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1 Società italiana di Scienza Politica XXVIII Convegno Università di Perugia – Dipartimento di Scienze Politiche Università per Stranieri di Perugia – Dipartimento di Scienze Umane e Sociali 11-13 settembre 2014 La democrazia dei pochi L’eredità dell’anti-elitismo e le sfide alla teoria democratica di Damiano Palano [email protected] Sezione 2. Teoria Politica Panel 2.3 – 2.4 Una «nuova scienza politica»? L’eredità della critica al comportamentismo e i compiti della teoria politica contemporanea Chair: Damiano Palano

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Società italiana di Scienza PoliticaXXVIII Convegno

Università di Perugia – Dipartimento di Scienze PoliticheUniversità per Stranieri di Perugia – Dipartimento di Scienze Umane e

Sociali11-13 settembre 2014

La democrazia dei pochi L’eredità dell’anti-elitismo e le sfide alla

teoria democratica

di Damiano Palano

[email protected]

Sezione 2. Teoria PoliticaPanel 2.3 – 2.4 Una «nuova scienza politica»? L’eredità della critica al

comportamentismo e i compiti della teoria politica contemporaneaChair: Damiano Palano

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Abstract

Questo articolo rilegge la critica indirizzata negli anni Sessanta al cosiddetto «elitismo democratico» da alcuni politologi radicali e in particolare da Peter Bachrach. In primo luogo, il testo esamina i punti dell’attacco contro la teoria elitista della democrazia costruita dai politologi americani negli anni Quaranta e Cinquanta. In secondo luogo, sostiene che «elitisti democratici» e «anti-elitisti» condividevano implicitamente alcuni presupposti e che, proprio per questo, il dibattito si arenò su un banco di sabbia. Infine, l’articolo propone una ‘teoria culturale’ della democrazia come via per superare la contrapposizione fra elitismo e anti-elitismo.

This article reviews the criticism addressed in the Sixties to the so-called «democratic elitism» by some radical political scientists and in particular by Peter Bachrach. First, the text examines the points behind the attack against the «elitist theory of democracy» developed by American political scientists in the Forties and Fifties.Then , it argues that «democratic elitists» and «anti-elitists» implicitly shared some assumptions and that, for this reason, the debate got stranded on a sandbar. Finally, the article proposes a cultural theory of democracy as a way to overcome the opposition between «democratic elitism» and «anti-elitism».

Damiano Palano è Professore associato di Scienza politica e insegna presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Tra i suoi libri recenti: Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nella teoria politica e nelle scienze sociali italiane fra Otto e Novecento (Milano, Vita e Pensiero, 2002); Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica in Italia (Milano, Vita e Pensiero, 2005); Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica (Milano, Mimesis, 2010); La democrazia senza qualità. Appunti sulle «promesse non mantenute» della teoria democratica(Trento, UniService, 2010); Fino alla fine del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea (Napoli, Liguori, 2010), La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica (Milano, Mimesis), Partito (Bologna, Il Mulino, 2013).

Damiano PalanoDipartimento di Scienze politicheUniversità Cattolica del Sacro CuoreLargo Gemelli, 1 – 20123 [email protected]

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La democrazia dei pochi L’eredità dell’anti-elitismo e le sfide alla

teoria democratica

di Damiano Palano

Come pochi scrittori del Novecento, Philip K. Dick riuscì a proporre una formidabile prefigurazione letteraria di quella che, di lì a poco, Guy Debord avrebbe definito come la «società dello spettacolo»1. Se già negli anni Sessanta molti suoi racconti anticipavano le tecniche di manipolazione genetica, a Dick non sfuggirono soprattutto le potenzialità di controllo dell’opinione pubblica offerte dai nuovi strumenti di comunicazione. Così non era fortuito che in molti dei suoi romanzi più fortunati lo scrittore americano si soffermasse quasi ossessivamente sull’idea che, dietro la facciata delle istituzioni democratiche occidentali, si nascondesse il dominio di un’oligarchia, e che dunque la competizione fra partiti e candidati, e tutti gli altri rituali del ‘gioco democratico’, non fossero altro che uno spettacolo allestito per garantire l’acquiescenza delle masse. Nei Simulacri, pubblicato per la prima volta nel 1964, Dick immaginava per esempio che, in un futuro non poi così remoto, gli Stati Uniti d’Europa e d’America fossero governati da due attori pagati per impersonare la coppia presidenziale e per recitare un copione, dietro i quali si muovevano congiure e trattative segrete. In altre parole, come affermava uno dei protagonisti, c’era soltanto «l’immagine televisiva, l’illusione dei media», mentre dietro quell’immagine si celava l’oscuro potere di «una specie di corporazione»2.

Negli ultimi anni l’incubo di Dick è tornato spesso ad affiorare nelle pagine di quegli osservatori che hanno intravisto nelle trasformazioni contemporanee uno ‘svuotamento’ delle istituzioni democratiche3. In termini fortemente polemici, che davvero

1 G. DEBORD, La Société du spectacle, Paris, Buchet-Castel, Paris, 1967, trad. it.,

La società dello spettacolo, in Id., Commentari sulla società dello spettacolo e La società dello spettacolo, Milano, SugarCo, 1990.

2 P.K. DICK, The Simulacra, New York, Ace Books, 1964, trad. it. I Simulacri, Roma, Fanucci, 1998, p. 160.

3 Cfr., per esempio, M. BOVERO, Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Roma – Bari, Laterza, 2000, A. BURGIO, Senza democrazia. Per un’analisi della crisi, Roma, Derive Approdi, 2009, R.J. DALTON, Democratic Challenges, Democratic Choices: The Erosion of Political Support in Advanced Industrial Democracies, Oxford, Oxford University Press, 2004, C. GALLI, Il disagio della democrazia, Torino, Einaudi, 2011, S. MACEDO, Democracy at Risk: How Political Choices Undermine Citizen Partecipation and What We Can Do About It, Washington Dc, Brookings Institution Press, 2005, A. MASTROPAOLO, La democrazia

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riecheggiano gli incubi di Dick, Sheldon Wolin ha per esempio definito la forma di regime vigente negli Stati Uniti come un «totalitarismo rovesciato», un sistema «apparentemente guidato da poteri totalizzanti astratti, e non dal dominio personale», il quale «si alimenta incoraggiando il disimpegno politico più che la mobilitazione di massa», e che «si affida più ai media ‘privati’ che alle istituzionipubbliche per diffondere la propaganda atta a consolidare la sua versione ufficiale degli eventi»4. Utilizzando immagini forse meno energiche, ma altrettanto pessimiste, altri hanno riconosciuto invece i segnali di un processo di «de-democratizzazione»5, o addirittura le tracce di una transizione verso un inedito assetto «postdemocratico»6. Un assetto in cui, come ha sostenuto Colin Crouch in un contributo influente, «anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione», in cui la cittadinanza «svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve», e in cui comunque «la politica viene decisa in privato è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, G. NEVOLA, Il malessere della democrazia contemporanea e la sfida dell’«incantesimo democratico», in «Il Politico», LXXII, 2007, n. 1, pp. 165-199, D. PALANO, La democrazia senza qualità. Appunti sulle «promesse non mantenute» della teoria democratica, Trento, UniService, 2010, S.J. PHARR – R.D. PUTNAM (a cura di), Disaffected Democracy. What’s Troubling the Trilateral Countries?, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2000, P. ROSANVALLON, La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Paris, Seuil, 2006, trad. it. La politica nell’età della sfiducia, Città Aperta, Roma, 2009, M.L. SALVADORI, Democrazie senza democrazia, Roma – Bari, Laterza, 2009, T. SKOCPOL, Diminished Democracy. From Membership to Managment in American Civic Life, Norman, University of Oklahoma Press, 2003, ID., Voice and Inequality: The Transformation of American Civic Democracy, in «Perspective on Politics», 2004, n. 1, pp. 3-20, G.STOKER, Why Politics Matters. Making Democracy Work, London, Palgrave, 2006, trad. it. Perché la politica è importante. Come far funzionare la democrazia, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

4 S. WOLIN, Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarianism, Princeton, Princeton University Press, 2008, trad. it. Democrazia S.p.A. Stati Uniti: una vocazione totalitaria?, Roma, Fazi, 2011, p. 65.

5 Cfr. per esempio W. BROWN, American Nightmare. Neoliberalism, Neoconservatism, and De-Democratization, in «Political Theory», 2006, n. 6, pp. 690-714, ID., Oggi siamo tutti democratici…, in G. AGAMBEN et al., In che stato è la democrazia?, Roma, Nottetempo, 2010, pp. 71-93, e C. TILLY, Democracy, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, trad. it. La democrazia, Bologna, Il Mulino, 2009.

6 Il termine «postdemocrazia» è stato peraltro utilizzato con significati non sempre coincidenti: cfr. per esempio R. CHARVIN, Vers la post-democratie?, Pantin, Le temps de cerises, 2006, C. CROUCH, Postdemocrazia, Roma – Bari, Laterza, 2003, C. FORMENTI, Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, Milano, Cortina, 2008, J. RANCIÈRE, La Mésentente. Politique et Philosophie, Paris, Galiliée, 1995, trad. it. Il disaccordo. Politica e filosofia, Roma, Meltemi, 2007, e ID., La haine de la démocratie, Paris, La fabriques, 2005, trad. it. L’odio per la democrazia, Napoli, Cronopio, 2007. Seppur all’interno di una discussione molto diversa, l’idea di una «post-democrazia» era sviluppata, alla fine degli anni Settanta, anche da V. HAVEL, Moc bezmocnych (1978), trad. it. Il potere dei senza potere, Roma, Castelvecchi, 2013.

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dall’interazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici»7.

Sebbene abbia acquistato una nuova forza negli ultimi due decenni, la critica che induce a riconoscere un ritorno del potere nelle mani di ristrette élite, prevalentemente economiche, ha in realtà radici piuttosto profonde, che per un verso accompagnano il cammino delle istituzioni rappresentative fin dalla fine del XIX secolo, ma che per un altro affondano soprattutto nella temperie culturale degli anni Cinquanta e Sessanta, quando si delinearono i tratti di una critica anti-elitista e partecipazionista alla teoria democratica scaturita dalla conclusione del secondo conflitto mondiale. In un clima segnato da forti contrapposizioni ideologiche e da vaste mobilitazioni sociali, era piuttosto scontato che gli intellettuali marxisti considerassero le istituzioni liberademocratiche come insufficienti, o addirittura come un semplice travestimento del dominio capitalistico8. Accanto a questo filone critico, che per molti versi si limitava ad aggiornare un armamentario polemico ereditato dal secolo precedente, prese però forma, soprattutto all’interno delle scienze sociali statunitensi, anche una polemica di tipo diverso: una polemica che, pur recependo alcune sollecitazioni dalla critica marxista, si richiamava principalmente alla tradizione radicale americana per denunciare una sorta di ‘tradimento’ delle ambizioni della democrazia e un progressivo impoverimento della sua dinamica istituzionale. Per molti versi, ad annodare tutti i fili di questa polemica fu The Theory of Democratic Elitism di Peter Bachrach. Il pamphlet rappresentava infatti una sorta di vero e proprio manifesto teorico di quella che aspirava a diventare una «nuova scienza politica», una scienza politica che, registrando il clima di fermento e le istanze della contestazione giovanile, sapesse recuperare uno sguardo radicale e una funzione critica9. Ma, soprattutto, il libro di Bachrach scagliava un formidabile attacco – teorico e politico – alla nozione «elitista» di democrazia elaborata inizialmente da Joseph A. Schumpeter e in seguito adottata quasi unanimemente all’interno del dibattito politologico.

A quasi mezzo secolo di distanza da quel dibattito, in questo articolo mi propongo di riesaminare i nodi principali della critica avanzata dagli anti-elitisti e la revisione che le loro proposte innescarono. Benché il progetto di una new political science si sia in larga parte arenato già al principio degli anni Settanta, i motivi

7 C. CROUCH, Postdemocrazia, cit., p. 6.8 Esempi significativi di questa posizione sono offerti da L. ALTHUSSER, Ideologie

et appareils ideologiques d’Etat, in «La pensée», n. 161, 1970, trad. it. Sull’ideologia, Bari, Dedalo, 1976, e G. DELLA VOLPE, Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica, Roma, Editori Riuniti, 1997 (I ed. 1957), ma, per una rassegna critica del dibattito svoltosi negli anni Sessanta e Settanta fra studiosi marxisti intorno al rapporto fra Stato e democrazia, cfr. D. ZOLO, Stato socialista e libertà borghesi. Una discussione sui fondamenti della teoria politica marxista, Roma – Bari, Laterza, 1976.

9 P. BACHRACH, The Theory of Democratic Elitism: A Critique, Boston, Little Brown and Company, 1967, trad. it. La teoria dell’elitismo democratico, Napoli, Guida, 1974.

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polemici inalberati dagli anti-elitisti conservano infatti una notevole attualità e continuano d’altronde a essere riproposti nell’odierno dibattito sul «malessere democratico. Il mio intento non consiste comunque in una sorta di riabilitazione postuma delle posizioni anti-elitiste, né tanto meno in una semplice dimostrazione della loro debolezza, ma piuttosto in una riflessione sulla sfida che l’eredità dell’anti-elitismo continua a portare alla teoria democratica. Nelle pagine che seguono, innanzitutto ricostruisco i contorni dell’attacco sferrato contro la «teoria elitista della democrazia» costruita dai politologi americani negli anni Quaranta e Cinquanta (1), mentre, in secondo luogo, cerco di mostrare come i due fronti polemici condividessero almeno implicitamente alcuni presupposti di fondo e come, anche per questo, il dibattito tendesse ad arenarsi su un banco di sabbia (2). Inoltre, cerco di mostrare come alcuni limiti della critica degli alfieri della new political science fossero una conseguenza anche di una incompleta discussione dei presupposti del comportamentismo politologico, che paradossalmente continuavano a essere implicitamente adottati da molti anti-elitisti (3-4). Infine, con l’obiettivo di individuare una via di uscita alla contrapposizione fra elitismo ed anti-elitismo, sottolineo le potenzialità offerte da alcune sollecitazioni provenienti dalla ‘svolta culturale’, che potrebbero consentire di considerare la ‘democrazia reale’ – con i suoi valori, procedure, rituali e simboli – come il prodotto di una costruzione culturale (5).

1. Quanto costa il ‘realismo’?

Nel 1967, proprio negli stessi mesi in cui in Europa esplodeva la contestazione studentesca, il Convegno annuale dell’American Political Science Association (Apsa), che si teneva quell’anno a Chicago, divenne il teatro dalla protesta di un consistente gruppo di politologi radicali. Inalberando la bandiera di una «New Political Science», il gruppo dei contestatori richiedeva che l’Apsa prendesse una esplicita posizione sulla guerra del Vietnam e che biasimasse ufficialmente il ruolo ricoperto da alcuni importanti esponenti della disciplina all’interno dei programmi della Cia. Più in generale, però, il dissenso coinvolgeva l’immagine stessa della scienza politica, dei suoi obiettivi e dei suoi metodi di indagine10. I membri del Caucus for a New Political Science (CNPS) – in cui, ai giovani contestatori, si affiancarono anche esponenti all’apparenza molto lontani dalla

10 Cfr. C.W. BARROW, The Intellectual Origins of New Political Science, in «New Political Science», XXX, 2008, n. 2, pp. 215-244, J.S. DRYZEK, Revolutions Without Enemies: Key Transformation in Political Science, in «American Political Science Review», vol. 100, 2006, n. 4, pp. 487-492. J. EHRENBERG, History of the Caucus for a New Political Science, in «New Political Science», XXI, 1999, n. 3, pp. 417–420; D. RICCI, The Tragedy of Political Science, New Haven, Yale University Press, 1984, R. SEIDELMAN, Disenchantend Realists. Political Science and the American Crisis, 1884-1984, Albany, State University of New York Press, 1985.

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temperie della contestazione, come per esempio Hans J. Morgenthau e Leo Strauss – richiedevano infatti che la comunità politologica americana rendesse «lo studio della politica rilevante per la lotta per un mondo migliore»11. Al centro della polemica del Cnps stava la convinzione che la scienza politica dovesse tornare a riscoprire la tensione militante a favore di una trasformazione radicale della società che aveva contrassegnato le scienze sociali nella prima metà del Novecento, e che invece – nel clima della Guerra Fredda – era stata del tutto abbandonata in nome dell’ideale della neutralità della ricerca. I contestatori reclamavano pertanto che i politologi collocassero al centro delle loro discussioni problemi cruciali come le discriminazioni sessuali e razziali, oltre che ovviamente la politica imperialista degli Stati Uniti12. Ma una simile posizione, che scaturiva naturalmente dalla esplicita rivendicazione di un progressismo radicale, si scontrava con uno dei principi di base della disciplina, fissato nel secondo articolo dello Statuto dell’Apsa, il quale escludeva nettamente che l’associazione potesse intervenire nel dibattito politico13.

Quasi tutti i motivi polemici dei contestatori si trovavano efficacemente condensati all’interno di The Theory of Democratic Elitism. Nelle pagine del pamplhet di Bachrach – il quale divenne ben presto un punto di riferimento all’interno del Caucus, tanto da essere candidato dal Cnps, alcuni anni dopo, alla presidenza dell’Apsa14 –riaffioravano infatti molti dei temi che le mobilitazioni per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam avevano contribuito a rendere popolari anche al di fuori dei campus universitari, e che i politologi radicali avevano portato polemicamente all’attenzione della disciplina. Il libro di Bachrach si concentrava però su un obiettivo specifico, e cioè su quella teoria della democrazia che veniva definita, già nel titolo, come «elitismo democratico».

Quando ricostruiva la genesi della visione ‘elitista’ della democrazia, Bacharch riteneva, non senza ragione, che l’intuizione di fondo si trovasse anticipata già nella dottrina della classe politica di Gaetano Mosca, e più precisamente nella seconda edizione degli Elementi di scienza politica. Pur senza mettere in discussione la propria concezione della politica e della società, alla metà degli anni Venti Mosca aveva infatti rivisto le proprie posizioni giovanili, e

11 CAUCUS FOR A NEW POLITICAL SCIENCE, Constitution, citato in C.W. BARROW, The Intellectual Origins of New Political Science, cit., p. 215.

12 Esempi delle posizioni sviluppate all’interno Caucus sono offerti principalmente da P. GREEN – S. LEVINSON (a cura di), Power in Community. Dissenting Essays in Political Science, New York, Random House, 1970; C.A.MCCOY – J. PLAYFORD (a cura di), Apolitical Politics. A Critique of Behavioralism, New York, Thomas Y. Crowell, 1967; M. SURKIN – A. WOLFE (a cura di), An End to Political Science. The Caucus Papers, New York, Basic Books, 1970.

13 Cfr. in tal senso C. BAY, To the Editor, in «American Political Science Review», vol. 61, 1967, n. 4, p. 1096, H.M. ROELOFS, To the Editor, in «PS», I, 1968, n. 1, pp. 38-40.

14 Bachrach fu in effetti candidato dal Cnps alla Presidenza dell’Apsa nel 1972 e nel 1973, ottenendo rispettivamente il 49,5% e il 45,6% dei voti. Cfr. C.W. BARROW, The Intellectual Origins of New Political Science, cit., pp. 237-238.

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soprattutto aveva riconosciuto i pregi dello Stato rappresentativo, capace di estendere di fatto «a quasi tutte le forze politiche» la partecipazione «alla direzione politica della società»15. Bachrach riconosceva proprio in questo nuovo modo di concepire la classe politica – non più considerata come un’unità compatta e omogenea, bensì come un insieme di frazioni fra loro in competizione – il mutamento più significativo e lo stesso nucleo concettuale dell’«elitismo democratico»16. Ovviamente, quando Bachrach indicava in Joseph A. Schumpeter il vero padre dell’«elitismo democratico», si riferiva però soprattutto alla quarta sezione di Capitalism, Socialism and Democracy, e in particolare a quelle pagine – in realtà piuttosto scarne – in cui l’economista austriaco si era proposto di delineare «un’altra dottrina della democrazia», contrapposta alla «dottrina classica», costruita nei secoli dai pensatori democratici. Proprio in quelle pagine, Schumpeter aveva tentato di proporre una definizione ‘realistica’ della democrazia: una definizione che rinunciava a considerare la democrazia come un insieme di ideali da perseguire (come l’eguaglianza, la giustizia sociale, la partecipazione) e che si limitava invece a individuare gli strumenti istituzionali specifici dei regimi democratici. Abbandonando dunque l’immagine della democrazia come ‘autogoverno del popolo’ e l’idea che la democrazia si dovesse fondare realmente sulla partecipazione politica dei cittadini, Schumpeter aveva ridotto la democrazia a «un metodo politico, uno strumento costituzionale per giungere a decisioni politiche – legislative ed amministrative – che non può diventare fine in sé a prescindere da ciò che quelle decisioni produrranno in condizioni storiche date»17. Benché Schumpeter fosse piuttosto

15 G. MOSCA, Elementi di scienza politica, Bari, Laterza, 1959, II, p. 212 (la seconda edizione era apparsa originariamente nel 1923).

16 In quegli stessi anni, seppur articolando una valutazione ben diversa, anche altri lettori di Mosca riconoscevano come la revisione della classe politica avesse effettivamente anticipato l’operazione di Schumpeter: cfr. per esempio N. BOBBIO, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari, Laterza, 1969, e G. MARANINI, Storia del potere in Italia. 1848-1867, Milano, Corbaccio, 1995 (I ed. Firenze, Vallecchi, 1967). Per un esame dei due modelli teorici, cfr. comunque M. STOPPINO, Democrazia e classe politica: un confronto tra Joseph A. Schumpeter e Gaetano Mosca (1973), in ID., Potere ed élites politiche. Saggi sulle teorie, Milano, Giuffrè, 2000, pp. 239-258.

17 J.A. SCHUMPETER, Capitalism, Socialism and Democracy, London, George Allen & Unwin, 1954 (I ed. 1942), trad. it. Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etas, 2001, p. 252. Senza alcuna pretesa di completezza, tra i lavori che affrontano il contributo ‘politologico’ di Schumpeter e la sua teoria della democrazia, possono essere segnalati: D. ARGERI, La teoria della democrazia nel pensiero di J.A. Schumpeter, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988; T. BOTTOMORE, Between Marginalism and Marxism: The Economic Sociology of J.A. Schumpeter, New York, St. Martin’s Press, 1992; M. FERRERA, Schumpeter e il dibattito sulla teoria «competitiva» della democrazia, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», XIV, 1984, n. 3, pp. 413-432; P. MEAGLIA, Schumpeter politico: interpretazioni ed usi, in «Teoria politica», XVI, 2000, n. 2, pp. 63-76; J. MEDEARIS, Ideology, Democracy and the Limits of Equilibrium: A Schumpeterian Critique, in «British Journal of Political Science», 2001, n. 2, pp. 355-388; D. MILLER, The competitive model of democracy, in G. DUNCAN (a cura di), Democratic theory and practice, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, P.P. PORTINARO, Il custode dell’economia, in «Comunità»,

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scettico sulle capacità critiche dell’opinione pubblica e sulla effettiva ‘razionalità’ dell’elettore, la sua definizione ‘minima’ della democrazia non richiedeva necessariamente la passività dei cittadini. Al contrario, la sua proposta definitoria puntava a rendere compatibile lo «strumento» democratico anche con ideologie differenti da quella liberaldemocratica, e così il ragionamento dell’economista non pareva neppure escludere che, in alcune fasi, i regimi democratici potessero effettivamente perseguire quegli ideali di eguaglianza e partecipazione innalzati dalla «dottrina classica», o persino che un sistema economico socialista (ossia basato sulla pianificazione e sul ruolo centrale dello Stato) potesse coesistere con lo strumento democratico. Il punto chiave della sua argomentazione consisteva però nella convinzione secondo cui la democrazia – in quanto semplice strumento – risultava in fondo compatibile con tutte le finalità di volta in volta proposte dalle differenti leadership politiche vincitrici della competizione elettorale. In altre parole, il carattere democratico del regime dipendeva non dagli obiettivi e dai risultati delle forze politiche al comando, bensì dallo strumento adottato per giungere a decisioni politiche e per selezionare la leadership.

Naturalmente Schumpeter non fu il solo a promuovere una revisione in senso ‘realistico’ della teoria democratica. Nello stesso anno in cui comparve Capitalism, Socialism and Democracy, Eric Elmer Schattschneider pubblicò per esempio Party Government, in cui la democrazia veniva definita come un regime politico in cui il potere era detenuto non dal popolo, bensì dai partiti, in competizione fra loro per il voto popolare18. E, più o meno in quegli stessi anni, anche Ferdinand Hermens sviluppò una riflessione simile, seppur indirizzata soprattutto verso una radicale critica del sistema elettorale proporzionale19. Ciò nonostante, Bachrach individuava proprio nelle pagine di Schumpeter il pilastro fondativo dell’«elitismo democratico», un filone in cui venivano collocati autori piuttosto differenti, come John Plamenatz, Giovanni Sartori, William Kornhauser, David Truman e Robert Dahl, oltre che le conclusioni di quegli studiosi del comportamento elettorale che, scoprendo la sostanziale passività politica di buona parte della popolazione americana, giungevano ad affermare che l’apatia e il disinteresse avevano in fondo una funzione positiva per la stabilità della 1983, n. 185, pp. 49-77; E. SANTORO, Democratic theory and individual autonomy: An interpretation of Schumpeter’s doctrine of democracy, in «European Journal of Political Research», XXIII, 1993, n. 2; L. J.O’ TOOLE Jr., Schumpeter’s «Democracy»: A Critical View, in «Polity», IX, 1977, n. 4, pp. 446-462, G. URBANI, Schumpeter e la scienza politica, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», XIV, 1984, n. 3, pp. 383-412.

18 E.E. SCHATTSCHNEIDER, Party Government. American Government in Action, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1942.

19 Cfr. l’analisi sviluppata da F.A. HERMENS, Demockratie und Kapitalismus: ein Versuch zur Sociologie der Staatsformen, München, Duncker & Humblot, 1931, poi ripresa e affinata in ID., The Representative Republic, Notre Dame (Ind.), University of Notre Dame Press, 1958, trad. it. La democrazia rappresentativa, Firenze, Vallecchi, 1968.

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democrazia. Il successo dell’eredità di Schumpeter era, secondo Bachrach, il riflesso di un’età che nutriva «scarsa fiducia nell’uomo comune» 20. Anche per reazione all’esperienza tragica degli anni Venti e Trenta, che aveva dimostrato come proprio l’«uomo comune» fosse particolarmente disponibile alla seduzione dei totalitarismo, una componente significativa degli intellettuali americani aveva infatti iniziato a riabilitare il ruolo direttivo delle élite, e così ad affidare proprio a queste ultime – e non più ai cittadini e alla loro attiva partecipazione – le sorti della convivenza democratica. Ma le conseguenze cui aveva condotto l’adozione della proposta schumpeteriana avevano finito col produrre conseguenze radicali. Nella riduzione della democrazia a un «metodo», Bachrach ritrovava infatti il passaggio teorico cruciale che aveva consentito di recidere il legame fra le istituzioni democratiche e i più ambiziosi valori della teoria democratica, e dunque di riconoscere la democrazia esclusivamente nelle istituzioni già esistenti: istituzioni solo da preservare, ma non da migliorare ulteriormente. «Partendo dalla riduzione della democrazia a un metodo politico, sulla base di ciò che Schumpeter considerava semplice logica e buon senso», scriveva infatti, «si aprì la via alla rettificazione della democrazia, subordinandola, per esempio, all’interesse della protezione della libertà, ed evitando così difficoltà ed equivoci molesti»21. In sostanza, passando dalla breccia aperta da Schumpeter, era dunque diventato possibile abbandonare «una filosofia politica fondata sulla dignità e il valore dell’uomo» per «professare invece una lealtà a un metodo politico dal quale ci si attende la protezione della libertà individuale, della giustizia, e così via»22. Grazie al successo di questa operazione, ogni critica all’inadeguatezza delle istituzioni presenti non poteva però che risultare del tutto spuntata, dal momento che alla democrazia non erano più richieste una società più giusta, una maggiore partecipazione popolare o l’educazione del popolo, bensì soltanto la periodica scelta fra leadership alternative.

Al di là dell’influenza esercitata dal contesto politico, l’aspetto probabilmente decisivo nel determinare il successo della proposta schumpeteriana fu probabilmente legato alla promessa di ‘realismo’ della teoria delineata in Capitalism, Socialism and Democracy. Il carattere ‘realistico’ della nuova dottrina offriva in effetti la possibilità di sbrogliare una serie di questioni, ma, soprattutto, come aveva notato lo stesso Schumpeter, stabiliva «un criterio ragionevolmente pratico per distinguere i governi democratici dai governi che non sono tali»23. Dal momento che si concentrava solo su un metodo istituzionale, e non sulla fisionomia ideologica di un regime, la nuova definizione rendeva infatti piuttosto agevole accertare se un determinato regime adottasse lo strumento elettorale per selezionare la leadership, e se le

20 P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, cit., p. 40.21 Ibi, p. 29.22 Ibidem.23 J.A. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo e democrazia, cit., p. 279.

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elezioni fossero realmente competitive. E proprio tali possibilità sarebbero state colte dal successivo dibattito politologico, perché – a prescindere dalla lettura critica che ne faceva Bachrach, e che certo induceva a enfatizzarne il ruolo – la proposta definitoria di Schumpeter, capace di porre le basi di una teoria ‘realistica’ della democrazia, consegnò davvero alla scienza politica postbellica uno strumento fondamentale, il «nocciolo sottoscritto, difeso e sviluppato da Sartori, in compagnia di Dahl, Friedrich, Lipset, Bobbio»24. Ed era in fondo proprio a questi elementi, e alle loro conseguenze, che gli anti-elitisti rivolgevano alcune delle critiche più penetranti.

Quando si volgeva contro la teoria realistica della democrazia, la critica degli anti-elitisti Bachrach si articolava comunque su due piani differenti, fra loro non privi di connessioni. Da un primo punto di vista, il bersaglio polemico era rappresentato dall’impoverimento della nozione di democrazia. Da un secondo punto di vista, la critica si indirizzava invece contro la stessa pretesa di ‘realismo’ dell’«elitismo democratico». Sotto il primo profilo, la critica principale nasceva dal fatto che, quasi senza eccezioni, gli anti-elitisti, oltre a condividere una rappresentazione piuttosto pessimista della situazione delle società occidentali (e in particolare di quella americana), partivano da un’idea di democrazia molto più esigente rispetto a quella di Schumpeter e dei suoi continuatori25. Per esempio, Jack L. Walker rivolgeva all’elitismo democratico la responsabilità di aver rinunciato alla componente prescrittiva della dottrina classica in nome dell’istanza di realismo, e di avere così trasformato elementi come la

24 Cfr. A. PAPPALARDO, La competizione in teoria e in pratica, in G. PASQUINO (a

cura di), La scienza politica di Giovanni Sartori, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 107-151, specie p. 110. Sulle orme della proposta schumpeteriana si collocano d’altronde, pur con un contributo originale, testi classici come per esempio: R.A. DAHL, A Preface to Democratic Theory, Chicago, University of Chicago Press, 1956, trad. it. Prefazione alla teoria democratica, Milano, Comunità, 1994, C.J. FRIEDRICH, Man and his Government, New York, McGraw-Hill, 1963, S.M. LIPSET, Political Man. The social bases of politics, New York, Doubleday, 1960, G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino, 1957, ID., Democratic Theory, Praeger, New York, 1965, e ID., The Theory of Democracy Revisited, Chatham House, Chatham, 1987.

25 Cfr. per esempio J.L. WALKER, A Critique of the Elitist Theory of Democracy, in «American Political Science Review», vol. 60, 1966, pp. 285-295, L. DAVIS, The Cost of Realism: Contemporary Restatements of Democracy, in «Western Political Quarterly», XVII, 1964, pp. 37-46, G. DUNCAN – S. LUKES, The New Democracy, in «Political Studies», XI, 1963, pp. 156-177, S.W. ROUSSEAS – J. FARGANIS, American Politics and the End Ideology, in «British Journal of Sociology», XIV, 1963, pp. 347-362, M.L. GOLDSCHMIDT, Democratic Theory and Contemporary Political Science, in «Western Political Quarterly», XIX, 1966, pp. 5-12, H.S. KARIEL, The Decline of American Pluralism, Stanford, Stanford University Press, 1961, e ID., The Promise of Politics, Engelwood Cliffs, Prentice-Hall, 1966, J.C. LIVINGSTON – R.G. THOMPSON, The Consent of the Governed, New York, MacMillan, 1966, trad. it. Il consenso dei governanti, Milano, Giuffrè, 1971. Per un esame del dibattito, cfr. M. STOPPINO, Elites, democrazia e partecipazione politica, in P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, cit., pp. VII-XXXII, ora in M. STOPPINO, Potere ed élites politiche, cit., pp. 259-281, mentre alcuni contributi interessanti sono contenuti in H. BEST – J.HIGLEY (a cura di), Democratic Elitism: New Theoretical and Comparative Perspective, Leiden – Boston, Brill, 2010.

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stabilità e l’efficienza delle istituzioni negli obiettivi primari della democrazia26. In sostanza, il «costo del realismo», come lo definiva Lane Davis, consisteva nella perdita di tensione verso un ulteriore ampliamento della democrazia: dato che la teoria ‘realistica’ si limitava a ‘descrivere’ le condizioni del sistema esistente, prescriveva la sua preservazione e rappresentava (almeno implicitamente) ogni possibile trasformazione solo come una minaccia alla stabilità delle istituzioni27. E, in termini simili, delineando la visione di una democrazia partecipativa, anche Carol Pateman imputava alla dottrina elaborata da Schumpeter la responsabilità di avere impoverito il concetto di democrazia, dal momento che era giunta sino al paradosso di eliminare la partecipazione popolare dai presupposti qualificanti della convivenza democratica28.

Tutte queste componenti della polemica anti-elitista si ritrovavano per molti versi sintetizzate nella critica di Bachrach, che in effetti sosteneva che la revisione ‘realistica’ del concetto aveva sancito uno scarto in negativo rispetto ai valori della «teoria classica della democrazia». Per Bachrach, si trattava di una teoria per cui la democrazia, all’apparenza, doveva «rimanere al di sopra di tutte le ideologie, e limitarsi al compito di raggiungere delle decisioni sui problemi concreti e di mantenere contemporaneamente aperto il futuro»29. Ma, sebbene adottasse «un’impostazione esplicativa piuttosto che normativa», l’elitismo democratico si rivelava in realtà saldamente radicato in «un’ideologia fondata su una profonda diffidenza verso la maggioranza degli uomini e delle donne comuni, e sulla fiducia che le élite costituite sappiano salvaguardare i valori della convivenza civile e le ‘regole del gioco’ della democrazia»30. In altre parole, la promessa di ‘realismo’ nascondeva un volto molto più inquietante, perché l’esigenza di un’impostazione puramente esplicativa (e non normativa) trasformava la teoria realistica della democrazia in uno strumento di legittimazione dello status quo e dell’apatia politica delle masse, intese invariabilmente come un pericolo per la stabilità e l’efficienza del regime. L’elitismo democratico si profilava così come «un’ideologia che riflette da vicino e difende i principi liberali espressi nella rule of law e nei diritti individuali alla libertà di coscienza e di espressione e alla salvaguardia della privacy», un’ideologia che, se certo «abbraccia il liberalismo,

26 Cfr. J.L. WALKER, A Critique of the Elitist Theory of Democracy, cit. Era

peraltro lo stesso Walker a proporre l’idea una «teoria elitista della democrazia», che Bachrach avrebbe ripreso.

27 L. DAVIS, The Cost of Realism, cit.; ma cfr. anche G. DUNCAN – S. LUKES, TheNew Democracy, cit.

28 Cfr. C. PATEMAN, Partecipation and Democratic Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1970. Per considerazioni simili, seppure proposte all’interno di una comparazione fra la democrazia ateniese e i regimi democratici contemporanei, si veda anche M.I. FINLEY, Democracy Ancient and Modern, London, 1973, trad. it. La democrazia degli antichi e dei moderni, Bari, Laterza, 1973.

29 P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, cit., p. 35.30 Ibi, p. 152.

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[…] respinge, in realtà, il presupposto principale della teoria democratica classica – la fede e la fiducia nel popolo»31. La separazione fra il piano normativo e il piano descrittivo, delineata da Schumpeter, si traduceva dunque in una soddisfatta descrizione della realtà effettuale, che non poteva che escludere qualsiasi tentativo di allargamento della ‘democraticità’ del sistema. Inoltre, tutta la teoria si fondava sul presupposto di una visione ristretta del fenomeno politico: una visione in virtù della quale l’area del «politico» si limitava esclusivamente «al processo di formazione delle decisioni governative e a quanto è ad esse collegato»32. La scelta di adottare di una prospettiva esclusivamente ‘descrittiva’ conduceva così a due conclusioni principali:

a) gli attuali sistemi democratici, caratterizzati dal governo dell’élite e dalla passività della massa, soddisfano pienamente i requisiti della teoria democratica; e b) qualsiasi idea che suggerisca di allontanarsi dal sistema esistente, per conseguire un rapporto maggiormente egualitario tra le élites e la massa, è oggettivamente irrealistico33.

Sotto il secondo profilo, la critica sviluppata dagli anti-elitisti nasceva invece dalla convinzione che la teoria ‘realistica’ della democrazia non fosse in grado di cogliere davvero la ‘realtà’ del potere e che, in particolare, non fosse in grado di comprendere come, dietro la facciata democratica, agisse una (più o meno) compatta élite dominante. Ad aprire questa linea polemica era stata per molti versi l’indagine condotta da Floyd Hunter sulla struttura del potere locale nella città di Atlanta34, ma fu soprattutto Charles Wright Mills, nel suo celebre The Power Elite, ad anticipare molti dei motivi della successiva politica anti-elitista. Alla metà degli anni Cinquanta, Mills riteneva infatti che le trasformazioni innescate dalla Seconda Guerra Mondiale spingessero verso la fusione delle classi dirigenti – economica, militare e politica – in un’unica élite, ideologicamente compatta e socialmente omogenea. «Il sistema americano del potere», scriveva pertanto Mills, «è tale per cui il vertice è molto più unificato e molto più potente e la base molto più disunita perché impotente, di quanto suppongano generalmente coloro che si lasciano fuorviare osservando gli strati medi del potere stesso»35. E la conseguenza era che le pretese di democraticità e pluralismo del sistema americano risultavano fortemente ridimensionate, sia sotto il profilo dell’eguaglianza, sia sotto quello della partecipazione (reale o potenziale) dei cittadini alle principali scelte politiche. I risultati della ricerca di Mills dovevano

31 Ibidem.32 Ibi, p. 157.33 Ibi, pp. 158-159.34 Cfr. F. HUNTER, Community Power Structure. A Study of Decision Makers,

Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1953.35 C.W. MILLS, The Power Élite, Oxford University Press, New York, 1956, trad.

it. La élite del potere, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 35-36.

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risultare inoltre ulteriormente rafforzati da quanto, pochi anni dopo, emergeva dai Persuasori occulti di Vance Packard. Dalle pagine di Packard, infatti, tanto l’idea di un cittadino responsabile, capace di esaminare criticamente i messaggi, quanto l’idea del controllo esercitato dal «Quarto potere» dovevano rivelarsi soltanto come semplificazioni ormai del tutto irrealistiche36. Ed era in fondo proprio sull’esigenza di «realismo» che Mills metteva l’accento. In altre parole, il punto cruciale del suo ragionamento era rappresentato dal fatto che la centralizzazione (economica, politica e militare) consegnava all’élite un potere che le società del passato non avevano mai effettivamente sperimentato. «La volontà di questi uomini è sempre limitata, ma mai prima d’oggi quei limiti sono stati così vasti, perché mai prima d’oggi gli strumenti sono stati così sterminati»37. Era dunque proprio questa nuova situazione a richiedere «una miglior comprensione dei poteri e dei limiti della élite americana», e «l’unica maniera realistica e seria di sollevare ancora il problema del governo responsabile», scriveva Mills, era «affrontare un altro problema, quello della natura e del potere di questa élite»38.

Attorno all’immagine della piramide sociale avvalorata (seppur secondo strategie differenti) da Hunter e Mills prese le mosse uno dei dibattiti probabilmente più importanti della scienza politica postbellica. Al centro di quella discussione stava naturalmente la contrapposizione fra differenti prospettive metodologiche, ma una delle implicazioni principali consisteva proprio nella rappresentazione della distribuzione del potere nella società americana. Se nell’ottica «neo-elitista» di Hunter e Mills, la società tendeva ad assomigliare a una piramide, al cui vertice si concentravano tutte le risorse di potere, secondo la visione «pluralista», ovviamente meno pessimista, il sistema politico americano – sia a livello locale, sia a livello federale –continuava a configurarsi come una «poliarchia», ossia come un insieme di gruppi, i quali venivano a limitare reciprocamente le rispettive ambizioni e a impedire dunque che un unico gruppo potesse controllare interamente i processi decisionali39. Protrattosi fino alla metà degli anni Settanta40, il dibattito investì anche altri nodi teorici e

36 Cfr. V. PACKARD, The Hidden Persuaders, London, Longman, 1958, trad. it. I

persuasori occulti, Torino, Einaudi, 1960.37 C.W. MILLS, La élite del potere, cit., p. 32. 38 Ibidem.39 Cfr. in tal senso per esempio R.A. DAHL, A Critique of the Ruling Elite Model,

in «American Political Science Review», LX, 1966, pp. 296-305, trad. it. Critica al modello dell’élite dominante, in S. PASSIGLI (a cura di), Potere ed élites politiche, Bologna, Il Mulino, 1971, pp. 133-140. Ma la tesi di Dahl veniva soprattutto confermata dalla celebre analisi condotta su New Haven: cfr. R.A. DAHL, Who Governs? Democracy and Power in an American City, New Haven, Yale University Press, 1961, oltre che N.W. POLSBY, Community Power and Political Theory, New Haven, Yale University Press, 1963 (II ed. 1980).

40 Sul dibattito, cfr. N. BOBBIO, Élites, teoria delle, in N. BOBBIO, N. MATTEUCCI,G. PASQUINO (a cura di), Dizionario di politica, Torino, Utet, 19832, pp. 350-356, C.M. BONJEAN, D.M. OLSON, Community leadership: Directions of research, in «Administrative Science Quarterly», IX (1964), pp. 278-300, D. DELLA PORTA, La

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metodologici, e i critici del pluralismo, pur abbandonando la strumentazione metodologica di Hunter e Mills, non accantonarono l’intento di mostrare l’esistenza di élite del potere più o meno occulte, ma in ogni caso capaci di alterare in modo significativo la dinamica democratica41. Al centro dei loro interessi doveva dunque essere collocata la visione ‘comportamentista’ del potere42, nella direzione di un’indagine di quella che lo stesso Bachrach, insieme a Morton Baratz, definì in un articolo fondamentale come l’«altra faccia del potere»43. Secondo traiettorie non sempre del tutto convergenti, queste riflessioni puntavano allora a dimostrare che alcuni settori della popolazione tendevano a essere esclusi dall’arena decisionale e che i gruppi dominanti riuscivano a esercitare un dominio fondato non soltanto sul potere ‘visibile’, bensì anche su forme di manipolazione ideologica più sottili e persino ‘invisibili’44. politica locale. Potere, istituzioni e attori tra centro e periferia, Bologna, Il Mulino, 20012 (in particolare pp. 23-51), M. STOPPINO, Potere ed élites politiche, A. PANEBIANCO (a cura di), L’analisi della politica. Tradizioni di ricerca, modelli, teorie, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 221-253, ora in M. STOPPINO, Potere ed élites politiche, cit., pp. 1-48. Più in generale, sulla discussione intorno alle élite (e alla loro pluralità), si vedano R. ARON, Social Class, Political Class, Ruling Class, in «European Journal of Sociology», 1960, pp. 260-281, trad. it. Classe sociale, classe politica, classedominante, in R. BENDIX – S.M. LIPSET (a cura di), Classe, potere, status. II: Status e rapporti di potere, Padova, Marsilio, 1970, pp. 7-23, G. PARRY, Political Elites, Allen and Unwin, London, 1969, trad. it. Le élite politiche, Bologna, Il Mulino, 1972, oltre che i contributi raccolti in S. PASSIGLI (a cura di), Potere ed élites politiche, cit.

41 In questo filone critico si inserivano per esempio M. CONNOLLY, The Bias of Pluralism, New York, Atherton Press, 1969, G.W. DOMHOFF, Who Rules America?, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1967, H.S. KARIEL, The Decline of American Pluralism, cit., E.E. SCHATTSCHEIDER, The Semi-Sovereign People, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1960, G. MCCONNELL, Private Power and American Democracy, New York, Alfred A. Knopf, 1966, S. ONO, The Limits of Bourgeois Pluralism, in «Studies on the Left», V, 1965, 46-72, M. PARENTI, Power and Pluralism: A View from the Bottom, in «The Journal of Politics», XXXII, 1970, n. 3, pp. 501-530. Su una linea diversa, che pure metteva in discussione la classica raffigurazione pluralista del sistema politico americano, si collocava invece la posizione di T.J. LOWI, The End of Liberalism, New York, W.W. Northon & Co., 1969.

42 Cfr., per esempio, R. DAHL, The Concept of Power, in «Behavioral Science», II, 1957, pp. 201-215, poi in J. SCOTT (a cura di), Power: Critical Concepts, London, Routledge, 1994, e ID., Power, in D.L. SHILS (a cura di), International Encyclopedia of the Social Sciences, New York, Crowell, Collier and Macmillan, 1968, poi in S.LUKES (A CURA DI), Power, Oxford – New York, Blackwell – New York University Press, 1986.

43 P. BACHRACH – M.S. BARATZ, The Two Face of Power, in «American Political Science Review», vol. 56, 1962, pp. 941-952, trad. it. Le due facce del potere, in S. PASSIGLI (a cura di), Potere ed élites politiche, cit., pp. 145-153, ID., Decisions and Nondecisions: An Analytical Framework, in «American Political Science Review», vol. 57 (1963), e ID., Power and Poverty. Theory and Practice, Oxford University Press, New York, 1970, trad. it. Le due facce del potere, Padova, Liviana, 1986.

44 Esempi di questo percorso erano sia la ricerca di M.A. CRENSON, The Un-Politics o Air Pollution: A Study of Non-Decision-making in the Cities, Baltimora, Johns Hopkins Press, 1971 (in cui vengono sviluppate le intuizioni di Bachrach e Baratz sulla ‘seconda faccia’ del potere), sia la riflessione di S. LUKES, Power. A radical View, London, MacMillan, 1974, trad. it. Il potere. Una visione radicale, Milano, Vita e Pensiero, 2007. Non mancavano peraltro sviluppi che esplicitavano un

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Al fondo della ricerca sulla faccia nascosta del potere stava ovviamente la convinzione che, sotto il velo di una società democratica, si celasse una realtà molto diversa, in cui l’effettiva partecipazione popolare e l’eguaglianza politica rimanevano soltanto ideali molto lontani dall’essere raggiunti. E anche per questo la critica che metteva in questione l’ambizione ‘realistica’ dell’elitismo democratico veniva a legarsi strettamente alla polemica che imputava agli alfieri del nuovo realismo democratico la sostanziale rinuncia ai più autentici ideali della democrazia. In questo senso, Walker sosteneva per esempio che l’elitismo offriva una pessima guida alla ricerca empirica, perché suggeriva «una spiegazione non convincente dell’apatia diffusa nella società americana» e perché conduceva gli scienziati politici a «ignorare le manifestazioni di dissenso non direttamente connesse al sistema politico»45. In termini ancora più espliciti, Bachrach osservava invece che, se lo scienziato voleva davvero condurre uno studio «realistico», il suo compito principale era «riconoscere che molti aspetti dei cosiddetti centri privati di potere attualmente esistenti sono di natura politica, e perciò suscettibili di un’ampia e democratica partecipazione ai processi decisionali»46. Sviluppando una posizione più vicina al marxismo, T.B. Bottomore sosteneva invece che, poiché si limitavano a considerare la dimensione istituzionale delle società occidentali, e dunque le condizioni formali dell’uguaglianza politica, le revisioni elitiste finivano col considerare la diseguaglianza sociale come un fenomeno privo di rilevanza politica, o comunque ininfluente per comprendere se un sistema fosse davvero democratico. Come sintetizzava infatti in Elites and Society, alla metà degli anni Sessanta:

Le attuali teorie delle élite hanno definito la democrazia molto semplicemente come una forma di governo di una intera societàescludendo così dalla definizione qualsiasi fattore non politico, […] ed evitando, per quanto possibile, di considerare l’influenza che dettifattori possono esercitare sulla forma di governo stessa. Questo significa, però, trascurare o rifiutare un concetto fondamentale di sociologia, e cioè, che le istituzioni esistenti nelle diverse sfere della società non coesistono semplicemente ma sono connesse l’una all’altra da rapporti di armonia o di contraddizione e subiscono una influenza reciproca, che fu mirabilmente formulata da Marx […] quando dichiarò che era un grave errore distinguere nettamente il cittadino (cioè un individuo dotato di diritti politici) dal membro della

più forte legame con la prospettiva marxista, come, per esempio, F.F. PIVEN – R.A.CLOWARD, Regulating the Poor. The Functions of Public Welfare, New York, Pantheon Books, 1971, e R. MILIBAND, The State in Capitalist Society, London, Weidenfeld & Nicholson, 1969, trad. it. Lo Stato nella società capitalistica, Bari, Laterza, 1971.

45 J.L. WALKER, A critique of the elitist theory of democracy, cit., p. 295.46 P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, cit., p. 165.

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società civile (cioè un individuo impegnato in una vita familiare e in una produzione economica)47.

Una critica come quella di Bottomore, analogamente d’altronde a quelle di molti protagonisti della polemica anti-elitista, non si limitava comunque a un piano puramente scientifico. In effetti, la necessità di rivedere il concetto di democrazia, estendendolo fino a ricomprendere ambiti esterni alla dimensione strettamente istituzionale del sistema politico, costituiva in qualche modo la premessa di un programma di generale democratizzazione delle istituzioni economiche. Bottomore, per esempio, sosteneva che l’esistenza di una vera democrazia dipendeva «dalla creazione di quelle condizioni in cui una larga maggioranza di cittadini, se non tutti, possano prendere parte alla decisione di quei problemi sociali che assumono per loro una importanza vitale, nel lavoro, nella comunità locale e nella nazione, e in cui la distinzione tra élite e masse sia ridotta al minimo»48. E, in termini simili, anche Bachrach concludeva il proprio pamphlet sostenendo che una reale attuazione dei principi democratici richiedeva una ‘politicizzazione’, e dunque una ‘democratizzazione’, dei centri privati di potere, e cioè di quegli ambiti – «la fabbrica, l’ufficio, l’impresa» – in cui «la durezza del dominio dell’uomo sull’uomo si rivela pienamente»49.

2. Il valore della democrazia

A dispetto della forza che seppe dimostrare a cavallo fra gli Sessanta e Settanta, l’ondata della polemica anti-elitista si esaurì di fatto piuttosto rapidamente. In parte le istanze del Cnps furono recepite dalla disciplina mainstream50, ma, più in generale, la protesta finì col perdere progressivamente d’intensità, fino ad esaurirsi già attorno alla metà degli Settanta51. E, contemporaneamente, anche i temi sollevati dalla critica anti-elitista finirono per uscire dal cuore del dibattito politologico. Naturalmente il fatto che l’esperienza del Cnps imboccasse l’arco discendente della parabola vitale solo pochi anni dopo aver sferrato l’attacco alla disciplina era in parte il riflesso del

47 T.B. BOTTOMORE, Elites and Society, London, Watts & C., 1964, trad. it. Elite e

società, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 157.48 Ibi, p. 163.49 P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, cit., p. 168.50 Cfr. in tal senso la proposta di D. EASTON, The New Revolution in Political

Science, in «American Political Science Review», vol. 63, 1969, pp. 1051-1061, trad. it. La nuova rivoluzione nella scienza politica, in ID., Il sistema politico, Milano, Comunità, 1973, pp. 349-375.

51 Si vedano al proposito A. WOLFE, Unthinking about the Thinkable: Reflections on the Failure of the Caucus for a New Political Science, in «Politics and Society», I, 1971, n. 3, pp. 398-406, e V. WALLIS, The Caucus at a Turning Point, in «New Political Science», I, 1979, n. 1, pp. 89-92, sulla discussione che aveva condotto a dare origine a una rivista autonoma, capace di raccogliere l’eredità della politologia radicale.

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mutamento di clima politico e dunque della conclusione del ciclo di protesta. Ma, per quanto concerne in modo specifico l’offensiva diretta contro l’elitismo democratico, le motivazioni erano probabilmente anche di carattere teorico. Per molti versi, come è stato spesso sottolineato, le tesi degli anti-elitisti non erano infatti necessariamente in conflitto con la teoria competitiva, e, dunque, non era impraticabile una sorta di ‘aggiornamento’ della definizione schumpeteriana che tenesse conto delle critiche52. Naturalmente ciò non significa però che non esistessero punti di divergenza notevoli, perché sarebbe piuttosto difficile non riconoscere che i critici anti-elitisti esprimevano una notevole distanza dall’immagine dominante della political science, sia in ordine alla visione del ruolo dello scienziato sociale, sia a proposito della concezione degli obiettivi che una società democratica avrebbe dovuto perseguire. E, in questo senso, non era affatto sorprendente che le polemiche del Cnps si fossero indirizzate esplicitamente contro la stessa identità della scienza politica delineatasi nel corso degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, e contro quella che veniva definita come la «mistica professionale» della disciplina53.

L’offensiva degli anti-elitisti si legava infatti strettamente anche all’attacco frontale mosso dal Caucus for a New Political Science proprio contro i principi del vecchio «movimento comportamentista». Benché le sue maggiori ambizioni fossero state ben presto accantonate – e nonostante, come scrisse Dahl, non fosse stato molto più di uno «stato d’animo» caratterizzato da «un senso di scetticismo sul sapere corrente della scienza politica, una certa attrazione per i metodi scientifici di ricerca e analisi, e infine un certo ottimismo circa le possibilità di miglioramento dello studio della politica»54 – il comportamentismo degli anni Cinquanta aveva lasciato nella vicenda della political science nord-americana un’impronta profonda. In generale, secondo la sintesi proposta da David Easton, il comportamentismo politologico aveva nutrito la convinzione che nel comportamento politico fossero individuabili delle regolarità e che tali regolarità dovessero essere accertate mediante l’osservazione empirica e adeguate tecniche di verifica55. Ma soprattutto, se aveva rifiutato la

52 Cfr. in tal senso M. FERRERA, Schumpeter e il dibattito sulla teoria

«competitiva» della democrazia, cit., pp. 423-425, e G. PASQUINO, Nuove teorie della democrazia?, cit. 159-161.

53 Cfr. A. WOLFE, The Professional Mistique, in M. SURKIN – A. WOLFE (a cura di), An End to Political Science, cit., pp. 288-309.

54 R.A. DAHL, The Behavioral Approach for a Monument to a Successful Protest, in «American Political Science Review», vol. 55, 1961, pp. 763-772, trad. it. L’approccio comportamentista nella scienza politica, in G. SARTORI (a cura di), Antologia di Scienza politica, Bologna, Il Mulino, p. 65.

55 Cfr. D. EASTON, The Current Meaning of «Behavioralism» in Political Science, in «The Annals of The American Academy of Political Science», 1962, pp. 1-25; ID., Passato e presente della scienza politica negli Stati Uniti, in «Teoria politica», I (1985), n. 1, pp. 95-114. Una ricostruzione dei principi della rivoluzione comportamentista è offerta anche da G. SOLA, Storia della scienza politica. Teorie,

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prospettiva di una scienza applicata (a favore di una scienza ‘pura’), aveva invece sostenuto l’idea che i valori dei ricercatori dovessero essere «sostanzialmente esclusi dal processo di indagine»56, e che dunque il piano della spiegazione empirica dovesse essere tenuto radicalmente distinto da ogni valutazione etica.

Agli occhi degli alfieri della new political science, dai presupposti della rivoluzione comportamentista era derivata una nutrita serie di conseguenze deleterie, anche se le posizioni non apparivano su questo punto del tutto convergenti. La gran parte delle critiche indirizzate al comportamentismo non giungeva comunque alla conseguenza estrema di negare qualsiasi autonomia all’analisi politologica, perché si limitava a mettere in luce come dietro la pretesa di una piena libertà dai valori si nascondesse un’ideologia dai connotati piuttosto chiaramente conservatori57. Come sottolineava Wolin, proprio introducendo The Theory of Democratic Elitism, il mutamento più rilevante prodotto dal comportamentismo non era giunto tanto dall’adozione di un linguaggio differente da quello del passato, quanto dall’attenzione privilegiata rivolta alla ricerca empirica, in virtù della quale era stato abbandonato ogni riferimento alla dimensione normativa. Proprio per questo Wolin auspicava una «reazione» che incominciasse a chiedersi se non si fosse andati «troppo lontano e troppo in fretta»58. «C’è la sgradevole sensazione che certi punti consolidati dovrebbero essere rimessi in discussione», scriveva, «che siano ignorati importanti aspetti della politica», «che ai problemi della scelta e dei valori debba essere ridata una posizione centrale» e «che i connotati più creativi e prodigiosi della politica siano andati perduti nella preoccupazione per le astrazioni, i grafici e le tavole matematiche»59. E, ovviamente, l’elitismo democratico rappresentava in questo senso la più chiara esemplificazione dei limiti del comportamentismo, sia perché aveva paradossalmente espulso i valori democratici dalla teoria ‘realistica’ della democrazia, sia perché aveva così trasformato la teoria democratica in uno strumento di legittimazione della passività dei cittadini.

ricerche e paradigmi contemporanei, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1996, pp. 61-115.

56 D. EASTON, Passato e presente della scienza politica negli Stati Uniti, cit., p. 100. Su questo specifico punto, Easton aveva peraltro espresso fin dagli anni Cinquanta il proprio disaccordo: cfr. D. EASTON, Il sistema politico, cit.

57 Cfr, per esempio, C. BAY, Politics and Pseudopolitics: A Critical Evaluation of Some Behavioral Literature, in «American Political Science Review», LIV, 1965, n. 1, pp. 39-51, W.E. CONNOLLY, Political Science and Ideology, New York, Atherion Press, 1967, J. PETRAS, Ideology and United States Political Scientist, in C.A. MCCOY

– J. PLAYFORD (a cura di), Apolitical Politics, cit., pp. 76-98, M. SURKIN – A. WOLFE, The Political Dimension of Political Science, in «Acta politica», 1969, pp. 43-61, e L. LIPSITZ, Vulture, Mantis, and Seal: Proposals for Political Scientists, in «Polity», III,1970, n. 1, pp. 3-21.

58 S.S. WOLIN, Introduzione, in P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, cit., p. XXXIV.

59 Ibidem.

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A ben vedere, al di là dell’intensità polemica, lo scontro fra elitisti democratici e anti-elitisti coinvolgeva però solo in parte i presupposti analitici. Come scrisse Theodore J. Lowi, l’attività del Cnps si spostò rapidamente dal tentativo di innescare una «rivoluzione intellettuale» verso l’impegno a incoraggiare una «rivoluzione politica»60. E in effetti anche il contrasto principale della polemica fu di carattere politico, perché il discorso degli anti-elitisti si limitò a esercitare una critica all’ideologia implicita nel modello di scienza proposto dal comportamentismo. Contro una politologia percepita come conservatrice, e contro l’immagine di uno scienziato ‘apolitico’, gli anti-elitisti ritenevano che i politologi dovessero indossare le vesti dell’‘intellettuale militante’, e che cioè dovessero svolgere un ruolo critico nei confronti della società e del sistema democratico, appoggiando per esempio le rivendicazioni pacifiste, lo sviluppo del movimento femminista, le mobilitazioni degli strati più poveri della popolazione. E, anche per questo, il dibattito si configurò soprattutto come una contrapposizione fra due diverse concezioni normative della democrazia. Per un verso, gli anti-elitisti denunciavano infatti come il ‘realismo’ della teoria schumpeteriana fosse solo apparente e come dietro la bandiera della neutralità di nascondesse un liberalismo conservatore e diffidente nei confronti delle masse. Per l’altro, sostenevano la necessità di riscoprire gli autentici valori della tradizione democratica, ossia, come scriveva Bachrach, la convinzione che «una partecipazione più attiva alle decisioni importanti della comunità produce nella maggior parte degli individui un maggior rispetto di sé e una più piena affermazione della propria personalità»61. Il punto è però che, se erano in disaccordo sul contenuto dei valori effettivamente democratici, in realtà non mettevano affatto in discussione l’idea che fosse possibile distinguere la ‘realtà’ della democrazia dai ‘valori’ democratici. A ben guardare, tanto gli «elitisti democratici» quanto i loro avversari «anti-elitisti» sembravano così condividere l’idea che, nella definizione della democrazia, fosse possibile isolare il piano ‘descrittivo’ dal piano ‘normativo’, sebbene i due schieramenti assegnassero a ciascuno dei due piani una rilevanza diversa. In questo modo, però, più che innescare una vera e propria contrapposizione fra realismo e idealismo, il dibattito dava origine a una contrapposizione fra due visioni normative della democrazia, che – per gli stessi presupposti da cui scaturiva – non poteva che risultare logicamente insolubile.

Un’efficace esemplificazione del tipo di polemica sviluppata dagli anti-elitisti era rappresentato proprio dalla critica indirizzata da Bachrach a un passo importante di Capitalism, Socialism and Democracy. Per dimostrare l’utilità della concezione della democrazia come semplice «metodo» politico, fondato su elezioni competitive, Schumpeter ricorreva infatti a quello che definiva un «esperimento

60 T.J. LOWI, The Politicization of Political Science, in «American Politcs Quarterly», 1973, pp. 43-71.

61 P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, cit., p. 163.

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mentale», evidentemente provocatorio, nel quale evocava lapossibilità che un regime democratico attuasse una feroce repressione di dissidenti religiosi, o praticasse la caccia alle streghe, o perseguitasse gli ebrei. «Questa prassi non sarà certo approvata da noi perché è stata decisa in base alle norme procedurali democratiche», scriveva, «ma il problema è se preferiremmo una costituzione democratica che ha dato quei frutti a una costituzione antidemocratica che non li dà»62. Con il suo esperimento, Schumpeter tentava di chiarire come la democrazia non fosse mai, realmente, un valore superiore, o un fine in sé autonomo, ma rimanesse sempre un metodo, un puro strumento istituzionale per conferire il «potere di decidere» a una leadership mediante elezioni. Una simile visione implicava inoltre che lo strumento democratico potesse essere utilizzato in società dominate da esigue minoranze, o che negavano i diritti di partecipazione sulla base di criteri etnici, religiosi, censitari, o che addirittura ammettevano l’istituto della schiavitù. Così, un’analisi effettivamente realistica della democrazia non poteva spingersi a giudicare i valori storicamente determinati di una comunità, e dunque a valutarne la maggiore o minore democraticità, perché doveva limitarsi a prendere atto dell’esistenza storica di quei valori e delleinevitabili limitazioni della cittadinanza politica63. Tanto che Schumpeter concludeva lasciando «ad ogni populus di autodefinirsi»64.

Ovviamente la provocazione dell’economista non poteva sfuggire a Bachrach, quantomeno perché – nel clima delle lotte per i diritti civili – il fatto che Schumpeter ammettesse la compatibilità fra la democrazia e la segregazione razziale doveva inevitabilmente gettare il discredito sull’intera impostazione dell’elitismo democratico, portandone alla luce il vieto conservatorismo. Ma l’aspetto più rilevante della discussione era che Bachrach tentava di dimostrare che la concezione di Schumpeter «si basava su una concezione scorretta della procedura democratica»65. Le persecuzioni ipotizzate dall’«esperimento mentale» erano infatti, secondo Bachrach, «una violazione della democrazia persino nella sua accezione restrittiva», perché «ogni tipo di persecuzione, religiosa, razziale o di gruppo, è in conflitto con quei principi di libertà di dibattito e di associazione che sono essenziali affinché il principio del governo della maggioranza diventi operante»66.

62 J.A. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo e democrazia, cit., p. 231.63 Su questo aspetto spesso trascurato della lettura schumpeteriana, cfr. D.

PALANO, Il valore della democrazia. Ripensare il realismo democratico dopo l’«era americana», in «Rivista di Politica», 2010, n. 4, pp. 9-27, e ID., Capitalismo, crisi, democrazia. Appunti sulla «distruzione creatrice» contemporanea, in A. SIMONCINI (a cura di), Una rivoluzione dall’alto. A partire dalla crisi globale, Milano, Mimesis, pp. 269-307.

64 J.A. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo e democrazia, cit., p. 234.65 P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, cit., p. 30.66 Ibidem.

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Naturalmente le considerazioni di Bachrach appaiono oggi sotto il profilo normativo del tutto condivisibili, perché nessun politologo si spingerebbe ad affermare la compatibilità fra la democrazia e la persecuzione religiosa, razziale, sessuale. In realtà, però, a Bachrach sfuggiva almeno in parte la portata dell’«esperimento» schumpeteriano: mentre l’economista riconosceva come i criteri di definizione di un populus – e innanzitutto il criterio di riconoscimento di cittadinanza politica – fossero storicamente mutevoli, Bachrach riteneva invece che una democrazia non potesse rinunciare a una serie di presupposti ben precisi, senza al tempo stesso diventare un regime non democratico. E il punto non era tanto che Bachrach inserisse il suffragio universale o la libertà di espressione e associazione fra i criteri indispensabili di un’autentica democrazia, quanto il fatto che egli adottasse – seppur solo implicitamente – proprio la distinzione tra realtà e valori adottata dagli elitisti democratici. In altre parole, per un verso riconosceva la necessità di ricomprendere alcuni principi liberali fra i presupposti minimi di un regime democratico, ma, senza rinunciare alla tensione ideale, auspicava anche una teoria alternativa della democrazia, che si spingesse a «valutare il metodo politico in base ai suoi diversi princìpi operativi, come l’eguaglianza politica, la libertà di discussione, la responsabilità dei leaders di fronte all’elettorato, e simili»67. Naturalmente, era ben consapevole della difficoltà rappresentata dal fatto che «questi principi […] sono suscettibili di una vasta gamma di interpretazioni»68. Ma, riteneva altresì che, rinunciando a tenere presenti i grandi fini della democrazia, il risultato fosse quello di un appiattimento sulla realtà e sulla legittimazione dell’ordine esistente:

Senza un criterio generale concernente il fine della democrazia, come è possibile un dialogo intelligente fra contrastanti interpretazioni di questi principi? Inoltre, senza un tale criterio non è probabile che il teorico interpreti questi princìpi esclusivamente sul metro realistico che misura la validità di un’interpretazione in base al grado in cui essa riflette fatti dimostrabili in relazione al sistema politico in un dato momento? Per esempio, se l’attuale tendenza verso un incremento del potere delle élites continua, non avverrà che il teorico vi si adatti e raggiusti quei princípi in modo che si conformino con le nuove condizioni, anche qualora la tendenza dei fatti sia ormai prossima alla soglia oltre la quale andrebbe compromesso il metodo democratico? Se si giudica in base alla teoria democratica recente, la riposta dovrebbe essere positiva69.

Dal discorso di Bachrach emergeva chiaramente il disaccordo valoriale fra una concezione ambiziosa della democrazia e la concezione assai meno esigente di molti elitisti democratici. A dispetto della distanza polemica, la sua critica non metteva però in

67 Ibi, pp. 3968 Ibidem.69 Ibi, p. 40.

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discussione la relazione fra il piano della realtà e il piano dei valori, fra il piano delle procedure ‘reali’ e il piano degli obiettivi di eguaglianza, partecipazione e autogoverno da assumere come ideali regolativi. E proprio perché la distanza non era in fondo così marcata, la protesta anti-elitista poté essere riassorbita senza eccessive difficoltà anche dai più coerenti alfieri dell’elitismo democratico. Naturalmente l’idea di una ‘democratizzazione’ dei centri di potere privati venne di fatto accolta solo molto parzialmente, e il mutamento del clima politico certo contribuì in misura rilevante a far calare un’ombra di sospetto su simili proposte. Lo stesso Dahl, che pure era stato uno dei bersagli privilegiati della polemica anti-elitista, recepì comunque all’interno della propria riflessione molte delle preoccupazioni di carattere normativo al centro della critica70. Svolgendo ulteriormente elementi già presenti all’interno della sua riflessione, Dahl distinse ulteriormente fra le condizioni ideali della democrazia e le condizioni minime delle poliarchia reali71, e, soprattutto, dedicò gran parte del suo lavoro allo studio degli ostacoli che impediscono una piena realizzazione della democrazia pluralista, considerando anche l’ipotesi di un’estensione della partecipazione democratica all’ambito economico e l’obiettivo di una effettiva eguaglianza politica72. A ben vedere, questi elementi non costituivano però un’effettiva modificazione dell’originario impianto teorico di Dahl: la distinzione fra la realtà e i valori – fissata persino su un piano lessicale nella contrapposizione fra poliarchia e democrazia –rimaneva infatti immutata, e, registrando (implicitamente) le sollecitazioni anti-elitiste, Dahl si limitò così a enfatizzare la necessità di recuperare la tensione verso una estensione della democrazia, anche immaginando una serie di correttivi istituzionali che potessero garantire una maggiore aderenza fra la realtà delle procedure e l’ideale regolativo di una democrazia perfetta.

D’altronde lo stesso Giovanni Sartori – anch’egli tra i bersagli degli anti-elitisti – poté agevolmente accogliere almeno alcune delle

70 Replicando esplicitamente alla critica di Walker, Dahl aveva in effetti respinto nettamente le accuse e, in particolare, aveva attaccato radicalmente l’idea di una «teoria elitista della democrazia», incapace di cogliere le differenze fra i diversi autori compresi nel filone e fortemente valutativa: cfr. R.A. DAHL, Further Reflections on «The Elitist Theory of Democracy», in «American Political Science Review», vol. 60, 1966, pp. 296-305. Per quanto la critica di Walker fosse in parte discutibile, la difesa pronunciata da Dahl era però, come notava Stoppino, piuttosto fragile: cfr. M. STOPPINO, Élites, democrazia e partecipazione politica, cit., p. 262.

71 Cfr. in tal senso, per esempio, R.A. DAHL, Poliarchy: partecipation and opposition, Yale University Press, New Haven, 1971, trad. it. Poliarchia, partecipazione e opposizione nei sistemi politici, Franco Angeli, Milano, 1981, ID.,Dilemmas of Pluralist Democracy, New Haven – London, Yale University Press, 1982, trad. it. I dilemmi della democrazia pluralista, Milano, Il Saggiatore, 1988, ID.,Democracy and its critics, Yale University Press, New Haven, 1989, trad. it. La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma, 1990, ID., On Democracy, Yale University Press, New Haven, 1998, trad. it. Sulla democrazia, Roma – Bari, Laterza, 2002.

72 Cfr. al proposito A. MARTINELLI, Nota introduttiva, in R.A. DAHL, Prefazione alla teoria democratica, Milano, Comunità, 1994, pp. IX-XXI.

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sollecitazioni critiche provenienti dal fronte anti-elitista, benché la sua soluzione procedesse, dal punto di vista normativo, in una direzione molto diversa da quella imboccata da Dahl. Già alla metà degli anni Settanta, per esempio, ammise come la moderna democrazia rappresentativa – una democrazia sostanzialmente «verticale», fondata sulla scelta dei governanti da parte degli elettori – fosse stata lasciata «senza sostegno di valore»: la crescita e il consolidamento delle istituzioni liberaldemocratiche, in altre parole, non erano state accompagnate dall’elaborazione di una teoria normativa della democrazia adeguata alla realtà dei sistemi politici contemporanei. Così, mentre la scienza politica aveva costruito strumenti concettuali e analitici in grado di esaminare empiricamente il funzionamento dei regimi politici occidentali, l’immagine ideale della democrazia – e, dunque, l’immagine di cosa dovrebbe essere una vera democrazia –era rimasta quella «orizzontale» ereditata dal mondo greco o dall’esaltazione roussoviana della volontà generale. La replica di Sartori, dunque, da un lato riconosceva l’importanza dei riferimenti ideali, mentre dall’altro rigettava con decisione l’immagine che dei valori democratici avevano fornito gli anti-elitisti, i quali si erano in fondo limitati a riprendere il vecchio arsenale polemico del pensiero democratico, ormai del tutto inadeguato dinanzi ai problemi delle società complesse73. E, in questo senso, Sartori non risparmiava affatto la polemica contro quei teorici che, riprendendo gli obsoleti ideali della democrazia partecipativa ed egualitaria, avevano contribuito a minare la governabilità delle società occidentali e la stessa legittimità delle strutture di governo. Ma, al tempo stesso, riconosceva che le democrazie, private della pressione esercitata dai valori, potevano effettivamente incanalarsi verso una situazione di rischio74. Il punto più importante della sua risposta consisteva però nel riconoscimento che mancava una teoria prescrittiva della democrazia adeguata ai tempi. Ai suoi occhi la risposta a una simile esigenza non poteva infatti provenire dall’egualitarismo, ma doveva essere ricercata nell’accezione positiva del termine élite, e cioè nell’idea di una minoranza di merito e non di fatto. In ogni caso, un simile recupero della dimensione ideale non andava però a inficiare il problema della ‘descrizione’ della democrazia, ossia la validità della definizione della reale democrazia competitiva, costruita a partire da Schumpeter. E

73 Da questo punto di vista, non erano certo numerose le concessioni di Sartori

agli anti-elitisti: cfr. in tal senso G. SARTORI, Democrazia competitiva ed élites politiche, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», VII, 1977, n. 3, pp. 327-355, specie p. 330. Circa un quindicennio dopo ribadiva: «ai giovani turchi degli anni Sessanta occorreva una etichetta demonizzante, demonizzante di tutti coloro che a loro vedere disprezzavano (o non apprezzavano abbastanza) le masse. Senonché la caccia alle streghe degli anti-elitisti si fonda su scarse e frettolose letture, ricorre a vistose distorsioni polemiche, e infilza mostri immaginari (o immaginati ad arte)» (G. SARTORI, Democrazia. Cosa è, Milano, Rizzoli, 1993, p. 112). Cfr. anche ID., Anti-Elitism Revisited, in «Government and Opposition», 1978, Winter, pp. 58-80, e ID., The Theory of Democracy Revisited, cit., pp. 156-163.

74 G. SARTORI, Democrazia competitiva ed élites politiche, cit., p. 131.

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proprio per questo, seguendo in parte la proposta di Dahl, Sartori proponeva due diverse definizioni di democrazia, una descrittiva e una prescrittiva: sotto il primo profilo, la democrazia coincideva come «una procedura e/o un meccanismo che a) genera una poliarchia aperta, la cui componente sul mercato elettorale b) conferisce potere al popolo e c) specificamente induce i governanti alla ricettività verso i governanti»75; sotto il secondo profilo la democrazia veniva invece intesa come «1) una poliarchia selettiva e 2) una poliarchia di merito»76, ossia come un regime politico che dovrebbe puntare a una selezione meritocratica della leadership.

La ridefinizione della democrazia come «poliarchia selettiva» e «di merito» operata da Sartori si proponeva così di recuperare la tensione valoriale capace di spingere il sistema verso un miglioramento, senza per questo cadere in quelli che apparivano solo gli eccessi retorici degli anti-elitisti e dei partecipazionisti. L’aspetto più rilevante della replica di Sartori agli anti-elitisti consisteva comunque nel modo in cui il politologo italiano reintroduceva i ‘valori’ all’interno del proprio discorso. Infatti, quando riconosceva la necessità di recuperare la dimensione normativa, intendeva questo recupero come un’operazione parallela – ma distinta – rispetto al compito della ‘descrizione’. In altri termini, il recupero del dover essere della democrazia era rilevante solo per quanto concerneva la possibilità di migliorare le democrazie reali, e cioè la possibilità di ‘democratizzarle’ ulteriormente, mentre risultava del tutto irrilevante per la ‘descrizione’ di un determinato assetto politico, e dunque per la comprensione delle sue dinamiche interne. Certo non poteva sfuggire la distanza che in questo modo Sartori mostrava rispetto alle posizioni anti-elitiste: tanto la sua visione descrittiva della democrazia, quanto la sua visione normativa erano infatti abissalmente distanti da quelle, assai più esigenti, dei critici degli anni Sessanta77. Ciò nondimeno, tanto la risposta di Sartori quanto la polemica anti-elitista non mettevano mai realmente in discussione la relazione tra fatti e valori, e soprattutto l’idea che essi potessero essere separati concettualmente. Più semplicemente, queste posizioni all’apparenza così distanti condividevano l’assunto che non si potessero abbandonare gli ideali della democrazia, e che tenerli ben presente fosse necessario per proporre soluzioni volte a migliorare la realtà della democrazia78. Ma, in ogni caso, nel dibattito non venne mai realmente toccata la convinzione che si potesse giungere a una definizione ‘descrittiva’ della democrazia, e che dunque potessero essere identificate delle procedure capaci di definire

75 Ibi, p. 350.76 Ibi, p. 355.77 Ho affrontato una più completa discussione della teoria della democrazia di

Sartori in D. PALANO, Democrazia a una dimensione. Teoria realistica della democrazia e ordine spaziale del potere, paper presentato al Convegno della Società Italiana di Scienza Politica, Padova, 2004.

78 Per una rilettura della posizione di Sartori su questo specifico punto sono utili le considerazioni di F. BATTEGAZZORRE, Fatti, valori e democrazia, nel fascicolo monografico La Repubblica di Sartori della rivista «Paradoxa», 2014, n. 2.

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la realtà (minima) della democrazia, o di una poliarchia competitiva. La differenza stava piuttosto nei caratteri che i diversi studiosi – in virtù della teoria normativa che ciascuno di essi (almeno implicitamente) condivideva – ritenevano essenziali per poter parlare di un regime ‘realmente’ democratico79.

3. Un dibattito senza via d’uscita?

Per quanto dalla polemica scatenata dagli anti-elitisti sia trascorso circa mezzo secolo, l’eco lontana della loro critica si può ritrovare anche nella discussione sulle democrazie contemporanee. Come Bachrach aveva provocatoriamente immaginato, il fatto che l’Unione Sovietica si sia dissolta ha lasciato i politologi senza un riferimento cruciale, che consentiva piuttosto agevolmente di definire come democratici i regimi che non presentavano tratti autoritari e totalitari80. Anche per questo negli ultimi vent’anni ha preso forma un intenso dibattito sulla «qualità» delle democrazie, che per molti versi riprende proprio molte delle vecchie sollecitazioni degli anti-elitisti e, in particolare, l’idea formulata da Bachrach di una teoria che riesca considerare l’effettiva realizzazione dei principi costitutivi della democrazia81. Ma, soprattutto, sono tornate a riemergere posizioni simili a quelle sviluppate dai politologi radicali contro l’«elitismo democratico». In una serie di importanti lavori, Danilo Zolo ha per esempio avuto modo di riprendere proprio i due motivi cruciali della critica anti-elitista. Oltre a individuare nell’epistemologia empirista della «teoria neoclassica» della democrazia uno strumento ideologico di legittimazione dello status quo, Zolo ha infatti sostenuto che si tratta anche di una teoria via via più ‘irrealistica’, ossia sempre meno capace di tenere conto della dinamica effettiva delle società complesse82. E, dopo l’Ottantanove, molti osservatori si sono chiesti

79 Come notava Stoppino a questo proposito, «la maggior parte dei critici

dell’elitismo democratico si limita a giudicare la teoria pluralista come ‘troppo poco’ democratica, e a suggerire aggiunte e correzioni alla democrazia rappresentativa, nella direzione di un allargamento della partecipazione ai cittadini e di un accrescimento dell’uguaglianza politica» (M. STOPPINO, Potere ed élites politiche, cit., p. 24).

80 Su questo aspetto si sofferma per esempio, rispondendo ai propri critici, C. CROUCH, Riflessioni sulla postdemocrazia, in «La società degli individui», VII, 2004, n. 2, pp. 5-16.

81 Cfr. per esempio M. ALMAGISTI, La qualità della democrazia in Italia. Capitale sociale e politica, Carocci, Roma, 2009, L. DIAMOND – L. MORLINO (a cura di), Assessing the Quality of Democracy, Baltimora, The Johns Hopkins University Press, 2005, L. MORLINO, Democrazia e democratizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2003, L. Morlino – D. Piana – F. Raniolo (a cura di), La qualità della democrazia in Italia. 1992-2012, Bologna, Il Mulino, 2013, e il fascicolo dedicato alla qualità della democrazia del «Journal of Democracy», 2004, n. 4.

82 Cfr. D. ZOLO, Complessità e democrazia, Torino, Giappichelli, 1987, ID., Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1992, e ID., Da cittadini a sudditi. La cittadinanza politica vanificata, Roma – Milano, Carta - Puntorosso, 2007. L’idea di una nuova «teoria realistica» della democrazia viene ripresa, da una prospettiva in parte differente da quella

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se le società occidentali possano essere definite ancora come pienamente «democratiche», o non si stiano avvicinando – come suggerisce Crouch – alla «postdemocrazia»83.

Critiche come quelle formulate da Zolo e diagnosi come quelle diCrouch sulla deriva «postdemocratica» possono naturalmente apparire segnate da un eccesso polemico, oltre che da un giudizio troppo ingeneroso sull’effettivo stato di salute dei regimi politici occidentali84. E, dunque, non stupisce che la gran parte dei politologi che si occupano della democrazia e dei processi di democratizzazione continui a considerare la proposta definitoria di Schumpeter come un pilastro insostituibile. Certo, dopo il 1989 l’estensione della democratizzazione e la nascita di nuovi tipi di regimi ‘ibridi’ ha richiesto l’introduzione di nuove nozioni, come per esempio «democrazia illiberale», «democrazia delegata», «democrazia protetta», o «democrazia di bassa qualità». Ciò nondimeno, la definizione fornita da Schumpeter in Capitalism, Socialism and Democracy offre ancora un riferimento di base per accertare l’esistenza delle condizioni ‘minime’ di un regime democratico85. Così, nel momento in cui per esempio critici come Crouch segnalano una progressiva degenerazione elitista delle democrazie occidentali, tende a riproporsi la medesima contrapposizione che negli anni Sessanta opponeva gli anti-elitisti agli elitisti democratici. E, soprattutto, oggi come allora una simile discussione tende invariabilmente a tramutarsi in una contrapposizione fra le ambizioni più radicali di una democrazia partecipativa e una visione ‘minima’ della democrazia competitiva, ossia in un confronto di carattere normativo fra un modello «democratico» molto esigente e un modello «postdemocratico» minimalista86. Anche nel dibattito odierno, il piano della ‘realtà’ non cessa però di rimanere ben distinto da quello dei valori, sebbene le conseguenze risultino opposte a seconda della prospettiva adottata. Quanti condividono una visione poco esigente della democrazia non hanno infatti difficoltà a riconoscere nella

suggerita da Zolo, anche in D. PALANO, La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica, Milano, Mimesis, 2012.

83 Cfr. C. CROUCH, Postdemocrazia, cit.84 Cfr. sul punto le considerazioni di L. ORNAGHI, Trasformazioni politiche e

democrazia, in A. GAMBA (a cura di), Dizionario di argomenti politici, economici e sociali, Casale Monferrato, Portalupi, 2005, pp. 39-53, specie p. 43.

85 Si vedano al proposito D. DELLA PORTA, Democrazie, Bologna, Il Mulino, 2011, e P. GRILLI DI CORTONA, Come gli Stati diventano democratici, Roma – Bari, Laterza, 2009, in particolare pp. 3-15

86 Secondo Mastropaolo, le diverse posizioni possono essere ricondotte a un «paradigma democratico» e a un «paradigma postdemocratico», fondati su un’immagine differente della democrazia, e, dunque, su una concezione divergente dei valori di base e degli obiettivi di un regime democratico. Cfr. Cfr. A.MASTROPAOLO, Democrazia e postdemocrazia, in «Ragion pratica», IV, 1996, n. 7, pp. 39-58, ID., Democrazia, neodemocrazia, postdemocrazia: tre paradigmi a confronto, in «Diritto pubblico comparato ed europeo», IV, 2001, pp. 1612-1635, ID., L’implosione della democrazia globalizzata, in «Teoria politica», XIX, 2003, nn. 2-3, pp. 171-197, e ID., Democrazia è una causa persa?, cit., specie pp. 116-151.

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‘realtà’ il rispetto delle condizioni minime, mentre coloro che considerano come essenziali per un’autentica democrazia un’effettiva eguaglianza (politica e sociale) e un’ampia partecipazione dei cittadini al processo decisionale giungono a conclusioni diametralmente opposte, evocando così anche l’idea di una ‘crisi della democrazia’ o di una transizione ‘post-democratica’. Un simile contrasto non scaturisce comunque – o quantomeno non scaturisce necessariamente – dalla descrizione empirica delle dinamiche politiche o della distribuzione del potere delle società occidentali, bensì da un disaccordo valoriale sul contenuto ‘minimo’ della democrazia. E proprio per questo la contrapposizione fra «democrazia» e «postdemocrazia» non può che risultare irresolubile, se non sotto il profilo politico.

Naturalmente non è affatto sorprendente che sia tanto difficile giungere a una definizione condivisa di «democrazia». Come molti altri concetti politici (e forse più di altri), «democrazia» ha infatti tutti i caratteri di quelli che Gallie definì come «essentially contested concepts»87, ossia concetti il cui contenuto è destinato a essere sempre al centro di discussioni e disaccordi sul loro effettivo significato. E, d’altronde, anche un rapido percorso all’interno del pensiero occidentale può fornire una sufficiente dimostrazione di come la nozione di democrazia abbia subito una trasformazione tutt’altro che residuale, e di come la democrazia del XX secolo abbia davvero poco in comune con ciò che gli ateniesi del V secolo a.C. identificavano con questo nome88. Rileggendo oggi la vecchia polemica sull’elitismo democratico, non appare dunque sorprendente che i critici anti-elitisti avessero contribuito all’eterno dibattito su ciò che la democrazia dovrebbe essere, su cosa sia davvero il demos, su quali siano i suoi fondamentali diritti politici e su quale tipo di potere esso dovrebbe detenere. D’altronde, mentre reclamavano una ripresa degli ideali più radicali della tradizione democratica, in quella fase storica i politologi si limitavano per molti versi a recepire il mutamento che avveniva nelle società occidentali. Il punto davvero più sorprendente di quel dibattito rimane però la timidezza della polemica nei confronti dei principi di fondo del comportamentismo, che indubbiamente costituivano il più solido pilastro dell’elitismo democratico.

Al di là del loro energico tentativo di attaccare la «mistica professionale» della scienza politica, gli anti-elitisti non condussero in effetti mai davvero in profondità la critica all’eredità epistemologica del comportamentismo. E, peraltro, non svilupparono neppure in modo significativo i rilievi critici di pensatori peraltro non lontani –

87 W.B. GALLIE, Essentially Contested Concepts, in «Proceeding of the

Aristotelian Society», 1956, n. 1, pp. 167-198.88 Una critica distruttiva, ma non per questo meno interessante, viene per esempio

avanzata in questo senso da D. GRAEBER, There never was a West: or, Democracy emerges from the spaces in between, in Possibilities, Oakland, Ak Press, 2007, trad. it. Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia diretta, Milano, Elèuthera, 2012.

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seppur per diversi motivi – dal Caucus. Per esempio, gli esponenti del Cnps non coglievano tutte le potenzialità della critica che aveva delineato – in forma ancora abbozzata – un cultore del realismo politico come Hans J. Morgenthau fra gli anni Quaranta e Cinquanta. In particolare, Morgenthau – che molti anni dopo avrebbe preso parte alle attività del Cnps, spinto anche dal silenzio dei politologi americani sulla guerra del Vietnam, e che nel 1970 fu persino candidato dal Caucus alla presidenza dell’Apsa – aveva svolto in Scientific Man vs. Power Politics, pubblicato nel 1946, un puntuale attacco alle illusioni dello ‘scientismo’. Prima ancora che la «rivoluzione comportamentista» prendesse effettivamente forma, Morgenthau aveva infatti pronunciato forse quella che rimane la più radicale critica alle ambizioni di una scienza politica positivista. In Scientific Man vs Power Politics lo studioso di origine tedesca si era scagliato contro le conseguenze del razionalismo, una filosofia che ai suoi occhi aveva permeato la cultura occidentale a partire dal Seicento e nel cui ingenuo ottimismo erano ravvisabili le radici anche dei totalitarismi e della stessa Seconda Guerra Mondiale. Il razionalismo non era naturalmente, per Morgenthau, tanto una vera e propria filosofia, quanto piuttosto un insieme di «assunti intellettuali in gran parte inconsci su cui l’epoca si fonda», e dunque una serie di «convinzioni fondamentali sulla natura dell’uomo e della società che muovono il pensiero e l’azione»89. Il cuore di una simile filosofia era rappresentato sia da una specifica concezione (sostanzialmente ottimista) dell’essere umano, sia da una connessa fiducia nelle capacità della scienza di comprendere la natura delle cose e dunque di modificarle. In altre parole, come scriveva Morgenthau, l’elemento principale del razionalismo era «l’affidarsi alla ragione per scoprire, attraverso una serie di deduzioni logiche derivanti da presupposti necessari o empirici, la verità della filosofia, dell’etica o della politica, ricreando la realtà a loro immagine grazie alla propria forza»90. Se il razionalismo classico si era fondato su premesse aprioristiche, a partire dalla fine del Settecento il nuovo razionalismo aveva invece ricercato le proprie basi nell’esperienza e, dunque, nella scienza. Ma ad accomunare il razionalismo seicentesco e il successivo scientismo otto e novecentesco erano i medesimi due assunti di fondo: per un verso, «il concetto secondo cui il mondo sociale e il mondo fisico sono intelligibili attraverso i medesimi processi razionali, comunque essi siano definiti», e, per l’altro, «la convinzione che basti comprendere quei processi per controllare razionalmente quei due mondi»91. L’obiettivo polemico di Morgenthau era rappresentato principalmente da liberalismo internazionalistico della fine del XIX secolo e dei primi decenni del Novecento, in cui veniva ravvisato

89 H.J. MORGENTHAU, L’uomo scientifico versus la politica di potenza (2005),

Ideazione, Roma, 2005, p. 9 (ed. or Scientific Man Vs. Power Politics, The Chicago University Press, Chicago, 1946).

90 Ibidem.91 Ibi, p. 10.

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l’esempio emblematico delle conseguenze nefaste del razionalismo. Ma il discorso dello studioso tedesco aveva anche implicazioni ben più generali, che coinvolgevano la stessa possibilità di costruire una scienza dei fenomeni politici. Il limite principale del razionalismo – e delle sue varianti politologiche – consisteva infatti secondo Morgenthau nella sostanziale incomprensione dell’essere umano e, conseguentemente, anche delle relazioni fra uomo e società. Come scriveva nitidamente nelle pagine iniziali di Scientific Man vs. Power Politics:

La filosofia razionalista non ha compreso la natura dell’uomo, del mondo sociale e della ragione stessa; essa non riconosce la triplice dimensione – biologica, razionale e spirituale – della natura umana. Trascurando gli impulsi biologici e le aspirazioni spirituali dell’uomo, interpreta erroneamente la funzione svolta dalla ragione, in tutta la sua esistenza, distorce il problema dell’etica – soprattutto in campo politico – e trasforma le scienze naturali in uno strumento di salvezza sociale che non corrisponde né alla loro natura, né a quella del mondo sociale92.

Agli occhi di Morgenthau il nesso più evidente tra il vecchio razionalismo e lo scientismo delle scienze sociali novecentesche era costituito ovviamente dalla convinzione di potere individuare delle «leggi» tanto nel mondo naturale quanto nel mondo sociale. «Secondo la visione razionalista», osservava infatti, «il mondo è retto da leggi accessibili alla ragione», e una conseguenza inevitabile della fiducia riposta nella conoscenza era stata l’ambizione di «estendere il nuovo modello di pensiero alla sfera sociale e di scoprire le leggi naturali dei rapporti sociali, corrispondenti per razionalità e universalità alle leggifisiche»93. E, a partire da Grozio e Hobbes, la scienza politica moderna aveva dunque trovato il proprio fondamento nell’idea secondo cui il mondo degli esseri umani è regolato da leggi oggettive e che queste leggi sono decifrabili dalla ragione. Oltre a criticare le conseguenze di questa filosofia nello specifico terreno della comprensione della politica internazionale, Morgenthau – in un passaggio ancora importante del suo lavoro – attaccava dunque proprio la possibilità che le scienze sociali riescano a individuare delle «leggi» simili (o anche solo paragonabili) a quelle oggetto della ricerca delle scienze naturali. E, da questo punto di vista, il suo attacco era condotto su diversi fronti, che in linea generale concernevano, per un verso, la complessità dei fenomeni sociali, e, per l’altro, il carattere specifico dell’oggetto di studio delle scienze sociali94.

In primo luogo, osservava Morgenthau, i fenomeni sociali sono eccessivamente complessi per isolare delle relazioni causali semplici

92 Ibi, pp. 11-12.93 Ibi, pp. 21-22.94 Per un’utile discussione di queste due argomentazioni, cfr. L. ZAMBERNARDI, I

limiti della potenza. Etica e politica nella teoria internazionale di Hans J. Morgenthau, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 34-61.

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come quelle che vengono riprodotte e replicate negli esperimenti di laboratorio dalle scienze naturali. «Nella sfera sociale», scriveva, «la coerenza logica delle scienze naturali non trova un oggetto adeguato»; evidentemente «non esiste una singola causa attraverso cui sia possibile creare un determinato effetto, perché ogni singola causa può produrre un numero indefinito di cause diverse»; e dunque «è impossibile prevedere con un livello di probabilità significativo quali effetti saranno determinati da una particolare causa, né si può stabilire retrospettivamente quale particolare causa abbia prodotto un certo effetto»95. In sostanza, come emerge da un esempio piuttosto chiarificatore, la complessità dei fenomeni sociali era tale da rendere irrimediabilmente distanti le ricerche delle scienze sociali da quelle delle scienze naturali:

Sappiamo che l’acqua bolle a cento gradi perché ogniqualvolta che l’abbiamo esposta a quella temperatura ha cominciato a bollire. Reiterando quest’azione, siamo in grado di riprodurre il medesimo effetto innumerevoli volte. La possibilità di ripetere un determinato effetto a nostro piacimento realizzandone la causa costituisce il carattere sperimentale delle scienze naturali. La sfera sociale, al contrario, non contempla una simile possibilità. Se per esempio esponiamo un insieme di persone a un certo tipo di propaganda o di legge che in passato ha indotto quelle persone a compiere un certo di tipo di azione, la possibilità di ricreare quella stessa reazione dipenderà stavolta da un ampio numero di circostanze sulle quali esercitiamo un controllo limitato o nullo. In primo luogo, la causa, ovvero la propaganda o la legge, è essa stessa un prodotto dell’interazione sociale e deriva dalla combinazione di una moltitudine di azioni e reazioni individuali, a loro volta soggette a una moltitudine di cause fisiche e psicologiche che ci sono ignote e sulle quali non abbiamo alcun potere. Due cause sostanzialmente identiche, per esempio, possono produrre risultati sociali distinti per via di una diversa forza dinamica che non è individuabile né misurabile se non attraverso i risultati. […] La causa sociale, dunque, è di per sé un elemento indeterminato che non è mai possibile riprodurre in maniera identica o conforme al risultato96.

In secondo luogo, Morgenthau – peraltro muovendo dalle conseguenze che nell’ambito delle scienze naturali erano state innescate dallo sviluppo della fisica quantistica – si concentrava sul rapporto fra soggetto e oggetto della conoscenza scientifica. Se il principio di indeterminazione aveva scalfito in profondità la convinzione di una piena indipendenza anche fra conoscenza scientifica e ambiente naturale, la stretta relazione fra soggetto e oggetto della ricerca non poteva che risultare ancora più marcata nel caso delle scienze sociali. «Lo scienziato sociale», infatti, «si situa nei flussi della causalità sociale come un agente e un reagente», dunque «la sua visione delle cose dipende dalla sua posizione in quei flussi»,

95 H.J. MORGENTHAU, L’uomo scientifico versus la politica di potenza, cit., p. 175.96 Ibi, pp. 176-177.

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e, «rivelando ciò che vede in relazione alla sua scienza, egli interviene direttamente nel processo sociale»97. In altre parole, lo studioso tedesco, applicando il principio di indeterminazione al campo delle scienze della società, sottolineava che – oltre a rivelarsi estremamente complesso e a essere in costante mutamento – il mondo sociale è anche il prodotto dell’azione e dell’osservazione del ricercatore, e dunque l’oggetto della ricerca non è qualcosa di effettivamente distinguibile dal soggetto che la indaga. «Di fronte a quelle ipotetiche possibilità che costituiscono il culmine del suo impegno scientifico», sottolineava, «lo scienziato sociale non si comporta come un osservatore indifferente, ma interviene attivamente come creatore e prodotto delle condizioni sociali»98. E la conseguenza di una simile acquisizione non poteva che fornire un colpo ferale alle ambizioni del razionalismo politologico:

Poiché esiste una correlazione necessaria tra la qualità della mente umana da un lato e la qualità del mondo fisico e sociale così come lo conosciamo dall’altro, l’irrazionalità dell’agire umano non può che riflettersi sulla natura, sulla società e sulla conoscenza che abbiamo di entrambe. È dunque la qualità della mente umana stessa a confutare definitivamente l’analogia razionalistica tra natura e mondo sociale, vero e proprio fondamento della «scienza della politica»99.

In parte ricalcata sulle posizioni che Heinrich Rickert aveva delineato a fine Ottocento (criticando l’idea che le scienze sociali potessero scoprire delle vere e proprie «leggi»), in parte influenzata dalle sollecitazioni provenienti dalla fisica quantistica, la critica di Morgenthau era principalmente finalizzata a dimostrare la validità del metodo classico di analisi della politica internazionale, oltre che alla riaffermazione di uno spazio per l’etica all’interno della riflessione politologica. In questo senso, il suo ragionamento riprendeva davvero alcune delle classiche obiezioni formulate già a cavallo tra Otto e Novecento nel corso del Methodenstreit, sia perché la sua critica si incentrava sulla complessità dei fenomeni politici, intesa come un ostacolo formidabile per ogni tentativo di spiegazione monocausale, sia perché, soprattutto, si dirigeva contro la convinzione che la scienza politica potesse adottare un metodo di analisi simile a quello delle scienze naturali. Ma Morgenthau toccava un punto nevralgico probabilmente proprio quando sottolineava – più che le difficoltà derivanti dalla complessità dei fenomeni analizzati – l’impossibilità di scindere il soggetto che conduce la ricerca dall’oggetto stesso della ricerca. Un ragionamento di questo tipo non tendeva semplicemente a sostenere l’idea che la scienza politica, suggerendo decisioni politiche o correttivi istituzionali, finisse inevitabilmente col contribuire a modificare la realtà esistente. Più radicalmente, puntava a sostenere

97 Ibi, p. p. 194.98 Ibi, pp. 194-195.99 Ibi, pp. 195-196.

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che nel mondo politico non esiste una realtà effettivamente ‘oggettiva’, e che dunque la stessa osservazione del mondo – anche l’osservazione all’apparenza più ‘disinteressata’ – modifica il mondo, nel momento stesso in cui essa prende forma. Dunque per Morgenthau, «studiare il mondo sociale», come ha scritto Lorenzo Zambernardi, «significa inevitabilmente influenzarlo», e per questo motivo «la conoscenza di quell’universo non sarà mai quella oggettiva e neutrale attività che i positivisti avevano suggerito essere»100.

Nel clima della Guerra fredda, e nel pieno di quello che in seguito sarebbe stato definito come il ‘Secondo Grande Dibattito’ delle Relazioni Internazionali101, pochi colsero in realtà la portata della critica alla separazione fra soggetto e oggetto sviluppata in Scientific Man vs. Power Politics. E neppure negli anni Sessanta gli alfieri della new political science recepirono davvero le potenzialità offerte da un’intuizione che avrebbe comportato una radicale ridiscussione anche della distinzione fra ‘realtà’ e ‘valori’ della democrazia. Quando infatti gli anti-elitisti protestavano contro l’apparente neutralità della scienza politica, e quando auspicavano che i politologi indossassero i panni di intellettuali militanti, certo recepivano in parte la protesta di Morgenthau contro la pretesa di avalutatività del comportamentismo. Di fatto continuavano però a ritenere che gli scienziati sociali modificassero la realtà solo sollecitando decisioni politiche o mutamenti istituzionali. E, così, non mettevano davvero in discussione la separazione fra soggetto e oggetto della ricerca sociale, e cioè quello che era il più importante presupposto del comportamentismo.

Se la critica degli anti-elitsti non sviluppava le implicazioni della vecchia polemica di Morgenthau, essa non si spingeva neppure a sposare una posizione tanto radicale come quella di Herbert Marcuse, il quale aveva invece insistito con forza sul ruolo ‘politico’ del comportamentismo e, in particolare, aveva tentato di mostrare come l’empirismo delle scienze sociali non fosse altro che un riflesso della chiusura dell’universo politico della società post-bellica e un travestimento delle relazioni dominio proprie del neo-capitalismo102. Il solco fra i due tipi di critica rimaneva infatti piuttosto ampio, nonostante ci fosse ben più di una consonanza fra la posizione del filosofo tedesco e politologi del Cnps. Quando Marcuse nel celebre incipit del suo testo forse più noto scriveva che «una confortevole, levigata, ragionevole democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico»103, per esempio un aspetto cui i politologi radicali degli anni Sessanta erano quantomeno sensibili. Quando attaccava il comportamentismo diffuso nelle scienze

100 L. ZAMBERNARDI, I limiti della potenza, cit., p. 45. 101 Per un riesame di questi dibattiti, cfr. E. DIODATO, Le relazioni internazionali:

logica. Metodo e livelli di analisi, in ID. (a cura di), Relazioni internazionali. Dalle tradizioni alle sfide, Roma, Carocci, 2013, pp. 19-63.

102 Cfr. H. MARCUSE, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Boston, Bacon Press, 1964, trad. it. L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi, 1999.

103 Ibi, p. 15.

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sociali come un’espressione di pensiero «a una dimensione» – e cioè di un pensiero in cui «idee, aspirazioni e obiettivi che trascendono come contenuto l’universo costituito del discorso e dell’azione vengono o respinti, o ridotti ai termini di detto universo»104 –sviluppava anzi in chiave filosofica un motivo ben presente fra i temi ispiratori della protesta del Cnps. E, d’altronde, era lo stesso Marcuse a evidenziare come il «realismo» della teoria competitiva della democrazia, adottato come pilastro dal dibattito politologico, riflettesse una riduzione ideologica dello spazio di conflitto legittimo. «Una volta che l’eccesso ‘irrealistico’ di significato sia abolito», scriveva per esempio, «l’indagine rimane confinata entro il vasto reame in cui la società stabilita convalida ed invalida ogni proposizione»105. In altre parole, dunque, «se il senso di ‘democratico’ viene definito nei termini limitati ma realistici del processo elettorale in atto, allora tale processo appare democratico prima che si sappiano i risultati dell’indagine»106. La logica dell’indagine comportamentista conduceva allora a escludere come «irrealistico» ogni concetto «non-operativo», come ovviamente ogni concetto ambizioso di democrazia. L’analisi, così, scriveva Marcuse,

non può formulare una domanda cruciale: se il consenso stesso non fosse opera di manipolazione – domanda largamente giustificata dallo stato di cose esistente. L’analisi non può porre tale domanda perché questa trascenderebbe i suoi termini in direzione di un concetto di democrazia che mostrerebbe come l’elezione democratica sia un processo democratico piuttosto limitato. È precisamente un tale concetto non operativo che viene respinto dagli autori come «irrealistico», in quanto definisce la democrazia in modo troppo avanzato, come il completo controllo del sistema di rappresentanza da parte delle’elettorato – il controllo popolare come sovranità popolare. E questo concetto non-operativo non è affatto un concetto estraneo. Non è per nulla un prodotto dell’immaginazione o del pensiero speculativo, ma anzi definisce l’intento storico della democrazia, le condizioni per le quali si combatté la lotta per la democrazia e che restano ancora da realizzare107.

La specifica discussione del presunto «realismo» del concetto politologico di democrazia era d’altronde solo l’esemplificazione più nitida della ‘sterilizzazione’ dei concetti compiuta dal comportamentismo, inteso da Marcuse come riflesso intellettuale della «chiusura dell’universo politico» propria della società industriale avanzata. Nell’impoverimento dei concetti delle scienze sociali, finalizzato proprio a una «chiusura dell’universo di discorso», si poteva d’altronde facilmente riconoscere anche la completa rimozione della dimensione storica, perché il passato e il futuro risultavano

104 Ibi, p. 26.105 Ibi, p 124.106 Ibi, p. 126.107 Ibi, p. 127.

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assorbiti all’interno della società esistente e delle sue istituzioni. Come scriveva il filosofo tedesco, in uno dei numerosi passaggi evocativi dell’Uomo a una dimensione:

Sopprimere codesta dimensione nell’universo sociale della razionalità operativa significa sopprimere la storia, e questa non è solo una questione accademica bensì politica. Significa sopprimere il passato stesso della società ed il suo futuro, nella misura in cui il futuro invoca il mutamento qualitativo, la negazione del presente. Un universo di discorso in cui le categorie della libertà sono diventate intercambiabili con i loro opposti, e anzi si identificano con questi, non solo pratica il linguaggio di Orwell o di Esopo, ma respinge e dimentica la realtà storica: l’orrore del fascismo, l’idea di socialismo, le condizioni che fondano la democrazia, il contenuto della libertà. […] Il linguaggio funzionale è un linguaggio radicalmente antistorico: la razionalità non sa che farsene della ragione storica. […] Ricordare il passato può dare origine ad intuizioni pericolose, e la società stabilita sembra temere i contenuti sovversivi della memoria. Ricordare è un modo di dissociarsi dai fatti come sono, un modo di «mediazione» che spezza per brevi momenti il potere onnipotente dei fatti dati. La memoria richiama il terrore e la speranza dei tempi passati. Entrambi tornano in vita, ma nella realtà il primo ricorre in forme sempre nuove mentre la seconda rimane speranza. E negli eventi personali che ricompaiono nella memoria dell’individuo si affermano le paure e le aspirazioni dell’umanità – l’universale nel particolare. Quel che la memoria conserva è storia. È questa che soccombe al potere totalitario dell’universo del comportamentismo108.

Per molti versi, anche Marcuse riprendeva un tema simile a quello già sottolineato da Morgenthau, quando aveva escluso la possibilità di scindere nettamente l’oggetto dal soggetto della ricerca sociale, e questa convergenza non deve in fondo sorprendere. D’altronde, si trattava di un motivo ampiamente discusso nella temperie culturale in cui entrambi gli studiosi si erano formati, nel periodo fra le due guerre. Tanto la critica di Morgenthau, quanto la critica di Marcuse non facevano in fondo che applicare agli orientamenti delle scienze sociali nord-americane degli anni Quaranta e Cinquanta quella critica radicale – e per molti versi fondamentale – che Husserl aveva rivolto alle scienze europee. Pensando in particolare all’«obiettivismo» della psicologia di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento, Husserl aveva infatti ritrovato le origini della crisi europea proprio nella pretesa della scienza di ‘tagliare’ il rapporto fra il soggetto e l’oggetto della ricerca. Come aveva scritto infatti in un passaggio in cui sintetizzava i motivi della sua riflessione matura:

Tutti questi problemi derivano dall’ingenuità per cui la scienza obiettiva ritiene che ciò che essa chiama mondo obiettivo sia l’universo di tutto ciò che è, senza badare al fatto che la soggettività che produce la scienza non può venire conosciuta da nessuna scienza

108 Ibi, pp. 109-110.

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obiettiva. Ciò equivale a presumere che la sfera soggettiva esclusa dal fisico, appunto in quanto psichica, debba essere indagata dalla psicologia, e poi, naturalmente, dalla psicologia psicofisica. Ma il naturalista non si rende conto che il costante riferimento del suo lavoro concettuale, che nonostante tutto è soggettivo, è il suo mondo circostante della vita, che egli presuppone costantemente il mondo-della-vita in quanto terreno, in quanto campo di lavoro, e che soltanto su di esso su di esso hanno un senso i metodi di pensiero, i suoi problemi109.

Se Morgenthau si riferiva solo tangenzialmente alla critica del razionalismo svolta da Husserl, anche Marcuse in realtà richiamava il fondatore della scuola fenomenologica solo in funzione critica, e dunque non considerava realmente l’ipotesi di una sorta di rifondazione ‘fenomenologica’ delle scienze sociali, perché rimaneva in fondo legato alla visione della filosofia critica propria del modello hegelo-marxiano. Ed era forse proprio per questo che l’alternativa di Marcuse all’«oggettivismo» proprio del comportamentismo politologico doveva rivelarsi un’arma senza dubbio affascinante ma in fondo piuttosto spuntata agli occhi dei politologi radicali degli anni Sessanta. Certo molti esponenti del Cnps apparivano spesso sensibili alle tematiche francofortesi, e inoltre persino nelle pagine di Bachrach non era difficile riconoscere almeno qualche eco di One-Dimensional man. Ma il punto su cui pochi parevano davvero disposti a seguire il filosofo tedesco riguardava il modello di scienza sociale che egli proponeva in alternativa al comportamentismo. In sostanza, Marcuse riteneva che il compito della teoria sociale fosse infatti principalmente una critica della società esistente. Proprio a proposito dei regimi democratici scriveva, per esempio, che il compito dello studioso non poteva consistere nella «semplice descrizione» della realtà, ma doveva procedere oltre: perché «il compito sta nel comprendere, nel riconoscere i fatti per ciò che sono, ciò che ‘significano’ per coloro cui essi si dànno come fatti e che devono vivere con essi»; e perché dunque «nella teoria sociale riconoscere i fatti significa farne una critica»110. Non era però irrilevante che Marcuse non riconoscessenella società industriale avanzata un soggetto rivoluzionario forte. Se la teoria critica era nata un tempo «in presenza di forze reali (oggettive e soggettive) nella società costituita che si muoveva (o poteva essere portata a muoversi) verso istituzioni più razionali e più libere, abolendo quelle già esistenti che erano divenute ostacoli al progresso»111, ora la situazione – sottolineava malinconicamente il filosofo – era completamente diversa. Così, sebbene rimanesse ancora valida, la teoria critica della società non poteva più esprimere «in

109 E. HUSSERL, La crisi dell’umanità europea e la filosofia (1935), in ID., La crisi

delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 1997, pp. 353-354.

110 H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, cit., p. 129.

111 Ibi, p. 257.

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modo adeguato l’alternativa storica»112. In assenza di un soggetto capace di «trasformare il mondo», il compito dei filosofi radicali tornava così a essere solo quello di pensarlo, ed era probabilmente per questo che i politologi radicali non potevano trovare nella filosofia critica di Marcuse un’alternativa effettivamente convincente alla mistica della scienza politica comportamentista, così come d’altro canto non potevano trovare una soluzione nelle posizioni di un feroce critico come Leo Strauss. Le ambizioni del comportamentismo si fondavano infatti per Strauss su una serie di fraintendimenti che coinvolgevano direttamente le stesse condizioni di una scienza dei fenomeni politici. In sostanza, l’ambizione comportamentista di conseguire una piena Wertfreiheit poteva essere raggiunta solo chiarendo cosa fosse effettivamente la ‘politica’, e dunque individuando (su basi scientifiche) la distinzione fra il ‘politico’ e il ‘non politico’. Ma fornire una simile risposta era impraticabile per una scienza politica che non tornasse a essere principalmente una filosofia politica113. In questo modo la riflessione di Strauss giungeva a negare ogni autonomia e ogni legittimità alla scienza politica. Ma la proposta di Marcuse non procedeva in realtà in una direzione troppo differente, dal momento che risolveva l’analisi della società in una filosofia critica capace di mostrare come dietro la realtà presente si celasse una logica di dominio. E anche in questa prospettiva, dunque, l’autonomia e la specificità dello sguardo politologico non potevano che essere messe radicalmente in questione.

4. Democrazia senza cultura

Nonostante né Morgenthau né Marcuse avessero seguito Husserl al di là della semplice critica all’«obiettivismo», forse la proposta di un ripensamento in chiave fenomenologica degli strumenti dell’indagine delle scienze sociali poteva davvero indicare una strada interessante per i politologi radicali degli anni Sessanta. Nel caso in cui Bachrach e gli altri anti-elitisti avessero davvero affrontato l’idea della inestricabile connessione fra soggetto e oggetto – proprio quell’idea articolata attraverso strategie differenti da Morgenthau e Marcuse, ma non sviluppata in modo convincente da nessuno dei due pensatori –avrebbero invece dovuto ammettere che la democrazia è soprattutto una costruzione ‘culturale’, alla cui edificazione prendono parte attivamente anche (ma non solo) gli scienziati sociali. Un simile

112 Ibidemi113 Cfr. L. STRAUSS, Che cosa è la filosofia politica, «Il Politico», XXI, 1956, n. 2,

pp. 359-373. Su questa posizione, cfr. l’accurata analisi di G. DE LIGIO, Tra Gerusalemme e Atene. Politica, scienza, eternità nella lezione di Leo Strauss, in «Rivista di Politica», 2013, n. 1, pp. 31-58. Per posizioni simili a quelle di Strauss, cfr. per esempio A. COBDEN, The Decline of Political Theory, in «Political Science Quarterly», LXVIII, 1953, pp. 321-337, e i contributi compresi in H.J. STORING (a cura di), Essays on the Scientific Study of Politics, New York, Holt, Rinehart and Wilson, 1962.

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approdo era forse inteso da una parte degli anti-elitisti come eccessivamente radicale, perché, per un verso, profilava esiti nichilisti, mentre, per l’altro, tendeva ad assomigliare un po’ troppo alla più radicale critica marxista, che liquidava la «democrazia borghese» come pura mistificazione, come semplice travestimento ideologico dello sfruttamento capitalistico. Probabilmente, però, proprio il ripensamento della netta divaricazione tra oggetto e soggetto della ricerca – ingombrante eredità del comportamentismo – poteva offrire una via d’uscita alla contrapposizione fra elitisti e anti-elitisti. Per quanto non si trattasse allora (come d’altronde oggi) di una traiettoria priva di insidie, proprio quella strada poteva infatti consentire di oltrepassare, al tempo stesso, le secche di un dibattito senza soluzione e l’eredità del comportamentismo politologico, profilando i contorni di una sorta di teoria ‘culturale’ – o forse persino ‘fenomenologica’ –della democrazia, capace di problematizzare il rapporto fra democrazia e cultura, e in qualche di considerare la democrazia come un oggetto ‘culturale’.

Certo non è possibile sostenere che la generazione protagonista della «rivoluzione comportamentista» non avesse riconosciuto un peso rilevante alla cultura, e che dunque non avesse in qualche modo avvertito la connessione fra democrazia e cultura. Il punto era però che il perimetro entro cui aveva circoscritto la cultura aveva finito col delineare una visione fuorviante del rapporto tra cultura e struttura(oltre che tra cultura politica e regime democratico): una visione destinata a diventare una sorta di presupposto implicito di tutto il dibattito successivo, e che neppure i critici anti-elitisti si spinsero davvero a mettere in questione. E la più chiara dimostrazione di come la critica degli anti-elitisti non mettesse seriamente in discussione i presupposti del comportamentismo giunge proprio da loro atteggiamento verso le ricerche sulla cultura politica e verso le ipotesi sulla civic culture. Le indagini dedicate alla cultura politica, legate soprattutto al nome di Gabriel Almond, erano infatti forse la più nitida espressione delle aspettative che nutriva la political science post-bellica. In una serie di studi apparsi fra gli anni Cinquanta e Sessanta, e soprattutto nella classica ricerca su The Civic Culture, pubblicata da Almond e Sidney Verba nel 1963, veniva introdotta una nuova e autorevole nozione di «cultura politica», destinata a influenzare una cospicua mole di indagini successive114. La forza della proposta

114 Cfr. G.A. ALMOND – S. VERBA, Civic culture. Political Attitudes and

Democracy in Five Nations, Princeton University Press, Princeton, 1963; una parziale traduzione italiana è stata pubblicata, con il titolo La cultura civica, in G. URBANI (a cura di), La politica comparata, Il Mulino, Bologna, 1973, pp. 89-104. Ma, per la ricerca condotta in questo campo, si vedano anche G.A. ALMOND – J.S. COLEMAN

(eds.), The Politics of Developing Areas, Princeton University Press, Princeton, 1960, G.A. ALMOND - G.B. POWELL, Politica comparata, Il Mulino, Bologna, 1970 (ed. or. Comparative Politics. A Developmental Approach, Little, Brown and Co., Boston, 1966), G.A. ALMOND (ed.), Comparative Politics Today, Little, Brown and Co., Boston, 1974, G.A. ALMOND - G.B. POWELL, Politica comparata. Sistemi, processi e politiche, Il Mulino, Bologna, 1988 (ed. or. Comparative Politics. Systems, Process

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consisteva naturalmente nella capacità di orientare la ricerca empirica, ma un aspetto probabilmente ancora più significato era costituito dalla convinzione che proprio un elemento ‘culturale’ potesse fornire il criterio di una comparazione tra i sistemi politici. L’idea di base di Almond e Verba – poi ripresa da un intero filone di studi – non consisteva infatti soltanto nella tesi secondo cui la «cultura politica» era un elemento che consentiva di spiegare le modalità di partecipazione politica e anche la struttura dei conflitti politici in un determinato paese. Ben più ambiziosa, la tesi consisteva infatti nell’idea che il «buon governo» e la stabilità delle istituzioni politiche non dipendessero soltanto dall’assetto formale delle istituzioni, ma richiedessero anche una serie di ulteriori elementi ‘culturali’: elementi che non possono essere ovviamente costruiti ‘artificialmente’ (come può avvenire per le istituzioni), e che appaiono il prodotto di credenze, ideali, norme, tradizioni, ossia di elementi che influiscono in modo significativo sul modo di partecipare alla vita politica e sulle modalità con cui i cittadini guardano alla sfera politica. E la conclusione cui pervenivano era proprio che fosse una specifica dotazione ‘culturale’ – che Almond e Verba definivano come civic culture – a spiegare la stabilità e l’efficienza di alcuni regimi democratici, oltre che l’instabilità e l’inefficienza di altri.

Nel clima di aperta conflittualità e di crescente partecipazione organizzata della fine degli anni Sessanta, era piuttosto comprensibile che una delle critiche più energiche alla nozione di «cultura civica» giungesse da Carol Pateman, nel quadro di un tentativo volto ad articolare una ridefinizione in chiave partecipativa della teoria democratica. Almond e Verba avevano definivano la cultura civica come quella specifica conformazione costituita da una cultura partecipante, che non escludeva però orientamenti provinciali e sudditi, e all’interno della quale i non partecipanti (sudditi e provinciali) tendevano a delegare la partecipazione ad altri. In questo modo, i valori centrati sulla partecipazione tendevano allora fondersi con i valori tradizionali della non partecipazione, e così il coinvolgimento risultava bilanciato dalla passività e dal rispetto della tradizione. Proprio per questo, secondo Pateman, The Civic Culture non era altro che era un’opera «ideologica», che di fatto puntava a legittimare un’idea elitistica della democrazia115. Ma anche Bachrach e altri esponenti dell’anti-elitismo svolgevano una critica analoga, perché essi ritrovavano nella riflessione sulla cultura politica soprattutto le tracce – neppure troppo sbiadite – di un tentativo di legittimare l’apatia politica in cui viveva una buona parte della popolazione. A ben vedere, però, dall’impostazione teorica di tutto il filone di ricerca che prese corpo dalle ipotesi di Almond affiorava un

and Policy, Little, Brown and Co, Boston, 1978), IDD. (eds.), Comparative Politic Today. A World View, Little, Brown and Co, Boston, 1980, G.A. ALMOND – S. VERBA

(eds.), The civic culture rivisited, Little, Brown and Co, Boston, 1980.115 C. PATEMAN, The Civic Culture: A Philisophical Critique, in G. ALMOND – S.

VERBA (eds.), The Civic Cultur Revisited, Sage, London, 1980, p. 59.

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problema che sfuggiva alla presa della critica anti-elitista: un problema che riguardava invece il modo stesso con cui veniva concepito il rapporto tra la cultura e la struttura politica, e che in una certa misura rifletteva pienamente alcune delle distorsioni più deleterie dell’approccio comportamentista alla politica.

In termini generali, le prime ricerche sulla cultura politica, proprio per la loro impostazione metodologica, rappresentavano l’espressione paradigmatica delle ambizioni (e delle illusioni) della «rivoluzione comportamentista» nella scienza politica: una testimonianza, cioè, non del behaviorism inteso in senso stretto, come corrente psicologica che enfatizza il condizionamento esterno dell’agire individuale, e neppure della revisione compiuta negli anni Cinquanta che punta sulla cause dell’azione individuale (behavioralism), ma, piuttosto, di quel comportamentismo che si definisce, nella scienza politica, come «un movimento di protesta in cui istanze di rinnovamento in termini di scientificità e di autonomia disciplinare si coniugano con approcci talvolta di segno opposto (individualistici e olistici, causali e motivazionali)»116. Il filone dedicato alla «cultura politica» mostra infatti nel modo più chiaro tutte le ambizioni, i limiti, le ingenuità di quella che Dahl definì, già negli anni Sessanta, una «protesta di successo»117. Ognuno degli elementi al cuore del «comportamentismo

116 G. SOLA, Storia della scienza politica. Teorie, ricerche e paradigmi

contemporanei, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1996, p. 66. Come ha notato David Easton, inoltre, «il comportamentismo in psicologia e quello in scienza politica, al di là dell’apparente coincidenza terminologica, hanno molto poco in comune e quindi non vanno assolutamente confusi: anche all’apice della propria fase comportamentistica, difatti, la scienza politica non lo è mai stata nel senso della psicologia. […] L’unica concreta relazione tra il comportamentismo in psicologia e quello in scienza politica è che entrambi hanno come oggetto l’attore e il suo comportamento come fonte di informazione circa il perché le cose accadono nel modo in cui accadono». D. EASTON, Passato e presente della scienza politica negli Stati Uniti, in «Teoria politica», I (1985), n. 1, pp. 95-114.

117 R.A. DAHL, L’approccio comportamentista nella scienza politica, in G. SARTORI (a cura di), Antologia di scienza politica, Il Mulino, Bologna, 1970, pp. 65-73; ed. or. The Behavioral Approach in Political Science: Epitaph for a Monument to a Successful Protest, in «American Political Science Review», vol. 55, 1961, pp. 763-772. Tra i motivi che qualificano la «rivoluzione comportamentista» nella scienza politica, ci sono, insieme alla protesta nei confronti dei metodi legalistici, storici, e filosofici della ‘vecchia’ scienza politica, una serie di elementi rintracciabili proprio negli studio sulla cultura politica. Secondo David Easton, infatti, la fase comportamentista è contrassegnata, innanzitutto, dalla convinzione nell’«esistenza di uniformità accertabili nel comportamento umano» e «che tali uniformità possono essere verificate mediante prove empiriche» (D. EASTON, Passato e presente della scienza politica negli Stati Uniti, cit., p. 99); inoltre, «nel comportamentismo si riscontra l’aspirazione a un grande rigore metodologico nella raccolta e nell’analisi dei dati», mentre «la ricerca di una conoscenza sistematica, basata sull’osservazione oggettiva, porta […] ad un deciso cambiamento nel significato della teoria come concetto», nel senso che «la teoria comportamentista […] è orientata in senso empirico e cerca di aiutarci a spiegare, capire e, se possibile, prevedere il modo in cui i cittadini si comportano politicamente e in che modo funzionano le istituzioni politiche» (ibi, pp. 99-100). Infine, la fase comportamentista della scienza politica tende a considerare come prioritaria la spiegazione e la comprensione dei processi politici, accantonando dunque la prospettiva di una scienza applicata, e, soprattutto,

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politologico» si poteva ritrovare, senza troppe difficoltà, proprio nel filone di studi sulla cultura politica e, in particolare, nella proposta delineata, a partire dalla metà degli anni Cinquanta da Almond. Innanzitutto, l’interesse per il comportamento individuale, o meglio per l’atteggiamento dei singoli nei confronti dei sistema politico, si prestava a un controllo empirico: in questo caso, l’oggetto di studio era anzi proprio il singolo individuo, il cui atteggiamento nei confronti della sfera politica poteva essere ricostruito a partire da questionari e grazie a metodologie adeguate di elaborazione dei risultati. In questo modo la scienza politica puntava, in qualche modo, a recepire e utilizzare le acquisizioni fornite dalle altre «scienze del comportamento», volgendosi però allo studio specifico dei fenomeni politici; ma, soprattutto, la raccolta dei dati empirici relativi all’atteggiamento del campione intervistato non risultava fine a stessa, perché risultava orientata da ambiziose ipotesi teoriche, relative al rapporto fra cultura e struttura, e cioè alla relazione fra gli orientamenti degli individui e la stabilità di un determinato regime: alle spalle di quelle indagini stava, cioè, un modello teorico che, oltre a indirizzare la ricerca empirica e a garantire la cumulabilità dei risultati di ogni singola indagine, si proponeva di formulare una teoria di carattere predittivo, e, dunque, di prevedere le possibilità di un regime democratico di durare nel tempo e di resistere alle tensioni interne. Ma erano proprio questi elementi che finivano col costringere la stessa immagine della cultura all’interno di vincoli troppo stretti.

Più o meno implicitamente, gli studi avviati da Almond, così come lo schema dello struttural-funzionalismo politologico, distorcevano infatti la nozione di cultura almeno sotto tre profili differenti. In primo luogo, quegli studiosi operavano una sorta di ‘individualizzazione’ e persino forse una ‘sterilizzazione’ della cultura politica. L’‘individualizzazione’ scaturiva dalla convinzione che la cultura potesse essere davvero ricostruita solo utilizzando i dati raccolti mediante interviste e questionari. Tra i più evidenti limiti di The Civic Culture – solo in parte risolto dalle indagini successive – era naturalmente lo strumento utilizzato per ricostruire la cultura politica. La ricerca di Almond e Verba si basava esclusivamente sul sondaggio (e, peraltro, su un sondaggio compiuto su un campione estremamente ridotto di mille individui per ogni paese considerato), ma, ovviamente, la validità di una simile rilevazione non può che risultare inadeguata per cogliere un elemento come assai più complesso come quello ‘culturale’: come ha osservato in questo senso Giorgio Fedel, «i sondaggi hanno un’attendibilità limitata al tempo della loro attuazione e si prestano poco a catturare gli elementi durevoli della cultura politica», ossia proprio quegli elementi «che occorrono per rendere plausibili le generalizzazioni empiriche»118. Non era però solo la scelta

nutre la ferma convinzione «che i valori dei ricercatori e delle società avrebbero potuto essere sostanzialmente esclusi dal processo di indagine» (ibi, p. 100).

118 G. FEDEL, Cultura e simboli politici, in A. PANEBIANCO (a cura di), L’analisi della politica, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 376.

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dello strumento, o anche la stessa sproporzione fra gli obiettivi dell’indagine e la base empirica estremamente ridotta a disposizione, a inficiare i risultati cui giungevano Almond e Verba.

L’‘individualizzazione’ si legava infatti strettamente alla ‘sterilizzazione’ della cultura politica: era in questo senso lo stesso concetto di «cultura» – contestualmente alla sua qualificazione in direzione specificamente «politica» – a risultare particolarmente discutibile, anche perché proprio questo concetto risultava essere il perno attorno al quale ruotava l’intero ingranaggio esplicativo di Almond e Verba. I problemi che scaturivano dall’immagine della «cultura» implicitamente assunta da Almond e Verba andavano d’altronde a investire ambiti diversi della loro architettura teorica. Su queste basi, l’interesse per il comportamento ‘osservabile’ dei singoli individui, per esempio, non poteva che ‘neutralizzare’ la stessa nozione di «cultura» importata, nel campo politologico, da altri ambiti delle scienze sociali, come soprattutto l’antropologia e la sociologia degli anni Cinquanta. Se in queste aree, il concetto di cultura veniva infatti utilizzato in modo tutt’altro che uniforme, l’eterogeneità, per i politologi, doveva invece esporre al rischio di «una proliferazione di concettualizzazioni diverse»119. Ma, soprattutto, nell’ambito degli studi sociologici e antropologici, l’elemento ‘culturale’ era inteso in termini estremamente ampi, e non certo nella sua specificazione esclusivamente ‘politica’. In altre parole, come hanno scritto Mannheimer e Sani, «nelle tradizioni di ricerca dalle quali veniva mutuato il concetto, la cultura era generalmente concepita come un tutto organico e coerente, un insieme integrato, cioè un tessuto che non può venire scomposto nelle sue diverse parti senza perdere la propria identità» »120. Per questo motivo, la distinzione fra la cultura in generale e un suo determinato aspetto – che, nel caso della proposta di Almond e Verba, era quello ‘politico’ – non poteva che configurare un’operazione di implicita distorsione proprio dell’orizzonte culturale e simbolico specifico di ogni società. Riducendo la cultura politica all’insieme degli atteggiamenti e degli orientamenti dei singoli individui, Almond e Verba non potevano allora non smarrire la complessità del fenomeno culturale, che non poteva essere semplicemente ‘sezionato’ – o addirittura chirurgicamente asportato –senza che fosse perso anche il nesso costitutivo con l’intero contesto». «Il fattore culturale non può essere separato da altre determinazioni materiali e sociali che contribuiscono a formare il sistema politico», ha scritto in questo senso Mario Caciagli, e per questo motivo «la cultura politica non è un mero oggetto da descrivere e da quantificare, ma una struttura di significazione della realtà», «non è solo un ventaglio di credenze, ma un codice simbolico che acquista senso in un contesto e fornisce identità ai soggetti individuali e collettivi», e, dunque, «non è solo manifestazione di opinioni e di atteggiamenti, ma

119 R. MANNHEIMER – G. SANI, Cultura politica e identificazione di partito, in «Il Politico», LIII (1988), n. 2, p. 200.

120 Ibidem, p. 200.

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si sostanzia di idee e di valori, di simboli e di norme, di miti e di riti, di comportamenti concreti e iterati, di strutture, infine, che non solo elaborano e trasmettono messaggi ma riproducono la cultura stessa e condizionano individui e generazioni»121. Nella proposta di Almond e Verba, come in molte delle ricerche successive sulla cultura politica, il problema principale consisteva invece proprio nella perdita della complessità ‘culturale’ del fenomeno politico. E lo smarrimento del significato che determinati simboli, ideali, valori, assumono all’interno di uno specifico contesto culturale, era una conseguenza pressoché inevitabile soprattutto dell’ottica ‘individualista’ adottata nell’indagine, ossia dal fatto che a essere studiato era solo (o prevalentemente) l’orientamento individuale.

In secondo luogo, un’ulteriore insieme di difficoltà scaturiva dall’immagine – implicita nella definizione di Almond e Verba – di una cultura politica sostanzialmente omogenea e unitaria al proprio interno, e senza rilevanti articolazioni. Interrogandosi solo sulla cultura dei cittadini, intesi nella loro totalità, Almond e i suoi collaboratori escludevano così che le culture delle singole élite (politiche, economiche, sociali) potessero avere un ruolo significativo nella spiegazione della stabilità o dell’instabilità dei regimi democratici122. Ma, al tempo stesso, adottando l’idea di una cultura politica sostanzialmente stabile nel tempo, escludevano anche che la cultura stessa potesse essere ‘prodotta’, o parzialmente ridefinita, dalla stessa struttura, ossia dai diversi elementi istituzionali e organizzativi123. Per molti versi, d’altronde si trattava di uno dei presupposti di base del progetto di comparazione concepito da Almond, perché solo ipotizzando che la cultura politica fosse sostanzialmente stabile nel corso del tempo (e dunque capace di sopravvivere anche a mutamenti nelle istituzioni), quell’elemento poteva diventare la variabile indipendente in grado di spiegare la stabilità del regime democratico. Questo assunto finiva però col raffigurare la cultura politica come una sorta di ‘essenza’, cristallizzata nel ‘carattere nazionale’ e dunque immutabile. Non si trattava comunque dell’unica conseguenza negativa, perché quel modo di intendere la cultura aveva un’implicazione ancora più dirompente.

121 M. CACIAGLI, Approssimazione alle culture politiche locali. Problemi di

analisi ed esperienze di ricerca, in «Il Politico», LIII (1988), n. 2, p. 273.122 In particolare, è stato Arend Lijphart a concentrarsi sulla rilevanza della

variabile intermedia (il comportamento delle élite di governo), trascurata da Almond almeno nelle prime ricerche. Cfr. A. LJIPHART, The Structure of Inference, in G.ALMOND – S. VERBA (eds.), The Civic Culture Revisited, cit., pp. 37-56

123 Al contrario, come nota Mario Caciagli, «bisogna tenere conto delle istituzioni politiche date, di forme organizzative politiche e prepolitiche, dei retaggi concreti del contesto storico, e poi dell’ambiente economico-sociale, e perfino geografico, per comprendere le peculiarità delle singole culture politiche, sia nel loro modello genetico, sia nella loro capacità di persistere» (M. CACIAGLI, Approssimazione alle culture politiche locali, cit., pp. 272-273). Ma critiche analoghe, intorno all’unidirezionalità del rapporto fra cultura e struttura, erano avanzate anche da C. PATEMAN, The Civic Culture, cit.

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Un insieme enorme di problemi discendeva d’altronde proprio dal modo in cui era rappresentato lo stesso rapporto fra la cultura e la struttura, ossia dall’idea che fosse possibile e legittimo considerare la cultura e la struttura come due dimensioni tra loro distinte, se non del tutto autonome. E questo problema emergeva sia sotto il profilo della distinzione fra l’una e l’altra, sia sotto il profilo del rapporto causale fra l’elemento culturale e l’assetto strutturale, che costituiva il presupposto teorico dell’ipotesi di Almond e Verba. In questo senso, un primo rilievo si incentrava, per esempio, sul ruolo prevalente che, nell’orientamento verso la politica giocano i «valori», considerati come decisivi per la stabilità di un regime democratico. Questa convinzione – che alimentava fin dall’origine la ricerca sulla «cultura civica» – non risultava però fondata sulla dimostrazione del modo in cui i valori influiscono effettivamente sulla percezione e sulla valutazione del sistema politico. E, d’altro canto, Almond e Verba non mostravano affatto che l’elemento dirimente, in grado di spiegare la stabilità del regime democratico, erano proprio i valori e non altre componenti (come, per esempio, la valutazione razionale dell’operato delle autorità politica)124. Non si trattava, in questo caso, solo di un limite nell’argomentazione o nell’impostazione della ricerca empirica, ma di un problema dalla portata teorica ben superiore, che implicava una domanda sulle capacità della cultura politica di costituire effettivamente – come Almond riteneva – il collegamento fra i livelli ‘micro’ e ‘macro’ della ricerca. A ben vedere, infatti, era piuttosto evidente come l’idea di un’influenza diretta da parte degli atteggiamenti sulle strutture rimanesse piuttosto semplicistica, senza chiamare in causa l’intermediazione (politica, simbolica, economica) di livelli organizzativi e istituzionali dotati di qualche autonomia125. Ma, soprattutto, la cultura politica – almeno la cultura politica ricostruita grazie al metodo del sondaggio – non poteva che collocarsi anche su un piano differente rispetto a quello della struttura: nelmodello teorico di Almond, la struttura (ossia quell’insieme relativamente stabile di comportamenti, ruoli, istituzioni) apparteneva infatti alla dimensione della «realtà», mentre gli atteggiamenti e le opinioni si collocavano nella sfera delle «rappresentazioni della

124 Cfr. per esempio da B.M. BARRY, Sociologist, economist and democracy,

London, Macmillan, 1970, pp. 93-98. Sulla stessa linea, anche se in termini ancora più radicale, si muove la critica di R. ROGOWSKY, A Rational Theory of Legitimacy, Princeton University Press, Press, 1974.

125 Puntando proprio su questo aspetto, per esempio, Mannheimer e Sani notavano: «Pensare che gli atteggiamenti di massa abbiano sempre implicazioni sistemiche ci pare un grosso equivoco. Le conoscenze sugli atteggiamenti delle grandi masse dei cittadini sono utili quando si tratta di capire comportamenti individuali quali il coinvolgimento in varie forme di partecipazione politica, la preferenza per questo o quel partito, ed altre. Nel caso di molte caratteristiche sistemiche la rilevanza degli atteggiamenti di massa ci pare assai più dubbia. Sono tutti casi nei quali le caratteristiche sistemiche dipendono principalmente e in alcuni casi esclusivamente da atteggiamenti e comportamenti di settori relativamente limitati della società, sottogruppi particolari, élites politiche, minoranze locali e visibili, gruppi di interesse» (R. MANNHEIMER – G. SANI, Cultura politica e identificazione di partito, cit., p. 206).

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realtà»: una sfera certo importante, ma non tanto per ricostruire il comportamento di un soggetto o le sue motivazioni, quanto per ricostruire le rappresentazioni dei suoi moventi e della logica dei suoi comportamenti. Nella stessa concezione della cultura politica, ridotta agli orientamenti individuali, non poteva dunque che annidarsi una sorta di circolo vizioso. Come ha osservato Fedel, «vi è dunque un garbuglio nel collegare le due, perché la struttura, come explicandum, è un dato esterno agli atteggiamenti», mentre, al tempo stesso, «in quanto oggetto di atteggiamenti, è una componente interna della stessa variabile attitudinale», e proprio per questo, «non chiarendo il locusdella struttura in rapporto agli atteggiamenti (se esterno o interno a questi), Almond e Verba rischiano sempre di confondere tra loro un rapporto logico, possibile nel caso in cui la struttura sia una componente degli atteggiamenti, e un rapporto causale, possibile solo se si ammette che la struttura sia indipendente dagli (e quindi esterna agli) atteggiamenti»126.

I limiti che derivavano dall’assenza di una chiara illustrazione del nesso causale fra cultura e struttura dovevano emergere, in modo paradigmatico, proprio nel caso del rapporto ‘virtuoso’ fra «cultura civica» e democrazia. Ma, se nel ragionamento di Almond e dei suoi collaboratori proprio la cultura politica era considerata come la variabile indipendente in grado di spiegare la maggiore o minore stabilità dei regimi democratici, era infatti piuttosto evidente che essi non avevano mai dimostrato, effettivamente, che la «cultura civica» assicurasse una maggiora stabilità e un maggiore rendimento del sistema politico, in presenza di un regime democratico. Più semplicemente, i politologi guidati da Almond avevano enunciato l’idea di una convergenza tra un determinato tipo di cultura (la «cultura civica») e il regime democratico (così come definito da una particolare teoria classica della democrazia), procedendo in seguito solo alla misurazione della maggiore o minore vicinanza delle culture politiche empiricamente ricostruite al modello idealtipico della cultura civica127. In tal modo, dunque, si limitavano ad «accertare non la congruenza tra la cultura e la struttura, ma la congruenza tra la cultura rilevata e quella idealtipica», con la conseguenza che la causazione veniva attribuita «alla congruenza tra modello ideale e modello reale di cultura politica, non a quella [...] tra cultura politica e struttura»128. Ma, a ben vedere, i limiti andavano ben oltre lo studio della democrazia, perché si annidavano nella stessa strumentazione teorica e lessicale adottata dalla political science. Le ricerche sulla civic culture – e più in generale sul rapporto fra cultura politica e regime democratico – si inserivano in pieno nella logica del movimento comportamentista anche perché potevano agevolmente essere ricomprese all’interno di quello schema generale di interpretazione dei

126 G. FEDEL, Cultura e simboli politici, cit., p. 377.127 Cfr. G. PATRICK, Political culture, in G. SARTORI (a cura di), Social sciences

concepts, Sage, London, 1984, pp. 305-310.128 G. FEDEL, Cultura e simboli politici, cit., p. 375.

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fenomeni politici fornita dalla declinazione politologica dello struttural-funzionalismo: una declinazione cui diedero avvio studiosi come David Easton e Karl Deutsch, ma che probabilmente conobbe la riformulazione al tempo stesso più ambiziosa, affascinante e influente proprio nella proposta dello stesso Gabriel Almond129. Così, se Almond formulò inizialmente le proprie ipotesi riferendosi solo in modo generico alla prospettiva sistemica, in seguito – proprio mentre precisava i contorni del framework struttural-funzionalista di analisi della politica comparata – precisò ulteriormente le ipotesi di fondo già enunciate in The Civic Culture. Nel modello struttural-funzionalista di Almond, la cultura politica era infatti considerata come un tassello fondamentale anche rispetto al problema del rendimento complessivo del sistema politico, e cioè in ordine alle capacità del sistema politico individuate da Almond (capacità estrattiva, regolativa, simbolica, distributiva e ricettiva). In questo senso, la sua convinzione era che lo strumento della cultura politica fosse utile non soltanto perché metteva in luce la dimensione psicologica degli atteggiamenti politici, ma anche perché essa costituiva il nesso fra la dimensione ‘micro’ dell’analisi politica (analisi dei comportamenti individuali) e la dimensione ‘macro’ (osservazione del sistema politico nel suo complesso e delle interrelazioni che lo caratterizzano). E il punto più importante su cui si soffermava, a questo proposito, era l’idea di una congruenza fra tipo di cultura politica preminente e struttura politica, secondo uno schema che stabiliva una convergenza fra ognuno dei tre tipi di cultura politica individuati e una specifica configurazione della struttura politica. Ma, benché il risultato fosse senza dubbio affascinante, il risultato era quello di produrre una definizione meta-storica delle forme concrete di organizzazione politica che, neppure troppo implicitamente, finiva con l’obliterare definitivamente qualsiasi riferimento alla cultura, proprio nella misura in cui la culturarisultava individualizzata, decontestualizzata, destoricizzata.

Ciò che emergeva nel modello struttural-funzionalista, o anche nella stessa concettualizzazione della cultura politica fornita da Almond e Verba, non erano tanto i limiti di una proposta, destinata peraltro a essere ben presto rivista (se non addirittura a scomparire dal dibattito politologico). Ciò che affioravano palesemente da quelle indagini e da quelle riflessioni erano propri quei limiti genetici della visione comportamentista della politica di cui la critica non riuscì o non volle mai effettivamente mettere in luce. Evidentemente, infatti, la nozione di «sistema politico» – almeno nel significato ‘denso’ che le attribuiva lo struttural-funzionalismo politologico degli anni Cinquanta e Sessanta, rispondeva in pieno a quelle che erano le ambizioni e le aspettative della «protesta» comportamentista, non certo perché avesse direttamente a che vedere con la ricerca empirica, ma perché predisponeva degli strumenti analitici del tutto privi di ‘inquinamento’ valoriale. Da questo punto di vista, la ‘neutralità’

129 G.A. ALMOND - G.B. POWELL, Politica comparata, cit., pp. 55-89.

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rispetto ai valori si declinava in due direzioni differenti: in primo luogo, si trattava della neutralità del concetto dai valori del ricercatore, ma, in secondo luogo, anche della neutralità del concetto rispetto al condizionamento che poteva derivare da una distorsione filosofica o anche da una prospettiva ‘etnocentrica’, centrata per esempio sulla superiorità del modello dello Stato occidentale rispetto ad altre forme di organizzazione politica130. Si trattava senza dubbio di un’operazione ambiziosa, dirompente rispetto alla ‘vecchia’ scienza politica (o, almeno, ad alcuni suoi filoni), e comunque tutt’altro che priva di meriti. Ma si trattava anche di un’operazione che doveva prestare il fianco a più di qualche dubbio, nel momento in cui, invece di sbrogliare il nodo gordiano del ‘condizionamento’ culturale dei concetti, si limitava a tagliarlo, perseguendo l’obiettivo di un concetto ‘neutrale’.

Il fatto che l’individualizzazione e la ‘sterilizzazione’ della cultura fossero logicamente connesse alla ‘cristallizzazione’ dell’immagine della democrazia emergeva in modo particolarmente chiaro dallo stesso modello sistemico di Easton, nel quale la cultura appariva in qualche modo in due vesti differenti: per un verso, all’interno dei flussi di sostegno rivolti dalla società verso il sistema politico; per l’altro, nella forma dei valori politici dominanti, ‘cristallizzati’ e sottratti al gioco politico. Come ha scritto nitidamente Franco Goio, il modello di Easton si fondava infatti su un equivoco di fondo, ossia sulla convinzione che «esistano due distinti livelli esplicativi, e che i processi sistemici possano essere spiegati prescindendo in tutto o in parte dai processi di lotta per il potere e di influenza»131. Ciò significa in sostanza che, nel modello di Easton, i processi conflittuali appaiono svolgersi su un piano differente rispetto a quello a cui il sistema si riproduce. E un problema evidente emerge a questo proposito dei gatekeepers culturali, i valori politici dominanti, ossia «le regole del gioco», i valori e le strutture di autorità. E il punto non consiste certo nel fatto che Easton dimentichi l’importanza di questi aspetti, ma piuttosto che nel fatto che il politologo sembri collocare tali valori

130 Cfr. naturalmente D. EASTON, Il sistema politico, Comunità, Milano, 1963 (ed.

or. Political System, New York, 1953), ma la logica era esplicitata già da Giovanni Sartori alla metà degli anni Cinquanta: «Il termine ‘stato’», osservava per esempio Giovanni Sartori, recependo le indicazioni della «rivoluzione comportamentista», «tende ad esprimere una entificazione, e ci orienta insensibilmente verso una proiezione astratta. Lo ‘stato’ è qualcosa che sopravanza ed oltrepassa le persone fisiche che detengono il potere statuale. Tanto che il concetto di stato meriterebbe di essere sempre scritto con la maiuscola, dacché esprime un rapporto di priorità tra l’istituto e chi lo incarna che potrebbe essere reso e condensato da questa grafia: lo ‘Stato-persone’. Voglio dire che lo ‘Stato’ denota, seppur insensibilmente, una ipostasi; e le persone che, in concreto, sono allo Stato e comandano in nome dello Stato, tendono perciò ad essere riassorbite, e quasi cancellate dal nostro angolo visuale». Cfr. G. SARTORI, Lo studio comparato dei regimi e sistemi politici (Considerazioni introduttive), in «Studi politici», III (1954), n. 1, pp. 7-25, specialmente pp. 7-8.

131 F. GOIO, Appunti critici sulla teoria politica di David Easton, in «Il Politico», XXXVIII (1973), n. 4, p. 736.

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politici al di sopra del conflitto e, dunque, che li intenda come statici e sottratti al mutamento. In altre parole, «Easton pare sentire solo marginalmente la esigenza di ancorare tutte queste componenti a rapporti di potere empiricamente individuabili», e così «l’attenzione converge sulle funzioni dei valori, delle regole del gioco e delle strutture di autorità, che vengono presentati come dati strutturali di per sé evidenti, non enucleati come ‘prodotti’ di concrete relazioni di potere», tanto che «il regime pare galleggiare come una zattera nel fiume del processo politico, ancorata alla riva da non si sa quali funi»132. Ma, a dispetto di quanto pareva ritenere Easton, le regole del gioco e i valori politici – anche quelli fondamentali, che delimitano il campo delle richieste e delle scelte legittime – non sono affatto cristallizzati, e sono il riflesso di concrete relazioni di potere:

Valori quali «libera iniziativa» o «inviolabilità dei diritti dell’uomo» non specificano alcuna modalità di partecipazione al processo politico, ma, per il semplice fatto di non poter essere messi in discussione, eliminano automaticamente dal decision making qualsiasi richiesta che ne rappresenti una violazione. Anche i valori dominanti però hanno una base comportamentale, sono cioè riflessi della struttura di potere esistente in una società politica. Non vi è valore politico socialmente rilevante che non sia stato forgiato nella fucina della lotta politica e consolidato dalla coagulazione di una certa situazione di potere. Simboli come liberismo economico, stato del benessere e socialismo suggeriscono bensì “un orientamento culturale nel cui ambito si ritiene giusto o anche doveroso che un membro possa o non possa formulare in termini di domande politiche svariate specie di bisogni economici dei quali desidera la soddisfazione”; ma le loro spalle non è difficile scorgere un mondo di relazioni di potere analiticamente qualificabili come rapporti consolidati tra chi detiene il potere politico o lotta per conquistarlo e chi ha interesse a che il potere distribuisca i valori sociali in una direzione piuttosto che in un’altra133.

In altre parole, ciò che emergeva dall’immagine del «sistema politico» era proprio – in modo paradigmatico – la medesima questione del rapporto fra cultura e struttura che affiorava problematicamente anche dalle ricerche di Almond e Verba. Il punto, almeno in questo caso, non stava però tanto nel rapporto logico, e nella relazione di causalità, fra i due poli, quanto nella stessa possibilità di scindere nettamente l’uno dall’altro (e soprattutto, nella possibilità di configurare alcuni elementi ‘culturali’ come flussi di sostegno ‘individuali’ e altri elementi, come i valori politici fondamentali, nei termini di attributi ‘strutturali’, sottratti al conflitto e dunque ‘cristallizzati’). In sostanza, alla base di entrambe le operazioni, stava la convinzione che fosse possibile, e legittimo sotto il profilo scientifico, distinguere la struttura dalla cultura. Ma, com’è ovvio, tagliare il nodo del rapporto fra struttura e cultura implicava un prezzo piuttosto elevato: un

132 Ibi, p. 719. 133 Ibi, p. 720.

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prezzo che consisteva quantomeno nel recidere le radici ‘culturali’ della struttura, ossia nel disconoscere in modo semplicistico il fatto che la struttura è in larga parte – se non del tutto – un prodotto culturale, una realtà che assume la propria consistenza in virtù di significati culturali, che ovviamente sono prodotti (e costantemente riprodotti) nel conflitto e nel confronto dei diversi attori politici. Mentre ipotizzavano (almeno a livello di strumenti analitici) una netta distinzione fra cultura e struttura, Almond e i politologi comportamentisti costruivano così una definizione della struttura che non poteva che escludere in termini programmatici ogni condizionamento culturale. Ma una simile operazione non poteva che condurre a una surrettizia reintroduzione proprio di inevitabili distorsioni culturali. Distorsioni che, per quanto concerneva la nozione di «sistema politico», dovevano quantomeno consistere nell’implicita reintroduzione dell’immagine ‘moderna’ dell’ordine politico, indelebilmente segnata dalla figura dello Stato.

Quanto emergeva a proposito dell’eliminazione dello Stato dal lessico politologico era comunque solo la più nitida esemplificazione della convinzione, ereditata dal comportamentismo, di poter disancorare i concetti politici dalle loro radici storiche e, in senso lato, ‘culturali’. Anche la ricerca di una definizione ‘realistica’ della democrazia si era infatti incanalata, a partire dagli anni Cinquanta, sui binari indicati dalla lezione comportamentista, perché le energie si erano volte infatti verso una definizione capace di ‘depurare’ la nozione scientifica della democrazia dalle molte dottrine filosofiche della democrazia, oltre che da tutte le più o meno nitide raffigurazioni ideologiche del governo del popolo. L’immagine teorica della democrazia competitiva puntava pertanto a presentarsi come una raffigurazione esclusivamente ‘descrittiva’ e, dunque, in grado di discernere la democrazia dalle altre forme di regime, escludendo qualsiasi riferimento a quelle componenti normative così radicate nel pensiero democratico. Con l’obiettivo di costruire una definizione realistica – e dunque non ‘ideologica’ o ‘filosofica’ – della democrazia, veniva fissato allora un netto discrimine netto fra l’insieme dei valori, delle aspirazioni e delle immagini dottrinarie della democrazia, da un lato, e, dall’altro, la realtà delle democrazie. Era ovviamente proprio verso questa operazione che gli anti-elitisti rivolgevano la loro foga polemica. Ma, in realtà, il punto critico non era tanto (o soltanto) la rinuncia ai più ambiziosi ed esigenti ideali democratici, in nome di una semplice legittimazione dell’apatia e dello status quo. Più semplicemente, il vero limite – che neppure gli anti-elitisti riconoscevano in tutta la sua pregnanza – consisteva nel fatto che quel modo di ‘descrivere’ la democrazia rimuoveva teoricamente il fatto che la «democrazia», i suoi valori di fondo, i suoi ideali, i suoi rituali, la sua stessa definizione ‘scientifica’, sono in realtà prodotti culturale.

Anche sotto questo profilo, l’operazione innescava però una serie di implicazioni formidabili. In primo luogo, dato che cultura e

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struttura venivano considerati come due momenti analiticamente distinguibili, poteva essere esclusa l’idea che valori, simboli, identità e rituali, più che costituire la ‘base politica’ della democrazia, definiscono i confini e le stesse regole di funzionamento di un regime democratico. In secondo luogo, dato che forniva una rappresentazione della cultura come una sorta ‘essenza’, ossia come un insieme di attitudini consolidate e addirittura ‘cristallizzate’, quella visione si soffermava solo su alcuni aspetti della cultura, meno soggetti ai mutamenti, e ne trascurava del tutto altri, assai più soggetti al mutamento, come per esempio gli schemi cognitivi con cui gli individui organizzano la loro esperienza personale, interpretano l’azione dei loro simili, costruiscono strategie d’azione e plasmano la loro specifica identità. Infine, proprio perché cultura e struttura risultavano logicamente distinte, la definizione ‘scientifica’ della democrazia poteva espellere – almeno apparentemente – i significati ‘culturali’ costruiti (e ridefiniti costantemente) all’interno della dinamica sociale e politica. Ma, infine, la conseguenza forse principale riguardava proprio la definizione della democrazia: in questo modo si finiva infatti col ‘cristallizzare’ del tutto la definizione della democrazia, sia perché si identificava la democrazia con l’assetto specifico delle istituzioni politiche in un determinato momento, sia, soprattutto, perché si sottraeva la possibilità stessa che la democrazia potesse essere modificata dalle trasformazioni nella ‘cultura’ (e dunque dai conflitti di potere). E le ricerche sulla civic cultureandavano proprio a compendiare quella elaborazione teorica, non soltanto perché mutuavano la nozione di regime democratico da quel dibattito, ma soprattutto perché assumevano come presupposto di fondo una netta distinzione tra cultura e struttura: una distinzione che escludeva in termini programmatici l’idea che la ‘struttura’ – ossia, nel caso specifico, il regime democratico – fosse anche, al tempo stesso, un prodotto culturale, e cioè il prodotto di un processo di costruzione simbolica, non ‘cristallizzato’ o ereditato dal passato, bensì costantemente sottoposto alla ridefinizione dall’azione degli attori sociali134.

5. Verso una teoria culturale della democrazia?

Per molti versi l’eterogeneo fronte della critica anti-elitista colse molti dei limiti che andavano in qualche misura a incanalare tutto il dibattito su un binario morto. Eppure non riuscì a mettere in luce quali fossero le implicazioni davvero più deleterie della vecchia «rivoluzione comportamentista». Per esempio, Bachrach coglieva pienamente il

134 Per un approfondimento di questo aspetto, in relazione però alle ipotesi di E.

C. BANFIELD, Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna, 2006 (ed. or. The Moral Basis of a Backward Society, The Free Press, Glencoe - Ill., 1958), rinvio a D. PALANO, La trappola di Banfield. L’ethos democratico oltre il mito del «familismo amorale», in «Notizie di Politeia», XXIX (2013), n. 112, pp. 3-17.

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ruolo ‘politico’ che hanno le rappresentazioni ‘soggettive’ della realtà, quando rilevava la necessità di considerare in termini più ampi il campo del «politico»135, oppure quando insieme a Baratz riconosceva il peso che proprio fattori ‘culturali’ soggetti a un graduale ma rilevante mutamento (per esempio il pregiudizio) avessero un peso rilevante nel definire concretamente la prassi del gioco democratico, allargando o restringendo il campo dei diritti effettivi e dunque attribuendo un significato ‘politicamente’ diverso alle procedure formali. Mentre ‘scoprivano’ le «non decisioni», Bachrach e Baratz procedevano infatti proprio in questo senso, e per esempio quando notavano come «la distinzione tra questioni importanti e questioni irrilevanti non possa essere operata intelligentemente in mancanza di un’analisi della ‘mobilitazione delle scelte’ nella comunità, dei valori e dei miti politici dominanti, dei riti e delle istituzioni che tendono a favorire gli interessi costituiti di uno o più gruppi rispetto ad altri»136. Ma, a dispetto di queste intuizioni, Bachrach non sviluppò la critica dell’elitismo democratico fino al punto di riconoscere che persino le regole fondanti del sistema politico, i valori politici di base e lo stesso concetto di «democrazia» sono riflessi dei conflitti di potere e delle dinamiche politiche, e, soprattutto, che le istituzioni democratiche sono il prodotto anche dei significati della democrazia che gli attori politici e sociali costruiscono quotidianamente per difendere le loro posizioni o per conquistarne di nuove. Ed era in gran parte proprio per questo che gli anti-elitisti non spingevano la critica al comportamentismo fino alle sue estreme conseguenze logiche.

Se nel corso degli anni Settanta le tracce che volgevano nella direzione di nuova ‘teoria culturale’ della democrazia direzione erano ancora piuttosto incerte, a partire dagli anni Ottanta la ‘svolta culturale’ compiuta nelle scienze sociali avrebbe reso quella strada più agevolmente praticabile. Pur all’interno di un dibattito affollato ed eterogeneo, al cuore della ‘svolta culturale’, che avrebbe preso corpo sul finire degli anni Settanta, stava infatti proprio il tentativo di ricucire il legame fra ‘soggetto’ e ‘oggetto’ della ricerca sociale che il comportamentismo aveva reciso. Grazie a sollecitazioni molto diverse – dovute per esempio all’antropologia di Clifford Geertz, alle indagini ‘genealogiche’ di Michel Foucault, alla sociologia critica di Pierre Bourdieu – molti ricercatori avrebbero infatti incominciato – o ricominciato – a concepire la cultura in termini molto diversi da quelli utilizzati, più o meno implicitamente, dai politologi della stagione comportamentista137. E proprio da quel momento la cultura avrebbe preso a essere considerata non come qualcosa di distinto dalla struttura

135 Cfr. P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, cit., pp. 157-159.136 P. BACHRACH – M.S. BARATZ, Le due facce del potere, cit., p. 150. 137 Per un quadro delle implicazioni poste dalla ‘svolta culturale’, cfr. M.

SANTORO – R. SASSATELLI, Introduzione, in EAD. (a cura di), Studiare la cultura. Nuove prospettive sociologiche, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 9-53. Una chiara illustrazione dell’utilità, oltre che dei limiti, che un contributo come quello di Foucault offre alla scienza politica è fornita invece da G. FEDEL, Foucault e la scienza politica, in «Quaderni di scienza politica», 2011, n. 3, pp. 361-370.

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sociale, o dall’azione dei singoli, bensì come «il significato incorporato in simboli attraverso i quali gli esseri umani comunicano e trasferiscono saperi e abitudini»138. Compiendo quella che per Bourdieu era una seconda rottura epistemologica, veniva infatti allora abbandonata l’idea di una separazione netta fra cultura e struttura, oltre che fra soggetto e oggetto della ricerca sociale, col risultato che diventava finalmente possibile ‘reintrodurre’ la conoscenza soggettiva del mondo sociale nella conoscenza oggettiva dello scienziato139.

Con intuizioni che risultano ancora oggi preziose, sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso Percy Allum indicava nitidamente la strada che lo studio della cultura politica avrebbe dovuto imboccare. «Se la nozione di significato è davvero centrale nel concetto di cultura (e quindi per estensione anche in quello di cultura politica)», affermava allora Allum riferendosi proprio alle ricerche sulla civic culture, «non è possibile utilizzarlo in termini di distribuzione all’interno di una data società: sarebbe un vero controsenso», perché in realtà «i significati attribuiti, in una data società, alle attività (politiche e non) sono attributi collettivi di quella società», perché «il senso è elemento costitutivo della prassi sociale» e «senza senso nonesiste prassi sociale»140. Ma dato che la ricerca del «senso» implicava «comprensione e interpretazione», per studiare realmente la rilevanza politica della ‘cultura’, nella sua estrema complessità, per Allum diventava indispensabile imboccare una strada molto diversa da quella seguita dalla vecchia politologia comportamentista, distinguendo nettamente fra la «cultura politica» in senso proprio, relativa ai «significati inter-soggettivi», e l’«opinione pubblica», attinente ai «significati soggettivi». La differenza fra le due dimensioni era infatti netta. Ciò che Almond aveva definito come «cultura politica» era soltanto – secondo questa lettura critica – una raffigurazione dell’«opinione pubblica», ossia l’insieme aggregato delle valutazioni dei singoli in ordine a determinati eventi o aspetti della politica, ma non identificava certo quell’ambito – assai più complesso – che coinvolgeva i «significati intersoggettivi». Al contrario, la «cultura politica», intesa in senso critico, doveva corrispondere con «un codice simbolico che definisce la gamma di possibili alternative, entro cui, in una data società, un gruppo o un individuo possono, a certe condizioni, scegliere una linea di azione», ma essa non costituisce «il fattore cruciale nella decisione di agire»141. E, anche per questo, dunque, la ricerca sulla cultura politica si doveva orientare verso una sorta di analisi «semiologica», un’analisi dei significati politici e del loro mutamento, in un’ampia prospettiva storica. Come scriveva

138 W. GRISWOLD, Cultures and Societies in a Changing World, Thousand Oaks, Pine Forge Press, 1994, trad. it. Sociologia della cultura, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 29-30.

139 Cfr. P. BOURDIEU, Le Sens Pratique, Minuit, Paris, 1980, trad. it. Il senso pratico, Roma, Armando, 2005.

140 P. ALLUM, Cultura o opinioni? Su alcuni dubbi epistemologici, in «in «Il Politico», LIII (1988), n. 2, p. 263.

141 Ibi, p. 264.

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Allum, sintetizzando il contenuto della propria proposta, ancora oggi ricca di sollecitazioni per l’indagine politologica:

la cultura politica così come è da noi definita – cioè costruita sulla base della problematica del significato – richiede tutt’altra epistemologia, quella che oggi va sotto il nome di ‘ermeneutica’. E questo per la semplice ragione che almeno nel caso dei «significati intersoggettivi», la lingua e il vocabolario che descrivono le prassi sociali sono parte integrante della prassi sociale stessa (in qualche modo la costituiscono), così che essi non possono essere appresi indipendentemente dalle loro descrizioni: esiste, così, un margine o uno spazio per interpretazioni diverse (ed anche contestazioni) dei loro significati», mentre «nel caso dei ‘significati soggettivi’, invece, trattandosi di reazioni degli individui (così come dei loro commenti) alle prassi sociali, sono in qualche misura slegati dalla prassi sociale, in modo che possono essere letti (per quanto grossolanamente) indipendentemente, cioè attraverso riposte dirette del singolo individuo (ad un questionario, per esempio)142.

Per questo motivo, concludeva Allum, la ricerca sulla cultura politica «deve essere effettuata in chiave semiologica, e in una prospettiva largamente storica, così da restituire il senso che gli interessati attribuiscono alle prassi sociali da loro prodotte», con l’obiettivo specifico di «individuare i momenti specifici in cui i significati politici di una società cambiano o nuovi sensi emergono e chiarirne le ragioni e le conseguenze»143.

La proposta formulata allora da Allum ha trovato in più di due decenni molti sviluppi, soprattutto in studi dedicati alle trasformazioni dei sistemi politici locali e ai mutamenti delle zone subculturali144. Probabilmente, però, le indicazioni al cuore di quella proposta potrebbero rivelarsi capaci di sviluppare, in una nuova direzione, anche la revisione della teoria «realistica» della democrazia, perché proprio svolgendo fino in fondo le implicazioni della ‘svolta culturale’ si possono forse evitare le secche in cui si arenò la vecchia contrapposizione sull’elitismo democratico (e in cui tende ad arenarsi oggi la discussione sulla «postdemocrazia»). Da un certo punto di vista, ciò implica semplicemente riconoscere che la democrazia non è una ‘cosa’, una ‘struttura’ sempre uguale a se stessa e indipendente dai

142 Ibi, p. 263. «Un tale tentativo deve essere in grado di ricondurre ogni tratto

culturale significativo – per esempio il senso dello stato in Francia o la mancanza di senso dello stato in Inghilterra, ecc. – alla vera posta in gioco storicamente e, quindi, al senso che questo assume per l’agire politico oggi» (ibi, pp. 266-267).

143 Ibi, pp. 266-267.144 In una vasta bibliografia, meritano quantomeno una menzione alcune ricerche

proprio di Allum: cfr. P. ALLUM, Politics and Society in post-war Naples, Cambridge University Press, Cambridge, 1973 (trad. it. Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino, 1975), ID., Il potere a Napoli. Fine di un lungo dopoguerra, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2001, e ID., Napoli punto e a capo. Partiti, politica e clientelismo: un consuntivo, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003. Sulle sollecitazioni di questo percorso rinvio alle note svolte in D. PALANO, Napoli 'oltre' la modernizzazione, in «Teoria politica», XX (2004), n. 2.

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significati che le sono attribuiti, dai rituali che la costituiscono, dai simboli in cui viene ‘condensata’, e che l’immagine della democrazia, con i suoi scopi e i suoi fondamenti, è sempre il prodotto di un confronto culturale e politico. Riconoscere davvero il fatto che la democrazia è una costruzione ‘culturale’ non equivale però a riabilitare uno schema idealista di interpretazione dei fenomeni sociali, in virtù del quale è la cultura a costituire il ‘motore’ del mutamento politico. Piuttosto, comporta riconoscere che la democrazia è un «oggetto culturale», «un significato condiviso incorporato in una forma», e che – come tutti gli oggetti culturali –non è cristallizzato e sempre uguale a se stesso, bensì un costrutto costantemente ridefinito nel suo significato da una molteplicità di attori. Questo implica naturalmente che il concetto di democrazia, in un determinato contesto storico e politico, deve essere inteso anche come il riflesso dei conflitti che si svolgono nella società, sia all’interno che all’esterno dell’area strettamente istituzionale, per la ‘politicizzazione’ o la ‘depoliticizzazione’ di determinate questioni, per la dilatazione o il restringimento dell’area delle «non decisioni», per la definizione del campo stesso del ‘dicibile’, ossia il confine che stabilisce quali posizioni possano essere legittimamente portate sulla scena del confronto pubblico. E, ovviamente, ciò richiede che si debba intendere il concetto di democrazia anche – seppur non in modo esclusivo – come il risultato della competizione e talvolta dello scontro fra intellettuali e tra visioni opposte intorno a ciò che costituisce il cuore fondante di un regime democratico.

Proprio in questa chiave, diventa forse possibile rivisitare la teoria «realistica» della democrazia grazie alle sollecitazioni provenienti dal campo della sociologia della produzione culturale145. Al di là di tutte le enormi differenze, anche nella costruzione simbolica della democrazia possono essere infatti rinvenuti meccanismi analoghi a quelli che si riconoscono in ogni processo di produzione culturale. Per questo, è forse davvero possibile studiare i meccanismi interni a un regime democratico anche – se certo non solamente – con gli strumenti utilizzati da quegli studi che puntano a ricostruire le norme, le consuetudini e le convenzioni condivise dai diversi gruppi coinvolti nel processo di creazione di prodotti culturali e artistici, oltre che i conflitti che tra questi gruppi spesso sorgono146. Ma, forse, sulla scorta

145 A proposito del filone di studi della «produzione culturale», Santoro osserva che «la specificità dell’approccio in esame è da identificarsi nell’attenzione privilegiata che i suoi interlocutori prestano al “complesso apparato interposto tra i creatori di cultura ed i consumatori”, un apparto che comprende assetti organizzativi, ruoli professionali, tecniche di marketing, agevolazioni per la produzione e la distribuzione, flussi finanziari e più in generale la creazione di tutte quelle situazioni capaci di mettere in comunicazione oggetti culturali con potenziali fruitori di cultura». Cfr. M. SANTORO, Cultura e produzione culturale nella società contemporanea, «Città e Società», III (1999), 2, pp. 16-17.

146 Esempi in qualche modo ‘classici’ sono, da questo punto di vista, testi come D. CRANE, The Transformation of Avant-garde. The New York art world. 1940-1985, Chicago University Press, Chicago 1987, P. DI MAGGIO e P. M. HIRSCH, Production Organizations in the Arts, «American Behavioral Scientist», XIX (1976), n. 6, pp.

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di alcune vecchie ricerche di Howard S. Becker, è anche possibile considerare la democrazia – o, meglio, ogni regime democratico –come una sorta di «mondo politico»147, in qualche misura analogo agli art worlds studiati dal sociologo americano148.

La nozione di art world – fortemente indebitata proprio con la tradizione fenomenologica di Husserl e con il filone sociologico dell’interazionismo simbolico149 – si concentra sulle convenzioni condivise e permette così di sfuggire agli inconvenienti impliciti in molte rappresentazioni del rapporto tra arte e società. Mentre infatti le prospettive tradizionali si focalizzano sulla figura dell’artista o sulle influenze esercitate dall’ambiente sull’attività creativa, la nozione di art world pone in primo piano la rete di cooperazione collettiva che rende possibile l’arte come fenomeno sociale: l’arte viene dunque privata dell’aura sacrale e considerata come un ‘lavoro’ analogo a molti altri, come un’attività svolta da un insieme più o meno ampio di persone. Sulla scorta di questa ipotesi, Becker si concentra in particolare sui modelli di cooperazione che consentono di produrre ‘opere d’arte’ e sulle convenzioni che consentono di considerare come ‘artistico’ un determinato prodotto culturale. Secondo Becker un mondo è «l’insieme degli individui e delle organizzazioni la cui attività è necessaria per produrre gli eventi e gli oggetti che sono

735-752, P.M. P. M. HIRSCH, Processing Fads and Fashions: An Organization-Set Analysis of Cultural Industry Systems, «American Journal of Sociology», 1972, vol. 77, 4, pp. 639-655, W.W. POWELL e P.J. DI MAGGIO (eds.), The New Institutionalism in Organizational Analysis, Chicago, Chicago University Press, 1991, R.A. PETERSON, The Production of Cultural Change: The Case of Contemporary Country Music, «Social Research», XLV (1978), pp. 292-314, R.A. PETERSON - D. BERGER, Cycles in symbol production: The case of popular music, in «American Sociological Review», XL (1975), pp. 158-173, R.A. PETERSON – P. DI MAGGIO, From region to classe, the changing locus of popular music: A test of the massification hypotesis, «Social Forces», LIII (1975), pp. 497-506. Per un’applicazione efficace di questi strumenti, cfr. E. MORA, Fare moda. Esperienze di produzione e consumo, Bruno Mondadori, Milano, 2009.

147 Per una più compiuta discussione dell’idea di «mondo politico», rimando a D. PALANO, Terrorism as «political world». Identity, strategy, values: notes for a cultural analysis of terrorism, in R. CARUSO – A. LOCATELLI (eds.), Understanding Terrorism: A Socio-Economic Perspective, Emerald, Bingley, pp. 135-157.

148 Per l’articolata riflessione dedicata dal sociologo ai «mondi artistici», H.S. BECKER, Art as a collective action, «American Sociological Review», 1974, 6, pp. 767-776, ID., Mondi artistici e tipi sociali, «Sociologia del Lavoro», 1985, 25, pp. 39-53 (ed. or. Art Worlds and Social Types, «American Behavioral Scientist», 1976, 6, pp. 703-718, ma soprattutto ID., Art worlds, University of California Press, Berkeley 1982.

149 Come ha scritto Santoro, la «sociologia qualitativa» coltivata da Becker era influenzata proprio dalla fenomenologia ed esplicitamente in contrasto con gli indirizzi rigidamente quantitativi della teoria sociale comportamentista: «a lungo schiacciate dal funzionalismo dominante, le prospettive microanalitiche dell’interazionismo simbolico e della sociologia fenomenologica nascevano proprio da questa riconosciuta necessità - di derivazione weberiana e meadiana - di decifrare il sistema dei significati da cui il comportamento sociale riceve senso e direzione nell’esperienza intersoggettiva degli attori» (M. SANTORO, Introduzione, M. Santoro, Introduzione a D. CRANE, La produzione culturale, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 11).

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caratteristici di questo mondo»150. Inoltre, un art world «è composto da individui e organizzazioni che producono gli eventi e gli oggetti che vengono definiti come artistici da quel mondo»151. Ed è proprio grazie a questa definizione, evidentemente tautologica, che Becker riesce a risolvere il problema del significato dell’arte: in altre parole, Becker non si interroga sul ‘perché’ gli esseri umani producano oggetti che definiscono come ‘arte’, e non cerca neppure di chiarire quali siano gli elementi ‘oggettivi’ che trasformano un determinato oggetto in un’opera d’arte. Più semplicemente, Becker si limita a riconoscere che, nelle nostre società, gli individui assegnano un valore ‘artistico’ ad alcuni prodotti, e cerca di ricostruire quali sono le convenzioni culturali, estetiche, professionali che regolano un art world. Pertanto, come sintetizza, «non si deve iniziare dando una definizione dell’arte per cercare in seguito quelli che producono le opere in questione», ma è piuttosto necessario «iniziare a cercare quelle che sono le caratteristiche dei soggetti che cooperano per produrre ciò che, almeno nell’opinione di questi, viene qualificata come arte»152.

Le implicazioni della piccola «rivoluzione copernicana» compiuta da Becker sono naturalmente numerose, ma quelle più significative sono probabilmente tre. In primo luogo, sulla scorta di questa proposta definitoria, l’arte viene concepita non come il prodotto di un singolo individuo, e cioè dell’«artista», bensì come il risultato della cooperazione di tutte le persone che collaborano alla realizzazione di un prodotto artistico. Ciò comporta allora che l’indagine sui mondi artistici deve coinvolgere tutti i membri di quel mondo: le persone che concepiscono l’idea dell’opera, quelle che la eseguono, quelle che predispongono gli strumenti necessari all’esecuzione e infine il pubblico. In secondo luogo, secondo Becker, diventa del tutto plausibile riconoscere, non solo teoricamente ma anche empiricamente, la contemporanea esistenza di più mondi dell’arte, i quali possono essere tra loro anche in contrasto o invece condividere alcune convenzioni estetiche. Infine, è anche inevitabile ammettere che «ogni mondo costituito determina il valore che sarà accordato a un’opera», e che, dunque, «l’interazione delle diverse categorie di soggetti permette la spartizione del senso del valore che la loro produzione collettiva possiede»153. Ed è probabilmente proprio questa

150 H.S. BECKER Mondi artistici e tipi sociali, cit. p. 39.151 Ibi, p. 39.152 Ibi, pp. 39-40. E così, continua Becker: «Una volta identificati i soggetti,

occorre domandarsi chi siano gli altri «attori» che partecipano a questa produzione, in modo da elaborare un poco alla volta uno schema che risulti il più completo possibile, e che descriva la rete di cooperazione che si spiega a partire dalle opere in questione. È quindi perfettamente possibile, sia in teoria che in pratica, la coesistenza di più mondi. Possono ignorarsi, essere in conflitto, intrattenere una relazione simbiotica o cooperativa. Possono avere una certa durata […], o al contrario essere effimeri, se il gruppo ha come unica ragione di essere la produzione di un lavoro specifico» (ibi, p. 40).

153 Ibi, p. 41.

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l’implicazione più rilevante, che davvero – sviluppando appieno l’ipotesi di una rilettura ‘fenomenologica’ della democrazia – potrebbe consentire di superare la vecchia contrapposizione fra pluralismo ed anti-elitismo, oltre che di lasciarsi davvero alle spalle la più ambigua eredità del comportamentismo.

Come Becker rifiuta di definire ‘oggettivamente’ l’arte, lasciando a un mondo artistico – e cioè agli individui e alle organizzazioni che costituiscono un «mondo» – la concreta definizione dei criteri che rendono ‘artistica’ una determinata opera, così una teoria ‘culturale’ e ‘fenomenologica’ della democrazia potrebbe rinunciare all’«obiettivismo» del comportamentismo, senza però cedere al soggettivismo e senza neppure rinunciare all’analisi dei sistemi politici a favore di una – pur legittima – critica filosofica del presente: perché, in sostanza, potrebbe superare la netta separazione dell’oggetto dal soggetto della ricerca – quella divaricazione che Morgenthau e Marcuse in modo diverso attaccavano – reintroducendo nell’analisi la soggettività dei singoli attori che agiscono in un «mondo politico», e le interazioni (più o meno pacifiche o conflittuali) che definiscono concretamente – nella prassi di quello specifico «mondo politico» – cosa sia la «democrazia», quali siano i suoi obiettivi, quali i suoi vincoli, quali i suoi nemici. Naturalmente, ciò non significa che possano essere confuse indiscriminatamente la prospettiva del ricercatore e quella dell’oggetto d’indagine. Più semplicemente, significa che il mondo simbolico dell’oggetto di studio viene finalmente collocato al centro dell’indagine. E per questo, proprio come suggeriva Allum, diventa centrale la nozione di interpretazione: «non solo e non tanto quella dell’analista ma anche e soprattutto quella degli attori in quanto riferita a modelli o strutture di significati intersoggettivamente condivisi», perché sono proprio «le interpretazioni condivise degli attori sociali ad essere al centro dell’analisi culturale dell’identità politica, insieme ai rituali e ai simboli che le esprimono e le veicolano»154. E la ricerca può allora finalmente trarre tutte le conseguenze del fatto che i soggetti della politica sono anche – se non certo esclusivamente – «maschere» e «fantasmi», ossia «finzioni» che orientano e che vincolano le azioni degli individui, ma di cui gli stessi individui contribuiscono a definire (e ridefinire) il significato155.

Una simile teoria ‘culturale’ e ‘fenomenologica’ della democrazia rimane naturalmente ancora tutta da costruire, e per molti versi non rappresenta altro che un’ipotesi di discussione. Da un certo punto di vista, si tratta però di una proposta che si limita ad adottare – sul

154 M. SANTORO, La voce del padrino. Mafia, cultura, politica, Verona, Ombre

corte, 2007, p. 96. Sulle sollecitazioni offerte da questo testo, rimando a D. PALANO,Questione di cultura. Una proposta post-comportamentista per lo studio della «mafia», in «Teoria politica», 2009, n. 1, pp. 206-220.

155 Cfr. a questo proposito L. ORNAGHI, La «bottega di maschere» e le origini della politica moderna, in C. MOZZARELLI (a cura di), «Familia» del Principe e famiglia aristocratica, Roma, Bulzoni, 1988, I, pp. 9-23.

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terreno della teoria della democrazia – il vecchio ammonimento di Max Weber, che, mentre contestava l’idea che le scienze della cultura potessero ridurre a «leggi» i dati empirici, osservava che «non si può concepire una conoscenza di processi culturali se non sul fondamento del significato che ha per noi la realtà della vita, sempre configurata in forma individuale, in determinate relazioni particolari»156. E, dunque, questa proposta non tenta altro che di registrare un fatto in fondo evidente per chiunque osservi la trasformazione dei nostri sistemi politici, ossia che – come ha scritto lucidamente Alfio Mastropaolo –«istituzioni e norme sono riscritte, o reinterpretate, perché cambia, in maniera relativamente autonoma, il modo d’intendere, raccontare e interpretare la democrazia stessa», e cioè «perché nuovi punti di vista s’impongono in sede di senso comune, a loro volta sollecitati dal riorientarsi della riflessione teorica e del discorso ‘colto’ sulla democrazia»157. Non si tratta dunque semplicemente di ‘allargare’ o di ‘restringere’ le procedure che consideriamo come costitutive della democrazia, perché la questione non consiste nell’estendere, sulla base di una valutazione ‘soggettiva’ del ricercatore, il ‘contenuto minimo’ della democrazia – ciò che le democrazie sono nella realtà – fino a ricomprendere una serie di elementi che – in base a una determinata visione di ciò che le democrazie dovrebbero essere – vanno intesi come indispensabili per poter effettivamente parlare di un regime democratico. Al contrario, si tratta di mettere in discussione la stessa distinzione fra essere e dover essere, e di riconoscere che i valori –ossia le visioni normative della democrazia adottate dagli attori sociali – non possono essere analiticamente distinti dalla strutturademocratica in cui essi operano e dall’insieme delle istituzioni in cui si svolge il gioco politico. Così persino le procedure, all’apparenza riducibili a semplici regole, e dunque alla dimensione di vincoli formali sottratti al gioco politico, possono rivelarsi come niente affatto immuni da un’azione di ridefinizione culturale, perché vengono di fatto estese o ridotte, arricchite o impoverite, grazie a modificazioni del significato che ad esse viene socialmente attributo in un determinato contesto storico e politico. Tanto che, per esempio, persino senza un mutamento formale dei vincoli procedurali possono modificarsi sostanzialmente la visione dei requisiti indispensabili per accedere alla cittadinanza politica, o l’idea delle condizioni che garantiscono una reale ‘competizione’ democratica, o la convinzione che determinate forze costituiscano una minaccia (per la sicurezza nazionale, per l’ordine pubblico, per il comune senso del pudore) e vadano dunque legittimamente private del diritto di partecipare al confronto politico.

156 M. WEBER, L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica

sociale (1904), in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 2003, p. 47.

157 A. MASTROPAOLO, Democrazia, neodemocrazia, postdemocrazia: tre paradigmi a confronto, cit., p. 1612.

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Il sentiero che conduce verso una ridefinizione in chiave culturale della teoria democratica non è affatto privo di incognite e di insidie. Ma, forse, è proprio seguendo queste intuizioni che l’eredità dell’anti-elitismo può evitare di tornare a replicare, ancora una volta, una controversia sul contenuto ‘autentico’ di una teoria ‘realmente’ democratica e così di riattivare una contrapposizione, per le stesse basi da cui scaturisce, in fondo insolubile. Trarre davvero le conseguenze della ‘svolta culturale’, e fare finalmente i conti con ciò che rimaneancora oggi della stagione comportamentista, avrebbe certo effetti notevoli per la nozione ‘realistica’ di democrazia adottata dalla gran parte del dibattito politologico158. Una simile operazione imporrebbe infatti di fare definitivamente i conti con gli assunti condivisi dai politologi comportamentisti, e in particolare con la convinzione che sia davvero possibile costruire concetti analitici ‘neutrali’, il cui significato sia ‘oggettivo’, ‘depurato’ da incrostazioni ideologiche. Probabilmente, però, non si tratterebbe tanto di abbandonare del tutto la concezione «realistica» della democrazia competitiva elaborata a partire dalle pagine di Schumpeter, quanto di recepire in fondo ciò che sottolineava l’economista austriaco, quando scriveva che si doveva lasciare «ad ogni populus di autodefinirsi». Così, si tratterebbe piuttosto di ripensare la teoria «realistica» in una prospettiva ‘culturale’ e ‘fenomenologica’159. Una prospettiva che, collocando la democrazia dentro un Lebenswelt, renda possibile considerarla come un «oggetto culturale», destinato a caricarsi di significati sempre diversi. E una prospettiva che renda dunque possibile anche ricostruire in profondità quelle dinamiche di trasformazione delle nostre delle democrazie che sono anche, se non certo esclusivamente, trasformazioni nel significato che noi – ‘uomini della strada’ o intellettuali, politici o politologi – attribuiamo quotidianamente alla parola «democrazia».

158 Il peso che ancora oggi esercita la stagione comportamentista sul dibattito

politologico è stato al centro della critica svolta da cosiddetto ‘caso Perestroika’, su cui si vedano, per esempio, D. LAITIN, The Perestroikan Challenge to Social Science, in «Politics and Society», XXXI, 2003, pp. 163-184, K. R. MONROE (a cura di), Perestroika! The Raucous Rebellion in Political Science, New Haven, Yale University Press, 2005, e L. ZAMBERNARDI, Perestroika: la critica contemporanea allo studio «scientifico» della politica, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», XXXVIII, 2008, n. 1, pp. 29-52.

159 Per alcuni contributi provvisori in questa direzione, rimando a D. PALANO, La democrazia senza qualità, cit., e ID., La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica, Mimesis, Milano, 2012.