successivo, facendo prevalere l’aspetto figurale su quello concettuale. Riteniamo invece didatticamente im-portante seguire un approccio pragmatico, con una costante mediazione da parte dell’insegnante, per far sì che gli oggetti matematici ed il significato di tali oggetti non rimangano solo «personali» ma diventino «istituzionali». Questo non significa imporre stolte pseudo-definizioni, ma discutere più volte, con il passare degli anni, il senso di tali enti, in maniera sempre più adulta e critica, per quanto lo permette l’età degli studenti. Usare questi enti significa concettualizzarli, evitando difficoltà che potrebbero rivelarsi assai dannose.

3.15. La rilettura di una provocazione

In un famoso articolo del 1993, relativo ai concetti figurali, Efraim Fischbein presenta una situazione sperimentale relativa al punto, inteso come intersezione di 4 o di 2 segmenti, che era stata rivolta a soggetti di età compresa tra i 6 e gli 11 anni. Le domande poste erano volutamente ambigue e riguardavano la «grandezza» ed il «peso» di tali punti. Come afferma Fischbein, queste domande potevano essere interpretate o da un punto di vista geometrico o da un punto di vista materiale (grafico).

In a ci sono quattro linee che si intersecano (punto 1). In b, ci sono due linee che si intersecano (punto 2). Confronta i due punti 1 e 2. Questi due punti sono diversi? Uno di loro è più grande? Se sì, quale? Uno di loro è più pesante? Se sì, quale? I due punti hanno la stessa forma?

L’intenzione era di scoprire l’evoluzione con l’età dell’interpretazione dei soggetti e la possibile apparizione dei concetti figurali (punto, linea).

Come riferisce Fischbein, i risultati mostrano un’evoluzione relativamente sistematica delle risposte da una rappresentazione concreta ad una concettuale-astratta.

1

a b

2

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Ma siamo certi che l’interpretazione concettuale sia esclusivamente quella astratta o questo di-pende dal contesto? È certo che in àmbito geometrico la concettualizzazione del punto si ha quando si è in grado di astrarre e di concepire un punto come privo di dimensioni, ma nella domanda non si parlava di punto geometrico, quindi l’attenzione poteva concentrarsi su un qualsiasi tipo di punto: per il geometra-agrimensore, per il pittore, per l’aborigeno, per il disegnatore, per il musicista, per il geografo ecc. (Martini e Sbaragli, 2005). A nostro parere, un geometra-agrimensore di «vecchio stampo», abituato a disegnare con pennini, che non sia in grado di distinguere la diversa grossezza di un punto, fatto ad esempio con un pennino 0,2 o 0,8, non è riuscito a concettualizzare nel suo àmbito. La concettualizzazione quindi dipende dal contesto, per questo riteniamo che nell’esplici-tazione della domanda risultasse fondamentale chiarire l’àmbito di riferimento.

Viene lecito domandarsi: è sempre vero che la percezione grafica sia meno concettuale di quella astratta, o forse questo dipende dal contesto di riferimento? In particolari àmbiti, come quello gra-fico, l’aspetto figurale può essere ritenuto più concettuale di quello astratto? A nostro parere, notare la diversa dimensione di due punti, richiede una sensibilità, una finezza e un grado di «concettua-lizzazione» fondamentale in certi contesti. Da queste considerazioni emerge la necessità da parte dell’insegnante di esplicitare agli allievi l’àmbito al quale fa riferiamo quando pone le domande; questo per essere certi che le risposte inattese ed insperate, non siano il risultato derivante dal fatto che l’intervistato si è collocato in un àmbito diverso rispetto a quello immaginato dall’intervista-tore. In un certo senso sarebbe come auspicare che vengano fornite le soluzione di un’equazione in un particolare insieme, senza però avere esplicitato l’insieme di appartenenza delle soluzioni. In effetti, le decisioni prese da un soggetto, e quindi anche la razionalità delle sue scelte e dei suoi comportamenti, vanno lette alla luce del contesto in cui un soggetto si colloca e degli scopi che caratterizzano tale contesto.

Da questo punto di vista potrebbe risultare pericoloso, se generalizzato ad ogni àmbito, ciò che auspica Fischbein, ossia che il punto stia per diventare staccato dal contesto, così da preparare il concetto geometrico di punto. In effetti riteniamo importante che l’allievo sia consapevole del contesto nel quale si sta muovendo e che concepisca un concetto coerentemente rispetto al parti-colare àmbito; allo stesso tempo auspichiamo che l’allievo sappia variarne l’«uso» all’interno dello stesso contesto e in contesti diversi.

Si noti che la spinta in questa nostra direzione va verso una maggior consapevolezza nella quale deve essere immerso l’allievo quando fa matematica. Se il contesto non si esplicita (e questo vale in ogni caso, al di là del punto), può succedere che l’insegnante se ne aspetti uno e che l’allievo ne pensi un altro, diverso. Se la risposta dell’allievo non coincide con quella attesa dall’insegnante, difficilmente, specie in geometria, l’insegnante è in grado di rimettere in gioco la propria posizio-

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ne e discuterla, accettando il complesso: risposta data – ambito proposto dall’allievo. È assai più semplice, più sbrigativo, più immediato semplicemente correggere la risposta dell’allievo, dando la propria. Ma l’allievo mantiene il suo contesto in mente, il che significa che la riposta imposta dall’insegnante, rispetto al contesto conservato dall’allievo, semplicemente non funziona. La diffi-coltà che ne nasce, ancora una volta, può essere molto negativa; lo studente rinuncia a collaborare, a farsi carico diretto della responsabilità del proprio apprendimento della geometria e delega al-l’insegnante la scelta delle risposte che devono essere date, cosa che, però, nell’intimo, allo studente sembra del tutto casuale. Come abbiamo già detto, lo studente si fa l’idea di non essere adeguato, di non saper dare le risposte attese, di non saper ragionare in modo coerente e logico, di non essere adatto all’apprendimento della matematica, con le conseguenze che sappiamo. Lo studente si fa di sé stesso un’immagine negativa che difficilmente potrà poi essere recuperata. Può essere l’inizio di gravi difficoltà.

Come si vede, all’origine di certe difficoltà anche notevoli potrebbe celarsi, a volte si cela, un fatto meramente matematico.

Oppure, e di solito accade, gli allievi tendono a confondere tra loro i diversi àmbiti, non es-sendoci da parte dell’insegnante, talvolta, un’esplicitazione dei diversi contesti d’uso degli stessi termini con le relative «regole del gioco».

Come sostiene Zan (2007, p. 60):

Se l’insegnante assume come scontato che l’allievo si è posto un certo obiettivo (quello che l’inse-gnante vorrebbe che si ponesse), tenderà a giudicare irrazionali strategie che viceversa apparirebbero consistenti alla luce di obiettivi e contesti alternativi.

Durante una sperimentazione a Milano con studenti a partire dalla scuola dell’infanzia fino alla scuola superiore, alla richiesta: «Immagina di dover spiegare ad un tuo compagno che cos’è un punto in geometria» si sono avute le seguenti risposte8 che mettono in evidenza diversi contesti d’uso:

– «Sono dei puntini piccoli e grossi» (A., 5 anni);– «Un punto per la maestra di matematica è il posto dove dobbiamo guardare una costruzione» (II

primaria) (l’allievo si riferisce alle attività dai diversi punti di vista che stavano realizzando in classe nelle ore di matematica);

– «Un punto si prende se si guida veloce» (III primaria);– «Io penso che il punto matematico sia un punto che fa finire una frase matematica anche per fare

finire i numeri» (III primaria);

8 Riportiamo qui solo alcune risposte tra le oltre 350 in nostro possesso.

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IMMAGINI, MODELLI E MISCONCEZIONI

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IMMAGINI, MODELLI E MISCONCEZIONI

– «Il punto in matematica è un segnetto così • oppure è la questione da risolvere. Il punto in matematica è anche quello che si mette sopra certi numeri, ad esempio 1˙000. Nelle calcolatrici il punto viene considerato una virgola. Il punto può essere anche per le equazioni es 100 × ... = 200» (V primaria) (l’allievo parla in quest’ultimo esempio dei tre puntini che segnalano la presenza di un termine incognito);

– «Un punto in matematica è importante per poter pren-dere un voto per essere felici» (I media);

– «• questo è un punto» (V liceo scientifico).

3.16. I concetti figurali

Come abbiamo mostrato nel paragrafo precedente, le considerazioni fin qui riportate sono intimamente collegate con la problematica dei concetti figurali presentata da Fischbein (1993), secondo il quale tutte le figure geometriche rappresentano costruzioni mentali che possiedono simultaneamente proprietà concettuali e figurali:

Un quadrato non è un’immagine disegnata su un foglio di carta; è una forma controllata dalle sue definizioni (anche se può essere ispirata da un oggetto reale).

Lo studio critico di tale trattazione risulta cruciale per capire la natura dei concetti e del ragio-namento geometrico.

Andando più in profondità, come abbiamo più volte sostenuto, un modello (come ad esempio un disegno) costituisce sempre un’occorrenza particolare di un concetto e, proprio per la sua par-ticolarità, offre sempre un supporto inadeguato alla generalità del concetto.

Ossia, le proprietà espresse dal modello concreto, nonostante la fiducia che vi vuol vedere l’inse-gnante, risultano insufficienti o inadeguate a caratterizzare il concetto geometrico in senso generale; occorre quindi possedere l’aspetto concettuale per avere elementi di controllo che concorrono alla costruzione e allo sviluppo del concetto geometrico. Tale situazione appare paradossale: per costruire un concetto geometrico non si può prescindere da un’immagine figurale che però deve essere controllata e interpretata dalla conoscenza del concetto stesso.

L’evoluzione dei concetti geometrici non vedrà mai scomparire il contributo della compo-nente figurale ma idealmente è il sistema concettuale che dovrebbe controllare completamente i

Fig. 3.7 «Sono dei puntini piccoli e grossi» (A., 5 anni).