La cultura fra alterità e complessità La lezione di Jurij...

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SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale La cultura fra alterità e complessità La lezione di Jurij M. Lotman A cura di LAURA GHERLONE Con la supervisione scientifica di ISABELLA PEZZINI

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SAPIENZA

UNIVERSITÀ DI ROMA

Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale

La cultura fra alterità e complessità

La lezione di Jurij M. Lotman

A cura di LAURA GHERLONE

Con la supervisione scientifica di ISABELLA PEZZINI

Impaginazione ed elaborazione grafica: ROBERTO ARTIGIANI

In copertina MARC CHAGALL, La Maison bleue (Синий дом, Vitebsk, 1917-1920)

Alla fine del suo viaggio «il Maestro ottiene un mondo di tenera vita casalinga impregnata di cultura (che è il lavorio spirituale delle generazioni precedenti), di “clima d’amore”, un mondo nel quale non abita più la crudeltà».

(Lotman, “La casa ne Il maestro e Margherita”, 2005 [1996]:35)

 

 

Questo   lavoro   è   l’esito   di   un   articolato   “viaggio”   di   ricerca   che   mi   ha   portato   a  conoscere  una  parte  di  mondo  davvero   imprevedibile;  ma  è  anche   il   frutto  di  uno  percorso   comunitario,   nato   dallo   scambio   di   pensieri,   riflessioni,   opinioni,  testimonianze  sull’indimenticata  figura  di  Jurij  M.  Lotman,  in  particolare  all’interno  della   cattedra   di   Scienze   Semiotiche   del  Dipartimento   di   Comunicazione   e   Ricerca  Sociale  dell’Università  Sapienza.  

Vorrei   ringraziare   con   affetto   Isabella   Pezzini,   che  mi   ha   accompagnata   in   questi  anni,  dandomi  non  solo  la  sua  supervisione  scientifica,  ma  anche  la  sua  esperienza  e  l’incoraggiamento   necessario   per   proseguire   su   una   strada   inesplorata;   Peeter  Torop   (insieme   ai   docenti   del   Dipartimento   di   Semiotica   dell’Università   di   Tartu),  che   mi   ha   “presa   per   mano”   e   mi   ha   fatto   conoscere   Lotman   come   studioso   e,  soprattutto,   come   persona   di   straordinaria   umanità,   onestà   intellettuale   e   libertà  spirituale;  Bruno  Osimo,  che  mi  ha  aiutata  con  generosità  nella  traduzione  e  nella  comprensione   dei   testi   lotmaniani;   tutti   i   colleghi   della   cattedra   (in   particolare  Franciscu   Sedda,   che   con   le   sue   imperfette   traduzioni   mi   è   stato   di   grande  ispirazione).  

Vorrei   esprimere   la   mia   riconoscenza   a   Mario   Morcellini   e   ai   docenti   del  Dipartimento  per  avermi  dato   l’opportunità  di  vivere   l’esperienza  del  dottorato,   in  un  momento  non  certo  facile  per  la  Ricerca  nel  nostro  Paese.  

Un  grazie   infinito  a  Piero  Coda  e  a   tutti  dell’Istituto  Universitario  Sophia,   dove  ho  imparato  che  lo  studio,  senza  una  vita  vissuta  per  ciò  che  non  passa,  vale  poco.  Lo  stesso   vale   per   la   mia   famiglia,   il   luogo   in   cui   ho   sperimentato   e   imparato   a  generare  quel   “clima  d’amore”   che   restituisce   speranza  per   il   futuro,  misericordia  per  il  passato,  inesauribile  fiducia  per  l’Umanità.  

Grazie  a  tutti  gli  Amici  che,  per  brevi  o  lunghi  tratti,  sono  entrati  nella  vita  e  ci  sono  rimasti…  in  giro  per  il  mondo.      

E  grazie  a  te,  Lotman,  mio  compagno  di  viaggio  in  questi  tre  anni.  Con  te,  ho  compreso  che  la  libertà  interiore,  la  fedeltà  verso  se  stessi  e  i  grandi  ideali  possono  consumare  i  momenti  più  bui  della  storia,  individuale  e  collettiva,  dando  vita  a  un  mondo  nel  quale  non  abita  più  la  crudeltà.  

Indice

Introduzione Overview ............................................................................................................... I

La Scuola semiotica di Mosca-Tartu ............................................................. IV Lotman in Italia ............................................................................................. VI

PARTE I Introduzione La struttura del presente lavoro .......................................................................... 3

1962-1972 Prodromi della semiotica tartuense ............................................. 3 1973-1976 Comunicazione e cultura. Un oggetto di studio complesso ......... 7

CAPITOLO 1 1. Aperture e contraddizioni alla nascita della semiotica tartuense ...... 11

1.1 Strutturalismo, linguistica, scienze umane ............................................. 12 1.1.1 Il metodo strutturale ..................................................................... 12 1.1.2 Strutturalismo e linguistica alla luce del concetto di “scientificità” . 17 1.1.3 Le radici cibernetiche del primo strutturalismo lotmaniano.

Wiener-Jakobson-Lévi-Strauss ....................................................... 21

2. I primi scritti. Superamento della matrice struttural-linguistica: sincronia plus diacronia ...................................................................... 24

3. La tipologia della cultura. Alla ricerca degli universali culturali fra strutturalismo e cibernetica ............................................................... 30

4. Modello e modellizzazione nella Scuola semiotica di Mosca-Tartu ... 33 4.1 “…anche la semiotica si occupa innanzitutto di modelli” (1962). La

modellizzazione semiotica del mondo .................................................... 35 4.2 Il modello in J. Lotman: una nuova prospettiva ..................................... 39

4.2.1 La realtà e i suoi oggetti-in-relazione ............................................ 39 4.2.2 Il linguaggio dell’arte: paradigma della modellizzazione ............... 42

4.3 Il modello nel dibattito scientifico tra gli anni Cinquanta e Settanta ..... 44

5. La semiotica della cultura: dalla lingua alle lingue ............................. 52 5.1 Verso la semiotica della cultura.............................................................. 52

5.2 Comunicazione come eterogeneità e poliglottismo culturale ............... 56 5.3 Il meccanismo semiotico della cultura nella sua prima ipotesi teorica .. 60

5.3.1 Cultura come memoria collettiva e dinamica centro-periferia ...... 60 5.3.2 Organizzazione culturale e tipologizzazione testo-segno .............. 62

CAPITOLO 2 1. La semiotica della cultura come problema di definizione dell’altro-da-sé ... 89 2. Dall’idealità dell’atto comunicativo alla demoltiplicazione delle

prospettive. Arricchimento del modello jakobsoniano: l’autocomunicazione .......................................................................... 93

3. Cultura e semiotizzazione del comportamento ............................... 101 4. L’intertestualità ................................................................................ 106 5. Verso il concetto di complessità ....................................................... 112 6. Vygotskij e Bachtin............................................................................ 114

6.1 L. Vygotskij e l’inner speech .................................................................. 114 6.2 M. Bachtin e il dialogismo .................................................................... 117

PARTE II Introduzione Sull’analogia ..................................................................................................... 133 Dall’universo delle leggi al mondo della complessità: la seconda rivoluzione scientifica e il “risveglio” dell’analogia ............................................................. 139 L’incontro tra la cibernetica e la biologia, ossia tra la teoria dell’informazione e il codice genetico: passaggio alla complessità ................................................. 148 L’uso “esterno” e l’uso “interno” dell’analogia in Lotman: vari modelli di cultura .... 151

1977-1983 .................................................................................................. 152 1984-1993 .................................................................................................. 161

CAPITOLO 3 1. La cultura come sistema produttore di pensiero in prospettiva

cibernetica ........................................................................................ 177 2. Il soggetto-cultura e la sua capacità di autocoscienza ..................... 181

3. Emisferi cerebrali e tipologizzazione della cultura umana. Culture orientate alle coscienza logico-razionale vs culture orientale alla coscienza intuitiva ............................................................................ 186

4. Isomorfismo e asimmetria. L’uomo tra ragione e intuizione: il paradigma del pensiero mitologico .................................................. 198

5. Pubblico, testo, comportamento quotidiano ................................... 204 5.1 Il testo-organismo e la pragmatica della ricezione ............................... 204 5.2 Byt, testi e cultura ................................................................................ 210

CAPITOLO 4 1. La svolta organicistica ....................................................................... 231 2. Il pensiero complesso di Vladimir I. Vernadskij ................................ 233

2.1 Sulla biosfera. Vernadskij naturalista ................................................... 233 2.2 Sulla noosfera. Vernadskij filosofo ....................................................... 238

2.2.1 La cefalizzazione della biosfera come fenomeno naturale .......... 238 2.2.2 Una visione scientista della conoscenza umana .......................... 239

3. Sulla scia di Vernadskij. Dalla biosfera alla semiosfera .................... 244 3.1 I saggi del 1984: l’uso della metafora organicistica .............................. 244 3.2 Dentro di mondi pensanti o Universe of the Mind ............................... 245 3.3 La semiosfera. ....................................................................................... 248

3.3.1 Come un sole che gorgoglia, una cellula che prolifera, un’intelligenza diffusa. Diverse definizioni ................................... 248

3.3.2 Asimmetria e isomorfismo, opposizione e specularità ................ 250 3.3.3 Il centro della semiosfera: un binarismo modellizzante .............. 252 3.3.4 La periferia della semiosfera: un’eterogeneità disarticolante. La

semiosi illimitata .......................................................................... 255

4. Il confine, il dialogo e l’altro. I nostri estranei .................................. 258 4.1 Confine e alterità. Da Vernadskij a Lotman, passando per Florenskij e

Bachtin .................................................................................................. 258 4.2 Dalla traduzione al dialogo ................................................................... 262

5. Lo spazio: rappresentazione iconica della semiosfera. Per una semiotica spaziale ............................................................................. 263

PARTE III Introduzione Semiotica e epistemologia della complessità. Il laboratorio dell’imprevedibilità .. 298 Nuove prospettive ........................................................................................... 301

CAPITOLO 5 1. Storia, memoria, ideologia, futuro ................................................... 305

1.1 Diverse temporalità. Tempo ciclico vs tempo lineare .......................... 306 1.2 Alcune riflessioni sul tempo negli scritti degli anni Settanta-Ottanta .. 311

1.2.1 La memoria e la costruzione ideologica della storia .................... 311 1.2.2 L’hegelismo in Russia. Storia ed escatologismo ........................... 314 1.2.3 Storia come progresso e come prassi tecno-scientifica ............... 317

1.3 Il tempo in Lotman dopo Prigogine ...................................................... 319 1.3.1 La teoria della “relatività” storica ................................................ 325 1.3.2 Dal bivio alla rivoluzione o alla ricostruzione: storia come processo

“alchemico” o storia come processo “chimico”? ......................... 328 1.3.3 Esplosioni binarie ed esplosioni ternarie ..................................... 334

2. L’arte: il laboratorio dell’imprevedibilità. Etica e libertà .................. 341 3. Poliglottismo, scienza e tecnica ........................................................ 346

3.1 Poliglottismo e ispirazione. Il pensiero creativo ................................... 346 3.2 Linguaggio scientifico, tecnica e ragione tecno-pragmatica ................. 351

3.2.1 Il dialogo interdisciplinare come paradigma del poliglottismo lotmaniano ................................................................................... 352

3.2.2 Il problema della tecnicizzazione della ragione ........................... 358

4. Dov’è il soggetto? ............................................................................. 362 4.1 La semiosi sociale. L’uomo tra individualismo e collettivismo ............. 362 4.2 Psicosi collettive e persecuzioni ........................................................... 369

5. Memoria, testo e testualità, pluri-semiosfera .................................. 378

APPENDICE Il meccanismo dei Torbidi ................................................................................ 431 Volontà di Dio o gioco d’azzardo? .................................................................... 451 Nella prospettiva della Rivoluzione francese ................................................... 462 Ripetibilità e unicità nel meccanismo della cultura ......................................... 469

BIBLIOGRAFIA LOTMANIANA ............................................................... 477 I. Un commento sulla selezione dei testi adottati ............................................ 477 II. L’archivio e i depositi degli scritti Lotmaniani in Estonia ............................. 479 J. M. Lotman nelle pubblicazioni in lingua italiana .......................................... 482 J. M. Lotman nelle pubblicazioni in lingua spagnola ........................................ 491 J. M. Lotman inedito dal 1985 al 1993 ............................................................. 498 Scritti su Lotman e la Scuola semiotica di Mosca-Tartu usati per il presente lavoro .... 505

BIBLIOGRAFIA GENERALE ................................................................... 511

I

Introduzione

Overview

Tutta l’opera di Jurij Lotman, fondatore della Scuola semiotica di Mosca-Tartu, è attraversata da una tensione che sembra spingerlo a non cristallizzarsi mai sulle visioni e le teorie che, unitamente agli altri colleghi della Scuola, andava di volta in volta concettualizzando. Nella sua opera è confluita una straordinaria molteplicità di modelli scientifici, istanze filosofiche, prospettive epistemologiche che, insieme, hanno dato vita ad una pluralità di modelli di descrizione della dinamica culturale e della produzione segnica – di qui, “semiotica della cultura”. Certamente, quello che più stupisce della sua parabola intellettuale, oltre alla malleabilità di pensiero (il continuo movimento dal logico-formale al sintetico-intuitivo e viceversa), è il passaggio da una visione fortemente ordinata e modellizzata di cultura – di matrice strutturalista – ad una visione estremamente non-sistematica. Lui stesso, nei suoi

II

ultimi lavori, parlerà di un pensiero che procede per “esplosioni”, vale a dire per trasformazioni creative, lasciando quindi libertà all’imprevedibilità del movimento reale della cultura.

Ripercorrendo gli scritti della Scuola di Mosca-Tartu e i modelli di cultura e comunicazione in essi implicati, vedremo che il pensiero lotmaniano – nel suo passaggio dalle radici tardo-formaliste e strutturaliste a un approccio epistemologico dinamico e dialogante – può essere interpretato come un’espressione “incarnata” di quell’inquietudine epistemologica che ha investito l’universo delle scienze (e in particolare le scienze umane) nel corso del Novecento e che affonda le sue radici nella cosiddetta seconda rivoluzione scientifica, ossia il cambiamento di paradigma epistemologico e metodologico nelle scienze naturali tra Otto e Novecento. A cavallo dei due secoli, infatti, di fronte all’ammissione del carattere sempre parziale, provvisorio, congetturale e fallibile del sapere scientifico, all’accresciuta comprensione di “livelli ascendenti di esistenza” della realtà e alla necessità di dare un senso unitario all’esperienza intellettuale, si andava profilando l’esigenza di un rinnovato approccio alla ricerca scientifica, che rigettasse il meccanicismo determinista proprio della scienza positivista – di cui la cultura tecno-prassista fu, ed è ancora, uno dei frutti più acerbi – per un recupero integrale del sapere e della persona.

Il pensiero complesso, in netta contrapposizione al riduzionismo (metodologico, concettuale e causale) della razionalità scientifica moderna, fu l’approdo di questo cambio di paradigma epistemologico, e non solo nell’ambito delle scienze naturali ma anche in quello delle scienze umane e sociali. Lotman infatti, nell’ultima parte della sua vita, tenterà una ricomprensione del concetto di cultura alla luce del pensiero complesso, acquisendone in via analogica i postulati e assumendo come perno teorico di questo passaggio il dialogo interdisciplinare1. Forte della sua esperienza “polifonica” nella Scuola semiotica di Mosca-Tartu, Lotman vede nell’interpenetrazione delle scienze un passaggio essenziale per il cammino dell’umanità: passaggio simboleggiato dall’università, «questa antica forma di associazione delle

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scienze sotto lo stesso tetto (letteralmente e figurativamente)», che nella «sua struttura sembra riprodurre la struttura del mondo»2: una e molteplice.

Vedremo come lo sguardo a-riduzionistico di Lotman si tradurrà non solo in una nuova interpretazione dei fatti culturali, ma anche in una riflessione epistemologica di valore etico, ove il principio dialogico – se non ternario, come indicato dalle sue ultime due opere (La cultura e l’esplosione e I meccanismi impredicibili della cultura) – svuota alla radice il “pensiero unico” (o sintetico), ovverosia il pensiero totalitarista. Lotman, in questa prospettiva, fa eco a Karl Popper quando questi scrive: «penso che Russell abbia ragione quando attribuisce all’epistemologia conseguenze pratiche per la scienza, per l’etica e perfino per la politica. Egli infatti afferma che il relativismo epistemologico, ossia l’idea che non esiste nulla di simile alla verità obiettiva, e il pragmatismo epistemologico, ossia l’idea che la verità è lo stesso dell’utilità, sono strettamente connessi con idee autoritarie e totalitarie»3.

Secondo Lotman c’è un luogo preciso dove l’uomo si può educare al pensiero dialogico: l’università, quell’esperienza esistenziale che non equivale semplicemente a «una certa quantità di conoscenza o [a] migliaia di pagine di libri di testo e monografie». L’università vuol dire «cinque anni della propria vita in condizioni singolari e piuttosto specifiche. Per la creazione di un particolare tipo di uomo culturale, (…) questi cinque anni di vita nel milieu universitario non sono meno importanti degli studi stessi»; essi danno accesso all’informazione, vale a dire alla facoltà di scelta, e dunque alla libertà. Per questo motivo, egli continua, «sia nel loro lavoro che nel loro tempo libero, io cerco di dare [agli studenti] il massimo della scelta. Nelle mie lezioni ripeto sia le mie idee che quelle dei miei oppositori, nel modo più convincente possibile – che possano pensare e scegliere»4.

IV

La Scuola semiotica di Mosca-Tartu

Fondata a Mosca nel dicembre del 1962, in occasione del Simpozium po strukturnomu izučeniju znakovych sistem5, la semiotica sovietica si radicava su un ricchissimo patrimonio culturale e accademico: l’eredità del tardo formalismo russo, le istanze provenienti dalla giovane scienza cibernetica, la lezione di quel composito quadro teorico e metodologico che va sotto il nome di strutturalismo.

La nascita istituzionale di una scienza dei segni e la costituzione di un istituto che ne portasse il nome, come scrive C. Prevignano, era già stata avanzata nel giugno del 1959 dai vertici dell’Istituto di linguistica dell’Accademia delle scienze umane dell’URSS e, sempre nello stesso anno, dai partecipanti al Simposio internazionale Zeichen und System der Sprache6 di Erfurt, nella DDR. Bisogna dunque aspettare il 19627 perché alla semiotica sia riconosciuto un posto disciplinare ad hoc. Ad organizzare il Simpozium è la “Sezione di Tipologia Strutturale delle Lingue Slave”, fondata nel 1960 come parte integrante dell’Accademia e guidata da V. Toporov a V. Ivanov. La Sezione viene considerata l’istituto ufficiale della semiotica sovietica8, la quale tuttavia tende ad essere identificata (anche per motivi ideologico-politici) con altre discipline, quali la linguistica, la tipologia strutturale, la poetica, la cibernetica, la traduzione meccanica, la teoria matematica dell’informazione.

L’emancipazione della semiotica allo status di disciplina autonoma – nominalmente e, con il tempo, anche metodologicamente – si ha solo nel 1964, anno in cui J. Lotman fa uscire a Tartu, in Estonia, il numero 1° dei Trudy po znakovym sistemam9, la prima rivista accademica, dedicata ufficialmente ai sistemi segnici10, che raccoglierà fino al 199211 le istanze teoriche di un ricco gruppo di ricercatori. Nello stesso anno, inoltre, si tiene a Kääriku (sempre in Estonia) la prima delle quattro scuole estive del gruppo tartuense, appuntamenti biennali che ne rappresenteranno il cuore dell’elaborazione concettuale. Il 1964 è dunque la data di nascita ufficiale della Scuola semiotica di Mosca-Tartu, il cui nome è

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legato appunto al fatto che in essa vanno a confluire sia la linea teorica sviluppata a Mosca che quella avviata a Tartu.

Ma perché proprio l’Estonia? Tra il 1949 e il 1951, l’Università di Leningrado (oggi di nuovo San Pietroburgo), ossia il centro accademico che raccoglieva l’intelligencija russa, rimase vittima delle pesanti purghe staliniane e chi, come Lotman – che, tra l’altro, era di origini giudaiche – aveva intrapreso o stava intraprendendo l’insegnamento all’università leningradese spesso dovette rinunciarvi o espatriare12. Nel 1954 l’Università di Tartu gli dette l’opportunità di continuare la sua attività di studioso, offrendogli dal 1963 la cattedra di letteratura russa (in particolare del XVIII e XIX secolo): opportunità che trasformò una “mutilazione” in una feconda e libera condizione di scambio intellettuale13.

La felice dislocazione in Estonia, infatti, lontano da facili azioni repressive, e un clima culturale straordinariamente fertile14 favorirono la nascita di una pluralità di prospettive e di sfumature (e a volte contraddizioni) metodologiche che caratterizzarono la ricerca semiotica alla Scuola di Mosca-Tartu: la continuità con il patrimonio culturale russo pur nella costante apertura alle nuove istanze culturali provenienti dalle scienze naturali e da quelle umanistiche (a livello internazionale), la tensione verso una visione sintetica di queste due alla ricerca di una Weltanschauung culturale, la problematica e mai risolta elaborazione di una metodologia che dia conto della complessità del reale. L’ultima pagina di Non-memorie, oltre che essere il testamento intellettuale di Lotman, è la sintesi dell’“inquietudine” epistemologica che ha accompagnato la scuola di Tartu e che, soprattutto nei lavori di Lotman, si è tradotta in bruschi – ma, come vedremo, fondati – cambiamenti di prospettiva e di metodo15.

Il serpente cresce, cambia pelle. È l’esatta espressione simbolica del progresso scientifico. Per restare fedeli a se stessi, il processo di sviluppo culturale deve al momento giusto cambiare bruscamente. La vecchia pelle sta ormai stretta e frena la crescita

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anziché favorirla. Nel corso della mia attività di studioso, a me e alla scuola di Tartu è toccato più volte toglierci la vecchia pelle16.

Lotman in Italia

Un’ottima ricostruzione della ricezione lotmaniana in Italia è stata già proposta da Silvia Burini negli atti del convegno Incidenti ed esplosioni. A. J. Greimas, J. M. Lotman. Per una semiotica della cultura17, da Manuel Cáceres Sánchez nella rivista Semiotiche18 e da Margherita De Michiel nelle “Note a margine” di Cercare la strada, l’ultima opera di Lotman. Ripercorriamo ugualmente la sua genesi e gli indirizzi che essa ha preso per trasformarsi –come oggi effettivamente è – in una presenza scientificamente proficua.

Nel nostro Paese il pensiero del Nostro ha attecchito inizialmente negli ambienti culturali legati al mondo filologico-letterario19 – d’altronde Lotman, come si può evincere dai titoli che seguiranno, nasceva come studioso di poetica e letteratura russa – e, solo in un secondo momento, si è sviluppato seguendo un orientamento più ancorato alle scienze sociali (semiotica, culturologia, antropologia culturale, sociologia, cultural studies). Non va dimenticato, inoltre, che egli era legato accademicamente al Dipartimento di Letteratura Russa, di cui divenne direttore dal 1960 al 1977, e più tardi al Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere20, in cui insegnò dal 1980 al 1992. Proprio nel 1992 venne creata la cattedra di semiotica in seno alla Facoltà di Filosofia e nel 1993, anno della morte del Nostro, nacque ufficialmente il Dipartimento di Semiotica, sotto la Facoltà di Scienze Sociali.

Capiamo dunque perché i suoi primi interlocutori (e scopritori) fuori dai confini dell’URSS furono principalmente gli accademici delle scienze filologiche.

In Italia, il primo scritto a comparire è “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica” (1967), all’interno della rivista Strumenti critici21, mentre la prima monografia tradotta interamente è La struttura del

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testo artistico (ed. or. 197022, ed. it. 1972) – non vengono edite invece le Lezioni di poetica strutturale (196423) e L'analisi del testo poetico. La struttura del verso (1972)24.

Seguono le miscellanee “sovietiche”, contenenti gli scritti di Lotman insieme a quelli dei suoi colleghi: I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico (1969), curata da Umberto Eco e Remo Faccani; Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’URSS (1973), curata da Clara Strada Janovič; La semiotica nei Paesi slavi (1979), curata da Carlo Prevignano; La cultura nella tradizione russa del XIX e XX secolo (1982), curata da D’Arco Silvio Avalle.

Negli stessi anni, a Lotman sono dedicate le seguenti antologie: Semiotica e cultura (1975), curata da Donatella Ferrari-Bravo; Tipologia della cultura (1975), curata da Remo Faccani e Marzio Marzaduri; Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura (1980), curata da Simonetta Salvestroni. Soprattutto con queste ultime raccolte, si profila in modo più preciso il pensiero e il metodo scientifico del Nostro e il suo percorso teorico dalla letteratura alla semiotica, e poi dalla semiotica alla culturologia. Si tratta ad ogni modo di un impianto che stabilisce le sue fondamenta su due pilastri: i testi e la tradizione russa.

Il lettore italiano degli anni Settanta-Ottanta, pur avendo una certa competenza rispetto all’epistemologia dei primi – complice la lezione strutturalista di Ferdinand de Saussure e soprattutto di Algirdas J. Greimas – assiste ben presto a uno slittamento del concetto di testualità in Lotman, orientato verso quella visione totale (o culturologica) che è la caratteristica del pensiero russo; fondamentali, a questo proposito, le parole di Ferrari-Bravo:

Lotman non parla più di “segno” [ma di “modelli”]. Naturalmente tali “modelli” sono costruiti coi materiali (“elementi”) forniti dal sistema, in base alle regole del sistema stesso. Questo però non toglie che l’accento venga spostato dagli “elementi” – identificabili in qualche modo con i “segni” – e dalle “regole” che ne governano la combinazione, alla produzione di opere compiute o “modelli” da identificarsi come enunciati o complessi, insiemi di enunciati.25

VIII

Anche Salvestroni ci propone parole chiarificanti rispetto al rapporto fra la semiotica sovietica (e lotmaniana) e la sua ricezione italiana:

Nel presentare al pubblico italiano i lavori dei semiologi sovietici, Lotman e Uspenskij mettono così in evidenza da una lato gli stretti legami con la matrice saussuriana e coi formalisti, dall’altro l’elaborazione dei nuovi concetti di “modello” e “sistema di modellizzazione secondario” compiuta dalla scuola di Tartu, che introduce così una dimensione teorica nuova rispetto alla semiotica saussuriana grazie all’apporto delle discipline scientifiche di recente acquisizione. (…) [Si tratta di] una posizione per molti aspetti rivoluzionaria, che si rifà alla matematica e alla linguistica ma per “metterle insieme con la storia e non al posto di essa” [Lotman 1967:94], che accoglie la lezione dei formalisti degli anni Venti come dei narratologi e degli strutturalisti contemporanei per superarne però le sostanziali carenze filosofico-gnoseologiche (…).26

Nel 1984, Vittorio Strada pubblica alcuni tra i primi scritti di Lotman nell’antologia Da Rousseau a Tolstoi: saggi sulla cultura russa27 e nel 1985 la monografia Il testo e la storia. L'Evgenij Onegin di Puskin (ed. or. 1975); questi testi mostrano chiaramente quanto il pensiero lotmaniano sia un vivo testimone (e promotore) dell’autentica cultura russa, proprio in un momento in cui la sua storia sta subendo un radicale processo di ri-narrazione da parte dell’ideologia sovietica.

Sempre nel 1985 viene edita, a cura di Simonetta Salvestroni, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, una raccolta di saggi teorici sulla Weltanschauung culturale di Lotman, quella che egli chiama “semiosfera”: quest’opera segna in certo modo il passaggio da una prospettiva di studio più filologico-letteraria a una più storico-ermeneutica – complice l’influenza sul Nostro della semiotica filosofica di Charles S. Peirce e Thomas A. Sebeok, nonché dell’organicismo di Vladimir I. Vernadskij. Come ha sottolineato Salvestroni, la nuova impostazione di Lotman è legata prima di tutto a un cambiamento di prospettiva epistemologica, volta a

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configurare l’immagine del sapere non come una costruzione stabile e prevedibile, ma come una rete che non ha un centro e che offre un numero illimitato di maglie interconnesse da individuare e percorrere liberamente.28

Ne discende un «ribaltamento dell’impostazione semiotica tradizionale, saussuriana»29, più legata all’idea di «struttura che si sviluppa a partire da elementi atomici semplici e chiaramente definibili e si complica progressivamente»30; l’attenzione viene allora spostata verso quel complesso macro-testo che è la cultura, formato da un numero illimitato di testi in reciproca, reticolare connessione, traduzione e “interferenza” semantica: dal complesso al semplice, dall’organismo all’atomo. Studiare la semiosfera, scrive Umberto Eco, è come esplorare una foresta:

se mettiamo insieme molti rami e una gran quantità di foglie, non possiamo certo cogliere la foresta. Ma se noi sappiamo come camminare attraverso la foresta della cultura con i nostri occhi ben aperti, seguendo fiduciosamente i numerosi cammini che la incrociano, non solo saremo in grado di capire meglio la vastità e la complessità della foresta, ma saremo anche in grado scoprire la natura delle foglie e dei rami di ogni singolo albero.31

Tra il 1993 e il 1994, il pubblico italiano (davvero fortunato in termini di ricezione editoriale lotmaniana), vede la pubblicazione delle ultime due opere compiute: la Cultura e l’esplosione32 e Cercare la strada, nota nell’edizione russa col titolo Nepredskazuemye Mekhanizmy Kul’tury (I meccanismi impredittibili della cultura33) – l’opera è introdotta da Maria Corti: la studiosa che, potemmo dire, inaugura e chiude il Lotman “italiano”, avendo proposto quasi trent’anni prima, insieme a Cesare Segre, “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica” 34.

Il pensiero finale del culturologo russo è ben riassunta dal commento di Segre:

Nei suoi due ultimi libri, La cultura e l’esplosione (Lotman 1993) e Cercare la strada (Lotman 1994) Lotman si è abbandonato

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all’inventività ancora più che nei precedenti lavori, come incalzato dal timore di non poterci comunicare tutte le sue idee. Naturalmente l’esposizione è poco sistematica, e non resta che cogliere gl’infiniti spunti, le suggestioni emesse con grande vividezza espressiva. (…) Partirò dal concetto di esplosione, che permea tutto il volume Cercare la strada, dopo essere stato espresso più compiutamente in La cultura e l’esplosione. “Esplosione” è un concetto che presenta qualche affinità con quello di “rivoluzione scientifica” di Kuhn e con quello di catastrofe di Thom o di irreversibilità di Prigogine; più vagamente, col passaggio dalla quantità alla qualità diffuso in ambito marxiano. (…) Quello che mi pare evidente, è che con l’esplosione usciamo dal determinismo genetico che ineriva alle più rigide formulazioni strutturaliste, anche se il maggiore degli strutturalisti, Jakobson, si sforzò di attenuarlo. (…) Con queste prese di posizione di Lotman pare si esca dunque dallo strutturalismo. Nel contempo, si esce anche dal binarismo, caro in particolare a Jakobson, per tornare a una visione ternaria che, se non è quella di Hegel, si avvicina comunque a quella di Potebnja.35

Nel 1994 si tiene all’Università di Bergamo il convegno “Il retaggio di Ju. M. Lotman. Presente e futuro”. Dopo la morte di Lotman (1993), sono uscite ancora alcune importanti pubblicazioni: Il simbolo e lo specchio. Scritti della scuola semiotica di Mosca-Tartu (1997), che riunisce diversi saggi del 1987-’88 tratti dai Trudy po znakovym sistemam36, a cura di Margherita de Michiel37; Il girotondo delle Muse (1998), che ripercorre il pensiero di Lotman sul linguaggio artistico, con scritti dal 1974 al 1993, a cura di Silvia Burini; Non-memorie (ed. or. 1995, ed. it. 2001), un bellissimo testo autobiografico di Lotman, a cura di Silvia Burini e Alessandro Niero38, con una presentazione di Maria Corti.

Nel 2001, viene edito Dialogo con lo schermo (ed. or. 1994), scritto da Lotman e Yuri Tsivian – a cura di Silvia Burini e Alessandro Niero: questo testo completa la trattazione di un tema molto caro al Nostro che, difatti, aveva scritto nel 1973 Semiotica del cinema. Problemi di estetica cinematografica (edito in italiano nel 1979 e nel 1994).

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Infine39 nel 2006 Franciscu Sedda propone la ripubblicazione di alcuni saggi lotmaniani del periodo 1970-1977, dal titolo Tesi per una semiotica delle culture. Quest’edizione segna in certo modo la “riscoperta” di Lotman negli ambienti accademici italiani più legati al mondo semiotico, offrendo un metodo e un orizzonte di indagine per la comprensione dei costrutti antropologico-culturali (dalla biografia al report giornalistico, dall’audiovisivo al romanzo, dall’architettura urbana a quella museale). Si segnalano in particolare tre momenti di riflessione istituzionale: il convegno “Incontri di culture. La semiotica tra frontiere e traduzioni” (1999), promosso dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici; il convegno “Incidenti ed esplosioni. A. J. Greimas, J. M. Lotman. Per una semiotica della cultura” (2008), promosso da Paolo Fabbri e dal Laboratorio Internazionale di Semiotica a Venezia; il seminario “Jurij Lotman e la semiotica della cultura” (2011), promosso da Isabella Pezzini e dalla cattedra di Scienze Semiotiche del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma.

1 L’interdisciplinarità è qui intesa come «un sapere né atomistico, né totalitario, ma unitario pluralistico, che sostanzi e concreti i molteplici modi con cui lo spirito umano intenziona l’essere», V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 21.

2 J. Lotman, intervento inedito per il centenario dell’Università di Tartu (1982), in T. Kuzovkina, I. Pilshchikov, G. Superfin, M. Trunin, “An Overview of Jurij Lotman’s Archive at Tallinn University”, Congresso internazionale per il 90° anniversario dalla nascita di Lotman (Tartu 28 febbraio - 2 marzo 2012).

3 K. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 14. 4 J. Lotman, “Akadeemilise elu’ õhkkond” (Pensieri sulla vita accademica),

articolo edito solo in estone per il giornale Edasi (1967), in T. Kuzovkina, I. Pilshchikov, G. Superfin, M. Trunin, “An Overview of Jurij Lotman’s Archive at Tallinn University”, Congresso internazionale per il 90° anniversario dalla nascita di Lotman (Tartu 28 febbraio - 2 marzo 2012).

5 “Simposio sullo Studio Strutturale dei Sistemi Segnici”. 6 “Segno e sistema linguistico”. 7 Nel 1962, oltre al sopraccitato “Simposio sullo Studio Strutturale dei Sistemi

Segnici”, si tiene in settembre «un’assemblea generale dell’Accademia delle

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scienze dell’URSS [la quale] sollecita alle autorità politiche la fondazione di un istituto di semiotica», C. Prevignano, “Premessa” a La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 14.

8 P. Grzybek, “Moscow-Tartu School”, in Encyclopedia of Semiotics, Paul Bouissac (ed.), Oxford University Press, New York – Oxford, 1998, p. 423.

9 “Lavori sui sistemi segnici”. 10 La rivista ufficiale per gli studi di linguistica era invece Vosprosy

jazykoznanija. 11 Dopo la morte di J. Lotman, avvenuta il 28 ottobre 1993, i Trudy po

znakovym sistemam smettono di essere pubblicati. Bisogna aspettare il 1998 perché una nuova composizione editoriale ridia vita alla rivista tartuense, con un taglio però più internazionale: i Sign System Studies.

12 Lotman aveva compiuto i suoi studi in letteratura all’Università di Leningrado, laureandosi nel 1952, quando ormai la guerra era terminata – egli infatti aveva combattuto nell’esercito sovietico. La sua tesi ebbe come soggetto A. Radiščev, figura di spicco dell’Illuminismo russo di fine Settecento. Egli si ritrova quindi a studiare e lavorare in un ambiente accademico nel quale, alla fine degli anni Quaranta, si concentra «la quasi totalità dei massimi teorici della scuola formalista degli anni Venti»: B. Ejchenbaum, B. Tomašeskij, V. Žirmunskij, V. Propp, G. Gokovskij per citarne alcuni. Pur dovendo poi abbandonare l’università leningradese, la lezione formalista – e, in particolare, tardo-formalista – andrà a marchiare profondamente la futura semiotica lotmaniana (B. Gasparov, “Jurij Lotman”, in E. Etkind, G. Nivat, I. Serman, V. Strada, Storia della letteratura russa. III: Il Novecento: 3. Dal realismo socialista ai giorni nostri, Einaudi, Torino, 1991, p. 682).

13 È Lotman stesso a raccontare questa vicenda in uno dei suoi libri più belli: Ne-Memuary, dettato a voce poco prima di morire, nel periodo dicembre 1992 - marzo 1993 (per l’ed. it. J. Lotman, Non-memorie, Interlinea, Novara, 2001).

14 È lo stesso Lotman a sottolineare, quale imprescindibile caratteristica del lavoro di ricerca in seno alla Scuola, la collegialità delle riunioni: «A Tartu si formò un gruppo piccolo, ma che lavorava intensamente; le persone del gruppo si scambiavano continuamente opinioni su argomenti di teoria e storico-letterari. Ci riunivamo molto spesso e discutevamo per ore», J. Lotman, Non-memorie, op. cit., p. 76.

15 Cambiamenti che ci riportano ad un immagine di scienza molto simile a quella contemplata da Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche.

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16 J. Lotman, Non-memorie, op. cit., p. 86. 17 S. Burini, “L’ultimo Lotman: scritti dal 1991 al 1993”, in T. Migliore (a cura di),

Incidenti ed esplosioni. A. J. Greimas e J. M. Lotman. Per una semiotica della cultura, Aracne Editrice, Roma, 2010.

18 M. C. Sánchez, “Jurij M. Lotman e l’Italia”, in Semiotiche. Semiotica Cultura Conoscenza. LOTMAN, 5/07, ANANKE, Torino.

19 Questo legame è deducibile anche dalle lettere che sono conservate nell’archivio epistolare di Lotman, presso la biblioteca dell’Università di Tartu: con Vittorio Strada dal 1965 al 1976, con Clara Strada dal 1967 al 1988, con Remo Faccani dal 1973 al 1987, con Simonetta Salvestroni dal 1978 al 1991, con Donatella Ferrari-Bravo nel 1979, con Rosanna Casari dal 1987 al 1990.

20 Come ha sottolineato Peeter Torop, questo cambio interdipartimentale fu uno trasferimento forzato, voluto dalle politiche anti-dissidenti e antisemitiche sovietiche. Lotman però rimase sempre legato al Dipartimento di Letteratura Russa (P. Torop, “Juri Lotman”, in The Yivo encyclopedia of Jews in Eastern Europe. Volume I., Yale University Press, New Haven – London, 2008).

21 J. M. Lotman, “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica”, in Strumenti critici, 1967, I, fasc. II, pp. 107-127.

22 J. M. Lotman, La struttura del testo poetico (Struktura judozhestvennogo teksta, Mosca 1970 – la cui traduzione sarebbe in realtà La struttura del testo artistico), Mursia, Milano, 1972.

23 J. M. Lotman, Lezioni di poetica strutturale (Lekcii po struktural’noj poetike. Vvedenie, teorija stiha, 1964), non edito in italiano.

24 J. M. Lotman, L'analisi del testo poetico. La struttura del verso (Analiz poetičeskogo teksta. Struktura sticha, 1972), non edito in italiano.

25 D. Ferrari-Bravo, “Sistemi secondari di modellizzazione”, Saggio introduttivo a J. Lotman, Semiotica e cultura, op. cit., pp. XXXI-XXXV.

26 S. Salvestroni, “Il pensiero di Lotman e la semiotica sovietica negli anni Settanta”, Introduzione a J. M. Lotman, Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, Laterza, Bari, 1980, pp. VIII e X.

Salvestroni cita J. M. Lotman, “Literaturovedenie dolžno byť naukoj” (La critica letteraria deve essere una scienza), in Voprosy literatury (Problemi di letteratura), I, 1967, p. 94.

27 J. M. Lotman, “Rousseau e la cultura russa del XVIII secolo” (Rousseau i russkaja kul’tura XVIII veka, Leningrad 1967), in Da Rousseau a Tolstoi: saggi sulla cultura russa, Il Mulino, Bologna, 1984; J. M. Lotman, “La struttura

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intellettuale della Figlia del capitano” (Idejnaja struktura Kapitanskoj dočki, Pskovskij Gosudarstvennyj Pedagogičeskij Institut Imeni S.M. Kirova 1962), in Da Rousseau a Tolstoi: saggi sulla cultura russa, Il Mulino, Bologna, 1984; J. M. Lotman, “Le origini della “corrente tolstoiana” nella letteratura russa degli anni 1830-1840” (Istoki “tolstovskogo napravlenija” v russkoj literature 1830-ch godov, Tartu 1962), in Da Rousseau a Tolstoi: saggi sulla cultura russa, Il Mulino, Bologna, 1984.

28 S. Salvestroni, “Nuove chiavi di lettura del reale alla luce del pensiero di Lotman e dell’epistemologia contemporanea”, Introduzione a J. M. Lotman, La semiosfera: asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia, 1985, pp. 8-9.

29 Ivi, p. 7. 30 Ibidem. 31 U. Eco, “Introduction”, a J. M. Lotman, Universe of the Mind. A Semiotic

Theory of Culture, I. B. Tauris, London – New York, 2001, p. XIII. 32 J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità

(Kul’tura i vzryv, Moskva 1992), Feltrinelli, Milano, 1993. 33 J. M. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura (Nepredskazuemye

Mekhanizmy Kul’tury, 1993), Marsilio, Venezia, 1994. 34 Nel 1967, Maria Corti e Cesare Segre erano infatti direttori di Strumenti

critici, insieme a Dante Isella e D’Arco Silvio Avalle – che, come abbiamo visto, aveva scritto La cultura nella tradizione russa del XIX e XX secolo (1982).

35 C. Segre, “L’ultimo Lotman”, in Il retaggio di Ju. M. Lotman: presente e futuro, Atti del Convegno. Università di Bergamo, 3-5 novembre 1994, Rivista Slavica Tergestina, Trieste, 4, p. 45.

36 Il volume “Il simbolo nel sistema della cultura” 21/1987 e il volume “Specchio, semiotica, riflessività” 22/1988.

37 Si veda il saggio introduttivo M. De Michiel, “La semiotica della cultura in Russia. La scuola di Mosca-Tartu oggi”, in Il simbolo e lo specchio. Scritti della Scuola Semiotica di Mosca-Tartu, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1997.

38 Si veda il saggio conclusivo S. Burini S., A. Niero, “Io conosco cinque Lotman”, in J. M. Lotman, Non-memorie, Interlinea, Novara, 2001.

39 In questi anni, altri saggi sono stati pubblicati in questi anni su riviste e atti di convegni; si ricorda in particolare “La caccia alle streghe” (ed. or. 1998, ed. it. 2010), a cura di Silvia Burini.

PARTE I

La semiotica della cultura nella sua prima elaborazione teorica

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Introduzione

La struttura del presente lavoro

Nel presente lavoro la Prima e la Seconda parte sono articolate secondo una logica cronologica: questo ci aiuterà a cogliere più in profondità i diversi passaggi, i molti cambi di pelle che si sono susseguiti nei trent’anni di ricerca semiotica lotmaniana. Alla Terza si è scelto invece di dare un taglio tematico, la cui ragione sarà spiegata in un’introduzione ad hoc.

Vediamo ora, attraverso un breve inquadramento storico, il perché delle divisioni temporali proposte per i capitoli 1 e 2.

1962-1972 Prodromi della semiotica tartuense

Il decennio che va dal 1962 al 1972 è il periodo forse meno lineare dell’opera lotmaniana, alla ricerca di una sua identità: è evidente in

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questa fase la tensione alla rielaborazione di quel composito patrimonio intellettuale che l’aveva preceduta e nel quale erano presenti in nuce alcune intuizioni che avrebbero avuto sviluppo, in modo del tutto originale, solo nella comunità tartuense. Si pensi, ad esempio, alle idee in potenza dell’ultimo formalismo russo (1925-1935)1 e, in particolare di J. Tynjanov, come «le questioni riguardanti l’inserimento storico e comunicativo del testo artistico nel suo “contesto” e nella “vita letteraria” concreta (literaturnyj byt)»2 – questioni di importanza capitale per Lotman.

È difficile dunque parlare di una semiotica lotmaniana in questo periodo, anche perché la Scuola di Mosca-Tartu, va profilandosi più come una mente collettiva che come un gruppo di singole menti (pur nell’autonomia speculativa) e, non caso, i vari articoli sulla nascente “semiotica della cultura” – ossia il lascito teorico della comunità tartuense – verranno elaborati e firmati collegialmente. A questo proposito, è solo nel 1970 che si può iniziare a parlare di “semiotica della cultura”, anche se la data ufficiale è considerata il 1973, l’anno delle “Tesi per un’analisi semiotica delle culture (in applicazione ai testi slavi)”, articolo redatto a dieci mani da V. Ivanov, J. Lotman, A. Pjatigorskij, V. Toporov e B. Uspenskij.

Nel decennio che ora stiamo prendendo in considerazione la semiotica nasce più come analisi dei singoli sistemi segnici; tra i topics più studiati ritroviamo: la costruzione e il funzionamento del testo poetico e letterario, i problemi della versificazione, il linguaggio mitologico e folkloristico studiati in chiave tipologica, oggetti culturali particolari come le marionette, l’organizzazione strutturale dei diversi sistemi religiosi (Oriente vs Occidente). La prospettiva dell’intero, ossia la cultura, viene solo con il tempo nell’elaborazione teorica della Scuola di Mosca-Tartu, e comunque solo dopo lo studio dei singoli sistemi segnici – quelli che verranno chiamati “sistemi secondari di modellizzazione”: la divisione temporale proposta si lega proprio al fatto che il decennio 1962-1972 ha inizio con la fondazione della semiotica sovietica e termina con la ricezione teorica dell’ultima delle

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quattro scuole estive dedicate, appunto, ai “sistemi secondari di modellizzazione” (1964, 1966, 1968, 1970)3. Dopo il 1972, non solo si può iniziare a parlare più compiutamente di semiotica lotmaniana, ma è la semiotica stessa che – proprio grazie al forte orientamento di Lotman verso l’“intero” – assume una sua originale identità, avendo ormai assimilato la studio dei singoli sistemi segnici. Prima di andare avanti, dobbiamo sottolineare che l’attenzione a questi ultimi non è casuale. I componenti della Scuola, infatti, provenivano tanto dall’Università Statale di Mosca che da quella di Leningrado, ossia i due centri del formalismo russo: il Mlk (Moskovskij lingvističeskij kružok), “Circolo linguistico di Mosca”, d’orientamento più linguistico e funzionalista4, e l’Opojaz (Obščetsvo po ižuceijuu poetičeskogo jazyka), “Società per lo studio del linguaggio poetico” di Leningrado, d’orientamento poetologico e letterario. Era naturale quindi che gli oggetti di studio della neonata semiotica sovietica riprendessero in mano quanto era stato sviluppato – e interrotto dalla guerra – trent’anni prima, vale a dire i singoli sistemi segnici legati alla lingua naturale (il “sistema primario di modellizzazione”). Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che all’eredità del Mlk e dell’Opojaz si aggiungevano le influenze epistemologiche provenienti dall’antropologia culturale di C. Levi-Strauss, V. Propp, P. Bogatyrev e, forse soprattutto5, dalla filologia e dalla storia della letteratura russa (si pensi a D. Lichacëv) – non è un caso che a molti dei nomi appena citati furono dedicati i primi numeri dei Trudy po znakovym sistemam: di, qui come dicevamo pocanzi, il timbro marcatamente linguistico e struttural-tipologico per lo studio dei fenomeni culturali ma anche estetico e storico-letterario per l’analisi dei testi artistici.

Vedremo, tuttavia, che proprio in virtù di questo patrimonio-fardello, nella semiotica tartuense emergerà anche una fortissima tensione all’emancipazione dalle radici struttural-formaliste, molto evidente in quello che potremmo chiamare il “matricidio” della linguistica strutturale. Questo si lega anche ad una fondamentale componente storico-ideologica che caratterizza la riesumazione della

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prospettiva strutturalista in questa fase. Come ha sottolineato P. Grzybek, si deve aspettare il 20° Congresso del Partito Comunista (1956) perché prenda avvio il processo di de-stalinizzazione e il “disgelo” del suo indirizzo politico-culturale, che, in quegli anni, aveva fortemente limitato qualunque posizionamento teorico e metodologico, in qualche modo esterofilo o contrario all’ideologia ufficiale: uno di questi fu proprio lo strutturalismo. Dopo il ’56, la linguistica strutturale, insieme alla tipologia strutturale, alla cibernetica, alla teoria dell’informazione e alla traduzione meccanica, viene invece favorita dal Partito poiché si profila come uno strumento neutrale di studio della lingua: è evidente, infatti, che interpretazioni meno formali e meccanicistiche avrebbero potuto facilmente denunciare la natura ambigua delle parole, quali strumento di legittimazione del potere6. Non è un caso che lo studio della linguistica strutturale, come affrontato dai principali teorici degli anni Cinquanta-Sessanta – A. Kolmogorov, V. Ivanov, I. Revzin, B. Uspenskij, T. Nikolaeva, molti dei quali entreranno nell’orbita della Scuola di Mosca-Tartu – abbia un taglio fortemente matematico7. Va detto, tra l’altro, che la maggior parte di loro provenivano dall’Università Statale di Mosca, la quale non solo era stata il centro della linguistica formale (Mlk) ma dalla metà degli anni Cinquanta era diventata il centro di ricerca dell’applicazione dei metodi matematici alla linguistica.

E, ancora, non è un caso che l’introduzione (scritta in forma anonima da Ivanov) alle tesi del Simpozium del 1962 presenti la nascente semiotica sovietica come scienza vicino alla cibernetica, complice anche il fatto che sempre nel ‘62 si tiene a Mosca un convegno sui problemi filosofici della stessa.

Soffermiamoci, ora, proprio sul rapporto fra la cibernetica e la semiotica lotmaniana. Sempre nel decennio 1962-1972, questa scienza-pilota ha un ruolo decisivo nell’elaborazione della semiotica della cultura perché, con la sua visione olistica del rapporto tutto-parti, porta Lotman, alla fine degli anni Settanta, a superare in parte la dicotomia lingua-lingue (sistema primario e sistemi secondari di modellizzazione) e

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a dedicare maggiore attenzione alla cultura come insieme. Fondamentale è l’esperienza che Lotman fa, tra il 1971 e il 1972, insieme a B. Egorov presso il “Leningrad Institute of Aviation Equipment”, un centro specializzato nella cibernetica e nella robotica. Negli anni Sessanta, infatti, il governo sovietico aveva assegnato un cospicuo finanziamento all’istituto leningradese per la costruzione di gruppi di robot da destinarsi ai viaggi lunari; la difficoltà nella creazione di schemi comportamentali dei robot (modelli di “semiotica del comportamento”, potremmo dire) spinge M. Ignatiev – l’allora capo del dipartimento dell’istituto – a confrontarsi con Lotman ed Egorov per lo sviluppo di differenti scenari di interazione8. Sebbene l’esperienza duri poi poco, lo studio del comportamento e della comunicazione in senso semiotico, cibernetico e umano-robotico ha un grande effetto sull’elaborazione inventrice lotmaniana, evidente negli articoli che vanno dal 1973 in poi.

1973-1976 Comunicazione e cultura. Un oggetto di studio complesso

Il lasso temporale proposto (1973-1976) equivale, in sostanza, al periodo di consolidamento teorico e metodologico della neonata semiotica della cultura, di cui si inizia a parlare nel 1970.

Come appunta Prevignano, «in occasione del VII congresso degli slavisti, nel 1973 esce a Varsavia Semiotyka i struktura tekstu, che tra i contributi contiene le Tesi collettive del gruppo di semiotica di Mosca e Tartu [“Tesi per un’analisi semiotica delle culture (in applicazione ai testi slavi)”]: esse costituiscono una sintesi culturologica che sembra rispondere da lontano al IX Congresso internazionale di Anthropology and Ethnological Sciences, celebrato a Chicago nello stesso 1973»9. Gli articoli lotmaniani di questi anni spaziano con grande libertà dalla comunicazione interpersonale all’auto-comunicazione (l’inner speech di influenza vigotskijana), dalle riflessioni epistemologiche sulla scienza contemporanea a problemi di ordine antropologico come la definizione dell’alterità e delle identità eteronomiche, dall’intertestualità al

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poliglottimo, dall’interculturalità all’auto-definizione culturale, dalla semiotizzazione del comportamento quotidiano alla creazione di tipologie storiche di comportamento.

Sempre in questo capitolo si è scelto di dedicare un spazio ai pensatori che più hanno influenzato l’opera lotmaniana nei suoi “balzi” intellettuali, ossia lo psicologo L. Vygotskij e il filosofo e storico della letteratura M. Bachtin – a questi ultimi due, la Scuola di Mosca-Tartu ha dedicato rispettivamente il IV e il VI volume (1969 e 1973) dei Trudy po znakovym sistemam.

Si è scelto infine di chiudere questo breve periodo con il 1976 poiché dal 1977 la semiotica della cultura, in particolare con l’articolo “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”, inizia a riflettere le recenti acquisizioni di Lotman rispetto alla scienza cibernetica10 e allo studio del cervello umano, dando avvio a quella che potremmo chiamare una svolta epistemologica verso la complessità e la prospettiva organicista. Ma di questo si parlerà nell’introduzione alla Seconda parte del presente lavoro e lo si farà alla luce del concetto scientifico di “analogia”.

1 La parabola del formalismo russo si articolò, dal punto di vista teorico-metodologico, in tre fasi: riduzionismo formalista, dal 1915-16 al 1921-22; funzionalismo prestrutturalista, fino alla metà degli anni Venti; estetica strutturale della ricezione, fino alla metà degli anni Trenta.

2 E continua AA. Hansen-Löve: «Nel corso di questo terzo periodo del formalismo vengono poste le basi per una promettente sociologia della letteratura e acquisite conoscenze essenziali per una teoria della cultura, conoscenze che dopo la seconda guerra mondiale poterono essere riprese anche in Russia dallo strutturalismo e soprattutto dalla semiotica della cultura», A. Hansen-Löve, “Il formalismo russo”, in E. Etkind, G. Nivat, I. Serman, V. Strada, Storia della letteratura russa. III: Il Novecento: 2. La rivoluzione e gli anni Venti, Einaudi, Torino, 1990, p. 703.

3 Ancora nel 1974 si tiene a Tartu il I Simposio pansovietico sui sistemi modellizzanti secondari.

4 Gli esponenti del Mlk andranno in seguito a confluire nel “Circolo Linguistico di Praga”, sviluppando i postulati dello strutturalismo saussuriano.

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5 Va sempre ricordato, infatti, che Lotman prima di essere il propugnatore di

una “semiotica della cultura” è stato un grande storico della letteratura russa, la cui formazione primaria è legata al mondo letterario. Come ha ben sottolineato M. De Michiel, quello di Lotman è un pensiero costruito sulla polarizzazione semiotica e letteraria, ove la prima – almeno in Italia – ha avuto ampia diffusione in vari contesti disciplinari, mentre la seconda più nell’area slavista (M. De Michiel, “Cercare la strada. Note a margine dell’ultima monografia di Ju. Lotman”, in J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, Marsilio, Venezia, 1994, p. 154).

6 Scrive Grzybek: «[after 1956] young scholars, mainly in the social sciences, started questioning the monolithic ideology and its official methodology and tried other approaches. Although there were no public discussions on this topic, it became clear that language was the dominant means of conveying ideological contents and, thus, was an ideological instrument. Consequently, contributions from ideologically less-sensitive domains such as cybernetics, information theory, machine translation, and structural and mathematical linguistic shaped the early structuralist discussions», P. Grzybek, “Moscow-Tartu School”, in Encyclopedia of Semiotics, Paul Bouissac (ed.), Oxford University Press, New York – Oxford, 1998, p. 423.

7 Per una contestualizzazione storica di questo periodo di veda P. Grzybek in ibidem, il quale ricostruisce in ordine cronologico gli eventi che hanno informato la matrice struttural-matematica della linguistica sovietica.

8 B. Egorov, The influence of the Tartu Summer School’s publications on the preparation of robots for space flights, Discorso tenuto alla “Tartu Summer School of Semiotics”, Palmse 22-26 August 2011, visitabile su www.ut.ee/SOSE/conference/summer_school/2011/papers/egorov_eng_TSSS2011.pdf

9 C. Prevignano, “Premessa” a La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 16.

10 Nel 1977, tra l’altro, si tiene a Mosca il Simposio su semiotica e cibernetica.

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CAPITOLO 1

Prodromi della semiotica tartuense 1962-1972

Siamo immersi in uno spazio semiotico. Separare l’uomo dallo spazio delle lingue, dei segni, dei simboli è impossibile quanto strappargli la pelle di dosso.1

1. Aperture e contraddizioni alla nascita della semiotica tartuense

Per cogliere sino in fondo il terreno sul quale si sviluppa la Scuola di Mosca-Tartu, è necessario fare un breve preambolo sul dibattito che le scienze umane affrontarono, alla fine dell’Ottocento, rispetto al loro statuto epistemologico, ossia la questione irrisolta «del loro valore di conoscenza, della loro scientificità, [del] loro metodo e della loro collocazione nell’universo del sapere»2. In questo quadro, in particolare, si farà riferimento allo strutturalismo, che non solo informò buona parte delle scienze umane tra gli anni Trenta e Settanta del Novecento, ma divenne un “luogo” fecondo di ricerca (a volte polemica) per l’individuazione dei suddetti criteri di scientificità.

Il primo Novecento vede, con il rapido sviluppo della linguistica, l’estensione del metodo strutturalista alle altre scienze umane e, in primo luogo, allo studio della letteratura3 e del testo poetico. Per la

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semiotica tartuense – che, come abbiamo visto, oscilla tra l’Opojaz e il Mlk – sorge fin da subito un problema di ordine epistemologico. Se infatti il metodo strutturale sembra garantire quello statuto di scientificità a cui la nascente scienza dei segni si sente vocata fin dal suo programma inaugurale, allo stesso tempo, a causa di una forte tendenza al riduzionismo, esso non riesce a rendere l’oggetto d’analisi (nello specifico il testo poetico e letterario e, qualche anno dopo, la cultura) nella sua complessità e ricchezza. Le ultime ricerche del tardo formalismo russo e, in particolare, di un teorico della letteratura come Tynjanov, si erano già orientate verso una complessificazione del concetto di processo artistico-letterario, attraverso nuove ipotesi teoriche quali la pragmatica della ricezione, l’intertestualità, la teoria dei processi evolutivi; alla semiotica tartuense, dunque, si presenta una situazione contraddittoria: «come conciliare – sottolinea B. Gasparov – il concetto saussuriano di “linguaggio”, che presuppone la stabilità e la chiusura immanente della struttura, con l’idea di una continuità dell’evoluzione letteraria[?]»4; e ancora, come sposare la tassonomia strutturalista a un fenomeno per sua natura cangiante ed eterogeneo come la cultura?

1.1 Strutturalismo, linguistica, scienze umane

1.1.1 Il metodo strutturale

Dare una definizione dello strutturalismo non è cosa semplice, poiché esso si profila come un quadro concettuale e metodologico “aperto”, a cui molti hanno dato un contributo da diverse discipline senza però mai definirlo in termini ultimi. Possiamo però senza dubbio parlare di un’idea che sottostà a qualunque approccio che voglia delinearsi come strutturalista: è l’attenzione per i rapporti, alla luce del più generale rapporto tutto-parti. Il linguista F. de Saussure, in genere riconosciuto il padre fondatore dello strutturalismo, non vi ha tanto

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contribuito con una precipua riflessione teorica quanto, piuttosto, con un metodo (1916)5: l’analisi della lingua come sistema, ove tutto (i fonemi6, i morfemi7 e i semantemi8) è in rapporto, ossia in una condizione di dipendenza reciproca, secondo una logica distintiva/oppositiva – di qui la forte tendenza di Lotman, nei suoi primi scritti, a creare delle categorie semantiche binarie per spiegare le tipologie di cultura. Come scrive lo stesso Lotman, «(…) il ricercatore strutturalista è interessato sempre ai rapporti. (…) egli considera sempre i fatti in rapporto fra di loro e col sistema nel suo complesso».9.

È proprio questa concezione del sistema che, in realtà, ci riporta molto più indietro nelle radici strutturaliste e, precisamente, a J. W. Goethe, il quale – come ha sottolineato E. Cassirer10 – può essere considerato il vero teorico dello strutturalismo. La morfologia goethiana tende infatti a evidenziare, in seno alla molteplicità fenomenica, un principio di unitarietà, una struttura generale, una sorta di «livello archetipico del reale»11 che collega analogicamente entità molto diverse (piante e animali); questo livello è rinvenibile, per Goethe, solo attraverso i rapporti strutturali che informano la realtà-una. Sarà W. Humboldt a tradurre in termini linguistici la morfologia biologica di Goethe, sottolineando che il linguaggio è “organico” (enérgeia) «nel senso che non consiste di fatti staccati, isolati, separati, ma forma un tutto coerente in cui ciascuna parte è interdipendente da ciascun altra»12.

È risaputo che l’opera goethiana Teoria della natura, in cui il filosofo tedesco enuncia questa posizione, ha influenzato profondamente due dei massimi ispiratori della Scuola di Mosca-Tartu, ossia il folclorista russo V. Propp e l’antropologo francese C. Lévi-Strauss, dai quali discende l’idea – fondamentale, ad esempio, per la tipologia strutturale di Toporov e Ivanov, come anche del “primo” Lotman – che, al di sotto dell’eterogeneità fenomenica vi siano delle forme di organizzazione invarianti e che, proprio raschiando via gli “accidenti”, sia possibile arrivare a una sorta di struttura generale: ad esempio, alla morfologia della fiaba di Propp (1928, trad. inglese 1958, trad. francese 1965) o alle

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strutture elementari della parentela in Lévi-Strauss (1949)13. Per questo, come vedremo più avanti, Lotman potrà parlare di “universali delle culture umane”14, rinvenibili attraverso la comparazione e l’astrazione strutturale dei diversi sistemi segnici presenti nelle culture umane. E per questo, ancora, è necessario rivolgere l’attenzione prima di tutto ai singoli sistemi segnici. Il metodo strutturale, scrive infatti Lévi-Strauss, è in grado di «estrarre da una ricchezza e da una diversità empiriche che oltrepassano sempre i nostri sforzi di osservazione e di descrizione, delle costanti che sono ricorrenti in altri luoghi e in altri tempi»15; questo alla luce del fatto che «dietro i sistemi concreti, geograficamente localizzati ed evolventisi attraverso il tempo, ci sono delle relazioni più semplici di loro, che permettono tutte le transizioni e tutti gli adattamenti»16.

Fondamentale è proprio il concetto di transizione, unito a quello di trasformazione. Secondo l’antropologo francese – qui preso a personificazione della maturità del metodo strutturale17 – il livello dell’universalità emerge non tanto da un’identità-una che si ripeterebbe in modo transtemporale e transpaziale18 quanto dalla comparazione di sistemi diversi (per tempo, spazio e oggetto d’analisi), ognuno dei quali è caratterizzato da un proprio ordine interno; quest’ordine è retto a sua volta da un insieme di regole di relazione e di combinazione che permettono di coglierne le possibili trasformazioni (il concetto di “trasformazione”, nella visione strutturale, ha una valenza di tipo logico-matematica, in quanto fa riferimento alle varianti possibili di un certo sistema): sono queste che consentono di transitare da un sistema all’altro poiché – essendo formalmente comparabili, alla stregua di un sistema d’equazioni – mostrano che gli insiemi di regole di relazione e di combinazione sono funzionalmente universali e possono dunque fungere da cifrario19. Tra l’altro, è qui, in questa astrazione dal mondo fenomenico e sua traduzione in linguaggio formale, che si costituisce il concetto di “spirito senza soggettività” – fondamentale per Lotman20. Come ha sottolineato F. Remotti, «allorché l'analisi strutturale raggiunge l'obiettivo della traducibilità dei vari sistemi tra loro, un

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obiettivo più fondamentale e ambizioso appare (…) la determinazione di ciò che Lévi-Strauss chiama di solito “spirito umano”»21, ossia la determinazione delle condizioni universali del pensiero umano attraverso l’elaborazione di «un inventario dei recinti mentali, [ovvero dei] lineamenti di una struttura anatomica generale dello spirito umano»22. Il “soggetto”, per l’antropologo francese, non esiste o, meglio – la ricezione della filosofia del sospetto e la cruda esperienza della guerra si fanno sentire – è un sistema puramente combinatorio di possibilità che, abbinandosi, strutturano l’esperienza della realtà.

Lo strutturalismo, in altre parole, nasce con l’intento di tradurre in forme elementari e logico-formali lo spirito umano (collettivo e inconscio) e i fenomeni da esso prodotti – fenomeni in genere caratterizzati da un’elevata complessità, come la lingua, la cultura, la società – e nel ridurre il loro senso alla funzione che esse esplicano nel sistema entro il quale figurano23. Esso postula dunque la creazione di strutture atte a rintracciare, all’interno di contenuti differenti, forme elementari ed invarianti con capacità comparativa, esplicativa e (in alcuni casi) predittiva dei fenomeni in esame. In questo senso, lo strutturalismo non solo è figlio del Positivismo ottocentesco24 – attento tanto al linguaggio formale e alla sua funzione predittiva quanto al ruolo “oggettivo” dello scienziato-superosservatore – ma anche, in certa misura, parente del (di poco anteriore) Neoposivismo viennese e berlinese: corrente di pensiero che, tra gli anni Venti e Cinquanta, ha dato un nuovo impulso all’esaltazione della razionalità scientifica, precipuamente dal punto di vista logico-linguistico25. Vedremo come queste due angolazioni filosofiche europee, congiuntamente alla linguistica moscovita-praghese e alla cibernetica americana si coagulino in modo complesso e talvolta contradditorio nella nascente semiotica sovietica.

Prima di andare avanti dobbiamo sottolineare che il metodo strutturale non è stato esente da critiche, soprattutto rispetto al problema del riduzionismo. Come molti studiosi hanno sottolineato, la scomposizione del “tutto” nelle sue parti costituenti è un approccio

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analitico epistemologicamente legittimo, soprattutto quando il ricercatore si trova di fronte ad oggetti difficili da cogliere nella loro totalità. Il rischio, tuttavia, è che questo riduzionismo strutturale, da opportunità euristica, sconfini in un riduzionismo concettuale per cui, come ha come sottolineato J. Polkinghorne, quella che si dovrebbe profilare come una strategia metodologica atta a facilitare l’analisi dell’oggetto di ricerca arriva a postulare un’equivalenza fra il “tutto” e la somma delle parti, disconoscendo in tal modo la differenza qualitativa che sussiste fra i livelli di complessità crescente dell’oggetto in questione26. Accettando il riduzionismo concettuale, con la crescente complessità dell'organizzazione si nega l'emergere «di livelli di significato totalmente nuovi e di possibilità che non sono in linea di principio riducibili a quelli che a loro soggiacciono»27. In questo modo, la comparazione fra oggetti molto diversi, come ne parla Lévi-Strauss, è possibile ma a patto che non si attribuisca al processo di astrazione – ossia al “cifrario” – una capacità esplicativa ultima (un’essenza, potremmo dire): se infatti l’intero è sempre altro rispetto alle sue parti, non sarebbe corretto unificare in un unico modello oggetti che (proprio in virtù del principio di complessità) presentano livelli di significato assolutamente propri e, dunque, non comparabili.

Come vedremo, lo stesso Lotman riconoscerà l’ambiguità del metodo strutturale, nel momento in cui questo si dà un valore ontologico, sottolineando l’urgenza di dirigere gli sforzi euristici in direzione di un approccio decisamente più complesso: introducendo, ad esempio, il concetto di isomorfismo Lotman inizierà a trattare la cultura e i suoi testi come un tutt’uno, una totalità irriducibile alle sue parti. E ancora, anziché degli stati di equilibrio e di perfetta traducibilità, il semiologo russo si orienterà sempre più verso l’asimmetria, la non linearità dei processi conoscitivi e culturali, le irregolarità e intraducibilità proprie di ogni cultura.

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1.1.2 Strutturalismo e linguistica alla luce del concetto di “scientificità”

Facciamo ora un passo indietro (anche cronologicamente) e cerchiamo di capire meglio lo sfondo culturale entro il quale si innesta lo strutturalismo. Dovremo inquadrare questo orizzonte di pensiero nel più ampio dibattito delle scienze umane d’inizio Novecento e, in particolare, nella sua “atmosfera” scientifica genitrice, ossia la linguistica strutturale.

Nel cuore dell’Ottocento, le scienze “mature” (matematica, geometria e fisica), forti dell’intoccabile paradigma newtoniano, impongono l’idea di un mondo deterministico, predicibile, reversibile e riducibile alle leggi matematiche universali della meccanica28: un mondo cioè ordinato, coerente e temporalmente a-evolutivo che, come un congegno (sia esso un orologio o una macchina a vapore), si erge su un sistema di regole basate a loro volta su rapporti quantitativi e perfettamente misurabili.

Verso la fine del secolo, una serie di scoperte inauguranti la II rivoluzione scientifica29 – la teoria ondulatoria della luce, l’elettromagnetismo, la termodinamica e la meccanica statistica30, la struttura temporal-evoluzionistica del vivente – incrinano alle fondamenta questa visione meccanicistica, non demolendola tuttavia completamente: sebbene infatti si vada formando una nuova e, per certi versi, più intuitiva immagine di scienza, permane nell’immaginario comune e nella divulgazione scientifica un certo pregiudizio nei confronti di tutte quelle discipline “intuitive” incapaci di adottare un linguaggio universale e oggettivo31. Questa visione si radica sul «mito secondo cui il linguaggio delle scienze naturali sarebbe immune dalla metafora e dagli altri tropi»32 e procederebbe in modo neutro (quasi a-semantico), passando «indenne dai cambiamenti linguistici e culturali»33: sarà appunto la II rivoluzione scientifica a porre in evidenza la natura eminentemente storica, interpretativa, convenzionale e

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“localizzata” del linguaggio delle scienze naturali che però, al momento, sembrano incolumi dal soggettivismo di quelle umane.

Agli inizi del Novecento, dunque, le “intuitive” scienze umane34 iniziano ad adottare il formalismo logico-matematico o, per lo meno, un linguaggio fortemente descrittivo e astratto per spiegare fenomeni difficilmente decifrabili e formalizzabili come, ad esempio, la lingua, la cultura o la società35: il simbolismo dei numeri e delle relazioni logiche – considerati preesistenti al pensiero36 – si profilano infatti come la modalità di espressione più compiuta e imparziale delle leggi che sottostanno all’esperienza della realtà e, di conseguenza, atta a leggere tanto la natura quanto lo spirito umano, in vista di una conoscenza unificata e assiomatica. Alla lunga, tale pregiudizio crea una situazione per cui il criterio di scientificità di «qualunque ambito o settore del sapere (…) non dipende più dai contenuti [suoi propri] ma dalla circostanza che esso sappia organizzarsi in modo oggettivo e rigoroso»37, due requisiti che però, in genere, vengono identificati con un modello univoco di oggettività e rigore: quello legato a una scienza senza soggetto – modello che, in realtà, camuffa e contrabbanda una visione scientifica assolutamente storica e intersoggettiva con l’Oggettività38 della cosa-in-sé.

In questo contesto, una delle prime manifestazioni dell’ànthropos ad essere suscettibile di una torsione formale è la lingua, ossia il luogo per eccellenza dell’espressione dello spirito umano (ossia della sua soggettività) e di quell’“eccedenza” di senso e di facoltà che attesta l’assoluta incommensurabilità tra l’uomo e la natura.

Proprio perché dotata di una struttura discreta e, dunque, facilmente scomponibile, la lingua – qui intesa al plurale, come lingue indoeuropee – sembra il luogo privilegiato per la nascita di una nuova metodologia, più legata ai criteri delle scienze “oggettive”: rispetto ad altre manifestazioni umane, essa è agevolmente trattabile come un sistema chiuso, dotato di una sua logica e una sua coerenza e, in virtù di questo, suscettibile di una comparazione intersistemica, ossia interlinguistica, secondo un procedimento relazionale-oppositivo. Prima

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con de Saussure poi con N. Trubeckoj e R. Jakobson, negli anni Venti del Novecento prende vita una nuova scienza, la linguistica, precorritrice del metodo strutturale: metodo che, sottolinea A. Pieretti, sembra «garantire [alle scienze umane] un rigore d’indagine e un’efficacia sul piano sperimentale paragonabili al rigore e all’efficacia delle cosiddette scienze della natura»39. Trovando nella lingua un terreno congeniale all’approfondimento di quest’approccio formale, essa diventa in poco tempo la matrice di buona parte della scienze umane (antropologia, etnografia, semiotica e sociologia in primis), alla ricerca di un loro statuto epistemologico e di una loro legittimazione sul piano disciplinare.

Già alla fine degli anni Trenta del Novecento, infatti, è tale l’efficacia euristica e il “sentore” di scientificità della linguistica da farla diventare l’unica “vera” scienza in seno all’arena delle scienze dell’uomo: un paradigma da estendere a tutte loro. È lo stesso Lévi-Strauss a darne testimonianza, quando scrive che «la linguistica non è una scienza sociale come le altre, ma quella che di gran lunga ha compiuto i maggiori progressi; la sola forse che possa rivendicare il nome di scienza e che sia giunta, nello stesso tempo, a formulare un metodo positivo e a conoscere la natura dei fatti sottoposti alla sua analisi»40. Gli fa eco J. Piaget, pur con una posizione più mitigata: «la linguistique est sans doute la plus avancée des sciences sociales, par sa structuration théorique aussi bien que par la précision de son devoir, et elle entretient avec d’autres disciplines des relations d’un grand intérêt»41. Questa posizione è evidente anche negli scritti tartuensi degli anni Sessanta, complice il fatto – come abbiamo visto – che la forte matrice scientifica e tecno-pragmatica della politica comunista e la sua paura per l’“interpretazione” non favoriscono certo un approccio umanistico allo studio dell’uomo ma piuttosto matematico-cibernetico e struttural-linguistico.

Per una prospettiva aperta è il russo Jakobson, senza dubbio uno dei più importanti linguisti e semiologi del secolo breve, a cui gli stessi Lévi-Strauss e Piaget si ispirano, oltre che ovviamente la Scuola di Mosca-

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Tartu42. Nel fondamentale articolo “Linguistic in relation to other sciences” (1967)43, dedicato proprio al rapporto della linguista con le altre scienze dell’uomo, Jakobson traccia anzitutto un quadro del tipo di relazione che dovrebbe sussistere in seno al cosiddetto dialogo interdisciplinare; esso, scrive Jakobson, si fonda infatti su due nozioni complementari: autonomia e integrazione, le quali a volte possono sconfinare in un’errata conclusione: «o la salutare idea di autonomia degenera in un pregiudizio isolazionista, nocivo come qualunque campanilismo, separatismo, apartheid, o la seconda prende la strada opposta e compromette il sano principio dell’integrazione sostituendo con un’invadente eteronomia (alias “colonialismo”) l’invece indispensabile autonomia»44. Questa riflessione ci riporta proprio al concetto di “scientificità”, la quale non è mai la mera estensione di un “unico” metodo scientifico quanto, piuttosto, il dialogo sempre aperto fra i vari livelli di intelligibilità a cui ogni disciplina può dare accesso.

Infatti, continua Jakobson, non v’è dubbio che una serie di suoi precipui attributi rendano la linguistica una scienza centrale nel panorama delle scienze dell’uomo45 – in primis il modello (e la capacità modellizzante) insolitamente regolare e autonomo della lingua, il ruolo fondamentale da essa giocato nella struttura della cultura, l’indiscutibile progresso dei suoi metodi di analisi; tuttavia, continua il linguista russo, è vitale che essa tenda sempre di più a diventare scienza dei segni, ossia a scoprire le relazioni e le proprietà che il modello verbale intrattiene con altri sistemi semiotici: solo in questo modo la linguistica non corre il rischio di arroccarsi su un’autonomia autoreferenziale ma realizza altresì la sua profonda vocazione interdisciplinare, volta alla comprensione dell’uomo in quanto soggetto-in-comunicazione (per questo Jakobson pone l’accento sul concetto più comprensivo di “semiotica”46).

Quello che infatti Jakobson fa in questo densissimo saggio – cogliendo, tra l’altro, alcuni nodi centrali della ricerca scientifica nella contemporaneità – è proprio postulare un’idea onnicomprensiva di linguaggio, capace di entrare in relazione tanto con le scienze dell’uomo

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quanto con quelle natura (la seconda parte dello scritto è infatti dedicata al rapporto della linguistica con la biologia, l’etologia, la genetica, la fisiologia, la neurobiologica, l’acustica, la fisica, la termodinamica). Vedremo come questo approccio sarà visibile anche in Lotman, per il quale non solo il dialogo interdisciplinare ma anche la controtendenza al riduzionismo strutturalista rappresentano una questione di assoluta urgenza, avendo ben chiaro che «l’autofondazione positivistica delle scienze è un mito che comporta il dissolvimento del sapere»47.

1.1.3 Le radici cibernetiche del primo strutturalismo lotmaniano. Wiener-Jakobson-Lévi-Strauss∗

A questo quadro storico così complesso, dobbiamo ancora aggiungere un avvenimento, ossia l’incrocio epistemologico tra la linguistica strutturale e la cibernetica e la sua sostanziale influenza sullo strutturalismo di Lévi-Strauss48. Tale puntualizzazione ci servirà a capire meglio taluni concetti adottati da Lotman tra gli anni Sessanta e Settanta e, in seguito, il meccanismo semiotico della cultura come proposto tra il 1977 e il 1983.

Ma andiamo per gradi, e cerchiamo prima di capire cosa si intende per cibernetica.

Questo termine viene coniato da Norbert Wiener nel 194849 – derivandolo dal greco kυβερνήτης [kybernetes, timoniere] – e sta ad indicare una contiguità concettuale e fisico-comportamentale fra l’uomo-pilota e la macchina-pilota: contiguità che Wiener sperimenta e postula presso il MIT (Massachussets Institute of Technology), lavorando su progetti di sistemi difensivi a scopo bellico.50 La cibernetica, infatti, come ha scritto Lafontaine, affonda le sue radici nel cuore del progetto tecno-scientifico implementato dal governo ∗ Questo paragrafo è tratto dall’articolo di Céline Lafontaine “The Cybernetic Matrix of ‘French Theory’”, Theory, Culture & Society, SAGE (Los Angeles, London, New Delhi and Singapore), 2007, Vol. 24(5): 27-46.

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americano durante la Seconda Guerra mondiale e in quella visione wieneriana per la quale l’uomo – e, specificatamente, il pilota-militare – diviene parte integrante di una macchina auto-regolata51, che procede per retroazioni (o feedback) ed è guidata da un fine operativo (ossia da una teleologia di natura fisiologica, comportamentale52): A comunica con B, il quale, a sua volta, retroagisce su A, creando un’interazione circolare e finalizzata. Scrive Wiener in L’uso umano degli esseri umani (1950): «Sono convinto che il comportamento degli esseri viventi sia esattamente parallelo al comportamento delle più moderne macchine per le comunicazioni»53, e poi in “Comportamento, fine e teleologia” (1943): «un’analisi uniforme del comportamento è applicabile sia alle macchine che agli organismi viventi, a prescindere dalla complessità del comportamento»54. Questa visione meccanicistica delle interazioni umane è legata anche al fatto che la comunicazione – intesa come passaggio matematico di informazioni – sembra essere l’unico “vaccino” all’entropia imperante del mondo bellico e post-bellico: un principio che dà forma, ordine e organizzazione ove invece regna il disordine.

Il modello teorico implementato da Wiener negli anni Quaranta e Cinquanta si sviluppa dal presupposto concettuale per cui non vi sia differenza fra l’umano e la macchina. Il pilota rappresenta parte integrante del dispositivo tecnico. Con la cibernetica viene dunque meno la distinzione fra fisico, biologico, artificiale e umano: il focus di studio è sulle interazioni fra oggetti – non vale lo scarto fra cose e viventi – a dispetto della loro natura. La differenza ontologica fra umani e macchine è surclassata dalla classificazione gerarchica del comportamento, basata sul modello behaviorista, ove domina il comportamento teleologico (finalistico ma non metafisico). Le macchina in grado di dare feedback sono così promosse al rango di entità a intelligenza complessa, accanto agli umani55.

Per capire ora come la cibernetica sia potuta penetrare nello strutturalismo francese e, di conseguenza, in quello sovietico, dobbiamo sottolineare che la sua prima elaborazione teorica – ossia quella Wienerista – si profila in sostanza come una teoria generale della

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comunicazione e dell’informazione: «l’uomo e la società possono essere compresi solo attraverso l’analisi dei loro messaggi e dei loro sistemi di comunicazione»56, riconducibili alle interazioni meccaniche fra automi e analizzabili secondo un approccio logico-linguistico (sono di quegli anni gli esperimenti sui meccanismi di automazione dei processi argomentativi e in generale cognitivi). Molto simile è l’approccio di Lévi-Strauss, per il quale, sottolinea Lafontaine, l’intero progetto di un’antropologia strutturale è consistito nell’interpretare la società come un tutto secondo una teoria generale della comunicazione. Seguiamo Lafontaine57.

Facendo la loro comparsa quasi simultaneamente, da un lato all’altro dell’oceano, la cibernetica e lo strutturalismo rappresentano entrambi una forma di risposta scientifica alla guerra e al Nazismo. Nutrendosi al contempo di ottimismo tecno-scientifico e di un profondo pessimismo antropologico, essi testimoniano la perdita di fiducia nell’umanità dovuta al collasso degli ideali umanisti. Fra i due è però certamente il nascente strutturalismo francese a “importare” l’epistemologia cibernetica e a introdurla nelle scienze dell’uomo. Questo avviene nel 1942, anno in cui Lévi-Strauss conosce Jakobson alla New School for Social Research di New York: è questo speciale incontro, secondo François Dosse58, a segnare la connessione storica tra lo strutturalismo e la cibernetica.

Espatriati negli Stati Uniti durante la guerra, i due maestri divengono amici alla NSSR, ove insegnano rispettivamente antropologia e linguistica. In quegli anni Jakobson, dopo aver fatto propria e (in parte) superato la linguistica saussuriana e dato vita alla scienza fonologica, inizia a integrare nel suo modello teorico le scoperte provenienti dalla cibernetica e dalla teoria dell’informazione. La definizione saussuriana di lingua come sistema di relazioni, continua Lafontaine, combacia perfettamente con l’epistemologia cibernetica: Saussure, Jakobson e Wiener sono interessati alle relazioni in sé, in quanto significanti, e non rispetto ai referenti o agli oggetti in quanto tali. Basando la sua teoria sul modello elaborato simultaneamente da Wiener e Shannon59,

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Jakobson scompone la lingua trattandola come un sistema codificante che in-forma lo scambio di informazioni, vale a dire come un vero e proprio codice comunicazionale.

Ora, sappiamo bene dal § 1.1 quanto Lévi-Strauss attinga dalla linguistica jakobsoniana, la quale diventa in sostanza il paradigma epistemologico delle scienze dell’uomo. Tra il 1942 e il 194860, attraverso il linguista russo, il caposcuola francese introduce nella sua antropologia i principi della cibernetica americana e, in particolare, la teoria dell’informazione: la rivoluzione dei timonieri è ciò che fornisce a Lévi-Strauss le fondamenta sulle quali costruire l’antropologia strutturale, incentrata appunto intorno al concetto di relazione logica significante. Affascinato dai metodi matematici che rendevano possibili la costruzione delle grandi macchine da calcolo, egli sembra finalmente trovare un approccio epistemologico oggettivo (e immune da contaminazioni ideologiche) per lo studio dell’uomo e della società.

Segnato dalla perdita della figura del soggetto e dal desiderio di conferire alla scienze sociali una solida base scientifica, il progetto di Lévi-Strauss porta con sé l’impronta di un profondo pessimismo. In Tristi tropici, pubblicato per la prima volta nella metà degli anni ’50, egli mostra un pessimismo che si richiama grandemente a quello di Wiener. Anche lui propone di convertire “l’antropologia in entropologia”, con un chiaro riferimento la concezione cibernetica di entropia – un pessimismo vagamente mitigato dalla fiducia nell’oggettività della scienza. 2. I primi scritti. Superamento della matrice struttural-

linguistica: sincronia plus diacronia

L’atto di nascita della Scuola di Mosca-Tartu, ossia il discorso d’apertura della “I Scuola estiva sui sistemi modellizzanti secondari” (1964), sintetizza molto bene quanto sinora abbiamo detto a proposito

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del rapporto fra linguistica strutturale e scienze dell’uomo. Come evidenzia Lotman, infatti, «la linguistica è stata la prima delle scienze sociali che abbia dimostrato in concreto la fruttuosità degli studi semiotici e che sia andata oltre i limiti dei metodi tradizionalmente propri delle discipline umanistiche. Ne è conseguito che, in un determinato periodo, la diffusione degli studi semiotici nelle scienze umane ha assunto la forma di semplice estensione dei metodi linguistici a nuovi ambiti del sapere umanistico»61. Ma in che cosa consiste questa fruttuosità per Lotman? La conseguenza più importante della diffusione dell’approccio strutturale alle scienze umane e sociali è stata un’attenzione particolare al taglio sincronico, ossia allo studio dell’oggetto in quanto sistema chiuso, autosufficiente, sorretto dalle relazioni interne delle sue componenti atomistiche e depurato da ogni elemento storico-contestuale: un esempio paradigmatico ci viene dal formalismo russo, il quale – attraverso l’adozione del metodo strutturale – aveva sfrondato l’opera poetica e letteraria da ogni aura di mistero, permettendo così di comprendere i meccanismi formali che sottostanno al suo “funzionamento”. Lotman, sempre nella relazione del ’64, sottolinea proprio la fecondità di un simile approccio scientifico e il suo contributo nell’aver ridimensionato l’importanza del metodo storico-descrittivo (o, meglio, dello storicismo); egli, tuttavia, non manca di puntualizzare che la prospettiva semiotica non deve rimanere semplice estensione del metodo linguistico ma realizzarsi in tutte le sue potenzialità esplicative, specie in riferimento alla complessità dei fenomeni culturali dal punto di vista della loro estensione e stratificazione temporale – cosa che una concezione “forte” di linguistica tendeva invece ad azzerare; «(…) oggi come oggi, scrive Lotman, si avverte il bisogno di definire con maggiore nettezza le possibilità e i limiti dell’applicazione dei metodi della linguistica strutturale al più vasto terreno del sapere umanistico»62.

In realtà, come ha ben sottolineato Jakobson, la sincronia in linguistica e nelle scienze poetico-letterarie non è mai stata sinonimo di staticità, ossia di impermeabilità del testo al contesto e all’estensione

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temporale. Anzi, «la descrizione sincronica considera [sempre] non solo la produzione letteraria ad un dato stadio ma anche quella parte di tradizione letteraria che, per lo stadio in questione, è rimasta vitale o è stata riesumata. (…) La poetica sincronica, come la linguistica sincronica, non devono essere confuse con la staticità; ogni stadio discrimina tra forme più conservative e forme più innovative. [Da un lato] ogni stadio sincronico è esperito nella sua dinamica temporale e, dall’altro, l’approccio storico alla poetica e alla linguistica contempla tanto i cambiamenti quanto i fattori continuativi, durevoli, statici»63. E, continua Jakobson, la fallace identificazione delle opposizioni “sincronia vs diacronia” e “statico vs dinamico” è il risultato di una non precisa scelta teorica di Saussure, il quale, pur avendo anticipato e preconizzato un nuovo approccio strutturale alla linguistica sincronica, «ha poi seguito il vecchio dogma atomistico neogrammatico della linguistica storica (…) [affermando così] l’assoluta proibizione di studiare simultaneamente relazioni nel tempo e relazioni entro il sistema»64. Quello che propone Jakobson invece – e che vedremo a breve anche negli scritti lotmaniani – è di passare ad una “sincronia dinamica”65.

Nel fondamentale saggio “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica” (1967), Lotman esplica meglio la sua posizione rispetto alla matrice linguistica, pur permanendo in alcune contraddizioni. Prima però di affrontare questo scritto, dobbiamo soffermarci su un altro a cui il semiologo russo fa ripetutamente riferimento, ossia la prefazione al Simpozium po strukturnomu izučeniju znakovych sistem (1962)66, redatta in forma anonima da Ivanov. In essa, infatti, ritroviamo le linee teoriche che, da un lato, avevano sancito l’inizio della semiotica sovietica e, dall’altro, guidato i primi passi dei ricercatori tartuensi, compreso Lotman. Nella prefazione si avanzano due postulati programmatici e fondativi: I. la semiotica nasce come scienza unificante del sapere umano e, dunque, la sua vocazione è eminentemente interdisciplinare; II. in quanto scienza, tende al rigore metodologico e all’astrazione metalinguistica propri delle scienze esatte. Scrive Ivanov, preso da una certa ebbrezza di purismo metodologico67: «Il ruolo

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fondamentale dei metodi semiotici per tutte le discipline umanistiche affini può sicuramente essere paragonato a quello della matematica per le scienze naturali. Ma oltre a questo, da un lato, la stessa matematica, in quanto sistema segnico, viene ad essere compresa nella sfera degli oggetti dall’analisi semiotica, dall’altro, la semiotica, come tutte le altre scienze umane, gradualmente adotta in misura sempre maggiore idee e metodi matematici»68. Nella prefazione, viene sottolineato tuttavia che la lingua naturale rimane sempre il sistema segnico basilare della facoltà semiotica umana: lo sfondo, la riserva, la fonte di ogni altro linguaggio, anche di quello logico-matematico69. È in questo senso che la neonata semiotica viene definita metascienza, proprio perché va a informare gli stessi metalinguaggi e i linguaggi artificiali. Dal punto di vista epistemologico, questo significa che la linguistica strutturale si conferma la matrice della semiotica tartuense – e lo si evince, come vedremo, dall’importanza attribuita alla lingua naturale nella spiegazione della tipologia e della dinamica culturale (tanto da far parlare C. Prevignano di glotto- se non di logocentrismo70) – ma, allo stesso tempo, si sposa gradualmente con altri approcci scientifici (la cibernetica e la teoria dell’informazione in primis, la matematica e la logica e, più avanti, la biologia), andando così a realizzare i due postulati di partenza: l’interdisciplinarità e il rigore scientifico. E ritorniamo al saggio del ’67, “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica”, ove Lotman, riprendendo appunto la prefazione programmatica del Simpozium, sottolinea che «(…) la tendenza propria della scienza contemporanea a superare la contrapposizione, indiscussa per gli scienziati del XIX secolo, fra le scienze esatte e quelle umanistiche, è organicamente connessa con quell’aspirazione all’unità che è inerente alla cultura nel nostro secolo»71. Un’unità, continua Lotman, che si realizza attraverso i metodi esatti, matematici e strutturali.

È un’interdisciplinarità, quella proposta dai primi scritti della Scuola tartuense, “piegata” sui metodi esatti: non è ancora ricerca di un metodo proprio, che fruttifichi in quell’apertura epistemologica – di cui Jakobson ha ben enunciato gli attributi – ove autonomia e integrazione

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si completano l’un l’altra. Come vedremo, Lotman riprenderà più e più volte questo nodo teorico, andando ad assumere col tempo una posizione realmente, epistemologicamente interdisciplinare.

Continuiamo con il saggio del ’67; sempre riferendosi alla prefazione del Simpozium, Lotman attribuisce all’adozione della metodologia strutturalista e, di nuovo, all’assunzione del taglio sincronico, un ruolo fondamentale per la comprensione delle scienze letterarie: esso, scrive Lotman, ha portato alla scoperta dell’opera d’arte, ossia il testo poetico, come fenomeno organicamente unitario e funzionante72, tanto – continua qualche pagina dopo – da farlo assurgere a modello della conoscenza del mondo, in virtù della sua doppia natura: convenzionale, poiché si fonda sul materiale delle lingue naturali, e iconica, essendo in rapporto di somiglianza con il mondo che rappresenta. Ora, proprio in virtù di questo concetto complesso di opera d’arte, secondo Lotman è necessario fare un passo ulteriore rispetto all’uso della metodologia strutturalista:

(…) nell’attuale fase di sviluppo della scienza si presenta la necessità di riflettere sulla fase successiva, assai più complessa, quella relativa cioè allo studio dell’aspetto storico (diacronico) dei fatti della cultura. La necessità della considerazione storica nello studio di tali fatti è stata sottolineata dall’autore di queste righe nella prolusione ai lavori della “I scuola estiva sui sistemi secondari di modellizzazione” che ebbe luogo nell’agosto del 1964 a Kääriku (…). La necessità scientifica di costruire una metodologia che tenga conto degli aspetti sia sincronici sia diacronici della struttura, si manifesta nello studio dei testi poetici e culturali con molta maggiore insistenza che non negli studi puramente metalinguistici.73

Quello che Lotman vuole sottolineare con questa definizione è il fatto che, mentre il taglio sincronico è particolarmente fecondo nello studio delle lingue naturali e, più in generale, in un approccio che voglia far emergere i fenomeni letterari come costrutti testuali organici, unitari e autosufficienti, esso non è adatto a cogliere il deposito informativo multistratificato che la cultura nel suo insieme conserva e

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trasmette. Lotman illustra i progressi che certo si sono compiuti a Tartu, grazie al metodo strutturale, nel campo della semiotica della letteratura russa medievale e moderna, nonché quelli compiuti nel gruppo di Mosca sullo studio del folclore e delle culture arcaiche d’Oriente. Egli tuttavia non manca di sottolineare che, fatto felicemente fruttare il metodo linguista sincronico-strutturalista adottato in questi ambiti di ricerca diventa ora necessario ampliare l’indagine semiotica alla dimensione storica (diacronica) e culturologica – notiamo come Lotman sia in certo modo vittima di quella che Jakobson definisce una fallace opposizione (di matrice saussuriana) fra “sincronico vs diacronico” e “statico vs dinamico”.

Rinveniamo qui un prima definizione di cultura, che si profila come l’«insieme complesso di tutta l’esperienza dell’umanità [in termini di informazione] non trasmessa per via genetica»74 ma mediante «tutto il sistema storicamente formato di codici»75. Diverso è, appunto, il caso della lingua naturale, ove «quel che “lavora”, che serve da mezzo di trasmissione dell’informazione, che modellizza la coscienza dei portatori della lingua è, in sostanza, il suo ultimo taglio, il suo stato attuale».76

Quello che Lotman propone, sia nel saggio del ’64 che in quello del ’67, è l’elaborazione di una tipologia della cultura, prospettiva interdisciplinare che può fornire «i metodi per lo studio della storia di qualsivoglia accumulazione di informazioni nella società umana, ma, nello stesso tempo, [provare] di essere una disciplina scientifica affatto autonoma»77: il suo obiettivo, continua Lotman, è quello di risalire ai codici culturali elementari (il cifrario levi-straussiano), esattamente come la linguistica ha fatto con gli universali linguistici. La tipologia della cultura, in questo modo, va a rispondere alle istanze teoriche vecchie e nuove della semiotica sovietica: è (tendenziosamente) interdisciplinare, obiettiva e rigorosa – proprio perché si fonda sulla collaborazione interdisciplinare fra linguistica, storia, semiotica (nei termini di una teoria dell’informazione) e matematica – e, infine, attenta alla dimensione diacronica; tuttavia, proprio perché si appoggia con

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abbandono ai metodi esatti, è difficile ritenerla una disciplina scientifica autonoma, come invece auspicherebbero Lotman et al. 3. La tipologia della cultura. Alla ricerca degli universali culturali

fra strutturalismo e cibernetica

Si diceva pocanzi che la semiotica tartuense nasce con una vocazione al dialogo scientifico e, dunque, all’accordo fra una prospettiva di ricerca attenta alla dimensione storica e metodi e linguaggi fondamentalmente metalinguistici e formali. Queste caratteristiche vanno a confluire nell’approccio tipologico il cui scopo, scrive Lotman in “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica” (1967), è quello di analizzare scientificamente le culture partendo dal presupposto che, come lo studio delle lingue naturali ha fatto emergere gli universali linguistici, così lo studio della cultura può portare alla luce gli universali della cultura, ossia il «sistema generale della “cultura dell’umanità»78. Sempre nel ’67, nel saggio “Il problema di una tipologia della cultura”79, Lotman definisce precipuamente questa idea. Egli parte dal presupposto che ogni cultura sia informazione “in-formata” da una gerarchia di sistemi di codici storicamente stratificati. Ma come risalire dalla varietà fenomenica dei codici culturali, diversi di cultura in cultura, alla “cultura dell’umanità”? Secondo Lotman «[la cultura come gerarchia di codici sviluppatasi nel corso della storia] interessa gli specialisti di tipologia della cultura, in quanto ogni tipo di codificazione dell’informazione storico-culturale risulta connesso alle forme originarie della coscienza sociale, dell’organizzazione della collettività e dell’auto-organizzazione dell’individuo»80. L’intento di Lotman, attraverso il metodo tipologico (strutturale e diacronico), è quello di individuare dei criteri tali da definire e comparare alcuni tipi principali di codici culturali, per poi risalire e determinare gli “universali delle culture umane”81, ossia le forme originarie e transculturali di semiotizzazione o

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modellizzazione del reale (di qui l’idea di una semiotica come metalinguaggio). Ultimo passo sarà quello di delineare una sorta di unico sistema della “cultura del genere umano”82, inesistente a livello fenomenico ma empiricamente fondato dal punto di vista strutturale. «Già fin d’ora, scrive Lotman, si può avanzare l’ipotesi che la quantità totale dei fondamentali tipi di codici culturali sarà relativamente piccola e che la notevole diversità delle culture date storicamente nascerà da complesse combinazioni di tipi relativamente semplici e poco numerosi»83.

Egli prende generalmente in considerazione categorie binarie di comparazione, ossia tipologizza fenomeni culturali universali – declinantisi in modo diverso in ogni cultura – legati ad esempio all’idea di spazio, di storia, di rapporto singolo-collettività per poi portarne alla luce le analogie, le differenze e il sostrato antropologico comune. In realtà, proprio perché la tipologizzazione implica necessariamente una semplificazione della realtà fenomenica, con gli anni Lotman si mostrerà sempre più restio ad applicare in modo forte questa metodologia che, pur se utile dal punto di vista pratico ed euristico, si rivela incapace di imbrigliare la cultura nella sua varietà e irriducibile ridondanza. Non caso il suo pensiero diventerà, soprattutto dagli anni Ottanta in poi, sempre più a-sistematico. Dobbiamo tuttavia sottolineare che quando Lotman propone i suoi primi saggi convivono nella semiotica sovietica, come abbiamo in parte già visto, due anime fortemente sistematizzanti: la linguistica strutturale e la cibernetica. Egli certamente e giustamente risente dell’impostazione programmatica del già citato Simpozium del ’62, in cui la semiotica viene presentata, da un lato, come scienza vicina alla cibernetica84 – ove la cultura assume una fisionomia fortemente meccanicistica, nel suo trasmettere informazione e controllare il comportamento della collettività – e, dall’altro, come scienza la cui base interpretativa primaria rimane la lingua naturale.

Queste due anime hanno impresso alla futura semiotica della cultura una sorta di doppia articolazione epistemologica, evidente soprattutto nel concetto di sistema: è diverso infatti parlare di sistema in senso

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linguistico e di sistema in senso cibernetico, poiché l’uno e l’altro hanno un diverso modo di concepire il rapporto tra il tutto e le parti. Questo, ovviamente, ha una ricaduta fondamentale sul rapporto semiosi-segno (o codice).

Nel primo caso, infatti, il concetto di sistema in senso strutturalista implica la ricerca di codici universali o fondamentali le cui associazioni di volta in volta definiscono la tipologia di cultura nella direzione di una “cultura del genere umano”, di un “repertorio universale dei tratti distintivi”, ossia di una sorta di protoforma della cultura umana ove la semiosi procede dal semplice al complesso per ricombinazione binaria e ove i codici sono connessi l’uno all’altro per opposizione interna al sistema e per opposizione fra sistemi85. Nel secondo caso – anche se i due coesistono e, un po’ contraddittoriamente, si incrociano – il concetto di sistema cibernetico prevede che sia la relazione gerarchico-funzionale dei codici, la loro interdipendenza e i loro meccanismi di trasmissione/elaborazione (o feedback) dell’informazione a definire l’identità della cultura in termini tipologici, e non tanto la differenza oppositiva fra i medesimi. Il concetto di gerarchia, in quest’accezione, è fondamentale perché implica la dinamica cibernetica dell’eccedenza informativa del tutto (olismo): la cultura, in certo modo, si profila come un Codice irriducibile ai suoi codici, pur se strutturalmente informato da essi – questo sarà evidente negli scritti degli anni Ottanta – come una realtà qualitativamente altra rispetto alle sue componenti. Nei saggi che in questa sede stiamo analizzando, il Codice – ossia il codice gerarchicamente più strutturato – viene ancora identificato nel linguaggio naturale. Sin dal Simpozium del ‘62, l’opzione cibernetica porta gli esponenti della Scuola di Mosca-Tartu ad attribuire ad esso la funzione strutturante del sistema-cultura, proprio in virtù dell’organicità gerarchica: in questo modo, la lingua si riflette “a cascata” nell’eterogeneità dei codici particolari, fungendone da minimo comun denominatore e imprimendo in essi un’identità-una; Lotman scrive sempre in “Il problema di una tipologia della cultura”: «la cultura è

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costruita sopra il linguaggio naturale, e il rapporto con questo è uno dei suoi parametri più essenziali»86.

Se dunque nella prospettiva strutturalista la cultura si fonda su codici elementari che via via, combinandosi, si complessificano, nella prospettiva cibernetica ritroviamo una replica del complesso (ossia della cultura intesa come lingua) in tutti i suoi codici.

L’incrocio dell’opzione strutturalista con quella cibernetica dà vita a un meccanismo culturale ove la cultura è un sistema articolato in più sistemi, sorretti a loro volta da opposizioni interne (i codici particolari che ogni volta si ricombinano a partire da codici universali) ma “sovrainformate” da un codice-uno e fondamentalmente storico-convenzionale, ossia il linguaggio naturale. Vediamo come sia Lotman che, più in generale, diversi esponenti della semiotica tartuense cerchino, con una soluzione forse un po’ contraddittoria, di far coesistere i principi della linguistica strutturale con le teorie emergenti in campo cibernetico, atte ad imprimere alla cultura quel dinamismo che il meccanismo di ricombinazione dei codici non contempla.

Possiamo già ora sottolineare che la prospettiva cibernetica, essendo intimamente legata alla biologia – e, in particolare, a tutto il discorso sul rapporto fra organismo e informazione (in primis l’informazione genetica) – aprirà la semiotica lotmaniana a nuove istanze teoriche provenienti dalle scienze della vita e, dunque, all’intensificarsi del dialogo interdisciplinare. 4. Modello e modellizzazione nella Scuola semiotica di Mosca-Tartu

Dobbiamo ora parlare di un altro nodo teorico affrontato dalla prima semiotica di Mosca-Tartu e fortemente legato a quanto appena scritto a proposito del rapporto Codice-codici. Dobbiamo cioè cercar di capire in che accezione entrano in gioco i concetti di modello e di attività modellizzante, confluenti in quello di sistema di modellizzazione. Darne

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una definizione non è semplice dato che il gruppo accademico non gli aveva attribuito un significato ex-clusivo; solo grazie a un certo criticismo, esterno alla Scuola, sono emersi col tempo i problemi e le ambiguità di ordine terminologico e concettuale che sottostanno a questa inclusività e cangianza semantico-referenziale87.

Ma a che cosa è dovuta questa sorta di porosità del linguaggio – che, come vedremo, assume anche la forma di un’interdizione –?

Seconda la ricostruzione di Grzybek, negli anni Sessanta «la Scuola di Mosca-Tartu era una cerchia piuttosto chiusa» e questo fece sì che ci fosse «una tacita comprensione sia dell’orientamento che dell’uso di [certi] concetti e termini base, nonostante non tutti i suoi [membri li] usassero in modo uguale»88: avendoli infatti mutuati e riformulati informalmente dalla linguistica e antropologia strutturale, dalla cibernetica e dall’empirismo logico, essi venivano adottati come un patrimonio terminologico condiviso ma “ufficioso”. Ciò fu particolarmente vero per il “modello”. Con il tempo, questo termine e la sua estensione, “sistema di modellizzazione”, diventarono sempre più metaforici: se da un lato ciò permise una maggiore libertà nella loro applicazione semiotica, dall’altro contribuì a una crescente indeterminabilità del loro significato.

Questo si lega senz’altro al fatto che il “modello”, termine tratto dal vocabolario scientifico formalista, doveva coprire quello di “semiotica”, poco amato dall’ideologia tecno-pragmatica del regime e consenzialmente e tacitamente sostituito con un apparato terminologico trasparente – che a permesso di parlare in modo “secondario” e silenzioso della letteratura, del mito, del teatro, della pittura, del folclore, ossia i campi della libertà di espressione89: il carattere metaforico e poroso del linguaggio, contradditorio per l’esterno ma condiviso e nitido per l’interno, è stato, in altre parole, una sorta di strategia atta ad accentuare i tratti (veri e apparenti) di scientificità per parlare implicitamente di tutt’altro.

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4.1 “… anche la semiotica si occupa innanzitutto di modelli” (1962). La modellizzazione semiotica del mondo

È Ivanov, nelle premesse al Simpozium del ’62, a parlare per la prima volta di “modello” per spiegare la natura degli oggetti di cui si occupa la semiotica:

Come le altre scienze vicine alla cibernetica, anche la semiotica si occupa innanzitutto di modelli, cioè di immagini degli oggetti riflessi (modellati), composte da un numero finito di elementi e di relazioni tra questi elementi. Queste immagini (modelli) tendono all’instaurazione, tra oggetto modellato e immagine, di un rapporto tale che tutti gli elementi ed oggetti esistenti (dal punto di vista pragmatico di chi usa un dato modello) nell’oggetto modellato si ritrovino anche nell’immagine (modello); il rapporto inverso invece può anche non aver luogo. La costruzione di modelli del mondo viene attuata mediante sistemi semiotici di modellizzazione dotati di gradi diversi di attitudine a modellare (cioè di un numero diverso di elementi e di relazioni corrispondenti agli elementi e alle relazioni dell’oggetto modellato). (…) Nella società umana la modellizzazione del mondo si effettua grazie a un certo numero di sistemi segnici coesistenti e tra loro complementari. (…) I diversi sistemi semiotici formano una complessa gerarchia di livelli, nella quale il sistema di livello inferiore (ad esempio il linguaggio naturale) serve per la codificazione dei segni che entrano a far parte del sistema di livello superiore (ad esempio i sistemi segnici dell’arte e della scienza); a sua volta ognuno dei sistemi segnici compresi in questa gerarchia può formare una successione di livelli sistematizzata (o in parte sistematizzata).90

Ciò di cui si occupa la semiotica, dunque, sono i meccanismi attraverso cui avviene il passaggio dall’oggetto → all’oggetto modellato → all’immagine dell’oggetto (il modello)91. Anche se qui rimane implicito, il vero problema (in realtà irrisolto) della semiotica non è tanto il passaggio dall’oggetto modellato all’immagine dell’oggetto quanto il passaggio dall’oggetto in sé – oggetto noetico, in certo modo neanche pensabile al di fuori di una filtrazione linguistica e dunque

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fatalmente inconoscibile – all’oggetto modellato92. Vedremo come questo diventerà un problema particolarmente spinoso negli ultimi scritti lotmaniani; intanto possiamo di certo affermare che il “mondo” – o, per così dire, la realtà – come contemplato dalla neonata semiotica tartuense, non è mai attinto direttamente dall’uomo, ma sempre filtrato da modelli segnici, i quali si fondano su rapporti di rispecchiamento con esso. Compito della semiotica, sottolinea Ivanov, è dunque quello di capire in che modo i modelli riescono a rendere gli oggetti modellati e, a un livello più elevato, in che modo si vengono a creare dei “modelli del mondo”93: la risposta, suggerisce l’autore dell’introduzione al Simpozium, sta nel concetto di “segno” (o codice) o, meglio, di sistemi segnici che, posti in gerarchia l’uno sull’altro, formano un complesso sistema semiotico di modellizzazione della realtà. La modellizzazione del mondo avviene proprio attraverso la reciproca traducibilità e, al contempo, irriducibilità fra questi sistemi segnici, ove un ruolo preminente e “informante” viene assolto, come abbiamo visto, dalla lingua naturale – Ivanov et al, tra l’altro, attribuiscono (un po’ pericolosamente) grande valore alla complessità dei sistemi semiotici di modellizzazione presenti in ogni cultura, sottolineando che essa può esser considerata, in termini ontogenetici e filogenetici, un criterio di valutazione del livello di sviluppo delle culture stesse.

La Scuola di Mosca-Tartu, con il concetto di modellizzazione, introduce così un nuovo nodo teorico nelle discipline semiotiche e lo fa distinguendo fra “sistema primario di modellizzazione” (la lingua naturale) e “sistemi secondari di modellizzazione”, ossia tutti i sistemi semiotici extralinguistici94 che hanno un valore gnoseologico pari a quello della lingua naturale, pur strutturandosi su di essa. Ne deriva, dunque, che questa svolge un’azione informante non solo sui linguaggi meta e artificiali – come visto in precedenza – ma, complementariamente, sui costrutti semiotici complessi come l’arte.

La distinzione fra i due sistemi arriva due anni dopo il Simpozium, e precisamente durante il seminario inaugurale di Kääriku (1964), il quale non a caso viene chiamato “I Scuola estiva sui sistemi modellizzanti

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secondari”95. Iniziano così gli studi sulla modellizzazione che, in questa prospettiva, è il concetto in grado di fa convivere il sistema semiotico storico-convenzionale della lingua naturale – al quale attribuisce il primato e un’azione codificante “a cascata” – con quei sistemi semiotici che si caratterizzano per un diverso modo di modellare la realtà: essi sono immagini del mondo, che si organizzano su un principio iconico-analogico di resa del reale (l’arte, il mito, il gioco, il teatro, il folklore, la religione, ecc.)96. È quanto anche scrive Jakobson nel 1960 nel famoso saggio “Closing Statement: Linguistics and Poetics”, ove sottolinea che la «lingua naturale condivide molte proprietà con altri sistemi segnici, se non con tutti (aspetti pansemiotici)»97, questione che ci porta ad affrontare due problemi fondamentali: la revisione dell’ipotesi monolitica della lingua e l’interdipendenza di diverse strutture all’interno del linguaggio98. Secondo Jakobson, pur essendovi una preminenza della lingua sugli altri sistemi segnici, il linguaggio va studiato nella sua natura semiotica, ossia come sistema di messaggi costituiti da segni di diversa natura99. Scrive il linguista russo: la «lingua è per gli uomini il mezzo primario di comunicazione (…) e questa gerarchia del sistema comunicativo si riflette necessariamente in tutti gli altri, secondari tipi di messaggi umani, rendendoli in vario modo dipendenti dalla lingua (…)». Allo stesso tempo, però, questi messaggi contengono delle strutture segniche che si depositano su quelle verbali – si pensi all’iconicità diffusa della comunicazione umana – il che problematizza esponenzialmente il rapporto lingua-linguaggi (o, per Lotman, sistemi secondari di modellizzazione). Come vedremo, questo spostamento di attenzione alla comunicazione semiotica sarà fondamentale in Lotman per l’elaborazione del concetto di intertestualità.

Capiamo bene perché egli nel ’67 veda la necessità di ampliare il metodo di analisi dei fenomeni culturali alla prospettiva polilinguistica e diacronica: una tipologizzazione che voglia cogliere gli universali della cultura deve essere sostenuta da una prospettiva di ricerca attenta sia allo stato attuale del Codice nel suo rapporto con i codici, ossia del

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sistema primario di modellizzazione con quelli secondari, sia alla sovrapposizione storica di questo intricatissimo, poliglotto e (cronologicamente) multistratificato deposito informativo. Ma questo non è l’unico motivo. Ce n’è un altro, più tacito, legato alla situazione politico-ideologica nella quale questi concetti vengono elaborati. La rivendicazione della semiotica tartuense, scrive Grzybek, ad assumere un ruolo di primo piano nello studio della comunicazione umana (implicita nella definizione stessa di semiotica quale disciplina fra le altre e metadisciplina) portò necessariamente ad una competizione con l’ideologia ufficiale nella spiegazione del comportamento sociale100. Particolarmente spinosa era poi la posizione lotmaniana101 rispetto al funzionamento semiotico della letteratura in seno all’organizzazione socio-culturale: secondo Lotman, infatti, le opere letterarie e l’intero processo storico della letteratura vanno a costituire una struttura organizzata gerarchicamente, ove il “centro” funge da congegno culturalmente legittimante e normativizzante. Inutile dire che il termine stesso semiotica non venne ben visto dall’apparato politico-culturale del Partito: la Scuola tartuense iniziò ad adottare il termine sistema modellizzante per definire i sistemi segnici eccedenti la lingua naturale, così da non entrare in collisione con i vertici ma, allo stesso tempo, aver più ampio margine di manovra e superare una terminologia “neutrale” come quella puritanamente strutturalista – ossia non suscettibile di interpretazione; «(…) la manipolazione lotmaniana del concetto di “modello”, appunta Grzybek, può essere vista come un capolavoro teorico e metodologico di politica del rischio calcolato, che ha colmato il gap ideologico tra il Marxismo sovietico e la semiotica strutturale»102, la quale, come abbiamo visto, dovette subire un’invadente matrice logico-matematica (astratta, aprioristica e astorica).

Prima di andare avanti non possiamo non sottolineare che questa dialettica fra modellizzazione primaria e secondaria ha ricevuto anche alcune critiche, soprattutto rispetto al fatto che vi sia supposta una sorta di primarietà della lingua sugli altri sistemi comunicazione umana, se non una vera e propria corrispondenza fra la lingua e il linguaggio

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(inteso come facoltà di espressione). Secondo S. Miceli, ad esempio, «la “primarietà (…) di cui parla Lotman sembra da intendere piuttosto come una reale priorità logica e cronologica dei sistemi-lingue rispetto ai codici culturali. Questi ultimi sarebbero debitori della loro qualità di sistemi segnici-comunicativi alla pre-esistenza di quel “dispositivo stereotipante” strutturale che è la lingua naturale [tale per cui, in un’ottica storico-genetica, si dovrebbe] arrivare a immaginare una strana sorta di umanità primordiale che cominciasse a comportarsi culturalmente (…) solo dopo aver elaborato un sistema-lingua ben strutturato»103. Come vedremo, però, quello che intende Lotman non è tanto una primarietà genetica quanto strutturale – posizione, come abbiamo visto, supportata da diversi studiosi – il cui scarto dagli altri sistemi segnici, in ogni modo, verrà sempre più disaccentuandosi, complice anche una distensione della situazione politico-ideologica.

4.2 Il modello in J. Lotman: una nuova prospettiva

4.2.1 La realtà e i suoi oggetti-in-relazione

Parliamo ora di un altro saggio di Lotman, sempre del ’67: “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione”. In questa riflessione sull’opera d’arte come modello e sul valore conoscitivo del segno iconico104, Lotman non sono solo spiega in modo molto chiaro il concetto di modello e di attività modellizzante in semiotica, ma – personalmente ritengo – ne allarga la portata epistemologica, sposando il problema della modellizzazione con quello, già visto, del “piegamento” della semiotica sulla linguistica strutturale: quello che Lotman vuole dimostrare è il fatto che per lingua non si intende solo quel precipuo sistema semiotico ove fra segno e denotato – ossia l’oggetto suscettibile di semiotizzazione – vi è un rapporto di convenzionalità (o arbitrarietà), ma qualunque sistema atto a modellizzare, vale a dire a creare modelli che vengano «percepiti come

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l’analogo dell’oggetto»105. Quindi, più che oggetto-convenzione-segno si dovrebbe parlare di oggetto-analogia-modello. Scrive Lotman: «Il modello si distingue dal segno in quanto tale, per il fatto che non solo sta al posto del denotato (referente), ma lo sostituisce anche utilmente nel processo gnoseologico e normativo. Perciò, se i rapporti fra segno linguistico e denotato sono nella lingua naturale di tipo storico-convenzionale, i rapporti esistenti fra i singoli modelli e i loro oggetti si rivelano attraverso la struttura del sistema di modellizzazzione stesso. Sotto questo rispetto vi è un solo tipo di segno – il segno iconico – che possa essere paragonato ai modelli»106.

L’attenzione di Lotman per l’analogia si lega al suo interesse verso la costante ricerca di rapporti fra le cose e fra le discipline – atteggiamento, questo, che aveva desunto dalla metodologia strutturalista – il che lo porta nel tempo a imprimere alla cultura un movimento (e uno studio – uno studio fatto di balzi intellettuali imprevedibili) mutevole, tale da configurarla attraverso modelli semiotici diversi e via via più complessi. Il modo attraverso cui opera il pensiero di Lotman – è lui stesso a riconoscerlo – si fonda essenzialmente sul continuo ricorso all’analogia, quale apertura al reale per il tramite dell’iconicità dei rapporti che lo intessono. Ovviamente, come vedremo, Lotman è interessato alla natura semiotica di questi rapporti e alla loro funzione di mediazione linguistico-conoscitiva107. Una primissima conseguenza che discende da questo movimento analogico risiede nel fatto che il reale, come restituito in Lotman, è attingibile attraverso i suoi oggetti-in-relazione: oggetti eterogenei ma, al contempo, semio-iconicamente legati.

Come visto pocanzi, Lotman inizia a parlare di analogia nel momento in cui propone di passare dallo studio dei segni (o dei sistemi di segni) alla individuazione di modelli (o di sistemi di modellizzazione) atti a “restituire” la cultura e i meccanismi culturali che la informano. Il modello, per Lotman, non è semplicemente una pallida copia della realtà ma un vero e proprio strumento gnoseologico di rappresentazione e comprensione del reale, nel quale è depositato,

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condensato e riprodotto il reale stesso. L’attività modellizzante, infatti, fa emergere l’oggetto (il referente) alla luce di un rapporto non meramente storico-convenzionale – cosa che, tra l’altro, presenta il problema della riduttività del taglio sincronico – ma di un rapporto iconico-analogico con il modello, ove questo attinge dall’oggetto solo alcune proprietà atte al processo conoscitivo. Il reale, ossia tutto ciò che non è ancora semiotizzato, è dunque mediato dai modelli che sono, per somiglianza strutturale (ossia di rapporti), una riproduzione di esso. Scrive Lotman: «affinché i risultati [dell’attività modellizzante] possano essere percepiti come l’analogo dell’oggetto, essi debbono sottostare a precise regole di analogia formulate su base intuitiva o razionale e, di conseguenza, essere costantemente riferiti ai singoli sistemi modellizzanti»108, vale a dire sistemi strutturati da elementi e regole che, nel loro insieme, si trovano «in rapporti di analogia con il complesso degli oggetti sul piano della conoscenza, della presa di coscienza e dell’attività normativa»109.

Sulla fondamentale distinzione fra intuitivo e razionale, a proposito delle regole di analogia, si tornerà, ma intanto è bene sottolineare che l’operazione che Lotman fa è molto chiara (e si lega senz’altro alla convinzione che il modello riesca, in qualche modo, ad affondare più profondamente nella vita semiotica dell’uomo): considerare i diversi modi di comunicazione umana come lingue significa riconoscere il fatto che la modellizzazione del mondo ha una natura fondamentalmente eterogenea, e che la lingua naturale ha sì un ruolo importantissimo ma è uno dei possibili modi attraverso cui il “mondo” viene esperito dal singolo e dalla collettività. L’oggetto semiotizzato, per Lotman, è sempre il risultato della confluenza e dell’incrocio di diverse lingue, ognuna delle quali – come in un prisma – ha una sua propria portata conoscitiva.

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4.2.2 Il linguaggio dell’arte: paradigma della modellizzazione

Lo studio del linguaggio artistico porta nella semiotica lotmaniana due importanti conseguenze: in primo luogo, un’attenzione particolare per la natura analogica dei testi, dei codici, dei linguaggi, delle scienze, delle culture – riflessione che lo guiderà poi a una visione semiotica sempre più organicistica e, come detto, a-sistematica; in secondo luogo, uno spostamento verso i problemi legati alla traduzione, all’interpretazione e all’intertestualità. A questo proposito, ritornando al saggio “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”, Lotman sottolinea che la ricchezza semantica del modello artistico110 fa si che i significati racchiusi in seno al modello stesso non siano immobili, ossi codificati uno volta per tutte, ma “scintillino”111: «Ogni interpretazione, scrive Lotman, provoca un singolo taglio sincronico, ma conserva nello stesso tempo la memoria dei significati precedenti e la coscienza delle possibilità di quelli futuri. (…) Il modello artistico è sempre più ampio e vitale della sua interpretazione. (…) nella ricodificazione di un sistema artistico in una lingua non artistica rimane pur sempre un residuo “intraducibile”»112. D. Ferrari-Bravo ha proposto un’interessante interpretazione del passaggio lotmaniano dal segno al modello, sottolineando come questo cambio di prospettiva abbia posto molto di più l’accento sulla cultura in quanto insieme di enunciati, portando a un arricchimento della matrice struttural-linguistica. Scrive Ferrari-Bravo:

Se dunque nel complesso la semiologia lotmaniana si dimostra l’interprete più attenta del pensiero [di F. de Saussure], dovremo anche osservare che l’attributo “modellizzante” riferito a “sistema” introduce un concetto, o, se si vuole, una dimensione teorica completamente nuova nei confronti della definizione saussuriana. Lotman non parla più di “segno”: l’arte non è più intesa come sistema di segni che permette l’elaborazione di “modelli”. Naturalmente tali “modelli” sono costruiti coi materiali (“elementi”) forniti dal sistema, in base alle regole del sistema stesso. Questo però non toglie che l’accento venga spostato dagli “elementi” – identificabili in qualche modo con i

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“segni” – e dalle “regole” che ne governano la combinazione, alla produzione di opere compiute o “modelli” da identificarsi come enunciati o complessi, insiemi di enunciati. Lo slittamento dal piano della “langue” a quello della “parole” è implicito nella definizione stessa, la quale sembra contemperare le due diverse esigenze, quella sincronica della descrizione (“sistema”), e quella diacronica di una attività favorita dal sistema (“modellizzante”).113

Ritroviamo qui la spiegazione della straordinaria fecondità che l’approccio sincronico e quello diacronico, insieme, possono portare alla comprensione dei fenomeni culturali114. Non solo. Sempre in questo saggio si avanza un’ipotesi che sarà poi meglio approfondita negli anni Settanta, ossia l’idea secondo cui la cultura, essendo costituita da sistemi semiotici interrelati e irriducibili l’uno all’altro – fonti, dunque, di continui residui intraducibili – abbia un dinamica di sviluppo esponenziale. Scrive Lotman: «Le particolari capacità costruttive dell’arte la rendono un mezzo singolare e assolutamente perfetto per la conservazione dell’informazione. Tuttavia le opere d’arte non solo si distinguono per tale loro eccezionale capacità nel conservare e trasmettere informazioni di ogni genere, comprese quelle più complesse ma ammettono anche la possibilità che la quantità di informazione in esse racchiusa aumenti in modo indefinito. Questa proprietà, caratteristica delle sole opere d’arte, conferisce loro tratti non dissimili da quelli propri dei sistemi dei sistemi biologico e le colloca su un piano del tutto particolare nella serie di ciò che è creazione umana»115. Qui non si parla ancora di cultura ma del solo linguaggio artistico, il quale tuttavia funge da modello paradigmatico per la comprensione della dinamica culturale: gli studi di Lotman sull’opera d’arte introducono progressivamente l’idea che la cultura non sia solo un deposito informativo che conserva e trasmette informazione, ma un organismo vivo, una sorta di sistema biologico in continuo autoaccrescimento. Qui prende piede, inoltre, una nuova idea di testo quale “generatore di senso”: esso non è più contemplato come un costrutto chiuso entro il quale si manifestano le regole di un certo

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(unico) linguaggio – Grzybek parla di testo omogeneo e omostruttuturale116 – ma un congegno complesso ove, come dirà Lotman, il senso scintilla.

Il concetto lotmaniano di modello ci riporta inoltre al problema della tipologizzazione come metodo di ricerca interdisciplinare. Tanto più Lotman entra in quelle porzioni di realtà esondanti dal mondo storico-letterario entro cui la semiotica tartuense era nata (la cibernetica e la teoria dell’informazione, la fisica, la biologia, l’informatica, ma anche lo stesso mondo del mito e dell’arte riscoperto da una prospettiva certo più ermeneutica che formalista) tanto più il concetto di “sistema di segni” sembra stringere quel fondamentale residuo non formalizzabile del reale; e non solo: il riconoscimento della sostanziale analogicità del pensiero umano non può che portare Lotman ad attirare progressivamente questa realtà esondante nell’orbita della semiotica – di qui, i balzi intellettuali propri del suo pensiero. In questa prospettiva dunque creare tipologie significa individuare modelli di conoscenza della realtà che rendano conto della sostanziale multiprospetticità scientifica degli oggetti culturali, andando quindi verso una vera e propria culturologia.

4.3 Il modello nel dibattito scientifico tra gli anni Cinquanta e Settanta

Vorrei concludere la parte dedicata al “modello” moscovita-tartuense con una breve riflessione sul dibattito scientifico che si è svolto intorno a questo concetto tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta: dibattito che ha influenzato visibilmente la Scuola, contribuendo a rendere il termine ancora più poroso e ambiguo – oltre a quanto arrecato dall’interdizione ideologica.

La riflessione sulla natura e sul ruolo della modellizzazione scientifica (e sul rapporto fra modello e analogia) ha caratterizzato l’empirismo logico degli anni Cinquanta117 e influenzato profondamente la nascente

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cibernetica americana, nel momento in cui buona parte dei neopositivisti si è sottratta alla guerra fuggendo negli Stati Uniti. La Scuola non rimase certo indifferente a questo intreccio di teorie, riflessioni e scienziati: essa rielaborò infatti il suo concetto di modello alla luce tanto di quello linguistico strutturale quanto di quello cibernetico-logico-empirico (si vedano i riferimenti a Carnap, Frege, Morris e altri nei saggi degli anni Sessanta), rimanendone attratta e al contempo distaccata.

Questo spiega perché, specialmente in Lotman, termini legati al modello neopositivista (come analogia, isomorfismo e omomorfismo) entrino nella sua teorizzazione semiotica, spesso però indistintamente e impropriamente. È necessario dunque ripercorrere il dibattito scientifico di quegli anni, proprio per capire meglio la loro accezione terminologica: questo ci aiuterà a chiarire, in modo più preciso, la futura semiotica della cultura.

Gli empiristi logici, ancorati a una visione assiomatico-verificativa di scienza, concepiscono il modello come un prudenziale ausilio alla costruzione delle teorie scientifiche, a partire da un calcolo logico non interpretato (o assiomatico). Due teorie possono essere entrambe “modelli” (calcoli logici interpretati)118 di un unico calcolo logico non interpretato oppure essere l’una il modello dell’altra, in virtù di una prestabilita corrispondenza biunivoca, di tipo logico-matematico, posta in essere tra loro (funzione ermeneutica); il modello può inoltre essere inteso come un analogo di una teoria in progress, avente con essa un rapporto di isomorfismo (funzione euristica). Il modello, in questa prospettiva, diventa uno strumento pratico e utile ai fini «dell’economia intellettuale: può essere più agevole esaminare la consistenza logica di una nuova teoria prendendone in considerazione un modello già noto invece che studiarne direttamente il calcolo non interpretato»119.

Rifacendosi alla proposta di P. Duhem di «bandire l’immaginazione dalla “dimora tranquilla e ordinata del ragionamento deduttivo”»120, i neopositivisti sottolineano che l’efficacia euristica di un modello è legata non già alla percezione soggettiva di similarità o di “vaga analogia

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qualitativa” tra la struttura fisica del modello e quella del modellato quanto all’emersione di un combaciamento sintattico-formale fra i due.

Seguiamo la tabella 1121:

Scolastica (visione aristotelico-

tomista) Tarda Scolastica Empirismo logico

Analogia di proporzionalità propria

(o intrinseca) Analogia formale Iso e omomorfismo

Analogia di attribuzione (o proporzione

semplice) Analogia materiale Vaga analogia

qualitativa

Tabella 1 – L’analogia nel tempo: da concetto metafisico a dispositivo logico-linguistico

Usando un linguaggio preso impropriamente dalla tradizione filosofica, gli empiristi logici negano in altre parole la possibilità che una teoria possa fungere da modello per una nuova attraverso una blanda “analogia materiale”122 e optano decisamente per l’isomorfismo, da loro definito “analogia formale” – un’analogia formale in realtà decisamente potenziata e dunque incommensurabile con l’isomorfismo, il quale contempla una corrispondenza matematica uno-a-uno e la presenza di relazioni identiche fra i termini delle due teorie oppure fra gli elementi del modello e gli elementi del modellato123.

La Scuola di Mosca-Tartu risente intimamente dell’atmosfera logicista del Positivismo e del Neopositivismo, visioni escludenti la possibilità che il linguaggio scientifico possa essere inquinato da espressioni non logiche, come l’analogia “qualitativa”, la metafora, la similitudine: tutti dispositivi traslanti validi «se non in remoti stadi del pensiero prescientifico»124. Allo stesso tempo però, Ivanov e colleghi devono conciliare la prospettiva “esatta” del logicismo con la linguistica strutturale e, in certo modo, difendere lo statuto della loro disciplina e del loro linguaggio, che non è primariamente quello logico-matematico,

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bensì verbale e iconico125. Ne discende una soluzione ibrida, ove la corrispondenza fra modello semiotico e oggetto modellato si basa su un “morfismo” più debole dell’isomorfismo e la superiorità metalinguistica del simbolismo matematico è sostituta da quella della lingua (naturale).

Tipo di rapporto tra modello e oggetto modellato

Rappresentazione

«(…) la semiotica si occupa innanzitutto di modelli, cioè di immagini degli oggetti riflessi (modellati), composte da un numero finito di elementi e di relazioni tra questi elementi»126.

Tipo di corrispondenza tra modello e oggetto modellato

Analogia formale (a volte omomorfica): quando l’oggetto è descritto in termini algebrici

Analogia materiale: quando l’oggetto è descritto in termini iconico-verbali

«Queste immagini (modelli) tendono all’instaurazione, tra oggetto modellato e immagine, di un rapporto tale che tutti gli elementi ed oggetti esistenti (dal punto di vista pragmatico di chi usa un dato modello) nell’oggetto modellato si ritrovino anche nell’immagine (modello)»127.

Metalinguaggio Lingua naturale

«Lo sviluppo della scienza ha luogo grazie all’interazione tra il materiale linguistico scientifico in via di formalizzazione (o già formalizzato) e il linguaggio naturale non formalizzato (cioè il linguaggio dell’esperienza che piò sempre essere descritta mediante un linguaggio naturale). Perciò il linguaggio naturale rimane sempre la base interpretativa e la riserva per lo sviluppo dei linguaggi artificiali formalizzati della scienza»128. «Il ruolo fondamentale dei metodi semiotici per tutte le discipline umanistiche affini può

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sicuramente essere paragonato a quello della matematica per le scienze naturali. Ma oltre a questo, da un lato, la stessa matematica, in quanto sistema segnico, viene ad essere compresa nella sfera degli oggetti dall’analisi semiotica, dall’altro, la semiotica, come tutte le altre scienze umane, gradualmente adotta in misura sempre maggiore idee e metodi matematici»129.

Funzione Creazione di immagini del mondo

«Funzione basica di qualunque sistema semiotico è la modellizzazione del mondo. (…) qualunque modello semiotico del mondo può essere considerato, nello stesso tempo, come il programma di comportamento dell’individuo o della collettività»130.

Tabella 2 – L’analogia nella Scuola semiotica di Mosca-Tartu

Il modello del Simpozium del ’62, come specificato nella tabella 2, contempla un’altra differenza rispetto a quello logico-empirico. Mentre infatti questo è la copia di un assioma o di un altro calcolo logico interpretato, il modello di Ivanov e colleghi è la rappresentazione (o immagine) di un oggetto. Il modello, in questa prospettiva, necessita dunque di: 1) di osservatori e fruitori storici, culturalmente incarnati e semioticamente competenti: capaci cioè di selezionare i tratti distintivi e di riceverli; 2) sistemi segnici articolati (verbale, formale, iconico) atti a garantire la funzione rappresentazionale.

Si tratta di un a doppia importante intuizione che verrà sviluppata, in modo parallelo e indipendente, da vari ambienti scientifici intorno agli anni Sessanta-Settanta, specialmente dopo lo scossone de La struttura

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delle rivoluzioni scientifiche di T. Kuhn (1962). Come vedremo, quest’opera pone in evidenza la natura eminentemente comunitaria e soggettiva della ricerca scientifica e il ruolo imprescindibile dell’osservatore, quale interprete del mondo: è la sua competenza linguistico-contestuale e pragmatica a creare modelli che siano utili e agevoli, modelli cioè in grado di rappresentare l’oggetto d’analisi attraverso attributi salienti e pertinenti.

Il modello “fruttuoso” non è per forza una copia o una riproduzione isomorfica dell’originale, ma una rappresentazione “sufficiente”, sotto qualche aspetto o proprietà, dell’originale. Poiché inoltre viene in genere costruito per attività orientate a un determinato compito o obiettivo, esso è sempre il risultato di scelte pragmatiche di modellizzazione131. Non è un caso che Ivanov precisi: «Queste immagini (modelli) tendono all’instaurazione, tra oggetto modellato e immagine, di un rapporto tale che tutti gli elementi ed oggetti esistenti (dal punto di vista pragmatico di chi usa un dato modello) nell’oggetto modellato si ritrovino anche nell’immagine (modello)»132: questo “tutti” implica proprio la scelta, da parte dell’osservatore-scienziato, di tutti quegli attributi che possono essere utili alla modellizzazione.

Ancora diverso è il caso di Lotman. Se «l’atteggiamento analogico consiste (…) nell’accogliere consapevolmente la plurivocità del pensiero e del linguaggio, e del servirsene a fini conoscitivi»133, egli – interessato com’è alla polifonia culturale – non poteva che adottarlo per le sue teorizzazioni. Questi infatti è un assiduo utilizzatore delle “vaghe analogie qualitative”, ossia di similarità osservate, che sovente si presentano più sotto la forma dell’intuizione che della rappresentazione scientifica. Il semiologo russo, in altre parole, non è tanto interessato alla precisa struttura materiale dei modelli da cui trae ispirazione per formularne di nuovi – come nel caso “biosfera” → “semiosfera” – quanto al fatto che il riconoscimento iconico di somiglianze fra proprietà o relazioni possa dar luogo a un’associazione creativa fra modelli (a loro volta ponti fra scienze diverse).

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L’analogia in Lotman ha soprattutto una funzione euristica e creativa, che si fonda sull’eccedenza semantica contenuta in ogni vero modello; e non potrebbe essere altrimenti dato il suo riferimento principe sono quelli artistico-culturali, per loro natura semanticamente “sempinterpretabili”. L’errore che egli fa, tuttavia, è quello di usare alternativamente i termini “isomorfismo”, “omomorfismo” e “analogia” per intendere questo tipo di somiglianza che, come vedremo ora, gli porterà molto frutto.

Prima di “immergerci” nella semiotica lotmaniana, possiamo sintetizzare l’intreccio di date, eventi storici, scienziati, opere emblematiche e istanze teoriche (vecchie e nuove) descritto finora servendoci della seguente cronistoria:

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Figura 1 – Cronistoria della Scuola semiotica di Mosca-Tartu nella storia Occidentale

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5. La semiotica della cultura: dalla lingua alle lingue

5.1 Verso la semiotica della cultura

Arriviamo così alle “Proposte per il programma della IV Scuola estiva sui sistemi modellizzanti secondari” (1970), in occasione delle quali, a otto anni di distanza dalla nascita della semiotica sovietica e a sei dalla nascita della Scuola semiotica di Mosca-Tartu, si parla per la prima volta di “semiotica della cultura”. Facciamo riferimento, in questa sede, anche ai due saggi del 1970 “Cultura e informazione” e “Cultura e lingua”, poi riuniti – sotto suggerimento di Lotman – nell’“Introduzione” alla raccolta Tipologia della Cultura, edita in italiano.

Iniziamo proprio dall’“introduzione” in cui troviamo una sorta di spiegazione fondativa sul perché la semiotica lotmaniana e tartuense vada progressivamente a focalizzarsi sulla cultura. Lotman premette che la storia dell’umanità, almeno fino alla modernità, è una storia di penuria, ove l’uomo si è sempre dimostrato in ritardo nel soddisfacimento dei bisogni immediati e materiali. Strano, quindi, che egli abbia avuto la “velleità” di produrre ciò che, al primo acchito, non sembrerebbe indispensabile alla sopravvivenza, come ad esempio l’arte, il pensiero teoretico, la conoscenza, l’autocoscienza134. «La storia, scrive il semiologo russo, è un critico severo. Inesorabilmente essa soffia via come pula tutto ciò di cui un dato sistema può fare a meno»135: il fatto che l’uomo abbia speso inestimabili energie nell’elaborazione di costrutti semiotici ci suggerisce allora, continua Lotman, che egli può sì sopravvivere biologicamente come singolo attraverso il soddisfacimento dei bisogni materiali ma che in realtà non è pensabile al di fuori di una vita sociale e culturale: al di fuori, cioè, della comunicazione. La cultura (e gli atti comunicativi che la fondano), dunque, «per qualunque collettività (…) non è un supplemento facoltativo a un minimo di condizioni vitali, ma è la condizione necessaria, senza la quale la sua stessa esistenza appare impossibile»136 – Lotman parla proprio di inevitabilità della cultura137. Questa sembra essere anche la posizione di

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Sapir, per il quale «ogni modello culturale e ogni singolo atto del comportamento sociale presuppone la comunicazione, sia in senso esplicito che in senso implicito»138; e, commenta Jakobson, «lontano dall’essere una “struttura statica”, la società si profila come una rete altamente intricata di intese, parziali o complete, fra i membri delle unità organizzative d’ogni livello di grandezza e complessità [e questo è possibile proprio grazie a creativi e] particolari atti di natura comunicativa»139.

Questa riflessione ci porta a un concetto fondamentale che abbiamo già affrontato nella primissima definizione di cultura data da Lotman nel ‘67 come «insieme complesso di tutta l’esperienza dell’umanità [in termini di informazione] non trasmessa per via genetica»140. Nell’“Introduzione” a Tipologia della cultura Lotman si chiede: cosa caratterizza la cultura da renderla una condizione inevitabile per l’esistenza umana? La risposta sta proprio nel concetto di “informazione”. L’uomo infatti sopravvive come essere culturale perché accumula e trasmette informazioni, ossia perché serba una memoria e pone in essere un’azione di continuo autoaccrescimento di informazione: «la lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per l’informazione. (…) La cultura è il meccanismo duttile e complesso della conoscenza»141. Questo tra l’altro implica il fatto che è cultura, ossia che è conoscibile, solo ciò che viene assunto come informazione attraverso la semiosi142 e introdotto nelle memoria culturale. «La storia intellettuale dell’umanità, scrive Lotman, si può considerare una lotta per la memoria [qui cultura, conoscenza e memoria vanno praticamente a coincidere]. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi»143.

Possiamo ora dare una definizione di cultura come contemplata da Lotman nei due saggi del ’70. La cultura si profila come l’insieme di tutta l’informazione non ereditaria dell’umanità e dei mezzi per la sua organizzazione e conservazione144, dunque lo specchio della conoscenza di ogni epoca e della sua strutturazione in termini di regole o di non

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regole. Quest’ultimo punto è fondamentale perché ci introduce a quello che sarà uno dei nodi di ricerca più importanti per Lotman negli anni Settata, ossia il rapporto fra cultura (la sfera delle regole) e non cultura (quella sfera funzionalmente appartenente alla cultura, ma che non ne adempie le regole145).

Non abbiamo tuttavia ancora specificato il modo attraverso cui si struttura e organizza l’informazione in seno alla cultura, così come appena definita. Sempre nell’“Introduzione” a Tipologia della cultura viene ripresa l’idea di cultura come fascio di sistemi semiotici (o lingue) formatisi storicamente e organizzatisi gerarchicamente, la cui struttura informante primaria rimane la lingua naturale. Un po’ contraddittoriamente, Lotman suggerisce che la cultura assume infine l’aspetto di un sistema secondario di modellizzazione «costruito su questa o quella delle lingue naturali accolte in una data collettività, e della lingua riproduce lo schema strutturale nella propria organizzazione interna»146. In questa prospettiva egli sembra riprendere fortemente l’ipotesi Sapir-Whorf, per la quale la lingua naturale «con la particolare organizzazione che la caratterizza, è in qualche modo capace di modellare e plasmare l’esperienza umana ai suoi vari livelli, così che sarebbe possibile individuare una sorta di analogia tra l’organizzazione peculiare di una lingua e l’organizzazione della realtà sociale e dell’universo concettuale del gruppo che la parla».147

Se questo fosse vero, sarebbe in realtà molto difficile costruire il modello di una Cultura Planetaria, di un’unica cultura-lingua148,– obiettivo che egli propone poche righe dopo – poiché non è pensabile che tutte le lingue naturali presenti a livello planetario possano essere unificabili metalinguisticamente149. Tuttavia quel che è più importante sottolineare ai fini del nostro discorso, nonostante la non sempre chiara posizione di Lotman rispetto a cosa possa essere considerato un sistema secondario di modellizzazione, è il fatto che la cultura stia assumendo una fisionomia sempre più poliglotta: slittamento particolarmente significativo per la nascita della “semiotica della cultura”.

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Come si è detto in apertura di paragrafo sono le “Proposte per il programma della IV Scuola estiva sui sistemi modellizzanti secondari” (1970) a parlare per la prima volta di “semiotica della cultura”. Proprio notando il plurilinguismo che caratterizza i sistemi culturali, Lotman si chiede quale sia il suo significato: perché, ad esempio, uno stesso oggetto viene semiotizzato sia dai segni figurativi che da quelli convenzionali? Perché coesistono prosa e poesia, letteratura orale e letteratura scritta, mito e scienza? È possibile la cultura al di fuori di questa continua traduzione bilinguistica e intersemiotica? Il vero problema della semiotica, dunque, è quello di capire in che rapporti stanno i vari sistemi semiotici che, uno sull’altro, informano la cultura e ne assicurano l’unità strutturale. Lo studio dei segni si andrà a configurare allora come «una semiotica della cultura, scienza della correlazione funzionale dei differenti sistemi segnici»150; suo compito sarà quello di «(…) definire l’assortimento minimo di sistemi segnici (di linguaggi culturali) necessari al funzionamento di una cultura nella sua totalità, e costruire il modello delle relazioni più elementari che intercorrono tra essi, il modello della cultura»151 – vediamo come Lotman continui giustamente a parlare di sistemi segnici ma con quella precipua attenzione alle relazioni strutturali che è caratteristica del concetto di modello.

Questo approccio sistemico allo studio della cultura porta alla scoperta di due nodi di ricerca fortemente legati, che Lotman affronterà nei saggi successivi e, in particolare, nel fondamentale scritto del ’71, “Sul meccanismo semiotico della cultura”, composto con Uspenskij. In primo luogo, emerge un’attenzione crescente per il rapporto fra la cultura e il segno inteso come regola (o norma): da qui, il già menzionato problema della dialettica fra cultura e non cultura, memoria e dimenticanza, centro e periferia, acculturazione e culturoclasi152 (§ 2.3.1). In secondo luogo, proprio l’interesse per questo rapporto porta allo studio dei modi attraverso cui la cultura si interfaccia con i suoi prodotti semiotici, ossia i testi. La ricerca di Lotman va nella direzione di quella tipologizzazione culturologica che

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può essere sintetizzata nella dicotomia: culture orientate all’espressione vs culture orientante al contenuto (§ 2.3.2).

5.2 Comunicazione come eterogeneità e poliglottismo culturale

Nel noto saggio “Sul meccanismo semiotico della cultura” (1971), Lotman propone di considerare l’intera cultura come un sistema di segni sullo sfondo di una non-cultura. La cultura, scrive Lotman, è tale in virtù dei tratti distintivi che la fanno significare e quindi si presenta sempre come termine rilevante di una opposizione fondamentale, ossia quella con la non-cultura. Essa è uno spazio semiotizzato – vale a dire linguisticamente modellato – al di fuori del quale l’assenza dei tratti distintivi che caratterizzano “quella” cultura implica la presenza di uno spazio non-semiotico (o «mondo “aperto” dei realia»)153: mondo inconoscibile (e indicibile) che la lingua traduce «nel mondo chiuso dei nomi»154, andandolo così a inglobare nell’orbita dello spazio culturale. Emerge una configurazione concentrica di cultura, prodromo del futuro modello organicista, che vede al suo centro la lingua naturale (quale “meccanismo marcante” e normativo riverberantisi in tutta la cultura), e progressivamente, verso la periferia, le formazioni linguistiche meno strutturate e divergenti dal sistema di norme e prescrizioni – esse, tuttavia, sottolinea Lotman, essendo informate dalla lingua «funzionano come strutture»155. È interessante notare che per la prima volta Lotman parla di periferia, con un chiaro riferimento alla teoria dell’evoluzione letteraria di J. Tynjanov. Nel 1929, infatti, lo scrittore e critico letterario russo, nel testo Archaisty i novàtory (Arcaisti e innovatori156), aveva affermato a proposito della dinamica della letteratura: «non evoluzione metodica, ma salto; non sviluppo, ma spostamento. (…) In epoca di decomposizione di un qualche genere, esso si trasferisce dal centro alla periferia, e al suo posto affluisce, dalle inezie della produzione letteraria, dagli angoli più nascosti, dalle pieghe, un fenomeno nuovo»157.

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Lotman dunque afferma una certa predominanza della lingua naturale sulle altre forme di comunicazione umana, essendo il dispositivo attraverso cui i membri della collettività possono nominare fenomeni altrimenti inattingibili alla conoscenza, ossia, scrive Lotman «a trattare come strutture i fenomeni dell’ordine dei realia, l’essenza strutturale dei quali (…) non è evidente»158. Questa posizione era stata desunta dall’ipotesi linguistica di Sapir-Whorf e, seppur con qualche resistenza, dalla tesi di Émile Benveniste sul ruolo metalinguistico delle lingue naturali, come puntualizza lo stesso Lotman:

In una serie di lavori, seguendo l’ipotesi Sapir-Whorf, si sottolineava e si analizzava l’influenza della lingua sulle diverse manifestazioni della cultura umana. Negli ultimi anni Benveniste ha messo in rilievo che solo le lingue naturali possono assolvere un ruolo metalinguistico e che pertanto, sotto questo rispetto, esse occupano un posto del tutto particolare nel sistema delle comunicazioni umane [E. Benveniste, “Sémiologie de la langue”, in Semiotica, I (1969), 1]. Tuttavia appare discutibile la tesi proposta da Benveniste nel suo articolo secondo cui solo le lingue naturali costituiscono sistemi propriamente semiotici, mentre tutti gli altri modelli culturali rientrerebbero nella categoria dei fenomeni puramente semantici, che mancano di una propria semiosi ordinata e che pertanto la prendono a prestito dalla sfera delle lingue naturali.159

La posizione di Lotman rispetto alla funzione delle lingue naturali in seno alla cultura si discosta leggermente da quella di Benveniste, rispecchiando fin dai primi scritti la sua idea di comunicazione umana, quale sistema dominato dall’eterogeneità: la lingua naturale, riconosce Lotman, fornisce il senso intuitivo della strutturalità e della sistematicità degli oggetti del reale, cosicché, in virtù della sua elevata capacità modellizzante, si addensano intorno ad essa le lingue meno strutturate; ma queste lingue (sistemi di modellizzazione secondaria), seppur meno strutturate, sono altrettanto importanti ai fini del processo gnoseologico e normativo160 (ossia ordinante) proprio della comunicazione umana. A questo proposito va detto che negli scritti

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degli anni Settanta verrà progressivamente meno la distinzione netta fra linguaggio primario e secondario.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, perché Lotman ponga così attenzione al rapporto fra lingua e lingue nella sua elaborazione di una semiotica della cultura. Si insinua qui uno dei problemi che costellerà tutta l’opera del semiologo russo, ossia quello della traduzione e del suo valore conoscitivo – un valore che, negli ultimi scritti, avrà un contenuto eminentemente etico. Per capire bene l’importanza del concetto di traduzione dobbiamo tornare al saggio “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”; in esso, come si diceva nei § 4.2.1 e 4.2.2, Lotman propone di passare da una comunicazione fondata sul segno (saussurianamente inteso) ad una comunicazione fondata sul modello, dispositivo in grado non solo di rendere l’oggetto o il complesso di oggetti nella loro eterogeneità (ad esempio traducendoli dal linguaggio verbale a quello iconico e viceversa) ma di far dialogare questa eterogeneità ad un livello più elevato di astrazione, ove possano coesistere e reciprocamente tradursi diversi linguaggi. Lotman si accorge che, trasferendo il modello di comunicazione poliglotta alla cultura [“Sul meccanismo semiotico della cultura”], emerge progressivamente una nuova prospettiva di semiosi culturale ove la compresenza di molteplici linguaggi non completamente traducibili l’uno nell’altro e (più avanti dirà) asimmetrici dal punto di vista diacronico161 costituisce la vera natura – ed è anzi la spiegazione – della dinamica culturale. Lotman scrive: «Una simile “imperfetta sistematicità costruttiva”, una non completa regolarità della cultura come sistema semiotico unitario, non implicano di necessità un qualsiasi suo difetto, ma rappresentano al contrario la condizione stessa del suo normale funzionamento»162.

L’introduzione del poliglottismo apre la strada a due prospettive fondamentali per la semiotica lotmaniana: in primo luogo, anziché studiare le manifestazioni dell’attività umana come oggetti culturali isolati, la cultura inizia ad essere pensata nella sua totalità come struttura retta da suoi propri meccanismi interni – Lotman, ricordando

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retrospettivamente questo slittamento epistemologico, parla di un passaggio dalla semiotica come scienza delle comunicazioni alla semiotica come teoria della cultura163.

In secondo luogo, da una visione statica di oggetto semiotico164 si passa progressivamente ad una visione dinamica di cultura poiché l’imperfetta traducibilità (o, in alcuni casi, intraducibilità) dei linguaggi, assicurando alla cultura un’inesauribile riserva semantica, fonte di sempre nuove informazioni, la rende un sistema in continuo autoaccrescimento.

Bisogna sottolineare che quando Lotman scrive il saggio “Sul meccanismo semiotico della cultura” ha alle spalle lo studio approfondito dei modelli artistici e di quelli ludici165 – studio che arricchirà poi con un’ampia analisi del modello mitologico166 – ossia di linguaggi umani non convenzionali, semanticamente densi e portati a rappresentare la realtà nella sua natura eminentemente dinamica (se non cangiante). Già nel 1967, parlando del gioco, Lotman abbozza quelle che saranno le linee guida del suo ultimo pensiero (la cultura come intersezione di prevedibilità e imprevedibilità, gradualità ed esplosività): «Il gioco simula la casualità, la determinazione imperfetta, la probabilità dei processi e dei fenomeni»167, «Il gioco si definisce come una struttura particolare che realizza l’unione, nello stesso tempo, di processi regolari e di processi casuali»168, e ancora, a proposito del processo interpretativo scaturente dal modello artistico e da quello ludico, Lotman parla di «residuo intraducibile»169, di scintillio semantico170.

Lui stesso, nell’opera I meccanismi impredittibili della cultura (uscita postuma)171, schizzando una retrospettiva del cammino compiuto dalla Scuola di Mosca-Tartu, scrive: «(…) il passaggio dai processi graduali a quelli esplosivi fu determinato dallo spostamento del centro dell’attenzione scientifica dalla linguistica alla semiotica dell’arte. L’arte è figlia dell’esplosione»172.

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5.3 Il meccanismo semiotico della cultura nella sua prima ipotesi teorica

Torniamo ora alla domanda di partenza e vediamo come funziona il meccanismo semiotico della cultura nella sua prima ipotesi teorica.

5.3.1 Cultura come memoria collettiva e dinamica centro-periferia

Nel saggio del ’71, dopo aver chiarito il ruolo della lingua naturale, Lotman definisce la cultura come «memoria non ereditaria di una collettività che esprime un sistema determinato di divieti e prescrizioni»173 – quelli stessi divieti e prescrizioni che, per antinomia, creano lo spazio della non-cultura.

Il fatto che la cultura venga identificata con la memoria ha qui un valore ben preciso. Lotman è interessato a capire come un sistema, pur rimanendo se stesso, possa svilupparsi e rinnovarsi – o, in alcuni casi, implodere su di sé; come cioè l’informazione possa crescere pur in una condizione di chiusura immanente174. Scrive Lotman: «l’inserimento di un fatto nella memoria collettiva presenta (…) tutti i segni della traduzione da una lingua all’altra, nel caso specifico (di una sua traduzione) nella “lingua della cultura”»175; questo significa che un “fatto” periferico, cioè non ancora soggetto a memorizzazione, deve essere tradotto nella lingua del centro, prima di entrare nella memoria collettiva. Ma come avviene questa traduzione? Il centro culturale, in Lotman, è un concetto polivalente: esso è prima di tutto il sistema codificante “legittimo” – ossia la lingua naturale e le lingue corroborate in un momento storico (ad esempio, gli stilemi) – sempre uguale a se stesso ma, al contempo, in continua elaborazione di nuovi codici particolari. Avendo una funzione legittimante, il Codice sancisce l’attualità o l’inattualità dei fatti della cultura, andando quindi a formare, di volta in volta, una nuova memoria collettiva (ossia un nuovo centro, una nuova lingua della cultura) ma anche ad aumentare le informazioni in seno alla essa. Il centro della cultura è dunque sia il

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Codice che la memoria: memoria, per così dire, interpretata dal Codice e dai suoi codici storici176.

Identificare la cultura con la memoria, in questa prospettiva, fa felicemente coesistere i concetti di identità – sia nell’aspetto temporale (continuità nel tempo) che in quello normativo (carattere unificato della struttura) – e di sviluppo: la cultura si profila come il risultato di un meccanismo di traduzione, autoaccumulazione e memorizzazione dell’informazione, ossia di aumento della memoria tramite ridistribuzione dei codici in seno alla dinamica centro-periferia. Questo ci porta a fare un’ulteriore riflessione: ciò che fa crescere l’informazione all’interno della cultura, contribuendo così alla sua trasformazione, sono i fatti periferici, borderline, ossia quei fatti non ancora altamente codificati e, di conseguenza, memorizzati. È proprio la loro forza de-regolatrice a indebolire il modello normativo che la cultura ha di sé (i divieti e le prescrizioni che Codice e memoria veicolano) – va precisato infatti che la cultura, secondo Lotman, arrivata a un certo stadio del suo sviluppo, per conservare l’unità strutturale, deve porre in essere un processo di autoriflessione scaturente in un modello di autodefinizione, che da un lato ne assicura l’identità e l’omeostasi ma che, dall’altro, ne irrigidisce la crescita (semantica).

Si va profilando un’immagine concentrica e plurilinguistica di cultura, ove il centro rappresenta la forza regolatrice e modellizzante del funzionamento culturale mentre la periferia assurge da meccanismo di deautomatizzazione dei codici linguistici, andando così a destabilizzare il sistema e ad arricchirlo semanticamente. Possiamo dedurre fin da subito che la crescita dell’informazione, in questa prima ipotesi teorica, è tutta immanente al sistema.

Per spiegare questo meccanismo di autoaccrescimento, pur nell’unità identitaria del sistema, Lotman fa ricorso a una similitudine che poi riprenderà, con sfumature diverse, fino agli ultimi scritti: quella del logos eracliteo: I confini dell’anima [Psyché] non li potrai trovare, per quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo logos»177. Scrive Lotman: «[la] funzione [della cultura] è la memoria; il suo tratto

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fondamentale consiste nell’autoaccumulazione. All’alba della civiltà europea Eraclito scrisse: “Psiche è il logos che cresce su se stesso”. In questo modo egli ha descritto la proprietà fondamentale della cultura»178. La semiotica della cultura, andando a configurarsi come continuo gioco conflittuale di attrazione-espulsione tra centro ed elementi extrasistematici (ossia ambivalenti) della periferia179, logos semanticamente infinito in forza del suo dinamismo interno, si dirige verso quello che sarà il modello organistico degli anni Ottanta.

5.3.2 Organizzazione culturale e tipologizzazione testo-segno

Abbiamo parlato sinora del fondamentale passaggio che avviene nella semiotica della cultura grazie all’introduzione del binarismo centro-periferia, di matrice tynjanoviana. Studiare questa dinamica, come abbiamo visto, implica l’accesso ai modi attraverso cui una cultura si pensa e definisce i tipi di segnicità legittimi o, comunque, fondamentali – le regole, le norme, le prescrizioni, i divieti, le consuetudini e tutto ciò che, per contro, è non cultura o cultura periferica. Questo approccio allo studio della semiotica della cultura si lega all’aspirazione, che Lotman ha, a individuare una tipologizzazione dei sistemi culturali e delle visioni che essi costruiscono semioticamente dell’altro.

Sempre nel saggio “Sul meccanismo semiotico della cultura”, dopo aver descritto la dinamica culturale, egli propone due tipologie di cultura in relazione al rapporto che esse intessono con il segno e la segnicità: le culture orientate all’espressione, ove il centro corrisponde a un testo paradigmatico (o una somma di testi o consuetudini), a cui tutti i testi si devono conformare, e culture orientate al contenuto, ove invece il centro si esplica in un sistema di regole (grammatiche).

Rispetto al rapporto che queste tipologie di cultura intessono con la periferia, nel primo caso il fuori-di-sé è considerato come “errato” o “falso” (rispetto a un centro “corretto” e “vero”), mentre nel secondo

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caso il fuori-di-sé corrisponde alla non-regola, ossia al caos, all’entropia, alla natura (rispetto a un centro che è cosmo, ordine, cultura).

Lotman riprende la distinzione fra espressione e contenuto in un altro saggio del ’71, “La cultura e il suo ‘insegnamento’ come caratteristica tipologica”, scrivendo: «(…) il principio “essere un insieme di testi” o “essere un insieme di regole” diviene un latente programma culturalizzante, che esercita una vigorosa azione su tutti i materiali successivamente introdotti nella coscienza collettiva. (…) L’automodello è un potente mezzo di “preregolazione” della cultura, che le conferisce unità sistematica e determina per molti versi le sue qualità in quanto serbatoio d’informazione»180. Quello che Lotman vuole sottolineare è che la semiotica della cultura, con la sua analisi tipologizzante, non solo può cogliere in profondità i tipi di habitus segnici che si sono susseguiti nel corso della storia – dando quindi spiegazione di certe “virate” semiotiche, come nella Russia petrina – ma anche porre in essere una riflessione lungimirante sulla direzione che le culture vanno prendendo. Egli infatti sottolinea come il passaggio dalle culture testualizzate alle culture grammaticalizzate sia una dinamica ciclica della storia dell’umanità che funge proprio da azione compensatrice dell’uno e dell’altro sistema semiotico di regolazione.

Allorché una civiltà originaria costituitasi come sistema di consuetudini si ossifica al punto che la sua ridondanza assume dimensioni catastrofiche, sorge la necessità di un’autoricodificazione, che si realizza come adozione di una grammatica della cultura. In questa tappa, la grammaticalità interviene come principio rivoluzionante e porta al brusco complicarsi della struttura interna del codice della cultura. Anche le regole, però, tendono a ossificarsi: la loro ridondanza si eleva e comincia a scadere la capacità effettiva di far propria e conservare efficacemente l’informazione. Benché all’interno di tale o talaltro ciclo culturale il problema possa venir risolto mediante un avvicendamento delle grammatiche, ciò tuttavia finisce per screditare il principio stesso delle grammatiche. In questo stadio, l’irruzione del principio testuale nella costruzione

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della cultura ne accresce decisamente la sua capacità di contenuto informazionale.181

È interessante notare come, esattamente al pari della dinamica culturale, tutta la storia dell’umanità sia per Lotman un continuo gioco di conflitto, di scambio, di sostituzione, di sovrapposizione, ove è proprio la non linearità e sistematicità delle cose a garantire la crescita e lo sviluppo del genere umano.

1 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura (Nepredskazuemye Mekhanizmy Kul’tury, 1993), Marsilio, Venezia, 1994, p. 106.

2 V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 19.

3 B. Gasparov, “Jurij Lotman”, in Etkind E., Nivat G., Serman I., Strada V., Storia della letteratura russa. III: Il Novecento: 3. Dal realismo socialista ai giorni nostri, Einaudi, Torino, 1991, p. 682.

4 Ivi, p. 689. 5 Scrive F. Remotti: «(…) proprio il testo fondamentale dello strutturalismo

europeo, ossia il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure (1916, postumo), non contiene affatto la parola “struttura” (come, beninteso, neppure “strutturalismo”)», F. Remotti, “Strutturalismo”, Enciclopedia online della Scienze Sociali, 1998.

6 O sistemi di suoni. 7 O sistemi di forme. 8 I sistemi di parole. 9 J. Lotman, “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica”, in Strumenti

critici, 1967, I, fasc. II, pp. 111-112. 10 Questa ipotesi viene ripresa e confermata anche da M. Foucault in Le mots et

les Choses. Une archéologie des sciences humaines (ed. it. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, BUR, Milano, 2006); per una precipua trattazione cf. l’Introduzione alla II Parte di questo lavoro.

11 A. Pinotti, “Parte seconda: Tipologica”, in Il corpo dello stile. Storia dell’arte come storia dell’estetica a partire da Semper, Riegl, Wölfflin, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo, 1998, p. 86.

12 E. Cassirer, “Lo strutturalismo nella linguistica moderna”, appendice contenuta in Saggio sull’uomo e lo strutturalismo nella linguistica moderna, Editore Armando, Roma, 1971, p. 401.

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13 Sul disaccordo metodologico fra i due, rispetto al riferimento all’opera di

Goethe, cf. T. Todorov, “Vladimir Propp”, nel capitolo XII “La scienza della letteratura e la critica letteraria”, in Storia della letteratura russa. III: Il Novecento: 3. Dal Realismo socialista ai giorni nostri, Einaudi, Torino, 1991, pp. 638-639.

14 J. Lotman, “Il problema di una tipologia della cultura” (K probleme tipologii kul’tury, Tartu 1967), in I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, Bompiani, Milano, 1969, p. 7.

15 C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. 99. 16 C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano,

1972, p. 225. 17 Dell’antropologo francese di ricordino in particolare: Les Structures

élémentaires de la parenté (1949), Tristes Tropiques (1955), Anthropologie structurale (1958), Le Totémisme aujourd'hui (1962), La Pensée sauvage (1962), Le cru et le cuit (1964).

18 In questo senso, Lévi-Strauss accoglie da Goethe l’idea di considerare i rapporti strutturali che intessono la realtà ma si allontana dal genio tedesco nel ricercare, in seno ad essa, non la forma delle forme, l’originario, l’archetipico (l’Urphänomenon), bensì tutti i possibili sistemi di differenze che la possono strutturare.

19 Se, come sostiene Lévi-Strauss, è nell’opposizione, nell’evidenza degli scarti fra le costituenti minime il valore euristico della struttura individuata, allora il metodo strutturalista consisterà nell’impoverimento della totalità empirica e la sua riduzione ad un sistema di scarti differenziali «da usare come cifrario per la comprensione di un testo reso, dalla sua condizione iniziale di inintelligibilità, simile a un flusso indistinto, e nel quale il cifrario introduce appunto interruzioni e contrasti, vale a dire le condizioni formali di un messaggio significante» (C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 89). La struttura delineatasi, essendo il risultato di un’operazione d’elevata astrazione, potrà essere applicata a realtà empiriche anche molto diverse, così da scoprirne le omologie formali. Lévi-Strauss, a questo proposito, parla di un livello sufficientemente generale affinché tutti i casi osservati possano figurarvi come dei modi particolari.

20 Come ha sottolineato S. Miceli, con il concetto di spirito (o intelletto o razionalità) senza soggettività Lévi-Strauss intende affermare il primato dell’intelletto sul sociale, posizione evidente anche in Lotman, specie nei saggi “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale” (1977), “Cervello – testo – cultura – intelligenza artificiale” (1981),

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“La cultura come soggetto e oggetto per se stessa” (1989). Di S. Miceli si veda: S. Miceli, “La materializzazione d’un ospite fantasma” (§ V.2), in In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, Sellerio editore, Palermo, 1982, pp. 339-352.

21 F. Remotti, “Strutturalismo”, Enciclopedia online della Scienze Sociali, 1998. 22 C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, 1966: 446 e 25-26, cit. da F. Remotti,

“Strutturalismo”, Enciclopedia online della Scienze Sociali, 1998, corsivo mio. 23 Il termine “funzione” ci riporta nuovamente a Goethe il quale – come si

vedrà meglio nell’Introduzione alla II Parte di questo lavoro – aveva criticato colui che può essere considerato l’altro padre fondatore dello strutturalismo, ossia il biologo G. Cuvier: è lui che pone precipua attenzione alla “funzione” per spiegare le strutture organiche. Scrive Cassirer a proposito (ridimensionando l’antitesi Goethe-Cuvier e dando infine una definizione del proto-strutturalismo): «Goethe non era solo nella sua concezione del mondo organico. La sua teoria della metamorfosi era ricca di idee nuove ed originali, e per difendere queste idee egli dovette sfidare i più grandi pensatori scientifici del suo tempo. Nella famosa controversia tra Cuvier e Geoffroy de Saint-Hilaire egli si schierò con passione al fianco di quest’ultimo. [Ma sua posizione rispetto a Cuvier non era così inconciliabile]. Cuvier sosteneva una visione statica della natura organica, Goethe sosteneva una visione genetica o dinamica. Il primo insisteva sulla costanza dei tipi organici, l’altro sulla loro modificabilità. E tuttavia, quando entriamo nei particolari della loro riflessione, ci accorgiamo che Goethe, perfino nelle sue concezioni genetiche, era molto più vicino a Cuvier che a Darwin. Nella sua Geschichte der biologischen Theorien (…), Emanuel Rádl descrive la biologia di Goethe, di Cuvier e di Geoffroy di Saint-Hilaire come un “idealismo morfologico”. Questo mi sembra un termine assai felice e ben trovato, che esprime la base comune rimasta intatta nella controversia. Cuvier, Goethe e di Geoffroy di Saint-Hilaire erano unanimi nel sottolineare che non vi è nella di semplicemente accidentale in un organismo. Se abbiamo trovato una delle sue caratteristiche, abbiamo tutte le altre e possiamo ricostruire l’organismo nella sua interezza. “È in questa reciproca dipendenza delle funzioni – dice Cuvier – e in questo aiuto che esse si prestano l’un l’altra che sono fondate le leggi che determinano i rapporti dei loro organi e la cui necessità è pari a quella delle leggi metafisiche e matematiche. (…) Allo stato di vita – dice Cuvier – gli organi sono semplicemente ravvicinati, ma agiscono gli uni sugli altri e concorrono tutti insieme a un fine comune” [G. Cuvier, Leçons

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d’anatomie comparée, Parigi, 1835, pp. 49-50]» E. Cassirer, “Lo strutturalismo nella linguistica moderna”, op. cit., pp. 395-396 (corsivo mio).

24 Matrice dell’odierno scientismo, «fede secolare secondo la quale la scienza è l’unica forma di conoscenza» e non un sapere fra gli altri: posizione che comporta il rimpiazzo della conoscenza con una spoglia metodologia (V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, pp. 9-10).

25 Il periodo “europeo” in cui si colloca il Neopositivismo è il 1924-1938, dopodiché inizia il periodo di “esilio” negli Stati Uniti a causa dell’avvento del regime nazista. Tra l’altro, proprio quando buona parte degli esponenti del Neopositivismo espatria, nel 1942 anche Lévi-Strauss fugge dall’altra parte dell’oceano e inizia a lavorare, presso la New School for Social Research, con il linguista russo R. Jakobson, venendone profondamente influenzato (§ 1.1.3); Jakobson aveva avuto fecondi contatti con R. Carnap – uno dei principali esponenti del Circolo di Vienna (luogo di nascita del Neopositivismo) – mentre lavorava a Praga e andava formando il Circolo Linguistico di Praga. È inevitabile quindi che lo strutturalismo sia in certa parte imparentato con il Neopositivismo e con la ricerca di un fondamento logico del mondo.

26 Scrive Polkinghorne a proposito: «Benché vi siano delle difficoltà tecniche nel definire con precisione il significato di “crescita della complessità”, è intuitivamente convincente il fatto che una successione come quella del tipo quark, molecola, cellula, entità pluricellulare, essere cosciente, essere autocosciente, rappresenti una scala ascendente di tal genere. È importante riconoscere che non è semplicemente la “grandezza” a costituire l’essenza della complessità, ma il grado di intrinseca interrelazione e reciprocità presente tra le parti. (…). I livelli di una gerarchia possono essere distinti grazie all’“emergenza” di alcune proprietà che si presentano ad un livello superiore, delle proprietà cioè che non si manifestano ai livelli più bassi», J. Polkinghorne, “Riduzionismo”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 1232.

27 Ivi, p. 1235. 28 Attributi esplicati da N. Abbagnano e G. Fornero come segue: «Il

determinismo sembrerebbe scaturire dal carattere matematico delle leggi fisiche, sebbene in realtà non sia così, mentre la predicibilità deriva dalla fede, non meno infondata, che qualunque equazione matematica, almeno in via di principio, risulti risolvibile. Il riduzionismo a sua volta è giustificato

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dalla convinzione che tutti i fenomeni di cui abbiamo esperienza siano il prodotto di sistemi quanto si voglia complessi, ma pur sempre scomponibili nelle loro parti costitutive di natura, in ultima analisi, meccanica. La reversibilità si deduce infine dalla natura dei fenomeni meccanici che risultano simmetrici rispetto all’inversione del tempo (…). [Essa presuppone] che il tempo possa essere percorso indifferentemente in un verso o nell’altro. (…) Pertanto il mondo non dovrebbe avere una storia; né una storia concepita come evoluzione e come progresso, che implicherebbe una certa qual forma di creatività della materia, né una storia concepita come degradazione, che implicherebbe, all’opposto, un’insufficienza del mondo a permanere nella propria condizione», N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Vol. III. Ottocento e Novecento, Paravia, Torino, 1992, pp. 270-271.

29 Cf. Introduzione alla II parte di questo lavoro. 30 Le prime due mettono in crisi la concezione meccanicistica dello spazio

mentre la termodinamica incrina il concetto di simmetria e reversibilità del tempo, affermando «l’esistenza di una tendenza universale della natura verso la degradazione e la dissipazione dell’energia»; la meccanica statistica offre invece gli strumenti per misurare (statisticamente) «il progressivo inarrestabile incremento di disordine, di mescolanza, di omogeneità in un sistema termodinamico [ossia il suo grado di entropia]», N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Vol. III. Ottocento e Novecento, Paravia, Torino, 1992, p. 276.

31 Questo è evidente, ad esempio, nella narrazione letteraria naturalista e realista che, spinta da un senso di “inferiorità” nei confronti delle scienze naturali, tende a vivisezionare il linguaggio e la realtà da esso descritta.

32 S. Cremaschi, “Metafore, modelli, linguaggio scientifico: il dibattito postempirista”, in V. Melchiorre (a cura di), Simbolo e conoscenza, Vita e Pensiero, Milano, 1988, p. 89. Le scienze naturali (o empirico-analitiche), precisa V. Possenti, «utilizzano le regole della logica formale e gli strumenti messi a disposizione dalle matematiche, e si costruiscono sia a partire da una base empirica costituita da osservazioni sperimentali dalle quali passare per induzione a leggi universali, sia a partire da leggi e teoremi assunti provvisoriamente in via ipotetica (e perciò continuamente ed essenzialmente falsificabili), ai quali fa ricorso lo scienziato per tentare di correlare e spiegare il maggior numero possibile di fatti empirici (teoria di Popper). In ogni caso il metodo di queste scienze prevede procedure con le quali controllare sperimentalmente, facendo cioè ricorso alla base empirica,

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la correttezza delle leggi assunte, sulla cui scorta procedere poi alla previsione di eventi futuri, resa possibile dal fatto che le leggi nelle scienze empirico-analitiche sono generalmente espresse sotto forma di legami funzionali tra grandezze covarianti. Queste scienze sono di tipo essenzialmente teorico e per esse la “spiegazione”, la loro esplicatività specifica va intesa in senso debole, cioè non come coglimento e penetrazione filosofici dell’essenza, ma come creazione di relazioni stabili tra grandezze e capacità di previsione. Secondo posizioni attualmente prevalenti nella epistemologia contemporanea, tali scienze costituiscono perciò sistemi ipotetico-deduttivi, che esprimono sotto forma di leggi universali uniformità osservabili, e che proprio in quanto sistemi ipotetici sono perennemente soggetti a falsificazione», V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 11.

33 S. Cremaschi, “Metafore, modelli, linguaggio scientifico: il dibattito postempirista”, art. cit., p. 89.

34 Le scienze umane (storico-ermenutiche e sociali), scrive Possenti, diversamente da quelle naturali, «non si rivolgono a rintracciare e chiarire regolarità empiriche» ma il senso umano, nella sua dimensione storica ed etico-pratica – legata cioè all’agire sociale – (V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, pp. 11-12); essendo presente in modo sostanziale la soggettività dello scienziato in quanto soggetto e oggetto dell’attività di ricerca – interprete di se stesso come uomo e umanità – specie dopo il XIX secolo a queste discipline è stato spesso imputato il difetto di contaminazione “intuitiva” del risultato scientifico.

35 Esempio paradigmatico sono, come vedremo, le strutture equazionali usate da C. Lévi-Strauss per lo studio dei miti.

36 La matematica, come intesa dal logicismo e, molto prima, dalla scienza galileiana, ha una chiara matrice platonica, dato che gioca «il ruolo di schema interpretativo ideale», A. Strumia, “Alla ricerca di una teoria dell’analogia e dell’astrazione”, in Scienza, analogia, astrazione. Tommaso d’Aquino e le scienze della complessità, Il Poligrafo, Padova, 1999, p. 21 (per un approfondimento cf. Dall’universo delle leggi al mondo della complessità: la seconda rivoluzione scientifica e il “risveglio” dell’analogia”, nell’Introduzione alla II Parte di questo lavoro).

37 E. Agazzi, “Analogicità del concetto di scienza. Il problema del rigore e dell’oggettività nelle scienze umane”, in Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 57.

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38 Come ha sottolineato Agazzi, pensare a una scienza oggettiva, capace di far

emergere a-soggettivamente le sole relazioni o proprietà che ineriscono all’oggetto di analisi, è pura illusione. «Se noi assumiamo l’oggettività in “senso forte”, cioè in quello che esprime l’oggettività come inerenza all’oggetto, possiamo derivarne l’oggettività in “senso debole” osservando che, se una caratteristica inerisce all’oggetto, allora essa deve valere indipendentemente dai soggetti. Mentre non è affatto detto che una caratteristica, per il fatto di essere affermata da più soggetti, debba perciò inerire all’oggetto. Si vede quindi come l’oggettività intesa come intersoggettività (cioè come indipendenza dai soggetti), oltre a essere un requisito intrinsecamente più debole del precedente, non sembra correttamente assumibile come caratterizzazione dell’oggettività, perché è una ragione necessaria ma non sufficiente per parlare dell’oggettività stessa come inerenza all’oggetto. (…) è proprio lungo la storia della filosofia che si è prodotto il passaggio dall’oggettività in “senso forte” all’oggettività in “senso debole” e ciò, si potrebbe dire, “per disperazione”. Infatti, la storia della filosofia moderna, tra Cartesio e Kant, ha “consumato la speranza” di conoscere l’oggetto. Una volta affermata, con Kant, l’inconoscibilità della “cosa in sé”, l’oggettività in senso forte non si è più presentata fruibile dal punto di vista gnoseologico e allora, non potendosi più parlare di oggettività come di “ciò che inerisce all’oggetto”, ci si è accontentati dell’oggettività più debole, cioè come puro superamento della soggettività», E. Agazzi, “Analogicità del concetto di scienza. Il problema del rigore e dell’oggettività nelle scienze umane”, in Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 70.

39 A. Pieretti (a cura di), Lo strutturalismo e morte dell’uomo, Città Nuova, Roma, 1977, p. 14.

40 C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. 45. 41 J. Piaget, La psychologie, les relations interdisciplinaires et le système des

sciences, XVIIIème Congrès International de Psycologie (Moscow, 1966), citato da R. Jakobson, “Linguistic in relation to other sciences”, in Selected Writings II Word and Language, The Hague, Paris, 1971, p. 656.

42 Roman Jakobson fu uno dei principali iniziatori del Mlk di Mosca e poi del Circolo Linguistico di Praga. Come ha sottolineato Eco, Jakobson può essere considerato il primo linguista a ragionare con la testa di un semiotico, contemplando cioè il linguaggio – dal punto di vista teoretico e metodologico – nella sua natura intersemiotica e interdisciplinare (U. Eco, “The influence of Roman Jakobson on the development of Semiotics”, in D.

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Armstrong, C. H. Schooneveld (eds.), Roman Jakobson. Echoes of his Scholarship, Lisse: Peter de Ridder Press, 1977, pp. 39-58.

43 Questo articolo raccoglie, da un lato, la relazione scritta per la Sessione Plenaria del X Congresso Internazionale di Linguistica, svoltosi a Bucarest il 30 agosto 1967 e, dall’altro, lo studio (dal titolo “Linguistics”) condotto per l’UNESCO, nel 1967, sui Main Trends of Research in the Social and Human Sciences.

44 R. Jakobson, “Linguistic in relation to other sciences”, art. cit., p. 656. 45 Questa posizione, cita Jakobson, è comprovata da diverse ricerche: «Sapir

realized that “phonetic language takes precedence over all other kinds of communicative symbolism [E. Sapir, Selected Writings (Berkeley, Los Angeles, 1963:7], and in Benveniste’s view, “le langage est l’expression symbolique par excellence”, and all other system of communication “en sont derivés et la supposent” [E. Benveniste, Problèmes de linguistique général (Paris, 1966:28)]. The antecedence of verbal signs in regard to all other deliberately semiotic activities is confirmed by studies of children’s development. The “communicative symbolism” of child’s gestures after the rudiments of language have been mastered is noticeably distinct from the reflex movements of the speechless infant. In brief, the subject matter of semiotics in the communication of any messages whatever, whereas the field of linguistics is confined to the communication of verbal messages. Hence, of these two sciences of man, the latter has a narrower scope, yet, on the other hand, any human communication of nonverbal messages presupposes a circuit of verbal messages, without a reverse implication», R. Jakobson, “Linguistic in relation to other sciences”, art. cit., p. 662.

46 Sempre Jakobson scrive in Coup d’œil sur le développement de la sémiotique (1975): «L’égocentrisme des linguistes qui tiennent à exclure de la sphère sémiotique les signes organisés de façon différente qui ne le sont ceux de la langue réduit en fait le sémiotique à un simple synonime de la linguistique», citato da U. Eco, “The influence of Roman Jakobson on the development of Semiotics”, art. cit., p. 50. U. Eco ha sottolineato, proprio in riferimento agli scritti jakobsoniani sulla linguistica-in-relazione, che il ribaltamento concettuale portato da Jakobson ha rappresentato «un terremoto interdisciplinare, una disseminazione metodologica, una torsione improvvisa della curiosità scientifica, un rovesciamento di tendenza, un nuova sensibilità, una sorta di nuova Kunstwollen [volontà creatrice] capace di dar vita a una cultura fondamentalmente semio-orientata», Ivi, p. 41.

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47 V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo,

Milano, 1979, p. 53. 48 Come ha sottolineato C. Lafontaine, attraverso una precipua ricostruzione

delle origini cibernetiche della filosofia francese contemporanea (da Lévi-Strauss a Lyotard), il legame fra queste e lo strutturalismo è fortissimo.

49 L’opera Wieneriana cui si sta facendo riferimento è Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the Machine (Cambridge Mass., 1948), anche se l’idea di una scienza del pilotaggio arriva già nel 1943, in un articolo scritto insieme a A. Rosenblueth e J. Bigelow, “Behavior, Purpose and Teleology” (Baltimor, 1943). Altra opera fondamentale di Wiener è The Human Use of Human Beings (Boston, 1950).

50 Durante la seconda guerra mondiale Wiener lavorò con W.Bush sul calcolo automatico, con J. Bigelow sui sistemi di previsione di rotta e di puntamento automatico, con Shannon e von Neumann sulla progettazione di reti elettriche e di sistemi di telecomunicazioni (P. A. Rossi (a cura di), Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978).

51 Céline Lafontaine “The Cybernetic Matrix of ‘French Theory’”, Theory, Culture & Society, SAGE (Los Angeles, London, New Delhi and Singapore), 2007, Vol. 24(5): 27-46, p. 28.

52 N. Wiener, A. Rosenblueth e J. Bigelow, “Comportamento, fine e teleologia”, in Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978, p. 124. E specifica Wiener: «Abbiamo ristretto la connotazione del termine “comportamento teleologico” disegnando con ciò solamente quelle reazioni dirette ad un fine e controllate dall’errore della reazione, cioè la differenza fra lo stato dell’oggetto ad ogni istante e lo stato finale inteso come obiettivo. Il comportamento teleologico diventa di conseguenza sinonimo di comportamento controllato da un feedback negativo guadagnandone in precisione, visto che tale connotazione è abbastanza ristretta [surclassa, cioè, la connotazione metafisica di “causa finale”]», Ivi, p. 133. Per comprendere meglio le parole di Wiener ci rifacciamo al saggio di J. O. Wisdom, “L’ipotesi di cibernetica” (“The Hypothesis of Cybernetics”, Edinburgh, 1951), in cui il filosofo anglosassone spiega precipuamente il concetto di feedback negativo: quando «il lavoro compiuto da una sorgente di energia è regolato (…) per mezzo di un congegno che controlla e mantiene il flusso di energia intorno a un certo valore», allora possiamo parlare di feedback negativo: qui, in sostanza, «il lavoro svolto dal congegno di feedback è l’opposto di quello svolto dalla sorgente principale di energia»; e

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continua Wisdom: «È possibile descrivere le macchine con feedback negativo dicendo che sono meccanismi che agiscono per “tentativi ed errori”, ossia per “compensazione dell’errore” o, ancor meglio, per “autocorrezione”. (…) L’ipotesi fondamentale di cibernetica è che il meccanismo chiave del sistema nervoso centrale è del tipo del feedback negativo», J. O. Wisdom, “L’ipotesi di cibernetica”, in Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978, pp. 49 e 56. È qui che troviamo quella contiguità fra cervello e macchina – scaturente nella cosiddetta intelligenza artificiale – presente poi anche in Lotman.

53 N. Wiener, “L’uso umano degli esseri umani”, citato in Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978, p. 94.

54 N. Wiener, A. Rosenblueth e J. Bigelow, “Comportamento, fine e teleologia”, in Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978, p. 131.

55 Céline Lafontaine “The Cybernetic Matrix of ‘French Theory’”, Theory, Culture & Society, SAGE (Los Angeles, London, New Delhi and Singapore), 2007, Vol. 24(5): 27-46, p. 29.

56 P. A. Rossi, “Introduzione” a Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978, p. 28.

57 Céline Lafontaine “The Cybernetic Matrix of ‘French Theory’”, Theory, Culture & Society, SAGE (Los Angeles, London, New Delhi and Singapore), 2007, Vol. 24(5): 27-46, pp. 28-33.

58 F. Dosse, Histoire du structuralisme, 1 – Le Champ du signe: 1945-1966, La découverte, Paris, 1991-1992.

59 Va detto tuttavia che vi è una differenza fra i due: il modello teorico di Wiener, infatti, è leggermente diverso da quello di Shannon, soprattutto per l’importanza data al concetto di casualità circolare. Mentre il modello di Shannon presuppone una concezione lineare di comunicazione, ben illustrata dal modello trasmittente-ricevente, l’idea cibernetica di comunicazione è circolare e infinita (P. A. Rossi, Introduzione a Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978).

60 Il 1948 è l’anno in cui vengono pubblicati due testi fondamentali, ossia La teoria matematica dell’informazione di Shannon e Weaver e L’uso umano degli esseri umani di Wiener.

61 J. Lotman, “Discorso d’apertura” (della prima Scuola estiva sui sistemi modellizzanti secondari, Kääriku, 19-29 agosto 1964), in La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., p. 188 (corsivo mio).

62 J. Lotman, Ivi, p. 189.

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63 R. Jakobson, “Closing Statement: Linguistic and Poetics”, in Style and

Language, T. Sebeok (ed.), The M.I.T. Press, Cambridge, Massachusetts, 1960, p. 352.

64 R. Jakobson, “Retrospect”, in Selected Writings II Word and Language, The Hague, Paris, 1971, p. 721.

65 Ibidem. 66 Le tesi del Simposio furono recepite in Italia cinque anni dopo, con il saggio

“Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica” (Strumenti critici, I, fasc. II, 1967) e poi con l’antologia (a cura di) U. Eco e R. Faccani, I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico (1969).

67 V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 56.

68 V. Ivanov, “Introduzione allo studio strutturale dei sistemi di segni” (Simpozium po strukturnomu izučeniju znakovych sistem, 1962, Moskva), in I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, op. cit., p. 39. In Ivanov, la forte ibridazione fra linguistica, cibernetica, matematica e tipologia è legata anche al fatto che nel 1956 aveva fondato insieme a Revzin l’Associazione per la Traduzione Meccanica di Mosca e negli anni Sessanta era stato capo della Sezione di Tipologia Strutturale delle Lingue Slave, fondata nel 1960 quale parte integrante dell’Accademia delle Scienze; il primo direttore fu Toporov dal 1960 al 1963: i due scriveranno insieme nel 1965 Slavjanskie jazykovye modelirujuščie semiotičeskie sistemy (“Slavic linguistic modelling of semiotics system”).

69 Questa posizione è ripresa anche nel saggio a sei mani di V. V. Ivanov, V. N. Toporov, A. A. Zaliznjak, “Possibilità di uno studio tipologico-strutturale di alcuni sistemi semiotici modellizzanti” (O vozmožnosti strukturno-tipologičeskogo izučenija nekotorych modelirujuščich semiotičeskich sistem, 1962 Moskva), in I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, op. cit.

70 C. Prevignano, “Una tradizione scientifica slava tra linguistica e culturologia”, in La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., p. 80.

71 J. Lotman, “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica”, art. cit., p. 107. 72 Vediamo come qui le radici tardoformaliste assorbite all’Università di

Leningrado costruiscano all’elaborazione della prima semiotica lotmaniana. Lotman, sempre all’inizio di questo saggio, riprende e spiega precipuamente il metodo strutturale: «(…) dopo aver stabilito che ogni sistema segnico, regolato con norme concessive e proibitive di riunione dei segni in successioni determinate, può essere inteso come una lingua di tipo particolare ed è assoggettato pertanto ai metodi dell’analisi linguistica, i

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ricercatori si videro aperte dinanzi possibilità offerte da tale approccio al materiale letterario. La prospettiva più promettente fu data dalla possibilità di applicare i metodi esatti alle scienze umanistiche [e qui Lotman cita della Prefazione lo “sposalizio” della semiotica con i metodi matematici]», J. Lotman, Ivi, p. 110.

73 Ivi, pp. 121-122. 74 Ivi, p. 122. 75 Ivi, p. 123. 76 Ivi, p. 122. 77 Ivi, pp. 126-127. 78 Ivi, p. 127. 79 J. Lotman, “Il problema di una tipologia della cultura” (K probleme tipologii

kul’tury, Tartu 1967), in op. cit. 80 Ivi, p. 310. 81 Ibidem. 82 Ivi, p. 311. 83 Ibidem. 84 Una puntuale ricostruzione dei legami fra semiotica e cibernetica in URSS

viene fatta da Prevignano nella già citata “Premessa” a La semiotica nei Paesi slavi: gli anni Settanta, scrive, vedono progressivamente il convergere di una “linguistica dei segni” con una “cibernetica dei segni”, della quale il primo a farsi interprete in Occidente fu T. Sebeok (1970), sostenendo «la possibilità di descrivere language as well as living systems from a unified cybernetic standpoint»; l’idea di una “cibernetica dei segni”, continua Prevignano, «è da connettere alla fortuna della cibernetica nei Paesi est-europei, dove essa è servita da rompighiaccio contro barriere anche disciplinari ed è stata ripensata, secondo una concezione larga, non più soltanto come dottrina di Wiener, Shannon e Ashby, bensì come “scienze generale del controllo dei sistemi complessi, dell’informazione e dei rapporti (Bernštein 1962). Non è forse inutile ricordare che il primo congresso di semiotica in URSS, cioè il Simposio moscovita sullo “studio strutturale dei sistemi segnici”, è preceduto, nello stesso 1962, da un convegno, sempre a Mosca, sui problemi filosofici della cibernetica, la cui discussione era stata rilanciata da due opere della risonanza di Berg (1961) e Klaus (1961): anche alla luce del dibattito su quei problemi va considerato Ivanov (1962) [ossia, come visto nell’Introduzione alla I Parte di questo lavoro], la fondamentale introduzione anonima alle tesi delle relazioni del ricordato Simposio semiotico del 1962 [in cui la semiotica veniva definita come neonata scienza vicina alla

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cibernetica]», C. Prevignano, “Premessa” a La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., pp. 17-18. Non va dimenticano infine che nel 1977, ancora a Mosca, si tiene un Simposio su semiotica e cibernetica, le cui influenze sono evidenti negli scritti lotmaniani del periodo ‘77-’79.

85 Questa impostazione risente fortemente dell’influenza del Neopositvismo europeo, che legittimò (in certo modo imponendola ideologicamente) l’applicazione del metodo e dell’epistemologia empirico-analitici alle scienze umane e sociali. Attraverso questo approccio, «si procede di fatto a scomporre la realtà in molteplici aree all’interno delle quali lo scienziato (…) effettua la sua ricerca, non preoccupandosi di quanto succede nelle altre aree o al massimo tenendone conto attraverso la simulazione di “condizioni di contorno”. In tal modo il rapporto tra il sistema complessivo e i suoi momenti o parti (si noti che l’epistemologia analitica non f ricorso al concetto di totalità, preferendogli quello di sistema) è di tipo funzionale-additivo: le parti sono descritte mediante le funzioni in esse rintracciate e il passaggio dalle parti al tutto avviene ancora per via additiva, attraverso una semplice somma delle parti e delle funzioni fino a costruire una teoria che descrive e spiega le funzioni del sistema complessivo», V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 14.

86 J. Lotman, “Il problema di una tipologia della cultura”, art. cit., p. 312. 87 Il criticismo esterno alla Scuola, scrive Grzybek, può essere suddiviso in due

gruppi: 1. alcuni studiosi, come per esempio T. Sebeok, chiamano in questione l’idea che la lingua naturale sia un sistema primario. Essa stessa, invece, dovrebbe essere considerata un sistema secondario di modellizzazione e ciò che, nella Scuola di Mosca-Tartu, viene chiamato tale, dovrebbe essere altresì considerato un sistema terziario di modellizzazione; 2. altri studiosi, criticano il fatto che la lingua naturale sia considerata la dominante omnicomprensiva della modellizzazione primaria, la base – appunto – per quella secondaria. Per una precipua trattazione cf. P. Grzybek, “The concept of ‘model’ in Soviet Semiotics”, in Russian Literature XXXVI (1994), North-Holland Elsevier, p. 290.

88 P. Grzybek, “Moscow-Tartu School”, in Encyclopedia of Semiotics, Paul Bouissac (ed.), Oxford University Press, New York – Oxford, 1998, p. 424.

89 Non a caso R. Salizzoni ha parlato del silenzio di Lotman: «Con la caduta della cortina di ferro sarebbe (…) apparsa in piena evidenza nel corpo stratificato e convulso dell’opera di Lotman la figura del silenzio come traccia

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dell’interdizione: viene da chiedersi se quella traccia non sia precisamente la causa di quella stratificazione e di quella convulsione (…). Viene da chiedersi cioè se contraddizioni e intermittenze del suo discorso non dipendano da ciò che si tratta di tacere, piuttosto che da quello che si vorrebbe dire; se le disgiunzioni e le approssimazioni nella teorizzazione dei sistemi secondari di modellizzazione non dipendano dall’esigenza di accentuare i tratti apparenti di scientificità, per tacere sull’impossibilità di una pronuncia ideologica», R. Salizzoni, “Il silenzio di Lotman”, Leitmotiv, 0/2010, www.ledonline.it/leitmotiv, pp. 95-96.

90 V. Ivanov, “Introduzione allo studio strutturale dei sistemi di segni”, art. cit., pp. 37-38. Queste riflessioni vengono riprese da Ivanov in una versione amplificata pubblicata con il titolo “Il ruolo della semiotica negli studi della cibernetica dell’uomo e della collettività”, ove egli puntualizza la posizione precedente: «la funzione base di ogni sistema semiotico è la modellizzazione del mondo», V. Ivanov, “The Role of Semiotics in the Cybernetic Study of Man and Collective” (Rol’ semiotiki v kibernetičeskom issledovanii čeloveka i kollektiva, Moskva 1965), in D. P. Lucid (ed.), Soviet Semiotics. An Anthology, Baltimore – London, 1977, pp. 27-38.

91 Critica, a questo proposito, è S. Miceli, la quale scrive: «la conoscenza, l’attività modellizzante, è traduzione della realtà nella lingua della cultura: attività asettica e neutrale (…). Conoscere un “oggetto” è proporne un modello, un modello è semplicemente tutto quanto riproduce l’oggetto stesso ai fini del processo conoscitivo. Secondo la migliore tradizione delle varie “filosofie della rappresentazione” non appare affatto, nel discorso di Lotman, il problema del differenziarsi dei diversi tipi di intervento sul mondo cui esse sono funzionali. Conoscenze dunque orientate – come gli interventi sul mondo cui risultano connesse – da precisi scopi pratici. Non “processo cognitivo” indifferenziato, astratto e generico, e neutrale», S. Miceli, In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, Sellerio, Palermo, 2005, p. 468.

92 È quello che ha mostrato luminosamente anche Eco in Kant e l’ornitorinco: «quando si presume un soggetto che cerchi di comprendere quanto esperisce (e l’Oggetto – che è poi la Cosa in Sé – diventa il terminus a quo [ossia ] quel Qualcosa che ci spinge a parlare]), allora, prima ancora che si formi la catena degli interpretanti, entra in gioco un processo di interpretazione del mondo, che specie nel caso degli oggetti inediti e sconosciuti (come l’ornitorinco alla fine del Settecento), assume una forma

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“aurorale”, fatta di tentativi e ripulse, la quale è però già semiosi in atto, che va a mettere in questione i sistemi culturali prestabili», U. Eco, “Introduzione” a Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano, 1997, p. XI.

93 Scrive Prevignano a questo proposito: «Tra i tipi di modelli sono proprio i “modelli dell’universo” (o “modelli del mondo”, cioè i sistemi segnici “adoperati come modelli dell’universo”, ad essere presi in considerazione dai semiotici di Mosca, secondo i quali – come spiega Sebeok (1974) rifacendosi a Ivanov e Toporov (1965) – un modello del mondo “costituisce un programma per il comportamento dell’individuo, della collettività, della macchina, ecc. dal momento che esso ne definisce la scelta delle operazioni, come pure le regole e le motivazioni che ad esse sottostanno (…)”»,“Una tradizione scientifica slava tra linguistica e culturologia”, in La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., p. 77.

94 Il termine extra-linguistico viene usato anche da Jakobson per definire tutti i sistemi segnici “secondari” rispetto alla lingua naturale.

95 Questa informazione è riportata da Lotman nel già citato saggio del ’67, “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica”, ove egli sottolinea che il termine “sistema secondario di modellizzazione” era stato proposto da V. A. Uspenskij tre anni prima e accolto dal Comitato organizzatore dei seminari estivi di semiotica. Da lì, tutte e quattro i seminari biennali (1964, 1966, 1968, 1970) saranno dedicati ai sistemi secondari di modellizzazione e di concluderanno a Tartu nel 1974 con il Simposio pansovietico sui sistemi modellizzanti secondari.

96 Un po’ contraddittoriamente, in realtà, nella prima elaborazione teorica dei sistemi secondari di modellizzazione la cultura viene inclusa nei sistemi segnico-comunicativi secondari, creando una specie di cortocircuito fra il codice-cultura e i suoi codici culturali. Ritroviamo la stessa confusione del rapporto fra il tutto e le parti nell’Introduzione al testo italiano Tipologia della cultura (1970), ove sembra esserci una sovrapposizione fra i sistemi secondari di modellizzazione (mitologia, religione, arte, ecc.) e il sistema-cultura e ove sembra emergere infine un solo sistema di modellizzazione secondario, ossia la cultura: «(…) la cultura dell’umanità si struttura come un sistema di segni linguistici. Essa assume inevitabilmente l’aspetto di un sistema secondario, costruito su questa o quella delle lingue naturali accolte in una data collettività, e della lingua riproduce lo schema strutturale nella propria organizzazione interna», J. Lotman, “Introduzione”, a Tipologia della cultura, Bompiani, Milano, 1975, p. 31.

97 R. Jakobson, “Closing Statement: Linguistic and Poetics”, art. cit., p. 351.

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98 Ivi, p. 352. Fondamentale il commento di Eco a questo proposito: «(…) in

Jakobson’s work every discussions on verbal language is always connected with other communicative phenomena. Jakobson very early analyzes, along with poetic expression, paiting, folklore, music, film and theatre, ostensive signs, the mutual influence between various arts during a given historical period, the symbolism of sculpture, the grammar of traffic signals, and the essentials of culinary art. He has been the first among the linguistics to point to Peirce’s trichotomy (Symbol, Index and Icon) as a basic tool for comprehension of the differences and identities among various types of signs», U. Eco, “The influence of Roman Jakobson on the development of Semiotics”, art. cit., pp. 44-45.

99 Jakobson sta precipuamente riferimento alla triade peirciana (simboli, icone e indici) e alla necessità di postulare la reciproca dipendenza di queste categorie segniche: «ogni tentativo di trattare i segni verbali come “simboli arbitrari”, puramente convenzionali, prova di essere una fuorviante iper-semplificazione. L’iconicità gioca una grossa e necessaria parte (anche se in modo evidentemente subordinato) nei diversi livelli della struttura linguistica. Gli aspetti indessicali della lingua, acutamente intravisti da Peirce, diventano problemi sempre più rilevanti per gli studi di linguistica», R. Jakobson, “Language in relation to other communication systems”, in Selected Writings II Word and Language, The Hague, Paris, 1971, p. 700.

100 P. Grzybek, “Moscow-Tartu School”, in Encyclopedia of Semiotics, Paul Bouissac (ed.), Oxford University Press, New York – Oxford, 1998, p. 424.

101 Posizione elaborata a partire dall’ultimo formalismo russo e, in particolare, da J. Tynjanov.

102 P. Grzybek, “Jurij Mikhajlovič Lotman”, in Encyclopedia of Semiotics, Paul Bouissac (ed.), Oxford University Press, New York – Oxford, 1998, p. 376.

103 S. Miceli, In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, op. cit., pp. 459-460. E continua, Miceli, sottolineando che in Lotman si rinviene una sopravvalutazione della funzione comunicativa della cultura e, di conseguenza, una sottovalutazione di tutte quelle funzioni cui la cultura assolve e che rendono conto del reale, concreto, complesso funzionamento dei codici culturali (Ivi, p. 465).

104 Lotman ne parla anche nel sopraccitato saggio “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica”, ove scrive: «Considerando l’opera d’arte come un modello di particolare tipo che riproduce determinati fenomeni della vita nella “lingua” della coscienza dell’artista e, nello stesso tempo, ben sapendo che questa “lingua” è sempre patrimonio di una determinata

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collettività, il ricercatore ha la possibilità di definire l’arte come un sistema segnico di tipo particolare. Un interessante carattere specifico dell’opera letteraria è che, fondandosi sul materiale delle lingue naturali col loro legame puramente convenzionale tra designante e designato, essa trasmette un’informazione specificatamente poetica per mezzo di una struttura secondaria nella quale i segni si organizzano secondo un principio figurativo, iconico. Un segno iconico è tale quando, nella coscienza di chi se ne serve per realizzare un atto di comunicazione, risulta strutturalmente simile all’oggetto da esso designato. Tra designato e designante si stabilisce un rapporto di equivalenza, e lo stesso segno può acquistare la funzione di modello di determinati fenomeni reali e servire da strumento per la loro conoscenza», J. Lotman, “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica”, art. cit., p. 119-120.

105 J. Lotman, “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’” (Tezisy k probleme “Iskusstvo v rjadu modelirujuščich sistem”, Tartu 1967), in Semiotica e cultura, Ricciardi, Milano-Napoli, 1975, p. 4.

106 Ivi, p. 5 (corsivo mio mentre per “segno iconico” corsivo dell’autore). 107 Il linguaggio è qui inteso nella sua accezione più ampia, ossia come facoltà di

evocare segni – essendo, il pensiero umano, di per sé di natura essenzialmente segnica – a differenza della lingua (verbale) che ha una natura eminentemente storico-convenzionale.

108 J. Lotman, “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”, art. cit., pp. 4-5 (corsivo mio).

109 Ivi, p. 4. Critica è invece Miceli, sul concetto lotmaniano di modello: «la conoscenza, l’attività modellizzante, è traduzione della realtà nella lingua della cultura: attività asettica e neutrale (…). Conoscere un “oggetto” è proporne un modello, un modello è semplicemente tutto quanto riproduce l’oggetto stesso ai fini del processo conoscitivo [“Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione”, art. cit., p. 3]. Secondo la migliore tradizione delle varie “filosofie della rappresentazione” non appare affatto, nel discorso di Lotman, il problema del differenziarsi dei diversi tipi di intervento sul mondo cui esse sono funzionali. Conoscenze dunque orientate – come gli interventi sul mondo cui risultano connesse – da precisi scopi pratici. Non “processo cognitivo” indifferenziato, astratto e generico, e neutrale», S. Miceli, In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, op. cit., p. 468.

110 Oltre al modello artistico, Lotman qui sta facendo riferimento anche a quello antropologicamente denso, del gioco.

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111 J. Lotman, “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”, art.

cit., p. 21. 112 Ibidem. 113 D. Ferrari-Bravo, “Sistemi secondari di modellizzazione”, Saggio introduttivo

a J. Lotman, Semiotica e cultura, op. cit., pp. XXXI-XXXV. E commenta Prevignano: «l’introduzione della nozione di “sistema semiotico modellizzante”, cioè di sistema di segni che svolge un’“azione modellizzante”, ha consentito ai semiotici del gruppo di Mosca di articolare, a proposito dei processi culturali di modellizzazione (e indirettamente anche a proposito dei processi scientifici di modellizzazione, oggetto di particolari attenzioni da parte dell’epistemologia e gnoseologia sovietiche), una struttura del tipo codice-messaggio o langue-parole: un sistema modellizzante risulta infatti inteso come un codice di modellizzazione, mentre un modello, quando non è usato nel senso di sistema modellizzante, è considerato come un messaggio in quel codice, un testo in quella lingua, di cui rappresenta per così dire una dimensione sintagmatica», C. Prevignano, “Una tradizione scientifica slava tra linguistica e culturologia”, in La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., p. 77.

114 Scrivevano R. Jakobson e J. Tynjanov già nel 1928: «il puro sincronismo si è rivelato un’illusione: ogni sistema sincronico ha un suo passato e un suo futuro come inseparabili elementi strutturali del sistema. (…) La scoperta delle leggi immanenti alla storia della letteratura (o del linguaggio) permette di caratterizzare ogni concreto avvicendamento dei sistemi letterari (o linguistici), ma non offre la possibilità di spiegare il ritmo dell’evoluzione e la direzione che essa sceglie», problema che «può essere risolto solo mediante l’analisi della correlazione della serie letteraria con le altre serie storiche», R. Jakobson, J. Tynjanov, “Problemi di studio della letteratura e del linguaggio”, in I formalisti russi, (a cura di) T. Todorov, Einaudi, Torino 1968, pp. 148-149.

115 J. Lotman, “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”, art. cit., p. 25.

116 P. Grzybek, “The concept of ‘model’ in Soviet Semiotics”, art. cit., p. 292. 117 In particolare attraverso la figura di C. G. Hempel, esponente del

Neopositivismo berlinese (e poi statunitense). 118 Il modello è l’interpretazione di un calcolo logico, ove le variabili sono state

sostituite da termini descrittivi (R. Carnap, Introduction to Semantics

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(1959:202-212), cit. da S. Cremaschi, “Metafore, modelli, linguaggio scientifico: il dibattito postempirista”, art. cit., p. 34.

119 Ivi, p. 38. 120 P. Duhem, La théorie physique (1906:152 ss.), cit. da S. Cremaschi, Ivi, p. 34. 121 Cf. anche “Sull’analogia” nell’Introduzione alla II Parte di questo lavoro. 122 «Le analogie materiali servono a descrivere le proprietà di un sistema, di cui

non si conosce ancora la struttura interna, ipotizzando una somiglianza con un altro sistema conosciuto, per il quale sono note le leggi che ne regolano il comportamento. Si dice, allora, (…) che si è proposto un modello per il sistema da descrivere. (…) Le analogie formali, al contrario, non si basano su un modello al livello della struttura fisica dei costituenti un certo sistema, ma sulle equazioni matematiche che sembrano adatte a descriverne il comportamento, senza fare ipotesi sulla struttura materiale che da tali leggi deve essere governata», A. Strumia, “Analogia”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 63.

123 Come ha sottolineato Cremaschi, nella concezione hempeliana e, più in generale, neopositivista si ha l’«identificazione dell’analogia con l’analogia formale (riprendendo in modo poco critico una distinzione della tarda scolastica) e l’identificazione di questa con l’isomorfismo, nozione ignota alla tarda scolastica e molto più potente della nozione di analogia formale» (Ivi, p. 43); si viene così a creare una sovrapposizione fra concetti che, come possiamo vedere dalla figura sottostante, sono assolutamente asimmetrici. Continua Cremaschi: l’isomorfismo «è definito come una particolare operazione, più potente dell’operazione detta omomorfismo fra strutture algebriche, che ha avuto applicazioni legittime per ridescrivere teorie o parti di teorie di diverse scienze empiriche. È l’indebita generalizzazione di quelle applicazioni che ha ispirato le tesi genericissime degli empiristi logici sul ruolo dell’isomorfismo fra teorie, e fra teorie e i loro domini di oggetti.

Va sottolineato invece che l’analogia di [proporzionalità propria] degli scolastici (che con un lapsus non casuale i neoempiristi (…) chiamano “formale” con un nome comparso solo dopo il Cinquecento), a parte il suo essere incommensurabile con le operazioni di omomorfismo e isomorfismo,

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si ridurrebbe – se proprio insistessimo a volerne attuare una ridescrizione nel linguaggio delle strutture algebriche – a un genere di morfia molto più debole di quello rappresentato dall’isomorfismo. Ma per di più, posto che tale ridescrizione sia utile, essa potrebbe darsi negli stessi termini per la nozione di analogia di attribuzione, in modo tale che probabilmente svanirebbe, in questo linguaggio, l’utilità della distinzione fra analogia di attribuzione e analogia di [proporzionalità propria]. Infatti in queste operazioni viene descritto – per quanto questo linguaggio è in grado di descrivere – nello stesso modo ciò che nel linguaggio ordinario può volta a volta venire chiamato sostanza o relazione, formale o materiale, attribuzione o proporzionalità. Il lapsus che si diceva, per cui gli empiristi logici usano esclusivamente i termini formale e materiale, nasconde la volontà di contrabbandare una indebita identificazione dell’isomorfismo – che, come si diceva, è un’operazione che si distingue solo per essere la più potente di una serie di operazioni di natura simile fra loro – con un quantitativo (o un “misurabile”, un “calcolabile”) contrapposto a un materiale che non è altro che il “qualitativo”, ovvero ciò che è altro dalla chiarezza, dalla precisione e dal rigore della conoscenza scientifica, e rappresenta perciò un necessario avversario di comodo del neopositivismo e dell’empirismo logico», Ivi, pp., 96-97.

124 Ivi, p. 77. 125 Secondo Ivanov, lo studio dei sistemi segnici pone in evidenza la netta di

distinzione che sussiste tra l’uomo e gli animali da un lato, e tra l’uomo e le macchine dall’altro: la comunicazione dei primi, infatti, si fonda su mezzi di segnalazione assai limitati, la comunicazione nelle seconde su un linguaggio del tutto formalizzato, ossia logico-matematico. Ciò che caratterizza l’uomo è il fatto che egli «non possiede soltanto linguaggi formalizzati, ma anche linguaggi naturali e altri sistemi segnici formatisi sulla loro base», V. Ivanov, “Introduzione allo studio strutturale dei sistemi di segni” (Simpozium po strukturnomu izučeniju znakovych sistem, 1962, Moskva), in I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, op. cit., p. 35.

126 Ivi, p. 37. 127 Ibidem (corsivo mio). 128 Ibidem. 129 Ivi, p. 39. 130 V. Ivanov, “Ruolo della semiotica nell’indagine cibernetica dell’uomo e della

collettività” (Rol’ semiotiki v kibernetičeskom issledovanii čeloveka i

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kollektiva, Moskva 1965), in I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, op. cit., p. 52.

131 Tondl L., “Semiotic Foundation of Models and Modelling”, THEORIA - Segunda Época, Vol. 15/3, 2000, pp. 413-420.

132 V. Ivanov, “Introduzione allo studio strutturale dei sistemi di segni”, art. cit., p. 37 (corsivo mio).

133 A. Olmi, “L’analogia come concetto analogico”, in Scienza, analogia, astrazione. Tommaso d’Aquino e le scienze della complessità, Il Poligrafo, Padova, 1999, p. 140.

134 J. Lotman, “Introduzione”, a Tipologia della cultura, op. cit., p. 26. Ancora secondo Miceli questa prospettiva lascia implicito il fatto che la cultura, così contemplata, stia tutta dalla parte del lavoro puramente intellettuale e si traduca, di conseguenza, in un’immagine tutta mentalistica della cultura (S. Miceli, In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, op. cit., p. 476).

135 Ivi, p. 26. 136 Ibidem. 137 Ivi, p. 27. 138 R. Jakobson, “Linguistic in relation to other sciences”, art. cit., p. 663. 139 Ibidem. 140 J. Lotman, “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica”, art. cit., p. 123. 141 J. Lotman, “Introduzione”, a Tipologia della cultura, art. cit., p. 28. 142 L’informazione viene assunta attraverso la traduzione semiotica, la quale

avviene grazie alla filtrazione linguistica dell’insieme dei sistemi semiotici propri della cultura.

143 Ivi, p. 31. 144 Lotman sottolinea più specificatamente questo concetto quando scrive:

«Tutti i bisogni dell’uomo si possono ripartire in due gruppi. Gli uni richiedono una soddisfazione immediata e non possono (o quasi) venire accumulati. I tessuti possono accumulare determinate quantità d’ossigeno, ma a livello dell’organismo umano la respirazione non può venire accumulata. Non si può accumulare il sonno. I bisogni che possono essere soddisfatti mediante l’accumulazione di riserve formano un gruppo distinto. Essi sono la base oggettiva per l’acquisizione, da parte dell’organismo, di informazione extragenetica. Come risultato si hanno due tipi di rapporto dell’organismo con le strutture estranee introdotte in lui: le une immediatamente, o con relativa rapidità, vengono riordinate nella struttura

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dell’organismo stesso, le altre invece sono accantonate, e conservano la propria struttura o un programma ridotto di questa. Sia che si tratti dell’accumulazione materiali di oggetti, sia che si tratti della memoria nelle sue forme a lungo o a breve termine, collettive o individuali, il processo è sostanzialmente il medesimo, e può essere definito processo di accrescimento di informazione», Ivi, p. 27.

145 Ivi, p. 30. 146 Ivi, p. 31. 147 S. Miceli, In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, op.

cit., p. 76. 148 Vale a dire «(…) un sistema di segni organizzati secondo un’unica struttura

gerarchica e secondo una gerarchia unificata delle regole per la loro combinazione», Ivi, p. 31.

149 E infatti l’ipotesi Sapir-Whorf nasce proprio dal riconoscimento di un’assoluta eterogeneità linguistico-concettuale nel genere umano. Come sottolinea Miceli, nella modernità si sono gettate le basi per quel «capovolgimento dell’isomorfismo realtà-pensiero-linguaggio che si potrà osservare compiuto nella cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf: dove cioè, proprio a partire dall’osservazione della radicale differenza delle lingue e dal riconoscimento del ruolo essenziale del linguaggio per il configurarsi delle idee e la conoscenza del reale, si potrà affermare che popoli che parlano lingue radicalmente diverse condividono un universo concettuale diversamente organizzato e abitano un mondo che risulta diversamente configurato perché la lingua impone già criteri precisi nella discretizzazione delle esperienze e precondiziona la stessa percezione dei fenomeni naturali, obbligando gli uomini a leggere il mondo secondo schemi e direttive di cui sono appunto le lingue ad essere portatrici», S. Miceli, In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, op. cit., p. 114.

150 J. Lotman, “Proposte per il programma della IV Scuola estiva sui sistemi modellizzanti secondari” (“Predloženija po programme IV Letnej školy po vtoričnym modelirujuščim sistemam, Tartu 1970), in La semiotica dei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., p. 191.

151 Ibidem. 152 «“Culturoclasi” vuol ricalcare il neologismo kul’turoborčestvo, costruito sul

modello di ikonoborčestvo (“lotta alle immagini sacre”, “iconoclasi”). Ad “acculturazione” corrisponde nell’originale kul’turtregerstvo (“il farsi kul’turtreger, portatore di cultura”, anche in senso colonial-imperialista)», J.

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Lotman, “Proposte per il programma della IV Scuola estiva sui sistemi modellizzanti secondari”, art. cit., nota 2.

153 J. Lotman, B. Uspenskij, “Sul meccanismo semiotico della cultura” (O semiotičeskom mechanizme kul’tury, Tartu 1971), in Semiotica e cultura, op. cit., 1975.

154 Ibidem. 155 Ibidem. 156 In edizione italiana J. Tynianov, Avanguardia e tradizione, Dedalo Libri, Bari,

1968. 157 Ivi, pp. 24 e 27. 158 J. Lotman, “Sul meccanismo semiotico della cultura”, art. cit., p. 64. 159 Ibidem. A proposito della citazione lotmaniana dell’ipotesi Sapir-Whorf

riportiamo quanto scrive Miceli, per la quale vi sarebbe in realtà un’assoluta incompatibilità fra il concetto di “sistema modellizzante primario”, proprio della scuola semiotica di Mosca-Tartu, e quello di lingua in Sapir-Whorf: «laddove [sulla scorta dell’ipotesi sapir-whorfiana] sarebbero le lingue naturali in quanto caratterizzate da tipi differenti d’organizzazione strutturale che dovrebbero esercitare la loro “influenza” sulle “varie manifestazioni della cultura umana (l’ipotesi Sapir-Whorf conduce infatti a un atteggiamento relativistico nei confronti di lingue-e-culture), nel discorso di Lotman le cose non dovrebbero poter stare in questi termini. La “influenza” del linguaggio sulle “varie manifestazioni della cultura umana” appare piuttosto, nei termini di Lotman, una dipendenza dei codici culturali in genere (appartenenti a qualsivoglia società, senza precisazioni) dal linguaggio in quanto “sistema semiotico universale”, e cioè ricostruito in astratto in quelle che sono le sue caratteristiche, appunto, universali. Dunque, mentre l’interesse centrale del discorso di Whorf consiste anzitutto nella scoperta del declinarsi necessariamente linguistico del pensiero, e quindi del frantumarsi dell’a priori, (…) di lingua in lingua – con le conseguenze di ciò sul relativizzarsi del rapporto pensiero-realtà ai diversi tipi linguistici, e le ulteriori conseguenze di subordinazione a questi ultimi dei comportamenti culturali, il discorso di Lotman viceversa sembra orientare a tutt’altra problematica», S. Miceli, In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, op. cit., nota 71, pp. 461-462.

160 J. Lotman, “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”, art. cit., p. 5.

161 La velocità di innovazione della lingua naturale è infinitamente più lenta rispetto a quella del linguaggio artistico.

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162 J. Lotman, “Sul meccanismo semiotico della cultura”, art. cit., p. 84. 163 Una teoria della cultura ove lo scopo ultimo diventa «delineare l’unitarietà

della descrizione strutturale della cultura e proporre un tratteggio della sua collocazione fra forme più ampie e generali di organizzazione», J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 28.

164 I primi studi della Scuola di Mosca-Tartu, essendo profondamente debitori del formalismo russo e della linguistica saussiarana, tendevano a considerare il testo come entità statica.

165 Lotman scrive, a proposito della contrapposizione tra modelli ludici e modelli scientifico-conoscitivi: « La contrapposizione tra gioco e conoscenza è priva di fondamento. Il gioco occupa un grandissimo posto non solo nella vita dell’uomo, ma anche in quella degli animali. È indiscutibile che il gioco rappresenti una delle esigenze più serie ed organiche della psiche umana», J. Lotman, “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”, art. cit., p. 16.

166 J. Lotman, “Mito - Nome - Cultura” (Mif – Imja – Kul’tura, Tartu 1973), in Semiotica e cultura, op. cit.

167 J. Lotman, “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”, art. cit., p. 11.

168 Ivi, p. 12. 169 Ivi, p. 21. 170 L’assunzione di una prospettiva ermeneutica è molto visibile in Lotman

nell’idea, che lui ha, dell’arte e del gioco. Proprio a proposito dei modelli ludici, commenta Ferrari-Bravo: «Un primo accenno al problema dell’interpretazione si trova già nei paragrafi dedicati ai giochi [cf. Testi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione”]. Essi vengono presentati sotto l’aspetto di modelli semanticamente “ricchi” (bogatye) vale a dire di organismi aperti ad una molteplicità di significati e, quindi, di usi, sul piano del comportamento pratico. Sempre a proposito dei giochi Lotman si serve (…) dell’espressione “logica polisemantica”», D. Ferrari-Bravo, “Sistemi secondari di modellizzazione”, in Semiotica e cultura, op. cit., p. XLII.

171 Per l’Italia uscita col titolo: Cercare la strada. Modelli della cultura. 172 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 48. 173 J. Lotman, “Sul meccanismo semiotico della cultura”, art. cit., p. 66. 174 È evidente il retroterra strutturalista di Lotman – la comprensione del testo

come realtà autosufficiente – che, allo stesso tempo, si sposa con i concetti di modello e di dinamica centro-periferia del formalismo di J. Tynjanov.

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175 Ivi, p. 67. 176 Così riassume Lotman: «Esaminando la cultura come memoria a lungo

termine della collettività, se ne possono rilevare tre qualità fondamentali: 1) cultura sono riempite per mezzo di testi diversi. 2) Ridistribuzione delle caselle nella struttura, per cui si mutano tanto il concetto stesso di “fatto, soggetto a memorizzazione”, quanto la valutazione gerarchica di ciò che è registrato nella memoria. La costante riorganizzazione del sistema codificante che, rimanendo se stesso nella propria autocoscienza e pensando se stesso come permanente, rielabora instancabilmente codici particolari, provoca con ciò stesso l’aumento del volume della memoria a danno della creazione di riserve “non attuali” ma che possono attualizzarsi. 3) Dimenticanza. La trasformazione della catena dei fatti in un testo è immancabilmente accompagnata da una scelta, cioè dalla scelta operata a favore di alcuni avvenimenti tradotti in elementi del testo, e dalla dimenticanza di altri che vengono dichiarati non esistenti. In questo senso ogni testo contribuisce non solo alla memorizzazione, ma anche alla dimenticanza», Ivi, pp. 69-70.

177 Diels-Kranz, fram. 45. 178 Ivi, p. 92. 179 Lotman, infatti, a proposito del rapporto conflittuale fra struttura nucleare e

formazioni semiotiche meno strutturate scrive: «le formazioni che circondano tale struttura possono concretarsi come qualcosa che viola i diversi elementi di tale struttura e, nello stesso tempo, tendono costantemente ad assimilarsi al nucleo della cultura», Ivi, p. 83.

180 J. Lotman, “La cultura e il suo “insegnamento” come caratteristica tipologica” (Problema “obučenija kul’ture” kak ee tipologičeskaja charakteristika, Tartu 1971), in Tipologia della cultura, op. cit., pp. 72-73.

181 Ivi, p. 82.

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CAPITOLO 2

Comunicazione e cultura: un oggetto di studio complesso 1973-1976

La cultura è pensata solo come una parte, come un campo chiuso su uno sfondo della non-cultura. (…) la cultura non potrà mai prescindere da tale contraddizio-ne e pertanto essa si presenterà come termine rilevante di una opposizione fondamentale.1

1. La semiotica della cultura come problema di definizione

dell’altro-da-sé

Nell’introduzione a Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’URSS (1973), antologia che sancì definitivamente l’acquisizione delle idee lotmaniane in Italia, la questione semiotica viene presentata in seno al più ampio dibattito della scienza del XX secolo.

Lotman sottolinea infatti che la scienza nel Novecento si caratterizza per due attributi sostanziali – e vediamo qui come egli fosse pienamente consapevole del cambio di paradigma operato dalla cosiddetta II rivoluzione scientifica2: essa è prima di tutto un’attitudine conoscitiva non già all’inconosciuto ma al conosciuto: ad un livello, tuttavia, meta; la scienza del Novecento cioè vuole andare al di là della percezione naturale delle cose, al di là di quello che si potrebbe

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culturalmente definire “buon senso” o “senso comune” per affondare più profondamente nella conoscenza dell’evidenza (e dell’inconfutabilità) del reale, problematizzando ciò che potrebbe sembrare non problematico: non inventare, dunque, i problemi scientifici, quanto capire quali sono. La semiotica, sottolinea Lotman, può essere annoverata a pieno titolo alla scienza contemporanea, essendo la sua vocazione fondamentalmente metaconoscitiva. Scrive il semiologo russo: «la peculiarità della scienza è che essa sottopone ad analisi ciò che non era mai stato analizzato proprio perché sembrava semplice ed evidente. Sotto questo aspetto la semiotica è unita alla caratteristica della scienza del XX secolo che aspira non tanto a conoscere qualcosa di nuovo quanto (…) ad ampliare la stessa conoscenza delle conoscenze»3; e ancora, chiarisce con un bell’esempio: «il problema tecnico della comunicazione dell’uomo con gli automi ha convinto in modo palmare che le nostre idee sulla naturalità sono estremamente relative. Agli occhi del profano di solito suscita stupore la capacità che un automa ha di “capire”. Per la scienza più valore ha ciò che l’automa “non capisce”, e così manifesta un oggetto di ricerca là dove per il buon senso sembrerebbe non esserci motivo di riflessione»4.

In secondo luogo, la scienza del Novecento tende non già ad applicare al nuovo categorie concettuali già consolidate ma a relativizzare la “verità” del punto di vista scelto e ad aprire la visuale a teorizzazioni che possano meglio esprimere il nuovo o, addirittura, intuire l’impredittibile5. Una scienza quindi che, da una massimo di datità, verificabilità e adeguamento a una realtà razionale, è passata a dar ragione del paradosso che è insito nelle cose e non direttamente percepibile dal senso comune. Parlando di questo passaggio, Lotman sottolinea come, di nuovo, la semiotica si leghi imprescindibilmente al paradigma scientifico contemporaneo, il quale ha denunciato con forza la problematicità della portata semio-linguistica delle costruzioni scientifiche: quelle che sembravano categorie concettuali obiettive, incontrovertibili e linguisticamente non ambigue, dopo il controverso dibattito fra K. Popper, T. Kuhn e I. Lakatos6, si sono rivelate espressione

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di una conoscenza sempre storica, soggettiva e mai conclusa, che necessita di diverse discipline per essere compresa (filosofia e storia della scienza, filosofia del linguaggio e metafisica in primis).

Lo sguardo della scienza sulle cose, poi, in Lotman si carica si un significato eminentemente etico. Il positivismo ottocentesco infatti tendeva, secondo il semiologo russo, a creare una equivalenza fra scienza e verità in un’ottica del tutto autoreferenziale: l’assolutizzazione del punto di vista europeo portava a studiare ad esempio l’antropologia e la linguistica da una visione monologica ed eurocentrica che categorizzava automaticamente come “incivile” o “inesistente” tutto ciò che non rientrava in quel dato parametro di verità7. «La scienza del XX secolo, al contrario, parte dall’esistenza di vari sistemi di descrizione e si interessa quindi molto di più del punto di vista dell’“altro” (l’“io” dall’angolo visuale dell’“altro”, l’“altro” dal suo proprio punto di vista). (…) Si può dire che se il XIX secolo guardava l’“imbecille” con gli occhi dell’“intelligente”, per una serie di problemi scientifici di oggi (…), l’unica soluzione possibile è la descrizione dei fenomeni complessi dal punto di vista dell’incomprensione, cioè della “stupidità”, mentre l’incomprensione, il primitivo, la “stupidità” da anomalia culturale si trasforma in problema culturale»8.

Vediamo come la semiotica lotmaniana si sposi progressivamente a due ordini di problemi: la semiosi culturale quale problema legato I) alla multiprospetticità e II) alla definizione dell’altro-da-sé. Partiamo da quest’ultimo punto per poi dedicare un paragrafo specifico al concetto di multiprospetticità.

Come ci viene specificato in un altro fondamentale scritto del ’73, “Tesi per un’analisi semiotica delle culture (in applicazione ai testi slavi)”, redatto a dieci mani con Ivanov, Pjatigorskij, Toporov e Uspenskij, la semiotica vuole essere conoscenza delle conoscenze proprio perché il suo obiettivo è quello di portare alla luce il meccanismo che da sempre regge le culture e che, proprio per la sua “naturalezza” (il senso comune di cui parlavamo prima), non è stato ancora analizzato e decostruito in profondità. Secondo Lotman et al

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questo meccanismo è fondamentalmente la traduzione culturale interno-esterno, ossia la traduzione dell’altro-da-sé in quanto estraneo o non-culturale9. Come a dire che la cultura è sempre un’identità a doppia faccia, a seconda del punto di vista da cui la si guardi: la scienza, come abbiamo visto, può essere “vera” per lo scienziato positivista ma può anche essere “vera” per lo sciamano: la legittimazione di una prospettiva piuttosto che un’altra è un meccanismo semiotico straordinariamente forte che, come si può immaginare, si lega al concetto di identità culturale: capiamo dunque che, agli occhi di Lotman, comprendere il meccanismo di definizione dell’altro-da-sé è la via regia per capire il modo attraverso cui le culture si relazionano, si intersecano, creano confini e gerarchie semiotiche.

Vediamo come si vadano complessificando le riflessioni di Lotman sul binarismo centro-periferia e sulla tipologizzazione culturale che da esso scaturisce; tuttavia qui l’attenzione di sposta dalla singola cultura – con le sue regole, norme, prescrizioni, divieti, consuetudini – alla relazione fra culture, quale incontro/scontro di diverse regole, norme, prescrizioni, divieti, consuetudini. Il problema principale che va emergendo nella semiotica lotmaniana è quello delle identità eteronomiche, quale cortocircuito culturale che ha costellato tutta la storia dell’umanità. Scrivono Lotman et al nelle “Tesi” del ’73:

L’opposizione “cultura – spazio extraculturale” costituisce l’unità minima su un dato livello. Praticamente ci è fornito un paradigma di spazi extraculturali (“infantile”, “etnico-esotico” dal punto di vista di una certa cultura, “subconscio”, “patologico”). In modo analogo i testi medievali costruiscono le descrizioni dei diversi popoli: al centro è collocata una certa entità normale, il “noi”, alla quale sono contrapposti gli altri popoli come un insieme paradigmatico di anomalie. (…) La larga invasione della cultura europea nel secolo XX dell’arte infantile, dell’arte arcaica e medievale, e dell’arte dei popoli dell’Estremo Oriente e dell’Africa è legata con il fatto che tali testi sono sradicati dal contesto storico (o psicologico) che è loro proprio. Si guarda ad essi con gli occhi dell’“adulto” o dell’europeo. Per esercitare una ruolo attivo, essi devono essere sentiti come “strani”.10

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Solo partendo dal presupposto che la propria cultura non sia necessariamente “informazione” (da insegnare ed estendere al di là dei propri confini) è possibile superare l’impasse del fuori-di-sé in quanto entropia. Vedremo ora la soluzione che Lotman propone. 2. Dall’idealità dell’atto comunicativo alla demoltiplicazione

delle prospettive. Arricchimento del modello jakobsoniano: l’autocomunicazione

Ritorniamo all’introduzione a Ricerche semiotiche (1973). Secondo Lotman sono due i motivi per cui il XX secolo ha posto particolare attenzione allo studio dei sistemi segnici e, nello stesso tempo, delle ambiguità della comunicazione umana.

In primo luogo, molto si deve alla crescente integrazione delle scienze naturali con quelle umane: secondo il semiologo russo, infatti, la confutazione del modello spazio-temporale newtoniano e la scoperta della teoria della relatività – ossia quello che gli scienziati contemporanei definiscono il passaggio dall’universo delle leggi (il paradiso perduto11) al mondo dei processi – ha portato nel cuore delle scienze umane il concetto di demoltiplicazione delle prospettive e, dunque, di relatività dei quadri concettual-interpretativi tradizionali12. Non solo. Ha anche posto in evidenza il fatto che i modelli scientifici sempre si fondano su costruzioni linguistiche, ossia su forme di interpretazione e di mediazione uomo-natura: la visione dello scienziato non è mai una prospettiva vergine ma sempre un punto di vista storicamente e socioculturalmente localizzato, in cui entra a pieno la soggettività del descrivente. «Sia nelle scienze naturali che in quelle umane, scrive Lotman, si è sviluppata l’idea della relatività delle norme consuete. L’attenzione rivolta al sistema della descrizione e al punto di vista del descrivente e diventato una questione scientifica essenziale. Il problema tradizionale della conoscibilità si è trasformato nel problema

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del metalinguaggio e così da problema puramente filosofico è diventato problema filosofico-linguistico (…)»13. Era inevitabile dunque che nel panorama delle scienza contemporanea la riflessione epistemologica si focalizzasse precipuamente sulla costruzione (anche) linguistico-semiotica dell’episteme e sulla natura socio-culturale e comunitaria della ricerca scientifica: di qui, secondo Lotman, l’attenzione crescente verso i sistemi di segni e la loro reciproca inter-modellizzazione.

In secondo luogo l’interesse specifico nei confronti della comunicazione umana si è manifestato nel XX secolo proprio a causa – e paradossalmente, sottolinea Lotman – della crescita esponenziale dei mezzi tecnici di comunicazione. Questa infatti, come si diceva pocanzi a proposito della messa in dubbio del senso comune, si è manifestata tutto fuorché un atto idealtipico di semplice trasmissione informativa da un soggetto E (emittente) a un soggetto R (ricevente). La crescita della mezzi tecnici avrebbe dovuto, secondo il semiologo russo, portare alla luce le potenzialità della comunicazione umana, soprattutto in termini qualitativi: crescente comprensione in e fra i collettivi umani e, dunque, crescente integrazione fra le culture. Il XX secolo ha invece dimostrato che i cosiddetti mass media hanno sì abbattuto i confini inter- umani, spaziali e temporali ma hanno anche accresciuto sensibilmente i conflitti fra gli uomini, le tradizioni e le culture, disgregando mano a mano forme di convivenza consolidate. Non solo. Essi si sono rivelati da mezzi di koinonia a forme di legittimazione dell’idea di “altro” in quanto straniero e, dunque, a forme di promozione di ideologie e dittature. Bellissima la riflessione di Lotman a questo proposito:

Le epoche precedenti vedevano il problema principale della comunicazione nelle difficoltà tecniche ad essa legate. Così, la fiaba e il mito creano gli ideali di legami istantanei (gli stivali dalle sette leghe, i tappeti volanti, il tiro ultrapreciso a grande distanza, ecc.); nello stesso modo la durata dell’informazione s’identifica con la robustezza dei mezzi tecnici (si vedano le iscrizioni su pietra rivolte alle generazioni future). Ma nei testi letterari antichi e medievali e anche nel romanzo del XIX secolo

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s’incontra con straordinaria rarità il tema dell’incomprensione. L’informazione può andare persa fisicamente ed essere deformata tecnicamente, ma la possibilità di interpretazioni psicologiche differenti e la reciproca incomprensione tra i parlanti di una stessa lingua come regola non è ammessa dall’autore. (…) Soltanto a partire dall’epoca del romanticismo l’incomprensione genera nella letteratura europea collisioni tragiche. (…) Il XX secolo col potente sviluppo dei mezzi tecnici ha spostato il centro dell’attenzione sulle difficoltà dell’atto stesso di comunicazione. Da un lato si sono scoperti i pericoli, e non solo i vantaggi dei mezzi di comunicazione di massa. Così, ad esempio, la demagogia reazionaria è diventata non soltanto un aspetto caratteristico, ma anche una minaccia reale per la cultura del XX secolo. Nello stesso tempo, benché il mondo, che prima pareva enorme, si sia contratto e sia diventato spazialmente più piccolo, cioè più accessibile grazie ai mezzi di comunicazione, le difficoltà della reciproca comprensione tra gli uomini non sono diminuite, ma bensì aumentate. Nell’intreccio epico l’eroe incontra in un campo sconfinato il guerriero straniero, il mostro o il gigante (spesso si sottolinea in modo particolare che si tratta di uno straniero), eppure nella loro conversazione non sorge il problema della traduzione. La comunicazione è pensata qui come un atto ideale, realizzabile istantaneamente e senza perdita, come al livello del pensiero.14

Il XX secolo denuncia la comunicazione in quanto fenomeno complesso e, per certi versi, pericolosamente ambiguo: è proprio in essa, in quanto atto di traduzione, che nascono tutte le forme di asimmetria (cognitiva, emozionale, culturale, ecc.) fra le persone. In questo passo Lotman sottolinea il fatto che l’altro come straniero è un problema antropologico fondamentale e irriducibile, presente sin dalla fondazione del mondo: è il campo nel quale si gioca tutto il concetto di interculturalità. E certamente, con i mass media, esso emerge ancor più come un problema di traduzione.

Già dall’introduzione all’antologia del ’73 possiamo dedurre che Lotman rigetta una visione idealistica, “naturale”, spontanea di atto comunicativo, il quale sempre implica un “di più” di complessità sia dal

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punto di vista relazionale (fra emittente e ricevente) che da quello informativo. Non a caso egli, dopo aver parlato del rapporto fra arte antica e incomprensione – rapporto che, come abbiamo visto, non sussiste – fa riferimento all’arte contemporanea e al concetto cardine di “autocomunicazione”: «l’arte del XX secolo considera una collettività elementare (due persone) e le possibilità di incomprensione riposte in essa. Persino la singola persona umana si trova di fronte al problema dell’identificazione dei diversi stati di sé, e l’autocomunicazione e i problemi ad essa legati diventano oggetto dell’attenzione artistica»15.

Il linguaggio artistico – paradigma, come vedremo, della dinamica culturale per Lotman – aveva già intuito agli inizi del Novecento che il nuovo campo di indagine della comunicazione si sarebbe dispiegato sui problemi dell’io in quanto coscienza-in-relazione con sé e con l’altro: una coscienza che, come il logos eracliteo, è inesauribile e infinitamente profonda – isomorfica anche, lo ricordiamo, alla memoria della cultura, quale logos che accresce su se stesso.

Per capire meglio il concetto di autocomunicazione dobbiamo ora far riferimento a un altro saggio del ’73, “I due modelli della comunicazione nel sistema della cultura”16. In questo scritto Lotman propone un spostamento di prospettiva circa il concetto stesso di comunicazione come modellizzato dal geniale linguista russo R. Jakobson.

Ripartiamo dunque dal modello a sei fattori/funzioni, come postulato nel saggio “Closing Statement: Linguistics and Poetics” (1960). Non si ricorda mai abbastanza che prima di illustrare quello che è stato uno strumento euristico di importanza capitale per le scienze della comunicazione, Jakobson fa presente la necessità di superare una certa monoliticità e autoreferenzialità degli studi sul linguaggio, sottolineando che la lingua naturale – ossia l’oggetto di studio della linguistica – deve essere indagata alla luce del più ampio concetto di semiotica, il che implica un’attenzione crescente per le “entità extralinguistiche”17 (ossia gli altri sistemi segnici) e per i “fattori secondari”18 della comunicazione, come la componente emotiva. «Il linguaggio, scrive Jakobson, deve

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essere studiato in tutta la varietà delle sue funzioni», a dispetto, dunque, di un certo riduzionismo (riductio ad absurdum)19 in atto.

In ogni comunicazione verbale, continua il linguista russo, entrano in gioco sei fattori: un emittente e un ricevente, quali soggetti dell’evento discorsivo; un contesto, un codice (se non del tutto, almeno, parzialmente condiviso ai fini della codifica-decodifica del messaggio), e infine un contatto, che può essere tanto un mezzo fisico quanto una connessione psicologica atti a stabilire una comunicazione fra i due soggetti. Ad ognuno di questi fattori, Jakobson abbina una funzione specifica ossia: emittente (emotiva o espressiva), destinatario (conativa), contesto (referenziale), codice (metalinguistica), messaggio (poetica) e contatto (fatica), attribuendo una certa centralità a quella referenziale; scrive infatti: «la struttura verbale di un messaggio dipende primariamente dalla funzione predominante. Nonostante l’atteggiamento (Einstellung) verso il referente, [ossia] l’orientamento al contesto – in breve, la cosiddetta funzione referenziale, “denotativa”, “cognitiva” – sia il compito primario di numerosi messaggi, la partecipazione accessoria delle altre funzioni (…) deve essere presa in considerazione dal linguista».20 Quello che più ci interessa sottolineare, ai fini del nostro discorso, è che l’analisi jakobsoniana delle funzioni – seppur geniale – contempla sempre una certa predominanza dell’emittente (E) sul ricevente (R): questo ci viene suggerito in particolare dalle due funzioni che, rispettivamente, caratterizzano E ed R: espressiva e conativa. Nel primo caso, ritroviamo un soggetto che cerca, con tutte le sue forze, di trasmettere la sua attitudine espressiva, «di produrre l’impressione di una certa emozione, vera o simulata che sia»21; nel secondo caso, ritroviamo invece un soggetto che è indotto, persuaso – se non forzato – ad adottare un certo comportamento rispetto alla forza espressiva dell’emittente. Prima di vedere come quest’asimmetria sia ripresa e “limata” da Lotman, dobbiamo sottolineare che Jakobson ha fatto fare un grosso salto al rapporto E-R perché ha introdotto l’emotività (o espressività) in seno al comportamento verbale che, in questo modo, non è più contemplato

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nel solo aspetto cognitivo, referenziale e linguistico: esso diventa comunicazione semiotica, arricchita inoltre di tutti quei segni che si legano, appunto, all’emotività22.

Ora, Lotman riconosce la straordinaria portata euristica del modello di Jakobson, non solo per il campo delle scienze della comunicazione – attraverso, come abbiamo visto, l’evidenziazione dei fattori che in essa entrano in gioco – ma anche per quello della culturologia: introducendo, infatti, il modello jakobsoniano nella sfera della cultura è stato possibile cogliere più profondamente le dinamiche comunicative che avvengono a livello macro. A questo proposito, un esempio molto interessante che Lotman propone è l’accostamento del rapporto emittente-ricevente (E-R) ai modi attraverso cui una cultura può trasmettere la tradizione: tipico è il caso di quelle epoche storiche, come la Russia di Pietro I, ove la cultura era vista come un messaggio23 che implicava la presenza di un destinatario ideale (R), il quale doveva limitarsi esclusivamente e passivamente a recepire il sapere (la verità) senza apportare alcuna modifica.

Ma il problema, secondo Lotman, è proprio qui: l’atto comunicativo è davvero solo un passaggio unilaterale da E a R? Una mera trasmissione di informazioni ove il messaggio è noto solo a E e non a R? Un atto, quindi, ove il predominio dell’informazione è tutto nella mani di E? È evidente che il modello E-R può facilmente (e pericolosamente) declinare in una concettualizzazione dell’altro come di colui che, vivendo in uno stato di “entropia”, necessita di un’informazione ordinatrice (ossia di una culturalizzazione): è il problema, visto pocanzi, delle identità eteronomiche.

Ebbene, il semiologo russo suggerisce di problematizzare proprio il concetto di emittente-ricevente, proponendone una doppia articolazione: sistema comunicativo IO-EGLI e sistema comunicativo IO-IO. La premessa di questa doppia articolazione è sempre, sottolinea Lotman, il riconoscimento di una irriducibile diversità fra i poli della comunicazione; in caso contrario vi sarebbe solo uno stato di conoscenza monologica e autoreferenziale.

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Il sistema comunicativo IO-EGLI equivale sostanzialmente al rapporto E-R: «nel sistema “IO-EGLI”, scrive Lotman, risultano variabili gli elementi del modello [jakobsoniano] che fanno da cornice (al mittente si sostituisce il destinatario); costanti sono il codice e il messaggio. Il messaggio e l’informazione in esso contenuta sono costanti; cambia invece il depositario dell’informazione. (…) [In questo caso, dunque] abbiamo a che fare con un’informazione data in anticipo, che viene trasferita da un uomo all’altro, e con un codice che rimane costante nell’ambito dell’intero atto comunicativo»24. Ma cosa accade qualora all’atto comunicativo segua una crescita di informazione? Cosa è avvenuto, nel frattempo, agli altri elementi del modello jakobsoniano? Lotman risponde a queste domande proprio parlando del sistema comunicativo IO-IO, ossia dell’auto-comunicazione che, secondo il semiologo russo, è ben più importante del sistema IO-EGLI per spiegare la dinamica culturale: essa infatti rende meglio conto della reale ricchezza informativa circolante in seno alla cultura.

L’auto-comunicazione – andando a coincidere emittente e destinatario – richiede una trasformazione dell’informazione, pena altrimenti la sua riduzione a discorso monologico; essa assume quindi la forma di un discorso interiore, di un logos che si arricchisce inesauribilmente, proprio come la psicologia vygotskiana aveva suggerito a Lotman (§ 6.1). In termini ovviamente semiotici e non psicologici, il semiologo russo spiega questa trasformazione attraverso i processi di ri-semantizzazione, ri-codificazione e ri-contestualizzazione che avvengono durante l’atto comunicativo e che, sempre, modificano sensibilmente il messaggio di partenza. Scrive Lotman:

Nel sistema “IO-IO” il depositario dell’informazione rimane se stesso, mentre il messaggio, nel processo comunicativo, viene riformulato e acquista un nuovo significato. Ciò è la conseguenza del fatto che viene introdotto un secondo codice supplementare, e il messaggio di partenza è ricodificato nelle unità della sua struttura, ricevendo così i connotati di un messaggio nuovo. (…) Se il sistema comunicativo “IO-EGLI” assicura solo la trasmissione di un volume costante di informazione, nel canale “IO-IO” ha

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luogo invece una trasformazione qualitativa dell’informazione, con conseguenza riorientamento di questo stesso “IO”. (…) trasmettendo a se stesso egli riorienta interiormente la propria essenza, giacché l’essenza della personalità può venir trattata come un assortimento individuale di codici socialmente significativi, e qui, nel processo dell’atto comunicativo, tale assortimento cambia. La trasmissione del messaggio attraverso il canale “IO-IO” non ha un carattere immanente, in quanto è condizionata dall’intrusione dall’esterno di codici supplementari e dalle presenza di spinte esterne che dislocano la situazione del contesto.25

Introdurre il concetto di auto-comunicazione in seno alla dinamica culturale porta a un grosso salto in avanti verso l’idea di cultura quale sistema complesso. Se infatti, nel saggio del ’71 “Sul meccanismo semiotico della cultura” la crescita dell’informazione è tutta immanente al sistema ed è il risultato della collisione di forze centripete e centrifughe, qui la ricchezza semantica è frutto di un dialogo semantico proveniente sia dall’interno che dall’esterno della cultura: dialogo che porta a una riorganizzazione dell’intero sistema culturale.

Prima di andare avanti, dobbiamo sottolineare che lo stesso Jakobson, a sette anni di distanza dall’elaborazione del modello interpersonale della comunicazione, pone l’accento sul concetto vigotskijano di inner speech o, analogamente, su quello peirceiano di internal dialogue; scrive il linguista russo in “Linguistics in relation to other sciences” (1967): «quando diciamo che il linguaggio o ogni altro sistema segnico serve da mezzo di comunicazione dobbiamo, allo stesso tempo, guardarci da ogni concezione restrittiva di mezzo e di fine della comunicazione. In particolare, si è spesso dimenticato che oltre alla forma interpersonale della comunicazione, certo più tangibile, è presente un aspetto intrapersonale ugualmente importante. Così, per esempio, l’inner speech, acutamente concepito da Peirce come un dialogo interiore, è un fattore cardinale nella architettura del linguaggio e serve da connessione fra il sé passato e il sé futuro»26. E scrive ancora nel saggio del ’68, “Language in relation to other communication

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systems”: «(…) è sempre più evidente che la lingua, per la ricerca psicologica, neurologica e soprattutto linguistica, non è solo un mezzo di comunicazione interpersonale ma anche intrapersonale. Questo campo, per lungo tempo scarsamente esplorato o addirittura ignorato, ci pone ora di fronte – specie dopo le magnifiche scoperte di Lev S. Vygotskij e A. N. Sokolov – all’imminente domanda di approfondimento dell’internalizzazione del discorso e delle varie sfaccettature legate al linguaggio interiore, il quale anticipa, programma e delimita le nostre enunciazioni e, in genere, guida il nostro comportamento esteriore ed interiore, informando le repliche silenziose di un tacito uditore»27. E continua Jakobson, ricordando in modo palmare Lotman: «Ogni segno richiede un interprete. Il tipo precipuo di comunicazione semiotica implica la presenza di due diversi interpreti, l’emittente di un messaggio e il suo destinatario. Tuttavia, come detto pocanzi, l’inner speech condensa emittente e destinatario in un’unica persona [ciò per cui] le forme ellittiche della comunicazione intrapersonale sono ben lontane dall’essere confinate ai soli segni verbali»28. Il dialogo interiore sembra qui profilarsi come la fonte primaria di una innata propensione al poliglottimo, che si esprime in un’intersegnicità temporalmente multistratificata. 3. Cultura e semiotizzazione del comportamento

Potremmo ora chiederci cosa accada ai destinatari di una cultura fondata sul rapporto emittente-ricevente o IO-EGLI. Si insinua qui un concetto cardine della semiotica lotmaniana: quello di “comportamento quotidiano”. Per Lotman, infatti, la cultura – con il suo deposito di valori, convenzioni, stereotipi, ecc. – svolge un’azione fortemente modellizzante sugli habitus di un’epoca; e questa modellizzazione è ben visibile dal comportamento quotidiano, che è ad un tempo programma

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di comportamento e attuazione (storicamente e semioticamente incarnata) di questo programma.

Lotman fa soprattutto riferimento a particolari epoche storiche ove la semiotizzazione del quotidiano ha assunto un valore ideologico di delegittimazione della tradizione e di promozione di un nuovo corso. Ne sono un esempio lampante, come vedremo ora, la Russia di Pietro I e, per antitesi, la Russia dei decabristi. Ma prima dobbiamo chiederci: come fa la cultura a informare il comportamento? Ebbene, si delinea qui un altro concetto cardine: quello di testo quale dispositivo mnemonico e programmatico sia per l’individuo che per la collettività. Come ricordato, già nel saggio del ’71 “La cultura e il suo ‘insegnamento’ come caratteristica tipologica”, Lotman aveva sottolineato che ogni cultura, a seconda di come si definisce (testualizzata vs grammaticalizzata), crea un latente programma culturalizzante, pre-regolando – possiamo dire ora – il comportamento dei suoi membri. Torniamo ora alle “Tesi” del ’73, ove Lotman et al, in una prospettiva certo meno determinista, sottolineano come la cultura di ogni epoca sia sempre il risultato di una riattualizzazione di testi archetipici che fungono da modello semiotico per la produzione di nuovi testi: la cosa affascinante è che qui l’archetipo è un modello di comportamento umano, depositato nel testo e sempre suscettibile di re-interpretazione. Si veda il caso degli intellettuali russi del Settecento, i quali, per essere ricordati come “esponenti dell’epoca” – e dunque produrre a loro volta modelli di comportamento (o testi) memorabili – sceglievano gli eroi dell’antichità come programmi per la propria condotta: tipico è l’esempio di Radiščev29, la cui vita è decodificata da Lotman et al attraverso la vita-codice di Catone (incluso il suicidio). Questa re-interpretazione dei modelli di comportamento è dunque un fatto storico, fisicamente localizzato, ma anche un fatto testuale poiché implica la produzione di sempre nuovi metacodici culturali a partire da un codice (comportamento+testo) originario: cosa che, in seno alla dinamica culturale, equivale a dire “poliglottismo” ed “eterogeneità” – e, in ultima analisi, riequilibrio dell’asimmetria informatica IO-EGLI. Scrivono

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i Nostri nelle “Tesi”: «(…) Non sono soltanto i partecipanti alla comunicazione a costruire testi, ma sono anche i testi a conservare in sé memoria dei partecipanti della comunicazione. Perciò l’acquisizione di testi da un’altra cultura porta alla comparsa della policulturalità, ovvero alla possibilità di scegliere un comportamento convenzionale, pur restando nell’ambito di una cultura, secondo lo stile di un’altra cultura»30.

Vediamo ora due esempi paradigmatici, a cui facevamo riferimento pocanzi: la semiosi comportamentale all’epoca di Pietro I (XVII-XVIII secolo) e all’epoca del movimento decabrista russo (XIX secolo).

In un’affascinante saggio del ’75, “Il tema delle carte e del gioco nella letteratura russa dell’inizio del secolo XIX”31, Lotman spiega come le grandi riforme della storia possano portare, sul piano cultural-ideologico e comportamentale, ad uno scollamento fra pensiero e vita, tale da creare delle vere e proprie empasse culturali. Ne è un esempio l’azione riformatrice d’inizio Settecento operata da Pietro I, in conseguenza della quale un intero pezzo di storia russa fu completamente cancellato: come scrive Lotman, ancora in un saggio di qualche anno prima (“Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX secolo”, 1973), l’imperatore pietroburghese32 «distrusse consapevolmente la ritualistica medievale di corte degli zar moscoviti»33 – ossia il concetto stesso di simbolo – per creare ex novo una cultura fondata su un diverso tipo di organizzazione segnica (sulla falsariga della nascente cultura illuminista europea), ossia la polarità semantica reale-simbolico → vero-falso. San Pietroburgo, scrive Lotman, divenne il simbolo dell’“abolizione della storia” e della costituzione di un principio “artificiale”, che doveva rimpiazzare la Tradizione con la Ragione34.

Le riforme, continua Lotman nel saggio del ’75, non fecero che accentuare il poliglottismo culturale fino a creare una società schizofrenica, ove la vita intellettuale era completamente sganciata da quella socio-politica: l’una seguiva il corso e il ritmo accelerato della cultura europea, l’altra la lentissima evoluzione delle categorie di

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pensiero ancora fortemente legate alla cultura medievale. Entrambi i piani di realtà erano sì ordinati e logici nella loro gerarchia normativa e comportamentale ma totalmente divergenti l’uno dall’altro: «ogni elemento di uno dei due piani era fuori delle regole, casuale dal punto di vista dell’altro»35. Si venne così a creare un clima culturale dominato dall’idea di storia come caso e, a ruota, da un habitus fatto di comportamenti a un tempo razionali e casuali: il gioco d’azzardo diventava così il modello di comportamento (logico e imprevedibile) delle persone. Scrive Lotman: «la teoria razionalistica (“Voltaire o Descartes”) e la massa di carte nella mani di chi tiene il banco sono la doppia forma capace di abbracciare, proprio nel suo rapporto reciproco (…), tutto lo spessore della vita russa della sua epoca, dalle teorie della ragione al gioco coi Fattori ignoti proprio della vita reale»36.

Il legame fra cultura e comportamento, nella Russia di Pietro I e dei suoi successori, viene ripreso e approfondito da Lotman in un altro saggio, sempre del ’75: “Il decabrista nella vita. Il comportamento quotidiano come categoria storico-psicologica”. L’europeizzazione russa, spiega Lotman, aveva creato un’asimmetria radicale fra sfera delle idee e sfera pratica, dando vita a una pluralità e schizofrenia di comportamenti. Nel frattempo, con il declino dell’epoca petrina, si era venuto formando un nuovo corso storico: la Ragione veniva sostituta dalla Natura, i Lumi dall’umanismo eroico. A questo proposito Lotman scrive, in una delle sue ultimissime riflessioni: «la Natura, come incarnazione dei diritti naturali dell’uomo, divenne il giudice (…) dello Stato, delle strutture sociali e persino del progresso scientifico, [e le sue] sentenze erano considerate finali e non soggette ad appello. Ora [nella letteratura], non era più il filosofo-sovrano e lo scienziato-teorico a essere il portatore degli ideali dello scrittore ma il semplice, naturale, uomo “selvaggio”, l’uomo comune, o qualunque persona “deprivata della ragione” ma non privata del “sentimento naturale”. Questo divenne un consapevole programma teorico, in stretto rapporto con lo sviluppo del Rousseauismo russo»37.

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È qui che troviamo la spiegazione del comportamento del decabrista nella Russia del XIX secolo, come descritto nel saggio sopraccitato; comportamento che, al primo acchito, potrebbe sembrare uno stereotipo e che, invece, si rivela essere una straordinaria strategia di semiotizzazione (etica oltre che politica) della vita quotidiana. Obiettivo del decabrista è infatti quello di creare una controtendenza allo scollamento tra vita e pensiero. Ecco che allora, come abbiamo visto prima, i testi-modello degli eroi storici o letterari diventano un vero e proprio programma di comportamento, il quale, a sua volta, si profila come una sorta di testo cifrato, un metacodice a partire dalla vita-codice dei grandi personaggi della storia. Scrive Lotman: «è sintomatico che in molti casi soltanto il ricorso a modelli letterari ci consente di decifrare azioni compiute da persone di quell’epoca, che da un diverso punto di vista sarebbero enigmatiche [ad esempio la morte di Cesare, l’eroismo di Catone, l’addio di Ettore e Andromaca, la poesia di Natalija Dolgorukova per il comportamento delle mogli dei decabristi]. (…) il comportamento reale dell’uomo della cerchia dei decabristi è per noi una sorta di testo cifrato, mentre il soggetto letterario è il codice che consente di penetrare il senso recondito»38.

Persino le passioni, per Lotman, hanno una natura eminentemente culturale e si esprimono attraverso modelli di comportamento sedimentati nella storia e nei testi39. Sempre nel saggio sul decabrista, il semiologo russo sottolinea che atteggiamenti passionali come il pudore, la paura, l’onore altro non sono che dei “regolatori di comportamento”40 originatisi dall’unione fra l’attività psichica dell’uomo e complessi processi storico-culturali. Scrive il Nostro: «Nella coscienza umana entrano complesse norme semiotiche d’ordine etico, religioso, estetico, pratico e d’altro tipo, sullo sfondo delle quali si costituisce la psicologia del comportamento di gruppo»41.

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4. L’intertestualità

Abbiamo visto che la semiotica lotmaniana si va aprendo ad una dimensione sempre più intertestuale e contestuale. Ce lo conferma, da un lato, il concetto di dinamica auto-accrescitiva della comunicazione IO-IO42 e, dall’altro, l’idea di ibridazione semantica fra testi-memoria e nuovi testi, ossia di interpretazione e attualizzazione storico-contestuale propria della comunicazione IO-EGLI – una comunicazione, dunque, che non è mai flusso informativo unidirezionale. Questo passaggio da una semiotica “statica” a una “dinamica” ci viene ben esemplificato nel saggio “Un modello dinamico del sistema semiotico” (1974); in esso, Lotman sottolinea proprio come una certa tendenza metodologica alla selezione delle sole invarianti strutturali per la descrizione dell’oggetto di ricerca – ossia un certo saussurianismo metodologico – ha portato gli studi linguistico-semiotici a creare sistemi di analisi (e di pensiero) astratti e statici, depurati cioè dagli «elementi esterni al sistema, che si distinguono per la loro instabilità e irregolarità»43. Quello che invece Lotman propone, sulla scorta della dinamica centro-periferia, sistema-extrasistema, è la ricerca di un metalinguaggio descrittivo in grado di esprimere sempre più l’intrinseca dinamicità delle strutture semiotiche (dai testi alla cultura nel suo insieme): dinamicità che si fonda proprio sulla continua, vitale trasformazione degli elementi interni in connessione a quelli esterni, irregolari e destabilizzanti. Nel “qui ed ora” questi ultimi possono apparire ininfluenti ma, in prospettiva diacronica, essi sono destinati a riemergere e a porre in essere un’azione trasformativa – o “esplosiva”, potremmo dire, rifacendoci al linguaggio dell’“ultimo” Lotman.

La vitalità delle strutture semiotiche è assicurata dunque da un continuo gioco di evoluzione e continuità, il quale avviene grazie all’incessante ibridazione – specie nelle zone periferiche – fra elementi sistematici ed extra-sistematici: scartando questi in nome della purezza del taglio sincronico viene meno la spiegazione stessa della dinamica semiosica. Scrive Lotman: «Quella pietra che i costruttori di un sistema,

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che si è già formato e ha trovato stabilità, lasciano da parte perché dal loro punto di vista è superflua, è per il sistema successivo la pietra angolare»44. Vediamo come stia emergendo una precipua attenzione per i meccanismi ambivalenti (bachtinianamente intesi) e per la dinamica del “diverso nell’uno” in chiave storica.

Veniamo ora ad un altro scritto del ’74 in cui Lotman spiega precipuamente quest’apertura all’eterogeneità, facendo riferimento, non a caso, al linguaggio artistico: si tratta del saggio “L’insieme [ansambl’] artistico come spazio quotidiano”45. La prospettiva dell’uni-diversità si esplicita già dal titolo, con il concetto di ansambl’, che – scrivono S. Burini e A. Niero – «in sé contiene l’idea di una marcata confluenza del diverso in un complesso interrelato»46. Per spiegare in che modo unità ed eterogeneità – ossia due diversi modi del darsi della realtà – possano felicemente dialogare, Lotman introduce un’immagine molto affascinante, ossia l’allegoria del girotondo delle muse, figura fabulatoria che esprimeva nell’antica Grecia l’uni-diversità dell’arte: «afferma un antico detto: le muse fanno il loro girotondo [chorovod]. Poiché ogni musa aveva un proprio nome, una propria immagine, propri strumenti e una propria arte, i greci vedevano immancabilmente nell’arte, appunto, un girotondo, un insieme di aspetti differenti, ma reciprocamente necessari all’attività artistica»47. Questi diversi aspetti, come i lati cangianti di un prisma, si interrelano semioticamente in modo così profondo da dar vita ad una visione d’insieme, ad un “volto dell’epoca”: ad un girotondo appunto, che è al contempo dinamico, eterogeneo e coeso.

L’idea del girotondo (ossia di diversità) dunque, sottolinea Lotman, non si scontra con quella storico-artistica di stilema, come anche, sul piano storico-filosofico, di “ritratto del secolo” o “spirito del tempo” – queste idee sembrerebbero presupporre infatti una certa uniformità di fondo delle forme conoscitive ed espressive proprie di una specifica parabola culturale48: anzi, essa spiega in forma simbolica la natura stessa della conoscenza e delle scienze, che sono ad un tempo particolari e indivisibili. Si torna qui al problema, fondamentale per

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Lotman, della specializzazione delle scienze fino alla frammentazione e dell’urgenza di un ritorno alla «struttura unitaria del sapere scientifico»49. Quello che sembra affascinare il semiologo russo (e l’arte glielo suggerisce in modo paradigmatico) è il fatto che per penetrare la realtà in modo organico e unitario, ossia per averne una conoscenza “una”, sono necessari molteplici modi di dire questa realtà: autonomi, irriducibili l’uno all’altro, difficilmente traducibili l’uno nell’altro ma reciprocamente indispensabili. Scrive Lotman, proprio riferendosi all’arte:

La questione posta in questo saggio è (…): ciò che ci interessa non è quali tratti generali permettano di ascrivere determinati quadri, statue, testi poetici, mobili, abiti, alle manifestazioni di uno stile, ma il motivo per cui sia caratteristico di un certo stile manifestarsi in fenomeni di genere diverso. Proprio la diversità dei principi di assimilazione del mondo rende i diversi aspetti dell’arte reciprocamente indispensabili. Conviene comunque evidenziare due differenti aspetti di questo problema. Da un lato, arti diverse, modellizzando in modo diverso gli stessi oggetti, conferiscono al pensiero artistico dell’uomo un indispensabile spessore, un poliglottismo artistico. Dall’altro, ogni aspetto dell’arte per la piena consapevolezza della propria specificità, necessita della presenza di altre arti e di lingue artistiche parallele.50

Lotman è profondamente affascinato dalla ricchezza del reale e dal modo in cui l’uomo riesce a pronunciare questa irriducibile varietà delle cose (e pluralità dei pensieri). Capiamo bene che la comunicazione monologica del modello IO-EGLI o del modello IO-IO – quando non vi sia crescita informativa – è assolutamente inadatta a rendere conto della complessità del linguaggio umano. Lotman, infatti, proprio come nell’introduzione a Tipologia della cultura – in cui si era chiesto perché l’umanità, dai primordi a oggi, avesse paradossalmente speso così tante energie per produrre ciò che non sembrerebbe indispensabile, ossia la cultura – si domanda con un altro paradosso «perché una qualsiasi comunità non [possa] essere soddisfatta da un’unica arte, ma

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immancabilmente [crei] “serie” sue tipiche»; e ancora, perché al singolo individuo non basti un unico testo artistico ma «[tenda] verso insiemi che forniscono combinazioni di impressioni artistiche sostanzialmente eterogenee»51. Il fatto che la comunità o il singolo contemporanei a un certo “spirito del tempo” tendano alla poliespressività ci dice una cosa molto importante sulla comunicazione umana: l’uomo si esprime attraverso un linguaggio intertestuale (analogico, come vedremo) e ciò che realizza il meccanismo semiotico della cultura è l’intertestualità, ossia il continuo incontro, attraversamento e incrocio fra segmenti storici e frammenti semantico-testuali appartenenti a diversi linguaggi, ma analogicamente in relazione: dalla pittura alla musica, dalla musica all’architettura, dall’architettura al cinema, e così all’infinito52. Il fenomeno dell’intertestualità, tra l’altro, in Lotman si declina subito nel problema dell’interculturalità. E questo è naturale, poiché parlando di arte non si può non tener presente che l’Otto-Novecento sono stati i secoli dell’evasione immaginaria a mondi mitici e incontaminati53 e al proliferare del cosiddetto esotismo, ossia la riscoperta delle forme espressive primitive o comunque esotiche: il simbolismo tribale, il japonisme (“Giapponeseria”), l’art nègre, l’arte pre-coloniale come quella maya e azteca ecc. Questa riscoperta, oltre ad aver trasformato radicalmente il linguaggio dell’arte contemporanea, ha anche portato alla luce seri problemi di traduzione e di ibridazione culturale54; quello che infatti si chiede Lotman è: cosa avviene, al livello del meccanismo semiotica della cultura, quando si incontrano frammenti semantico-testuali appartenenti non solo a linguaggi diversi ma anche a culture differenti?55 Capiamo bene che l’intertestualità è un problema di importanza capitale in seno alla semiosi culturale.

Non a caso Lotman fa l’esempio dell’organizzazione dell’intérieur moscovita nell’Ottocento, la cui resa estetica era il risultato di una vera e propria sovrapposizione semiotica di diverse epoche, culture e forme espressive “archetipiche”. Questo ci riporta, tra l’altro, anche se in modo complessificato, a quello che Lotman diceva nel saggio del ’71 a proposito del funzionamento della cultura. Ossia il fatto che il sistema

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codificante “legittimo” di una data epoca (si pensi agli stilemi) è sempre il risultato di una riesumazione e, al contempo, di un rinnovamento del centro culturale, quale insieme di memoria, codici-norma e testi-norma – vale a dire i testi archetipici che fungono da modello semiotico per la produzione di nuovi testi (come visto pocanzi a proposito della semiotizzazione del comportamento). La cultura si profila sempre di più come un deposito mnemonico, temporalmente multistratificato, la cui continua riesumazione e reinterpretazione si traduce in un’irriducibile policulturalità. Scrive Lotman, con un linguaggio simile a quello di M. McLuhan a proposito dell’ibridazione mediale: «la scena domestica nel villino signorile del XVIII secolo introduceva nell’intérieur l’arte teatrale nello stesso modo in cui il televisore introduce nell’appartamento moderno il cinematografo. (…) [vi è un legame organico] tra l’intérieur del palazzo barocco e l’orchestra da camera; tra la vita quotidiana dell’appartamento cittadino del XIX secolo e il pianoforte; tra l’intérieur moderno e il registratore, il giradischi e la musica riprodotta per mezzo di questi ultimi»56. Segno chiama segno; linguaggio domanda linguaggio; ogni taglio sincronico si trascina dietro reti di temporalità sovrapposte57: l’intertestualità significa quindi continua traduzione58.

Per spiegare come questa intertestualità di realizzi in modo storico e culturalmente localizzato Lotman riprende i concetti linguistici di langue ed enunciato, sottolineando che, ad esempio, una manifestazione artistica particolare come quella dell’intérieur altro non è che la presa in proprio (ossia l’attualizzazione ma anche la “quotidianizzazione”59), della lingua dello stilema, concepito da Lotman come una sorta di grammatica modellizzante dalla quale una collettività storicamente data attinge e attualizza in forma di enunciato (in questo caso l’intérieur). Lo stilema sarebbe quindi una langue, un deposito multistratificato di forme espressive in potenza: un prisma di cui non si possono vedere mai tutti i lati, ma solo alcuni – la cui manifestazione però implica la presenza di tutti gli altri. Notiamo come sia sempre presente la visione lotmaniana di “cultura dell’umanità” (1967), per la quale dietro ogni

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manifestazione culturale specifica si cela sempre tutta la cultura umana in potenza.

A questo si collega un altro problema toccato più volte da Lotman, ossia l’organizzazione gerarchica dei sistemi semiotici in seno alla cultura. Ogni sistema culturale, infatti, non solo si distingue dagli altri per il fatto che evidenzia certi lati del prisma – ossia della cultura universale, come visto pocanzi – ma anche perché li struttura in una gerarchia di significati. Un esempio primigenio è il sistema semiotico costruito sulla dicotomia spaziale dentro-fuori (o proprio-altrui), cui corrispondono l’investimento valoriale bene-male e la valorizzazione timica euforia-disforia60: è da questa bipolarità che nascono poi tutte quelle figure culturali con il barbaro, il pagano, il reietto, il diavolo, ecc. Sempre nel saggio “L’insieme artistico come spazio quotidiano”, Lotman sottolinea che, di nuovo, l’intérieur ci può suggerire qualcosa di molto importante sul meccanismo semiotico della cultura rispetto alla gerarchizzazione dei nuclei di senso nella modernità: secondo il semiologo russo, infatti, l’organizzazione semantico-spaziale del villino signorile d’Ottocento è un indizio di quanto il senso, nella storia delle culture, sia andato sempre di più formandosi sull’interrelazione fra sistemi semiotici sovrapposti e stratificati, superando quindi la semplice bipolarità fra dentro-fuori. Avviene così che con «con il complicarsi del meccanismo della cultura, alla semplice contrapposizione di spazio “culturale” (organizzato) e “non culturale” (non organizzato) subentra una gerarchia: all’interno di uno spazio chiuso si distinguono settori gerarchicamente più “alti”»61. La cosa affascinante è che per Lotman la gerarchia del senso – e qui il semiologo russo lascia implicito il fatto che essa abbia una naturale eminentemente spaziale – diventa programma e, allo stesso tempo, effetto del comportamento quotidiano: da un lato l’individuo assumerà un dato sistema comportamentale (gestualità, stile, postura, andatura, linguaggio, tono della voce ecc.) a seconda dello spazio “alto” o “basso” in cui si verrà a trovare, dall’altro sarà lo stesso spazio a semiotizzarsi e ad essere investito valorialmente e timicamente dal comportamento. Quello di Lotman – ora lo possiamo

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dire – è uno spazio semiotico essenzialmente teatrale, simile a quello del sociologo E. Goffman. 5. Verso il concetto di complessità

La riflessione di Lotman sulle arti ci ha suggerito una qualità fondamentale dell’approccio scientifico allo studio della dinamica culturale – arte e cultura, come abbiamo visto, sono praticamente contigui per il semiologo russo. Essa, cioè, va studiata come un girotondo, ossia come unità complessa costituita da molteplici ed eterogenei legami, coglibili esclusivamente attraverso uno sguardo d’insieme: non tanto partendo dalla tessere e arrivando al mosaico, quanto cogliendo prima il mosaico e giungendo poi alla sua struttura immanente (richiami e contrasti, asimmetrie, regolarità, proporzioni, ecc.).

Questo concetto è ripreso nel saggio del ’76 “Che cosa dà l’approccio semiotico?”, in cui Lotman propone nuovamente una riflessione sull’arte quale congegno-modello della semiotica della cultura. L’opera d’arte, infatti, è vista dal semiologo russo come l’«immagine ideale di una macchina del futuro»62, poiché ha l’intrinseca capacità di spiegare, da un lato, il funzionamento della mente umana – essendo un congegno di accumulo della memoria e di produzione del pensiero – e, dall’altro, i meccanismi di modellizzazione della realtà. Sorge spontanea una domanda: ma perché l’opera d’arte è contemplata alla stregua di un sistema pensante? In primo luogo, non dobbiamo dimenticare che già nel saggio “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione” (1967) Lotman aveva puntualizzato che l’opera d’arte assomiglia precipuamente al vivente poiché se da un lato è sempre identica a se stessa dall’altro amplifica in modo indefinito le informazioni in essa racchiusa, accrescendosi semanticamente nel tempo (attraverso, l’abbiamo visto, la dinamica intertestuale): proprio come un corpo che

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mantiene la propria identità pur sviluppandosi. A questo proposito, ha scritto Ferrari-Bravo: «Lotman sottolinea soprattutto il carattere “produttivo” dell’opera letteraria. A suo avviso essa non è tanto un organismo dotato di un certo numero di significati, quanto piuttosto una “monade” racchiudente in sé possibilità infinite e inaspettate di significanza»63.

In secondo luogo, quando Lotman ne parla del saggio del ’76, egli sta paragonando la fecondità degli studi sull’opera d’arte alla scarsità dei risultati ottenuti, in ambito scientifico, dallo studio dell’intelligenza artificiale – ecco perché allude alla “macchina del futuro”: nel cercar di comprendere come funziona la mente umana, sottolinea il semiologo russo, la scienza è partita dalle funzioni intellettuali primitive, dalle e attraverso le quali ha pensato di poter costruire l’insieme pensante, «come fanno i bambini coi cubetti per costruire una casetta»64, ossia dal minimo al complesso: dalle tessere al mosaico. Questo approccio, pur avendo un valore euristico, tende a dare una spiegazione riduzionistica di fenomeni che necessitano invece di una prospettiva d’insieme. La mente umana è uno di questi. Cosa significa questo per la semiotica lotmaniana? Si insinua qui l’idea che l’arte e la cultura siano funzionalmente e strutturalmente analoghe al cervello, ossia bi-emisferiche65, e vadano dunque studiate come sistemi complessi, come un girotondo di relazioni eterogenee e, al contempo, une.

L’equazione, infatti, è presto risolta: come l’arte sta alla mente umana, così la cultura sta all’intelletto collettivo66. Partendo dall’analogia cerebrale, il culturologo può accedere ai meccanismi semiotici che sottostanno all’opera d’arte – meccanismi che, come vedremo, si fondano sui concetti di asimmetria ed eterogeneità – e, dunque, capire il modo attraverso cui la cultura riesce a conservare e produrre pensiero, ovvero a modellizzare plurilinguisticamente la realtà. Una specifica riflessione sull’analogia cerebrale in rapporto all’arte e alla cultura sarà data nel capitolo dedicato appunto alla cultura come organizzazione pensante, intanto però è bene sottolineare che la

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semiotica lotmaniana sta spostando il suo prospettico verso quella che oggi viene definita epistemologia della complessità. 6. Vygotskij e Bachtin

6.1 L. Vygotskij e l’inner speech

Gli studi sulla mente umana erano una priorità della Mosca degli anni Venti, quando, all’indomani della vittoria sovietica, divenne necessario plasmare un “uomo nuovo” (novyj čelovek) ed edificare un sistema pedagogico-educativo in grado di formare le future generazioni socialiste. La neurofisiologia e la psicologia a indirizzo marxista-leninista furono così particolarmente caldeggiate, sebbene poi, con l’irrigidirsi del pianificazionismo stalinista, si ridussero a mera tecnica e prassi: lo studio della mente umana divenne, in altre parole, la via d’accesso alla creazione dell’uomo-lavoratore, efficiente, uniformato e indottrinato al “metodo lavorativo” (trudovoj metod).

Lev S. Vygotskij (1895-1975) cresce nell’ambiente culturale della prima generazione di psicologici (1923-’24), quando ancora vige una relativa pluralità di prospettive euristiche e circolazione della produzione scientifica occidentale – sono di questi anni le critiche e le argomentazioni a proposito del comportamentismo, della psicanalisi, della psicologia della Gestalt67. Egli scrive la maggior parte dei suoi lavori tra il 1924 e il 1934 (anno della morte), venendo poi “dimenticato” fino al 1956, quando ha inizio il disgelo post-staliniano; nel 1956 viene infatti edita la raccolta di scritti Izbrannyie psichologiceskij isslédovanija, che contiene la fondamentale opera Myšlenie i reč (Pensiero e Linguaggio, ed. or. 1934).

Il suo approccio teorico, orientato al metodo storico-dialettico, si pone in forte contrasto con la tendenza biologico-materialista di ridurre l’uomo all’animale e promuove invece l’idea di comportamento e

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coscienza umana come fenomeni «soggetti all’influenza delle condizioni storico-sociali della vita»68. Scontrandosi con il naturalismo ingenuo, egli introduce

l’idea della storicità della natura della psiche umana, l’idea della trasformazione dei meccanismi naturali dei processi psichici nel corso dello sviluppo storico-sociale (…). Una tale trasformazione [viene] vista da Vygotskij come il risultato necessario dell’appropriazione dei prodotti della cultura umana da parte dell’uomo, nel processo della comunicazione di questo con le persone circostanti.69

Lo psicologo bielorusso concentra i suoi studi sul «rapporto tra elementi genetici ed elementi ambientali»70 nello sviluppo della psiche umana, ovvero sul rapporto tra l’impronta biologica e l’impronta socio-culturale depositata nell’uomo – un tema, come abbiamo visto, molto caro a Lotman. Un ruolo di particolare importanza viene assunto dal linguaggio, quale ponte socializzante tra l’“io” bambino e le persone che lo circondano (portatrici “genetiche” del sostrato culturale); in questo senso Vygotskij ha una concezione dell’alterità che è tipica della visione totale e integrale della sua cultura (il cosiddetto cosmismo71). Come ha sottolineato infatti Amy Mandelker72, l’idea di un “io” che si costituisce originariamente per-l’altro è propriamente russa e la si può comprendere da come viene pensato il linguaggio e, più in generale, la comunicazione inter/intra-umana: mentre in una certa prospettiva occidentale, il linguaggio – il luogo della socializzazione e del riconoscimento dell’altro – è fonte di ansietà, nostalgia ed eterno fallimento (Lacan, Freud, Piaget) a causa di un’alterità vista come prigione, nella visione russa (Vygotskij, Vološinov, Bachtin) esso è un luogo familiare, poiché l’individuale è considerato sociale sin dalla nascita e lo è proprio nel linguaggio: l’io e l’altro sono un io-altro incarnato da subito nella disposizione pre-verbale e pre-intellettuale del bambino. Scrive Vygotskij: «la funzione primaria del linguaggio, sia nei bambini che negli adulti, è la comunicazione, il contatto sociale. Il primissimo linguaggio del bambino è quindi essenzialmente sociale.

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Dapprima esso è globale e plurifunzionale; successivamente le sue funzioni divengono differenziate. Ad una certa età il linguaggio sociale viene nettamente diviso dal bambino in linguaggio egocentrico e linguaggio comunicativo»73: il primo è ciò che gli permette gradualmente di individualizzarsi e prendere coscienza di sé, il secondo invece di mettersi in relazione con gli altri.

A un terzo stadio, il pensiero e il linguaggio infantili si evolvono verso il discorso interiore, che non è banalmente il linguaggio manifesto meno il suono (o vocalizzazione), ma lo sviluppo del linguaggio egocentrico verso la sua forma logica e razionale. Scrive Vygotskij:

il linguaggio egocentrico del bambino rappresenta uno dei fenomeni di transizione dalle funzioni interpsichiche a quelle intrapsichiche e cioè un passaggio da forme di attività sociale a forme di attività interamente individuale. Questa transizione è condizione necessaria perché si sviluppino quelle funzioni psichiche superiori che sorgono originariamente come forme di attività collettiva e che soltanto in seguito vengono dal bambino trasferite alla sfera dell’attività psichica. Il linguaggio “per se stessi” ha origine per differenziazione dal linguaggio comunicativo; dal linguaggio “per gli altri”.74

Attraverso il discorso interiore, il bambino inizia a “pensare per se stesso”, ossia a conoscere il mondo per mezzo di «rapporti intrinseci e segni interiori»75, fino ad arrivare ai concetti veri e propri.

L’impostazione da cui parte Vygotskij è legata a quella di Piaget, con i suoi studi sul pensiero del bambino – Le Langage et la pensée chez l'enfant (1923), Le jugement et le raisonment chez l'enfant (1924), La représentation du monde chez l'enfant (1926), La causalité physique chez l'enfant (1927) – anche se alla fine egli finisce per capovolgerla. Secondo lo psicologo e pedagogo svizzero, infatti, il linguaggio egocentrico è «un compromesso tra l’autismo iniziale e la progressiva socializzazione del pensiero infantile»76; esso è dunque la primissima manifestazione verbale del bambino che originariamente usa il linguaggio “per se stesso” e, solo a seguito di forti pressioni sociali, inizia ad apprenderlo per mettersi in relazione con gli altri. Per

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Vygotskij, al contrario, il linguaggio egocentrico viene dopo quello comunicativo ed è ciò che permette al bambino di diventare – per dirla come Bachtin – una «totalità unitaria e unica»77, in grado di porsi davanti agli altri con una sua autocoscienza. L’individualizzazione e il dialogo sono, in sintesi, causa e conseguenza della comunicazione, che contraddistingue le funzioni psichiche superiori dell’uomo.

6.2 M. Bachtin e il dialogismo

Anche Bachtin, con la sua attenzione per il rapporto fra cultura, testi e significazione, non poteva che attrarre l’attenzione di Lotman. Questi lo riscopre nel 1963, anno in cui viene riedita, dopo 34 anni di silenzio, l’opera Problemi tvorčestva Dostoevskogo (I problemi dell’opera di Dostoevskij)78, seguita nel 1965 da Tvorčestvo Fransua Rable i narodnaja kul'tura Srednevekov'ja i Renessansa (La creatività di François Rabelais e la cultura popolare del Medioevo e del Rinascimento)79 e nel 1979 da Estetika slovesnogo tvorčestva (Estetica del testo verbale)80, ove ritroviamo il fondamentale scritto L’autore e l’eroe nell’attività estetica, degli anni 1920-’24, e Il problema dei generi del discorso, degli anni 1952-’53. Tra il 1977 e il 1979 Lotman probabilmente recepisce in lingua francese Le marxisme et la philosophie du langage. Essai d'application de la méthode sociologique en linguistique, tradotto in russo solo nel 199381.

In questa sede, non sarà trattata né la spinosa questione riguardante la paternità del pensiero bachtiniano, diviso tra V. N. Vološinov e P. N. Medvedev82, né l’analisi approfondita dello stesso. Si vorrà piuttosto delineare, per sommi capi, l’universo concettuale che ha attratto e influenzato in modo così profondo Lotman, apportando alla sua teoria semiotica sostanziali cambiamenti.

Un primo aspetto di questo universo è stato evidenziato da M. Holquist, secondo il quale «la concezione bachtiniana della letteratura come sistema (organico e non strutturale) (…) si rivela tale soltanto se la

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si considera un’attività da continuare all’infinito, non una serie discontinua di testi passivi e isolati, ma un tessuto vivente di enunciati inestricabilmente imbricati che affondano le loro radici nel più remoto passato, e mantengono saldi legami con il più lontano futuro»83. Fortemente affascinato dal concetto di biosfera, elaborato dal russo V. I. Vernadskij, Bachtin concepisce la letteratura come un organismo spazio-temporale (o logosfera cronotopica), al cui interno avviene un continuo scambio di atti linguistici (o enunciazioni concrete84) che si incontrano e scontrano grazie ai suoi confini: dispositivi di comunicazione e, al contempo, di individualizzazione.

Ogni enunciazione prende vita dall’hic et nunc – ossia il contesto storico-culturale nel quale è inserita: un contesto denso di passato e di futuro – e invera il discorso (slovo)85 che la veicola. Nel sopraccitato scritto del 1952-’53, Bachtin sottolinea che «l’enunciazione non è un’unità convenzionale, ma un’unità reale, nettamente delimitata dall’alternanza dei soggetti del discorso e terminante col passaggio della parola a un altro»86. È quest’alternanza dei soggetti del discorso, continua Bachtin, «che crea i netti confini dell’enunciazione»87. Ne segue che la comunicazione, sia essa interiore o esternata, è sempre un dialogo reale88, che implica la presenza individuale e attiva dell’intersoggettività e una «comprensione attivamente responsiva»89 di questo altro-da-sé: «il primo e principale criterio di compiutezza dell’enunciazione è la possibilità di rispondere, cioè, per dirla in modo più esatto e ampio, di assumere nei suoi riguardi una posizione responsiva (…)»90. L’individualità, in altre parole, crea i confini del discorso e la possibilità stessa del dialogo. L’enunciazione, per dirla come Bachtin, ha sempre un carattere individuale-contestuale91, che si realizza attraverso la presa in proprio della lingua (e dei suoi generi di discorso) e l’«assimilazione – più o meno creativa – delle parole altrui (e non delle parole della lingua)»92.

Questo gioco dialogico è proprio ciò che permette a Lotman di superare progressivamente l’approccio formale e poi strutturale allo studio della cultura e di proporre una visione più organica della stessa,

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ossia la cosiddetta semiosfera (1984) – concetto che egli desume, non a caso, da Vernadskij. Riprendendo l’immagine di Bachtin, secondo il quale «un parlante non è il biblico Adamo, posto di fronte a oggetti vergini, non ancora designati, ai quali per la prima volta egli dà un nome»93, Lotman proporrà negli anni Ottanta di vedere la comunicazione umana come un fenomeno complesso, imprescindibilmente legato allo spazio di senso (o semiosfera) nel quale l’uomo è immerso sin dai primi istanti di vita: uno spazio che gli fa assimilare il nome degli oggetti prima ancora di averli compresi e pronunciati. Anch’egli infine userà l’immagine del tessuto vivente per spiegare la semiosi illimitata creata dai testi, fili di un brulicante intreccio di interpretazioni.

Un’ultima riflessione che ci viene suggerita dall’universo bachtiniano rispetto al pensiero di Lotman è quella legata al valore dell’arte. La letteratura, come ci ricorda L’autore e l’eroe (1920-’24) si rivela una vera e propria estetica del testo verbale quando è in grado di far vivere il rapporto profondamente dialogico tra l’autore e l’eroe. Un rapporto che è tale solo se sa ricreare «una cultura dei confini»94, ove l’uomo-eroe è portato a compimento, ossia rivelato come «totalità unitaria e unica»95: atto che richiede la più profonda e autentica custodia dei suoi confini, pena un eroe che è prognosi e proiezione psicologica dell’autore e non – potremmo dire – disvelamento. «Quanti veli, scrive Bachtin, bisogna togliere dal volto della persona più vicina, apparentemente familiare, veli sovrapposti dalle nostre reazioni e relazioni casuali e dalle casuali situazioni della vita, prima di vederne l’autentico e intero sembiante! L’artista che lotta per un’immagine determinata e stabile di un eroe lotta, in larga misura, con se stesso»96.

L’arte ha dunque un valore eminentemente etico perché insegna all’uomo a essere responsabile per i confini propri e dell’altro; ma – mette in guardia Bachtin – deve essere un’esperienza che unisce l’estetica e la vita nell’unità della persona97. Questa concezione esistenziale dell’arte avrà un ruolo determinante nell’ultimo Lotman.

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1 J. Lotman, “Sul meccanismo semiotico della cultura”, art. cit., p. 62. 2 Di questa si parlerà nell’introduzione alla II parte del presente lavoro. Per il

momento ci basti accennare che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ossia al termine della parabola positivista, la “ragione scientifica” venne progressivamente meno, complice l’emersione di varie problematiche d’ordine epistemologico, legate, appunto, ai suoi fondamenti: in primis, la relatività dello stesso discorso scientifico che, dopo confutazione dell’universo newtoniano e la verificazione di quello einsteiniano, aveva mostrato la sua verità non indubitabile e problematica.

3 In un saggio di tre dopo, “Che cosa dà l’approccio semiotico?”, Lotman scrive: «Nel corso dei secoli l’aspetto tecnico-scientifico era orientato verso l’idea che il mondo della natura fosse fatto in modo imperfetto, che bisognasse perfezionarlo, che di conseguenza occorresse inventare ciò che in natura non esiste e razionalizzare ciò che esiste in essa. Per la coscienza scientifica contemporanea il mondo della natura si rivela come un meccanismo estremamente complesso e finalizzato, le cui lezioni non possiamo largamente utilizzare solo a causa della nostra impreparazione tecnico-scientifica», J. Lotman, “Che cosa dà l’approccio semiotico?” (Čto daët semiotičeskij podchod?, Moskva 1976), in La semiotica nei Paesi Slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., p. 226.

4 J. Lotman, B. Uspenskij, “Introduzione” a Ricerche semiotiche. Nuove tendenze della scienze umane nell’URSS (Semiotičeskie issledovanija 1973), Einaudi, Torino, 1973, p. XIII.

5 Ritroviamo qui un altro bell’esempio di Lotman: «Nel XIX secolo la letteratura di fantascienza, mentre descriveva nuove scoperte immaginarie, le sottometteva a idee già esistenti nella scienza. [Nel XX secolo] L’attuale letteratura scientifica, invece, è costruita su un principio opposto: stare il più lontano possibile dalle idee scientifiche attuali, poiché quanto meno assomiglia a ciò che sappiamo oggi, tanto più assomiglia alla scienza del futuro», Ivi, pp. XI-XII.

6 Le teorie scientifiche, secondo Popper, sono ipotesi o congetture fallibili, che devono sempre essere sottoposte al processo razionale di falsificazione, e la cui verificazione non può mai essere considerata ultima e definitiva. Kuhn – critico verso il falsificazionismo di Popper – ha messo in risalto l’elemento storico delle teorie scientifiche e con la sua opera rivoluzionaria La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) ha dimostrato che «le osservazioni non sono mai pure; il progresso delle scienze non è mai cumulativo; l’unificazione della scienza è illusoria; la scienza avanzerebbe mediante sconvolgimenti e

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rivoluzioni, passando da un “paradigma” (modo di vedere il mondo) ad un altro». Lakatos, infine, ha proposto una posizione intermedia fra i due, sottolineando la necessità di una scienza in dialogo con la storia e la filosofia, e proponendo una metodologia non “convenzionalista” per i programmi di ricerca scientifica (G. Gismondi, “Epistemologia”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 489).

7 Sempre nell’Introduzione a Ricerche semiotiche, qualche riga prima Lotman sottolinea come lo scienziato del XIX secolo, quale persona capace di penetrare criticamente nella sfera della sfiducia, ossia di demitizzare e distruggere il mistero, applicava automaticamente l’etichetta di “misterioso”, a tutte quelle sfere della coscienza che venivano percepite come non verificabili (dalla coscienza simbolica medievale a quella fabulatoria del mito, dal pensiero “selvaggio” a quello infantile).

8 Ivi, pp. XIII-XIV. 9 Scrive Lotman nelle “Tesi”: «Il meccanismo della cultura è un congegno che

trasforma la sfera esterna in quella interna: la disorganizzazione in organizzazione, i profani in iniziati, i peccatori in giusti, l’entropia in informazione. In forza del fatto che la cultura non vive soltanto grazie all’opposizione tra sfera interna ed esterna, ma anche grazie al passaggio da un ambito all’altro, essa non si limita a lottare con il “caos” esterno, ma allo stesso tempo ne ha bisogno, non solo lo annienta, ma costantemente lo crea», V. Ivanov, J. Lotman, A. Pjatigorskij, V. Toporov, B. Uspenskij, “Tesi per un’analisi semiotica delle culture (in applicazione ai testi slavi)” (Tezisy k semiotičeskomu izučeniju kul’tur v primenenii k slavjanskim tektstam” 1973), in La semiotica dei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., p. 195.

10 Ivi, p. 197. 11 M. Cini, Un paradiso perduto. Dall’universo delle leggi naturali al mondo dei

processi evolutivi, Feltrinelli, Milano, 1999. 12 Vedremo, tra l’altro, come quest’apertura all’idea di “processo” si innesterà

profondamente nella semiotica lotmaniana, facendola diventare un laboratorio dell’imprevedibilità.

13 J. Lotman, B. Uspenskij, “Introduzione” a Ricerche semiotiche. Nuove tendenze della scienze umane nell’URSS, art. cit., p. XVI.

14 Ivi, pp. XVII-XVIII. 15 Ivi, p. XVII.

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16 J. Lotman, “I due modelli della comunicazione nel sistema della cultura” (O

dvuch modeljach kommunikacii v sisteme kul’tury, Tartu, 1973), in Tipologia della cultura, op. cit.

17 Ivi, p. 351. 18 Ivi, p. 353. 19 Ibidem. 20 Ivi, p. 355. 21 Ivi, p. 354. 22 Jakobson fa un bell’esempio a proposito: «A former actor of Stanislanskij’s

Moscow Theater told me how at his audition he was asked by the famous director to make forty different messages from the phrase segodnja večerom (“This evening”), by diversifying its expressive tint. He made a list of some forty emotional situations, then emitted the given phrase in accordance with each of these situations, which his audience had to recognize only from the changes in the sound shape of the same two words», R. Jakobson, “Closing Statement: Linguistic and Poetics”, art. cit., p. 354.

23 Il messaggio qui è ovviamente un concetto complesso che richiama quello di normatività: una cultura che viene recepita come verità è una cultura che si trasmette per mezzo di testi altamente convenzionali, normativi e fortemente corroborati nell’immaginario collettivo dal punto di vista della loro legittimità.

24 J. Lotman, “I due modelli della comunicazione nel sistema della cultura”, art. cit., pp. 113 e 125.

25 Ivi, pp. 113-114. 26 R. Jakobson, “Linguistic in relation to other sciences”, art. cit., p. 663. 27 R. Jakobson, “Language in relation to other communication systems”, art.

cit., pp. 697-698. 28 Ivi, p. 702. 29 A. N. Radiščev, scrittore russo del XVIII secolo. Avendo conosciuto il pensiero

filosofico francese (specialmente Voltaire e Rousseau), nel suo Viaggio da Pietroburgo a Mosca aveva denunciato le condizioni inumane della servitù della gleba, cosa che gli costò l’esilio in Siberia. Lotman dedicò la tesi di laurea proprio al pensiero di Radiščev; di qui capiamo i suoi constanti riferimenti all’ode Alla libertà (contenuta nel Viaggio) ma anche la sua profonda conoscenza dell’Illuminismo russo e della destabilizzante penetrazione del Rousseauismo nella Russia petrina e post-petrina. Ma, più in generale, capiamo l’attenzione di Lotman per l’azione trasformatrice dei

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testi – e, specificatamente, della letteratura – in seno alla cultura, questione, come abbiamo visto, particolarmente pungente per l’epoca sovietica.

30 J. Lotman et al., “Tesi per un’analisi semiotica delle culture (in applicazione ai testi slavi)”, art. cit., p. 210.

31 J. Lotman, “Il tema delle carte e del gioco nella letteratura russa dell’inizio del secolo XIX” (Tema kart i kartočnoj igry v russo literature načala XIX veka, Tartu 1975), in Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, Laterza, Roma-Bari, 1980.

32 Come ha specificato S. Tagliagambe, «l’azione di Pietro il Grande ha costituito un momento di (…) radicale discontinuità e rottura [nella storia della Russia]. Essa ha infatti dato avvio a un grandioso, capillare, esteso e controverso processo di “modernizzazione” forzata, teso a gettare programmaticamente un ponte tra la cultura e la società russe e quelle europee occidentali. Cardine di questo processo fu l’edificazione ex novo di San Pietroburgo, che dal momento stesso della sua fondazione divenne non soltanto una delle due grandi metropoli della Russia, che contendeva il primato politico e culturale a Mosca, ma anche e soprattutto un simbolo, la realizzazione concreta di un sogno, di un progetto, di un’idea quasi ossessiva. Il sogno, il progetto, l’idea ossessiva erano quelli di Pietro I il Grande, il quale diede inizio nel 1703 alla edificazione della nuova città che (…) doveva essere “una finestra sull’Europa” (…), capace di raccogliere e condensare tutti gli stimoli cosmopoliti che potevano affermarsi in seguito all’incremento delle comunicazioni con gli altri Paesi del continente europeo. E in senso figurato, a significare, con la sua stessa nascita, che la storia russa doveva iniziare daccapo, rigenerarsi, staccandosi da tutte le stratificate tradizioni autoctone, accumulate dal narod (popolo) russo e di cui era espressione Mosca la sacra, da sempre simbolo della purezza del sangue e della terra, proprio per il suo essere ubicata e radicata nel cuore profondo della Russia», S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano, 2006, pp. 27-28.

33 J. Lotman, “Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX”, in Ricerche semiotiche. Nuove tendenze della scienze umane nell’URSS, Einaudi, Torino, 1973, p. 51.

34 J. Lotman, “Summary”, in Izbrannye stati. III. Stati po istorii russokoj literatury, Teorija I semiotika drugih iskusstv, Mehanizmy kultury, Melkie zametki, Aleksandra, Tallinn, 1993, p. 485.

35 J. Lotman, “Il tema delle carte e del gioco nella letteratura russa dell’inizio del secolo XIX”, art. cit., p. 160.

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36 Ivi, p. 165. 37 J. Lotman, “Summary”, in Izbrannye stati. III. Stati po istorii russokoj

literatury, Teorija I semiotika drugih iskusstv, Mehanizmy kultury, Melkie zametki, art. cit., p. 486.

38 J. Lotman, “Il decabrista nella vita. Il comportamento quotidiano come categoria storico-psicologica” (“Dekabrist v povsednevnoj žizni. Bytovoe povedenie kak istoriko-psichologičeskaja kategorija”, 1975), in Da Rosseau a Tolstoj. Saggi sulla cultura russa, Il Mulino, Bologna, 1984, poi in F. Sedda (a cura di), Tesi per una semiotica delle culture (con il titolo “Il decabrista nella vita. Il gesto, l’azione, il comportamento come testo”), Meltemi, Roma, 2006. Qui si userà la versione del 2006, quindi pp. 209 e 217.

39 E critica Miceli a proposito dell’onnipotenza programmante della cultura: «di scelte umane, di responsabilità umane, di modi di conoscere il mondo connessi ai fini pratici che possono orientare gli interventi sul mondo operati da gruppi umani ben determinati, di tutto questo rimane una traccia di ben scarso rilievo nella vicenda del meccanismo della cultura», S. Miceli, In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, op. cit., p. 468.

40 J. Lotman, “Il decabrista nella vita. Il comportamento quotidiano come categoria storico-psicologica”, art. cit., p. 186.

41 Ibidem. 42 L’autocomunicazione (non monologica), come abbiamo visto, è tale perché

condizionata dall’intrusione di codici risemantizzanti e da variazioni semiotiche contestuali.

43 J. Lotman, “Un modello dinamico del sistema semiotico” (Dinamičeskaja model’ semiotičeskoj sistemy, Moskva 1974), in Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit., p. 11.

44 Ivi, p. 13. 45 J. Lotman, “L’insieme artistico come spazio quotidiano” (Chudožestvennyj

ansambl’ kak bytovoe prostranstvo 1974), Strumenti critici, 1995, X, 2 (78), pp. 223-242, poi in Il girotondo delle Muse. Saggi sulla semiotica delle arti e della rappresentazione, (a cura di) S. Burini e A. Niero, Moretti&Vitali, Bergamo, 1998 (nel presente lavoro viene usata l’edizione del 1998).

46 Ivi, p. 35, nota 1. 47 Ivi, p. 23. 48 Potremmo ora chiederci come, in seno all’eterogeneità, è rinvenibile

quell’unità che fa parlare di girotondo. Solo un occhio esterno (il culturologo o lo storico dell’arte) può cogliere il sostrato semantico comune: il girotondo non è tanto una percezione dell’occhio del contemporaneo (individuale o

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collettivo) – in caso contrario gli basterebbe un’unica arte per esprimere l’unità espressiva – quanto piuttosto di uno sguardo semiotico in grado di rinvenire alla visione d’insieme (Ivi, p. 26). Allo stesso tempo però, proprio perché uno dei meccanismi semiotici della cultura è la sua auto-definizione, l’occhio contemporaneo può percepire un certo “spirito del tempo” grazie agli elementi normativi che circolano in seno alla cultura (quello che per Lotman è il centro culturale). Scrive il semiologo russo: «naturalmente, la vita culturale di ogni epoca possiede una certa unitarietà, spesso accentuata dall’inserimento, nel tessuto artistico naturale dell’idea che l’epoca ha di se stessa, di autodefinizioni normative», Ivi, pp. 31-32.

49 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 106. 50 J. Lotman, “L’insieme artistico come spazio quotidiano”, art. cit., p. 32. 51 Ivi, p. 26. 52 Scrive Lotman, a proposito dell’intertestualità: «generalizzando, si può

affermare che ogni peculiarità di una lingua artistica viene definita attraverso il suo rapporto con le peculiarità di altre arti in un certo senso equivalenti (l’“equivalenza” in questo caso viene determinata dalla capacità di modellizzare lo stesso oggetto). A questo punto si rivela estremamente importante il problema dell’influenza: il linguaggio pittorico influenza il teatro, il cinema influenza il romanzo, la poesia influenza il cinema», Ivi, p. 32.

53 Come scrive Baudelaire in Invito al viaggio: «(…) tutto parlerebbe /segretamente all'anima / la sua dolce lingua nativa. / Tutto, laggiù, è ordine e beltà / lusso, calma e voluttà»: l’esotismo, ossia la ricerca di luoghi salvifici lontani dalla corruzione positivista, venne visto come un viatico alla degenerazione sociale della classe borghese.

54 Ibridazione, in realtà, spesso visto con gli occhi di un ladrocinio europeo nei confronti di forme espressive “esotiche”, svuotate del loro significato originario.

55 Scrive Lotman: «(…) non tutte le combinazioni di oggetti dello stesso periodo o di periodi diversi sono in grado di entrare in correlazione, di formare un insieme. La combinabilità o incombinabilità di oggetti artistici in determinati insiemi unitari è poco studiata, ma è una questione di estrema importanza. Che cosa succede quando vengono inseriti manufatti artistici cinesi negli insiemi artistici barocchi o opere d’arte dell’Africa nell’ambiente artistico dell’uomo europeo moderno? È evidente che ci troviamo di fronte a testi codificati in modo diverso; nella massa generale della cultura parte di essi è percepita come “altrui”. Tuttavia, tra questi testi “altrui” e il loro contesto

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europeo c’è qualcosa di comune, che permette di “leggere” testi esotici dal punto di vista del contesto europeo e contemporaneamente di trasformare questo contesto osservandolo come dal punto di vista di questi inserti», Ivi, p. 33.

56 Ivi, p. 25. 57 E specifica Lotman: (…) un’opera d’arte, nel contesto del suo insieme

naturale, convive con opere non solo di altri generi ma anche di altre epoche. Qualsiasi intérieur culturale realmente esistente noi scegliessimo, non sarà mai riempito da oggetti e opere sincroniche rispetto al momento della loro creazione. Non solo la cattedrale europea, nella quale di regola sono nettamente visibili i differenti strati culturali (attraverso lo strato barocco traspare la base gotica e talvolta frammenti di Rinascimento o addirittura di stile romantico), ma anche l’intérieur della chiesa ortodossa, che è caratterizzato da una grande unitarietà, riempie il proprio spazio di icone, ricami, gonfaloni e affreschi risalenti a epoche molto diverse», Ivi, p. 26.

58 Eco ha sottolineato che il primo ad aver avanzato la dinamica della traduzione intersemiotica è stata Jakobson, il quale ha dimostrato che «interpretare un’entità semiotica significa “tradurla” in un’altra entità (ma anche un intero discorso) e che questa traduzione è sempre un arricchimento creativo della prima entità»: creatività che potremmo identificare nella “semiosi illimitata” di Peirce. In effetti, ritornando all’immagine del girotondo, è innegabile che questa richiami profondamente l’unitas varietatis del segno della semiotica peirceiana (U. Eco, “The influence of Roman Jakobson on the development of Semiotics”, art. cit., p. 53).

59 Non a caso il titolo del saggio è “L’insieme artistico come spazio quotidiano” (corsivo mio).

60 Scrive Lotman: «Uno dei tratti distintivi fondamentali di ogni cultura è la distinzione dello spazio universale (universum) in: sfera interna (interna alla cultura, “propria” [svoja]) e sfera esterna (esterna alla cultura, “altrui” [čužaja]). Da tempi antichissimi la sfera interna, “della cultura”, veniva identificata con l’ordine, l’organizzazione (cosmica, religiosa, sociale e politica), mentre quella esterna con il mondo del male, della disorganizzazione, del caos, delle forze culturali o politiche nemiche. È naturale che gli “spazi interni” creati dall’uomo – la grotta, la casa, la piazza cittadina o lo spazio della città delimitato da mura, o in generale la terra al di qua “del confine dei possessi aviti” (Puškin) – siano diventati oggetto di

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particolari esperienze intellettuali. Non a caso uno degli dei romani più venerati era Terminus, dio dei confini della terra dei padri, ed è a tutti ben noto, fra gli altri, il ruolo magico e protettivo della soglia di casa nelle credenze di molti popoli» (Ivi, p. 28).

61 Ibidem. 62 J. Lotman, “Che cosa dà l’approccio semiotico?”, art. cit., p. 226. 63 D. Ferrari-Bravo, “Sistemi secondari di modellizzazione”, in Semiotica e

cultura, op. cit., p. XLI. 64 J. Lotman, “Che cosa dà l’approccio semiotico?”, art. cit., p. 227.

L’intelligenza – Lotman l’aveva capito molto presto – è un fenomeno estremamente difficile da riprodurre e la l’analogia meccanico-computazionale (mente = computer) può dar ragione solo di pochissime funzioni e combinazioni. Oggi, scrive Atlan, «si tende sempre di più a ritenere che ciò che accade nel nostro cervello sia, molto più verosimilmente, un trattamento dell’informazione distribuito, parallelo e dotato di taluni caratteri probabilistici, e non già un trattamento determinista e sequenziale come avviene nei programmi dei computer», H. Atlan, “Complessità, disordine e autocreazione del significato”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 149.

65 Fondamentale, come vedremo ora, è stato l’apporto della teoria bachtiniana del romanzo, che – assieme agli studi sull’asimmetria del cervello – aiutò Lotman a capire che «una struttura non è in grado di elaborare nuovi messaggi e (…) si può definire pensante solo un meccanismo che sia almeno bilingue, come [appunto] aveva intuito Bachtin contrapponendo alla verità morta, statica, monosignificante quella estremamente dinamica e ambivalente creata dal plurilinguismo del romanzo e della comicità popolare», S. Salvestroni, “Il pensiero di Lotman e la semiotica sovietica negli anni Settanta”, Saggio introduttivo a J. Lotman, Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit., p. XXIV.

66 E non a caso, come vedremo nella II Parte di questo lavoro, uno dei saggi fondativi della parabola cibernetico-organicista è proprio “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale” (1977).

67 Vygotskij ne fa un’interessante relazione nel saggio “Correnti contemporanee della psicologia” (1932), ove si evince tra l’altro la sua profonda consapevolezza epistemologica rispetto alle scienze sociali (L. S. Vygotskij, “Correnti contemporanee della psicologia”, in La psicologia sovietica 1917 -1936, Editori Riuniti, Roma, 1976).

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68 M. S. Veggetti, “Vygotskij e la psicologia sovietica”, saggio introduttivo a

Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori e altri scritti, Giunti-Barbèra, Firenze, 1974, p. 13.

69 A. N. Leont’ev, “Del metodo storico nello studio dello psichico umano”, cit. da M. S. Veggetti, “Vygotskij e la psicologia sovietica”, saggio introduttivo a Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori e altri scritti, Giunti-Barbèra, Firenze, 1974, p. 22 (corsivo mio).

70 L. Mecacci, Introduzione a La psicologia sovietica 1917 -1936, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 26.

71 La visione cosmica russa contempla «uno spazio integrato e privo di confini», un tutto relazionale che aspira a tornare all’unità (R. Salizzoni, L’idea russa di estetica. Sofia e cosmo nell’arte e nella filosofia, Rosenberg & Sellier, Torino, 1992).

72 A. Mandelker, “Semiotizing the Sphere: Organicist Theory in Lotman, Bakhtin, and Vernadsky”, in PMLA, 109(3), 1994, pp. 385-396.

73 L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Giunti-Barbèra, Firenze, 1966, p. 37. 74 Ivi, p. 179. 75 Ivi, p. 68. 76 Ivi, p. 178. 77 M. M. Bachtin, “L’autore e l’eroe nell’attività estetica”, in L’autore e l’eroe.

Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino, 1988, p. 6. 78 Opera reintitolata Problemy poetiki Dostoevskogo (Problemi della poetica di

Dostoevskij), in edizione italiana M. M. Bachtin, Dostoevski. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino, 1968.

79 In Edizione italiana M. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 1979.

80 In edizione italiana M. M. Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino, 1988.

81 Lo si deduce dal fatto che Lotman parla di quest’opera (senza riferimenti bibliografici) nel saggio del 1981 “Il testo nel testo”, dunque dodici anni prima dell’edizione russa.

82 Si veda, a questo proposito, il recente Baktine, démasqué. Histoire d’un menteur, d’une escroquerie et d’un délire collectif, di J.-P. Bronckart, C. Bota, édito da Droz, Genève, 2011. Si veda inoltre lo studio seminariale di P. Fabbri, I. Pezzini et al., Bachtin, le maschere e le voci, www.paolofabbri.it/corsi/seminario_bachtiniano.html.

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83 M. Holquist, “Michail Bachtin”, in E. Etkind, G. Nivat, I. Serman, V. Strada,

Storia della letteratura russa. III: Il Novecento: 3. Dal realismo socialista ai giorni nostri, Einaudi, Torino, 1991, p. 628.

84 M. M. Bachtin, “Il problema dei generi del discorso”, in L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino, 1988, p. 252.

85 Un discorso che può essere familiare (o quotidiano), militare, pubblicistico, burocratico-amministrativo, scientifico, artistico.

86 Ivi, p. 258. 87 Ibidem. 88 Ivi, p. 262. 89 Ivi, p. 255. 90 Ivi, p. 263. 91 Ivi, p. 277. 92 Ivi, p. 278. 93 Ivi, p. 283. 94 M. M. Bachtin, “L’autore e l’eroe nell’attività estetica”, in L’autore e l’eroe.

Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino, 1988, p. 183. 95 Ivi, p. 6. 96 Ibidem. 97 Ivi, p. 3.

PARTE II

La semiotica della cultura al bivio: cibernetica, organicismo, complessità

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Introduzione

Sull’analogia

E forse le dottrine medievali dell’analogia entis sono state un prologo in cielo della filosofia della scienza contemporanea.1

Nozione metafisica della filosofia aristotelico-tomista, l’analogia si configura come il corrispondente logico dell’ordine ontologico della realtà, secondo il principio di uni-molteplicità dell’essere per cui l'essere, ciò che è in ogni cosa, è al contempo uno (identico nelle diverse cose) e molteplice (poiché le cose sono comunque molte), quindi analogo; l’analogia

sottolinea l’esistenza di tratti comuni fra tutti gli esseri e i loro elementi. Su di essa si fondano i rapporti, le somiglianze e le

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qualità che la mente umana coglie nelle più diverse realtà ed esprime nei suoi concetti. (…) Pertanto su di essa si fonda quella intelligibilità delle cose che non viene esaurita da un unico modello di conoscenza, ma si svela alle molteplici e autonome forme del sapere.2

Questa uni-molteplicità, costituente il principio logico di somiglianza fra oggetti diversi (per la scienza) o fra enti diversi (per la filosofia), dà luogo a due tipi di analogia, da cui hanno origine due diversi modi di impiegare tale dispositivo nel corso della dimostrazione scientifica e del ragionamento speculativo – si fa qui riferimento alla Scolastica e alla Tarda Scolastica, avendo già spiegato in altra sede (§ 4.3, cap. 1) l’uso nell’analogia nella prima del XX secolo:

Periodo Origine dell’analogia

Tipo di analogia

Somiglianza individuata attraverso

Scolastica o visione

aristotelico-tomista

(XIII secolo)

Analogia metafisica → strumento ermeneutico per la scienza teologica (nel quadro di una filosofia dell’essere)

Analogia di proporzionalità propria (o intrinseca)

Rapporti “equazionali” (o di proporzionalità) fra proprietà La luce della verità illumina la mente3

Analogia di attribuzione (o proporzione semplice)

Rapporti di partecipazione a una proprietà o attributo Tizio è sano, il suo colorito è sano, il cibo è sano, l’aria è sana

Tarda Scolastica (XVI secolo e uso nei

secoli seguenti)

Analogia formale

Rapporto di somiglianza fra le leggi matematiche che descrivono due oggetti

Analogia materiale

Rapporto di somiglianza fra le strutture fisiche che reggono due oggetti

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Viene meno il fondamento ontologico della realtà

Empirismo logico

(XX secolo)

Analogia gnoseologica → strumento euristico per le scienze fenomeniche, naturali e umane (nel quadro di una teoria della scienza)

Iso e omomorfismo

Rapporto di identità o corrispondenza biunivoca fra le leggi matematiche che descrivono due oggetti

Vaga analogia qualitativa

Rapporto di somiglianza fra le strutture fisiche che reggono due oggetti

Tabella 3 – L’analogia nel tempo: funzioni e attributi

Vediamo come l’analogia abbia proprio il ruolo di collegamento, per similitudine o proporzione, fra oggetti/enti diversi della realtà, di modo che questa possa essere conosciuta (e interpretata) nella sua unitaria molteplicità e, dunque, nel suo inesauribile dirsi.

Già pensiero greco pre-aristotelico, di fronte a un universo che pareva avere un proprio ordine (kósmos), aveva ipotizzato che ad esso soggiacessero delle regolarità e dei rapporti misurabili. Da qui, il concetto di logos che, nella sua accezione primaria, significava “rapporto”, “calcolo” e, solo in un secondo momento, diventa “parola”. È infatti il logos (da léghein, raccogliere) che, muovendosi nel molteplice tra le sue contraddizioni e aporie, “raccoglie”, “collega” e “unisce insieme” i vari oggetti del reale, evidenziandone i reciproci legami, al fine di trovare un principio di unità nella compagine della natura e conseguire così la visione e la comprensione dell’intero esistente in un tutto ordinato4. Ma prima ancora che il concetto razionale di logos si manifestasse, le civiltà greca, al suo stato aurorale, aveva immaginato che queste regolarità potessero essere espresse in forma fabulatoria attraverso il mito, quale apertura al reale mediante l’intima comunione e fusione del soggetto con il fuori-di-sé: è in quest’apertura che l’uomo scorge la presenza di un principio universale in grado di accogliere in sé e dar senso ai particolari, unificandoli. Come ha anche sottolineato

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Lotman, il pensiero mitico ha postulato per primo la possibilità di istituire un rapporto di somiglianza fra realtà molto diverse, come avviene, ad esempio, nel momento in cui «il portatore della coscienza arcaica costruisce un modello (…) dove l’universo, la società e il corpo umano sono considerati come mondi isomorfi»5 – termine, questo, adottato nell’accezione precisata al § 4.3, cap. 1.

L’interesse per l’ordine naturale deriva principalmente dal fatto ch’esso sembra far accedere a una sorta di “substrato di legalità” della materia6, che, in qualche modo, serbi un grande valore informativo per l’uomo. Se nelle scienze naturali questo valore si deposita nelle cosiddette “leggi di natura”, nelle scienze umane si rivela senza dubbio nella sua natura simbolica: si pensi all’irriducibile domanda sulla coesistenza dell’uno e dei molti, dell’essere e del divenire, ossia – come abbiamo visto – all’idea che vi sia un principio unificatore al di sotto del molteplice e che esso sia rinvenibile attraverso il riconoscimento dei rapporti di somiglianza fra le cose. È interessante notare come, di nuovo, Lotman, pur se in una prospettiva ovviamente semiotica più che naturalista o filosofica, nelle sue ultime opere parli di un isomorfismo Dio/cosmo/uomo/testi, ossia della possibilità di risalire, attraverso la cultura e i suoi testi, a un ordine cosmico, proprio in virtù del principio analogico7 – si è già cercato di delineare, nell’introduzione a questo lavoro, la Weltanschauung culturale di Lotman, che, non va dimenticato, molto deve alla “visione sintetica e totale” propria del pensiero russo. E, ancora, è interessante sottolineare che una delle immagini più care a Lotman per descrivere la dinamica culturale è proprio quella del logos e, specificatamente, del logos eracliteo, un’intelligenza intuitiva e discorsiva, che rende conto della ricchezza inesauribile del reale e, allo stesso tempo, la raccoglie in sé8: «Congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose»9.

La ricerca di un principio di unitarietà nella molteplicità, ossia di una spiegazione alla coerenza del reale, spinge Goethe a scrivere la sua Teoria della natura, a proposito della quale, come abbiamo visto,

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Cassirer parla di “idealismo morfologico”10 attribuendo ad esso la genesi dello strutturalismo11. Il Goethe naturalista, scrive T. Todorov, «aveva concepito l’idea di una relazione interna tra le diverse specie animali o vegetali che avevano avuto origine grazie a trasformazioni (…) a partire da una protoforma che non era possibile osservare»12. Nella sua morfologia Goethe non fa altro che stabilire fra identità diverse delle relazioni di somiglianza, partendo dall’intuizione metafisica dell’unica matrice.

Parallelamente a Goethe, pur se in modo del tutto autonomo13, nell’ambito delle scienze naturali G. Cuvier postula l’idea di un “punto focale d’identità”14 degli esseri viventi, ribaltando in tal modo l’approccio tassonomico caratteristico dello sguardo scientifico classico. A partire da Cuvier, scrive Foucault in Le parole e le cose (un’opera di ricostruzione epistemologica della scienze umane in Occidente), l’identità viene sì stabilita attraverso un gioco di differenze, ma queste emergono solo sullo sfondo delle grandi unità organiche dotate di loro sistemi interni di dipendenze15 – qui Foucault conferma l’ipotesi di Cassirer a proposito dell’origine (alla lontana) del pensiero strutturalista, al quale avrebbero contribuito, secondo il filosofo francese, tanto l’approccio morfologico di Goethe alla natura quanto la nozione cuvieriana di “mutua dipendenza delle funzioni”16.

Il salto epistemologico dalla tassonomia all’organicità sistemica del vivente è, secondo Foucault, legato imprescindibilmente alla restaurazione dell’analogia aristotelica: questa, infatti, creando ponti fra ordini di realtà diverse17, non seziona la realtà attraverso un criterio tassonomico-descrittivo – dal più semplice e inerte sino al più vivente e complesso18 – ma la coglie nella sua unità e interdipendenza funzionale, oltre che nella sua dinamicità. In corrispondenza della protoforma goethiana, che ha una natura prevalentemente filosofica19, anche in biologia emerge l’esigenza di rinvenire alla struttura invariante delle cose, ossia quell’omogeneità funzionale che segretamente le sostiene; dopo Cuvier, sottolinea Foucault con una bellissima riflessione, «la molteplicità è visibile, l’unità è segreta. (…) le differenze proliferano in

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superficie, mentre in profondità esse svaniscono, si confondono, si legano le une alle altre e si avvicinano alla grande, misteriosa, invisibile unità focale, da cui il molteplice sembra derivare come per un’incessante dispersione»20.

Se dunque l’approccio tassonomico-empirista aveva scelto una via diversa alla comprensione del reale, archiviando in tal modo l’analogia aristotelica, grazie a Cuvier emerge nuovamente con forza il problema dell’uni-molteplicità, in seno però ad un quadro epistemologico lontano dalla spiegazione metafisica e affrancato dal concetto di vitalismo.

Bisogna aspettare gli anni Cinquanta nel Novecento – con i progressi della biologia molecolare (e la scoperta dell’informazione genetica, 1953) congiuntamente alla nascita della cibernetica e della teoria dell’informazione21, e la maturazione del pensiero sistemico (ecologia, scienze della terra, cosmologia, ecc.) – perché si sviluppi un nuovo paradigma del rapporto fra il tutto e le parti e, con esso, si manifesti un doppio sintomo di cambiamento: da un lato il ridimensionamento del concetto di teleologia e la sua progressiva sostituzione con quello di telonomia22 e, dall’altro, il ritorno dell’analogia, quale ponte gnoseologico ed epistemologico fra le discipline scientifiche: sono proprio questi campi del sapere, infatti, che, trattando precipuamente il vivente in quanto sistema organizzato gerarchizzato – la cui unità e stabilità strutturale è dovuta al coordinamento unitario delle parti – iniziano a trovare più fecondo l’approccio analogico (o complesso) che quello formale. Si tratta di una svolta importante, in cui

(…) è all’interno stesso delle teoria scientifiche che sembra prospettarsi la necessità di costruire strutture in cui le corrispondenze non sono più univoche ma analoghe. (…) Questa necessità si presenta là dove le scienze hanno a che fare con delle strutture (…), di qualsiasi natura (biologica, chimica, fisica, informatica, matematica, logica, o altro) che si presentano organizzate secondo livelli gerarchizzati che differiscono tra loro non solo quantitativamente ma qualitativamente, essendo di natura diversa, pur avendo qualcosa di reale in comune. E ciò che è fondamentale è il fatto che si tratta di “una gerarchia di livelli

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caratterizzata da proprietà non riducibili a quelle del livello più elementare” (M. Cini, 1994: 130). È proprio questa irriducibilità che rende qualitativamente diversificati tali livelli. Se infatti uno di questi livelli di organizzazione – chiama molto livello superiore – fosse in qualche modo scomponibile in livelli inferiori, e ricostruibile mediante un’opportuna ricomposizione di questi ultimi, esso non sarebbe qualitativamente diverso, ma una semplice sovrapposizione di livelli di grado più basso. Va sottolineato come questi livelli non siano proprietà assolutamente disparate e non confrontabili tra loro, ma rappresentino dei modi diversi di manifestarsi, di realizzarsi, di una stessa struttura, che viene ad attuarsi, quindi non sempre allo stesso modo (cioè non univocamente), ma secondo modi differenziati e tra loro realmente collegati (cioè analogicamente). Un simile tipo di struttura non viene qualificato dagli scienziati con il termine analoga, quanto piuttosto con quello di complessa.23

Ma all’inizio del 1800 – quando la visione di Cuvier inizia a essere divulgata – e per almeno un secolo e mezzo la scienza del vivente ha ancora un ruolo del tutto marginale nella spiegazione del reale: è la fisica-matematica, in quegli anni, la regina delle scienze e, più in generale, il modello della conoscenza umana.

Dall’universo delle leggi al mondo della complessità: la seconda rivoluzione scientifica e il “risveglio” dell’analogia

La scienza contemporanea è una scienza a un tempo del generale e del particolare, dell’ordine e del disordine, del necessario e del contingente, del ripetibile e dell’irripetibile.24

Nell’ambito delle scienze naturali, i primi due decenni del Novecento vedono la sistematizzazione delle scoperte fisico-matematiche che,

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pochi anni prima, avevano inaugurato la II rivoluzione scientifica: la teoria ondulatoria della luce e le teorie dei campi elettrici e magnetici – poi confluiti nell’elettromagnetismo – la termodinamica d’equilibrio [cf. parte III]25 e la meccanica statistica. Mentre le ultime due si rifanno a uno sfondo teorico fortemente legato al modello meccanico newtoniano (pur con qualche notevole incrinatura), gli studi sulla luce e sui fenomeni elettromagnetici accennano a qualcosa di ancora sfuggente.

In poco tempo le cose cambiano. L’incompatibilità dell’elettromagnetismo con la meccanica statistica trova soluzione nella teoria dei quanti, grazie a M. Planck (1900), e poi nel principio di indeterminazione26 di W. Heisenberg (1927), mentre la sua inconciliabilità con il quadro teorico del relativismo classico (galileiano o meccanico) trova soluzione nella teoria della relatività ristretta (1905) e generale (1916), grazie ad A. Einstein. È interessante notare che, in ambo i casi, non si ha qualcosa di radicalmente nuovo, quanto la scelta di adottare una prospettiva ermeneutica diversa, in grado di riordinare coerentemente il già conosciuto e di individuarne i nessi e il quadro teorico comune.

Anche se questo excursus sembra essere molto lontano dall’argomento che stiamo trattando, in realtà, esso si lega a un orizzonte conoscitivo che ha avuto un riflesso profondo anche nelle scienze umane, pur se da una diversa prospettiva o metodologia. Si pensi, ad esempio, alla rivisitazione di cui sono stati oggetto i concetti di spazio e tempo nella teoria einsteiniana: da meri contenitori distinti e formali (secondo la visione meccanicista), essi sono stati riformulati nei termini di un continuo spazio-temporale quadrimensionale27 che poi, nell’espressione geometrica del matematico russo H. Minkowsky, ha preso il nome di “cronotopo” (1907): idea fondamentale in Lotman e, prima di lui, in Bachtin.

O si pensi, ancora, al concetto di indeterminazione, il quale contempla

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una particella (…) intrinsecamente indeterminata, [che] acquista le sue determinazioni solo quando sottoponiamo ad un atto di misurazione uno dei suoi valori, modificando irrimediabilmente gli altri. Da qui ad affermare che il mondo acquista realtà solo in quanto vi è qualcuno che lo osserva non vi è che un passo, un passo decisivo, che conduce inevitabilmente dalla fisica alla metafisica. È certo, comunque, che, se nella nostra indagine sulla natura vogliamo spingerci fino ad osservare il mondo delle particelle, il suo manifestarsi non può essere separato dal nostro atto di osservazione, e non ha più senso fare appello a una mente superiore [il superosservatore] capace di osservare senza contaminarsi. Sul piano puramente scientifico il principio di indeterminazione sostituisce a leggi deterministiche leggi puramente probabilistiche, non più assunte per le difficoltà tecniche e per la futilità dell’analisi del moto di ciascuna singola molecola, come nella meccanica statistica, ma dettate dalla natura stessa della realtà fisica.28

Capiamo bene come la progressiva “scoperta” dell’uomo al centro della scienza e dei suoi linguaggi apparentemente neutri sia un evento tutt’altro che lontano dall’epistemologia delle humanities le quali, nel frattempo, si trovano a fare ancora i conti con «l’ideale positivista del “massimo di datità”, che esigeva una scienza unificata, quantitativa, matematizzata e assiomatica»29: mentre, cioè, il mondo delle scienze naturali va progressivamente verso una visione più disarticolata e probabilistica di conoscenza, quello delle scienze umane risente fortemente del peso pregiudiziale delle prime.

Almeno fino alla prima metà del XX secolo, il mondo dell’epistemologia è infatti dominato dalla cosiddetta standard view, «quell’insieme di tesi che accomunava le due opposte tendenze nella filosofia della scienza anglosassone»30: una soluzione antitetica ma anche integrata, guidata, da una lato, dall’empirismo logico del Circolo di Vienna e di Berlino e dall’altro, dalla scuola popperiana31. Secondo questa visione, la scienza “dura” e “matura” doveva essere «assunta a modello per il pensiero»32: i suoi attributi e obiettivi – ricalcati, in parte, dalla scuola semiotica di Mosca-Tartu all’atto della sua nascita (1962) –

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la rendevano infatti uno strumento di conoscenza estremamente sicuro. La modellizzazione scientifica, lo sappiamo bene, è oggetto di un acceso dibattito in merito ai suoi requisiti di oggettività e fedeltà al reale e l’analogia è presente solo nella sua forma “autorevole” e formale, di mero isomorfismo. Così S. Cremaschi riassume questa visione33:

Standard view

vi è una netta distinzione fra osservazione e teoria

la crescita della conoscenza è cumulativa

le teorie scientifiche hanno una rigida struttura deduttiva secondo il modello Popper-Hempel (detto anche nomologico-deduttivo, o della covering law) della spiegazione scientifica;

la terminologia scientifica è esatta

l’unità della scienza è un obiettivo che va perseguito programmaticamente

vi è una rigida distinzione fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione: il controllo delle leggi scientifiche può e deve avvenire indipendentemente dal modo in cui si è giunti a formularle

la scienza è atemporale, ossia non in divenire

Intanto però gli effetti delle scoperte d’inizio secolo si fanno sentire. Alla fine degli anni Cinquanta, in ambito epistemologico si ammette

la necessità di una revisione radicale dei presupposti intorno ai quali si definiva e riconosceva la scienza tradizionale. Questo impianto viene scosso alle fondamenta nel 1962, anno dell’uscita de La struttura delle rivoluzioni scientifiche di T. Kuhn – al quale Popper risponderà nel 1963 con Congetture e confutazioni. La crescita della conoscenza scientifica. Ciò che emerge con più evidenza dalla riflessione dell’epistemologo americano è una certa presa di coscienza della natura intrinsecamente multiprospettica e storica della scienza: invece che di un paradigma

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scientifico diventa inevitabile parlare di molti paradigmi scientifici, la cui pluralità scaturisce dal pluralismo linguistico-contestuale entro il quale essi prendono vita. Il ruolo dell’osservatore e della comunità scientifica osservante, in questo senso, sono determinanti poiché, in qualità di soggetto collettivo storicamente localizzato, interpretano la realtà, incorporando in essa (nel lavoro di modellizzazione scientifica) la loro soggettività. Scorgere, ad esempio, una relazione di similarità fra due oggetti implica che il soggetto osservante sia competente (dal punto di vista storico-culturale, semio-linguistico e pragmatico) a selezionare i tratti distintivi che rendono i due oggetti simili sotto qualche aspetto o in funzione di qualche scopo – già la teoria della relatività, invero, aveva posto in rilievo il ruolo determinate del sistema di riferimento (l’osservatore) che non considera mai spazio e tempo come entità assolute e separate ma le esperisce in modo solidale; lo stesso vale, come abbiamo visto, per il principio di indeterminazione, tutto giocato sul ruolo dell’osservatore: più che di un’oggettività si parlerà allora di un’intersoggettività della scienza34. Nel 1989, anche Lotman sottolinea come «il processo di ricerca, per se stesso, deve diventare un soggetto della ricerca (…) [e] il procedimento di analisi, per se stesso, diventare un soggetto dell’analisi scientifica»35: il soggetto conoscente, in altre parole, non può più posizionarsi “al di fuori” del lavoro scientifico ma deve interrogarsi sulla «conoscenza della conoscenza»36 e su come questa può venir influenzata dalla sua soggettività37.

Proprio parlando del rapporto fra ricerca scientifica e soggetto osservante/conoscente nella contemporaneità, M. Ceruti ha precisato che

gli aspetti individuali, idiosincratici, storici in senso ampio, le precondizioni inerenti a ogni punto di vista, i “pre-giudizi” non appaiono come zavorra, come ostacoli da neutralizzare, in vista di una progressiva “purificazione” dell’attività intellettuale, del dispiegamento di un suo presunto nucleo logico, astorico e universale. Questi aspetti, queste precondizioni, queste limitazioni risultano le vere e irriducibili matrici costruttive della

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conoscenza, di ogni cambiamento e di ogni dialogo intersoggettivo.38

Il peso “ingombrante” dell’osservatore in seno alla produzione di teorie denuncia, inoltre, «il realismo ingenuo dell’empirismo logico [che credeva] nella possibilità di riconoscere una volta per tutte un linguaggio osservativo»39 meta, tale da poter descrivere in modo trasparente e non equivoco i fatti e rimanere immune dalle trasformazioni linguistico-culturali. Grazie alla riflessione kuhniana – e complice l’ulteriore denuncia dell’illusorietà e relatività del linguaggio osservativo indipendente da parte di P. Feyerabend40 – si iniziano a riabilitare tutti quegli strumenti cognitivi fino ad allora considerati scialbi linguaggi pre-scientifici e si inizia a formulare una scienza nuova che, dai “cieli” della matematica, si va a ricongiungere con la “terrestrità” del vivente (e, talvolta, con l’“umanesimo” del soggetto). Come ha sottolineato Strumia, la II rivoluzione ha di conseguenza richiesto «una sorta di ampliamento del metodo [della fisica-matematica], una sua dilatazione in senso forte»41 che, in alcuni ambienti scientifici, si è manifestata nel passaggio da una scienza d’indirizzo platonico42 – presente dall’approccio galileiano sino a quello logicista – a una scienza d’indirizzo aristotelico, legata a una nuova epistemologia realistica43 e fondata su:

una razionalità analogica che sembra permettere di sviluppare una matematica ampliata e insieme ad essa anche delle scienze non matematizzate (come forse potrebbe essere, ad esempio, la biologia), conservando l’unità e la comunicazione tra i suoi diversi livelli;

una visione organica non dualistica della realtà [divisa tra mondo fisico e mondo metafisico] che consente un migliore raccordo tra le scienze più diversificate in un’epistemologia basata su livelli differenziati di scienze;

un ruolo rilevante dell’esperienza in tutte le forme della conoscenza, grazie alla teoria dell’astrazione [azione solidale di senso e intelletto], evitando il dualismo nell’origine della conoscenza.44

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In sintesi, la risposta del mondo scientifico al “massimo di datità” è stata una traslazione di prospettiva, che ha visto l’affermarsi di una scienza fondata non solo sulla pluralità di modelli e di metodi di ricerca ma anche sulla riabilitazione dell’analogia per la descrizione di «strutture ignote nella natura»45 (e dunque solo analogicamente congetturabili), o per la comprensione dei diversi livelli di realtà nei quali si può presentare l’oggetto della ricerca scientifica. Va sottolineato che non tutto il panorama scientifico internazionale riscopre e riabilita l’analogia; è certamente il caso dell’ultimo Kuhn46 ma non, ad esempio, di Feyerabend, per il quale il linguaggio scientifico rimane relativo e “anarchico”, o di molti esponenti di un permanente realismo empirico, che tendono a banalizzare il linguaggio non formale.

Ecco come possiamo sintetizzare questo decisivo passaggio47:

Post-Kuhn view

osservazione e teoria sono un atto congiunto e danno luogo a un circolo ermeneutico

la scienza non è cumulativa e procede per Gestalt Switch

una scienza viva non possiede una rigida struttura deduttiva

i concetti scientifici di una scienza viva non sono particolarmente precisi e possono far uso di metafore, analogie e altri tropi

l’unità della scienza non è un ideale realizzabile e desiderabile

il contesto della giustificazione non può venire separato dal contesto della scoperta

la scienza è nel tempo

Un’altra conseguenza particolarmente importante della II rivoluzione

scientifica – e molto legata alla riabilitazione del pensiero analogico – è una certa rivalutazione dell’intuizione48 e, al contempo, un

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ridimensionamento dell’assoluta coerenza e non-contraddittorietà della logica, che si rivela non esente dalle antinomie, dalle fallace e dai paradossi intrinseci al ragionamento umano49. Con l’analogia, in particolare, emerge chiaramente che il pensiero è un processo cognitivo complesso, e mutilarlo per difendere i principi logici d’identità e differenza rischia di irrigidire e frenare la conoscenza più che espanderla.

È ciò di cui si rende conto anche la cibernetica, scienza “multipla” che, dalla seconda metà degli anni Quaranta, va parallelamente corroborando la crisi della standard view e il formalismo spinto che l’aveva caratterizzata50. La sua alleanza con le scienze biologiche e, in particolare, gli studi sul funzionamento cognitivo e neurofisiologico del vivente alla luce della teoria dell’informazione – sempre in rapporto al funzionamento delle macchine – la portano a profilarsi come un pensiero complesso, promotore di una scienza unificata del vivente e del non vivente: una scienza cioè trasversale che, invece di compartimentare i saperi e di eleggerne uno (quello fisico-matematico), tende a metterli in solidale tensione51.

Questo spostamento di visione è legato a tre considerazioni fondamentali:

1. il sistema di osservazione ha delle dirette ripercussioni sulla definizione di “settore disciplinare” e di “oggetto della ricerca scientifica”, con tutto l’universo discorsivo e categoriale che ne segue: prenderne coscienza significa avanzare una «esplicitazione tecnica dell’inesauribile circolarità costruttiva fra osservatore e sistema osservato»52;

2. la revisione di tale definizione pone in evidenza la stretta solidarietà fra gli oggetti dello scibile e fa emergere la struttura fondamentalmente complessa, sistemica e interdipendente di tutto ciò che è presente in natura, compreso l’uomo: osservatore e osservato, parte cioè delle sue stesse descrizioni; la rilevanza di quest’ultima considerazione è dimostrata dal fatto che «gli spostamenti dei punti di vista e degli osservatori provocano (…)

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una ristrutturazione dei tipi di sistemi, dei tipi di dinamiche, delle natura delle interazioni in considerazione. Questo significa il riconoscimento dell’irriducibile pluralità dei punti di vista nella definizione e nella costruzione di un sistema, il riconoscimento dell’irriducibile molteplicità dei sistemi, il riconoscimento del fatto che ogni sistema è un vero e proprio plurisistema»53;

3. il tutto assume un’importanza via via maggiore rispetto alla dimensione “sintattica” delle parti, che vanno sempre contemplate alla luce del sistema di interdipendenze che le in-forma.

In definitiva, sottolineano Bocchi e Ceruti, la scoperta della complessità rimanda «al problema di come si sia determinata l’identificazione della conoscenza con il “tipo di formazione disciplinare inventato per le cosiddette scienze ‘dure’ nel corso del XX secolo”. E rimanda proprio a quegli sviluppi successivi delle scienze fisiche, biologiche e sistemiche che hanno posto in questione la legittimità di tale identificazione»54. Con la progressiva integrazione dei punti di vista – requisito che ha appunto caratterizzato la ricerca cibernetica – il mondo scientifico si è man mano reso conto che era arrivato il momento di fare kuhnianamente uno switch, ossia di sostituire l’universo deterministico, predicibile, reversibile del Positivismo (vecchio e nuovo) con un universo più “disarticolato” e probabilistico, non riducibile al concetto di “legge”. Questo è legato anche al fatto che, nell’ambito della biogeochimica, si è andata affermando progressivamente un’interpretazione storica del vivente e dell’inerte – antitetica all’idea di reversibilità, tipica della visione meccanicista – che ha dato ragione di una scienza nel tempo.

Questa, in altre parole, per rendere conto della novità di certi fenomeni e delle loro proprietà (olismo, finalità e autorganizzazione, auto-riproduzione, eterogeneità, discontinuità, imprevedibilità, non linearità) – fenomeni indefinibili all’infuori un’epistemologia dei sistemi viventi – si è orientato sempre più verso l’idea di “processo”, superando in parte quella di “legge di natura”, secondo le corrispondenze

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legge : previsione = processo : probabilità previsione : certezza = probabilità : indeterminazione

Sebbene infatti riesca a esprimere, attraverso il formalismo logico-

matematico, le ricorrenze di natura, la legge non è in grado di dimostrare quelle eccedenze e discontinuità che sono però costitutive della quasi totalità dei fenomeni naturali e che esprimono la reale dimensione spazio-temporale del vivente55.

Questo switch ha comportato, tra l’altro, una progressiva convergenza (e valorizzazione) del bio nelle scienze “dure”, andando alla lunga a scalzare la supremazia della fisica-matematica in seno all’arena delle scienze – e non c’è da stupirsi se buona parte delle scienze umane e sociali userà l’analogia biologica per spiegare fenomeni complessi come la stratificazione sociale, l’emersione e la dinamica dei processi culturali, i movimenti ideologico-politici.

L’incontro tra la cibernetica e la biologia, ossia tra la teoria dell’informazione e il codice genetico: passaggio alla complessità

Noi, figli dell'universo, polvere di stelle animata (…).56

Avevamo visto che, con il concetto cuvieriano di mutua dipendenza delle funzioni, l’organismo inizia ad essere studiato come una totalità chiaramente non riducibile alla somma delle sue componenti.

Un passaggio particolarmente delicato e cruciale per giungere al concetto di “complessità” nelle scienza contemporanea è legato all’incontro fra la cibernetica e la biologia molecolare, il cui termine viene coniato nel 1938 (quindici anni prima della scoperta del DNA) da uno dei più importanti esponenti della scienza del kybernetes, lo statunitense Warren Weawer – autore, nel 1947, di un articolo in certo modo profetico: “Scienza e complessità”57. Questo incontro avviene

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negli anni Sessanta. Fino a quel momento la biologia aveva fatto molta difficoltà a spiegare il comportamento del vivente in termini di finalità, senza fare appello «all’esistenza o all’azione di fluidi o di forse vitali peculiari e misteriose»58, o ancora, più semplicemente, all’intenzione cosciente di un meta-intelletto: per evitare il concetto di teleologia i biologi iniziano dunque ad usare quello di teleonomia59 (C. Pittendrigh, 1958; J. Monod, 1970). L’indirizzo ingegneristico della cibernetica, alla luce della teoria dell’informazione (§ 1, cap. 3), implementa proprio in quegli anni delle macchine particolarmente intelligenti – i calcolatori – che, attraverso un processamento logico-matematico dei dati, sono in grado di fare delle previsioni (output) in via deduttiva sul comportamento dei sistemi gerarchici di dati/relazioni in input e di spiegarne la dinamica coesiva e finalizzata tra il tutto e le parti. Quest’architettura computazionale è ciò che permette alla biologia di trattare il vivente come una macchina. Come ha luminosamente spiegato H. Atlan,

il computer programmato costitutiva un modello perfetto di macchina finalizzata non cosciente e non intenzionale che realizza un compito in maniera perfettamente deterministica e che consente dunque una previsione perfetta. D’altra parte la struttura molecolare del DNA e delle proteine poteva essere analizzata nei termini di un messaggio codificato, e i meccanismi di replica del DNA e della sintesi delle proteine erano trattati come casi particolari di trasmissione dell’informazione lungo canali di comunicazione, applicando direttamente la teoria dell’informazione che si era andata sviluppando nel frattempo, e dunque nello stesso contesto della computer science alle sue origini. (…) La struttura molecolare degli organismi viventi consentiva di mettere in evidenza meccanismi finalizzati, non coscienti e non intenzionali, del medesimo tipo dei meccanismi che si stava iniziando a conoscere in quelle macchine finalizzate, non coscienti e non intenzionali che sono i computer. (…) Dato che la natura molecolare di questi geni non è nient’altro che la natura dei vari DNA, e dato che i geni possono essere intesi come messaggi codificati inscritti in un alfabeto chimico le cui lettere sono date da particolari molecole, veniva gettato un ponte fra la

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struttura molecolare degli organismi da un lato e i computer programmati dall’altro. È in questo modo che la nozione di programma genetico – che è il risultato congiunto proprio dell’ibridazione fra genetica biochimica e computer science – si trovò a rispondere perfettamente alle esigenze della biologia, che dunque credette di trovare in tale nozione lo strumento chiave per sbarazzarsi completamente di ogni residuo di vitalismo finalista. (…) in assenza della teoria dell’informazione e delle macchine programmate non si sarebbe potuto parlare di informazione, e nemmeno di programma genetico.60

Il concetto di programma genetico, facendo emergere l’importanza del ruolo giocato dall’informazione nel mantenimento e nella trasmissione della vita, pone in rilievo anche la stretta connessione tra identità e trasformazione, ordine ed evoluzione, memoria e replica: proprietà tipiche dei sistemi complessi, che devono la loro “stabilità evolutiva” proprio all’organizzazione gerarchica dei livelli di informazione.

È dunque in questi anni che si può iniziare a parlare di complessità e ad attribuirla a quei sistemi organizzati su più livelli gerarchizzati, ove i livelli superiori si presentano come qualitativamente e irriducibilmente diversi rispetto a quelli inferiori. Questa differenza qualitativa, precisa Strumia, è legata al fatto che l’informazione si inserisce a diversi livelli di organizzazione della materia e determina in ciascuno di essi caratteri e proprietà che si diversificano qualitativamente – e non solo per aggiunte quantitative – divenendo in questo modo irriducibili l’uno all’altro61. Dicendo che il tutto è più della somma delle sue parti si afferma sostanzialmente che il tutto possiede informazioni nuove (rispetto a quelle contenute nelle parti) che lo caratterizzano come insieme e come identità; l’informazione si presenta dunque nel suo significato più profondo: dà forma62, ordine, coordinamento, direzionalità. Allo stesso tempo, si afferma che il tutto ha la capacità di replicarsi nelle sue parti, di modo che le parti si possono dire in rapporto di analogia con il tutto e, dunque, contenere l’identità dell’insieme. La suddivisione del tutto nei sistemi complessi, infatti,

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continua Strumia, non porta nessuna semplificazione o riduzione: è un po’ come quanto accade ad una calamita che, divisa in parti, non risulta semplificata nella sua struttura, ma dà luogo a due nuove calamite simili a quella originaria. Queste parti non sono necessariamente identiche ma possiedono delle somiglianze che consentono di applicare al tutto e alle parti la stessa definizione.

È qui che ritroviamo la spiegazione del perché nella scienza contemporanea l’analogia aristotelico-tomista, in stretto rapporto con l’informazione, torni ad avere un ruolo centrale nella spiegazione del rapporto unità-molteplicità: essa non rende solo più ragione delle grandi unità organiche che connettono realtà anche molto diverse – come riportava Foucault nell’esempio del “respirare in genere” (le branchie sono, per la respirazione nell’acqua ciò che i polmoni sono per la respirazione nell’aria) – ma risolve in generale l’unità strutturale dei sistemi complessi, che spaziano dall’ambito biologico a quello sociale. È qui che ritroviamo, inoltre, la spiegazione del perché il riduzionismo metodologico, per preservare la sua legittimità euristica, non debba scadere in un riduzionismo concettuale, tale da creare una corrispondenza fra il “tutto” e la somma della parti – cosa che, come abbiamo visto nella I Parte di questo lavoro63, lo strutturalismo ha talvolta fatto .

Vediamo ora come questo quadro così complesso si declini nell’opera lotmaniana. L’uso “esterno” e l’uso “interno” dell’analogia in Lotman: vari modelli di cultura

Il bisogno di analogia, come afferma J. Parain-Vial64, insieme a quello di logica e di intelligibilità, caratterizza l’uomo e ben si esplica nella continua ricerca, in ambito scientifico, di modelli che possano, sotto certi aspetti, portare alla luce alcune proprietà del reale, ossia esserne un analogo.

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Quando Lotman, sin dai primi saggi, crea un’equivalenza fra cultura e informazione, egli non fa altro che trattare la cultura come un analogo del sistema complesso, descrivendo così la sua dinamica e la sua organizzazione nei termini di una struttura cibernetico-genetica. Questo ci suggerisce, in certo modo, l’uso che egli fa dell’analogia (come d’altronde la biologia molecolare aveva fatto con la cibernetica): in questa equivalenza è implicito il presupposto teorico e metodologico che, fra modelli cibernetici e modelli semiotici, si possano istituire analogie tali per cui, conosciuta la struttura di relazioni e proprietà dei primi, si possa descrivere per somiglianza la struttura dei secondi, pur nella diversa natura degli oggetti (sono le cosiddette analogie materiali). A questo proposito, bisogna fare una distinzione fra uso “esterno” – quello che abbiamo appena visto – e uso “interno” dell’analogia in Lotman: nel primo caso il semiologo russo usa l’analogia in qualità di strumento euristico, atto a far dialogare la semiotica con l’esterno, ossia con le altre scienze, e a evincere modelli che, attraverso analogie materiali, possano rivelare alcune proprietà della cultura, come avviene appunto con il confronto epistemologico cibernetica-semiotica. Nel secondo caso, egli usa l’analogia in qualità di strumento gnoseologico atto a spiegare il meccanismo semiotico della cultura, ossia la sua dinamica interna. Le due sono fortemente interrelate.

Vediamo ora come.

1977-1983

Semiotica e cibernetica. Il sistema super-complesso

La cibernetica, come abbiamo in parte visto e vedremo (cap. I § 1.3.2; cap. III § 1), nasce nel cuore della Seconda Guerra mondiale e si profila come una risposta tecno-operativa alle esigenze logistiche imposte dal conflitto: con questo, infatti, i processi di coordinamento e, dunque, di input-feedback tra macchine e uomini iniziano a contemplare un tempo di risposta coincidente con l’istantaneità65.

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L’informazione, ossia la capacità di governo o pilotaggio dei sistemi (“cibernetica” dal greco kybernetiké techne, arte di pilotare), viene così ad assumere un ruolo di capitale importanza, tanto di diventare uno dei più importanti oggetti di studio del dopoguerra, a partire da Wiener – il quale sistematizza teoreticamente il concetto di “cibernetica” proprio dopo aver lavorato negli anni Quaranta a progetti di sistemi difensivi66: l’informazione, a prescindere dall’oggetto cui fa riferimento, diventa sinonimo di ordine e organizzazione fra le parti, in opposizione all’entropia che sembra regnare nel mondo fisico, biologico e sociale – è qui che si innesta la non-distinzione fra meccanico e umano tipica di questa scienza. Come ha sottolineato C. Lafontaine (riprendendo il sociologo Philippe Breton), la cibernetica wienerista finisce in questo modo per elevare l’entropia al rango di verità metafisica. Sulla scia della guerra, questa viene assimilata al caos, alla disinformazione e alla disorganizzazione mentre l’informazione inizia a essere vista come un principio ontologico di riequilibrio (negentropia), capace di combattere temporaneamente questa forza che scatena l’apatia e la distruzione67.

Si inizia inoltre a parlare di “sistemi complessi” – sia nell’ambito delle scienze naturali (il sistema nervoso, l’ecosistema, ecc.) sia nell’ambito delle scienze umane (il sistema sociale, quello economico, ecc.) – per spiegare quelle strutture la cui organizzazione si lega imprescindibilmente alla distribuzione coordinata di informazione. Il peso di questa nella sopravvivenza dei sistemi complessi porta poi alla luce tre questioni fondamentali: I. come può un sistema mantenere la propria identità e, al contempo, trasformarsi?; II. come può un sistema conservare il proprio equilibrio in condizioni di crescente entropia?; III. come può un sistema generare nuova informazione pur conservando il suo deposito informativo?

Queste questioni, come vedremo ora, vanno a toccare anche la semiotica lotmaniana, la quale, intorno alla fine degli Settanta, per spiegare la cultura nei termini di un sistema complesso, si trova a fare i conti con la concezione cibernetica di informazione.

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Quando Lotman, sin dai primi saggi, definisce la cultura come «l’insieme dell’informazione non ereditaria accumulata, conservata e trasmessa dalle varie collettività della società umana»68, sta attribuendo agli oggetti culturali una funzione propriamente cibernetica: per Lotman essi «intervengono come mezzo per conservare e trasmettere informazione» di modo che fra cultura e informazione si crea, in sostanza, un’equivalenza69. Un ruolo essenziale, sempre secondo Lotman, è giocato dall’insieme gerarchico di codici che, in virtù della loro capacità strutturante, informano gli oggetti culturali dandone una determinata identità tipologica. Ne discende un’idea di cultura ove il sistema dei codici, e la lingua in primis, da un lato assicura l’unità del tutto – funzione omeostatica – e, dall’altro, la varietà interna; scrive Lotman nel 1971: «[il meccanismo del sistema culturale] (…) rivela determinate funzioni omeostatiche in misura tale da permettere la conservazione dell’unità della memoria e la possibilità di rimanere se stessi e, dall’altro, si rinnova costantemente deautomatizzandosi in tutti i suoi elementi e innalzando di conseguenza al massimo grado le sue capacità di assorbire informazione»70. Qui non abbiamo ancora una vera e propria traduzione del modello cibernetico in termini semiotici ma si fa strada l’idea che nella cultura si possa configurare come un’unità organica il cui dinamismo interno si rifà a un gioco di codici acculanti storicamente – tant’è che l’equivalenza cultura-informazione si traduce nell’equivalenza informazione-memoria.

In un saggio di qualche anno dopo, “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale” (1977), Lotman opera una reale “traslazione” dei meccanismi cibernetici dei sistemi complessi alla cultura, ritrovando in essa quegli attributi (di natura semiotica) che la rendono una totalità chiaramente non riducibile alla somma delle sue componenti, ove il tutto si replica nelle parti – vedremo nel capitolo 3 che cosa significhi creare un’equivalenza tra il l’ordine sociale (la cultura), l’ordine biologico (l’intelletto) e l’ordine meccanico (il sistema cibernetico). Egli stesso pone a premessa e suggerimento dell’equivalenza cultura-intelletto collettivo quella proprietà tipica dei

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sistemi complessi che è il mantenimento dell’omeostasi in condizioni di crescente entropia e la somiglianza fra la struttura del tutto e la struttura delle parti; scrive Lotman: «la comparsa delle comunicazioni semiotiche è stata (…) un gigantesco passo avanti per la stabilità e la sopravvivenza dell’umanità come insieme. Per rendersene conto bisogna fare attenzione ad una proprietà che appare come legge immutabile nei sistemi supercomplessi di tipo cibernetico: la stabilità dell’insieme cresce con l’aumentare della varietà interna del sistema»71; in termini semiotici questo si traduce nell’emersione di un meccanismo, interno ad ogni cultura, che funge da principio d’identità (coesione del tutto e rispecchiamento del tutto nelle parti): «il meccanismo della cultura ristabilisce l’unità fra le parti che tendono all’autonomia e diventa la lingua nella quale si realizzano le relazioni interne alla cultura. Esso facilita la ricostruzione dei singoli nodi strutturali attraverso la loro unificazione. È grazie a questo che si crea l’isomorfismo fra l’insieme della cultura e le sue parti»72. Questa riflessione ci viene confermata da E. Morin (uno dei massimi teorici della complessità) per il quale un sistema organizzato sull’unitas multiplex, è

qualcosa di più e qualcosa di meno di quella che potrebbe venir definita come la somma delle sue parti. In che senso è qualcosa di meno? Nel senso che l’organizzazione impone dei vincoli che inibiscono talune potenzialità che si trovano nelle varie parti. E questo accade in tutte le organizzazioni, comprese le organizzazioni sociali nelle quali i vincoli giuridici, politici, militari, economici e di altro genere fanno sì che siano inibite o represse molte delle nostre potenzialità. Ma nel contempo il tutto organizzato è qualcosa di più della somma delle parti, perché fa emergere qualità che senza una tale organizzazione non esisterebbero. Sono qualità “emergenti”, nel senso che sono constatabili empiricamente ma non sono deducibili logicamente. Tali qualità emergenti esercitano delle retroazioni sul livello delle parti, e possono stimolare quest’ultime a esprimere le loro potenzialità. Così vediamo bene in che modo la cultura, il linguaggio, l’educazione – tutte proprietà che possono esistere soltanto al livello della totalità sociale – retroagiscono sulle parti

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per consentire lo sviluppo della mente e dell’intelligenza degli individui.73

Possiamo intuire che queste proprietà, come ci ha illustrato pocanzi il bell’esempio della calamita, hanno un valore eccezionale per la spiegazione della dinamica culturale. Affermare infatti che fra la cultura e le sue parti, ossia gli oggetti culturali (anche se poi Lotman parlerà di testi), vi sia un rapporto di isomorfismo e di retroazione significa, in effetti, sostenere che l’accesso ai testi – nei quali l’identità-una si replica – possa portare alla comprensione della cultura nel suo insieme, purché ovviamente il movimento uno-molti sia sempre dialogico: la cultura alla luce dei testi, i testi alla luce della cultura, pena la semplificazione e la riduzione del tutto alle sue componenti. Non a caso Lotman, in un saggio di molti anni dopo, “La semiosfera” (1984), riprenderà un’immagine simile a quella della calamita per spiegare la dinamica culturale: «come un volto, che si riflette in uno specchio, si riflette anche in qualunque suo frammento, che appare così una parte dello specchio e nello stesso tempo simile ad esso, nel meccanismo semiotico il singolo testo è per certi aspetti isomorfo al mondo testuale. (…) Come un oggetto che si riflette in uno specchio produce nei frammenti di questo centinaia di immagini, l’informazione introdotta nella struttura semiotica viene riprodotta più e più volte ai livelli più bassi. Il sistema è in grado di trasformare il testo in una valanga si testi.»74

L’analogia cibernetica ci suggerisce dunque un’altra proprietà fondamentale della cultura: come avviene nei sistemi complessi, in cui si manifesta una somiglianza fra le parti e non un’identità di struttura, così nella cultura gli oggetti culturali sono legati fra loro da un rapporto di analogia con il tutto (la cultura) e presentano, al contempo, caratteristiche proprie: vi è cioè sempre un margine di irriducibilità e di dissomiglianza fra gli oggetti culturali (ossia lo scarto semantico), la cui continua ibridazione – essendo oggetti-in-relazione – permette alla sistema-cultura di crescere esponenzialmente (più volte, come abbiamo visto e vedremo, Lotman usa la metafora del logos eracliteo che cresce su se stesso per sintetizzarne la dinamica). Abbiamo così scoperto l’uso

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“interno” dell’analogia nella semiotica lotmaniana: uno strumento gnoseologico atto a spiegare la semiosi della cultura. Il principio di somiglianza si manifesta dunque sia fra modelli appartenenti a ordini di realtà diverse (semiotica, cibernetica, biologia) sia all’interno della medesimo ordine. Ecco perché Lotman propone di passare da una semiotica fondata sul concetto di “sistema di segni” a una fondata sul concetto di “modello”, quale dispositivo euristico decisamente più malleabile – ossia meno piegato sulla contingenza – e più vicino al segno iconico (per sua natura fondato sulla somiglianza).

L’uso “interno” dell’analogia ci porta ad un’altra importante riflessione. Con esso scopriamo che il meccanismo semiotico della cultura non ha solo una funzione ordinatrice, “informatrice”, che caratterizza come insieme l’eterogeneità culturale: in questo caso non si spiegherebbe – come avviene anche in ambito biologico con il concetto di informazione genetica – il modo attraverso cui il sistema mantiene sì la propria identità e unità funzionale ma, allo stesso tempo, si trasforma e si accresce; proprio in virtù del rapporto di somiglianza e di scarto semantico fra le sue componenti, il meccanismo semiotico della cultura è anche un’ intelligenza creatrice di pensiero, e non a caso Lotman, dopo la cibernetica, si ispirerà alla dinamica del cervello umano per cercar di capire come, appurata la capacità omeostatica del sistema-cultura, si possa parlare di “nuova informazione”.

Semiotica e cervello. L’organizzazione pensante

Ma da dove viene il concetto di “analogia” nella semiotica lotmaniana? Abbiamo detto all’inizio che Lotman ne dà una specificazione nel saggio “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’” (1967), quando parla del modello quale strumento gnoseologico atto a rendere plasticamente il pensiero e, dunque, a restituire iconicamente il reale. Non a caso Lotman, in questo saggio, sta analizzando precise forme dell’attività segnica umana (fra le quali l’arte) che, pur nella loro irriducibilità, sembrano avere qualcosa in

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comune nella loro capacità modellizzante e di resa del reale. L’analogia, infatti, nella semiotica lotmaniana, si lega strettamente a quelle funzioni dell’attività intellettiva umana che si realizzano sotto forma di strutture analogiche: il mito, l’arte, il gioco e in certo modo la stessa scienza, (quando si profila come attività creativa). Ce ne dà conferma un saggio di qualche dopo, che finora abbiamo volutamente lasciato da parte: “Mito – Nome – Cultura” (1973), ove il semiologo russo sottolinea come già la coscienza arcaica, nell’esprimersi attraverso il metaforismo mitologico, metteva a frutto la sua «capacità di istituire identificazioni, analogie ed equivalenze» – come l’isomorfismo universo / società / corpo umano; capacità che, continua Lotman, non solo si sono sedimentate nel linguaggio umano ma hanno costituito una base gnoseologica fondamentale anche per il pensiero moderno (logico-sillogistico) e, in primis, per la scienza (la matematica in particolare75). Tra l’altro qui ritorniamo a quella promessa di puntualizzazione accennata al § 4.2.1 a proposito delle regole di analogia: «affinché, scrive Lotman, i risultati [dell’attività modellizzante] possano essere percepiti come l’analogo dell’oggetto, essi debbono sottostare a precise regole di analogia formulate su base intuitiva o razionale»76: la diversa presa del pensiero sulla realtà (pensiero come intelletto e pensiero come ragione) restituisce la realtà medesima facendola conoscere attraverso i suoi oggetti, colti e come oggetti-noetici e come oggetti-analitici. L’analogia deve sottostare a precise regole di natura intuitiva o razionale proprio perché l’emersione e il riconoscimento dei rapporti di proporzionalità o somiglianza fra oggetti di natura diversa avviene attraverso due differenti modi di esplicazione del pensiero (noetico o intuitivo e logico-analitico).

Ai fini del nostro discorso sull’uso “interno” ed “esterno” dell’analogia abbiamo qui un doppio fondamentale passaggio. La coesistenza dell’uno e dei molti, ossia della cultura come identità-una e dell’eterogeneità delle sue componenti, inizia essere visto come un problema di coesistenza di linguaggi. Ecco che allora

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l’analogia “esterna” porta Lotman a rifarsi ai modelli emergenti, in ambito biologico, sul funzionamento dell’attività cerebrale umana – modelli che si pongono in continuità con la cibernetica, la quale, volendo elaborare schemi di comportamento meccanico sulla falsariga dei processi cognitivi (la cosiddetta Intelligenza Artificiale)77, ha dovuto adottare un ragionamento as if;

l’analogia “interna” lo porta a trovare i punti di contatto fra il linguaggio intuitivo e quello logico-analitico78.

È lui stesso a sottolineare che «(…) la visione del mondo continua e la sua modellizzazione verbale discreta hanno un enorme valore culturale-intellettuale. (…) Nell’ultimo periodo, continua Lotman, si è fatto il tentativo di mettere in rapporto la coscienza continua – (non discreta) – con l’attività dell’emisfero destro e quella verbale discreta con l’attività dell’emisfero sinistro»79: la sedimentazione della coscienza non discreta nell’uomo moderno e la sua convivenza con quella discreta (logico-analitica) si sposa analogicamente con la dinamica degli emisferi80. Se, con la cibernetica, l’analogia si collegava al problema dell’equilibrio fra ordine e caos, stabilità e accrescimento, ora si collega a quello della traduzione interlinguistica e intercerebrale – meccanismo, questo, che assicura l’emersione di sempre nuova informazione in seno alla cultura: vedremo dunque nel capitolo 3 come il sistema super-complesso e l’ organizzazione pensante si incrocino in modo tutto personale nella semiotica lotmaniana.

Prima di passare all’esplicazione del capitolo 4, vorrei ancora fare una precisazione sull’uso dell’analogia in questo frangente.

Se, da un lato, il progressivo avvicinamento di Lotman alla biologia lo porta ad adottare con più vigore la similitudine organicistica per definire la cultura, dall’altro, lo spinge a riflettere ripetutamente sul valore epistemologico dell’analogia, nelle sue luci e nelle sue ombre – e questo, come vedremo, si lega ad una crescente preoccupazione di Lotman per il rapporto delle scienze umano-sociali con quelle naturali e, più in generale, sul ruolo della scienza nella cultura contemporanea. Lo vediamo, ad esempio, nelle premesse ai vari modelli culturali desunti da

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teorie di matrice biologica. In un saggio del 1983, “L’asimmetria e il dialogo”, Lotman scrive:

(…) il metodo del pensiero scientifico, che è in grado di rivelare aspetti profondi e altrimenti inaccessibili dei fenomeni, è analogico. L’analogia però può diventare anche una fonte di errori e di conclusioni affrettate, se non si procede con cautela. Questo è proprio il caso delle analogie fra le nuove scoperte nel campo dell’asimmetria del cervello e l’asimmetria semiotica della cultura, in particolare per quanto riguarda il tentativo di attribuire le funzioni complesse della cultura all’emisfero sinistro o al destro. (…) concetti come “emisfericità destra” e “emisfericità sinistra” si possono usare per i fenomeni della cultura solo per richiamare l’attenzione su un’analogia funzionale conosciuta ad un altro livello strutturale. La cautela nell’uso di questa analogia non diminuisce, ma accresce tuttavia il suo significato. Resta il fatto più importante: la convinzione cioè che ogni costruzione intellettuale debba avere una struttura bi o polipolare e che le funzioni di queste sottostrutture siano analoghe ai diversi livelli: a partire dal singolo testo e dalla coscienza individuale per arrivare fino alle culture nazionali e a tutta la cultura dell’umanità.81

Questa densissima riflessione di Lotman ci suggerisce alcune importanti aspetti del suo metodo scientifico e dell’idea di cultura che sta prendendo forma. Prima di tutto, con il concetto di analogia funzionale, viene fuori la coscienza profonda, che Lotman ha, del dibattito metodologico manifestatosi in ambito umanistico specie nella seconda metà di Novecento, ossia della necessità di un dialogo profondo con le scienze naturali: dialogo irrealizzabile attraverso un mero prestito teorico ma potenzialmente fecondo grazie all’uso “responsabile” dell’analogia, quale ponte epistemologico fra le varie scienze. Di qui la cautela di Lotman ad avvicinare due sistemi di ordine diverso, il cervello e la cultura e la sua attenzione a lavorare ad un livello elevato di astrazione, di modo che l’una non si pieghi sull’altro.

Un altro aspetto che affiora – con l’articolazione gerarchica per strutture-sottostrutture analogicamente collegate fra loro sullo sfondo

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di quella grande unità organica che è «la cultura dell’umanità» – è il progressivo accentuarsi, nella semiotica della cultura, delle proprietà tipiche dei sistemi complessi: questo porterà a un passaggio fondamentale ove la cultura andrà a coincidere con la cosiddetta “semiosfera”, sancendo definitivamente la flessione organicista della semiotica della cultura. Sempre nel 1983, nel saggio “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (dal punto di vista semiotico)”, Lotman scrive: «La tendenza verso una crescente autonomia degli elementi, e verso una loro trasformazione in unità indipendenti e quella verso una loro crescente integrazione e trasformazione in parti di un intero si escludono e si sottendono a vicenda, generando un paradosso strutturale. Il risultato è la creazione di un’unica struttura, nella quale ogni parte è nello stesso tempo un tutto e ogni tutto funziona come parte»82.

1984-1993

Semiotica e biologia. La semiosfera

L’opera e l’evoluzione intellettuale di Lotman non solo si inseriscono in una tradizione culturale ricca e, per certi versi, unica – quella leningradese, caratterizzata dalla presenza di pensatori eclettici come N. Bugaev, P. Florenskij, A. Belyj, L. Vygotskij, M. Bachtin – ma si incuneano in un orizzonte epistemologico estremamente travagliato che, come abbiamo sottolineato pocanzi, ha visto in Occidente il passaggio da una visione “monoculare” di scienza (meccanicista e determinista) ad una complessa e multiprospettica. Questo è particolarmente evidente negli anni Ottanta, quando il dialogo di Lotman con le scienze naturali si fa più intenso, abbracciando in tal mondo l’inquietudine che gravava sulle istanze teoriche facenti capo al “pensiero complesso” d’area sovietica.

Nella sfera d’influenza di questa scienza in transizione rientrano in particolare due pensatori russi alle cui idee Lotman, sempre attraverso l’analogia “esterna”, attinge con vigore: il biologo e geochimico V.

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Vernadskij e il chimico-fisico I. Prigogine. Il contributo del primo alla moderna biologia, come sottolinea S. Salvestroni, è consistito in un rovesciamento della prospettiva tradizionale, che ha portato a concentrare l’attenzione non sui “singoli mattoni” che costituiscono il vivente, ma sulla rete di relazioni biologiche e intellettuali che informano la realtà (la cosiddetta “biosfera”): in questa prospettiva, l’evoluzione del pianeta è vista come un unico processo cosmico, geologico, biologico ed antropologico83. Il contributo invece di Prigogine, con i suoi studi sulla termodinamica dei fenomeni irreversibili, è stato quello di dare un forte impulso al passaggio da una scienza fondata sull’idea di cosmo, sorretto da leggi immutabili e ordinanti, a una fondata sull’idea di processo evolutivo, che implica una visione di realtà decisamente più legata all’imprevedibilità e alla creatività. Entrambi, inoltre, sono promotori «di una nuova scienza della physis, scienza unitaria del non vivente e del vivente», una scienza in cui «la fisica raggiunge problemi classicamente ritenuti esclusivi della biologia, e viceversa la vita non si trova più al margine della fisica»84.

La ricezione di questo quadro concettuale è stata fondamentale per la realizzazione di quel salto teorico e metodologico che ha preso forma in Lotman in una vera e propria culturologia85, dilatando la matrice struttural-formalista della “prima” semiotica tartuense a un approccio dialogico interdisciplinare di analisi della cultura86.

Come ha precipuamente riassunto V. E. Alexandrov,

la consacrazione di Lotman allo scientismo – a una cultura umanistica impregnata sull’idea di oggettività, ma temperata dalla consapevolezza degli inevitabili ghiribizzi dell’esperienza umana – rimase una costante per tutta la sua lunga e illustre carriera. Ciò che cambiò fu il tipo di scienza sulla quale egli si basò. In alcuni suoi primi scritti, si servì di concetti tratti dalla fisica e dalla matematica, sperimentati con formule algebriche di “entropia testuale”, e vagliati attraverso l’applicazione della cibernetica alla teoria letteraria. Egli successivamente abbandonò queste scienze “dure”, e, come mostra il saggio della semiosfera, passò a determinate branche della biologia e della geologia,

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scienze che egli reputò più appropriate alla culturologia perché più “soft” e più integrative rispetto a quelle analitiche, ossia fisico-matematiche.87

L’orientamento verso i sistemi supercomplessi di tipo cibernetico e verso i modelli ispirati al concetto struttura-organismo trasformano dunque la cultura lotmaniana in un oggetto di studio quanto mai complesso, che va ad abbracciare porzioni sempre più ampie di realtà, ossia a tradurre in linguaggio semiotico i fenomeni più eterogenei.

Tuttavia nella Prefazione a Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, un’antologia edita in Italia nel 1979, Lotman già scriveva: «l’inserimento del testo [che Lotman definisce eterogeneo in virtù de continuo processo di traduzione] nel sistema della cultura non deve (…) essere associato alla vicinanza statica di particolari meccanismi e ricorda invece qualcosa di ancora più dinamico, interrelato e non soggetto a determinazioni univoche di quanto non lo sia il tessuto di un organismo vivo. Così, come tutto l’insieme degli esseri biologici costituisce la biosfera del nostro pianeta, che è la condizione necessaria per l’esistenza della vita, la sfera globale della cultura è la condizione necessaria per l’esistenza del pensiero. L’attività intellettuale è infatti possibile solo se esiste un rapporto reciproco fra la coscienza individuale e i diversi contesti semiotico-culturali»88. Si fa strada un’idea di cultura come di un vivo tessuto brulicante di testi, mai finiti in se stessi, sempre rivolti a quell’identità-una, la cultura appunto, che è al contempo specchio dell’identità individuale e dell’identità collettiva – una cultura, dunque, che si profila sempre più come un’organizzazione ricorsiva89.

Ci soffermeremo nel capitolo 4 sul contributo del concetto di biosfera vernadskijano a quello di semiosfera, ma ai fini del nostro discorso è bene evidenziare come l’analogia sia stata in questo frangente uno strumento euristico davvero fecondo, che ha fatto fare a Lotman un’operazione simile a quella di Cuvier: individuare una sorta di “punto focale di identità” delle culture, non partendo dai singoli

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mattoni ma andando a coglierlo nell’unità delle sue relazioni analogiche.

L’influenza di Prigogine su Lotman sarà invece affrontata nel capitolo 5 (attraverso un taglio più tematico che cronologico), a cui sarà dedicata una presentazione a parte (cf. parte III).

1 S. Cremaschi, “Metafore, modelli, linguaggio scientifico: il dibattito postempirista”, art. cit., p. 53.

2 G. Gismondi, “Epistemologia”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press – Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 494. A. Olmi ne dà parimenti la seguente definizione: «Nella filosofia realista (facente riferimento al pensiero di Aristotele e di Tommaso d’Aquino), l’analogia si presenta come il riflesso logico dell’ordine ontologico: che permette di salvaguardare la ricchezza e la molteplicità del reale, estendendo la conoscenza ad ambiti assai lontani tra loro per quella legge di proporzionalità gerarchicamente ordinata che costituisce la struttura dell’essere. Il fondamento metafisico dell’analogia consiste nel fatto che certe perfezioni delle cose, pur essendo le stesse, sono possedute in modo differente da soggetti distinti: un diverso modo di essere determina un diverso modo di significare. Le nozioni analogiche esprimono dunque la medesima perfezione realizzata in modi diversi nei diversi soggetti e nei distinti settori della realtà. Nella prospettiva metafisica l’analogia richiede due condizioni ontologiche: in primo luogo, una pluralità reale di esseri, e dunque una diversità essenziale tra di essi; in secondo luogo, all’interno di questa molteplicità e di questa diversità, una certa unità», Olmi A., “L’analogia come concetto analogico”, in Scienza, analogia e astrazione. Tommaso d’Aquino e le scienze della complessità, Il Poligrafo, Padova, 1999, pp. 75-76.

3 Il vedere sta all’occhio come il capire sta alla mente (A. Strumia, “Alla ricerca di una teoria dell’analogia e dell’astrazione”, in Scienza, analogia, astrazione. Tommaso d’Aquino e le scienze della complessità, Il Poligrafo, Padova, 1999, p. 28).

4 A. Pelli, “Verità e dialogo: dimensione relazionale e comunitaria del conoscere”, appunti del corso.

5 J. Lotman, “Mito – Nome – Cultura” (Mif – Imja – Kul’tura, Tartu 1973), in Semiotica e cultura, op. cit., p. 130.

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6 G. Tanzella-Nitti, “Leggi naturali”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A.

Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, pp. 783-784 e 786-788.

7 Quest’affascinate ipotesi trova tra l’altro riscontro nell’ambito delle scienze naturali (in particolare in cosmologia), ove l’intelligibilità delle leggi di natura – ossia dell’informazione che sembra emergere dalle costanti di natura – ha fatto parlare di un “codice cosmico”.

8 Come ha ben sottolineato A. Pelli, il logos eracliteo è in realtà un termine polisemico: è “ciò che è comune” (fr. 2); il fuoco (fr. 30); la guerra (fr. 53); l’armonia (fr. 51 e 54); Dio (fr. 67 e 102); il nous e la phronesis, ossia l’intelligenza (fr. 2 e 114); la sapienza (fr. 50); il rapporto (fr. 31); la lezione (fr. 1); il discorso (fr. 108); la parola (fr. 87); la buona fama e la reputazione (fr. 39). Tuttavia, tutti questi, sono modi diversi di esprimere appunto quella realtà che “raccoglie insieme”. Infatti, “ciò che è comune” – ed è questo l’attributo essenziale e quasi costitutivo del logos – non significa “generale”, ma ciò che raccoglie in sé tutte le cose e le tiene insieme. Nonostante queste molteplici valenze del logos, l’analisi strutturale dei frammenti ove questo termine compare, consente di scorgere un’unità focale di senso che sembra strettamente legata alla phronesis. Logos e phronesis designano a un tempo il linguaggio e l’intelligenza del mondo, e si incaricano di raccogliere “la totalità delle cose” dicendo e pensando l’unità di esse. Pertanto il logos eracliteo rappresenta un’intelligenza-che-parla e che è, al tempo stesso, intuitiva e discorsiva (A. Pelli, “Verità e dialogo: dimensione relazionale e comunitaria del conoscere”, appunti del corso).

9 Diels-Kranz, fram. 10. 10 Termine che Cassirer mutua dal biologo E. Rádl. 11 Cf. § 1.1.1. 12 Goethe, continua Todorov, esprime queste idee in due celebri poemi, “La

metamorfosi degli animali” (Die Metamorphose der Tiere), e “La Metamorfosi delle piante” (Versuch die Metamorphose der Pflanzen zu erklären) oltre che in una serie di note pubbliche in modo autonomo soltanto nel 1926 (Le opere di Goethe sulla morfologia). Il libro suscita un grande successo in Germania, e certo non sfugge all’attenzione del germanista Propp. Infatti, come ci dice Propp alla fine della sua vita, è proprio nelle epigrafi tratte da questa serie di scritti di Goethe, e messe in apertura dei vari capitoli della “Morfologia della fiaba”, che si esprime la filosofia sottesa alla sua opera, T. Todorov, “Vladimir Propp”, op. cit. p. 636.

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13 A proposito del rapporto fra la prospettiva goethiana e quella di Cuvier cf. §

1.1.1. 14 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit.,

p. 290. 15 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit.,

p. 162. 16 Un’eco ulteriore di questa ipotesi ci arriva da R. Boudon, il quale, pur non

facendo specificatamente riferimento a Cuvier, attribuisce alla biologia la nascita dell’idea di interdipendenza delle funzioni – fondamentale per lo strutturalismo – ossia di legge di solidarietà dell’organismo. Con il modello meccanicistico proprio della scienza classica, sottolinea Boudon, «un gran numero di oggetti vennero (…) esclusi dalla trattazione scientifica. Per esempio, non si vedeva in che modo analizzare i fenomeni di equilibrio o di raggiungimento dell’equilibrio osservabili in sistemi come i mercati, gli organismi, le personalità, senza ricorrere a quelle spiegazioni teleologiche che la fisica galileiana (…) aveva bandite»; bisogna aspettare la scoperta di metodi che permettano di analizzare i sistemi proprio in quanto sistemi, ossia strutture sorrette da una finalità che, in virtù dell’interdipendenza degli elementi, non è più esplicativa (vale a dire teleologica e, dunque, metafisica) ma esplicata», R. Boudon, Strutturalismo e scienze umane, Einaudi, Torino, 1970, pp. 28-29.

17 «le branchie sono, per la respirazione nell’acqua ciò che i polmoni sono per la respirazione nell’aria», M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit., p. 287.

18 Ivi, p. 290. 19 Il concetto goethiano di Urphänomenon è stato fondamentale per la filosofia

del simbolo di P. Florenskij. 20 Ivi, pp. 290-291. 21 Nella sua ricostruzione epistemologica sull’intreccio tra biologia e

cibernetica, H. Hatlan ha spiegato che «negli anni Sessanta si sono prodotti contemporaneamente grandi risultati in due discipline che apparentemente non avevano molto a che fare l’una con l’altra: la biologia molecolare, e le scienze e le tecniche del computer [frutto della cibernetica di von Neumann, di matrice ingegneristico-computazionale, cf. § 1, cap. 3]. A partire dal quel momento le due discipline, pur così differenti, hanno spesso trovato una reciproca fonte di ispirazione, ogni volta i contesti differenti e riguardo a problemi differenti. Si è avuta una specie di andirivieni dalla scienza delle macchine alla biologia e, viceversa, dalla biologia alla scienze delle macchine,

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andirivieni che confermava l’intuizione di Wiener quando chiamò “cibernetica” la scienza dell’organizzazione, che era contemporaneamente una scienze delle macchine e degli esseri viventi», H. Atlan, “Complessità, disordine e autocreazione del significato”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 135.

22 Come visto con Boudon, con la nascita della razionalità scientifica si iniziò a cercare una spiegazione non di ordine teleologico a certe proprietà dei sistemi complessi. È sempre il filosofo francese a puntualizzare che, ancora nel XIX secolo, il grosso problema nello studio degli esseri viventi era legato alla difficoltà di staccarsi dall’idea di causa finale: non si capiva, cioè, come spiegare i meccanismi attraverso cui l’organismo realizza il suo equilibrio senza ricorrere a principi di ordine teleologico – dando, in questo modo, una struttura metafisica alla spiegazione biologica. Bisogna attendere il XX secolo per assistere alla creazione di strumenti che permettano di analizzare in modo scientifico le finalità cui sembrano obbedire gli esseri viventi: dapprima la teoria dell’omeostasi, poi strumenti matematici nuovi, come la cibernetica, che permisero di esprimere i fenomeni della regolazione e dell’equilibrio, tipici dei sistemi viventi (R. Boudon, Strutturalismo e scienze umane, op. cit., pp. 28-29). A seguito di questi studi, intorno agli anni Cinquanta il concetto di teleologia viene sostituito con quello di teleonomia, che implica una visione di finalità «senza coscienza e senza intenzione» e che sa spiegare, allo stesso tempo, il comportamento di quei sistemi viventi evidentemente finalizzati, suscettibili dunque di una previsione deterministica (H. Atlan, “Complessità, disordine e autocreazione del significato”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 135-137).

23 A. Strumia, “Alla ricerca di una teoria dell’analogia e dell’astrazione”, in Scienza, analogia, astrazione. Tommaso d’Aquino e le scienze della complessità, Il Poligrafo, Padova, 1999, p. 34.

24 M. Ceruti, “La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti, La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 6.

25 Come si vedrà nella III Parte di questo lavoro, I. Prigogine ha sottolineato come l’insuperata inconciliabilità tra la meccanica statistica e il II principio della termodinamica dal punto di vista della fenomenologia del tempo irreversibile è stata uno dei cardini dell’appendice della II rivoluzione scientifica, dopo gli anni Cinquanta.

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26 Principio di indeterminazione della posizione o della quantità di moto

particellare. 27 La teoria della relatività ha richiesto «l’abbandono della (…) concezione

[classica] dello spazio e del tempo fondata sull’idea di un continuo spaziale fluente attraverso un continuo temporale, e [ha condotto] coerentemente all’assunzione di un continuo spazio-temporale, in cui distanze e intervalli temporali variano al mutare del sistema di riferimento e insieme variano, ovviamente tutte le altre grandezze a quelle connesse (velocità, accelerazione, massa). Il tempo diviene pertanto una quarta dimensione omogenea alle tre dimensioni spaziali (…) [ed è] relativo all’osservatore, non meno dello spazio», N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Vol. III. Ottocento e Novecento, Paravia, Torino, 1992, pp. 427-428.

28 Ivi, p. 432. 29 G. Gismondi, “Epistemologia”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A.

Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 488.

30 S. Cremaschi, “Metafore, modelli, linguaggio scientifico: il dibattito postempirista”, art. cit., p. 52.

31 Secondo Abbagnano e Fornero, «(…) è possibile dire che la rivoluzione epistemologica di Popper rappresenti il riflesso, in filosofia, della rivoluzione scientifica compiuta da Einstein in fisica. In altre parole, Popper sta ad Einstein, come Kant sta a Newton. Infatti, come il kantismo risulta comprensibile solo grazie a un preliminare riferimento a Newton, così il popperismo risulta comprensibile solo grazie a un riferimento di base ad Einstein», N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Vol. III. Ottocento e Novecento, Paravia, Torino, 1992, p. 614.

32 S. Cremaschi, “Metafore, modelli, linguaggio scientifico: il dibattito postempirista”, art. cit., pp. 52-53.

33 Ivi, p. 52. 34 «Dentro la scienza si è ripetuta sostanzialmente la stessa vicenda [che era

accaduta alla filosofia post-kantiana, cf. § 1.1.2, cap. 1]: da Galilei all’Ottocento, la scienza ha ritenuto di essere un discorso oggettivo in senso forte, di essere la chiave di lettura della realtà. Dopo la crisi della fisica, prodottasi tra la fine del XIX secolo e l’inizio del Novecento, però nessuno scienziato si è più sentito il coraggio di dire che la scienza conosce l’autentica struttura del reale, stanti le smentite che avevano subito concetti e principi tanto illustri e universali. Ci si è accontentati allora di dire: la scienza è oggettiva in senso intersoggettivo», E. Agazzi, “Analogicità del concetto di

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scienza. Il problema del rigore e dell’oggettività nelle scienze umane”, in Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 70.

35 Y. Lotman, “Culture as a subject and an object in itself” (Kultura kak subekt i sama-sebe obekt, Tartu 1989), Trames, 1(51/46), 1, p. 8.

36 Ibidem. 37 Lotman ha in mente la tradizione scientifica russa ove, ad esempio, la cultura

è «considerata come una sorta di oggetto posto all’infuori del ricercatore. Questo oggetto si trova a un certo stadio di sviluppo, che è regolare, progressivamente diretto all’evoluzione. Il ricercatore rimane fuori dall’oggetto. L’atto di cognizione è considerato come uno scoprimento delle regolarità (le strutture) nascoste nell’oggetto (la cultura). Il ricercatore, provvisto di logica, rimane nella posizione della verità. I “fattori soggettivi” sono considerati come molteplici deviazioni dalla verità, derivanti da tendenze a-scientifiche: parzialità, ignoranza, o semplicemente disonestà», Ivi, p. 7.

38 M. Ceruti, “La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti, La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 8.

39 S. Cremaschi, “Metafore, modelli, linguaggio scientifico: il dibattito postempirista”, art. cit., p. 43.

40 Come sottolineato anche da G. Bocchi e M. Ceruti, «la filosofia della scienza postpopperiana – basti pensare all’opera di Paul K. Feyerabend – [ha] dimostrato in maniera persuasiva che la razionalità scientifica non può prescindere dai contesti storici e sociali di cui fa parte e dalle strategie dei vari attori in gioco; molto spesso chi persegue un obiettivo di ampia portata considera perfettamente razionale non tener conto, più o meno transitoriamente, di quei criteri di falsificazione o di corroborazione empirica (…) che pure altri amano assumere come pietra di paragone della razionalità tout court», G. Bocchi e M. Ceruti, “Introduzione: La sfida della complessità nell’età globale”, La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, p. VIII.

41 A. Strumia, “Alla ricerca di una teoria dell’analogia e dell’astrazione”, in Scienza, analogia, astrazione. Tommaso d’Aquino e le scienze della complessità, Il Poligrafo, Padova, 1999, p. 21.

42 La scienza d’indirizzo platonico, precisa Strumia (A. Strumia, “Alla ricerca di una teoria dell’analogia e dell’astrazione”, in Scienza, analogia, astrazione. Tommaso d’Aquino e le scienze della complessità, Il Poligrafo, Padova, 1999, p. 22), è fondata su:

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la totale ipostatizzazione dell’idea che, nel caso delle scienze, è quella

matematica; la netta separazione tra i due mondi fisico e metafisico; di qui, il dualismo radicale che comporta la dissociazione tra la

razionalità scientifica e quella filosofico-metafisica, che inevitabilmente finisce per collocare nell’irrazionalità quest’ultima;

l’univocità della descrizione scientifica della realtà che ne consegue e che comporta un approccio ultimamente riduzionistico e quindi non risolutivo delle questioni nuove che oggi si aprono.

43 Questa posizione è ripresa da V. Possenti, il quale propone l’approfondimento di un’epistemologia ancorata su una nuova filosofia dell’essere – che molto deve al contributo di J. Maritain – basata «su concetti primi quali quelli di totalità organica e strutturata, intero, parte, relazione, persona, comunità, e concepisce la realtà (…) come un tutto strutturato qualitativamente e scaglionato su diversi gradi, nel quale la parte è unita alla parte a formare l’intero attraverso l’essenziale categoria della relazione nella distinzione. Attraverso il metodo della distinzione nella relazione essa affronta il grande problema dei rapporti parte-tutto, affermando l’impossibilità di conoscere le parti prescindendo dal tutto e la impossibilità di conoscere il tutto prescindendo dalle parti, in ragione della intrinseca relazione tra il tutto e le parti (…). Il programma del distinguere per unire rappresenta l’essenza stessa dell’epistemologia della filosofia dell’essere, che trova nell’universalità trascendente e analogica dell’atto di esistere il suo fondamento ultimo più profondo, e che muove a riconoscere gradi del sapere specificatamente e gerarchicamente distinti, che non possono sostituirsi l’uno all’altro. L’epistemologia della filosofia dell’essere vuole condurre ad un sapere assicurato sull’intero, ma strutturato in gradi distinti, e quindi ad un sapere né atomistico, né totalitario, ma unitario-pluralistico, che sostanzi e concreti i molteplici modi con cui lo spirito umano intenziona l’essere», V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 21.

44 Ivi, p. 23. 45 M. Hesse, Science and the Human Imagination (1954:145), cit. da Cremaschi,

“Metafore, modelli, linguaggio scientifico: il dibattito postempirista”, art. cit., p. 66.

46 «La formazione di un lessico – che (…) è un momento preliminare alla costruzione di qualsivoglia teoria – è un momento attraverso il quale passa il rapporto fra teoria e realtà, consistente in un’opera di raggruppamento di

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elementi della realtà sotto categorie diverse. Questo raggruppamento avviene in base al riconoscimento/costruzione di relazioni di similarità e dissimilarità o di analogia fra gli elementi raggruppati. Con la formazione di un lessico impariamo a riconoscere relazioni di similarità/dissimilarità, e quindi non le creiamo arbitrariamente, ma impariamo piuttosto a riconoscerle come un parlante apprende il lessico di una comunità di parlanti. (…) Per Kuhn (…) si deve sempre pensare a un soggetto conoscente che fa parte di una comunità linguistica piuttosto che a un soggetto isolato. È in questo modo che la similarità o l’analogia (…) possono sfuggire alla cattiva antinomia fra arbitrarietà e oggettivismo. Va notato a questo proposito che la formazione di diversi raggruppamenti possibili implica la scelta di enfatizzare o di cancellare date caratteristiche dei singoli casi, isolando solo quelle che sono rilevanti ai fini della categorizzazione condivisa», pp. 86- 87.

47 Si faccia riferimento a S. Cremaschi, “Metafore, modelli, linguaggio scientifico: il dibattito postempirista”, art. cit., p. 52.

48 L’intuizionismo matematico ha preso vita all’inizio del Novecento in netta contrapposizione alla logicismo (G. Frege, B. Russell e A. N. Whitehead, D. Hilbert) e alla funzione realistica (platonica) e fondazionale che era stata attribuita da questa corrente alla logica e al linguaggio.

49 Ridimensionamento inaugurato nel 1931 con l’articolo di K. Gödel Su proposizioni formalmente indicibili dei Principia Mathematica e sistemi affini, il quale – riferendosi all’opera di B. Russell e A. N. Whitehead – pone in evidenza i limiti del pensiero logico-matematico e l’insostenibilità di un sistema assiomatico completo e non-contradditorio.

50 Tra il 1947 e il 1952, dalla ceneri della II seconda mondiale, vengono pubblicati i testi fondativi della cibernetica e, in particolare, quelli di W. Weaver, C. Shannon, R. Ashby, L. von Bertalanffy, J. von Neumann. F. Varela ne dà, di seguito, una felice ricostruzione storica: «La prima pietra [della nuova scienza del pilotaggio] venne posta in una data abbastanza precisa, nel marzo del 1946. Fu in occasione del primo incontro di quelle che in seguito furono conosciute come le Macy Conferences sulla cibernetica. Questi incontri, [che continuarono per più di dieci anni], radunavano il fior fiore dell’intellighenzia del dopoguerra, tutti coloro che tendevano ad avere in comune un terreno problematico inerente a quegli argomenti che oggi definiremmo come modelli della conoscenza, computazioni biologiche, pensiero sistemico, epistemologia sperimentale, e che allora costituivano un insieme unico, vasto e indifferenziato. Fu un momento particolarmente entusiasmante per tutti coloro che vi parteciparono, paragonabile forse

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soltanto all’eccitazione che si produsse nel processo di consolidamento della meccanica quantistica, nei primi anni del secolo. E a mio parere ebbe, a lungo andare, un impatto analogo sulla scienza e sulla società», F. Varela, “Complessità del cervello e autonomia del vivente”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 117.

51 Questo cambiamento di prospettiva a messo in risalto la miopia con cui, da sempre, il mondo della scienza ha guardato l’universo delle humanities. Scrive Morin a proposito: «Per lungo tempo molti hanno creduto – e molti forse credono ancor oggi – che la carenza della scienza umane e sociali stesse nella loro incapacità di liberarsi dall’apparente complessità dei fenomeni umani, per elevarsi alla dignità delle scienze naturali, scienze che stabilivano leggi semplici, principi semplici, e facevano regnare l’ordine del determinismo. Oggi vediamo che le scienze biologiche e fisiche sono caratterizzate da una crisi della spiegazione semplice. E di conseguenza quelli che sembravano essere i residui non scientifici delle scienze umane – l’incertezza, il disordine, la contraddizione, la pluralità, la complicazione, ecc. – fanno oggi parte della problematica di fondo della conoscenza scientifica. (…) Nell’universo delle cose semplici è necessario “che una porta sia o aperta o chiusa”, mentre nell’universo complesso è necessario che un sistema autonomo sia nel contempo aperto e chiuso. Per essere autonomi bisogna essere dipendenti», E. Morin, “Le vie della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pp. 25 e 30.

52 M. Ceruti, “La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti, La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 8.

53 Ibidem. 54 I. Stengers, “Perché non può esserci un paradigma della complessità” (2007),

cit. in G. Bocchi e M. Ceruti, “Presentazione” de La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. XXIV. Secondo la precipua ricostruzione proposta da Bocchi e Ceruti, «la storia della complessità si radica in modo più preciso nei problemi che – dagli anni Quaranta – hanno definito progressivamente gli universi di discorso delle scienze cognitive, delle scienze evolutive, della scienza della physis, del pensiero sistemico, dell’epistemologia sperimentale. Questi problemi furono formulati nell’immediato dopoguerra grazie a pensatori e a scienziati di differenti estrazioni disciplinari che ebbero a incontrarsi anche in seguito agli

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eventi tragici che sconvolsero il mondo. Da questi incontri nacque e si sviluppò anzitutto il pensiero cibernetico, la prima impresa scientifica esplicitamente transdisciplinare che – come ha testimoniato Robert Wiener – mise a confronto e fece interagire neurofisiologi e matematici, studiosi di balistica, economisti, antropologici», G. Bocchi e M. Ceruti, “Presentazione” de La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. XXIV.

55 «Le leggi non ci dicono nulla quanto all’effettivo decorso spazio-temporale dei fenomeni. Esprimono piuttosto gli insiemi delle possibilità entro i quali, di volta in volta, hanno luogo i processi effettivi. Il decorso degli eventi non è mai dato in anticipo. Le leggi sono simili alle regole di un gioco che stabiliscono un universo di discorso, una gamma di possibilità in cui si ritagliano gli effettivi decorsi spazio-temporali, dovuti in parte al caso e in parte alle abilità o alle deficienze dei giocatori (cioè alle caratteristiche specifiche dei sistemi in interazione, ad esempio l’organismo e l’ambiente», M. Ceruti, “La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti, La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 6.

56 P. Davies, La mente di Dio, Milano 1993, p. 288. 57 W. Weawer, “Science and Complexity”, in American Scientist, 36, 1948, pp.

536-544. 58 H. Atlan, “Complessità, disordine e autocreazione del significato”, in G.

Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 135.

59 “Teleonomia”, dal greco télos (τέλος) fine, scopo; e il suffisso nomia (da νόμος): governo, amministrazione ordinata.

60 Ivi, pp. 137-138. 61 A. Strumia, “Materia”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia,

Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 855. 62 Tra l’altro, sottolinea G. Del Re, non è un caso che stia ricomparendo, nel

linguaggio dei biologi e degli matematici, lo schema aristotelico della teoria ilemorfica, attraverso un avvicinamento del concetto di “informazione” a quello di “forma sostanziale”, ossia il principio che rende “uno” il tutto e che imprime alla materia un’identità (identità come permanere dell’ente al di là del cambiamento dei costituenti materiali), Ivi, p. 851. Si veda anche G. Del Re, “Complessità”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 259-265.

63 Cf. § 1.1.1.

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64 J. Parain-Vial, Analyses structurales et idéologies structuralistes, Privat,

Toulouse, 1969, p. 205. 65 Un esempio di sperimentazione meccanica in tempo di guerra fu, come

sottolinea P. A. Rossi, il dispositivo di puntamento automatico antiaereo (P. A. Rossi (a cura di), Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978, p. 25).

66 Durante la seconda guerra mondiale Wiener lavorò con W.Bush sul calcolo automatico, con J. Bigelow sui sistemi di previsione di rotta e di puntamento automatico, con Shannon e von Neumann sulla progettazione di reti elettriche e di sistemi di telecomunicazioni (P. A. Rossi (a cura di), Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978).

67 Céline Lafontaine “The Cybernetic Matrix of ‘French Theory’”, Theory, Culture & Society, SAGE (Los Angeles, London, New Delhi and Singapore), 2007, Vol. 24(5): 27-46, p. 31.

68 J. Lotman, “Il problema di una tipologia della cultura”, art. cit., p. 309. 69 «È (…) essenziale, ai fini della nostra ricerca, sottolineare il principio secondo

il quale la cultura è informazione», Ibidem. 70 J. Lotman, “Sul meccanismo semiotico della cultura”, art. cit., p. 90. 71 J. Lotman, “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza

artificiale” (Kul’tura kak kollektivnyj intellekt i problemy iskusstvennogo razuma (Predvaritel’naja publikacija), Moskva 1977), in Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit., p. 38.

72 Ivi, p. 40. Ritengo che qui, come in altri saggi, Lotman attribuisca all’isomorfismo il significato di somiglianza, analogia. In matematica, infatti, l’isomorfismo implica una corrispondenza biunivoca fra gli elementi di insiemi distinti, tale per cui non vi è un rapporto di proporzionalità propria, ossia di somiglianza di rapporti, ma una vera e propria uguaglianza. Riferito alla cultura, l’isomorfismo così inteso creerebbe una situazione di identità fra testi e dunque il presupposto per l’implosione semantica: la forza della cultura, sottolinea infatti Lotman, sta proprio nella sua unità differenziale e relazionale, ove i testi, proprio perché diversi e al contempo sovrainformati dall’identità culturale, possono dare vita a sempre nuove istanze di senso.

73 E. Morin, “Le vie della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 27.

74 J. Lotman, “La semiosfera” (O semisfere, Tartu 1984), in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia, 1985, p. 66.

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75 Scrive Lotman in un saggio del 1981, “Letteratura e mitologia”: «Proprio dalla

coscienza [mitologica] sono state elaborate le idee di iso- ed altri morfismi, che hanno svolto un ruolo decisivo nello sviluppo della matematica, della filosofia e di altre sfere della conoscenza teoretica», J. Lotman, Z. Minc, “Letteratura e mitologia” (Literatura i mifologija, Tartu 1981), in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit., p. 209.

76 J. Lotman, “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”, art. cit., pp. 4-5 (corsivo mio).

77 Come ha sottolineato J.L. Le Moigne, «negli anni 1952-1957, la simulazione dei processi cognitivi si sviluppa grazie all’iniziativa decisiva di H.A. Simon e A. Newell, trasformandosi rapidamente in una disciplina che, a partire dal 1956, viene solitamente designata come Intelligenza Artificiale» (J-L. Le Moigne, “Progettazione della complessità e complessità della progettazione”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 71).

78 Questo è possibile per il fatto che il linguaggio intuitivo (o pensiero creativo), non specifica i contenuti in modo univoco, ma li può estrinsecare potenzialmente in una molteplicità di forme dell’espressione – si potrebbe forse parlare di una nebulosa di senso. I meccanismi analogici si presentano come costitutivi della forma espressiva del linguaggio intuitivo.

79 J. Lotman, Z. Minc, “Letteratura e mitologia”, art. cit., p. 209. Già nel saggio Mito nome cultura aveva scritto «Si può pensare che lo strato mitologico ontogeneticamente determinato si consolidi nella coscienza (o linguaggio) dell’uomo, conferendole un carattere composito e creando, in ultima analisi, una tensione fra i due poli della percezione mitologica e di quella non mitologica. (…) l’eterogeneità costituirebbe il carattere fondamentale della coscienza umana e il suo funzionamento sarebbe garantito solo in presenza di almeno due sistemi non del tutto reciprocamente convertibili fra loro», J. Lotman, “Mito – Nome – Cultura”, p. 113.

80 Tra l’altro, qui Lotman si inserisce sulla scia delle scienze cognitive – e non è un caso se una delle sue ultime opere si chiamerà Universe of the Mind – e dei loro studi sull’importanza delle relazioni di similarità nei processi conoscitivi umani.

81 J. Lotman, “L’asimmetria e il dialogo” (Asimmetrija i dialog, Tartu 1983), in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit., p. 104.

82 J. Lotman, “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (da un punto di vista semiotico)” (K postroeniju teorii vzaimodejstvija jul’tur (semiotičeskij

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aspekt), Tartu 1983), in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit., p. 122.

83 S. Salvestroni, “Nuove chiavi di lettura del reale alla luce del pensiero di Lotman e dell’epistemologia contemporanea”, Saggio introduttivo a J. Lotman, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit.

84 G. Bocchi e M. Ceruti, “Presentazione” de La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pp. XXV e XXX.

85 «Per culturolgia, sottolinea Giuseppe Ghini, si intende una disciplina cui spetta anzitutto la comprensione e la spiegazione del fenomeno della cultura in generale, del suo ruolo nell’esistenza umana, dei processi di acquisizione, conservazione e trasmissione della cultura stessa. Ancora, è di pertinenza di questa disciplina l’analisi delle diverse forme e tipi culturali, dei principali centri e delle aree di produzione culturale (…). L’oggetto di studio della culturologia è dunque anzitutto la cultura intesa come universale rapporto dell’uomo con il mondo e con se stesso e ogni singola cultura come creativa e concreta realizzazione di quel rapporto; un rapporto che, con il suo stesso instaurarsi, produce senso, significa. E in questo rapporto di significazione, l’uomo fa suo il mondo, se ne appropria, vi si accasa», G. Ghini, “Culturologia”, in Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma, 2004, p. 160.

86 Ove nel concetto stesso di culturologia è implicito il rapporto dialogico fra l’uomo, la realtà e i diversi e molteplici sguardi attraverso cui la realtà viene interpretata dall’uomo.

87 V. E. Alexandrov, “Biology, Semiosis, and Cultural Difference in Lotman’s Semiosphere”, Comparative Literature, Duke University Press, Durham (North Carolina), 52(4), 2000, p. 342.

88 J. Lotman, “Prefazione” (1979, scritto per il volume), in Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit., p. 4.

89 L’organizzazione ricorsiva, precisa E. Morin, «è quell’organizzazione i cui effetti e i cui prodotti sono necessari per la sua stessa causazione e per la sua stessa produzione. È proprio il problema dell’autoproduzione e dell’autorganizzazione. Una società è prodotta dalle interazioni fra individui, ma queste interazioni producono una totalità organizzatrice che retroagisce sugli individui per co-produrli quali individui umani. Perché essi non sarebbero tali, se non disponessero dell’educazione, del linguaggio e della cultura», E. Morin, “Le vie della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pp. 28-29.

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CAPITOLO 3

La cultura: un meccanismo generatore di senso 1977-1983

Come la gallina non ha in sé le uova che deporrà in un lontano futuro ma il meccanismo per farle, le opere di Dante o di Shakespeare non contengono idee a cui possa attingere il lettore del XX secolo, ma il meccanismo per produrle.1

1. La cultura come sistema produttore di pensiero in prospettiva

cibernetica

Nell’introduzione alla seconda parte di questo lavoro, abbiamo visto come l’uso “esterno” dell’analogia porti Lotman a gettare un ponte fra la semiotica e la cibernetica e a proporre un modello di cultura plasmato sul concetto di complessità, ossia su una visione dell’oggetto la cui unità – esprimentisi attraverso le caratteristiche d’insieme – sarebbe il risultato della coordinazione dinamica fra le attività delle parti: parti, dunque, non commensurabili al tutto o all’insieme, ove l’informazione assume un ruolo determinate.

Dobbiamo però sottolineare che l’analogia fra modello semiotico della cultura e modello cibernetico prende vita da un’altra analogia, sulla quale si fonda la cibernetica stessa, vale a dire quella fra l’uomo e l’automa.

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La possibilità di costruire un ponte fra questi due viene sondata ed edificata nel dopoguerra soprattutto intorno al concetto di “attività intelligente”. Per poter infatti progettare dei moduli di comportamento meccanici simili a quelli dell’uomo, fra gli anni Quaranta e Sessanta la cibernetica studia precipuamente il sistema nervoso e l’attività cerebrale umani – quelle organizzazioni biologiche ove, tra l’altro, emerge in misura dominante la dinamica della complessità.

Non dobbiamo stupirci dunque se, nel “periodo cibernetico” della teoria lotmaniana appaiano articoli come: “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”, “Cervello – testo – cultura – intelligenza artificiale”, “La sezione aurea e i problemi del dialogo intercerebrale”: Lotman introduce in seno alla semiotica, come già Lévi-Strauss aveva fatto con l’antropologia (§ 1.3.2, cap. 1), i presupposti teorici e la metodologia usata dalla scienza del pilotaggio per studiare il parallelismo fra uomo e macchina. Ora, poiché questo parallelismo viene sondato da diverse prospettive disciplinari e dunque da differenti schemi concettuali, non si può parlare di una cibernetica ma di molte direzioni cibernetiche: cercheremo ora di capire quella su cui Lotman si instrada. Una prima distinzione che possiamo fare è determinata dallo

schema epistemologico-concettuale adottato, per cui l’oggetto (uomo o automa) è studiato o dal punto di vista comportamentale o dal punto di vista struttural-funzionale. Il modello «di tipo comportamentista [è] legato alla tradizione logico-linguistica dell’automazione dei processi argomentativi e in generale cognitivi», mentre il modello di tipo struttural-funzionalista è «legato alla tradizione meccanicistico-materialista che vorrebbe dar ragione dell’intera attività umana ricorrendo esclusivamente agli strumenti esplicativi delle teorie fisico-biologiche»2. Il primo modello ha caratterizzato la cibernetica dei logici matematici e, primo fra tutti, Wiener, il quale, ancorato agli studi sulla teoria dell’informazione, ha puntato a comprendere il comportamento umano in termini di struttura logica, sintattica e

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semantica (riprodotta nei messaggi e nella circolarità comunicazionale)3. Il secondo modello ha caratterizzato la cibernetica dei neurofisiologi (come W. R. Ashby), propensi invece a stabilire un’identità fra la struttura fisiologica dell’uomo e l’architettura meccanica dell’automa, alla luce del concetto di “funzione”.

La seconda distinzione è legata al rapporto fra l’oggetto (uomo o automa) e il suo ambiente: rapporto dal quale discende la contrapposizione fra sistemi eteronomi e sistemi autonomi. Nel primo caso, l’oggetto è studiato in termini di input-output, «secondo una logica di corrispondenza e di rappresentazione dell’ambiente»4: tipico è il modello di J. von Neumann5, di matrice ingegneristica, che ha funzionato da paradigma per le future scienze computazionali e, come abbiamo visto e vedremo (§ 2, cap. 3), per la biologia molecolare; nel secondo caso, l’oggetto è analizzato in termini di chiusura organizzazionale e operazionale, essendo dotato di una logica di coerenza e autonomia interna. Questa prospettiva – propria di Wiener e dei suoi successori (come F. Varela)6 – si è sviluppata in particolare con gli studi sul sistema nervoso «quale sistema autonomo, la cui evoluzione avviene attraverso il coadattamento reciproco delle varie strutture cerebrali e non invece attraverso le determinazioni prodotte dagli input ambientali»7. Come ha sottolineato lo stesso Varela,

rispetto all’opera di queste due figure, le cose sono andate in maniera tale per cui è stato l’orientamento di von Neumann a diventare l’orientamento predominante. Esso ha costituito ciò che oggi è la scienza dei computer, nonché quell’insieme di discipline di tipo ingegneristico ad essa connesse; ha fornito anche al cervello la sua metafora esplicativa più diffusa: il computer appunto. Ha fatto nascere l’idea del trattamento di informazione quale nozione centrale della scienza cognitiva, in quanto compito (o problema) che i sistemi viventi e le macchine devono risolvere in un modo o nell’altro. (…) Contrariamente a

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questo orientamento dominante, l’aspetto autonomo e produttore di senso degli esseri viventi (come pure l’utilizzazione di questi concetti nella progettazione delle macchine) è stato trascurato quasi completamente (…) [e a ciò si deve il fatto che non si è ancora riusciti a] produrre macchine intelligenti nonostante tutte le promesse a proposito.8

In questo panorama multiplo, Lotman si posiziona sicuramente sulla scia di Wiener, del quale ripropone l’approccio allo studio della comunicazione e della cultura, sottolineando che la produzione di senso – come vedremo – è il risultato di un eccesso di informazione dovuto all’interazione complessa fra almeno due sistemi autonomi e, da qui, ad un atto di intenzione e creazione del nuovo: fenomeno che l’intelligenza artificiale ancora non è riuscita a realizzare e che indebolisce l’equivalenza cervello = computer.

Del matematico americano, però, Lotman ripropone anche le debolezze concettuali che caratterizzano l’approccio bio-meccanico. Il fatto che questi crei un’equivalenza fra l’ordine sociale (la cultura), l’ordine biologico (l’intelletto) e l’ordine meccanico (il sistema cibernetico), lo conduce infatti a riproporre una “tentazione” riduzionista che era già presente nei ricercatori degli anni Cinquanta, come R. Ashby, W. McCulloch e W. Pitts, von Neumann, A. Turing, e appunto Wiener: pur con diversi tipi di riduzionismo – dal comportamentale allo struttural-funzionale9 – tutti questi teorici arrivano ad affermare che, non solo l’uomo è equivalente alla macchina, ma questa diventa il modello dell’uomo. Viene così ribaltata la prospettiva euristica delle macchine cibernetiche, le quali non si limitano solo a imitare e riprodurre l’uomo (ossia quello che dovrebbe essere il modello di partenza) nei suoi comportamenti e nella sua struttura fisico-biologica, ma a arrivano a sostituirlo. Come ha sottolineato P. Rossi, quando l’analogia umano-meccanica sfocia in una riduzione della complessità dei fenomeni umani alla maggior semplicità dei fenomeni meccanici, allora la cibernetica diventa «un sistema concettuale in grado di reggere non solo una fisica, ma anche una

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metafisica dell’uomo»10: un uomo che si fa man mano organismo cibernetico (o cyborg).

Ora, questo problema talvolta è anche presente in Lotman, il quale – pur con tutti gli avvertimenti proposti sull’uso dell’analogia (cf. “L’asimmetria e il dialogo”, 1983) – tende in alcuni casi a piegare l’ordine sociale e antropologico su quello meccanico, prospettando una cultura dalla dinamica “ingegneristica”. Ciò che lo salva dal riduzionismo “forte”, radicale, è la sua consapevolezza dell’irriducibile eterogeneità del pensiero: per Lotman l’attività intelligente è sempre un azione intenzionale, capace non solo di memoria ma anche di auto-riflessione e di creazione di nuova informazione. La cultura, essendo per analogia un intelletto collettivo, presenta dunque sì gli attributi meccanici propri dell’intelligenza artificiale, ma soprattutto quelli antropologici che caratterizzano l’homo symbolicus. 2. Il soggetto-cultura e la sua capacità di autocoscienza

Vorrei ora soffermarmi su uno di questi aspetti dell’attività intelligente della cultura, come affrontato in prospettiva cibernetica nel 1977, nel saggio “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”: si tratta dell’auto-riflessione, vale a dire il momento in cui una cultura, nel suo percorso storico, crea un modello di sé stessa e, attraverso quello, dà ordine e unità al sistema. Lotman ne aveva già parlato nel ’71 (“Sul meccanismo semiotico della cultura”, § 2.3.1), non specificando tuttavia come avvenisse precipumente questo meccanismo omeostatico; egli solo scriveva: «in un determinato stadio del suo sviluppo viene anche per la cultura il momento della riflessione, il quale equivale a dire che essa crea il proprio modello articolare. Questo modello determina il carattere unificato della cultura (…). Sovrapposto alla realtà di questa o quella cultura, tale carattere esercita

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una potente influenza regolatrice sulla stessa (…)»11, tanto da modellarne l’identità e la memoria.

Sei anni dopo egli riprende il problema dell’auto-riflessione alla luce dei cosiddetti modelli supercomplessi. Questo cambiamento di prospettiva complessifica il concetto di semiotica della cultura rispetto alla prima ipotesi del ’71, portando un evidente contributo teorico al dialogo interdisciplinare fra semiotica e cibernetica a cui – lo ricordiamo – sempre nel ’77 viene dedicato il Simposio moscovita.

Nel saggio del ’77 Lotman inizia chiedendosi se sia possibile trasporre alla cultura quel meccanismo tale per cui, nei modelli supercomplessi, «la stabilità dell’insieme cresce con l’aumentare della varietà interna del sistema»12 e, se sì, come questo possa avvenire, visto che un crescente eterogeneità dovrebbe portare ad un aumento dell’entropia13. Qui cioè il poliglottismo culturale diventa un problema di ordine cibernetico poiché pone il ricercatore di fronte al problema della (sottilissima) differenza fra eterogeneità e caos. Bisogna partire dal presupposto che Lotman si pone come osservatore di un fenomeno particolare: la cultura è un “mondo” nel quale proliferano ininterrottamente nuovi mondi, più o meno complessi (subculture, slang, stili di comportamento, ecc.). Questi, tuttavia, seppur autonomi non sono mai degli atomi, staccati dal tutto14; diversamente, scrive Lotman, la cultura rischierebbe la schizofrenia semiotica e quindi l’implosione – il poliglottismo che si trasforma nella “torre di Babele”. Deve esserci per forza, continua il semiologo russo, un meccanismo che porta i “molti” all’“uno”, garantendo l’identità, l’integrità ma anche la connessione di entrambi15. E questo meccanismo è proprio l’auto-riflessione.

L’emersione di un metalinguaggio che segue necessariamente il momento auto-riflessivo porta la cultura a cogliersi attraverso quello che Lotman chiama l’autoritratto ideale, vale a dire a cogliersi nella sua unità e identità. Nel 1981, nel saggio “Il cervello – il testo – la cultura – l’intelletto artificiale”, egli infatti sottolinea che solo con l’aiuto del metalinguaggio la cultura prende coscienza di sé come totalità16. Allo

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stesso tempo, questa sorta di auto-coscienza porta la cultura a cogliere organicamente la molteplicità semiotica ad un livello di astrazione più elevato (metalivello), tale per cui la totalità-cultura, essendo un più rispetto alle sue parti (i linguaggi e testi che da essi sono informati) ma anche uno “specchio a figura intera”, si trova ad essere in rapporto di analogia con esse. Ritornando al saggio del ’77, Lotman sottolinea che «il meccanismo della cultura ristabilisce l’unità fra le parti che tendono all’autonomia e diventa la lingua nella quale si realizzano le relazioni interne alla cultura. Esso facilita la ricostruzione dei singoli nodi strutturali attraverso la loro unificazione. È grazie a questo che si crea l’isomorfismo fra l’insieme della cultura e le sue parti»17. Tanto più è elevata la capacità di autocoscienza, intenzionalità e finalizzazione della cultura, tanto più il suo “comportamento” reagisce bene alla caos e all’imprevedibilità, rafforzando la sua unità.

Come avviene nei sistemi supercomplessi, il sistema-cultura vive una dinamica a doppia direzione: da un lato, presenta una forte varietà semiotica che tende all’individualizzazione18, dall’altro, in virtù della forza unificante della comunicazione segnica (generatrice di koinonia, κοινωνία), questa stessa varietà “individualizzata” tende a unificarsi in un’identità ideale (ad esempio, la “cultura occidentale”, la “cultura orientale”, la “cultura latinoamericana”, e via dicendo).

Questo ci riporta a quello che si diceva, nella prima parte, a proposito del salto epistemologico dal segno al modello (analogico), che Lotman propone come tentativo di far dialogare l’eterogeneità del reale ad un livello tale per cui possano coesistere e reciprocamente tradursi diversi linguaggi. Parlando infatti del meccanismo di auto-riflessione, egli sottolinea come lo strutturarsi in seno alla cultura di molteplici formazioni semiotiche fra loro interrelate ed unificate dal metalinguaggio crei una condizione di costante traduzione dell’intraducibile ossia il presupposto stesso della vita culturale: la nascita di nuova informazione.

Ecco che allora la cultura viene definita non più come memoria non ereditaria di una collettività ma come organizzazione pensante,

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intelletto collettivo, meccanismo generatore di idee, esattamente come avviene nell’attività cerebrale umana. «Alla base di questa traduzione, scrive Lotman, non c’è una trasformazione univoca, ma un modello approssimativo, una similitudine. Vediamo in questo caso l’isomorfismo esistente fra le culture – meccanismo della coscienza collettiva – e la coscienza individuale. È opportuno fare riferimento all’asimmetria del cervello umano da intendere come specializzazione semiotica nel funzionamento dell’emisfero destro e sinistro»19.

Dobbiamo evidenziare che Lotman va riconoscendo ciò che, parallelamente, è la scoperta critica ottenuta dall’altra scienza che aveva adottato lo schema epistemologico-concettuale della cibernetica, ossia la biologia molecolare; tra gli anni Settanta e Ottanta il determinismo “comunicazionale” del codice genetico si dimostra infondato poiché la semplice trasmissione di informazioni pare incapace di spiegare la traduzione dei geni nei caratteri di ogni singolo individuo, ossia l’emersione di nuova, imprevedibile informazione – frutto di una vera e propria semiotica genetica20 (in parte ancora misteriosa) e non di un mero calcolo combinatorio. Fondamentale, in questo senso, è lo studio da parte di I. Prigogine (1979) delle strutture dissipative [cf. Parte III]: fenomeni fisico-chimici “imprevedibili” (o non-lineari) che si auto-organizzano in seno a una «globale situazione di non-equilibrio»21, contemplante cioè punti di biforcazione in cui l’«organizzazione supermolecolare»22 sembra svilupparsi in modo creativo e, dunque, molto difficile da prevedere23.

Allo stesso modo, anche in ambito ingegneristico-cibernetico, emerge chiaramente che l’intelligenza artificiale e «i programmi dei computer sono ancora incapaci di fungere da modello per la finalità non intenzionale, [caratteristica del vivente]»24, e di produrre risultati che si configurino come atti creativi di nuova informazione: fenomeno proprio dell’intelligenza umana, ossia di un sistema chiuso e autorganizzato dotato di una logica di coerenza e autonomia interna. Scrive Atlan:

L’aspetto più importante dei fenomeni di autorganizzazione è l’autocreazione del senso, cioè la creazione di nuovi significati

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nell’informazione trasmessa da una parte a un’altra parte o da un livello di organizzazione a un altro livello di organizzazione. Senza la creazione di nuovi significati avremmo a che fare con ricombinazioni che non sarebbero in grado di portare all’apparizione di nuove funzioni, di nuovi comportamenti. Nella maggioranza delle macchine che conosciamo, siamo abituati al fatto che il funzionamento di una macchina corrisponde a una sola combinazione dei pezzi che la costituiscono; ogni altra combinazione può condurre soltanto a un guasto o a un cattivo funzionamento. Se ci mettiamo a smontare un pezzo di una macchina, e poi lo rimontiamo in maniera differente, in genere la macchina non funziona. Perché dunque una disorganizzazione sia in grado di produrre una riorganizzazione, è necessario che si trasformi il significato delle relazioni fra le parti.25

Per Lotman, si apre qui la strada a quella che sarà la svolta teorica degli scritti degli Ottanta e Novanta: l’attenzione per tutto ciò che è eterogeneo nella cultura lo porta, come vedremo, ad abbandonare progressivamente la suggestione meccanicistica dell’intelligenza artificiale e a studiare le asimmetrie funzionali degli emisferi cerebrali (emisfero sinistro: funzioni linguistiche vs emisfero destro: elaborazione visuo-spaziale); e di qui, a proporre un rapporto di analogia fra le strutture bipolari della coscienza individuale e il meccanismo poliglotta della semiotica della cultura ossia una corrispondenza isomorfica fra l’attività cerebrale umana – nella sua dinamica eminentemente dialogica – la coscienza collettiva, il testo e la cultura26. Lotman infatti, sempre nel saggio “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”, facendo riferimento ad alcuni scritti di V. V. Ivanov sulla struttura della coscienza umana27, scrive:

Nessun meccanismo “monologico” (cioè “monolinguistico”) può elaborare un messaggio (pensiero) fondamentalmente nuovo, non è cioè un meccanismo capace di pensare. Un meccanismo pensante deve possedere in linea di principio (in uno schema minimale) una struttura dialogica (bilinguistica). Questa conclusione dà un significato nuovo al pensiero anticipatore di M. M. Bachtin sulla struttura dei testi dialogici. Quanto abbiamo detto accomuna le ricerche sulla coscienza individuale e quelle

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sulla coscienza collettiva in un’unica problematica e suggerisce inoltre un nuovo approccio al problema dell’intelletto artificiale.28

Questa visione, come dicevamo all’inizio, non manca di un certo riduzionismo, che possiamo rinvenire 1) nell’assimilazione della dimensione coscienziale individuale da parte di quella collettiva – con una perdita della soggettività singolare, 2) nell’accostamento, forse un po’ arbitrario, fra biologico, meccanismo e sociale. Vedremo come Lotman, negli anni, intenda fondare meglio quest’intuizione analogica, cercando di evidenziare in modo precipuo lo scarto fra i vari piani formali attraverso cui possiamo conoscere l’uomo. 3. Emisferi cerebrali e tipologizzazione della cultura umana.

Culture orientate alle coscienza logico-razionale vs culture orientale alla coscienza intuitiva

Nel 1983, sulla scorta degli studi dei neurofisiologi Nikolai Nikolaenko e Vadim Deglin, Lotman arriva ad una sistematizzazione della teoria analogica fra l’attività asimmetrica del cervello umano e il meccanismo antinomico della semiotica della cultura. Questa posizione è ben espressa dal saggio “La sezione aurea e i problemi del dialogo intercerebrale”, scritto con lo stesso Nikolaenko, e dai saggi “L’asimmetria e il dialogo” e “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (da un punto di vista semiotico)”, tutti datati appunto 1983.

Già nel 1978, tuttavia, Lotman sottolineava ne “Il Fenomeno della cultura” che qualunque struttura intellettuale poggia la sua attività su una qualità sostanziale, ossia l’eterogeneità semiotica. Questa, a sua volta, deve essere il risultato di un meccanismo bipolare che mette in relazione (o in traduzione) i diversi linguaggi possibili alla struttura stessa – ovviamente vi sarà un crescente grado di complessità linguistica a seconda che si tratti di un intelletto artificiale o di uno

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umano. Scrive Lotman: «(…) nessun meccanismo pensante può essere monostrutturale e monolinguistico, ma deve necessariamente avere in sé organizzazioni semiotiche in lingue diverse e fra loro intraducibili»29. Questa considerazione gli viene suggerita da due diversi campi di osservazione: il primo, come vedremo, fa riferimento agli studi di Lotman sul linguaggio iconico e sul quello mitologico – quest’ultimo approfondito col tempo grazie all’insostituibile influenza intellettuale e umana dalla moglie Zara G. Mints. Il secondo fa riferimento invece alle scoperte che negli anni Settanta-Ottanta venivano compiute in campo neurologico, neurofisiologico, cibernetico, psicologico e psichiatrico sull’attività cerebrale umana (e artificiale) – scoperte fortemente sostenute, anche dal punto di vista economico oltre che ideologico, dal regime sovietico, che in quegli anni impiegò ingenti investimenti nella ricerca tecno-scientifica.

Questo periodo vede dunque il tentativo lotmaniano di armonizzare l’idea di dialogismo e bi-strutturalità, da un lato, in chiave letterario-antropologica e, dall’altro, in chiave scientifica (secondo il concetto di “scienza esatta”, mutuato in questo caso dalla biologia), anche alla luce dell’esperienza fatta in campo robotico presso il Leningrad Institute of Aviation Equipment (1971-’72). Soffermiamoci ora sulla seconda prospettiva, ossia sull’attenzione di Lotman per l’attività cerebrale umana come affrontata, in quegli anni, dagli studi clinici sui processi cognitivi.

Ne “Il fenomeno della cultura” il semiologo russo sottolinea come i due poli della produzione segnica, la mente discreta e quella non discreta, fanno fare all’uomo un’esperienza particolare: egli infatti esperisce la sua unità, integralità e coerenza intellettuale come qualcosa di fondamentalmente eterogeneo, che scaturisce appunto dalla diversità e dall’intima unione di questa diversità. Per Lotman, il fatto che questi possa accogliere la “realtà” in modo duale o in forma logico-discreta (l’emisfero sinistro) e intuitivo-non discreta (l’emisfero destro) non è un fatto meramente biologico ma ha delle immediate conseguenza sull’interpretazione che l’umanità dà di sé in termini di

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cultura e di storia. Prima però di affrontare questo punto, dobbiamo cercar di capire meglio quali solo gli attributi dei due poli della conoscenza. Nel saggio “La sezione aurea e i problemi del dialogo intercerebrale” (1983), Lotman e Nikolaenko spiegano precipuamente le differenze fra emisfero sinistro ed emisfero destro: il primo è legato alla facoltà di parola, lettura, calcolo, scrittura, ragionamento astratto, memoria verbale; il secondo alla facoltà di orientamento intuitivo nello spazio-tempo concreti, di identificazione delle rappresentazioni oggettuali, di riconoscimento delle figure e dei colori, di pensiero e memoria immaginali concreti30; esso dunque è proprio del linguaggio artistico, mitologico, infantile-fabulatorio, simbolico. Gli emisferi cerebrali destro e sinistro sarebbero dunque «generatori di due differenti strategie cognitive e di due differenti modi di elaborazione dell’informazione: l’emisfero sinistro opera con successioni di elementi discreti, garantisce il carattere logicamente coerente e la categorizzazione, domina i concetti; mentre quello destro gestisce le immagini e gli enunciati che si configurano come totalità, può ricostruire e conservare nella memoria le condizioni dell’esperienza sensoriale con l’aiuto dei segni iconici (rappresentativi), assicura l’analisi delle specifiche caratteristiche individuali degli oggetti e la formazione della Gestalt (immagine che costituisce un tutto), che è la base dell’“apprensione” sensoriale istantanea delle impressioni concrete»31.

Capiamo bene che l’attività cerebrale duo-emisferica ha naturalmente delle ripercussioni sulle categorie di spazio e tempo e sul linguaggio, vale a dire sulle principali coordinate attraverso cui l’uomo si posiziona nella mondo e interpreta la realtà. Nel caso dell’emisfero sinistro questa è colta attraverso una segmentazione logica-razionale della dimensione spazio-temporale e un’enunciazione di tipo verbale; nel caso dell’emisfero destro, la realtà è intuita nella sua totalità ed espressa attraverso un’enunciazione di tipo iconico-analogico e creativo.

Potremmo ora chiederci che legame veda Lotman fra i processi cognitivi umani e quelli semiotico culturali, essendo due ambiti

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scientifici autonomi: fisico-biologico il primo, speculativo il secondo. Ebbene, per il semiologo russo sembra esserci una contiguità fra i due, pur nell’avvertimento che si tratta di un avvicinamento epistemologico adottato per convenienza euristica e fondato su un senso di familiarità, di similitudine che scaturisce dai rapporti di analogia materiale (non si tratta cioè di una contiguità sostanziale fra il bio e il socio, pena la riduzione del secondo al primo). Scrive infatti Lotman in “L’asimmetria e il dialogo” (1983):

(…) Bisogna tuttavia sottolineare con la massima fermezza che i concetti di “emisfericità destra e sinistra”, quando si applicano al materiale della cultura, sono utilizzati in modo del tutto convenzionale e che bisogna considerarli come se fossero fra virgolette. Ce ne serviamo per definire l’analogia che esiste fra alcune funzioni dei sottosistemi della coscienza individuale e quella collettiva, essendo ben coscienti del fatto che la stessa natura di questi fenomeni non è stata ancora sufficientemente determinata.32

Posta questa premessa possiamo ora cercar di capire che risvolto ha questo dialogo interdisciplinare per la teoria della cultura.

Secondo Lotman il fatto che l’attività cognitiva umana sia sempre il risultato di un rapporto dialogico complesso fra due poli ha, prima di tutto, un riflesso nel processo di assimilazione, interpretazione e, in certo modo, creazione della realtà che l’umanità sempre pone in essere in quanto mente collettiva. Creando delle tipologie semiotico-culturali a partire dalla polarizzazione cerebrale, il semiologo russo sottolinea che l’uomo dell’epoca arcaica esprime in modo compiuto la conoscenza noetica, sensoriale e totalizzante, evidente nella concezione mitologica dell’isomorfismo tra corpo umano, struttura sociale e architettura cosmica. Questa interpretazione ci viene confermata, ad esempio, da Urs Von Balthasar, il quale sottolinea proprio come nel mondo aurorale del mito, il divenire e il localizzarsi mediante la ragione era impossibile poiché l’uomo si trovava totalmente immerso nello spazio e nel tempo della Gloria che si irradia su di lui33.

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L’uomo europeo illuminista dei secoli XVII-XIX sembra invece esprimersi o, meglio, auto-definirsi, solo attraverso la conoscenza razionale, logico-dialettica, dominata dal linguaggio verbale discreto34 – si tratta ovviamente di tipologie arbitrarie. Più complessa è l’interpretazione della cultura “emisferica” contemporanea, ove la netta distinzione fra mente discreta (epoca illuminista) e mente non discreta (epoca aurorale) lascia il posto a una mente collettiva che sembra sempre più riscoprire e riabilitare il linguaggio sensibile e immaginifico dell’uomo delle origini. Negli ultimi decenni, è emersa infatti un’attenzione crescente per il ruolo dell’emisfero destro nelle capacità intellettive individuali e collettive. Un tempo, scrive Lotman ne “La sezione aurea e i problemi del dialogo intercerebrale”, «si pensava che l’emisfero sinistro (“dominante”, “superiore”) fosse l’unico fautore delle funzioni più complete e altamente organizzate del cervello umano; in cambio, il ruolo dell’emisfero destro (“non dominante”, “inferiore”) era considerato insignificante. Si è poi scoperto invece che l’emisfero destro può realizzare un’attività completa»35 – in questa prospettiva Lotman si inserisce pienamente nell’orientamento delle scienze cognitive a valorizzare quella parte del cervello che procederebbe per analogie, dandoci una conoscenza della realtà as if36 per mappatura.

A corroborare questa riabilitazione vanno aggiunti, come vedremo, gli studi fatti in campo filologico, storico e fenomenologico sul mito, che hanno portato alla luce l’insostituibile funzione del pensiero simbolico-immaginifico in seno alla mente umana: funzione presente tanto nell’uomo delle origini che in quello moderno. È proprio Lotman a sottolineare come la capacità analogica umana sia stata essenziale – e lo sia ancora – tanto per il linguaggio iconico-sensibile della poesia e del mito tanto per quello astratto della matematica e della filosofia; «(…) la reale esperienza umana della struttura del mondo si basa su un sistema permanente di traduzione e di movimento dei testi all’interno di un campo strutturale di tensione fra questi due poli [discreto non discreto]»37. La cultura sarebbe dunque il risultato dell’attività intellettuale collettiva, che si esprime appunto attraverso i testi,

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“deposito” di questa tensione fra le due polarità emisferiche. Con concentrazioni cronologicamente di intensità differente, nella cultura circolano dunque due tipi di testi (presentati qui come tipi “puri” quando invece si tratta sempre di stratificazioni linguistiche): ci si può trovar davanti a «successioni, rapporti causali, cronologici e logici caratteristici dei testi narrativi, della scienza, del ciclo logico e pratico»38, oppure davanti a testi che si presentano come totalità densamente simboliche e come “fortezze” difficilmente interpretabili da una mente razionale – tipico è il caso del mito o dell’archetipo che U. Eco definisce «una nebulosa di proprietà possibili»39, la cui indefinitezza potrebbe spiegare il formarsi del senso in certe esperienze semiotiche apparentemente intraducibili.

Soffermiamoci ora meglio su due saggi del 1983, “L’asimmetria e il dialogo” e “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (da un punto di vista semiotico)”; il primo ci aiuterà a capire come la mutazione del modello biologico cerebrale all’ambito semiotico possa facilitare il culturologo nell’interpretare il funzionamento della cultura nel suo insieme, il secondo invece nell’interpretarne i processi di trasformazione.

Ne “L’asimmetria e il dialogo” Lotman riprendere un’idea che aveva già sviluppato in un saggio del 1974 “Un modello dinamico del sistema semiotico”. A nove anni di distanza, la dinamicità delle strutture semiotiche – ora, specificatamente, la cultura – non è più attribuita al solo gioco tensivo tra sistema ed extra-sistema, centro normativo ed elementi esterni o borderline, ma è ricondotta alla tensione interna e intrinseca fra l’emisfero destro e quello sinistro della coscienza collettiva40, partendo dal presupposto che esiste un «rapporto di somiglianza (…) fra il meccanismo della coscienza individuale e quello semiotico della cultura»41.

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Figura 2 – Il funzionamento semiotico della cultura (1983)

La condizione statica [nella coscienza individuale] è assicurata (…) dall’equilibrio fra l’attività delle due sottostrutture, raggiunto attraverso un compromesso, mentre quella dinamica è garantita dall’alternarsi dell’attività di entrambi e dal loro dialogo interno. Possiamo notare qualcosa di simile nei cambiamenti delle condizioni della cultura. I periodi statici si devono all’equilibrio raggiunto grazie a un compromesso fra tendenze strutturali opposte. In certi momenti si sviluppa tuttavia un processo dinamico. Una tendenza diventa meno forte, mentre l’altra cresce. Una delle due tendenze, che si può paragonare all’attività dell’emisfero destro della coscienza individuale, è caratterizzata dallo stretto rapporto che la lega alla realtà extratestuale. La sua semiosi è orientata verso la semantica e la sua funzione fondamentale è l’interpretazione dei contenuti dei modelli semiotici, che si conservano nella memoria della cultura. Nel processo di questa interpretazione i modelli si semplificano, perdono le sfumature, “acquistano praticità” e nello stesso tempo si riempiono della linfa, degli interessi e delle necessità reali dell’uomo e della società. Essi stessi acquistano esistenza reale ed entrano nella storia dell’umanità come fatti in una serie di altri fatti. Questa semiotica è in stretto rapporto con la realtà.

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La tendenza dell’emisfero sinistro si caratterizza invece (…) per una crescita autonoma della semioticità. La diminuzione dell’orientamento verso la semantica genera il gioco semiotico della coscienza, stimolando la formazione di modelli semiotici più ricercati ed autonomi. Se nel primo caso i segni di una serie semiotica sono interpretati non solo dalla realtà ma anche dal rapporto con altri aspetti della semiosi, nella seconda domina la tendenza a chiudersi in un mondo semiotico isolato, ad uno solo piano, che dà via libera al gioco dei modelli e alle classificazioni. Tuttavia le costruzioni che si formano nel processo di questa attività semiotica liberata dal rapporto con la realtà extrasemiotica, passando attraverso i meccanismi della memoria della cultura, si trasmettono ai meccanismi semantici e diventano lo strumento di un’analisi più sottile della realtà extrasemiotica.42

Come di può evincere dalla figura 2, permane il rapporto con l’extra-sistema (ossia con il mondo non semiotizzato, non culturale e, dunque, extra-testuale), ma questo è filtrato dall’attività dialogica di due tendenze strutturali della cultura, avvicinabili analogicamente all’attività dell’emisfero destro e di quello sinistro. La stabilità della cultura è assicurata dal loro equilibrio, la dinamicità invece «dall’alternarsi dell’attività di entrambe e dal loro dialogo interno»43, che a volte può portare l’una o l’altra a prevalere – è il caso dell’epoca razionalista moderna, ove vengono spazzati via i fantasmi dello spirito. Qui Lotman parla di sviluppo esplosivo44, preconizzando in certo modo il modello di dinamica culturale proprio della sua ultima parabola intellettuale. Sempre osservando la figura 2, possiamo notare come Lotman traduca gli attributi dei due emisferi cerebrali umani (visti pocanzi con “La sezione aurea e i problemi del dialogo intercerebrale”) in termini semiotico-testuali: attraverso l’emisfero destro della coscienza collettiva si ha l’impressione concreta della realtà extra-testuale, che si “posa” e coagula direttamente nei testi, attraverso quello sinistro si ha invece una filtrazione logico-astratta della realtà extra-testuale che, per diventare testo, deve prima essere inclusa in modelli categoriali.

Potremmo riassumere le caratteristiche dei poli “intellettivi” della cultura nel seguente modo:

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Polo emisferico sinistro Polo emisferico destro45

Polo discreto. Il segno è espresso chiaramente e costituisce la realtà primaria.

Polo continuo. Il testo è in maggiore evidenza rispetto al segno e costituisce rispetto a questo la realtà primaria.

Il segno ha un carattere convenzionale. Il segno ha un carattere iconico.

Le unità semiotiche tendono alla massima autonomia rispetto alla realtà extrasemiotica ed acquistano senso in virtù del rapporto reciproco che si sviluppa fra di loro.

Le unità semiotiche sono orientate verso la realtà extrasemiotica ed hanno uno stretto rapporto con questa.

Le unità semiotiche sono autonome rispetto al comportamento.

Le unità semiotiche sono legate in modo immediato al comportamento.

La segnicità è riconosciuta soggettivamente e coscientemente accettata.

Da un punto di vista “interno” sono interpretate come “non segni”.

Cultura orientata al contenuto (o grammaticalizzata)

Cultura orientata all’espressione (o testualizzata)46

Tabella 4 – Il funzionamento semiotico della cultura alla luce dell’attività cerebrale umana

L’accostamento analogico fra l’attività cerebrale umana e quella semiotico-culturale spiegherebbe così quello che Lotman considera il motore della dinamica culturale, ossia l’asimmetria dei due poli della produzione semiotica della cultura: linguaggio verbale vs iconico, pensiero logico vs analogico. Accade così che la diversa “presa” sulla realtà di questi due poli dà vita a due differenti semiosi e quindi a testi di diversa natura; questi, a loro volta, in virtù dell’uno-dialogicità dell’intelletto duo-emisferico collettivo, entrano in relazione tra loro, cercano di tradursi e producono così «un torrente di informazioni in continuo auto-sviluppo ovvero lo sviluppo dinamico della cultura»47, quel logos di cui Lotman parla ripetutamente sin dai primi anni Settanta. Il semiologo russo non manca poi di puntualizzare che i testi

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sono realtà straordinariamente complesse, ossia mondi semiotici multi-stratificati e attraversati da tempi multipli: «le sfere testuali chiuse formano un sistema complesso di mondi che si intrecciano e si organizzano gerarchicamente e sono fra loro in rapporto di connessione sincronico o diacronico»48, tale per cui si crea non solo un’asimmetria linguistica-gnoseologica nel processo di traduzione, ma anche un’asimmetria temporale, una condizione di intreccio rizomatico tra testi: vale a dire la strada che conduce ai momenti di esplosione dinamica della cultura.

E veniamo al saggio “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (da un punto di vista semiotico)”, che sarà ripreso anche nei prossimi paragrafi. Qui Lotman si focalizza in particolare sul concetto di “processo culturale” ossia sul modo attraverso cui avviene quel torrente accrescitivo di informazioni di cui si parlava pocanzi.

Anzitutto, secondo il semiologo russo non c’è dinamica evolutiva senza interferenza fra le culture: a farle crescere, cioè, non è solo il dialogo interlinguistico e intercerebrale che avviene all’interno di esse secondo una logica di auto-sviluppo, ma è anche il dialogo interculturale che si manifesta nel loro essere una esterna all’altra. Emerge una vera e propria necessarietà dell’altro-da-sé, ossia della cultura-altra; Lotman cioè attribuisce alla diversità un ruolo fondamentale in quanto forza motrice di ogni singola cultura e custode dell’auto-referenzialità implosiva49.

Egli poi sottolinea una qualità fondamentale di questo dialogo, che ci fa capire la sua profonda consapevolezza dei problemi di traduzione da una cultura all’altra. È un dialogo, infatti, che si erige sui meccanismi analogici50 caratteristici del pensiero creativo, il quale – scrive Lotman – «è legato alla possibilità di trasformare le enunciazioni di partenza in modo non univocamente predeterminato»51. Non si tratta di una traduzione matematica fondata su un’equivalenza ma di un “di più”, ove «l’informazione [iniziale] si trasforma in una nuova»52, secondo un rapporto di diversità analogica: si tratta dunque di un dialogismo fondato sulla scoperta dei rapporti di similarità fra soggetti irriducibili.

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Questo attributo rende il dialogo interculturale una strada sempre aperta, ricca di possibilità e aperture e, allo stesso tempo, refrattaria nei confronti delle traduzioni omogeneizzanti. Questa strada è la natura/dinamica stessa del processo culturale a cui ora possiamo dare una forma (figura 3).

Data una certa cultura ① (il sistema), essa presenta sempre un elevato grado di indeterminatezza interna, essendo attraversata da un passaggio continuo di costrutti testuali complessi (multi-stratificati e multi-temporali) in traduzione fra loro. Quando un testo proveniente da un’altra cultura ② (l’extra-sistema) entra nella prima, esso si presenta «non come la realizzazione concreta di un linguaggio, ma come una costruzione poliglotta passibile di una serie di interpretazioni dal punto di vista di linguaggi diversi»53, proprio perché i meccanismi attraverso cui viene recepito dalla cultura sono di tipo analogico. Accade così che questo testo portatore di diversità se, da un lato, crea un bisogno conflittuale e inaspettato di traduzione – facendo aumentare il grado di indeterminatezza interna della cultura ① – dall’altro, veicola nuclei semiotici che nel tempo porteranno «sensi interamente nuovi»54 in seno a questa. Notiamo che Lotman, riferendosi all’andamento del processo culturale dal punto di vista temporale, parla di «un’imprevedibilità a sbalzi»55, prefigurando la matrice prigoginiana delle sue ultime riflessioni teoriche.

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Figura 3 – Il processo culturale (1983)

Il processo culturale si dispiega però anche su una seconda fase. Superata quella della ricezione e assimilazione del testo dalla cultura ②, la cultura ① deve porre in essere un lavoro di riordinamento dell’indeterminatezza suscitata dall’“intruso”; avviene così che essa mette in moto un’azione di auto-descrizione, ossia dà il nome di “prevedibilità” e di “ordine” a ciò che invece è stato un disordine non atteso. E qui Lotman fa una riflessione fondamentale per i futuri scritti La cultura e l’esplosione e I meccanismi impredittibili della cultura: il processo storico di ogni cultura è sempre la narrazione di un ordine logico, costruito su delle grammatiche interpretative che, attraverso una costante operazione retrospettiva, coprono la portata innovativa del diverso “intruso” e, in questo modo, esercitano un’azione inversa rispetto al naturale sviluppo culturale56. Vediamo dunque come l’emersione dell’autoritratto ideale assume qui una connotazione più critica rispetto a come affrontato nel 1977 ne “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”; se da un

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lato, infatti, l’auto-descrizione previene il trasformarsi della cultura in una Torre di Babele, dall’altro, ne irrigidisce notevolmente le potenzialità di sviluppo. 4. Isomorfismo e asimmetria. L’uomo tra ragione e intuizione: il

paradigma del pensiero mitologico

Abbiamo detto che tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, Lotman cerca di sondare il concetto di dialogismo sia secondo la prospettiva offertagli dalla “scienza esatta”, sia attraverso i suoi studi decennali sul linguaggio creativo. Vediamo qui il confluire di diverse istanze: le influenze dell’amico Boris Uspenskij, famoso per i suoi studi sul linguaggio artistico e sull’estetica di Pavel Florenskij, e della moglie Zara Mints, grande conoscitrice del simbolismo russo e studiosa del linguaggio mitologico, le riflessioni di Vygotskij sulla coscienza infantile – molto simile a quella arcaica – e di Bachtin sul dialogismo (§ 6, cap. 2).

Cerchiamo ora di capire dove Lotman inizi a parlare di questa uno-diversità dialogica che, corroborata poi dai lavori neurofisiologici di Nikolaenko e Deglin, diverrà un caposaldo interpretativo della dinamica culturale, come in parte abbiamo già visto. Per fare questo, dobbiamo senza dubbio partire dalle riflessioni lotmaniane sul mito.

Già nel 1973 in “Mito - Nome - Cultura” (1973) – la cui profondità di pensiero richiama ad alcuni scritti di Mircea Eliade sul mito57 – Lotman precisa che il pensiero mitologico, quale forma di conoscenza vera e propria, a differenza di quello logico-sillogistico si fonda sulla «capacità di istituire identificazioni, analogie ed equivalenze»58 come avviene, ad esempio, nell’isomorfismo /universo/società/corpo umano/ tipico della coscienza arcaica59. Ma questo modo di procedere del pensiero, commenta ancora Lotman, non è affatto decaduto in forza di quello astratto, bensì è rimasto nell’uomo quale fondamentale strumento gnoseologico: «si può pensare che lo strato mitologico

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ontogeneticamente determinato si consolidi nella coscienza (o linguaggio) dell’uomo, conferendole un carattere composito e creando, in ultima analisi, una tensione fra i due poli della percezione mitologica e di quella non mitologica”60. Lo stesso avviene per la coscienza infantile che, secondo Lotman, «è una coscienza tipicamente mitologica»61. Il semiologo russo riprenderà quest’osservazione nel saggio di cinque anni dopo “Il fenomeno della cultura” (1978), in cui scrive: «Il mondo della conoscenza infantile, mitologica per eccellenza, non sparisce quindi e non deve sparire nella struttura mentale dell’adulto, ma continua a funzionare come generatore di associazioni e come uno dei meccanismi di modellizzazione attivi, senza il quale è impossibile comprendere il comportamento dell’adulto»62.

Vediamo che sin dall’inizio degli anni Settanta, quando Lotman non è ancora entrato in contatto con gli studi biologici sul cervello umano, il concetto di bipolarità della comunicazione umana è presente negli scritti Lotmaniani e si profila come un attitudine della mente a servirsi tanto del pensiero “adulto” – in senso fisiologico e antropologico (post-arcaico o astratto-speculativo) – quanto di quello pre-logico. Questo non è da considerarsi una sezione inferiore dell’attività gnoseologica umana ma una sua parte costitutiva, tant’è vero, scrive Lotman in “Mito - Nome - Cultura”, che «il pensiero mitologico [o infantile], dal nostro punto di vista, può essere considerato paradossale, ma in nessun modo primitivo, poiché esso risolve felicemente complessi problemi di classificazione»63 e postula concetti – come l’isomorfismo – che sono le basi stesse del pensiero scientifico, il pensiero “adulto” per eccellenza.

Ma come sono queste due polarità? Ecco come Lotman le caratterizza:

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Coscienza logico-analitica (esempio

proposto da Lotman: “Il mondo è materia”)

Coscienza mitologica (esempio proposto da Lotman; “Il mondo è il

cavallo”)

Livello di rappresentazione logica

Livello del meta-linguaggio: linguaggio descrittivo di tipo astratto (meta-rappresentazione)

Livello della lingua-oggetto: l’oggetto rappresentato e il metatesto che lo rappresenta appartengono ad uno stesso linguaggio: è un oggetto-primo, immagine-prima dell’oggetto

Isomorfismo

Mancanza di isomorfismo fra il mondo rappresentato e il sistema di rappresentazione → rappresentazione polilinguistica: il rinvio al metalinguaggio implica un rinvio ad un altro linguaggio

Isomorfismo fra il mondo rappresentato e il sistema di rappresentazione → rappresentazione monolinguistica: gli oggetti della rappresentazione mitologica appartengono ad uno stesso mondo, costruito nello stesso modo

Comprensione degli enunciati Affidata alla traduzione Affidata al riconoscimento,

all’identificazione

Emersione dell’informazione

Di traduzione in traduzione

Attraverso la trasformazione degli oggetti: la comprensione dei testi è affidata alla comprensione dei processi della loro trasformazione

Tipo di logica

Struttura: gerarchia di categorie metalinguistiche

Struttura: gerarchia degli oggetti in quanto tali (o gerarchia dei mondi)

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Concezione del livello minimo: tratti distintivi differenziali

Concezione del livello minimo: divisione in parti, ove ogni parte è un tutto nella totalità64

Divisione logica: oggetti eterogenei vengono raggruppati secondo criteri formali (classi)

Divisione logica: oggetti eterogenei sono concepiti come se fossero uno solo

Tabella 5 – Funzioni e attributi delle polarità cerebrali

Questi due poli, però, non sono due mondi impermeabili ma entrano in tensione, creando una condizione di costante traduzione l’uno nell’altro: una condizione in realtà paradossale perché una vera traduzione non è mai possibile.

Il mito e le altre forme di pensiero in rapporto iconico-analogico con realtà (la coscienza infantile, l’arte e, in parte, il gioco) rappresentano per Lotman la sintesi della dinamica culturale perché da un lato necessitano sempre di una coscienza-altra per essere tradotti (la coscienza non mitologica o astratta) e dall’altro sono strutturalmente intraducibili da parte di questa coscienza-altra65: è proprio la fondamentale asimmetria che domina la Ragione e la ragione mitologica, l’emisfero sinistro e quello destro, il linguaggio logico (discreto) e quello analogico (non discreto) ad essere fonte inesauribile di senso, principio di eterogeneità quale condizione imprescindibile della comunicazione umana e della cultura. Scrive Lotman: «(…) l’eterogeneità costituirebbe il carattere fondamentale della coscienza umana e il suo funzionamento sarebbe garantito solo in presenza di almeno due sistemi non del tutto reciprocamente convertibili fra loro»66.

Per questo motivo anni dopo, sia nel saggio “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale” che in quello “Il fenomeno della cultura” (1978), per spiegare i meccanismi monolinguistici e dialogici alla luce del principio di eterogeneità, Lotman

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pone precipua attenzione alla differenza fra testi discreti e testi non discreti67. Egli sottolinea come l’emersione di nuova informazione in seno alla cultura, in virtù del principio isomorfico fra mente individuale e mente collettiva, si realizzi proprio attraverso l’incontro dialogico fra i testi discreti (le lingue verbali, corrispondenti al polo della conoscenza logico-astratta) e i testi non discreti (le lingue iconiche, corrispondenti invece al polo della conoscenza noetica).

Qui si pone un problema particolarmente caro a Lotman, ossia la cattiva traduzione della coscienza noetica e la sua riduzione a quella logico-sillogistica. Prendendo a paradigma la trascrizione del pensiero mitologico nel linguaggio “adulto”, il semiologo russo sottolinea che si possono manifestare due tipi di distorsione. La prima fa riferimento alla traduzione razionale tipica della modernità che, con il suo culto per la Ragione, ha dato vita ad una cultura logocentrica, declassando a primitive68 le forme di espressione tipiche della coscienza arcaica-infantile. Scrive Lotman: «Educati come siamo nella tradizione scientifica formatasi in Europa da Aristotele a Descartes, ci sembra naturale pensare che il mondo non sia conoscibile se non attraverso una descrizione a due gradi (secondo lo schema “concreto-astratto”)»69.

La seconda fa riferimento alla traduzione nominale: in questo caso si ha un’imitazione delle coscienza mitologica per fondare nuovi, razionali miti contemporanei, i quali sono però svuotati della dimensione intuitivo-sapienziale caratteristica invece di quelli originari. Un caso tipico è avvenuto all’epoca di Pietro I ove la «creazione di una Russia “nuova” e tutta “d’oro” veniva pensata come un’opera [di ri-mitologizzazione], di ridenominazione generale, di rinnovamento radicale dei nomi»70, dato che ne mito «l’atto della nominatio si identifica con il processo gnoseologico vero e proprio»71 e, dunque, con la creazione del mondo stesso (“monolinguismo”): questo è accessibile, nel suo essere, attraverso i nomi-oggetto che hanno infatti una natura ontologica72.

Lotman sviluppa ulteriormente questa riflessione nel saggio “Letterature e mitologia” (1981), scritto insieme alla moglie Zara Mints,

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grande studiosa dell’opera poetica del simbolista Aleksandr A. Blok – a sua volta influenzato dal pensiero spiritualista di Vladimir S. Solov'ëv. In questo saggio i coniugi Lotman, adottando la tipologizzazione culturale nous vs dianoia, definiscono la prima una cultura fondata sul mito, la seconda una cultura fondata sulla letteratura, con un chiaro riferimento alla distinzione fra testi non discreti e testi discreti, linguaggio iconico e linguaggio verbale. Così scrivono: «Il rapporto fra la letteratura scritta e la mitologia, il grado del legame che le unisce, l’orientamento verso un loro avvicinamento o allontanamento costituiscono una delle caratteristiche fondamentali di ogni tipo di cultura»73, e ancora, «L’opposizione fra la mitologia e la letteratura è espressione di una delle opposizioni strutturali fondamentali della cultura»74, e nasce con la tendenza della coscienza non mitologica a leggere il mito secondo una logica oppositiva, secondo una doppia prospettiva: dal punto di vista del contenuto essa ha svuotato il mito dell’esperienza trascendente, imputandole così un significato solo fabulatorio; dal punto di vista del significante lo ha analizzato attraverso un metalinguaggio “discreto”. I Lotman puntualizzano così che la cultura razionalistica ha finito per tradurre la coscienza arcaica in «un sistema di immagini-allegorie discrete e disposte logicamente»75, travisando completamente il rapporto segnico che sottostà al linguaggio mitologico (la nominatio) e trasformandolo in un testo discreto. La prospettiva che si dovrebbe adottare invece per lo studio del mito è quella che si rifà all’isomorfismo tra il rapporto discreto vs non discreto dell’attività cerebrale e il rapporto linguaggio logico-verbale vs linguaggio mitologico – vediamo come qui l’approccio antropologico-letterario e quello biologico vadano analogicamente a confluire: rapporto che, come abbiamo visto, è dialogo e non riduzione di uno dei due poli all’altro. I due studiosi russi pongono in evidenza come proprio l’irriducibilità dei due linguaggi diventi il fondamento di un nuovo modello di semiotica culturale ove coesistono due canali di conservazione (o memoria) e trasmissione dell’informazione: il canale dei testi discreti e quello dei testi non discreti76. L’interferenza continua,

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la creolizzazione e la traduzione reciproca di queste due tipologie di testi assicurano quindi la terza fondamentale funzione della cultura, ossia l’elaborazione di informazioni nuove77. Tutto questo sarà tradotto in termini propriamente semiotici nei saggi del 1983.

Vediamo come, abbandonato progressivamente il linguaggio meccanicistico della teoria dell’informazione e della cibernetica, si vada verso un modello di semiotica della cultura sempre più a-deterministico, storicamente incarnato e semanticamente ricco. Grosso contributo è dato, sempre in “Letteratura e mitologia”, dall’introduzione della dinamica tempo ciclico / tempo lineare nel processo semiosico – dinamica che poi diventerà il leit motive delle ultime opere di Lotman, in particolare La cultura e l’esplosione. È proprio lo studio sul mito, infatti, a porre in evidenza la nettissima diversità, nel modo di concepire il tempo, fra coscienza arcaica e coscienza moderna: ciclico per la prima, lineare per la seconda. Una diversità che continua a permanere nella cultura umana e che è visibile soprattutto nel campo delle arti78. 5. Pubblico, testo, comportamento quotidiano

5.1 Il testo-organismo e la pragmatica della ricezione

Nella prefazione a Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura (1979), Lotman fa presente come il testo vada colto sempre più nella sua dimensione intertestuale e contestuale, ossia come parte di quel tutto che è la cultura:

(…) l’inserimento del testo [che Lotman definisce eterogeneo in virtù del continuo processo di traduzione] nel sistema della cultura non deve (…) essere associato alla vicinanza statica di particolari meccanismi e ricorda invece qualcosa di ancora più dinamico, interrelato e non soggetto a determinazioni univoche di quanto non lo sia il tessuto di un organismo vivo. Così, come

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tutto l’insieme degli esseri biologici costituisce la biosfera del nostro pianeta, che è la condizione necessaria per l’esistenza della vita, la sfera globale della cultura è la condizione necessaria per l’esistenza del pensiero. L’attività intellettuale è infatti possibile solo se esiste un rapporto reciproco fra la coscienza individuale e i diversi contesti semiotico-culturali.79

Lotman getta qui le basi per quella svolta epistemologica che vedrà la semiotica della cultura identificarsi con il concetto di semiosfera (“La semiosfera”, 1984)80, ossia di continuum semiotico, “grande sistema”, unico organismo81 – e non solo più organizzazione pensante.

Quest’attenzione al testo – la cui comprensione, lo ricordiamo, equivale alla comprensione dell’intera cultura (isomorfismo)82 – porta Lotman a soffermarsi sulla pragmatica della ricezione: passaggio fondamentale, poiché proprio lo studio dei meccanismi di interpretazione fa emergere come il testo abbia sempre bisogno di un altro e, dunque, come il dialogo sia una caratteristica intrinseca della comunicazione umana, anche nelle sue manifestazione testuali: per mettere in moto il suo meccanismo, scrive Lotman nel saggio “Il testo nel testo” (1981), il testo ha sempre bisogno di ricevere qualcosa dall’esterno (un contesto culturale, una coscienza umana o anche semplicemente un altro testo). Esso dunque non è più concepito come realtà immanente, sorretta esclusivamente da meccanismi interni di autoaccumulazione, bensì è colto nella dinamica dimensione testuale / dimensione extratestuale. Lotman scrive: «l’elemento esterno (…) è necessario per far diventare realtà la possibilità potenziale di generare nuovi sensi racchiusa nella struttura invariante del testo. Perciò il processo di trasformazione del testo nella coscienza del lettore (…), così come la trasformazione della coscienza del lettore introdotta dal testo, non è un travisamento della struttura obiettiva da cui ci si allontana, ma il manifestarsi del meccanismo del testo nel processo del suo funzionamento. I rapporti pragmatici sono rapporti fra il testo e l’individuo»83. E non potrebbe essere altrimenti, perché se è vero che il

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testo funzione come la coscienza umana, allora dovrà rispecchiare la sua fondamentale dialogicità.

Sempre in questo saggio, Lotman parla di esplosioni culturali per indicare il momento in cui una cultura (anche fortemente stabilizzata84), se perforata da un testo esterno, può trasformarsi radicalmente. Di nuovo, ci troviamo di fronte ad un passaggio fondamentale: vent’anni dopo, infatti, Lotman riprende il saggio, con omonimo titolo, per La cultura e l’esplosione85, proprio soffermandosi sulla forza “detonativa” dei testi quando immessi in una cultura a loro estranea. Ma perché Lotman completa l’edizione del 1981? In primo luogo egli vuole riaffermare il carattere “aperto” della cultura, sottolineando che il mero autosviluppo del sistema non solo lascerebbe fuori l’imprevedibilità e l’eterogeneità propria della cultura, ma alla lunga esaurirebbe qualunque riserva creativa (o esplosiva) del sistema stesso86, rischiando così o l’eterna ripetizione o il collasso culturale. Ma c’è un secondo motivo, precipuamente legato al primo, che spinge Lotman a parlare di nuovo del testo nel testo, ossia del valore dell’intruso – in Il meccanismo impredicibile della cultura egli lo paragona a una «illegittima cometa / Nel cielo sgombro di astri (Puškin)»87: egli infatti, attraverso l’immagine del testo illegittimo, vuole evidenziare il carattere di indeterminatezza della dinamica culturale (il possibile inatteso), rigettando in tal modo una visione escatologica di storia.

Già nella prima edizione Lotman aveva osservato che parlare di esplosioni culturali, per la storia della civiltà umana, «mette in evidenza il carattere semplificatorio dell’idea proposta da Voltaire nel Saggio sui costumi e lo spirito dei popoli, da Condorcet in Esquisse d’un tableau historique des progrés de l’esprit humain e inoltre della concezione dell’unità del cammino dello spirito umano sviluppata da Hegel»88, ossia tutte quelle visioni nelle quali era implicita un’idea di storia come evoluzione del perfettibile umano, in nome del quale, molto spesso, l’intruso, l’altro, il diverso sono stati automaticamente espulsi.

L’attenzione di Lotman per il valore epistemologico della casualità e della sua “incarnazione” testuale (il testo nel testo) – che implica,

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inoltre, un valore enorme del poliglottismo e della traduzione – è proprio da cogliere come riflessione etico-antropologica sulla storia.

Il legame fra il testo e l’altro trova un ulteriore sviluppo nel già esaminato saggio “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (da un punto di vista semiotico)”, (1983). Lotman scrive: «finora al centro dell’attenzione dei ricercatori c’è stato il problema delle condizioni che rendono possibile l’influenza del testo sul testo. A noi interessa qui un’altra questione: perché e in quali condizioni in certe situazioni culturali un testo estraneo diventa necessario. Il problema può essere posto anche in un altro modo: quando e in quali condizioni un testo estraneo è necessario per lo sviluppo creativo o (il che è lo stesso) quando e in quali condizioni il contatto con un altro “io” è la condizione necessaria allo sviluppo creativo della “mia” coscienza»89.

Lotman parte dalla considerazione che l’evoluzione biologica dell’uomo, dalle reazioni monocellulari alla dialogicità sessuale, è un cammino verso la complessità – egli in particolare è incuriosito dal fatto che attorno ad un’azione eminentemente “meccanica” come quella della riproduzione, la cultura costruisca una ricchissima casistica di situazioni ove è proprio la non praticabilità di quest’azione ad assurgere a modello culturale (l’ideale dell’amor platonico, il codice cavalleresco dell’amore, l’erotismo mistico delle sete medievali, ecc.): «incontriamo, scrive Lotman, un processo di progressiva complicazione che è in contraddizione con la funzione di partenza»90. La stessa cosa avviene per la comunicazione, ove sembra essere importante non tanto l’informazione semplice quanto quella complessa: anzi, sottolinea Lotman, paradossalmente i testi dotati di maggior valore culturale e di più alta densità semantica e capacità innovativa – ossia gli atti della coscienza creativa (poesia, arte, mito, ecc.) – sono proprio i meno adatti ad essere trasmessi, per via della loro intraducibilità in altre lingue. Non solo. La coscienza creativa, per essere tale, non può sussistere in un sistema totalmente isolato, statico, monostrutturale, ma ha bisogno di uno scambio con l’esterno: «non si può avere uno sviluppo immanente della cultura, scrive Lotman, senza l’affluire di testi dall’esterno»91. Ecco

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che torniamo allora alla domanda di partenza, ossia in quali condizioni un testo estraneo è necessario per lo sviluppo creativo: tanto più un sistema culturale è complesso e comprensivo di formazioni a loro volta eterogenee – specialmente se rientranti nell’orbita della coscienza creativa – tanto più allora esso avrà bisogno di un continuo scambio con l’esterno per svilupparsi organicamente. Qui tuttavia Lotman suggerisce acutamente che il rapporto con l’esterno non è legato solo all’atto dello scambio informativo ma anche a un altro aspetto: la cultura, per definire se stessa e delimitare i propri confini, ha bisogno di uno specchio nel quale riconoscersi per opposizione – quello che Lotman, con una certa perplessità per le identità culturali eteronomiche, definisce «il processo di costruzione del (…) controagente – dell’“altro”»92.

Avendo bisogno di un partner, la cultura crea con i propri sforzi questo “estraneo” portatore di un’altra coscienza, che codifica in modo diverso il mondo e i testi. Questa immagine creata nelle viscere della cultura – in contrasto con i suoi codici dominanti – è una sua esteriorizzazione verso l’esterno e una proiezione di se stessa sui mondi culturali che si trovano fuori di lei. Sono esempi caratteristici in questo senso le descrizioni etnografiche delle culture “esotiche” compiute dagli europei (…). L’immagine interna di una cultura esterna è dotata di una lingua di scambio con il mondo culturale nel quale viene incorporata. Proprio questa facilità comunicativa è legata però alla perdita di certe proprietà dell’oggetto esterno riprodotto, e spesso proprio di quelle che sono più valide come stimolatori.93

Vediamo dunque che, se da un lato il testo è l’incarnazione della dialogicità culturale, dall’altro, può veicolare le deformazioni ideologiche a cui questa dialogicità dà potenzialmente adito – in questo caso non sarà un dialogo fondato su quella che abbiamo chiamato diversità analogica ma piuttosto una traduzione auto-referenziale che vuol in-formare l’altrui attraverso un’equivalenza al proprio.

Passiamo ora ad analizzare i saggi in cui Lotman parla precipuamente della figura del pubblico. Nel 1979, in “Blok e la cultura popolare della

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città” (1979), per spiegare il rapporto partecipativo e costruttivo che si instaura tra il testo e il suo fruitore, Lotman parla di gioco, in termini molto simili a quelli usati in “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’” (1967): qui il semiologo russo aveva proposto l’immagine dello scintillio semantico per spiegare la dinamica del processo interpretativo. Nel saggio su Blok, Lotman scrive: «Il gioco non presuppone uno spettatore che ascolti un monologo, ma dei partecipanti che intervengano attivamente nell’azione. Chi gioca è coautore del testo. Il testo stesso non è qualcosa di dato in partenza che si deve ricevere, ma entra nel gioco, si crea cioè nel processo del gioco»94.

In realtà egli sta facendo riferimento a un particolare tipo di testo, ossia quello scaturente dal pensiero creativo. Lo possiamo desumere accostando questo saggio ad altri due scritti di quegli anni, rispettivamente del 1977 e del 1978, “Il testo e la struttura del pubblico” e “Le bambole nel sistema di cultura”. Nel primo, egli proprio puntualizza: «(…) ogni testo (e in particolare il testo artistico) contiene quella che possiamo chiamare immagine del pubblico»95. Un’immagine, continua Lotman, che si costruisce attraverso due bagagli comuni all’emittente e al destinatario: il codice linguistico e la memoria. Tanto più il testo sarà caratterizzato da un elevato grado di indeterminatezza interna – ossia dall’impossibilità di trasformare le enunciazioni di partenza in modo non univocamente predeterminato – tanto al destinatario sarà richiesto uno sforzo di approssimazione e interpretazione del codice e della memoria. Questo sforzo è particolarmente evidente quando si tratta di testi creativi, come quelli artistici, mitologici o comunque densamente simbolici. «Quello del pubblico nei confronti del testo non è dunque un rapporto di percezione passiva e ha invece la natura di un dialogo»96, il quale può essere più o meno coinvolgente: si può andare dallo scambio informatico al gioco. Nel primo caso l’immagine del pubblico è altamente codificata mentre nel secondo è frutto di un processo ermeneutico. Questo ci viene confermato dal saggio “Le bambole nel

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sistema di cultura” (1978). Qui Lotman sottolinea che «esistono due tipi di pubblico: quello “adulto” e quello “infantile”, “folklorico”, “arcaico”»97 – concetto affrontato, come abbiamo visto, anche in “Il fenomeno della cultura” (sempre del 1978); «il primo si comporta nei confronti del testo artistico come destinatario dell’informazione (…). L’altro pubblico assume nei confronti del testo l’atteggiamento di chi partecipa a un gioco (…). Nel primo caso si ottiene una informazione, nel secondo essa viene prodotta nel processo del gioco»98. In ambo i casi c’è un’immagine del pubblico a cui rispondere ma, se nel primo questa è determinata dall’autore, nel secondo essa è il risultato dell’incontro creativo fra i due poli dello scambio, che allora diventa veramente comunicazione.

Lotman conferma la sua predilezione per i testi prodotti dalla coscienza originaria, a dispetto di una certa coscienza positivista che, alla Condorcet, li considera parte dello stadio primitivo, non progredito dell’uomo. Il pubblico “infantile” (simbolizzato in questo saggio dalla bambola) diventa «una componente non occasionale ma necessaria di ogni civiltà “adulta” matura»99, parte costituiva della semiotica della cultura.

5.2 Byt, testi e cultura

In “Cultura e semiotizzazione del comportamento” (§ 3, cap. 2) abbiamo già sottolineato come la dimensione testuale, in rapporto ai poli della comunicazione, abbia delle dirette ripercussioni anche sugli habitus storico-culturali, i quali assorbono i modelli normativi veicolati dai testi. Lotman usa la parola russa byt per spiegare Nel periodo che stiamo esaminando sono in particolare due i saggi che in cui Lotman approfondisce questa tematica, entrambi del 1977: “Nuovi aspetti nello studio della cultura dell’antica Rus’” (scritto con Uspenskij) e “La poetica del comportamento quotidiano nella cultura russa del XVII secolo”; questi due scritti vanno poi collegati retrospettivamente ad uno del

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1973 – che abbiamo volutamente lasciato da parte nel capitolo 2 – ossia “Il teatro e la teatralità nel sistema della cultura all’inizio del XIX secolo”, e al già ricordato saggio del 1975 “Il decabrista nella vita. Il comportamento quotidiano come categoria storico-psicologica”. Ci accorgeremo che la semiotica della cultura in Lotman non solo si fa marcatamente storica ma si configura come uno sguardo capace di cogliere il farsi stesso della storia cultura, e viceversa, per il tramite della testualità “illegittima”.

Queste due infatti non sono viste da Lotman come un susseguirsi cronologico di quadri “cartesiani” costruiti e documentati dai testi ufficiali ma come un gioco teatrale di ruoli, di comportamenti a un tempo quotidiani ed estetici/tizzanti, di verba volant, di scena e retroscena. Scrivono Lotman e Uspenskij in “Nuovi aspetti nello studio della cultura dell’antica Rus’”: «secondo una tradizione profondamente radicata, gli storici equiparano la somma delle fonti scritte alla cultura in quanto tale. Tutto ciò che riguarda l’ambito non direttamente riflesso nei testi – la sfera della comunicazione orale del comportamento delle persone nelle varie situazioni non prefissate, della gestica e della mimica, del rituale domestico – viene categoricamente escluso dal campo di analisi».100 La semiotica della cultura e della storia, continuano i Nostri, deve invece prendere in considerazione anche lo strato orale che soggiace ai testi e che, in definitiva, ne permette la decifrazione101. Questa oralità tuttavia, essendo transitoria, ossia legata al qui e ora, viene a noi ovviamente in forma indiretta, attraverso una testualità non ufficiale (racconti, storie, raffigurazioni, oggetti, alta e bassa letteratura, ecc.): si crea così una situazione paradossale in cui l’oralità deve essere desunta da ciò che è tangibile e tutto, quindi, diventa testo: gli abiti, la lettere e le biografie, le opere d’arte, gli utensili domestici, l’architettura delle case, la disposizione dei mobili, l’organizzazione degli spazi, e via dicendo.

Diventano così di importanza capitale tutti quei testi “ufficiosi” nei quali, in certo modo, è depositata la vita quotidiana, poetica e prosaica, con la sua oralità, il suo buonsenso, la sua gestualità e determinatezza

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di ruoli, pose e routine, ma anche con i suoi modelli letterari archetipici e i suoi spazi tematizzati (il luogo del pianto e il luogo del riso, del confacente e dell’osceno, del sacro e del profano). Ad esempio, continuano Lotman e Uspenskij, studiare un aspetto antropologico (apparentemente) secondario come il “riso”, può rivelare indizi profondissimi delle origini di una cultura e dei suoi futuri assetti etico-politico-sociali. Tipico è il caso della Rus’ altomedievale, ove veniva ammesso solamente il sorriso devoto102: ma questo non può forse essere l’impronta e il sintomo di una precisa visione del mondo? Nella Rus’ si pensava infatti che il riso avesse una natura satanica, convinzione profondamente legata ad una visione dualistica del mondo, diviso fra sacro e sacrilego103 – divisione che, in forma secolarizzata, si presenterà ancora nel passaggio dalla Russia imperiale al sovietismo e da questo al post-sovietismo. Tipologicamente all’opposto stava il riso nel Medioevo europeo occidentale: gesto carnevalesco e satirico, in grado di creare uno spazio di legittima dissacrazione delle gerarchie etico-sociali, delle restrizioni religiose e, in definitiva, di imprevedibilità e progressivo cambiamento. Possibilità, questa, che si veniva a realizzare dentro (e grazie a) una cultura fondata su una visione non dualistica del mondo – quindici anni dopo, ne La cultura e l’esplosione (1992), Lotman infatti parlerà, a proposito del modello europeo, di una visione ternaria della realtà.

Quello dunque che potrebbe sembrare un aspetto meramente folkloristico e marginale della storia e della cultura si profila invece come una fonte di informazione “ufficiosa” ma fondamentale. Il riso, infatti, ci parla di due possibili tipologizzazioni culturali: quella occidentale, che procede per moderati ma inesorabili cambiamenti, e quella russo-orientale che, anche dopo il processo di europeizzazione iniziato nel Settecento da Pietro I, si struttura sulla logica esplosiva delle opposizioni binarie, le quali tendono a creare un percorso storico accidentato, fatto appunto di esplosioni e auto-distruzione.

E veniamo all’altro saggio del ’77, “La poetica del comportamento quotidiano nella cultura russa del XVII secolo”, in cui Lotman parla

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proprio del passaggio dal Medioevo russo al processo di europeizzazione, e lo fa di nuovo attraverso una prospettiva “ufficiosa”. Per capire infatti il Settecento illuminista in Russia le fonti storiche ufficiali non parlano a sufficienza: è nel comportamento, nella scenicità e nella teatralizzazione del quotidiano che vanno ricercati gli indizi di questo passaggio storico epocale: proprio come, per converso, abbiamo visto manifestarsi con il movimento ottocentesco decabrista (§ 3, cap. 2, “Il decabrista nella vita. Il comportamento quotidiano come categoria storico-psicologica”, 1975), impossibile da capire, secondo Lotman, senza una precipua riflessione sul programma di de-semiotizzazione teatrale posto in essere dagli contestatori decembristi – e documentato nelle lettere, nei racconti, nelle biografie di quel tempo.

Nel saggio del ’77 Lotman intende prima di tutto dare una definizione di “poetica del comportamento quotidiano” in senso semiotico e poi focalizzarsi sulla dimensione teatrale/lizzante. Scrive: «Definire il comportamento quotidiano come un sistema semiotico di tipo particolare vuol dire dare al problema un’impostazione che può suscitare obiezioni. Parlare della poetica del comportamento quotidiano significa infatti affermare che nel periodo culturale, cronologico e nazionale indicato, determinate forme di attività quotidiana erano coscientemente orientate secondo le norme e le leggi dei testi artistici e vissute in modo immediatamente estetico»104. Studiando l’epoca di Pietro I, Lotman si accorge infatti che, con l’importazione della cultura europea in Russia, si viene a creare una sorta di re-invenzione del quotidiano, accompagnata, da un lato, dalla cancellazione pragmatica degli habitus tradizionali e, dall’altro, dall’estetizzazione di buona parte dell’agire quotidiano.

Vediamo meglio come. Ogni cultura, scrive Lotman, si caratterizza per la distinzione fra comportamento abituale (o quotidiano) e comportamento rituale, sacro – distinzione che in Lotman assume subito un carattere spaziale. Questi due poi si contraddistinguono per le modalità di accesso: «Il primo tipo di comportamento, scrive Lotman, si apprende spontaneamente e senza rifletterci (…) il secondo tipo di

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comportamento si studia (…) come una lingua straniera, seguendo le regole e la grammatica»105. Il primo è “naturale”, il secondo prevede un passaggio di soglia. Capiamo bene dunque che, oltre a creare e qualificare due diversi piani di esistenza, la separazione fra spazi ordinari e spazi rituali ha anche una funzione propriamente operativa poiché alterna la cerimonialità alla più prosaica quotidianità, ossia la scena alla retroscena.

Nella Russia nobiliare di Pietro I questa separazione invece andò in cortocircuito. In virtù della volontà imperiale di europeizzazione, divenne obbligatorio «assimilare forme della vita quotidiana europea mantenendo rispetto ad esse una visione esterna, “estranea”, russa [ossia non diventando] stranieri ma comportarsi come stranieri»106 anche nell’agire ordinario. Questa sorta di alienità domestica (e addomesticata) non venne cioè introdotta nel solo ambito rituale – si pensi alla francesizzazione dell’ambiente diplomatico russo – ma anche e soprattutto in quello quotidiano e obbligò la nobiltà del tempo a ritualizzare tutto l’agire ordinario, trasformando comportamenti che sarebbero dovuti essere “naturali” e istintivi in comportamenti appresi attraverso norme e grammatiche (si pensi al galateo) e ancor più attraverso modelli artistico-letterari normativi. L’agire ordinario iniziò cioè ad essere ritualizzato ed estetizzato in ogni sua forma e si tradusse in una vera e propria “poetica” del comportamento quotidiano mentre la vita si trasformava in una sorta di sceneggiatura teatrale107. Seguiamo Lotman:

Lo sviluppo (…) della poetica del comportamento portò all’elaborazione della categoria della parte teatrale. L’uomo del XVIII secolo sceglieva per sé come se fosse stata una parte teatrale – invariante di ruoli tipici – un determinato tipo di comportamento, che semplificava la sua vita quotidiana e la elevava verso un qualche ideale. Si sceglieva di solito la parte rifacendosi ad un personaggio storico, a un uomo di Stato, a un letterato, al protagonista di un poema o di una tragedia. Il personaggio scelto diventava un programma di comportamento. Attributi come “il Pindaro russo”, “il Voltaire del Nord”, “il nostro

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La Fontaine”, “il nuovo Sterne” o “Minerva”, “Astrea”, “il Cesare russo”, “il Fabio dei nostri giorni” diventavano nomi propri supplementari. (…) Questo modo di vedere – che organizzava il comportamento dell’individuo, determinava la valutazione soggettiva che la persona dava di sé e nello stesso tempo il modo in cui veniva considerava dai contemporanei – creò un programma di comportamento individuale che in un certo senso determinava già il carattere delle azioni future e il modo in cui sarebbero state considerate.108

Questa sorta di predestinazione biografica modellizzata dai testi artistico-letterari era già stata trattata da Lotman in “Il teatro e la teatralità nel sistema della cultura all’inizio del XIX secolo” (1973). Emergono qui due questioni fondamentali: in primo luogo, l’incidenza dell’arte sugli habitus di un precipuo periodo culturale; in secondo luogo, il problema del rapporto fra storia e prevedibilità.

Da un lato, infatti, l’arte sembra essere un particolarissimo dispositivo modellizzante che si riproduce all’infinito sul palcoscenico della storia, aiutando l’intelletto collettivo a darsi una biografia e un’identità109 – «l’arte diventa il modello che la vita imita»110, «le forme specifiche della scenicità lasciano il palcoscenico del teatro e sottomettono la vita»111 – dall’altro la sua continua traduzione in forme di comportamento storico-culturali rischia di trasformare il cammino dell’umanità in una sorta di copione teatrale, togliendo all’imprevedibilità e alla creatività dell’agire umano il suo ruolo costruttivo. È bene però sottolineare che, secondo Lotman, non è in realtà l’arte a modellizzare in modo stereotipico la vita – essendo, per sua natura, un laboratorio di imprevedibilità112 – ma è la soggettività culturale che tende a usare l’arte in modo convenzionale.

Un esempio paradigmatico di reazione a questo rischio è, sempre secondo Lotman, il programma di “inveramento” posto in essere dai decabristi all’inizio del XIX secolo. Come abbiamo visto nel § 3 (“Il decabrista nella vita. Il comportamento quotidiano come categoria storico-psicologica”, 1975), anche questi utilizzano i modelli artistico-letterari per alimentare il loro eroismo etico e politico: la finalità,

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tuttavia, della poetica decabrista del comportamento quotidiano non è quella di estetizzare la vita ma di creare un solo modello di esistenza (personale, familiare, sociale, storico), coerente, “fedele a se stesso”, non semiotizzato all’occorrenza113. Cercando di abbattere la sovrapposizione tra scena e retroscena caratteristica dell’epoca petrina e post-petrina, i decabristi pongono in essere una sistematica azione di de-teatralizzazione e portano alle estreme conseguenza l’incarnazione dei personaggi eroici che si sono scelti come modello: non fingendo di morire sul palco da eroi ma morendo per davvero eroicamente.

1 J. Lotman, Prefazione a Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit., p. 4.

2 E. Agazzi, “Alcune osservazioni sul problema dell’intelligenza artificiale”, in P. A. Rossi (a cura di), Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978, p. 200.

3 Un’opzione di questa seconda prospettiva è presente in C. Shannon, con il suo “modello della complessità informazionale (o termodinamica)”. L’oggetto – e il suo grado di organizzazione o complessità – è qui studiato dal punto di vista informativo-comportamentale: valutando infatti «la non-equiprobabilità di occorrenza dei comportamenti possibili» si è in grado di capire «la quantità d’informazione suscettibile di essere trasmessa o perduta» dentro il sistema in esame e, dunque, di valutare la complessità della sua architettura interna (J-L., Le Moigne, “Progettazione della complessità e complessità della progettazione”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pp. 62-63.

4 G. Bocchi e M. Ceruti, “Presentazione” de La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. XXVIII.

5 «(…) von Neumann fu l’inventore non soltanto dei moderni computer digitali (“modalità booleane in base 2”), ma anche di molteplici discipline di matematica pura e applicata, come la teoria dei giochi», F. Varela, “Complessità del cervello e autonomia del vivente”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 118.

6 Come ha precisato, ancora, Varela – nel sua ricostruzione sulle origini della cibernetica – «il primo orientamento (quello di von Neumann) è la concezione secondo cui la cognizione è fondamentalmente un’attività di

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problem solving, e quest’idea è ciò che guida sia la costruzione delle macchine artificiali [calcolatori atti a risolvere ogni possibile problema] sia lo studio dei sistemi viventi. Il secondo orientamento (quello di Wiener) – più attento al rapporto fra conoscenza e scopo – sottolinea come la cognizione sia un’azione autonoma, autocreatrice, e come questo aspetto della vita sia essenziale per comprendere i processi cognitivi», Ivi, p. 118.

7 Ivi, pp. XXVIII-XXXIX. «Nelle scienze neurologiche si è costituito un programma di ricerca che è uno dei contributi più significativi a questo cambiamento di significato della nozione di adattamento. Il sistema nervoso non è più studiato dal punto di vista della sua funzione di rappresentazione del mondo esterno, ma dal punto di vista della sua chiusura, degli equilibri e delle interazioni che si costituiscono ricorrentemente fra le sue componenti, e degli accoppiamenti strutturali che si producono con l’ambiente. (…) “Le origini della conoscenza (e il farsi senso) (…) assomigliano a un processo di bricolage, a una scultura dinamica, a una costruzione delle strutture fatta a partire dai materiali disponibili per un organismo che li compone così come essi si trovano a prendere parte a una deriva che segue una fra le molte possibili traiettorie” (F. Varela 1984:219)», M. Ceruti, “La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti, La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 14.

8 Ivi, p. 119. 9 La teoria di Wiener è il classico esempio di riduzionismo comportamentale:

per il matematico americano esiste una (quasi) completa riproducibilità dei comportamenti dell’uomo da parte della macchina e, soprattutto, viceversa – in alcuni casi in Wiener sembra persino emergere una supremazia delle competenze comportamentali della macchina su quelle dell’uomo. La teoria di Ashby è invece un esempio di riduzionismo struttural-funzionale: esiste un’identità fra la struttura fisiologica dell’uomo e quella della macchina, tanto da poter dire che, una volta elaborata la mappa di relazioni fisiche funzionali che costituiscono la totalità dell’uomo, è possibile trasporle all’automa, il quale diventa esso stesso paradigma delle potenzialità cerebrali umane. A. P. Rossi puntualizza che «si può [certo] supporre un’analogia strutturale fra la l’uomo e la macchina ma questa non è ancora condizione sufficiente perché si manifestino le stesse attività»: le basi fisiche del pensiero non sono il pensiero, la struttura fisiologica del sistema nervoso è condizione necessaria ma non sufficiente al manifestarsi dell’attività intelligente (P. A. Rossi, “Introduzione” a Cibernetica e teoria dell’informazione, Editrice La Scuola, Brescia, 1978, pp. 8-10).

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10 Ivi, p. 11. 11 J. Lotman, “Sul meccanismo semiotico della cultura”, art. cit., p. 91. 12 “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”,

art. cit., p. 38. 13 Si tratta, come già visto nell’Introduzione (Semiotica e cibernetica. Il sistema

super-complesso), del rapporto fra identità e sviluppo, unità e molteplicità semiotica.

14 Nel 1989, per spiegare la dinamica coordinata di queste strutture nella struttura-cultura, Lotman parlerà di monadi, rifacendosi alla filosofia leibziana (J. Lotman, “Culture as a subject and an object in itself” (Kultura kak subekt i sama-sebe obekt, Tartu 1989), Trames, 1997, 1(51/46), 1).

15 Questa riflessione sarà ripresa nel 1987 nel saggio collettivo “Osservazioni preliminari sul problema: emblema-simbolo-mito nella cultura del XVIII secolo”, in Il simbolo e lo specchio. Scritti della scuola semiotica di Mosca-Tartu, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1997.

16 J. Lotman, “Cerebro – texto – cultura – inteligencia artificial” (Mozg-tekst-kul’tura-iskusstvennyi inyellekt, Mosca 1981), La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998, p. 95.

17 J. Lotman, “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”, art. cit., p. 40.

18 Scrive Lotman: «la tendenza all’aumento della varietà semiotica all’interno dell’organismo della cultura fa si che ogni nodo semantico dell’organizzazione strutturale riveli la tendenza a trasformarsi in una particolare “individualità culturale”, in un mondo cioè chiuso e immanente, dotato di una propria organizzazione interna strutturale-semiotica, di una sua memoria, di un suo comportamento individuale, di capacità intellettuali e di un meccanismo di autosviluppo. (…) la cultura come organismo unitario è costituita dall’unione di tali formazioni semiotico-strutturali, costruite secondo il modello delle singole personalità e del sistema di rapporti (comunicazione) fra queste»18 (“La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”, art. cit., p. 38).

19 Lotman in particolare fa riferimento a V. Degin, Funkcional’naja asimmetrija - unikal’naja osobennost’ mozga čeloveka (Asimmetria funzionale come tratto esclusivo del cervello umano), in “Nauka i žizn’”, n. 1, Tartu 1975; Vjač V. Ivanov, K predystorii znakovych sistem (Per una preistoria dei sistemi di segni), in “Materialy Vsesojuznogo simpoziuma po vtoričnym modelirujuščim sistemam” (Materiali del simposium dell’URSS sui sistemi secondari di

219

modellizzazione), I, Tartu 1975; Očcerki po istorii semiotiki v SSSR (Saggi sulla storia della semiotica nell’URSS), Moskva 1976. Ritroviamo la trattazione di questa tematica anche in “Postscriptum alle tesi collettive sulla semiotica della cultura”, ove Lotman et al. scrivono: «La capacità della cultura di trasformare l’entropia che la circonda in informazione, di creare entro se stessa lingue e testi radicalmente nuovi, così come il suo legame con il meccanismo della memoria collettiva, consentono di considerarla come una persona collettiva che, in particolare, viene a essere portatrice dell’intelligenza collettiva», J. Lotman et al., (1977, scritto per il volume), in La semiotica nei Paesi Slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., poi in F. Sedda (a cura di), Tesi per una semiotica delle culture (con il titolo “Eterogeneità e omogeneità delle culture”), Meltemi, Roma, 2006. Qui si userà la versione del 2006, quindi p. 150.

20 Scrive Atlan: «il passaggio dai geni ai caratteri [dal genotipo al fenotipo] non è una corrispondenza biunivoca, una corrispondenza parola per parola. Nella realtà una tale corrispondenza viene osservata soltanto in casi eccezionali. (…) Come nel caso di una traduzione da una lingua a un’altra lingua, anche in questo caso per tradurre il senso delle frasi non basta un semplice dizionario, che consentirebbe soltanto una traduzione parola per parola. Ci vuole anche la sintassi. Nelle lingue artificiali, come nei linguaggi utilizzati dai computer, la sintassi – cioè la struttura logica della lingua – e la codificazione dei simboli sono sufficienti per dire quello che si vuole dire. Ma nelle lingue naturali non basta nemmeno questo: il senso delle frasi dipende anche da altri fattori, soprattutto dal contesto e dalle situazioni in cui queste frasi sono pronunciate o, anche, sono percepite o lette. Nel caso del codice genetico non conosciamo la sintassi della lingua di programmazione. Tutto ciò che conosciamo consiste in un dizionario che permette di passare dalle parole scritte nella lingua dei geni (i DNA) alle parole scritte nella lingua degli enzimi (le proteine). E basta. In che modo queste parole costituiscano frasi dotate di un certo significato, in che modo i geni interagiscano vicendevolmente e in che modo essi determinino il funzionamento di una cellula o lo sviluppo di un organismo, questi sono tutti aspetti ancora ben poco compresi», H. Atlan, “Complessità, disordine e autocreazione del significato”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 141.

21 I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino, 1999, p. 148.

22 Ibidem.

220

23 Il contributo di Prigogine alla comprensione della “semiosi” genetica è così

spiegato da L. Tampellini: «Lo studio delle strutture dissipative potrà rivelarsi molto fecondo nel campo della biologia molecolare, e aiutare così a chiarire alcuni aspetti degli organismi viventi che sfuggono alle normali interpretazioni di stampo riduzionista e meccanicista. [Se una delle caratteristiche dei sistemi chimici complessi sono i meccanismi di feed back], un esempio notevolissimo di tali loop di retroazione è proprio il meccanismo con cui le proteine vengono sintetizzate sulla base dell’informazione contenuta nel DNA. La sequenza di basi del DNA infatti non è l’inizio di un processo lineare, ma il punto di un cammino circolare, in cui il codice genetico guida la sintesi delle proteine, le quali a sua volta entrano nel meccanismo di replicazione del codice stesso. I processi di feed back a livello biomolecolare non si limitano però alla sintesi delle proteine ma sono numerosissimi, nella regolazione degli enzimi, nella glicolisi, e in mille altri processi che avvengono all’interno della cellula. Inoltre lo spazio della materia vivente, come quello delle strutture dissipative, è uno spazio “aristotelico”, non isotropo, in cui si determinano direzioni, specializzazioni delle parti, gradienti di sistema, come è possibile vedere nei processi di embriogenesi. Possiamo dire dunque che i problemi della non-linearità [o complessità] delle strutture dissipative costituisce un campo i cui sviluppi potranno dare un contributo decisivo nella spiegazione del fenomeno della vita, compensando alle insufficienze del paradigma riduzionista darwiniano», L. Tampellini, recensione a I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, in DISF online.

24 H. Atlan, “Complessità, disordine e autocreazione del significato”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 141.

25 Ivi, p. 143. 26 Lotman, in Cercare la strada, commenterà questo passaggio con le seguenti

parole: «(…) l’orizzonte si allargava a considerare due aspetti: la trasmissione di messaggi già dati e l’elaborazione di messaggi nuovi. Quest’ultimo aspetto determinò una modifica sostanziale delle basi stesse della disciplina. Se per trasmettere informazione è sufficiente un unico canale (un’unica lingua), per elaborarne una nuova la struttura minima richiesta prevede due lingue diverse. Se prima l’inadeguatezza di fondo e di principio della traduzione, all’atto dell’intersezione di due lingue diverse, era considerata un ostacolo nel canale della comunicazione, ora questa stessa inadeguatezza diventava il meccanismo base di elaborazione del nuovo. I problemi connessi al

221

poliglottismo delle strutture e alla traduzione si fecero dominanti», J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 28.

27 Scrive Lotman: «V. V. Ivanov in una serie di conferenze tenute nel 1975 durante le riunioni dei seminari di semiotica dell’Università statale di Tartu e del VINTI (Mosca) [Vsesojuznyi institut naučnoj i techničeskoj informacii (Istituto per l’informazione scientifica e tecnica dell’URSS)] ha posto in relazione questa particolarità della struttura del cervello con le asimmetrie della cultura umana ed ha messo in evidenza che la comparsa di proprietà fondamentali della coscienza umana come le lingue, i modelli semiotici fondamentali comuni agli uomini ecc., avviene nello stesso periodo del processo di specializzazione degli emisferi del cervello», J. Lotman, “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”, art. cit., p. 42.

28 Ibidem. 29 J. Lotman, “Il fenomeno della cultura” (Fenomen kul’tury, Tartu 1978), in

Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit., p. 47. 30 J. Lotman, N. Nikolaenko “La “sección áurea” y los problemas del diálogo

intracerebral” (1983), La semiosfera. Vol. III. Semiótica de las artes y de la cultura, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 2000, p. 49.

31 Ivi, p. 50. 32 J. Lotman, “L’asimmetria e il dialogo”, art. cit., p. 100. 33 H. U. Von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica. Vol. 4: Nello spazio della

metafisica. L’antichità, Jaka Book, Milano, 1971, p. 147. 34 J. Lotman, “Il fenomeno della cultura”, art. cit., p. 48. 35 J. Lotman, N. Nikolaenko “La “sección áurea” y los problemas del diálogo

intracerebral”, art. cit., p. 50. 36 Nel campo delle scienze cognitive, è stato più volte sottolineato che la mente

umana procede per analogie. D. Gentner sostiene che «una buona corrispondenza analogica è quella in cui sussiste una significativa sovrapposizione nelle relazioni tra oggetti di due domini»; l’analogia è dunque una trasposizione [in termini di mappatura] di conoscenza da un dominio (la base o veihcle) in un altro (il target o topic) che fa sì che un sistema di relazioni reggente la struttura degli oggetti base, regga anche quella degli oggetti target. La corrispondenza, continua Gentner, «deve essere strutturalmente consistente e sistematica. Una corrispondenza strutturalmente consistente soddisfa il vincolo della

mappatura uno-a-uno e della connettività parallela.

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Le trasposizioni uno-a-uno sono quelle in cui ogni oggetto di un dominio

è situato in corrispondenza di (al massimo) un oggetto di un altro dominio.

Le corrispondenze connettenti parallele sono quelle in cui, per ogni coppia di relazioni corrispondenti, anche i relativi contenuti delle relazione combaciano.

Infine, una corrispondenza sistematica è quella che preserva la struttura profonda [ovvero la struttura interconnessa] dalle corrispondenze relazionali casuali o isolati.

Questo resoconto sottolinea che, nell’analogia, gli oggetti corrispondenti nella base e nel target non necessitano di assomigliarsi l’un l’altro in tutto; gli oggetti sono situati in corrispondenza quando giocano lo stesso ruolo in una struttura relazionale corrispondente», D. Gentner, A. B. Markman, “Similarity is like analogy: Structural alignment in comparison”, in C. Cacciari (a cura di), Similarity in Language, Thought and Perception, Brepols, Turnhout (Belgium), 1995, p. 115. N. Caramelli precisa a proposito della cosiddetta “trasposizione di struttura”: «In questo caso l’interpretazione di una metafora, o di un’analogia, consiste nel “trasporre” (mapping) la struttura di conoscenza del dominio del veihcle su quella del topic mediante un processo che mette in corrispondenza (allinea) le diverse proprietà degli elementi. Il sistema di relazioni che determina il vehicle viene trasferito sul topic e questa trasposizione può concernere sia singoli attributi sia l’intera struttura di relazioni che definiscono la struttura concettuale del vehicle secondo quello che viene definito principio di sistematicità. Per tale principio, nel determinare la trasposizione metaforica, sono rilevanti la struttura e la coerenza globale più che i confronti locali. Questo processo di trasposizione di struttura ha un forte valore euristico nel fornire conoscenze nuove relative ad un dominio di conoscenza ignoto in funzione della conoscenza di un dominio di conoscenza noto dando luogo al cambiamento nella conoscenza concettuale (Gentner & Wolf, 2000). Avallato da numerose verifiche empiriche, questo modello è stato tradotto in un algoritmo simulativo (Falkenhainer, Forbus, Gentner, 1989) e, inoltre, ha trovato numerose applicazioni nello studio del ragionamento e della scoperta scientifica (Gentner, Brem, Ferguson, Markman, Levidow, Wolf & Forbus, 1997)», N. Caramelli, “Psicologia e metafora. Interpretazioni e problemi nella ricerca recente”, Seminario interdottorale La metafora come fenomeno cognitivo della modernità, Scuola Superiore di Studi Umanistici, Università degli Studi di Bologna, 21 Febbraio 2002.

223

37 J. Lotman, “Il fenomeno della cultura”, art. cit., p. 50. 38 Ibidem. 39 U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1997, p. 225. 40 Questo meccanismo interno alla cultura non è da confondere con quello

postulato all’inizio degli anni Settanta, ove il dinamismo proveniva da un gioco di codici acculanti storicamente e si fondava su un meccanismo di dimenticanza e riesumazione della memoria – che, lo abbiamo visto, non riusciva a spiegare da dove provenissero le informazioni nuove.

41 J. Lotman, “L’asimmetria e il dialogo”, art. cit., p. 94. 42 Ivi, pp. 94-95. 43 Ibidem. 44 Ivi, p. 109. 45 Per Lotman grosso contributo è stato dato dallo studio della prospettiva

diretta e rovesciata in campo artistico (cf. B. Uspenskij, The Semiotics of the Russian Icon; P. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti).

46 Come esposto al § 5.3.2, cap. 1, nelle culture orientate all’espressione, è valorizzato il testo paradigmatico (o una somma di testi o consuetudini), a cui tutti i testi si devono conformare – per questo la semiosi è in stretto rapporto con il comportamento – mentre nelle culture orientate al contenuto è valorizzato il sistema di regole (grammatiche). Rispetto al rapporto che queste tipologie di cultura intessono con la realtà extra-testuale, nel primo caso il fuori-di-sé è considerato come “errato” o “falso” (rispetto a un centro “corretto” e “vero”), mentre nel secondo caso il fuori-di-sé corrisponde alla non-regola, ossia al caos, all’entropia, alla natura (rispetto a un centro che è cosmo, ordine, cultura) – tipico è il caso dell’ordine razionalistico di matrice illuminista.

47 Ivi, p. 110. 48 Ivi, p. 120. 49 Questo era già stato sottolineato in “Postscriptum alle tesi collettive sulla

semiotica della cultura” (1977), in cui Lotman et al. scrivevano: «Proprio nel momento in cui i contatti culturali casuali e sporadici, nel cui ambito ciascuna delle parti in contatto conserva l’autonomia, lasciano il posto a un’unità e le culture precedentemente distinte si compongono in un certo organismo, la differenza semiotico-strutturale tra esse non si appiattisce, ma si approfondisce. Esse entrano in rapporto di somiglianza-asimmetrica», J. Lotman et al., “Postscriptum alle tesi collettive sulla semiotica della cultura”, art. cit., p. 151.

50 Ivi, p. 116.

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51 Ibidem. 52 Ivi, p. 124. 53 Ivi, p. 128. 54 Ibidem. 55 Ibidem. 56 Ibidem. 57 Si veda in particolare: Il mito dell’eterno ritorno e Mito e realtà. 58 J. Lotman, “Mito - Nome - Cultura”, art. cit., p. 130. 59 Scrive Pierre Francastel che «(…) il “mito” non è solo una storia, una

collezione di storie più o meno romanzesche, una certa somma di tradizioni popolari o religiose, un fondo comune, o il residuo, della saggezza dei popoli. Il m to è una forma del pensiero, non meno del pensiero razionale. (…) Il mito è il modo di espressione naturale di gruppi di uomini per i quali non esiste opposizione tra le parti dell’universo», P. Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, Mimesis, Milano, 2005, pp. 72-73.

60 Ibidem. 61 Ivi, p. 111. 62 J. Lotman, “Il fenomeno della cultura”, art. cit., p. 50. 63 J. Lotman, “Mito - Nome - Cultura”, art. cit., p. 130. 64 Questa concezione sarà fondamentale per il concetto di monade in Lotman

come proposto alla fine degli anni Ottanta. 65 Se infatti consideriamo che la coscienza mitologica si esprime attraverso una

rappresentazione di tipo monolinguistica e che solo appartenendo a quel preciso sistema di rappresentazione (la lingua-oggetto) si può conoscere il mondo rappresentato, capiamo bene che la coscienza “adulta” tenderà a interpretare il mito attraverso un metalinguaggio, quando invece dovrebbe “entrarvi dentro” per capirlo. Scrive Lotman: «Da quanto si è detto consegue che la coscienza mitologica non è traducibile, a rigore, in termini di altro linguaggio, che vive chiusa in sé e quindi può essere compresa soltanto dal suo interno e non dall’esterno. (…) Alla luce di quanto si è detto la possibilità stessa di descrizione del mito da parte di un qualsiasi portatore della coscienza contemporanea sarebbe messa in dubbio se non fosse per l’eterogeneità del nostro pensiero e la presenza in esso di determinati strati isomorfi rispetto alla lingua del mito. Così il carattere composito del nostro pensiero ci consente di ricorrere, nella ricostruzione della coscienza mitologica, alla nostra esperienza interiore. In un certo qual senso la

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comprensione della mitologia è simile al ricordo», J. Lotman, “Mito - Nome - Cultura”, art. cit., p. 116.

66 J. Lotman, “Mito - Nome - Cultura”, art. cit., p. 113. E riprende in “Il fenomeno della cultura” 1978 «(…) nessun meccanismo pensante può essere monostrutturale e monolinguistico, ma deve necessariamente avere in sé organizzazioni semiotiche in lingue diverse e fra loro intraducibili. Condizione necessaria di ogni struttura intellettuale è la sua eterogeneità semiotica interna. Una struttura monolinguistica può spiegare il sistema dei rapporti comunicativi, il processo di circolazione di messaggi già formulati, ma non la formazione di nuovi messaggi. Per far nascere quell’utile e regolare irregolarità, che è l’essenza di un nuovo messaggio o di una nuova lettura del vecchio (…) è necessaria almeno una struttura bilinguistica», J. Lotman, “Il fenomeno della cultura”, art. cit., pp. 47-48.

67 «L’analogia fra le asimmetrie della cultura e la struttura asimmetrica del cervello implica il problema del rapporto fra le lingue discrete e non discrete e quello dell’equivalenza reciproca dei testi fondati su di esse», J. Lotman, “La cultura come intelletto collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”, art. cit., p. 42.

68 J. Lotman, “Mito - Nome - Cultura”, art. cit., pp. 103, 128 e 129. 69 Ivi, p. 128-129. 70 Ivi, p. 122. 71 Ivi, p. 119. 72 Ivi, p. 106. 73 J. Lotman, Z. Minc, “Letteratura e mitologia”, art. cit., p. 201. 74 Ivi, p. 203. 75 «Il Rinascimento ha creato una cultura sotto il segno della decristianizzzione

e della secolarizzazione. (…) La cultura razionalistica del classicismo, creando il culto della Ragione, ha canonizzato l’antica mitologia come sistema universale di immagini artistiche e nello stesso tempo ha “demitologizzato” definitivamente questa mitologia, trasformandola in un sistema di immagini-allegorie discrete e disposte logicamente», J. Lotman, Z. Minc, “Letteratura e mitologia”, art. cit., p. 217.

76 Sempre in “Letteratura e mitologia”, viene nuovamente puntualizzato l’enorme contributo dato dalla coscienza mitologica alla nascita della scienza: ««(…) la visione del mondo continua e la sua modellizzazione verbale discreta hanno un enorme valore culturale-intellettuale. (…) Proprio dalla coscienza [mitologica] sono state elaborate le idee di iso- ed altri morfismi, che hanno svolto un ruolo decisivo nello sviluppo della

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matematica, della filosofia e di altre sfere della conoscenza teoretica», J. Lotman, Z. Minc, “Letteratura e mitologia”, art. cit., p. 209.

77 Ivi, p. 203. 78 Si pensi qui a studiosi come Aby Warburg o George Didi-Huberman che

fondano la loro teoria dell’arte proprio sul mito dell’eterno ritorno, in particolare attraverso la figura degli archetipi. Scrive Lotman: (…) è evidente che l’influenza reciproca fra la coscienza ciclica continua e quella lineare discreta si ritrova in tutto il corso della cultura umana e costituisce una particolarità dell’attività mentale degli uomini. L’influenza reciproca fra il pensiero mitologico e quello logico e la loro convergenza nella sfera dell’arte è così un fenomeno sempre presente nella cultura umana», Ivi, p. 209.

79 J. Lotman, Prefazione a Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit.

80 Va detto che già nel ’67, nel saggio “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”, Lotman aveva proposto di concepire l’opera d’arte come un vivo organismo; non solo: proprio parlando dell’opera d’arte, il semiologo russo avanza l’ipotesi che un sistema culturale non solo abbia una funzione omeostatica ma anche di elaborazione di nuova informazione: «le particolari capacità costruttive dell’arte la rendono un mezzo singolare e assolutamente perfetto per la conservazione dell’informazione. Tuttavia le opere d’arte non solo si distinguono per tale loro eccezionale capacità nel conservare e trasmettere informazioni di ogni genere, comprese quelle più complesse ma ammettono anche la possibilità che la quantità di informazione in esse racchiusa aumenti in modo indefinito. Questa proprietà, caratteristica delle sole opere d’arte, conferisce loro tratti non dissimili da quelli propri dei sistemi dei sistemi biologico e le colloca su un piano del tutto particolare nella serie di ciò che è creazione umana», J. Lotman, “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modellizzazione’”, art. cit., p. 25.

81 J. Lotman, “La semiosfera”, in La semiosfera: asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia, 1985, p. 58.

82 Nella Cultura e l’esplosione Lotman scriverà: «La cultura nel suo insieme può essere considerata come testo. È tuttavia eccezionalmente importante sottolineare che essa è un testo organizzato in maniera complessa, che si scinde in una gerarchia di “testi nei testi” e che forma un complesso intreccio di testi. Dato che la stessa parola “testo” include nella sua etimologia l’idea dell’intrecciarsi dei fili nel tessuto, possiamo dire che con una tale interpretazione restituiamo al concetto di “testo” il suo significato

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originario», J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità (Kul’tura i vzryv, Moskva 1992), Feltrinelli, Milano, 1993, p. 99.

83 J. Lotman, “Il testo nel testo”, in La semiosfera: asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit., pp. 253-254.

84 Lotman in particolare fa riferimento alle culture arcaiche chiuse in un tempo ciclico.

85 Nell’originale de “Il testo nel testo” (1992) Lotman inserisce, come sottotitolo: Capitolo aggiunto. L’ultima parte del capitolo è un ampliamento della pagine conclusive del saggio “Il testo nel testo” in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit.

86 «qualunque sistema dinamico è immerso in uno spazio nel quale sono situati altri sistemi ugualmente dinamici, e anche frammenti di strutture distrutte, singolari comete di questo spazio. Dunque qualunque struttura vive non soltanto secondo le leggi dell’autosviluppo, ma è anche sottoposta a multiformi collisioni con altre strutture culturali. Queste collisioni hanno un carattere notevolmente casuale (…) Se il sistema si sviluppasse senza imprevedibili intrusioni esterne (cioè se fosse una struttura unitaria, chiusa in sé), allora si svilupperebbe secondo leggi cicliche. In questo caso il suo ideale sarebbe rappresentato dalla ripetitività. Preso isolatamente, un sistema finirebbe per esaurire persino i momenti esplosivi in esso inclusi», J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., pp. 88 e 99.

87 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 31. 88 J. Lotman, “Il testo nel testo”, art. cit., p. 256. 89 J. Lotman, “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (da un punto di

vista semiotico)”, in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit., p. 116.

90 Ivi, p. 120. 91 E continua Lotman: «questo “esterno” (…) essere sia “esterno” rispetto ad un

genere dato o ad una tradizione all’interno di una determinata cultura, sia “esterno” rispetto all’ambito delimitato da un tratto metalinguistico, che divide tutte le informazioni di una cultura in culturalmente esistenti (“alte”, “valide”, “culturali”, “presenti da sempre”) e in culturalmente inesistenti, apocrife (“basse”, “non dotate di valore”, “estranee”). Infine sono esterni i testi estranei che vengono da un’altra tradizione nazionale o culturale o da un’altra area», J. Lotman, “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (da un punto di vista semiotico)”, art. cit., pp. 124-125.

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92 Ivi, p. 126 93 Ivi, pp. 124-125. 94 J. Lotman, “Blok e la cultura popolare della città” (Blok i Narodnaja kul’tura

goroda, 1979, scritto per il volume), in Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit., p. 108.

95 J. Lotman, “Il testo e la struttura del pubblico” (Tekst i struktura auditorii, Tartu 1977), Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit., p. 191.

96 Ivi, p. 192. 97 J. Lotman, “Le bambole nel sistema di cultura” (Kukly v sisteme kul’tury,

Moskva 1978), in Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit., p. 146.

98 Ibidem. 99 Ivi, p. 147. 100 J. Lotman, B. Uspenskij, “Nuovi aspetti nello studio della cultura dell’antica

Rus’” (Novye aspekty izučenija kul’tury Drevnej Rusi, Moskva 1977), in Strumenti critici, 1980, 42/43, pp. 347-371, poi in A. N. Veselovskij et al., La cultura nella tradizione russa del XIX e XX secolo, (a cura di) D’A. S. Avalle, Einaudi, Torino, 1982, poi in F. Sedda (a cura di), Tesi per una semiotica delle culture (con il titolo “Il mondo del riso: oralità e comportamento quotidiano”), Meltemi, Roma, 2006, p. 159. Qui si userà la versione del 2006, quindi p. 159.

101 Ivi, p. 160. 102 Ivi, p. 164. 103 «non a caso, continua Lotman, il diavolo è chiamato in Russia šut [buffone,

giullare]. Il regno di satana è il regno ove i peccatori si lamentano e si battono i denti, mentre i diavoli ridono a crepapelle (…) erano considerati peccato nell’antica Rus’ sia provocare il riso [smechotvorenie], che ridere smodatamente (“il riso sono alle lacrime”). “Guai a coloro che mentono e a coloro che ridono”, esclama lo scrittore antico-russo, equiparando in maniera significativa questi due tipi di comportamento. Colui che ride rischia di trovarsi nella sfera del comportamento diabolico, peccaminoso e sacrilego», Ivi, p. 165-166.

104 J. Lotman, “La poetica del comportamento quotidiano nella cultura russa del XVII secolo” (Poetika bytovogo povedenija v russo kul’ture XVIII veka, Tartu 1977), in Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op.cit., poi in F. Sedda (a cura di), Tesi per una semiotica delle culture (con il titolo “Lo stile, la parte, l’intreccio. La poetica del comportamento quotidiano nella

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cultura russa del XVIII secolo”), Meltemi, Roma, 2006. Qui si prenderà userà l’edizione del 1980, dunque p. 201.

105 Ivi, p. 201. 106 Ivi, p. 204. 107 Scrive Lotman in “Il teatro e la teatralità nel sistema della cultura all’inizio

del XIX secolo”: «caratteristici del comportamento quotidiano del nobile russo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo sono sia l’associazione del tipo di comportamento a un determinato “spazio scenico” sia la tendenza all’“intervallo”-pausa durante il quale la semioticità del comportamento è ridotta al minimo», J. Lotman, “Il teatro e la teatralità nel sistema della cultura all’inizio del XIX secolo” (Teatr i teatral’nost’ v stroe kul’tury načala XIX veka, Tartu 1973), in Da Rousseau a Tolstoi: saggi sulla cultura russa, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 151.

108 J. Lotman, “La poetica del comportamento quotidiano nella cultura russa del XVII secolo”, art. cit. p. 116.

109 Questa riflessione è ripresa sei anni dopo in “La lingua teatrale e la pittura (sul problema della retorica iconica)” (1979), ove Lotman scrive: «Si forma un triangolo: il comportamento reale dell’uomo in un dato sistema di cultura, il teatro e le arti figurative; all’interno di tale triangolo si verifica uno scambio intenso di simboli e di strumenti espressivi. La teatralità penetra nel byt [comportamento quotidiano] e influenza la pittura, il byt agisce sull’uno e l’altro, promuovendo la parola d’ordine della “naturalità”; infine, la pittura e la scultura influiscono attivamente sul teatro, definendo un sistema di pose e di movimenti, e sulla realtà extrartistica, elevandola al livello di “portatrice di significato”. In questo contesto è estremamente importante che, spostandosi in un’altra sfera, questa o quella struttura di significato mantengano il legame con il proprio contesto naturale. Così nascono la “teatralità” del gesto sul quadro e nella vita, la “pittoricità” del teatro o della vita stessa, la “naturalità” della scena o della tela. Proprio questa doppia correlazione con i diversi sistemi semiotici crea una situazione retorica in cui è racchiusa una potente fonte di elaborazione di nuovi significati», J. Lotman, “La lingua teatrale e la pittura (sul problema della retorica iconica)” (Teatral’nyj jazyk i živopis’ (K probleme ikoničeskoj ritoriki) 1979), in S. Burini e A. Niero (a cura di), Il girotondo delle Muse. Saggi sulla semiotica delle arti e della rappresentazione, op. cit., pp. 109-110.

110 J. Lotman, “Il teatro e la teatralità nel sistema della cultura all’inizio del XIX secolo” (Teatr i teatral’nost’ v stroe kul’tury načala XIX veka, Tartu 1973), in

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Da Rousseau a Tolstoi: saggi sulla cultura russa, op. cit., p. 142. E continua: «Gli esempi di come tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo gli uomini costruiscano il loro proprio comportamento, il loro proprio linguaggio quotidiano, insomma il loro proprio destino, sulla base dei modelli letterari e teatrali, sono assai numerosi», Ivi, p. 142.

111 Ivi, p. 145. 112 Il laboratorio dell’imprevedibilità è la definizione che Lotman dà dell’arte

nelle sue ultime riflessioni teoriche. 113 Oltre al saggio “Il decabrista nella vita. Il comportamento quotidiano come

categoria storico-psicologica” (1975) ritroviamo la spiegazione della poetica decabrista del comportamento quotidiano in “Il teatro e la teatralità nel sistema della cultura all’inizio del XIX secolo” (1973), art. cit., p. 150.

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CAPITOLO 4

La cultura alla luce dell’antinomia uno-molti 1984-1993

Se si mettono insieme più bistecche non si ottiene un vitello, mentre tagliando un vitello si possono avere bistecche. Allo stesso modo, sommando una serie di atti semiotici particolari, non si otterrà l’universo semiotico. Al contrario, soltanto l’esistenza di questo universo – ovvero la semiosfera – fa diventare realtà il singolo atto segnico.1

1. La svolta organicistica

Intorno agli anni Ottanta, dopo aver assimilato e rielaborato l’eredità struttural-formalista – controbilanciando il riduzionismo metodologico (proprio di questo orientamento epistemologico) con un’apertura di matrice storico-letteraria – la semiotica tartuense si indirizza verso l’assimilazione di quelle istanze innovatrici che, come abbiamo visto, vanno emergendo nell’universo delle scienze naturali.

La soluzione proposta da Lotman, rispetto ad una semiotica che riesca sempre più ad abbracciare la molteplicità e l’eterogeneità del reale, è quella di creare un ponte tra la biologia e la cultura – concependo questa, analogicamente al vivente, come un’unità organica – e di considerare ogni fatto culturale, anziché in una condizione di isolamento, «in un continuum semiotico pieno di formazioni di tipo diverso collocato a vari livelli di organizzazione»2: la “semiosfera”3,

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concetto che Lotman evince (mutuandolo in chiave semiotica) dall’opera del geologo russo Vladimir Vernadskij (1863-1945), fondatore della scienza biogeochimica: La Biosfera (1926).

Questo termine scientifico era stato introdotto nel 1875 dal geologo francese E. Suess4, il quale però gli aveva attribuito un diverso contenuto: mentre per Suess la biosfera è quel «particolare involucro della crosta terrestre, conquistata dalla vita»5, e va studiata dal punto di vista geografico e geologico, per Vernadskij va esaminata invece dal punto di vista chimico, di modo da rinvenire le infinite migrazioni atomiche che avvengono a livello di totalità complessa e che, nel tempo geologico, formano e trasformano sia la materia vivente (biologica) che quella inerte (§ 2.1): «nella biosfera, pellicola superficiale superiore del nostro pianeta, dobbiamo cercare il riflesso non solo di fenomeni geologici singoli e casuali ma anche l’espressione della struttura del cosmo, connessa alla struttura e alla storia degli atomi degli elementi chimici. [Si tratta di un] meccanismo unitario, a un tempo terrestre e cosmico»6, che necessita di un approccio interdisciplinare, unione di biologia, geologia e chimica.

È proprio l’idea vernadskijana di un meccanismo unitario che coordina la molteplicità a offrire a Lotman l’intuizione e la possibilità di “rovesciare” lo studio semiotico della cultura: non più dal segno alla cultura, ma dal meccanismo semiotico della semiosfera alle sue costituenti.

La semiotica o, meglio, la culturologia lotmaniana va collocandosi progressivamente nell’orbita del “pensiero complesso”, paradigma scientifico che, sulla scorta dello studio dei sistemi non lineari7, riconsidera il rapporto tra il tutto e le parti secondo una visione olistica, sostenendo la non riducibilità del tutto alle sue singole componenti, in virtù di quelle proprietà d’insieme che, a certi livelli di complessità, emergono in qualità di informazione nuova8. Assumendo la prospettiva anti-riduzionista del pensiero complesso, lo stesso Lotman dirà ne “La semiosfera” (1984): «Se si mettono insieme più bistecche non si ottiene un vitello, mentre tagliando un vitello si possono avere bistecche»9,

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come a dire che la cultura, quale organismo a più livelli di organizzazione e stratificazione, può sì essere scomposta in diversi oggetti formali ma verrà compresa nella sua ricchezza solo attraverso uno sguardo d’insieme, fondato sul dialogo interdisciplinare. 2. Il pensiero complesso di Vladimir I. Vernadskij

(…) di fatto viviamo nell’ambiente naturale non come scienziati, che pesano e misurano, ma come poeti o filosofi. (V. I. Vernadskij)

Soffermiamoci ora sul pensiero di Vernadskij. Ripercorrendo alcuni suoi scritti – gli stessi che Lotman lesse probabilmente tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta – cercheremo di capire i presupposti e gli esiti teorici della scienza biogeochimica e la sua influenza sul pensiero lotmaniano.

2.1 Sulla biosfera. Vernadskij naturalista

Nel 1926, dopo quarant’anni di ricerche in ambito geologico, pedologico e mineralogico, Vernadskij scrive La biosfera, opera che consta di due saggi: “La biosfera nel cosmo” e “L’ambito della vita”10. Parallelamente, nel 1927 inizia a scrivere un quaderno di appunti teoretici che intitolerà Pensieri filosofici di un naturalista, concluso solo nel 1942 (a tre anni dalla morte) ed edito integralmente in Russia nel 1988. Nei Pensieri ritroviamo due scritti di importanza capitale: “Il pensiero scientifico come fenomeno planetario” (articolo del 1938, ed. in russo nel 1977)11 e “Alcune considerazioni sulla noosfera” (articolo del 1943, ed. in russo nel 1944) – di quest’ultimo esiste l’edizione americana del 1945, “The Biosphere and the Noösphere”12.

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Dopo La biosfera13 il “Vernadskij naturalista” sviluppa ulteriormente la riflessione proposta nell’opera del ’26 scrivendo: “L’evoluzione delle specie e la materia vivente” (articolo ed. in russo nel 1928)14, “L’origine del vita e l’evoluzione delle specie” (articolo del 1930, ed. in russo nel 1940)15, “Sulle condizioni dell’origine della vita sulla terra” (articolo ed. in russo nel 1931), Problemi di biogeochimica (opera ed. in russo in due volumi, rispettivamente nel 1935 e 1939), La struttura chimica della Terra e di ciò che la circonda (opera degli anni 1937-1944, ed. in russo nel 1965). Attraverso questi scritti, egli cerca di dimostrare come la vita sulla Terra sia una realtà da studiare in modo globale (o planetario), complesso e secondo un’ottica interdisciplinare, quale intende essere appunto la biogeochimica: scienza, che «rende disponibile una nuova concezione della [materia] vivente»16, la quale è il frutto dell’indissolubile legame e reciproco scambio fra gli atomi che la compongono e quelli che costituiscono la sua “casa”, ossia la biosfera.

La vita – precisa Vernadskij – si manifesta attraverso le migrazioni di atomi dalla biosfera alla materia vivente e viceversa, che si verificano di continuo a livello planetario sulla base di ben definite regolarità. La materia vivente è il complesso degli organismi che vivono nella biosfera (…) e viene studiata a livello planetario, mentre le singole entità componenti, alle quali si dirige [tradizionalmente] l’attenzione del biologo [e del geologo]17, rimangono in secondo piano nell’ambito dei fenomeni studiati dalla biogeochimica.18

Con un leggero tono di denuncia nei confronti del pensiero naturalista tradizionale, nella Premessa alla Biosfera Vernadskij si fa promotore di un metodo di studio e di ricerca che rifiuta di considerare casuali e atomistici i rapporti che intessono la materia vivente e non (inerte) – rapporti «essenzialmente ciechi, ovvero apparentemente tali per via della loro complessità e molteplicità»19 – e che postula invece l’esistenza di «un meccanismo del pianeta con un coordinamento unitario delle sue parti»20 (prospettiva che sarà fondamentale in Lotman). Ecco che ritorna il concetto di “complessità”, ossia quella

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prospettiva epistemologica che tende a dare al tutto interrelato un inedito valore scientifico.

Vediamo ora più approfonditamente in che cosa consiste il pensiero complesso vernadskijano.

Secondo il geologo russo, «le creature della Terra sono opera di un processo cosmico complesso, parte regolare e necessaria di un meccanismo cosmico armonioso, nel quale (…) nulla viene per caso»21. In termini scientifici22, si può dire che ciò che noi percepiamo della vita è il risultato statico dell’equilibrio dinamico23 tra l’ambiente cosmico, la biosfera e le componenti terrestri (viventi e inerti). Il legame reciproco fra questi tre livelli è così spiegato da Vernadskij: la materia vivente trasforma l’energia radiante del Sole in energia chimica, producendo così un numero elevatissimo di combinazioni diverse di atomi24, i quali, a loro volta, vanno a comporre e modificare incessantemente la biosfera e a ripercuotersi sulla materia inerte25. Si può considerare in questo modo «tutta la materia vivente come un tutt’uno, cioè l’insieme di tutti, senza eccezione, gli organismi viventi, come un unico, particolare campo di accumulo dell’energia chimica libera nella biosfera, di trasformazione in essa della radiazione luminosa del Sole»26.

Vernadskij è profondamente interessato alla materia vivente e agli attributi che la caratterizzano rispetto a quella non vivente27: che cos’è la vita? Com’è nata – avendo sempre origine dal vivente e mai dall’inerte –? A cosa è portata? Così potremmo riassumere le questioni che sottostanno alla Biosfera. Ma c’è un’altra domanda che punteggia l’opera di Vernadskij. Esiste uno scarto effettivo tra l’uomo e la materia vivente? C’è un qualche attributo che lo rende singolare rispetto agli organismi che popolano la Terra?

Cerchiamo intanto di rispondere per ordine. Rispetto alla primissima domanda, Vernadskij lascia aperta la strada, sottolineando che il metodo da lui adottato – come vedremo, l’empirismo induttivo – rinuncia a dare una spiegazione dell’origine della vita qualora non si fondi su dati certi ma su ipotesi e congetture28. E come ben sappiamo infatti questa è una strada ancora oggi aperta; egli solo, specie nel

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saggio del 1930 “L’origine della vita e l’evoluzione della specie”, indica come direzione lo studio sempre più approfondito delle condizioni primigenie entro le quali si è formato l’ambiente vitale del nostro pianeta. Per quanto concerne le altre domante, secondo il geologo russo la materia vivente nel suo insieme si caratterizza per l’ubiquità della vita, la forza di adattamento e la legge della parsimonia (riflessione presa da K. M. von Baer). In altre parole essa è portata, tramite la riproduzione, a conquistare «tutto lo spazio della biosfera grazie alla energia della vita»29 – questo punto sarà ripreso da Lotman – ad adattarsi attraverso impercettibili, apparentemente statiche trasformazioni30 e a raggiungere la condizione di stabilità31 con il minore consumo di energia possibile.

Quanto detto sinora, non trova una piena corrispondenza nell’uomo, il quale eccede quest’organizzazione naturale attraverso la capacità di autoriflessione (pensiero e coscienza)32 – o, quello che Lotman chiamerà, il culturale33. Secondo Vernadskij infatti, l’uomo è l’unico organismo in grado di alterare, con il suo raziocinio e la sua volontà34 (ossia la scienza, la tecnica e il lavoro), i processi che la materia vivente porta avanti con limitazioni sia spaziali che temporali. Un esempio caratteristico è la capacità di penetrare esponenzialmente in altitudine, nella stratosfera, e in profondità, nella litosfera, o di accelerare i tempi di adattamento, con un enorme dispendio di energia, o ancora di creare elementi inesistenti in natura, come il metallo allo stato puro. L’uomo, arriva a dire Vernadskij, è una forza geologica capace tanto di trasformare la Terra quanto di distruggerla (nel ’22 egli aveva predetto l’uso della bomba atomica). Scrive ne “L’ambito della vita”, saggio della Biosfera:

(…) l’uomo dotato di raziocinio e guidato dalla volontà può conquistare direttamente o indirettamente zone inaccessibili per gli altri esseri viventi. Nel quadro unitario di tutto il vivente (…) questa qualità dell’Homo sapiens non può essere considerata fenomeno fortuito. Essa ci costringe a considerare criticamente il concetto di stabilità dei limiti della vita nella biosfera.35

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Due anni dopo aver scritto La Biosfera, nel saggio “L’evoluzione delle specie e la materia vivente” (1928) Vernadskij definisce il tempo dell’Homo sapiens Era Psicozoica (Joseph Le Conte). Un tempo cioè in cui la biosfera, sotto l’azione del pensiero umano, va trasformandosi in noosfera36: la natura allo stato vergine scompare, lasciando il posto a un ambiente antropomorfizzato dalla mente e dalle sue protesi, ossia le tecnologie umane37.

Questo quadro concettuale è la premessa a quella che, cinquant’anni dopo (1979), verrà chiamata da J. Lovelock “Ipotesi Gaia”, ossia la prova sperimentale che la Terra è tale in virtù di «una proprietà coesiva della vita, [di] un attributo degli insiemi di esseri viventi [per cui] noi stessi siamo qualcosa di più del semplice catalogo delle cellule che ci compongono»38 e questo “di più” vivente agisce come forza coesiva, propulsiva e omeostatica sul pianeta: secondo il chimico britannico,

la maggioranza degli scienziati della terra accetterebbe oggi il fatto che l’atmosfera è un prodotto biologico – e questo è un omaggio alla biogeochimica. Ma la maggioranza di questi scienziati negherebbe pure che l’insieme dei viventi possa in qualche modo “controllare” la composizione dell’atmosfera, o qualcuna delle importanti variabili (…) che dipendono dall’atmosfera. (…) la vita e il suo ambiente sono due parti strettamente accoppiate di un sistema in cui fra queste due componenti si produce un anello di retroazione. Le perturbazioni di una delle componenti influenzeranno l’altra, e questa a sua volta retroagirà sul cambiamento originario.39

Capiamo bene da queste parole, l’entità del contributo vernadskijano (alla fine degli anni Venti!) alle future scienze sistemiche, decisamente orientate verso l’idea di complessità40 e di una scienza del vivente e dell’inerte fenomenologicamente solidali e temporali.

Passiamo ora al “Vernadskij filosofo” e cerchiamo di capire come egli sviluppi precipuamente questo passaggio dalla biosfera alla noosfera, concetto che esporrà definitivamente nel 1943.

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2.2 Sulla noosfera. Vernadskij filosofo

Finora abbiamo solo accennato alla visione che Vernadskij ha della scienza e del metodo che dovrebbe esserle proprio. Questo è, in effetti, il vero Leitmotiv che ricama tutti i suoi pensieri filosofici: non si può capire il concetto di “noosfera” senza aver compreso prima il ruolo che egli attribuisce alla conoscenza scientifica nel suo caratterizzare l’epoca contemporanea.

2.2.1 La cefalizzazione della biosfera come fenomeno naturale

L’uomo, soggetto alle leggi naturali, è – secondo Vernadskij – il frutto di un percorso durato milioni di anni, che ha come suo esito naturale e inevitabile la scientifizzazione del pensiero umano e, di conseguenza, la cefalizzazione (James Dana) della biosfera. Si tratta di un fenomeno irreversibile, risultato di una progressione evolutiva (ad andamento geometrico) che si è rafforzata nel tempo dando luogo al pensiero cosciente e all’Homo faber.

Il culturale dunque in Vernadskij è continuo al naturale, risultato del naturale. Così specifica in uno passo tratto da “La nuova conoscenza scientifica e il passaggio dalla biosfera alla noosfera” – riflessione fondamentale anche per capire la semiosfera lotmaniana:

Entro la materia vivente nelle ultime decine di millenni è comparsa ex novo e si è quindi sviluppata rapidamente, incrementando via via la sua incidenza, una nuova forma di questa energia, di intensità e complessità ancora maggiore. Si tratta di un’energia, legata all’attività vivente delle società, costituite da individui del genere Homo e di altri a lui vicini (ominidi), che oltre a conservare in sé le manifestazioni dell’energia biogeochimica usualmente intesa, produce nello stesso tempo un nuovo tipo di migrazione degli elementi chimici, assai diverso per varietà ed efficacia dalle forme tradizionali di energia biogeochimica della materia vivente del pianeta. Questa nuova forma di energia, che può essere chiamata energia della cultura umana o energia biochimica culturale […], è legata

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all’attività psichica degli organismi, allo sviluppo del cervello nelle manifestazioni superiori della vita e assume un livello tale da consentire la trasformazione della biosfera in noosfera soltanto con la comparsa della ragione. Quest’ultima è il prodotto di uno sviluppo durato, presumibilmente, centinaia di migliaia di anni, ma ha potuto rivelarsi come forza geologica soltanto a partire dal momento in cui l’Homo sapiens ha cominciato a incidere con il suo lavoro culturale sulla biosfera.41

Vernadskij definisce l’uomo un “oggetto naturale” e l’umanità “un fenomeno naturale”42: non l’apice del creato43 ma un prodotto della storia geologica e dell’ambiente che l’ha accolto, ossia la biosfera. L’unico, rigoroso e legittimo linguaggio che può dunque dar ragione di questa verità44 è appunto quello scientifico poiché esprime la precisa consapevolezza dell’uomo contemporaneo di essere soggetto alla natura, parte e conseguenza di essa, come lo è d’altronde l’energia biochimica culturale che lo contraddistingue – posizione, questa, che sarà confutata da Lotman. L’uomo, secondo Vernadskij, non è un qualcosa di “assolutamente altro”, come vorrebbero il pensiero religioso e filosofico (metafisico)45, ma un’unità evoluta, particolarmente efficace e infinitesimale dell’ordine naturale46.

Il geologo russo non manca poi di sottolineare che la cefalizzazione della biosfera, dovuta all’efficacia scientifica della specie Homo sapiens, può essere definita un processo esplosivo47, per il ritmo accelerato con cui va trasformando la realtà. Ritroveremo questo concetto in Lotman, anche se l’esplosione qui contemplata è naturale e inevitabile mentre nel semiologo russo è culturale e imprevedibile.

2.2.2 Una visione scientista della conoscenza umana

Il “Vernadskij naturalista” e il “Vernadskij filosofo” procedono in modo parallelo e integrale, spinti da una profonda tensione all’unità del sapere e della conoscenza – approccio che ha caratterizzato in generale l’intelighentsia russa pre-sovietica. In questa tensione però ritroviamo

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un pregiudizio metodologico che vena di scientismo alcuni passaggi della sua opera teoretica.

Vernadskij è figlio di un mondo scientifico che ha visto il delicato passaggio da una scienza edificata sul metodo deduttivo a una fondata sul metodo induttivo, vale a dire dal regno delle idee e delle ipotesi a quello dei fatti. Prediligendo l’induzione (e il continuo passaggio dal particolare al generale), egli si inserisce pienamente nell’approccio empirista il quale – scrive Vernadskij – non cerca di far rientrare forzatamente i risultati ottenuti in un’idea pregressa (l’ipotesi razionale) ma accetta senza paura la discordanza dal potenzialmente “atteso”; anzi, è la discordanza a far emergere la scoperta scientifica. Proprio nella Biosfera, egli sottolinea quanto sia necessario, ai fini di una comprensione complessa della materia vivente, «procedere allo studio dei (…) fenomeni in modo puramente empirico, e tener conto dell’impossibilità di dare della vita una “spiegazione”, cioè di trovarle un posto nel nostro cosmo astratto, costruito scientificamente con modelli-ipotesi»48.

Dai Pensieri filosofici, vediamo analogamente come egli ravvisi nell’empirismo l’unico modo per dar vita a una scienza (la biogeochimica) che affondi davvero nel reale, ossia nella natura. È questa che parla con le sue regolarità: se lo scienziato la ascolta non può che acquisire risultati corretti e arrivare a delle conclusioni universali e condivise – a differenza, come vedremo ora, di una certa filosofia e della religione. È la natura, ancora, a dare alla scienza il materiale da comprendere e rielaborare sotto forma di verità scientifica e non viceversa. Essa non deve mai diventare un riflesso della scienza e delle sue congetture ma, al contrario, deve poter dettare “legge”49. In questo modo la verità (scientifica) affonda nella realtà e non nella logica50.

Ma lo scienziato, nella visione vernadskijana, non è solo un “ascoltatore” della natura: egli è un vero e proprio custode della cultura umana, avendo (presumibilmente) la capacità di cogliere dalla vita dell’umanità nel suo insieme le intuizioni, le necessità e le aspirazioni

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del pensiero collettivo e di trasformale in nuove vie per la noosfera. Le verità scientifiche possono infatti emergere, secondo Vernadskij, non sono solo attraverso il rapporto diretto tra lo scienziato e la natura ma anche grazie lo sguardo non scientifico della collettività che, come abbiamo visto, è un tutto interrelato e complesso con la natura. Lo scienziato non può mai staccarsi dal resto della società ma deve anzi rimanere profondamente innestato nella rete di connessioni intellettuali dalle quali egli ricava il materiale per alimentare il processo di cefalizzazione. Ne discende che la ricerca scientifica ha sempre un carattere comunitario e condiviso.

Quella che Vernadskij contempla è forse una scienza rara: una scienza libera, etica, creativa, “popolare” e non asservita al potere. Seguiamolo in questo densissimo passaggio:

(…) lo scienziato-ricercatore, che vive puramente del suo lavoro scientifico, sia egli grande o piccolo, è soltanto uno degli elementi che sono alla base dello sviluppo della conoscenza scientifica. Accanto a esso dal profondo della vita emergono singoli individui, a volte legati in modo del tutto casuale, attraverso le molteplici possibilità di connessione che l’esistenza quotidiana offre e propone, a ciò che risulta importante e preminente sotto il profilo scientifico, dalle cui osservazioni e considerazioni, sovente estranee alla scienza, scaturiscono fatti e generalizzazioni scientifiche a volte fondamentali e decisivi e ipotesi e teorie poi ampiamente utilizzate dall’attività di ricerca. Questo tipo di creatività scientifica e di ricerca, che parte da azioni, comportamenti e interessi che si trovano al di fuori della scienza istituzionalmente intesa, del lavoro dell’umanità organizzato in modo cosciente, son l’espressione attiva e significativa, sotto il profilo scientifico, della vita dell’insieme dell’ambiente umano di un determinato periodo, la manifestazione concreta dell’ambiente scientifico cui esso è in grado di dar vita.51

Questo ambiente, tuttavia, non è immune dai pericoli derivanti da potenziali ripiegamenti ideologici. Anche se, come abbiamo appena visto, grazie a osservazioni e considerazioni estranee alla scienza52 possono emergere intuizioni preziose per la ricerca, Vernadskij tende

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talvolta ad attribuire alla conoscenza non scientifica un’azione divisoria entro la noosfera. La sua esperienza del totalitarismo lo porta a considerare “distorte” tutte quelle forme di pensiero che, non essendo così “oggettive” e imparziali come la scienza, riescono a manipolare la realtà in nome di una visione unica e astratta di verità53 – di qui, tra l’altro, il rifiuto del razionalismo e del metodo deduttivo, ossia di tutto ciò che è lontano dal mondo dei fatti. Egli vede dunque nella religione e nella filosofia razionalista i due “luoghi” ove, da sempre, sono nate le ideologie e i pensieri totalizzanti che hanno poi insanguinato la biosfera. Promotore del «libero pensiero dell’umanità»54, Vernadskij vede nella scienza l’unica forma di ragionamento che possa arrivare a conclusioni universali e condivise – tratte dai fatti della natura e dunque non ideologicamente astratte: essa è unitaria perché naturalmente oggettiva55 e perché «il rapporto di dipendenza dall’individualità, dalla personalità»56 di chi elabora il pensiero resta decisamente in secondo piano; la religione e la filosofia razionalista invece, essendo spiccatamente soggettive e partigiane, tendono alla contraddizione e danno luogo a irrimediabili conflitti57.

(…) nell’ambito della vita sociale la scienza ha un proprio profilo nettamente diverso da quello della filosofia e della religione. La differenza sta soprattutto nel fatto che essa costituisce in sostanza un qualcosa di unitario, ed è la medesima in tutti i tempi, per tutti gli ambienti sociali e la formazioni statali. A questa conclusione l’umanità è giunta attraverso una dura esperienza storica, poiché sia le religioni, sia le strutture sociali e le formazioni statali per interi millenni hanno cercato, e cercano tuttora, di pervenire a una fittizia unità e di costringere con la forza tutti ad accettare un’unica concezione complessiva del senso e delle finalità della vita. Ma in tutta la plurimillenaria storia dell’umanità mai si è riuscita a costruire una simile visione unitaria. Sono sempre state presenti contemporaneamente concezioni diverse che si combattevano e cercavano di sopraffarsi a vicenda o coesistevano. Questa aspirazione all’unità e all’omogeneità, che si è ormai rivelata agli occhi della quasi generalità degli uomini una evidente illusione, dopo

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una vana lotta e la perdita di ingenti forze comincia ora a essere archiviata come reperto del passato.58

Emerge una visione vagamente scientista dell’unitarietà della conoscenza scientifica, non fondata su un reale dialogo interdisciplinare e, a tratti, stranamente dimentica dei conflitti e della dispute che caratterizzano parimenti le scienze naturali – anche se Vernadskij era ben consapevole dell’accesa controversia che, in quegli, si stava consumando fra vecchi e nuovi paradigmi scientifico-epistemologici, ossia fra il mondo di Newton e quello di Einstein.

Va detto tuttavia che Vernadskij, in diversi punti della sua opera, controbilancia un po’ contraddittoriamente questa posizione forte nei confronti della filosofia e della religione, sottolineando quanto sia preziosa e profonda la loro aspirazione umana di abbracciare il mondo59, come la testimonianza che danno del cammino compiuto dall’uomo verso livelli sempre maggiori di comprensione del reale. Questo poi, secondo lo scienziato russo, è tanto più vero per l’arte, fonte d’inestinguibile aspirazione per il pensiero scientifico: con un volo d’intuizione e fantasia, essa è in grado di accedere direttamente al generale e alimentare il processo creativo della scienza. L’arte – scrive S. Tagliagambe – «fu sempre considerata da Vernadskij uno specifico ambito di conoscenza. Qui, a suo giudizio, non si è sottoposti alle restrizioni e alle costrizioni del linguaggio e delle concrete situazioni storiche e della vita quotidiana: “l’arte, per sua stessa essenza, è capacità di sollevarsi al di sopra del concreto, ha a che fare con concetti generali, e non con casi particolari e specifici (…). Per questo l’assoluto può trovare un qualche riflesso soltanto nell’arte, che ne restituisce in qualche modo il profilo eterno [V. I. Vernadskij]”»60.

Questa visione di conoscenza prismatica, solcata talvolta da una certa oscillazione scientista, influenza profondamente Lotman, il quale accoglie il pensiero dello scienziato russo mettendosi dalla parte di coloro che vivono nell’ambiente naturale non come scienziati, che

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pesano e misurano, ma come poeti o filosofi. In questo modo, come vedremo ora, egli cerca di dar una spiegazione culturale della biosfera. 3. Sulla scia di Vernadskij. Dalla biosfera alla semiosfera

3.1 I saggi del 1984: l’uso della metafora organicistica

Già alla fine degli anni Settanta, Lotman inizia a concepire il sistema culturale come un tessuto organico di relazioni testuali, che molto ricorda la trama di una rete organizzata in reciproche connessioni.

Quando, nel 1984, scrive “La semiosfera”, egli sviluppa compiutamente questa prospettiva, ponendo a fondamento del suo pensiero una premessa di ordine epistemologico. L’impostazione metodologica del pensiero scientifico tradizionale, scrive Lotman, è quella di «porre come base di partenza l’elemento più semplice, quello atomico»61 e di esaminare il complesso alla luce dei costituenti minimi. «C’è tuttavia – continua Lotman – un pericolo. Ciò che è dovuto all’opportunità euristica (alla convenzione dell’analisi) ha cominciato ad essere considerato una proprietà ontologica dell’oggetto, al quale viene attribuita una struttura, che si sviluppa a partire da elementi atomici, semplici e chiaramente definiti che si complicano progressivamente. L’oggetto complesso viene ricondotto così ad una somma di elementi semplici»62. Di conseguenza, la tendenza delle tradizioni semiotiche a considerare come elemento base quello più semplice, atomico – tendenza che la stessa Scuola di Mosca-Tartu ha seguito all’epoca del Simposio sullo studio strutturale dei sistemi segnici (1962) – può certamente essere vista come un’opportunità euristica, una facilitazione nello studio di complessi oggetti semiotici. Tuttavia, qualora quest’opportunità si traducesse in una semplificazione dell’oggetto, ossia facesse della riduzione una proprietà ontologica dell’oggetto, allora la semiotica avrebbe tradito i suoi scopi – qui

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Lotman sta sostanzialmente descrivendo il passaggio dal riduzionismo metodologico a quello concettuale63: essa rischierebbe infatti di prendere strade incompatibili con l’oggetto che va studiando: la cultura, per sua natura estremamente complessa.

Lotman decide dunque di abbandonare l’equivalenza “oggetto complesso come somma di elementi semplici” in forza di una visione organicistica di cultura. Scrive: «l’universo semiotico può essere considerato un insieme di testi e di linguaggi separati l’uno dall’altro. In questo caso tutto l’edificio apparirà formato da singoli mattoni. È però più feconda l’impostazione opposta. Tutto lo spazio semiotico si può considerare infatti come un unico meccanismo (se non come un organismo). Ad avere un ruolo primario non sarà allora questo o quel mattone, ma il “grande sistema” chiamato semiosfera»64.

È evidente qui il rifermento a Vernadskij – dal quale Lotman prende spunto in modo un po’ improprio65 – e la ricezione del suo invito a saper cogliere, in seno alla complessità del tutto, il «coordinamento unitario delle (…) parti»66 e il meccanismo che gli soggiace: lo stesso meccanismo che fa della molteplicità un tutto interrelato.

Vediamo ora meglio in che cosa consiste quel “grande sistema” che è la semiosfera. Per fare questo useremo i saggi teorici del 1984: “La semiosfera”, “La cultura e l’organismo”67, “La metasemiotica e la struttura della cultura”68, “La dinamica dei sistemi culturali”69.

3.2 Dentro di mondi pensanti [Vnutri misljaščich mirov] o Universe of the Mind

Facciamo stranamente un salto al 1990, anno in cui Lotman propone al pubblico “semiotico” anglosassone, più orientato al pensiero logico-cognitivo e pragmatico-interpretativo, l’opera Universe of the Mind, che sarà poi pubblicata nel 1996 in russo con il titolo Vnutri misljaščich mirov: čelovek – tekst – semiosfera – kul’tura (Dentro i mondi pensanti: cervello – testo – semiosfera – cultura).

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Il libro consta di tre parti: I) The text as a meaning-generating mechanism; II) The semiosphere; III) Cultural memory, history and semiotics. Come si può dedurre dai titoli – specialmente per la prima e la seconda parte – si tratta di raggruppamenti di saggi elaborati da Lotman negli anni Settanta-Ottanta e leggermente ritoccati per l’edizione americana, come segue: Nella I parte ritroviamo scritti che vanno dall’inizio degli anni ’70

al 1987 (per questo motivo è stata inserita già nei capitoli 2 e 3 del presente lavoro): il saggio 1. “Three functions of the text” fa parte degli scritti poetologici Struktura judozhestvennogo teksta (1970, La struttura del testo artistico, vedi ed. it.) e Analiz poetičeskogo teksta. Struktura sticha (1972, L’analisi del testo poetico. La struttura del verso); il 2. “Autocommunication: ‘I’ and ‘Other’ as addressees” è da ricollegarsi a “I due modelli di comunicazione nel sistema della cultura” (1973, vedi ed. it.); il 3. e il 4., “Rhetoric as a mechanism for the meaning-generation” e “Iconic rhetoric” sono rida collegarsi a “Il linguaggio teatrale e la pittura. Un contributo al problema della retorica iconica (1979, vedi ed. it.) e “La retorica” (1981, vedi ed. sp.); il 5. “The text as process of movement: author to audience, author to text” è da collegarsi a “Il testo e la struttura del pubblico” (1977, vedi ed. sp); i saggi 6. e 7. “The symbol as plot-gene” e “The symbol in the cultural system” sono da ricollegarsi a “Il simbolo nel sistema della cultura” (1987, vedi ed. it e sp.) e al saggio collettivo “Osservazioni preliminari sul problema: emblema-simbolo-mito nella cultura del XVIII secolo” (1987, vedi ed. it.).

Per quanto concerne la II parte, The semiosphere, i saggi 8. “Semiotic space”, 9. “The notion of boundary”, 10. “Dialogue mechanism” e 11. “The semiosphere and the problem of plot” sono tutti da ricollegarsi ai saggi facenti parte dell’antologia italiana La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti (1985). Il saggio 12. “Symbolic spaces” è invece, a sua

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volta, una raccolta di saggi esemplificativi sul simbolismo spaziale, argomento che Lotman aveva affrontato in diversi scritti sin dagli anni Sessanta; “Symbolic Spaces” contempla: 12.1 “Geographical space in Russian medieval texts” da collegarsi a “Il concetto di spazio geografico nei testi medievali russi (1965, vedi ed. it.); 12.2 “The journey of Ulysses in Dante’s Divine Comedy” da collegarsi a “Il viaggio di Ulisse nella “Divina Commedia” di Dante” (1979, vedi ed. it.); 12.3 “The ‘home’ in Bulgakov’s The Master and Margarita” (questo è l’unico originale nella raccolta anglosassone, è uscito postumo in Russia nel 1996 per la casa editrice Moskva, vedi ed. it. “La casa ne Il maestro e Margherita”); 12.4 “The symbolism of St Petersburg” da collegarsi a “Il simbolismo di Pietroburgo e i problemi della semiotica della città” (1984, vedi ed. it.).

La terza parte, Cultural memory, history and semiotics – come vedremo meglio nel capitolo 5 di questo lavoro – è invece un sunto di numerosi saggi che Lotman scrive dal 1986 sul rapporto fra semiotica, storia ed evoluzione culturale. Questa parte consta dei saggi: 14. “The problem of the historical fact”, 15. “Historical laws and the structure of the text”, 16. “An alternative: culture without literacy or culture before culture?”, 17. “The role of typological symbols in the history of culture”, 18. “Can there be a science of history and what are its functions in the cultural system?”.

Per questo capitolo si userà soprattutto la seconda parte di Universe

of the Mind (The semiosphere)70, anche se, per parlare della semiotica spaziale (§ 5), si ricorrerà ai relativi saggi in traduzione italiana – che vanno dagli anni Sessanta agli anni Novanta – lasciati sinora da parte appunto perché cronologicamente ripresi dal tardo Lotman.

La prima parte, risalendo soprattutto agli anni Settanta, è stata usata parzialmente nei capitoli precedenti, mentre la terza parte –

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decisamente la più originale – sarà affrontata nel capitolo 5, ossia quello dedicato all’ultimo Lotman.

Possiamo ora affrontare il discorso sulla semiosfera, avvalendoci di questo corpus di fonti.

3.3 La semiosfera

3.3.1 Come un sole che gorgoglia, una cellula che prolifera, un’intelligenza diffusa. Diverse definizioni

«La semiosfera, lo spazio della cultura, non è qualcosa che agisce secondo piani già tracciati e pre-calcolati. Essa gorgoglia come il sole, centri di attività ribollono in diversi punti, nelle profondità o in superficie, irradiando aree relativamente miti con la sua immensa energia. Ma a differenza del sole, l’energia della semiosfera è l’energia dell’informazione, l’energia del Pensiero»71.

In questa breve e densissima citazione c’è un po’ il sunto del concetto di semiosfera, parola che già dal punto di vista terminologico richiama la dimensione topologica. La semiosfera è prima di tutto uno spazio, lo «spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi»72, ossia quel processo che permette la vita culturale dell’uomo. La semiosfera è una predisposizione al senso, individuale e collettiva, e chiama a sé il senso: è presupposto e prodotto dell’attività semiotica umana, ossia dell’essere e fare cultura (in questi termini il concetto di semiosfera è assimilabile a quello di cultura).

Ancora, la semiosfera è una sorta di intelligenza diffusa73 che, come l’aria, non si può vedere o toccare ma è indispensabile per la sopravvivenza umana – legata, come abbiamo visto anche in Vernadskij, alla capacità del cervello di conquistare lo spazio e di culturalizzarlo. Già nel saggio del 1981, “Cervello – testo – cultura – intelligenza artificiale”, Lotman sottolineava che per capire questo meccanismo basta pensare ai bambini cresciuti in totale isolamento dalla collettività umana e dai

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suoi testi. In loro il dispositivo del pensiero è perfetto dal punto di vista fisiologico – ossia in termini di struttura cerebrale – ma si presenta come una macchina che non è stata messa in moto74: come, dunque, il cervello di un bambino semioticamente vergine non inizia a lavorare “all’umana” se non viene immerso nella relazione dialogica con altri umani, così l’uomo “culturale” è tale solo se avvolto dallo spazio della semiosi, dall’intelligenza diffusa, collettiva e relazionale della cultura.

E ancora, come nella biosfera il vivente nasce solo dal vivente, così nella semiosfera il senso nasce solo dal senso75: questo ha un carattere di accumulazione e produzione esponenziale, come il logos che cresce su di sé76. L’interscambio semiotico crea uno spazio ove la predisposizione al senso non rimane tale ma viene messa in moto, diviene atto semiotico e cresce poi per progressione geometrica a causa delle molteplici connessioni intellettuali (individuali e collettive) che si irradiano in questo spazio.

Sin qui sembrerebbe che la semiosfera lotmaniana, più che in un rapporto di analogia con la biosfera, stia in un rapporto di uguaglianza con la noosfera. Il semiologo russo sottolinea invece come, a differenza di quest’ultima, la semiosfera non sia contigua alla sviluppo naturale della biosfera, ossia una sua manifestazione razionale (scientifica). Essa è un’intelligenza semiotica, che contempla quindi molteplici e composti modi di espressione: dall’iconico al verbale, dal musicale al comportamentale, dallo spaziale al temporale – molti dei quali Vernadskij tende invece a relegare nella sfera del non razionale.

Ritornando alla citazione d’apertura, Lotman ci suggerisce un altro attributo fondamentale della semiosfera. Si tratta di uno spazio vitale, composto da molteplici sub-spazi di trasformazione, alcuni più visibili e attesi, altri più nascosti e imprevedibili: ossia i processi culturali centrali e che quelli “periferici”. La cultura assume le sembianze di una sfera – sia essa inerte (il sole) o vivente (la cellula) – che ribolle di cambiamenti e che, nel tempo, vedrà uno spostamento di questi sub-spazi dalla profondità alla superficie oppure una loro espulsione verso l’esterno77. Vediamo meglio questa dinamica.

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3.3.2 Asimmetria e isomorfismo, opposizione e specularità

La semiosfera, come abbiamo visto (§ 1 e 3.1), non è la mera somma degli innumerevoli atti semiotici che in essa si realizzano ma è un qualcosa di più, ossia una totalità complessa che eccede e informa – dal punto di vista informativo78 – questa somma.

Lotman se la immagina come un volto che si riverbera in uno specchio frantumato: l’immagine «si riflette [per intero] in qualunque suo frammento, che appare così una parte dello specchio e nello stesso tempo simile ad esso»79, simile all’identità del tutto (è ciò che E. Morin chiama “principio ologrammatico”80). Così avviene nella semiosfera. Quel qualcosa di più, vale dire la fisionomia della cultura, riveste come una pellicola (o membrana)81 tutti gli atti semiotici che in essa avvengono e si deposita nei testi da loro prodotti: ossia nelle tracce empiriche dell’attività semiotica, analizzabile esclusivamente attraverso i suoi effetti. Ogni singolo testo è dunque un’unità culturale autonoma – in virtù della capacità strutturale di significare82 – ma custodisce in sé il “volto” della sua cultura. Questo vuol dire, secondo Lotman, che ogni unità testuale dovrebbe in certo modo esprimere per intero la “casa” che la ospita e la genera, ossia la semiosfera. Il semiologo russo chiama questo principio “isomorfismo”, vale a dire la capacità di rispecchiamento del tutto nelle sue parti e viceversa – principio che, personalmente, definirei di più “analogia”.

Cercando di capire il meccanismo di coordinamento unitario che sottostà a questo tutto interrelato, Lotman si fa la stessa domanda che si era posto Vernadskij, quando aveva ipotizzato che la biosfera potesse essere parte di un «processo cosmico complesso, parte regolare e necessaria di un meccanismo cosmico armonioso, nel quale (…) nulla viene per caso»83. Scrive Lotman: «(…) viene spontaneo domandarsi se tutto l’universo non sia forse un messaggio che fa parte di una semiosfera ancora più ampia e se esso possa essere soggetto a una lettura»84: egli si chiede, in sostanza, se la presenza dell’uomo nel cosmo, in quanto soggetto e osservatore culturale, non sia accidentale e

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se, dunque, la comprensione fisica dell’universo sia strettamente vincolata alla comparsa dell’intelligenza umana – un universo cioè finalizzato alla comparsa dell’uomo in quanto recettore intelligente di informazioni (teoria avanzata dagli esponenti del principio antropico85).

Lotman non dà per il momento una risposta a questo interrogativo, lasciandolo come riflessione conclusiva della sua parabola intellettuale (I meccanismi impredittibili della cultura, 1994 postumo). Tuttavia esso apre la strada a un’altra riflessione, ossia la relazione fra isomorfismo e asimmetria, identità e differenza. Lotman premette infatti che, qualora si volesse studiare la semiosfera come un’unità universale, dovrebbe in ogni caso essere rispettato il principio dell’eterogeneità (o asimmetria), quale meccanismo base della semiotica della cultura. Questo punto era stato precipuamente toccato nel sopracitato saggio “Cervello – testo – cultura – intelligenza artificiale” (1981), ove Lotman aveva sottolineato che l’unità e l’identità di una struttura complessa – condizioni garantite dal principio isomorfico – devono essere compensate dall’asimmetria delle sue sub-strutture, pena l’omogeneizzazione di queste. Il suo modello è sempre l’attività intelligente, la quale è il risultato di un’unità asimmetrica: il cervello, uno e doppio al contempo86, è in grado di dare una conoscenza unitaria della realtà proprio perché lavora di traduzione bipolare. Più tardi, in Universe of the Mind, egli sottolineerà come si debba guardare in generale all’asimmetria strutturale che caratterizza l’uomo e la sua esperienza esistenziale per capire il ruolo della diversità in seno all’unità: «l’asimmetria del corpo umano è la base antropologica della sua semiotizzazione: la semiotica della destra e della sinistra fonda universalmente la cultura umana come l’opposizione alto e basso, maschio e femmina, vivente e morto»87.

Ma come avviene questa dinamica nella semiosfera?

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3.3.3 Il centro della semiosfera: un binarismo modellizzante

Prima di tutto osserviamo la figura 4.

Figura 4 – La semiosfera

Sovrapponendo questa figura alla 2 e alla 3 (cap. 3), possiamo dire che Lotman vede la semiosfera come un sistema gerarchico a vari livelli di organizzazione – lo specchio e i suoi frammenti – ove la gerarchia implica una distribuzione delle sue sub-strutture (gli agglomerati testuali) in termini di rapporto riflesso con il mondo extrasemiotico; questo rapporto passa attraverso un’opposizione binaria di base (A e -A) che esplica la visione paradigmatica della semiosfera sul mondo extrasemiotico circostante: ad esempio, natura-cultura, scienza-

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mitologia (o scienza-arte), ragione-sentimento, ordine-caos, legge-anarchia, tradizione-modernità, origine-fine, e via dicendo. Ovviamente, sebbene la semiosfera possa sembrare qui una sorta di soggettività impersonale che decide i termini di /A/ e /-A/ – confusione che Lotman rischia spesso di creare – essa è sempre formata da uomini: uomini che orientano collettivamente la cultura e che in un certo tempo attribuiscono, ad esempio, alla tradizione il ruolo di A e, in un altro tempo, il ruolo di /-A/88.

L’opposizione è un modello del mondo, che viene così investito a cascata di valori positivi /A/ e negativi /-A/. Essa ha dunque una funzione modellizzante e assiologizzante sulla cultura89 e, come vedremo, può cambiare nel tempo a causa dei centri di attività che ribollono nelle profondità90 della semiosfera; ma nell’hic et nunc si presenta come una norma, che per essere protratta necessita di una continua interpretazione da parte di linguaggi diversi, in rapporto di scambio. Facendo questo, essa genera e alimenta lo spazio della semiosfera, imprimendole la sua un’unità asimmetrica91 ossia il suo volto.

Ogni semiosfera (o cultura) tende, infatti, secondo Lotman a rapportarsi con il mondo extrasemiotico in modo oppositivo e a incorporare progressivamente l’esterno traducendolo attraverso i suoi molteplici linguaggi e “raggrumandolo” in agglomerati testuali poliglotti. Il centro della semiosfera, ossia il suo modello binario di base, è frutto di un lavoro di auto-descrizione (§ 3, cap. 3) che essa pone in essere per imprimere un’unità ideale92 a tutto il suo spazio – un’unità che comporta anche un posizionamento rispetto al bene e al male; l’uso di un metalinguaggio qui è fondamentale, e di solito si tratta di quello verbale93 ma, come vedremo, la semiosfera ha un altro particolarissimo modo di creare questa sorta di traduttore universale94, vale a dire il linguaggio topologico (verbale+spaziale).

Anche se in questi saggi non viene esplicitamente menzionato, ritengo che Lotman consideri altamente normativo anche un altro metalinguaggio – molto legato all’influenza di Vernadskij sul Nostro –

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vale a dire quello scientifico (verbale+simbolico95), scaturente dal binarismo scienza-arte. Già negli anni Settanta96 e poi Ottanta, egli evidenzia che il tratto caratteristico della cultura moderna sta in due processi paralleli: da un lato, essa si fonda sulla forte contrapposizione tra scienza e arte (in senso lato), ossia tra pensiero logico e pensiero creativo – ove questo contempla tutte le manifestazioni del pensiero che implicano un “volo”, un’intuizione della mente: l’arte ma anche la filosofia, la religione, la narrazione mitologico-fabulatoria; dall’altro, la scienza, in virtù della sua potentissima capacità di auto-descrizione formale, tende sempre più a rappresentarsi attraverso un’immagine unitaria, compatta e oggettiva, e a conferire ai suoi modelli «l’aspetto della cultura nel suo complesso»97. Non solo. Essendo un «sistema relativamente autonomo con una sua particolare tendenza allo sviluppo progressivo»98, essa è portata a screditare ed erodere gli spazi del “volo” e a diventare pian piano il centro e la forma di comunicazione della cultura. Centro che poi incorpora progressivamente la realtà extrasemiotica secondo la polarità /+/scienza /-/arte (inutile dire che Lotman è dalla parte del “meno”, cioè di chi crede che il pensiero non scientifico sia insostituibile).

Questa riflessione è certamente influenzata da Vernadskij, il quale però attribuisce un valore positivo a tale processo, con una debita precisazione. Il geologo russo non parla infatti di arte ma di pensiero soggettivo, ossia filosofico e religioso; secondo lui, infatti, la cultura umana della modernità è profondamente solcata dall’opposizione fra visione scientifica del mondo (oggettiva e universale) e visione filosofica del mondo (soggettiva e particolare). Questa, come abbiamo visto, è destinata a ridursi in forza dell’azione rischiarante della scienza, la quale, a sua volta, si va auto-generando un’identità asimmetrica, divisa fra vecchia scienza e nuova scienza – opposizione particolarmente sentita nella prima metà del Novecento, quando il mondo newtoniano aveva ancora una forte capacità modellizzante. Scrive Vernadskij:

La lotta che si accende non è allora soltanto quella tra la concezione scientifica del mondo, da una parte, e concezioni

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filosofiche e religiose a essa estranee, dall’altra: a essa si aggiunge e con essa si intreccia il conflitto interno alla concezione scientifica del mondo, fra le nuove elaborazioni e le idee dominanti. (…) La concezione scientifica dominante conduce una lotta senza quartiere contro le (…) idee scientifiche innovative, e questa lotta è aspra e pesante.99

Si viene cioè a creare una cultura in cui la scienza funge da metalinguaggio per tutte le espressioni umane ma la sua unità è in realtà conflittuale: (+)scienza egemone vs (-)scienza innovativa100. Come ha sottolineato Tagliagambe, «al carattere in parte disordinato e non organizzato dei processi reali, dei mutamenti che avvengono a livello della dinamica degli eventi scientifici concreti, si soprappone (…) una fittizia unità ideale, che è appunto l’unità di una immagine della scienza, più che la scienza vera e propria»101: immagine che si riflette su una cultura in via di totale scientifizzazione.

Come possiamo intuire, si tratta di due visioni diverse della scienza – positiva (e positivista) quella di Vernadskij, più diffidente quella di Lotman, preoccupato per la sorte della scienze umane – ma entrambe spiegano bene la dinamica che avviene al centro della semiosfera quando un’opposizione binaria ha la capacità di definire tutto il mondo extrasemiotico attraverso la sua auto-descrizione e, di qui, a riflettersi a cascata nei suoi testi e nei linguaggi.

3.3.4 La periferia della semiosfera: un’eterogeneità disarticolante. La semiosi illimitata

L’unità (o l’identità) della semiosfera, come abbiamo detto, è solo ideale, perché l’auto-descrizione, essendo profondamente conflittuale, genera a cascata agglomerati testuali poliglotti retti a loro volta da opposizioni binarie – riflettenti quella da cui son state generate (AΩ genera AΩ♣ e -AΩ♣; -AΩ genera -AΩ♠ e -AΩ♠): ove la simbologia ♣ e ♠ indica, ad esempio, che un polo dell’opposizione binaria è interpretato iconicamente e l’altro verbalmente. Questi agglomerati, essendo

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poliglotti, semioticamente asimmetrici e dunque intraducibili fra loro, tendono a porre in essere una continua traduzione interlinguistica, che genera, come sappiamo, sempre nuovi testi e dunque sempre nuova informazione102. In questo modo, «i potenti meccanismi della semiotica della cultura lavorano (…) all’accrescimento della varietà, alla specificazione e a rendere più complessa la traduzione adeguata»103.

Possiamo dedurre che l’organizzazione gerarchica della semiosfera non implica una distribuzione dei suoi linguaggi in termini di valore – dal linguaggio più importante a quello meno importante – ma in termini di rapporto (riflesso) con il mondo extrasemiotico. Questo, in altre parole, non è incorporato nella semiosfera prima dal linguaggio discreto e dopo da quello continuo, ma congiuntamente e asimmetricamente da entrambi, ai fini appunto di una traduzione adeguata: il linguaggio spaziale, quello naturale o, ancora, «quello iconico delle immagini disegnate – scrive Lotman – non sono isomorfi fra loro. Ognuno di essi a livello diverso è però isomorfo al mondo extrasemiotico della realtà, di cui è la rappresentazione formulata in un linguaggio»104. Nella Cultura e l’esplosione (1992), egli parla non a caso di una risoluzione del rapporto antinomico fra lingua e mondo oltre i confini della lingua: è proprio la reciproca intraducibilità dei linguaggi (il poliglottismo) ad essere la fonte dell’adeguatezza dell’mondo extrasemiotico al suo riflesso nel mondo delle lingue105 (ossia, la semiosfera); l’indicibilità del “fuori” asemiotico guardato con gli occhi del linguaggio logico-analitico («esprimere con le parole ciò che è extraverbale, e con la logica ciò che per la logica è al di là dei limiti»106) può diventare espressione compiuta attraverso il linguaggio sintetico-creativo107 oppure attraverso il linguaggio spaziale, e viceversa. L’immagine dell’universo e dell’armonia naturale, scrive Lotman in Universe of the Mind, trova espressione più nella danza che nelle parole, più nella scultura o nelle architetture spaziali che nell’esplicazione logica108. Ma è proprio il loro reciproco tradursi che restituisce la “realtà” all’uomo, nella sua complessità e (apparente) inconoscibilità.

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Decade definitivamente la distinzione tra modellizzazione primaria e secondaria e si chiarisce il ruolo del principio isomorfico, il quale implica contemporaneamente un rapporto di somiglianza (identità) verticale fra gli elementi della semiosfera – che assicura l’unità del sistema – e un rapporto di eterogeneità (asimmetria) orizzontale fra gli stessi – che garantisce, invece, dinamicità del sistema. L’isomorfismo verticale e l’asimmetria orizzontale109 producono insieme una crescita esponenziale delle informazioni, ossia una semiosi illimitata. Non si può dunque neanche pensare la semiosfera senza un’eterogeneità orizzontale: sarebbe una contraddizione intrinseca della semiosi culturale, per cui la essa, retta solo dall’isomorfismo verticale, risulterebbe tutta appiattita all’identico e, alla lunga, si esaurirebbe.

Ecco in sintesi come Lotman spiega questa antinomia dell’uno e dei molti, dell’identità e dell’eterogeneità:

Mentre a livello meta il “quadro del mondo” è uno nell’unità semiotica, a livello di realtà semiotica descritta dal metalivello proliferano tutti i tipi di tendenze. Mentre il quadro di livello superiore è dipinto con un colore liscio e uniforme, il livello inferiore è splendente di colori e di molteplici confini intersecantisi.110

E in termini meno metaforici:

Questa struttura gerarchica è tale, nel suo ordine, solo a livello di metalinguaggio, ossia di auto-descrizione grammaticale: nella realtà della semiosi, questi agglomerati testuali sono erosi e pieni di forme in transizione.111

Gli agglomerati testuali che si formato lontano dal centro sono proprio quei centri di attività che ribollono nelle profondità112 della semiosfera e che nel tempo possono apportarle delle trasformazioni radicali. Si tratta di sub-strutture altamente complesse, dense e in continua transizione, che al loro interno serbano diverse stratificazioni temporali, linguistiche e stilistico-testuali; spostandosi nello spazio semiotico, esse trascinano dietro di sé strati di memoria che possono continuamente riattualizzarsi e mettere in crisi – nel lungo periodo –

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l’identità della cultura. Lotman pensa in particolare alle opere d’arte (letterarie, figurative, ecc.) che, proprio perché frutto di una continua interpretazione interlinguistica e trans-temporale (soggettiva e collettiva), hanno la capacità di svelare significati inattesi, disarticolare la semiosfera e accelerarne il cammino evolutivo. Scrive Lotman:

L’evoluzione culturale è un po’ diversa dall’evoluzione biologica (…). [Questa] contempla specie in via d’estinzione e una selezione naturale. Il ricercatore rinviene infatti solo le creature viventi a lui contemporanee. Qualcosa di simile accade nella storia della tecnologia: quando uno strumento è reso obsoleto dal progresso tecnologico, esso trova la sua sepoltura in un museo, alla stregua di un reperto morto. Nella storia dell’arte, invece, le opere che ci piovono addosso da periodi culturali remoti continuano a giocare una parte nello sviluppo culturale come fattori viventi. Un’opera d’arte può “morire” e rivivere nuovamente; anche quando si pensa sia fuori tempo, essa può tornare di moda e venir considerata persino profetica per ciò che ha detto del futuro. Ciò che “lavora” non è la sezione temporale più recente, ma l’intera storia compatta dei testi culturali.113

4. Il confine, il dialogo e l’altro. I nostri estranei.

4.1 Confine e alterità. Da Vernadskij a Lotman, passando per Florenskij e Bachtin

Se, come abbiamo detto, emerge sempre di più l’importanza della realtà extrasemiotica per la crescita e lo sviluppo della cultura – pena, lo ricordiamo, la circolarità semantica e l’implosione culturale – allora crescente valore assumeranno le zone di confine della semiosfera, quei “luoghi” cioè ove l’indicibile si incontra con i «filtri linguistici di traduzione»114 (figura 4). Lotman, usando la similitudine biologica della membrana cellulare (che trasforma le sostanze chimiche esterne in

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strutture biochimiche assimilabili), definisce il confine come «un meccanismo bilinguistico, che traduce le comunicazioni esterne nel linguaggio interno della semiosfera e viceversa. Solo col suo aiuto la semiosfera può così realizzare contatti con lo spazio extrasistematico o non semiotico»115. La funzione della pellicola cellulare, tuttavia, non è solo quella di filtrare e trasformare ciò che è esterno in interno ma anche di proteggersi dall’ambiente circostante, limitando la penetrazione di agenti estranei.

Su questa duplice funzione aveva lavorato molto Vernadskij, nel corso dei suoi studi sui meccanismi di compenetrazione chimico-molecolare tra le varie sfere della pianeta – fondamentali per capire le migrazioni atomiche aventi luogo tra l’ambiente cosmico, la biosfera e le componenti terrestri (viventi e inerti). Per lui il confine possiede molti significati, che possiamo ricondurre essenzialmente alla seguente dualità: confine come linea di demarcazione che segna l’unità e l’autonomia di ciascun dominio (della natura, della conoscenza, ecc.) e confine come «filtro attraverso il quale può avvenire la comunicazione e l’interscambio tra domini differenti»116. È proprio il riconoscimento di questa duplice e complementare funzione del confine che gli permette di sconfinare117 e di mettere in relazione i molteplici fenomeni naturali della biosfera, scoprendone l’intima connessione.

Tale fu la portata non solo scientifica ma più in generale filosofico-speculativa di questa visione porosa che (non è un caso se prima di Lotman) due pensatori di enorme calibro vi si ispirarono: stiamo parlando di P. A. Florenskij (1882-1937) e M. M. Bachtin (1895-1975). Il primo – filosofo, teologo e scienziato, vent’anni più giovane di Vernadskij – fu un diretto interlocutore del geologo russo, al quale propose il concetto di pneumosfera, in risposta a quello di noosfera. Il secondo fu un ricettore attento tanto del pensiero di Vernadskij, visibile nel concetto bachtiniano di logosfera, quanto del pensiero di Florenskij, dal quale accolse l’invito a pensare al confine in termini di etica dell’alterità118.

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Il confine Vernadskijano, nel loro pensiero, si sposa infatti al problema della prossimità fra l’io e l’altro e alla costituzione della soggettività in presenza dell’altro-da-sé. Il confine è il luogo di questo processo, che può prendere due vie: il riconoscimento di sé attraverso l’essere-per-l’altro (confine come membrana porosa) oppure la costruzione di sé nel proprio essere-contro-l’altro (confine come linea di demarcazione). Nel primo caso, la distanza fra sé e l’altro diviene il luogo dell’intersoggettività, nel secondo caso il luogo di una soggettività auto-costruita per antitesi119.

Lotman a sua volta trasla questa riflessione alla soggettività culturale e sottolinea che parlare di semiosfera significa in realtà parlare di un atto di auto-definizione: l’“io sono” della cultura. Questa, in altre parole, nel momento stesso in cui genera lo spazio semiotico a partire dal una precipua visione del mondo extrasemiotico, dà vita anche ad un confine attraverso cui si soggettivizza e si auto-definisce – evidente qui è anche il riferimento a Vygotskij, come sottolineato da Amy Mandelker (§ 6.1, cap. 2). Se ritorniamo alla figura 4, possiamo notare che i bordi della semiosfera, ossia la sua periferia, sono interrotti dai cosiddetti «filtri linguistici di traduzione»120, i quali permettono questo duplice movimento: la sua demarcazione rispetto all’esterno e il filtraggio di questo nell’interno, secondo una precipua traduzione che rispecchia la visione culturalizzata del mondo.

In Lotman, il concetto di confine si identifica sostanzialmente con la periferia culturale, quello spazio ove si sviluppano i processi semiotici accelerati ma anche ove è più facile trovare l’altro, ossia quella parte di semiosfera più lontana dalle grammatiche culturali e quindi più aliena. I filtri linguistici assumono pertanto un carattere eminentemente etico poiché è proprio la traduzione a dare forma all’immagine dell’altro o, meglio, dell’altrui – quello che abbiamo definito in precedenza «il processo di costruzione del (…) controagente» 121 (§ 5.1, cap. 3): un altrui che può essere un’idea di mondo o di cultura fuori di sé o di individuo altro122. La cultura, definendo la sua organizzazione interna, specularmente definisce anche quella esterna e lo fa, di regola,

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attribuendo al fuori di sé le qualità legate alla non-cultura (disordine, caos, inciviltà, e via dicendo). Lotman ha affrontato questo tema diverse volte e, in particolare, nel saggio del ’71, “Il meccanismo semiotico della cultura”, ove individuando due tipologie di culture, a seconda del loro rapporto col segno e la segnicità – cultura diretta verso l’espressione vs cultura diretta verso il contenuto – aveva anche tratteggiato le tipologie di non-cultura; negli anni in cui scrive i saggi di matrice organicistica, tuttavia, egli pone attenzione ad una specifica figura culturale della non-cultura ossia l’uomo di confine: si tratta di quei soggetti, sempre presenti nella storia dell’umanità, che sono stati posti fra la semiosfera e lo spazio extra-semiotico, il nominabile e l’innominabile e «che, grazie a doti particolari (come lo stregone) e al tipo di lavoro che svolgono (come il fabbro, il mugnaio, il boia) appartengono a due mondi e appaiono come traduttori, si stabiliscono nella periferia territoriale, al confine fra il mondo culturale123» e quello dell’indefinitezza semiotica.

Qui Lotman riprende due saggi di qualche anno prima, “La storia del capitano Kopejkin. La ricostruzione del progetto e la sua funzione ideologico-compositiva” (1979) e “Il degradato (izgoj) e il degradamento (izgojničestvo) come condizione socio-psicologica nella cultura russa precedente al regno di Pietro I. Proprio e altrui nella storia della cultura russa” (1982), nei quali traspone in chiave storico-antropologica il meccanismo semiotico-testuale dell’altro. Il parola russa izgoj (degradato)124 è la figura che meglio riesce ad esprimere il processo di costruzione del controagente, poiché è esattamente l’antitesi del nominabile dello spazio proprio125, culturalizzato. «Izgoj, scrive Lotman, è un termine che indica un concetto socio-giuridico ben determinato nell’alto Medio Evo. (…) Esso denota infatti una posizione sociale che è nello stesso tempo interna ed esterna rispetto alla struttura della società data»126: il degradato, equiparato al morto nella cultura russa, è il boia, il brigante, il coscritto, il Cosacco, l’anima persa (otpetyj).

Un’altra figura interessante che Lotman suggerisce, sempre a proposito dei soggetti inesistenti, è l’artista dimenticato. Il fatto che alcuni periodi della storia della letteratura presentino titoli come “Un

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poeta sconosciuto del dodicesimo secolo” e “Alcune riflessioni su uno scrittore dimenticato del periodo illuminista”127 ci suggerisce una cosa molto importante: la cultura non solo tende a far sconfinare quei soggetti che, per particolari attributi, paiono delle ombre della società, ma è portata anche a obliare quei soggetti che non rientrano nel suo canone di comportamento e di stile.

Cerchiamo ora di capire quando il confine culturale può diventare un luogo di costruzione dell’intersoggettività.

4.2 Dalla traduzione al dialogo

Abbiamo visto nei precedenti § 3.3.3 e 3.3.4 quanto sia importante per la vita della semiosfera la custodia della differenza in seno all’identità. Per spiegare il valore di questo principio, e le sue ripercussioni sul piano dell’etica e della morale, Lotman usa un’immagine a lui molto cara: quella delle mani che si sovrappongono (enantiomorfismo)128. Le mani, infatti, una di fronte all’altra sono identiche ma, una sull’altra, perdono la loro simmetria speculare. Lo stesso avviene per la comunicazione: non è possibile comunicazione, e dunque conoscenza (scambio di informazioni), al di fuori di un rapporto dialogico ove, pur nella reciproca comprensione129, i soggetti della comunicazione sono irriducibili l’uno all’altro. Il dialogo, arriva a dire Lotman, precede il linguaggio e lo genera: l’immagine di Robinson Crusoe che vive nell’isolamento è utopia ed è una contraddizione della realtà130, che è fondamentalmente relazionale. Il rapporto enantiomorfo, di conseguenza, diventa l’emblema del legame isomorfismo-asimmetria (ossia della vita semiotica) perché espressione di quella che si potrebbe definire una «differenza correlata, diversa sia dall’identità che rende il dialogo inutile, sia da una differenza priva di correlazione che lo rende impossibile. (…) l’enantiomorfismo appare la macchina elementare ideale del dialogo»131.

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In Universe of the Mind Lotman usa la similitudine del rapporto madre/figlio per spiegare come il concetto di enantiomorfismo sia intimamente legato a quello di dialogo; scrive il semiologo russo: «abbiamo già menzionato che l’atto elementare del pensare è la traduzione. Ora possiamo andare oltre e dire che il meccanismo elementare della traduzione è il dialogo. Il dialogo presuppone l’asimmetria (…). Tuttavia, se il dialogo privo di differenza semiotica è inutile, quando la differenza è assoluta e mutualmente esclusiva il dialogo diventa impossibile. (…). La relazione madre-figlio è in questa prospettiva un banco di prova ideale: i partecipanti in questo dialogo hanno appena smesso di essere un unico essere ma non sono ancora del tutto separati. Nel senso più puro, questa relazione mostra che il bisogno di dialogo, la situazione dialogica, precede sia il dialogo reale [empirico], sia l’esistenza di un linguaggio nel quale condurlo»132.

Il dialogo per Lotman è la semiosfera stessa, ossia quel sostrato dialogico di senso che ci informa e ci precede in qualunque atto di comunicazione133. Ciò che egli propone è dunque un invito a vedere i confini che sorgono nelle varie situazioni semiotiche – sempre polarizzate e spesso antagonisticamente polarizzanti – come luoghi ove l’asimmetria può diventare scambio dialogico e costruire ponti verso l’altro-da-sé, alla ricerca della comune identità (che per Lotman è la consapevolezza di far parte della comune famiglia umana). 5. Lo spazio: rappresentazione iconica della semiosfera. Per una

semiotica spaziale

Quanto detto sinora può far supporre che il pensiero di Lotman sia prettamente spaziale. Egli è senza dubbio erede dell’anima russa, ossia di una visione del mondo che, a differenza dell’Europa occidentale, ha sviluppato in modo molto più pregnante il senso dello spazio, rispetto a quello del tempo. Di contro a questo,

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percepito e vissuto [in] modo atipico, rispetto alla tradizione culturale emersa e consolidatasi in Occidente, è certamente lo spazio la dimensione primaria e dominante dell’esperienza culturale russa. Come osserva Strada, “una caratteristica del continuum spazio-temporale russo così com’è stato vissuto nell’esperienza artistica sembra quello di una preponderanza della sua prima componente sulla seconda, ossia dello spazio sul tempo (…). I due maggiori storici russi del XIX secolo, Sergej Solov’ëv e Vasilij Klijučevskij, hanno insistito sul carattere non-europeo dello spazio geografico russo e sul significato che ciò ha avuto per lo sviluppo storico. Solov’ëv, all’inizio della sua Storia della Russia, abbraccia con lo sguardo la ‘vasta pianura’ che per ‘un’enorme distanza’ si estende dal Mar Bianco al Mar Nero e dal Baltico al Caspio, una pianura sconfinata in cui ‘un viaggiatore non incontrerà alcuna altura di rilievo, né noterà alcuna differenza’. È questa ‘uniformità’ o ‘omogeneità’ delle forme naturali che condiziona l’omogenea uniformità delle occupazioni, delle consuetudini, delle credenze [dell’impero russo] (…)”.134

Tra le forme dello spazio naturale e quelle dello spazio culturale sembra esserci un’evidente continuità (almeno nella semiosfera russa). Non è dunque un caso che Lotman pensi spazialmente e attribuisca a questa dimensione il ruolo di traduttore universale, vale a dire di linguaggio originario attraverso cui l’uomo dà forma e significato al mondo. Diversi sono i saggi ad esso dedicati – molti dei quali raccolti nel paragrafo “Simbolic Spaces” di Universe of the Mind135: “Il concetto di spazio geografico nei testi medievali russi” (1965), “Il problema dello spazio artistico in Gogol’” (1968), “Il viaggio di Ulisse nella Divina Commedia di Dante” (1979), “Il simbolismo di Pietroburgo e i problemi della semiotica della città” (1984), “La casa ne Il maestro e Margherita” (1990 ed. inglese, 1996 ed. russa).

Come possiamo evincere dai titoli Lotmaniani, e come ci ha suggerito pocanzi Vittorio Strada, la dimensione dello spazio viene studiata attraverso l’esperienza artistica (prettamente letteraria), a sua volta oggetto di un’analisi testuale; Lotman, in altre parole, pone attenzione ai luoghi naturali/culturali del racconto – ossia alla sua geografia – e a

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particolari figure, come la strada e la casa, che fungono da spazi simbolici, spazi pieni di efficacia narrativa e semantica: una sorta di motore del racconto. Lo stesso fa per la città, un luogo “reale”, geograficamente localizzato, trattato alla stregua di un costrutto semiotico.

La prima definizione che Lotman dà dello spazio, nel senso più generale del termine, è inclusa nel saggio del ’65: «Il concetto di spazio geografico appartiene a una delle forme della costruzione spaziale del mondo nella coscienza dell’uomo. Sorto in determinate condizioni storiche, esso prende i contorni diversi secondo il carattere dei modelli generali del mondo dei quali è partecipe»136: modelli che, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, contemplano sempre un’opposizione valoriale di base. La sua caratteristica principale sta appunto nel fatto che è, al contempo, un linguaggio topologico e un linguaggio morale, marcato assiologicamente. Nel pensiero medievale, ad esempio, le categorie “terra-cielo” investono diverse realtà geografiche, contrassegnandole dal punto di vista valoriale: terre giuste o peccaminose, viaggi santi o pagani, realtà corruttibili o incorruttibili: «(…) i concetti di valore morale e di collocazione spaziale intervengono unitamente: nei concetti morali è insito un tratto distintivo spaziale, e nei concetti spaziali, un tratto morale. La geografia si presenta come una varietà della conoscenza etica»137.

La stessa categorizzazione contrassegna lo sviluppo del racconto-viaggio e il suo esito; questo, «(il punto di arrivo) non è determinato dalle circostanze geografiche (…) o dalle intenzioni del viaggiatore, ma dai suoi meriti morali»138. La “moralità spaziale” e lo “spazio moralizzato” influenzano profondamente il ritmo del racconto, creando dei bivi che sanciscono la vittoria (virtuosa) o la disfatta (peccaminosa) di un uomo, di un popolo o di un’intera cultura:

• dalla casa di partenza essi possono andare o verso il monastero o verso la casa del peccato;

• dalla propria terra o verso le terre sante o verso le terre impure; • dalle contrade terrestri o verso il paradiso o verso l’inferno.

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Questa posizione è ripresa nel saggio “Il problema dello spazio artistico in Gogol’”139, ove Lotman si focalizza su un corpus narrativo specifico, ossia l’opera dello scrittore russo, la cui stilistica (esprimente la forma mentis e l’etica gogoliana) è tutta fondata su un’immagine spaziale: la strada – complice, ovviamente, un linguaggio visionario e satirico-grottesco.

In un modello artistico del mondo, scrive Lotman, «lo “spazio” si assume talvolta il compito, in senso metaforico, di esprimere relazioni nient’affatto spaziali relative alla struttura modellizzante del mondo»140. La strada diventa, in questa prospettiva, il simbolo attraverso cui Gogol’ enuncia una precisa idea di uomo e di umanità, antitetica a quella illuminista. La strada gogoliana, scrive Lotman, è analoga alla vita e all’itinerario che può prendere, «illimitato in entrambe le direzioni: può essere ascesa senza fine o caduta senza fine»141. I soggetti che la percorrono eccedono la loro “innata norma morale” e, con i loro vizi e le loro virtù, le conferiscono la vertigine tanto dell’assoluta degenerazione quanto dell’assoluta perfezione All’opposto,

per gli illuministi, che concepiscono le qualità dell’uomo come connaturate alla specie umana (antropologicamente intesa) nessun itinerario può essere infinito. La loro visuale è, sotto un certo aspetto, circoscritta alla considerazione dei rilevanti pregi dell’umana natura. L’uomo non può, in altre parole, diventar migliore della norma morale già insita nel bambino, cioè nella stessa natura ancora incorrotta. Ma neppure la degenerazione ha la possibilità di protrarsi all’infinito: il non plus ultra del male si avrebbe nell’eventualità che le congenite qualità positive dovessero venir capovolte. Il bene consiste nel conservare (o recuperare) ciò che è stato dato alla natura, il male nel discostarsene. Qualsiasi itinerario dell’eroe illuminista deve mantenersi entro queste due frontiere.

Vediamo dunque come l’uso simbolico dello spazio possa veicolare contenuti ideologico-culturali che vanno ben al di là del mero messaggio “artistico”, e creare luoghi di contestazione e libertà d’espressione – come fu, in Gogol’, la denuncia nei confronti della desolante corruzione

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umana e aridità spirituale causate dall’opprimente macchina burocratica russa.

Questo è particolarmente evidente nel bellissimo saggio “La casa ne Il maestro e Margherita”142. In questo scritto, tratto dal famoso romanzo di Bulgakov sulla Passione di Gesù il Nazareno (chiamato Jeshua Ha-Nozri)143 in chiave allegorica, ritroviamo tanto l’immagine della strada quanto la categoria “terra-cielo”, raffigurata dall’opposizione appartamento-Casa (da cui morte-vita e inferno-paradiso). Ma andiamo per ordine. Lotman introduce il saggio sottolineando come «fra i temi universali del folclore dei popoli di tutto il mondo grande importanza riveste l’antinomia fra la “casa” (spazio della cultura, “proprio”, sicuro, difeso da numi tutelari) e l’anticasa, la “casa nel bosco” (spazio “altrui” e diabolico, luogo di morte temporanea, visto che il capitarci equivale a visitare l’aldilà)»144.

Nella storia della letteratura russa moderna, questo archetipo è pulsante e visibile nel complesso intreccio (e reciproco ascendente) tra l’opera di Puškin e quella di Gogol’ e nell’influenza di questi su Dostoevskij. Erede della più profonda tradizione letteraria russa, Bulgakov ripropone magistralmente il tema della casa per parlare, come ha scritto E. Montale145, di quella cortina fumogena che tutto ha occultato e censurato negli anni del regime sovietico. Lo spazio, però, si articola qui non tanto tra il “dentro” e il “fuori” della casa, quanto fra due luoghi abitativi: l’appartamento (in coabitazione) – la kommunalka (коммуналка) tipica degli anni bolscevichi – e la Casa.

La kommunalka, la falsa casa, «diviene lo snodo di un mondo anomalo. Proprio al suo interno si incrociano le macchinazioni delle forze infernali, la mistica della finzione burocratica e la quotidiana guerra dei nervi»146; la vera Casa, focolare domestico, si profila invece come «il centro della spiritualità che si manifesta in una ricca cultura interiore, nell’amore e nell’arte»147. Ciò che rende demonico, sterile e caotico l’appartamento (in coabitazione) è la mancanza di cultura148 nel senso più elevato del termine: la possibilità di educarsi al bene e al

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bello, attraverso la custodia del «lavorio spirituale delle generazioni precedenti»149 e il suo creativo arricchimento.

La Casa è il luogo che il Maestro va ricercando e il suo viaggio è un insieme di passaggi da uno spazio a un altro, per giungere a «un mondo nel quale non abita più la crudeltà».150 Ma questo mondo – il mondo della spiritualità – è articolato da Bulgakov secondo una gerarchia complessa. Il Maestro raggiunge lo spazio della cultura interiore, dell’amore e dell’arte (la Casa) ma non l’assoluto:

(…) al livello più basso si trova la sterile assenza di spiritualità, mentre a livello più alto sta la spiritualità assoluta. La prima ha bisogno di un alloggio, ma non di una Casa; la seconda, invece, non necessita di una Casa: non ne ha bisogno Jeshua [Gesù], la cui vita terrena è una strada senza fine. (…) Tra questi due poli tuttavia si trova l’ampio e ambiguo mondo della vita. Nei suoi strati inferiori ci imbattiamo in crudeli intrighi di ispirazione diabolica, che agitano ed eccitano l’inerte mondo della non-spiritualità introducendovi l’ironia, lo scherno e scuotendolo. (…) A un livello superiore si trova l’arte: essa ha natura del tutto umana e non si innalza fino all’assoluto (il Maestro “non ha meritato la luce”) (…).

Con un linguaggio spaziale, Bulgakov può parlare dell’ottenebrante realtà culturale entro la quale stava scrivendo Il maestro e Margherita e può ricordare il lavorio spirituale delle generazioni precedenti: in questo passo ritroviamo la strada senza fine di Gogol’ (l’assoluta perfezione di Jeshua, che non ha bisogno di una Casa) ma anche le sue anime morte: quelle anime che fanno parte di un mondo inerte perché non educato alla spiritualità. Anime immobili, ricorda Lotman ne “Il problema dello spazio artistico in Gogol’”, perché senza un itinerario151.

Infine, Bulgakov altro non fa che spiegarci la dinamica della semiosfera. I soggetti di ogni epoca culturale – specialmente gli artisti, secondo Lotman152 – scelgono determinati spazi o figure spaziali, li manipolano semioticamente eccedendo le loro “reali” funzioni e danno una forma a concetti che di spaziale non hanno nulla e che, in genere, sono difficilmente esprimibili con il linguaggio verbale: in questo caso il

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luogo “proprio”, sicuro e intimo è quella parte di cultura non ancora corrotta dall’ideologia dominante (il centro culturale), parte che va custodita con le virtù umane e la memoria – e non a caso, scrive Lotman, nella Casa son sempre presenti i libri, indice di spiritualità ma anche di comfort intellettuale.

Il fatto che la Casa e l’Appartamento (in special modo quello in coabitazione, ovviamente), stiano agli antipodi comporta che l’indizio abitativo fondamentale della casa – ovvero il suo essere alloggio, spazio abitativo – venga percepito come insignificante: rimangono solo indizi semiotici. La Casa si trasforma in elemento segnico dello spazio culturale. Qui scopriamo un principio importante del pensiero culturale umano: uno spazio reale diviene rappresentazione iconica della semiosfera, ovvero un linguaggio con il quale si esprimono svariati significati extraspaziali; la semiosfera, a sua volta, trasforma a sua immagine e somiglianza lo spazio reale che circonda l’essere umano.153

La modellizzazione spaziale diventa il linguaggio attraverso cui le idee non-spaziali possono essere espresse154 e talune antinomie della realtà, come le contraddizioni Natura/Cultura, totalità/parzialità, interno/esterno o proprio/altrui, possono essere rappresentate congiuntamente. Questo linguaggio, specifica Lotman nelle conclusioni di Universe of the Mind, è fondato sulla rappresentabilità iconico-analogica dello spazio, e si serve solo in un secondo momento della parola: l’importanza dei modelli spaziali creati dalla cultura sta nel fatto che questi sono costruiti non su un rapporto verbale, discreto, tra mondo naturale e cultura ma su un continuum iconico.

Lo dimostra anzitutto l’analogia fra i diversi tipi di insediamenti umani di tutte le primigenie civiltà e la struttura del cosmo: come hanno dimostrato anche M. Eliade e R. Girard, il centro “ideale”, il centro della città (e del cielo) è sempre il luogo del sacro, ospitante le costruzioni religiose e amministrative. Ai suoi margini stanno invece i gruppi sociali periferici, quelli che Lotman definisce con l’ossimoro “nostri estranei” (pogany). E poiché la città riproduce il cosmo, ossia la cultura (l’ordine e

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la coerenza), ciò che sta fuori o nelle profondità della terra rappresenta il caos, l’anti-mondo, lo spazio non strutturato, abitato da mostri, poteri infernali o persone ad essi associate (stregone, mugnaio, fabbro)155.

Proprio parlando de “Il simbolismo di Pietroburgo e i problemi della semiotica della città” (1984), Lotman analizza il rapporto fra spazio e cultura, quando questa contempla una geografia “reale” e non solo artistico-testuale. Tale rapporto si esplica emblematicamente nel costrutto semiotico della città, la quale, scrive il semiologo russo, «occupa un posto particolare nel sistema dei simboli elaborati nella storia della cultura (…). La città come complesso meccanismo semiotico, generatore di cultura, può svolgere questa funzione soltanto perché si presenta come un contenitore di testi e di codici, che si sono formati in modo diverso, sono eterogenei, appartengono a livelli diversi e fanno uso di diversi linguaggi»156.

Nella visione lotmaniana, la città è una semiosfera assai complessa perché deposito sincronico e poliglotto di tempi diversi e culturalmente marcati: composite visioni e auto-descrizioni del mondo (lo spazio intorno a sé), della collettività e delle forme espressive convivono in un medesimo luogo e si intrecciano profondamente, talvolta in modo coerente e continuo, talvolta in modo disorganico e conflittuale. In essa coesistono tanto la razionalità quanto la creatività (o addirittura l’irrazionalità), tanto la scienza quanto i miti e le leggende, tanto l’ordine quanto la rivoluzione (in ricordo o in atto), tanto le zone della parola quanto quelle del silenzio.

Testimone di una città come San Pietroburgo, la “finestra sull’Europa” (§ 3, cap. 2), Lotman non poteva che vedere lo spazio urbano come fonte di grande ispirazione semiotica. Proprio guardando all’ex capitale imperiale157 che l’aveva accolto nei suoi primi trent’anni di vita – e soprattutto nel felice e proficuo periodo universitario – il semiologo russo propone un’interessante tipologizzazione della città. Questa può mettersi in relazione con il mondo naturale attraverso due prospettive: o “terra-cielo” o “natura-cultura”. Nel primo caso – caratteristico delle civiltà primigenie – «la città appare un modello

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idealizzato dell’universo»158: come la casa ne Il maestro e Margherita, essa è organizzata secondo una struttura gerarchica e si trova in una posizione intermedia tra l’assoluto (il cielo) e il mondo terreno. La città sulla montagna si contrappone alla città eccentrica – il cui modello è San Pietroburgo – un luogo cioè che intende profilarsi non come centro dell’universo ma come centro della cultura, e per far questo mostra esponenzialmente i suoi tratti artificiali, non-naturali: si tratta di una città ubicata in genere sulla riva del mare o alla foce di un fiume, «costruita contro la natura e che è in lotta con gli elementi naturali. Questo rende possibili due interpretazioni: la vittoria dell’intelligenza sugli elementi naturali oppure l’alterazione dell’ordine naturale»159. Chi conosce la storia di San Pietroburgo sa bene che questa era nata in contrapposizione alla Sacra Mosca, città sulla montagna, «simbolo della purezza del sangue e della terra, proprio per il suo essere ubicata e radicata nel cuore profondo della Russia»160, ma anche roccaforte dell’ortodossia religiosa e delle antiche, «stratificate tradizioni autoctone, accumulate dal narod (popolo)»161. La nuova capitale sorgeva sul delta della Neva – dove il fiume sfocia nel Golfo di Finlandia – ai confini della Russia e di fronte all’Europa occidentale; essa si presentava inoltre come una città “europea” illuminista, promotrice di una nuova era ove la Ragione e il progresso (i tratti artificiali) avrebbero rischiarato la Russia dall’ottenebramento delle radici bizantine (i tratti naturali o originari). Scrive Tagliagambe:

Per rafforzare ulteriormente [la] funzione simbolica della nuova città Pietro il Grande la volle profondamente diversa da Mosca e da tutte le città russe, disorganici e caotici agglomerati di viuzze tortuose. La pianta della nuova città venne disegnata come sistema di isole e canali, con il centro civico situato sul fronte del porto. Il modello era quello, geometrico e rettilineo, tipico dell’urbanistica occidentale sin dal Rinascimento e a realizzarlo vennero chiamati appositamente architetti e ingegneri stranieri, provenienti da Italia, Francia, Olanda e Inghilterra. (…) Essa portava chiaramente impressi, nella sua struttura urbanistica e architettonica, i segni del progetto che era alla base della sua

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fondazione e della sua funzione culturale e simbolica di ponte verso l’Occidente. Grandi spazi, grande struttura cittadina, prospettiva classica simmetrica, monumentalità barocca, facciate di modello rigorosamente occidentale, senza alcuna connessione ai tradizionali stili russi, rapporto rigidamente stabilito (2:1 o 4:1) tra l’ampiezza delle strade e l’altezza degli edifici, in modo da dare al panorama complessivo l’aspetto di una infinita distesa orizzontale: tutto concorreva a dare l’idea di un uso dello spazio accuratamente programmato e pianificato, secondo un ordine che poco o nulla lasciava al caso o all’improvvisazione.162

Vediamo come l’appropriazione di un determinato spazio e la sua semiotizzazione attraverso l’architettura urbana possano restituire iconicamente il centro normativo della semiosfera, nel caso di San Pietroburgo fondato sull’opposizione scienza-mitologia, progresso-utopia, ragione-tradizione, l’intelligencija-popolo e via dicendo. Il secondo termine di ciascuna di queste polarizzazioni permane e si stratifica nella città e agisce come forza pulsante e de-strutturante. Lo spazio urbano diventa così il luogo di gestazione delle future rivoluzioni.

Questa riflessione viene ulteriormente sviluppata in uno degli ultimi saggi di Lotman “La modernità tra l’Europa dell’est e dell’ovest” (1992)163. Poiché «(…) quando il mondo si biforca in Oriente e Occidente, la crepa attraversa il cuore della cultura russa»164, in questo scritto Lotman interpreta il cammino storico della sua terra natia alla luce delle contraddizioni spaziali che l’hanno solcata.

L’ubicazione geografica, secondo il semiologo russo, ha un ruolo attivo nei processi di sviluppo delle culture; tanto più è fissa nella sua immobilità tanto più attorno ad essa si crea una vera e propria mitologia dello spazio, che investe la sfera politica, militare, religiosa, sociale. Questo avviene soprattutto attraverso la semiotizzazione dell’«opposizione continentale/centrale vs litorale/marginale»165, che accende i meccanismi di predominio culturale della geografia reale, creando molteplici narrazioni su una supposta predestinazione spaziale.

Questo lavorio è stato particolarmente evidente in Russia, ove la geografia ha svolto storicamente il ruolo di indicatore e motore dei

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conflitti latenti e delle diverse visioni del mondo, dando luogo a due modelli. «Il primo modello potrebbe essere classificato come centralista. Si fonda sull'idea che Mosca è situata nel centro dell’ecumene religioso e culturale»166, da cui ha origine ogni cosa: santità, sapienza, tradizione, guerre e rivoluzioni. Di conseguenza, «il modello globale della cultura è costruito secondo un principio concentrico»167 che porta, a sua volta, alla costruzione di un anti-modello rappresentato da un “necessario” centro del peccato e del declino culturale, o da un centro pericoloso e aggressivo – in ogni caso, sempiterni nemici della santa Russia-Mosca. «Al polo opposto si trova il modello dell’“ex-centralismo” culturale e statale. Il centro (…) si sposta fuori dai confini della nazione»168, ossia a Occidente, nell’Europa russa. È qui che, come abbiamo visto, Pietro I fonda una capitale straniera, la capitale della borghesia e dell’intelligencija, programmaticamente edificata per sradicare la mitologia geografica legata all’Oriente, a Mosca e al narod.

Con l’avvento della rivoluzione proletaria, «l'immagine dell'Occidente come “la terra promessa del progresso” viene gradualmente sostituita»169 con il cuore della Russia, Mosca, il centro dell’universo170 – a cui infatti non viene “sovietizzato” il nome, a dispetto di San Pietroburgo che diventa Leningrado – mentre alla borghesia viene attribuito uno spazio simbolico ben preciso: il castello del male, che la forza rivoluzionaria distruggerà e sulle cui rovine costruirà un mondo di eterna armonia sociale.

Vediamo ora come quest’armonia si traduce concretamente nella storia post-sovietica.

1 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 58. 2 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 56. 3 Lotman chiarisce fin dall’introduzione de “La semiosfera” la direzione che

prenderà la semiotica: «Noi non potremmo produrre idee se non fossimo immersi nelle idee. Il centro della semiotica si sposta così dal singolo atto comunicativo al mondo semiotico nel suo insieme, alla semiosfera. Il

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materiale della semiotica non è costituito dalle parole, dalle frasi o dai testi isolati, ma dalla cultura come tale», Ivi, p. 51.

4 L’opera di riferimento è E. Suess, Die Entstehung der Alpen. 5 V. I. Vernadskij, “L’ambito della vita”, parte de “La Biosfera” in La biosfera e

la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 95. 6 V. I. Vernadskij, “La biosfera nel cosmo”, parte de “La Biosfera” in La biosfera

e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 35. E specifica ulteriormente nell’opera Pensieri filosofici di un naturalista: «H. E. Suess (1831-1914) nel 1875 chiamò la regione della vita sulla Terra biosfera. Ma a quest’ultima si cominciò a guardare come a uno specifico fenomeno reale sul nostro pianeta, cioè come a un oggetto naturale, già molto prima, verso la fine del XVIII secolo, inizio del XIX. La biosfera nella biogeochimica è legata in termini soltanto formali alle idee di Suess. Si tratta effettivamente dell’area della vita nel nostro pianeta, ma non è questo soltanto il suo tratto caratteristico. La biosfera di Suess è l’immagine esteriore, il sembiante del nostro pianeta, per usare la sua stessa espressione metaforica, riferita al riflesso del nostro pianeta nello spazio cosmico extraterrestre. Essa differisce profondamente dalla biosfera così come questa emerge dall’analisi che ne fa la biogeochimica. Quest’ultima studia infatti la biosfera nella sua struttura atomica e lascia da parte, o almeno relega in secondo piano, il volto (das Antlitz), cioè il suo aspetto geografico esteriore e le cause del suo presentarsi così. La biosfera nella biogeochimica compare come un involucro terrestre nettamente caratterizzato nel nostro pianeta, formata da una serie di formazioni contigue, concentriche, che avvolgono tutta la terra, chiamate geosfere», V. I. Vernadskij, “La nuova conoscenza scientifica e il passaggio dalla biosfera alla noosfera”, in Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 81.

7 Studio iniziato con Henri Poincaré e poi abbandonato per decenni dopo la sua morte. Il concetto di non linearità, nell’ambito delle scienze fisiche e matematiche, è stato di campitale importanza per l’introduzione del concetto di complessità, ovverosia della non riducibilità del tutto alla somma della parti. Scrive Alberto Strumia: «il problema del tutto e delle parti [in termini di irriducibilità] appare come una conseguenza della non linearità delle equazioni differenziali che governano i sistemi fisici complessi (…). Dal punto di vista della matematica e, quindi, di tutte le scienze matematizzate, l’impossibilità di pensare un “tutto” come equivalente ad una “somma di parti” omogenee al tutto (riduzionismo), si fonda semplicemente sulla necessità di prendere in considerazione delle equazioni differenziali “non

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lineari”, per le quali, come è noto, la somma di due o più soluzioni non è una soluzione e, viceversa, una soluzione qualunque non è rappresentabile come combinazione di soluzioni più semplici (cosa che accade, invece quando le equazioni sono lineari). Dunque non è possibile, in generale, quando si opera con sistemi non lineari, ricondurre lo studio di una soluzione allo studio di soluzioni più semplici e già note. D’altra parte la natura è descritta nella quasi totalità da sistemi di equazioni non lineari, e la linearità rappresenta solo una prima approssimazione. La non linearità, allora, introduce il concetto di “irriducibilità” di certe soluzioni ad altre più semplici. Le diverse soluzioni hanno, comunque in comune qualcosa: il fatto di essere tutte soluzioni di uno stesso sistema di equazioni», A. Strumia, “Analogia”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002.

8 Scrive Alberto Strumia a proposito: «Un ruolo decisivo sembra essere giocato dall’informazione che, inserendosi ai diversi livelli di organizzazione della materia determina, in ciascuno di essi, dei caratteri che si diversificano anche qualitativamente e non solo per aggiunte quantitative, divenendo in questo modo irriducibili l’uno all’altro», A. Strumia, “Materia”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002.

9 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 56. 10 A causa della repressione sovietica, dal 1922 al 1926 Vernadskij insegna

geochimica all’Università Sorbonne di Parigi e svolge attività di ricerca in mineralogia e biogeochimica presso l’Istituto del radio Curie. La Biosfera viene dunque elaborata in anni di relativa serenità intellettuale e di apertura a nuovi contesti scientifico-disciplinari. Nello stesso periodo egli infatti scrive La Geochimica, opera pubblicata per la prima volta in francese per l’edizione Alcan (La Géochimie, 1924) – sui principi della geochimica Vernadskij aveva lavorato soprattutto tra il 1908 e il 1910. Tornando invece a La biosfera, tre anni dopo dalla sua uscita in russo l’opera viene tradotta in francese da Vernadskij e pubblicata per l’edizione Alcan (La Biosphere, 1929), con l’inclusione di nuovi materiali.

11 Questo è riportato nell’edizione italiana come segue: S. Tagliagambe (a cura di), V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994. Parte prima: “Il pensiero scientifico come fenomeno planetario” – Il pensiero scientifico e l’attività della scienza come forza biologica nella biosfera (sezione I); Sulle verità scientifiche (sezione II); La nuova conoscenza scientifica e il passaggio dalla biosfera alla noosfera

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(sezione III); La scienza della vita nel sistema della conoscenza scientifica (sezione IV); Sulla logica della scienza della natura (1938).

12 V. I. Vernadskij, “The Biosfere and the Noösphere”, American Scientist, 1945, 33/1 (riportato in traduzione italiana in S. Tagliagambe (a cura di), V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, pp. 199-210. Un’altra versione è riportata in D. Fais (a cura di), V. I. Vernadskij, La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, pp. 202-227.

13 Come Vernadskij scrive nella Premessa a “La Biosfera”, oltre ai due saggi “La biosfera nel cosmo” e “Gli ambiti della vita”, egli stava lavorando ad altri tre scritti: “La materia vivente”, “La struttura della materia vivente”, “La materia vivente nella storia geochimica del sistema degli elementi”.

14 D. Fais (a cura di), V. I. Vernadskij, La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, pp. 173-192.

15 Ivi, pp. 193-201. 16 S. Tagliagambe (a cura di), V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista,

Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 111. 17 «In generale, dei fenomeni legati alla vita, nella geologia si studiano i

particolari», V. I. Vernadskij, Premessa a “La Biosfera” in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 23.

18 Ibidem. Poche righe prima Vernadskij sottolinea che la biogeochimica si profila come una scienza nuova, che non contraddice la visione della biologia tradizionale, ma intende integrarla e approfondirla, attraverso una prospettiva complessa.

19 V. I. Vernadskij, Premessa a “La Biosfera” in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, pp. 23-24.

20 Ivi, p. 24. 21 V. I. Vernadskij, “La biosfera nel cosmo”, parte de “La Biosfera” in La biosfera

e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 31. Non a caso, come frase introduttiva della Biosfera Vernadskij pone un verso del poeta T. Tyutčev: «Un ordine immutabile è in tutto, armonia universale della natura» (1865) – verso che, come vedremo, sarà ripresto da Lotman nelle sue ultime opere, in particolare ne La cultura e l’esplosione. Sempre a proposito del concetto di armonia cosmica, lo scienziato russo sottolinea che le antiche intuizioni dei grandi sistemi religiosi non erano affatto lontane dalla verità nel pensare che le creature viventi fossero immerse in un ordine superiore (rappresentato dal Sole), dal quale tutto dipendeva.

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21 V. I. Vernadskij, Premessa a “La Biosfera” in La biosfera e la noosfera, Sellerio

editore, Palermo, 1999, p. 24. 22 Si veda anche “La nuova conoscenza scientifica e il passaggio dalla biosfera

alla noosfera”, in S. Tagliagambe (a cura di), V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 91.

23 V. I. Vernadskij, “La biosfera nel cosmo”, parte de “La Biosfera” in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 54.

24 Le migrazioni di atomi di cui si parlava pocanzi. 25 Benché la materia vivente e quella inerte siano costituite da strutture

molecolari dello stesso tipo e siano profondamente legate dai processi fisico-chimici che si manifestano a livello terrestre, Vernadskij non manca di sottolineare che esse «sono divise da un abisso invalicabile. E non c’è dubbio che alcuno che questi due tipi di materia della biosfera appartengono a categorie fenomenologiche non unificabili», Ivi, p. 42. E ancora «Mai organismo vivente è stato concepito nella materia inerte. Esso vivendo, morendo, disfacendosi cede alla materia inerte i suoi atomi e da essa continuamente li ricava; ma la materia vivente, dotata di vita, ha origine sempre dal vivente», Ivi, p. 46.

26 Ivi, p. 49. Nei Pensieri filosofici di un naturalista, Vernadskij specifica poi che «la biosfera è l’unico luogo del pianeta ove penetrano la materia e l’energia cosmiche», V. I. Vernadskij, “La nuova conoscenza scientifica e il passaggio dalla biosfera alla noosfera”, in S. Tagliagambe (a cura di), V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 82. Non è un caso, continua Vernadskij, che l’uomo delle origini considerasse se stesso figlio del Sole e tutto ciò che lo circondava frutto della luce e del calore: un’intuizione profonda che esprime, dal punto di vista metafisico, l’imprescindibile legame fisico fra le componenti terrestri e l’ambiente cosmico – secondo quel vivere nell’ambiente naturale non come scienziati, che pesano e misurano, ma come poeti o filosofi.

27 Scrive Tagliagambe a proposito: «Lo studio attento e particolareggiato [delle funzioni chimiche] consente a Vernaskij di afernare che sulla superficie terrestre non vi è forza chimica più costantemente attiva, e quindi più possente nei suoi risultati finali, di quella che esercitano gli organismi viventi nella loro totalità. E, a suo giudizio, quanto più si studiano i fenomeni chimici della biosfera, tanto più dobbiamo convincerci che non ve n’è alcuno che non dipende dalla vita», S. Tagliagambe, “Uno scienziato ai confini tra più saperi”, saggio introduttivo a V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. XXXV.

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28 In particolare il saggio “L’origine della vita e l’evoluzione delle specie” (1930)

è dedicato a questa problematica. Da fine epistemologo quale è, Vernadskij sottolinea inoltre che per origine della vita si deve intendere l’origine della materia terrestre e non l’inizio dell’essere, problematica che farebbe scavalcare la ricerca scientifica in un diverso ambito epistemologico, vale a dire quello filosofico: «il problema dell’inizio della vita altro non è che il problema dell’inizio dell’ambiente vitale del nostro pianeta», “L’origine della vita e l’evoluzione della specie”, in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 198.

29 «L’spandersi della vita è un movimento che si esprime nell’ubiquità della vita, è l’espressione della sua energia interna e del lavoro chimico che essa esegue», Ivi, pp. 51-52.

30 Secondo Vernadskij, ubiquità e adattamento sono imprescindibilmente legati; scrive nel saggio “L’evoluzione delle specie e la materia vivente” (1928): «La creazione grazie al processo evolutivo di nuove forme di vita che si adattano alle nuove condizioni di esistenza aumenta l’ubiquità della vita ed estende i suoi domini. La vita penetra in quelle regioni della biosfera dove prima non esisteva», V. I. Vernadskij, “L’evoluzione delle specie e la materia vivente”, in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 184.

31 La condizione di stabilità è lo stato di equilibrio che sostiene l’autonomia dell’organismo.

32 V. I. Vernadskij, “L’evoluzione delle specie e la materia vivente”, in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 191.

33 Anche Vernadskij parla di cultura quando precisa che nell’era attuale «il riflesso della vita nella biosfera cresce e assume nuove forme e ritmi sempre più veloci. Questa nuova funzione nell’organizzazione del pianeta è svolta dalla cultura umana, dal pensiero umano e dalla volontà, creati all’interno del monolite della vita dal processo evolutivo», V. I. Vernadskij, “L’origine della vita e l’evoluzione della specie”, in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 198.

34 V. I. Vernadskij, “L’ambito della vita”, parte de “La Biosfera” in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 135.

35 Ivi, p. 135. 36 Termine introdotto da E. Le Roy in Les humaines et l’évolution de

l’intelligence, Paris, 1928, p. 46. Scrive Vernadskij a questo proposito: «A Parigi nelle lezioni alla Sorbona ho posto a fondamento della biosfera i fenomeni biogeochimici. Parte di questi fenomeni è stata inclusa nell’opera “Saggi di geochimica” pubblicata per la prima volta in lingua francese nel

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1924 e, in seguito, nel 1927 nella traduzione in russo. Il matematico e filosofo bergsoniano E. Le Roy, accettando come fondamento della biosfera la mia formulazione biochimica, nel 1927, nelle sue lezioni al Collegio di Francia, ha introdotto il concetto di noosfera, definendola stadio geologico contemporaneo della biosfera. Le Roy sottolineava di essere pervenuto a questa sua definizione assieme al suo amico Teilhard de Chardin, famoso geologo e paleontologo, trasferitosi in seguito in Cina», V. I. Vernadskij, “Alcune considerazioni sulla noosfera”, in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 216-217.

37 V. I. Vernadskij, “L’evoluzione delle specie e la materia vivente”, in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, pp. 180 e 191. Una precipua trattazione del rapporto fra uomo (in quanto produttore di noosfera), ragione e tecnica è esposta negli articoli di P. Florenskij del 1917, “Homo Faber” e “La prosecuzione dei nostri sensi”, e in un articolo uscito postumo, “La proiezione degli organi” (1992) – anch’essi, come per Le Roy, di bergsoniana impronta – (P. Florenskij, Il simbolo e la forma. Scritti di Filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino, 2007).

38 J. Lovelock, “Gaia: una proprietà coesiva della vita”, in G. Bocchi e M. Ceruti, La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 184.

39 Ivi, pp. 188 e 189. 40 Secondo Lovelock, in evidente concordanza con Vernadskij, l’atmosfera è

«qualcosa di più di una semplice miscela biogeochimica»; e ancora: «(…) l’attuale atmosfera può essere considerata come una miscela altamente reattiva che senza la vita si ridurrebbe rapidamente – in termini geologici – alla condizione inerte e stabile caratteristica dello stato abiologico»: la vita deve diventare dunque il vero epicentro della ricerca scientifica (Ivi, p. 185).

41 V. I. Vernadskij, “La nuova conoscenza scientifica e il passaggio dalla biosfera alla noosfera”, in S. Tagliagambe (a cura di), V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 91 (corsivo mio in “energia della cultura umana o energia biochimica” e “lavoro culturale”).

42 V. I. Vernadskij, “Il pensiero scientifico e l’attività della scienza come forza biologica nella biosfera”, in S. Tagliagambe (a cura di), V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, pp. 5-6.

43 Ivi, p. 35. 44 Si tratta di una verità perché, come precisa il metodo vernadskijano, è

fondata su ricerche e fatti empirici. 45 Praticamente in tutti i saggi che compongono i Pensieri è presente questa

visione scientista del conoscere.

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46 Scrive Vernadskij in “Alcune considerazioni sulla noosfera” (1943): «(…)

anche ad assegnare un metro quadrato a testa a tutti gli uomini della Terra, l’umanità intera occuperebbe a mala pena il lago di Boden tra Baviera e Svizzera e il resto della terra resterebbe libero. Risulta così evidente che l’intera umanità, per massa, rappresenta una frazione infinitamente piccola rispetto alla massa del pianeta. La potenza dell’uomo dipende dal suo cervello, non dalla sua massa. (…) Alla civiltà umana, al suo pensiero e al suo lavoro, si presenta il problema della trasformazione della biosfera nell’interesse del libero pensiero dell’umanità in quanto unità indivisibile. Noosfera è questa nuova condizione della biosfera, alla quale, senza accorgercene, ci avviciniamo», V. I. Vernadskij, “La noosfera”, in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, pp. 215-2016 oppure V. I. Vernadskij, “Qualche parola sulla noosfera”, in Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 207.

47 Cf. pp. 39, 49, 172 di V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994. L’esplosione per Vernadskij è legata alla scoperta della radioattività e alla comprensione del mondo infinitamente piccolo degli atomi: attraverso queste nuove conoscenze l’uomo ha potuto infatti accedere a nuovi mondi, scavalcare frontiere dapprima inaccessibili e incrementare quindi esponenzialmente le sue aree di ricerca e di penetrazione della realtà.

48 V. I. Vernadskij, “La biosfera nel cosmo”, parte de “La Biosfera” in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 41.

49 La stesse legge cui è soggetto l’uomo. 50 L’unico pensatore logico a cui Vernadskij riconosce un ruolo preminente

nella ricerca scientifica è C. S. Peirce, uno dei fondatori della semiotica (V. I. Vernadskij, “Sulla logica della scienza della natura”, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 154).

51 V. I. Vernadskij, “Il pensiero scientifico e l’attività della scienza come forza biologica nella biosfera”, in Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 27 (primo corsivo mio).

52 Cf. il passo appena citato da “Il pensiero scientifico e l’attività della scienza come forza biologica nella biosfera”.

53 Come ha scritto Tagliagambe, ciò da cui Vernadskij si dissocia è il tentativo del regime sovietico di imporre un indirizzo filosofico “scientifico” vincolante per tutti, ossia il materialismo dialettico: «Tutti i tentativi di creazione di un’unica filosofia – cita Tagliagambe da Vernadskij [Filosofskie mysli naturalista, Nauka, Moskva, 1988, p. 108-109]– riconosciuta come valida da

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tutti, sono stati da tempo relegati tra i reperti del passato. Anche gli sforzi in corso del nostro Stato socialista di dar vita a una filosofia ufficiale, basata sui principi del materialismo dialettico, che sia recepita come l’unica possibile e quella più autentica da tutti, sono chiaramente condannati all’insuccesso, se si tiene nel debito conto il rapido e profondo sviluppo della conoscenza scientifica», S. Tagliagambe, “Uno scienziato ai confini tra più saperi”, saggio introduttivo a V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, pp. XLIII-XLIV.

54 V. I. Vernadskij, “La noosfera”, in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 2016.

55 Secondo Vernadskij, la particolarità dell’epoca contemporanea, per quanto concerne l’elaborazione “razionale” (ossia della scienza), sta nel fatto che «ogni fatto scientifico, ogni osservazione scientifica, indipendentemente da chi li ha prodotti e dal luogo in cui sono stati rilevati o elaborati, vanno a confluire in un unico apparato scientifico, dove vengono classificati e ridotti a una forza standard, divenendo rapidamente parte del patrimonio comune e oggetto d’attenzione e di valutazione da parte dell’attività critica, della riflessione teorica e del lavoro scientifico nel suo complesso»; questa unitarietà è ciò che, secondo il geologo russo, farà della noosfera un luogo di pace (p. 49

56 V. I. Vernadskij, “Sulle verità scientifiche”, in Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 74.

57 Vernadskij, pur essendo un fine epistemologo, dimostra di non avere un’idea chiara della vocazione scientifica che appartiene alla filosofia e alla teologia, tant’è che nel saggio “Il pensiero scientifico e l’attività della scienza come forza biologica nella biosfera” assimila la filosofia contemporanea alla psicologia – quando queste sono due discipline scientifiche ben distinte.

58 V. I. Vernadskij, “Il pensiero scientifico e l’attività della scienza come forza biologica nella biosfera”, in Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 43.

59 V. I. Vernadskij, “La biosfera nel cosmo”, parte de “La Biosfera” in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 40.

60 S. Tagliagambe, “Uno scienziato ai confini tra più saperi”, saggio introduttivo a V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. XII (il passo citato da Tagliagambe è in V. I. Vernadskij, “Mysli i zamečanija o literature i isskusstve” (Penseri e osservazioni sulla letteratura e sull’arte), in AA.VV., Puti v neznaemoe (Sentieri verso l’ignoto), “Sov. Pisatel”, Moskva, 1966, fasc. 6, p. 420.]).

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Questa posizione è poi ben chiarificata nei Pensieri, ove Vernadskij scrive: «(…) eppure nello stesso tempo noi sappiamo che anche in tali espressioni [filosofiche, religiose, artistiche, ed altre come il buon senso, le tradizioni, le norme etiche] della cultura umana figura una certa parte – a volte anche ragguardevole – di verità e di comprensione scientificamente corretta della realtà. Una percezione autentica, piena e profonda del mondo che ci circonda può scaturire anche da campi che la ragione non è più in grado di abbracciare e nei quali non può far valere pienamente i propri poteri, come l’armonia musicale, il livello morale del comportamento della persona», V. I. Vernadskij, “Sulle verità scientifiche”, in Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. 59.

61 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 56. 62 Ibidem. 63 Questa posizione era già stata sostenuta in Testo e Contesto, nel saggio “Un

modello dinamico di sistema semiotico”, quando Lotman aveva sottolineato l’importanza di dare alle irregolarità lo stesso valore epistemologico delle regolarità, pena una riduzione del sistema (linguistico per Saussure, culturale per Lotman) ai suoi elementi atomici costituenti.

64 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 58. 65 Le incoerenze epistemologiche compiute da Lotman nel suo accostamento

analogico tra semiotica e biologia sono ben tracciate nel saggio “Biology, Semiosis, and Cultural Difference in Lotman’s Semiosphere”, di Vladimir E. Alexandrov.

66 V. I. Vernadskij, Premessa a “La Biosfera” in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 24.

67 J. Lotman, “La cultura e l’organismo” (Kul’tura i organism, Tartu 1984), in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit.

68 J. Lotman, “La metasemiotica e la struttura della cultura” (Metasemiotika i struktura kul’tury, Tartu 1984), in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit.

69 J. Lotman, “La dinamica dei sistemi culturali” (Dinamika kul’turnych sistem, Tartu 1984), in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit.

70 Ove tra l’altro ritroviamo i riferimenti bibliografici alle opere Vernadskijane usate dal Lotman: principalmente Pensieri filosofici di un naturalista e vari saggi del Vernadskij “scienziato”.

71 J. Lotman, “Dialogue mechanism”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, I.B. Tauris Publisher, London & New York, 1990, p. 150.

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72 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 58. 73 La cultura, secondo Lotman, è un sistema intellettuale dotato di tre attributi

fondamentali: 1) la memoria, che custodisce la stratificazione informativa; 2) i meccanismi di trasmissione dell’informazione; 3) i meccanismi di produzione di nuova informazione, ovverosia – come vedremo – le traduzioni poliglotte (J. Lotman, “La cultura e l’organismo”, art. cit., p. 78).

74 J. Lotman, “Cervello – testo – cultura – intelligenza artificiale”, in Semiosfera: humanidades-tecnologías, Universidad Carlos III de Madrid. Instituto de Humanidades y Comunicación "Miguel de Unamuno", 2/1994, p. 82.

75 «(…)soltanto l’esistenza di questo universo – ovvero la semiosfera – fa diventare realtà il singolo atto segnico», “La semiosfera”, art. cit., p. 58. La stessa riflessione è affrontata in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., pp. 123-124.

76 Ivi, p. 81. 77 Proprio come avviene nelle migrazioni atomiche di Vernadskij. 78 D’altronde l’energia della semiosfera è l’energia dell’informazione. 79 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 66. 80 Il fenomeno del rispecchiamento, ove le parti contengono il tutto e il tutto si

riflette nelle parti, richiama il meccanismo dell’ologramma: «un’immagine fisica le cui qualità (prospettiche, di colore, ecc.) dipendono dal fatto che ogni suo punto contiene quasi tutta l’informazione dell’insieme che l’immagine rappresenta. E nei nostri organismi biologici noi possediamo un’organizzazione di questo genere: ognuna delle nostre cellule, anche la cellula più modesta come può essere una cellula dell’epidermide, contiene l’informazione genetica di tutto il nostro essere nel suo insieme. Naturalmente solo una piccola parte di questa informazione è espressa in questa cellula, mentre il resto è inibito. In questo senso possiamo dire non soltanto che la parte è nel tutto, ma anche che il tutto è nella parte» E. Morin, “Le vie della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 28.

81 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., pp. 60-61. 82 Il testo, in Lotman, rimane sempre un sistema autonomo sorretto da proprie

leggi e meccanismi di significazione. 83 V. I. Vernadskij, “La biosfera nel cosmo”, parte de “La Biosfera” in La biosfera

e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 31. Non a caso, come frase introduttiva della Biosfera Vernadskij pone un verso del poeta T. Tyutčev: «Un ordine immutabile è in tutto, armonia universale della natura» (1865) – verso che, come vedremo, sarà ripresto da Lotman nelle sue ultime opere, in

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particolare ne La cultura e l’esplosione. Sempre a proposito del concetto di armonia cosmica, lo scienziato russo sottolinea che le antiche intuizioni dei grandi sistemi religiosi non erano affatto lontane dalla verità nel pensare che le creature viventi fossero immerse in un ordine superiore (rappresentato dal Sole), dal quale tutto dipendeva.

83 V. I. Vernadskij, Premessa a “La Biosfera” in La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999, p. 24.

84 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 70. Lotman riprende questo punto anche nel saggio “La cultura e l’organismo” e specifica: «L’ipotesi dell’unità strutturale dell’universo porta a supporre (…) che ai diversi livelli dell’organizzazione tutti gli aspetti della materia debbano rivelare caratteri di isomorfismo e che da una certo punto di vista sarebbe desiderabile descrivere tutto servendosi di un unico metalinguaggio», J. Lotman, “La cultura e l’organismo”, art. cit., p. 77.

85 Come ricorda la celebre riflessione di P. Davies: «Noi, figli dell'universo, polvere di stelle animata, ciononostante possiamo riflettere sulla natura dell'universo stesso e perfino intravedere le regole che lo fanno funzionare. Come sia nato il nostro legame con questa dimensione cosmica è un mistero, ma il legame stesso non può essere negato», P. Davies, La mente di Dio, Milano 1993, p. 288.

86 Scrive Lotman in “Cervello – testo – cultura – intelligenza artificiale”: «Alla base del dispositivo pensante si trova una contraddizione: il dispositivo capace di produrre nuova informazione deve essere unico e doppio al stesso tempo. Questo significa che ciascuna delle sue sub-strutture binarie deve essere al contempo tanto un tutto quanto una parte del tutto. Il modello ideale diventa la Trinità, ove ogni tutto è una parte di un’unità di un ordine più alto, e ogni parte è un tutto a un livello più basso», J. Lotman, “Cervello – testo – cultura – intelligenza artificiale”, in Semiosfera: humanidades-tecnologías, Universidad Carlos III de Madrid. Instituto de Humanidades y Comunicación "Miguel de Unamuno", 2/1994, p. 89-90.

87 J. Lotman, “The notion of boundary”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 133. La visione di Lotman rispetto al ruolo fondante dell’asimmetria nel vivente è la diretta prosecuzione di quella di Vernadskij, a sua volta erede di P. Curie – presso il cui Istituito il geologo russo aveva lavorato negli anni parigini – e da L. Pasteur, lo scopritore del principio enantiomorfico: le ricerche di questi scienziati in ambito molecolare portarono tutte all’affermazione della necessità dell’asimmetria per l’origine della vita. Scrive Tagliagambe a

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proposito: «Ciò che per i matematici, come per i filosofi e i poeti del XVI secolo non era altro che fonte di un’illusione e di menzogna diviene infatti in epoca moderna, con Louis Pasteur, sorgente di vita. Attraverso la sua teoria della asimmetria molecolare lo scienziato francese evidenzia infatti come l’origine della vita sulla terra e l’organizzazione degli esseri viventi siano dovuti all’influenza delle forze asimmetriche e alla presenza di quegli oggetti che non hanno né piano, né centro di simmetria e le cui forme non sono congruenti fra loro, ossia non sono ricopribili nello spazio per rotazione (forme enantiomorfe). Il legame tra la vita sulla superficie terrestre e il cosmo sta, secondo Pasteur, proprio nel fatto che i principi immediati della vita stessa sono asimmetrici e che alla loro elaborazione presiedono forze asimmetriche, presenti ovunque nel cosmo. Lo spazio e le proprietà legate ad esso vengono così a svolgere un ruolo attivo nella costituzione della realtà, in quanto agiscono come fattore di differenziazione di composti che hanno uguali proprietà fisiche e anche uguali proprietà chimiche, salvo che verso i reattivi chimicamente attivi (quelli le cui molecole sono chirali, cioè non sono sovrapponibili alle loro immagini speculari) e si distinguono soltanto per il segno (ma non il valore assoluto) del potere rotatorio. Le forme enantiomorfe, lungi dall’essere fonti d’illusione e d’inganno, sono dunque all’origine delle vita», S. Tagliagambe, “Mondi possibili e teoria del dialogo”, in S. Tagliagambe et al., Bachtin teorico del dialogo, Franco Angeli, Milano, 1996, pp. 154-155.

88 Si pensi alla visione della tradizione per gli slavofili e, al contrario, per i sovietici.

89 J. Lotman, Universe of the Mind. A semiotic theory of culture, op. cit., p. 203. 90 J. Lotman, “Dialogue mechanism”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory

of Culture, I.B. Tauris Publisher, London & New York, 1990, p. 150. 91 Essa cioè lavora come un cervello, uno e doppio allo stesso tempo – la

semiosfera, lo ricordiamo, è un’intelligenza diffusa. 92 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 64. 93 «Il centro della semiosfera è formato dai linguaggi strutturalmente più

organizzati e sviluppati, e in primo luogo la lingua naturale della cultura»; tuttavia questa non più vista, dal tardo Lotman, come “il” sistema primario di modellizzazione ma come un dispositivo di traduzione altamente efficace che lavora insieme e alla pari con gli altri linguaggi (J. Lotman, “Semiotic Space”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 127).

94 J. Lotman, “La metasemiotica e la struttura della cultura”, art. cit., p. 89.

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95 Ovviamente si tratta del simbolismo logico-matematico, per sua natura

universale e transculturale e, per questo motivo (agli occhi di Vernadskij), oggettivo e pacificatore.

96 E precisamente nel saggio del ’71, “Sul meccanismo semiotico della cultura”, art. cit., p. pp. 81, 82 e 87.

97 Ivi, p. 87. 98 Ibidem. 99 V. I. Vernadskij, “Očerki po istorii sovremennogo naučnogo mirovozzrenija”

[Lineamenti di storia dell’attuale concezione scientifica del mondo], in Trudy po vseobščej istorii nauki, Nauka, Moskva, 1988, p. 77 (cit. da S. Tagliagambe, “Uno scienziato ai confini tra più saperi”, saggio introduttivo a V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. XXVIII).

100 Vernadskij è dalla parte della scienza innovativa, del “meno”, vale a dire di quella scienza che nella prima metà del Novecento doveva transitare dal mondo euclideo (la scienza egemone) a quello non euclideo e in certo modo rivedere tutto il suo impianto alla luce delle scoperte che stavano giungendo dalla fisica quantistica. Scrive Vernadskij: «l’esplosione della creatività scientifica, attualmente in atto, non è legata soltanto alla creazione di nuovi campi della conoscenza e di nuove branche della ricerca: essa coinvolge l’intero fronte del pensiero scientifico, provoca un mutamento deciso e profondo del tutto, anche dei precedenti concetti scientifici, a volte anche fondamentali, come ad esempio quelli di tempo e di materia, si riflette su tutto il concetto della scienza, anche sui suoi risultati più antichi, rimasti immobili e fissi per tanto tempo», V. I. Vernadskij, cit. da S. Tagliagambe, “Uno scienziato ai confini tra più saperi”, saggio introduttivo a V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. XXV.

101 Ivi, p. p. XXVII. 102 È la dinamica del logos di cui si parlava pocanzi. 103 J. Lotman, “La metasemiotica e la struttura della cultura”, art. cit., p. 89. 104 Ivi, p. 66. 105 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit.,

pp. 9-10. 106 Ivi, p. 35. 107 Soprattutto negli ultimi scritti si comprenderà pienamente il valore di

questa visione di conoscenza, quando cioè Lotman riprenderà e problematizzerà ulteriormente l’imprescindibile contraddizione fra sistema

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ed extrasistema (o mondo dei realia) e la loro reciproca impenetrabilità (cf. in particolare J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., pp. 9-10).

108 J. Lotman, Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 203.

109 Lotman spiega l’asimmetria orizzontale in questo modo: «poiché non siamo di fronte ad un semplice atto di trasmissione ma ad uno scambio, fra le parti deve esserci non solo un rapporto di somiglianza ma anche una differenza. (…) Le sottostrutture che prendono parte [alla semiosfera] devono essere non isomorfe l’una rispetto all’altra ma ognuna rispetto al terzo elemento di livello più alto del cui sistema fanno parte», ibidem.

110 J. Lotman, “Semiotic Space”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 130.

111 Ivi, p. 124. E ancora: «Nella realtà della semiosfera le gerarchie dei linguaggi e dei testi di solito vengono meno: essi interagiscono come se si trovassero ad un solo livello. I testi appaiono immersi in linguaggi ad essi non correlati e possono mancare di codici capaci di decodificarli [meccanismo che dà vita al demoltiplicarsi di altri testi e linguaggi]», J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 64. Questo punto viene ulteriormente specificato da Lotman in Universe of the Mind, quando sottolinea che «ogni cultura vivente ha un meccanismo incorporato di moltiplicazione dei suoi linguaggi», J. Lotman, “Semiotic Space”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 124.

112 J. Lotman, “Dialogue mechanism”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 150.

113 J. Lotman, “Semiotic Space”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 127.

114 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 58. 115 Ivi, pp. 60-61. 116 S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano, 2006, p. 82. 117 Ciò che caratterizza la ricerca eclettica di Vernadskij è il “gusto per lo

sconfinamento”: un gusto «motivato dall’impulso ad affrontare e a tentare di risolvere le diverse questioni che via via gli si paravano dinanzi nella sua indagine dei fenomeni naturali, senza rifugiarsi nel comodo “alibi” del richiamo alla specificità della propria formazione e del proprio settore di competenza, [un gusto che] lo indusse costantemente a passare “dal particolare al generale”» e a tentare un approccio profeticamente transdisciplinare in seno alla scienze naturali, e non solo (S. Tagliagambe,

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“Uno scienziato ai confini tra più saperi”, saggio introduttivo a V. I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, Edizioni Teknos, Roma, 1994, p. VIII).

118 In Bachtin, il riferimento a Vernadskij è evidente in Problemi tvorčestva Dostoevskogo (I problemi dell’opera di Dostoevskij), uscita nel 1929, e in Estetika slovesnogo tvorčestva (Estetica del testo verbale), uscita nel 1979 –pubblicata in italiano con il titolo L’autore e l’eroe.

119 Come ha sottolineato Tagliagambe, in particolare secondo la visione di Floresnkij «(…) occorre dare al confine tra sé e la realtà un diverso significato e una diversa valenza, trasformandolo da barriera in luogo di comunicazione dove si possa costituire il principio dell’intersoggettività. Il punto d’approdo dell’autoedificazione della persona è dunque la piena e matura consapevolezza che l’“essere-persona” coincide con l’“essere-per-l’altro”, con il “vivere-(nel)-l’altro”. L’“altro”, in questo approccio, appare il completamento inevitabile e del tutto insostituibile per chi desidera giungere all’“esistenza” come persona autentica, e proprio per questo sempre più simile, nella sua interezza, al Dio che è Amore-trinitario. L’uni-trinità divina, anticipata e magistralmente sintetizzata nell’opera Il significato dell’idealismo, raccolta dei materiali delle lezioni sul platonismo e sul rapporto “uno-molteplice”, diventa così la chiave di volta per affrontare e risolvere, anche con riferimento al tema dell’identità personale, la questione dell’apparente inconciliabilità dei due termini della relazione suddetta», S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano, 2006, p. 191. Come abbiamo visto al cap. 3, anche per Lotman l’uni-trinità divina è il modello (o dovrebbe esserlo) della dinamica culturale, dal singolo atto semiotico alla cultura nel suo insieme: è infatti l’unica “organizzazione” in grado di custodire l’unità nella radicale differenza. Lotman svilupperà ulteriormente questo punto nella sua ultima opera, I meccanismi impredittibili della cultura, op. cit. p. 44.

120 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 58. 121 J. Lotman, “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (da un punto di

vista semiotico)”, art. cit., p. 126. 122 «Poiché il confine è un elemento necessario alla semiosfera, essa ha bisogno

di un ambiente esterno “non organizzato” e, quando manca, lo crea. La cultura infatti non crea soltanto la sua organizzazione interna, ma anche un proprio tipo di disorganizzazione esterna», J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., p. 62.

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123 Ivi, p. 61. 124 Lotman parla anche dell’izgojničestvo (degradamento) come di un termine

che «presuppone la condizione di esclusione da un’organizzazione dotata di autorità. Questa organizzazione può avere il carattere di un gerarchia sociale o di una struttura spaziale (la parte abitata nello spazio culturalmente assimilato dal collettivo sociale). L’individuo che si trova fuori, è escluso dalle strutture sociali. Da un punto di vista spaziale egli vive fuori: fuori dalla casa, ciondolando per le strade e passando la notte sotto gli steccati o nelle bettole (…), vagabondando per le strade, vivendo nei boschi o nei cimiteri o ancora stabilendosi fuori del confine che delimita la città», J. Lotman, B. Uspenskij, “Il “degradato” (izgoj) e il “degradamento” (izgojničestvo) come condizione socio-psicologica nella cultura russa precedente al regno di Pietro I. “Proprio” e “altrui” nella storia della cultura russa” (“Izgoj” i “izgojničestvo” kak social’no-psichologičeskaja pozicija v russo kul’ture preimuščestvenno dopetroskogo perioda, Tartu 1982), in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit., p. 173.

125 «Lo spazio interno, assimilato culturalmente, è considerato “proprio”, umano, mentre la terra straniera, quella del collettivo esterno si considera appartenente ad un altro mondo», Ivi, p. 167.

126 Ivi, p. 165. 127 J. Lotman, “Semiotic Space”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of

Culture, op. cit., p. 129. 128 L’enantiomorfismo sarà poi ripreso in un numero dei Sign System Studies

dedicato alla semiotica dello specchio (Trudy po znakovym sistemam, XXII, Tartu, 1988). Anche qui Lotman prende sicuramente spunto da Vernadskij che, all’enantiomorfismo e all’asimmetria, aveva dedicato numerosissime riflessioni. Per una precipua trattazione dell’enantiomorfismo nella visione di Vernadskij e dei suoi padri scopritori (Pasteur e Curie) si veda S. Tagliagambe, “L’origine dell’idea di cronotopo in Bachtin”, in S. Tagliagambe et al., Bachtin teorico del dialogo, Franco Angeli, Milano, 1996, pp. 67-69.

129 La comunanza dei codici propri della semiosfera. 130 J. Lotman, “La semiosfera”, art. cit., pp. 68-69. 131 Ivi, p. 71. La posizione di Lotman è la diretta prosecuzione di quella di

Vernadskij, a sua volta erede di P. Curie – presso il cui Istituito il geologo russo aveva lavorato negli anni parigini – e da L. Pasteur, lo scopritore del principio enantiomorfico: le ricerche di questi scienziati in ambito

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molecolare portarono tutte all’affermazione del valore dell’asimmetria per l’origine della vita. Scrive Tagliagambe a proposito: «Ciò che per i matematici, come per i filosofi e i poeti del XVI secolo non era altro che fonte di un’illusione e di menzogna diviene infatti in epoca moderna, con Louis Pasteur, sorgente di vita. Attraverso la sua teoria della asimmetria molecolare lo scienziato francese evidenzia infatti come l’origine della vita sulla terra e l’organizzazione degli esseri viventi siano dovuti all’influenza delle forze asimmetriche e alla presenza di quegli oggetti che non hanno né piano, né centro di simmetria e le cui forme non sono congruenti fra loro, ossia non sono ricopribili nello spazio per rotazione (forme enantiomorfe). Il legame tra la vita sulla superficie terrestre e il cosmo sta, secondo Pasteur, proprio nel fatto che i principi immediati della vita stessa sono asimmetrici e che alla loro elaborazione presiedono forze asimmetriche, presenti ovunque nel cosmo. Lo spazio e le proprietà legate ad esso vengono così a svolgere un ruolo attivo nella costituzione della realtà, in quanto agiscono come fattore di differenziazione di composti che hanno uguali proprietà fisiche e anche uguali proprietà chimiche, salvo che verso i reattivi chimicamente attivi (quelli le cui molecole sono chirali, cioè non sono sovrapponibili alle loro immagini speculari) e si distinguono soltanto per il segno (ma non il valore assoluto) del potere rotatorio. Le forme enantiomorfe, lungi dall’essere fonti d’illusione e d’inganno, sono dunque all’origine delle vita», S. Tagliagambe, “Mondi possibili e teoria del dialogo”, in S. Tagliagambe et al., Bachtin teorico del dialogo, Franco Angeli, Milano, 1996, pp. 154-155.

132 J. Lotman, “Dialogue mechanism”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., pp. 143-144.

133 (…) si può dire che il dialogo precede il linguaggio e lo genera. Proprio questo è alla base dell’idea della semiosfera. L’insieme delle formazioni semiotiche precede (non in senso euristico ma funzionale) il singolo linguaggio isolato ed appare la condizione necessaria per l’esistenza di quest’ultimo. Senza la semiosfera il linguaggio non solo non può funzionare, ma nemmeno esistere», Ibidem.

134 V. Strada, La questione russa. Identità e destino (1991:131-132), cit. da S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano, 2006, p. 43.

135 Del testo anglosassone sono particolarmente importanti le “Conclusioni”, dedicate appunto a questo argomento.

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136 J. Lotman, “Il concetto di spazio geografico nei testi medievali russi” (O

ponjatii geografičeskogo prostranstva v russkich srednevekovych tekstach, Tartu 1965), in Tipologia della cultura, op. cit., p. 183.

137 Ivi, p. 184. 138 Ivi, p. 191. 139 J. Lotman, “Il problema dello spazio artistico in Gogol’” (Problema

chudožestvennogo prostranstva v proze Gogolja, Tartu, 1968), in Tipologia della cultura, op. cit. Secondo Lotman, «è stato proprio Gogol’ a svelare alla letteratura russa tutta la potenza dei modelli spaziali, condizionando ampiamente, in tal modo, il linguaggio artistico degli autori russi, da Tolstoj, Dostoevskij e Saltykov-Ščedrin a Michail Bulgakov e Jurij Tynjanov», Ivi, p. 248.

140 Ivi, p. 195. 141 Ivi, p. 246. 142 J. Lotman, “La casa ne Il maestro e margherita” (Dom v Mastere i Margarite,

Moskva 1996), eSamizdat 2005 (III) 2-3, pp. 31-36. 143 Gesù è chiamato Yešua Ha-Nozri ne Il maestro e Margherita. 144 Ivi, p. 31. 145 E. Montale, articolo sul “Corriere della sera”, 9 aprile 1967, riportato in

“Antologia critica” a Il maestro e Margherita, Dalai editore, Milano, 2011. 146 J. Lotman, “La casa ne Il maestro e margherita”, art. cit., p. 31. 147 Ivi, p. 34. E puntualizza Lotman: «Per Bulgakov, come così come per Puškin

negli anni Trenta dell’Ottocento, la cultura è inseparabile dalla vita intima e segreta (…)», Ibidem.

148 Scrive Lotman: «È stato sufficiente che il Maestro abbia smesso di scrivere perché la Casa si trasformasse in un misero scantinato», e, all’opposto, è «l’intimità data dalla spiritualità e dalla cultura» ad aver trasformato l’appartamento in una Casa (Ibidem).

149 Ibidem. 150 Ivi. p. 35. 151 J. Lotman, “Il problema dello spazio artistico in Gogol’”, art. cit., p. 246. 152 Come si può evincere da I meccanismi impredittibili della cultura (1993), Gli

artisti sono coloro che restituiscono la libertà all’illiberale realtà e lo fanno proprio attraverso l’arte, sempre soggetta, in questi casi, alla repressione censoria (J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 76).

153 J. Lotman, “La casa ne Il maestro e margherita”, art. cit., pp. 35-36.

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154 J. Lotman, “Dialogue mechanism”, in Universe of the Mind. A Semiotic

Theory of Culture, op. cit., p. 150. 155 J. Lotman, Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p.

140. 156 J. Lotman, “Il simbolismo di Pietroburgo e i problemi della semiotica della

città” (Simbolika Pterburga i problemy semiotiki goroda, Tartu 1984), La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit., pp. 225-226 e 232. Già nel 1970, nell’Introduzione a Tipologia della cultura, egli aveva precisato: «“Culturalizzare” significa conferire al mondo le strutture della cultura. (…) abbiamo a che fare non con la traduzione di un testo, ma con il mutamento di un non testo in testo. La trasformazione del bosco in terreno agricolo, il prosciugamento delle paludi o l’irrigazione del deserto, qualsiasi trapasso cioè di un paesaggio aculturale in culturale, può essere considerato anche come la conversione di un non testo in testo. È questa la differenza di fondo fra il bosco e la città. Quest’ultima reca in sé, fissati in segni sociali, informazioni su molteplici aspetti della vita umana: è cioè un testo nella stessa misura di una qualsiasi struttura prodotta», J. Lotman, “Introduzione” a Tipologia della cultura, op. cit., p. 35 (corsivo mio).

157 Dopo 215 anni, nel 1918 la capitale del nuovo impero russo, l’Unione Sovietica, fu spostata nuovamente da San Pietroburgo a Mosca.

158 J. Lotman, “Il simbolismo di Pietroburgo e i problemi della semiotica della città”, art. cit., p. 225-226.

159 Ivi, pp. 226-227. 160 S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano, 2006, p. 28. 161 Ibidem. Il narod era appunto il custode dell’anima russa, con la sua mistica

religiosità. 162 S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano, 2006, pp. 28-

29. 163 I. Lotman, “La modernidad entre la Europa del este y del oeste” (La Coruña

1992), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 9(2007), www.ugr.es/~mcaceres/entretextos/entre9/modernidad.html.

164 Ibidem. 165 Ibidem. 166 Ibidem. 167 Ibidem. 168 Ibidem.

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169 Ibidem. 170 Nella poesia sovietica di massa Mosca diventa il centro dell'universo. Allo

stesso modo, anche l'immagine del rivoluzionario proletario si trasforma: invece di capeggiare la periferia belligerante e attaccare il centro capitalista del mondo, egli diventa il capo del Centro Mondiale, opponendosi alle forze nemiche del Male, che dal di fuori (…) tentano di distruggere con trucchi diabolici il mondo dei valori positivi (ibidem).

PARTE III

Sulla scia di Y. Prigogine. L’ultimo Lotman

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Introduzione

E arriviamo così alla parte conclusiva di questo lavoro. Per interpretare l’ultimo Lotman si è scelto di dare un taglio più tematico che cronologico; questa decisione è legata al fatto che, se da una lato, la metafora organicista permane sin negli ultimi scritti – secondo la temporalizzazione 1984-1993 – dall’altro, essa viene trasformata dal di dentro attraverso un successivo prestito teorico che Lotman chiede alle scienze naturali e, precisamente, al chimico e fisico russo I. Prigogine1, l’“esploratore” della termodinamica di non equilibrio. Frutto di un dialogo per certi versi rimasto acerbo e incompiuto, la tematizzazione di questo prestito ha visto un sottile slittamento semantico del concetto di cultura e delle tematiche che ad essa fanno capo. Per tale motivo ho ritenuto più opportuno riprendere in mano le tesi-cardine di Lotman e sviscerarne i nuovi nuclei teorici (esplosi e inesplosi), cercando di capire anche l’eredità che ci lasciano da sviluppare.

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Semiotica e epistemologia della complessità. Il laboratorio dell’imprevedibilità

Una data fondamentale è il 1986, anno in cui Lotman viene a conoscenza dei lavori di Prigogine2. Sappiamo per certo poi, ripercorrendo gli scritti dal 1986 al 1993, che il semiologo russo si ispira a lui attraverso tre opere – la datazione fa riferimento all’edizione russa – Dall’essere al divenire. Tempo e complessità nelle scienze fisiche (1985)3, L’ordine dal caos. Il nuovo dialogo dell’individuo con la natura, con Isabelle Stengers (1986)4 e Tra il tempo e l’eternità, con Stengers (1988, questo invece è citato da Lotman nell’edizione francese)5.

Ma perché questa visione scientifica, costruita sul tempo, il divenire e il caos (o, meglio, la complessità), ha un effetto così attrattivo sul Lotman?

L’opera d Prigogine, non solo si inserisce sulla scia di Vernadskij attraverso l’elaborazione di una nuova scienza della physis – frutto dell’inedita alleanza fra la scienza dell’inerte e quella del vivente e fra la natura e la cultura – ma postula ciò che Lotman andava preconizzando in quegli anni, ossia la teorizzazione di una scienza nel tempo, fondata sul quadro epistemologico processo→indeterminazione→probabilità e sull’idea di un tempo irreversibile: dimensione sostanziale e reale del vivente e non mera apparenza6 (§ 1.1.2, cap. 1).

Per fare questo, Prigogine si ispira anzitutto al concetto di “entropia” (R. Clausius, 1865), proprietà del secondo principio della termodinamica – e termine ripreso più volte dalla cibernetica7 – la sperimentazione che su di essa si era compiuta nel XIX secolo aveva infatti posto in rilievo la natura dissipativa e irreversibile (ossia temporale) dei sistemi fisici, che tendono irrimediabilmente verso condizioni di equilibrio termodinamico, ossia verso l’incremento di disordine, omogeneità ed equilibrio molecolare:

a differenza dell’energia che, in un sistema isolato, si mantiene costante, l’entropia, al contrario, cresce nel corso delle trasformazioni, fino a raggiungere un massimo. Lo stato di

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massima entropia segna il raggiungimento dell’equilibrio, e l’impossibilità per il sistema di compiere ulteriori trasformazioni. Con il concetto di entropia (dal greco entropé, che potremmo tradurre anche “cambiamento”) si dimostra che i processi irreversibili scoperti [all’inizio dell’Ottocento, studiando le macchine termiche e la conduzione del calore], raggiungono portata cosmologica: “l’entropia diventa così un indicatore di evoluzione, esprime il fatto che in fisica esiste una freccia del tempo”.8

Cosa cambia dunque con la termodinamica di Prigogine? Il chimico-fisico russo, studiando le cosiddette strutture dissipative (sistemi cioè che si manifestano lontano dall’equilibrio) si accorge che l’irreversibilità non è per forza sinonimo di degradazione ma anche di creazione e creatività.

Nella termodinamica di equilibrio, infatti, «ogni sistema fisico isolato tende spontaneamente a evolvere da una condizione di ordine a una condizione di disordine, da una configurazione improbabile verso una configurazione più probabile, e il [suo] grado di probabilità o di disordine, cioè la sua entropia, costituisce in un certo senso la misura del tempo trascorso, la traccia lasciata dietro di sé» dal tempo-degradazione9: l’universo, di conseguenza, dovrebbe dirigersi verso la morte termica, ossia verso uno stato totalmente entropico e probabile. Paradossalmente, però, proprio quest’universo ha visto comparire strutture dotate di attributi del tutto “improbabili” (olismo, finalità e autorganizzazione, auto-riproduzione, non linearità), che caratterizzano la quasi totalità della nostra esperienza della realtà.

Nella sua termodinamica, Prigogine si è concentrato invece su quei sistemi che si stabilizzano lontano dal punto di equilibrio, in corrispondenza dunque di uno stato non invariabile (e altamente probabile) ma dinamico: è proprio in queste condizioni che emergono le strutture autorganizzantisi10, ossia le strutture complesse del vivente11. Trattandosi di uno stato dinamico, nel corso della loro evoluzione questi sistemi possono incontrare dei punti di instabilità (o biforcazione) – concetto fondamentale in Lotman – e cambiare inaspettatamente e

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irreversibilmente direzione, portando alla luce la loro dinamica creativa e creatrice12.

Ecco che allora la vita si profila come qualcosa di libero e non lineare, molto poco vincolato alle leggi del cosmo. Essa è al contempo un fenomeno che, per la scienza classica, deve la sua “unicità” e “improbabilità” al solo fatto di essere studiato dal punto di vista della “semplicità”: basta cambiare prospettiva – questa è la lezione di Prigogine e soprattutto di Stengers – e mettere le lenti della “complessità” per capire che si tratta di un fenomeno assolutamente “normale”.

Con la sua termodinamica di non equilibrio13, spiega G. Tanzella-Nitti, il chimico-fisico russo assegna infine alla complessità e all’emergenza dell’imprevedibile il ruolo trainante dell’evoluzione dei sistemi termodinamici, con un ridimensionamento del peso assunto dalle leggi di natura nell’esplicazione (a volte deterministica) dei medesimi14. Questo cambiamento di prospettiva si traduce in una vera e propria Weltanschauung scientifico-culturale ove viene affermato l’imprevedibile sul prevedibile, il non equilibrio sull’equilibrio, lo sviluppo creativo su quello predicibile: con l’attribuzione di un valore metafisico al paradigma della termodinamica di non equilibrio, Prigogine finisce per scavalcare il suo ambito epistemologico e sostenere una supremazia del divenire sull’essere, postulando una sorta di filosofia del processo15. Non a caso l’obiettivo di questa scienza a-deterministica e più legata alla forza creativa dell’imprevedibilità è quello di tentare un dialogo interdisciplinare con le scienze umane, “sede” della creatività e della libertà, ossia di quegli attributi di cui si dovrebbero rivestire anche le scienze naturali16.

Sebbene apparentemente molto lontana da un discorso semiotico, la fenomenologia delle strutture dissipative puntella diversi snodi del pensiero lotmaniano, in particolare quelli legati al tempo – che è, in questo senso, una categoria non certo fisica ma semiotica. Lo studio del paradigma prigoginiano della complessità porta infatti Lotman a riflettere profondamente sui modi attraverso cui l’uomo vive la storia (il

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tempo semiotizzato per eccellenza) e, soprattutto, se la auto-rappresenta attraverso costruzioni ideologico-politiche, artistiche, scientifiche.

L’analogia “esterna” si realizza dunque in un incontro epistemologico fra i concetti scientifici di prevedibilità e imprevedibilità17 e quelli semiotici di gradualità ed esplosione di senso e diventa lo strumento attraverso cui Lotman si “riappropria” della storia reintroducendola nel meccanismo semiotico della cultura: i suoi ultimi scritti, infatti, sono tutti protesi a spiegare in che modo la cultura sopravanzi nel suo divenire. Scrive Lotman: «Un campo minato, con imprevedibili punti di esplosione, e un fiume in primavera, con il suo possente, ma orientato flusso: queste le due immagini che sorgono nella coscienza dello storico che studia i processi dinamici esplosivi e graduali»18.

Con questo balzo intellettuale, Lotman dà uno spessore storico alla semiosfera, portando in luce i meccanismi semiotici che sottostanno alle grandi costruzioni ideologiche e alle loro contraddizioni interne. Nuove prospettive

Nell’ultimo Lotman, l’interesse crescente per l’imprevedibilità è legato al passaggio dalla “semiotica della cultura” alla “culturologia”, a una scienza cioè in grado di rendere, sempre di più, il movimento reale della cultura. La ricerca scientifica – commenta Mihhail Lotman a proposito delle riflessioni finali del padre – tende generalmente ad analizzare il “realizzato”, fermandosi di fronte al “regno delle possibilità mancate”: approccio che si profila decisamente nocivo per lo studio della cultura, la quale non è fatta solo di eventi manifestatamente realizzati ma anche di tutte quelle «possibilità irrealizzate [che] sono parte dell’essenza della realtà anche se sono destinate a rimanere in stato di latenza»19. Queste possibilità, tuttavia, costruiscono il potenziale dinamico della cultura, ossia le sue strade inesplose e le sue

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possibili diramazioni: come a dire che «una pistola carica ma non esplosa non è funzionalmente identica a una solo scarica»20.

L’adozione di un approccio scientifico alla cultura che nega il possibile e disconosce l’imprevedibile ha due conseguenze fondamentali, secondo J. Lotman. In primo luogo, sulla scorta dello storicismo hegeliano, le vie “perdute” vengono dimenticate dall’occhio esterno dello studioso, il quale depriva così il modello della sua complessità (la stratificazione gerarchica delle possibilità) e della sua intrinseca dinamicità. In secondo luogo, si viene a creare un modello di cultura ove la dimensione storica – il campo per eccellenza nel quale si gioca la dialettica fra eventi in potenza ed eventi in essere – è tutta schiacciata sul “non sarebbe potuto andare diversamente”: ossia su quella falsa inevitabilità escatologica degli eventi che spesso si trasforma in ideologia della storia. Il valore dell’imprevedibilità in Lotman ha una natura eminentemente etica e non salvaguardarla può portare a delle empasse sia sul versante teorico che su quello della prassi; egli stesso scrive in La cultura e l’esplosione: «cancellando il momento dell’imprevedibilità dal processo storico, noi lo rendiamo del tutto ridondante. Dalla posizione di un portatore della Ragione, che abbia, rispetto al processo, un punto di vista esterno (tale può essere Dio, Hegel o qualunque filosofo, che disponga di “un metodo scientifico unico”) questo movimento è privo di informatività»21, ossia di quel nuovo che può aprire strade impensate e portare alla luce inedite possibilità. L’imprevedibilità, in questo senso, è l’esatto contrario non tanto della prevedibilità quanto della monoprospetticità, vale a dire di una visione delle cose – siano esse la cultura, la storia, la società, ecc. – che non tiene conto della sostanziale molteplicità del reale, nel suo essere in presenza o in potenza, visibile o invisibile.

Per Lotman, infatti, la prevedibilità ha un valore positivo e un ruolo fondamentale nel processo storico-culturale in quanto propulsore del nuovo pur se in una forma “attesa”, ossia preparata e accompagnata gradualmente dalla successione incrementale degli eventi, da quel «fiume in primavera, con il suo possente ma orientato flusso»22, come

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nel caso della tecnica23. Non sono dunque la gradualità e, di conseguenza, la prevedibilità ad essere fonti di ripiegamenti ideologici (l’ineludibile preordinazione dei fatti), quanto l’esegesi che l’uomo, «storico profeta»24, a posteri ne dà, costruendo in tal modo una categoria interpretativa della storia e una narrativizzazione della memoria ad hoc, monoprospettica appunto. La cultura, scrive Lotman, «(…) ricostruisce il proprio passato», trasforma e corregge la memoria e, con l’occhio nel passato e la coscienza nel presente, interpreta la propria storia come «inevitabile predestinazione»25.

Se la prevedibilità è preparata e condotta dalla catena degli eventi, l’imprevedibilità è esattamente una loro sospensione: essa è come uno squarcio in seno al paradigma delle possibilità (realizzate e latenti), dal quale fuoriesce l’inatteso: inatteso che può configurarsi sia come un evento storico – si pensi alla caduta dell’impero romano o alla perestrojka – sia, più in generale, come un’esplosione di senso. Poiché nella Cultura e l’esplosione emerge con pregnanza la dimensione del tempo nella sua forma semiotizzata, ossia la storia, particolare attenzione è data al concetto di esplosione in quanto virata storica – di qui, la distinzione fra struttura binaria (o utopica) e struttura ternaria dell’esplosione; non va tuttavia dimenticato che, sia in questo scritto che soprattutto nel postumo I meccanismi impredittibili della cultura, l’imprevedibilità è qualcosa di onnicomprensivo: è un’apertura nel senso, nella sua natura più intima: il poliglottismo, ossia i molti, irriducibili e (a volte) inaccessibili modi di dirsi del reale; è la molteplicità del reale stesso – espressa e non espressa, realizzata e in potenza – che, proprio attraverso l’incontro profondo dei linguaggi e dei “molteplici ‘io’”, si mostra nella sua ricchezza, eterogeneità e intraducibilità, sfondando inaspettatamente il muro del noumenico. In Lotman, l’imprevedibilità e, dunque, l’esplosione di senso, sono la possibilità che l’uomo ha di conoscere in modo profondo la realtà, non fermandosi di fronte ad una “realtà” che pare essere (kantianamente) fatalmente inconoscibile, ma oltrepassando questo confine proprio attraverso il dialogo plurilingue.

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L’imprevedibilità, in quando epifania dell’eterogeneità, è anche la scoperta del diverso, dell’assolutamente altro-da-sé, ciò che scardina la monoprospetticità imponendo una visione plurima del mondo. L’incomprensione, l’intraducibilità, le (apparenti) impermeabilità semiotiche diventano qui fonti inesauribili di nuovo senso, ossia della vita stessa della semiosfera. Il loro riconoscimento aiuta lo studioso della cultura – e, più in generale, lo scienziato – a non cedere alla tentazione di costruire un sistema perfetto, un modello inattaccabile perché assolutamente astratto, “un’unità ideale” che nulla ha a che fare con la realtà. Per Lotman, infatti, il rischio della scienza è di dare spazio alla sola astrazione, ossia ad un modo di procedere della mente sintetico, idealmente unificante e sistematizzante: la realtà, invece, è essenzialmente contraddittoria e coglierla significa pensare in modo antinomico e sposare la ragione (dianoia) con l’intuizione (noesi) e l’esperienza (empeiria): è questo che salva pensiero e vita dal ripiegamento ideologico e pragmatico, il quale nasce sempre in seno ad una visione auto-referenziale, polarizzata e disancorata dalla realtà. In questo senso Lotman si avvicina molto alla gnoseologia florenskijana fondata, appunto, sull’antinomia. Questa, scrive V. Mancuso, «si ottiene guardando la vita, che ha motivi per dire che ha un senso e altri opposti. Di solito gli uomini scelgono una prospettiva perché tenerle entrambe è lacerante, ma così mutilano l'esperienza integrale della realtà. Ne viene che ciò che i più ritengono la verità, è solo un polo della verità integrale, per attingere la quale occorre il coraggio di muoversi andando dalla propria prospettiva verso il suo contrario. Conservando la propria verità, e insieme comprendendone il contrario, si entra nell'antinomia»26. Possiamo senza dubbio dire che tutta l’opera lotmaniana e, in particolare, l’ultima produzione intellettuale siano pervasi dalla ricerca di questa tensione fra gli opposti e dalla sua risoluzione nella custodia dell’alterità, fonte dell’imprevedibile: la resa dell’esperienza integrale della realtà è il filo conduttore dell’“ultimo” Lotman e la teorizzazione semiotica dell’imprevedibilità ne è un’inevitabile conseguenza.

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CAPITOLO 5

Il prisma lotmaniano. Tempo, scienza, linguaggio, alterità

La realtà (…) è come la principessa delle fiabe, alla cui mano aspirano più principi. Finché la scelta non è compiuta tutti hanno la stessa probabilità di successo e tutti possono fregiarsi del titolo di “fidanzato”. Se però descriviamo questa situazione retrospettivamente, a scelta compiuta, l’unico coronato di successo ci sembrerà predestinato alla vittoria, e gli altri indegni usurpatori. L’arte guarda alla vita con gli occhi della fidanzata ancora libera, la storia invece come con lo sguardo della moglie vincolata dalla sua scelta.27

1. Storia, memoria, ideologia, futuro

La citazione d’apertura è un po’ il sunto del pensiero di Lotman sul tempo: un tempo che, nelle culture dell’umanità, è sempre “rivestito” semioticamente e si profila come una vera e propria lingua, condensazione semiotica della realtà. E come ogni lingua contiene in sé tanto dei vincoli (in primis la memoria) quanto delle potenzialità di trasformazione. Tutto dipende, secondo Lotman, dall’occhio che la coglie: sarà un’esegesi nel caso della storia – sempre con il rischio di sbagliare l’interpretazione dei fatti o di marchiare le possibilità irrealizzate come “indegni usurpatori” – o un’intuizione libera e creatrice nel caso dell’arte. Ad ogni modo, il tempo nell’“ultimo” Lotman diventa un fattore chiave per capire in che modo il senso viene generato, organizzato e trasmesso in seno alla cultura. Vediamo meglio come.

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1.1 Diverse temporalità. Tempo ciclico vs tempo lineare

Abbiamo più volte sottolineato in questo lavoro come Lotman intraveda nel mito un serbatoio d’inestinguibile valore per la comprensione delle culture: è proprio lo studio del vivere originario che introduce il pensatore russo a una riflessione propriamente semiotica sul tempo.

Dobbiamo infatti precisare che, nella parabola intellettuale di Lotman – almeno fino agli anni Ottanta – questa categoria è pressoché assente, subordinata a quella dello spazio. Studiando il mito, invece, egli si accorge che la semiosi culturale è profondamente vincolata al modo attraverso cui l’uomo vive e interpreta la sua esistenza attraverso la dimensione temporale. Questo è evidente proprio nella cultura delle origini, raccontata attraverso un tempo narrativo statico, che procede per fasi cicliche: esso non fa altro che rispecchiare il tempo dell’uomo arcaico, il quale, immerso nella perenne ritornanza del giorno e della notte, delle quattro stagioni e delle stelle nella volta celeste, pensa gli eventi come racchiusi in un cerchio28. Il mondo mitologico è un mondo sorretto dalle leggi temporali della ciclicità, esprimenti appunto quel principio di legalità che fa percepire il reale come un tutto ordinato. Già nel 1981, sulla falsariga de Il mito dell’eterno ritorno di M. Eliade (1949), Lotman scriveva:

Una proprietà del mito universalmente riconosciuta è la sua subordinazione al tempo ciclico. Gli avvenimenti non hanno uno svolgimento lineare, ma si ripetono eternamente in un ordine dato. (…) La narrazione mitologica non è basata sul principio della catena, come è tipico del testo letterario, ma si sfoglia come un cespo di cavolo, dove ogni nota ripete con note varianti tutte le altre e un’eterna ripetizione dello stesso nucleo profondo di intreccio si sviluppa in un intero aperto all’accrescimento.29

Il tempo mitologico – e la narrazione che ne segue – contempla un uomo che è parte dell’armonia del cosmo e si fa uno con l’intima unità

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di cose multiformi ed eterogenee, note varianti dell’unica legge che le sostiene.

Le cose cambiano quando, con l’emergere del logos (e la nascita della filosofia)30, il pensiero inizia a discernere il reale e a penetrarlo con la ragione e la logica. La ciclicità dell’universo, e i suoi movimenti prevedibili, vengono interrotti da un’intelligenza calcolante, capace non più solo di seguirne il ritmo ma di inventarlo. L’uomo – canna pensante, come lo definisce Lotman con un prestito da Pascal31 (1669, fr. 347).– si erge all’immutabilità dell’ordine originario e impone un movimento lineare al reale, storicizzandolo. Questo sarà ancora più evidente con l’avvento della razionalità scientifica moderna, la quale tenderà a segmentare e matematizzare il reale, creando il mito del “grande orologiaio” e del progresso senza fine. Questo punto verrà specificato nel § 3, ma intanto dobbiamo sottolineare che emerge qui un insanabile dilemma per la canna pensante. Se infatti, come già abbiamo detto (§ 4, cap. 3), la coscienza mitologica o aurorale permane nell’uomo moderno e contemporaneo quale forma di conoscenza del reale vera e propria32, allora in lui il tempo ciclico è presente assieme a quello lineare, creando una contraddizione fondamentale nel modo che egli ha di percepire la storia33. Questa può essere vista come una retta a tratti perturbata da una ciclicità pulsante, che riporta all’oggi – sotto forma di testi – forme culturali depositiate nella coscienza collettiva34.

Lotman riassume questo in una delle sue ultime opere, La cultura e l’esplosione (1992) – in particolare, nei capitoli “La canna pensante” e “Lo scemo e il folle”: «la ripetitività ciclica, sottolinea Lotman, è una legge dell’esistenza biologica, cui sono sottomessi il mondo animale e l’uomo come parte di questo mondo»35. Ed è tale la forza che essa esercita sull’uomo da divenire, in particolari epoche, forma di comportamento, genere artistico e di narrazione: si pensi al già ricordato mito, ai cori dell’antica Grecia36 ma anche, in epoca relativamente più recente, alle fiabe e ai canti epici popolari medievali, alle pastorali romantiche e ai simboli-archetipo usati nell’arte contemporanea.

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Allo stesso tempo però, continua Lotman, «l’uomo non è totalmente immerso in questo mondo, “canna pensante”, egli si trova in antica contraddizione con le leggi fondamentali di ciò che lo circonda»37; attraverso i suoi atti intelligenti, ossia inediti e non prevedibili, egli si discosta dal mondo animale e si traccia un movimento aperto (storico-evolutivo) in seno all’eternamente immutabile e iterativo della natura. È qui, continua Lotman, che il pensiero mitologico viene sostituito da quello storico e il concetto di fine – come vedremo – acquista carattere dominante nella cultura moderna e poi contemporanea38.

Il movimento aperto lineare che si genera, a sua volta, può essere di due tipi: graduale o esplosivo. Il primo è tipico di quelle manifestazioni umane che si realizzano attraverso uno sviluppo incrementale come, ad esempio, la tecnica. Il secondo, invece, avviene per il tramite di un’esplosione culturale: tale è, secondo Lotman, il movimento dell’arte e quello della scienza. Approfondiremo nei prossimi paragrafi la distinzione fra questi ritmi storici e le istanze teoriche alle quali il semiologo russo si ispira per delucidarli ma intanto possiamo porre l’accento su ciò che egli vuole sottolineare attraverso la distinzione fra ciclico e lineare e, a sua volta, fra lineare-evoluzionistico e lineare-esplosivo: la storia è fatta dello “scemo” e del “folle”, di ciò che è totalmente prevedibile e di ciò che, invece, è totalmente casuale, di ciò che è atteso e di ciò che appare come un mero fascio di possibilità e potenzialità39. Entrambe le vie sono essenziali per il cammino dell’umanità; esse, scrive Lotman, sono come «le due ruote del biciclo della storia»40 che, senza una delle due, rischia di implodere.

Egli chiarisce con un bellissimo esempio:

L’eroe delle byliny o l’uomo dell’epoca cavalleresca, il “buon contadino” della letteratura idilliaca del XVIII secolo sono gli eroi di processi stabili o dallo sviluppo lento. Il movimento in cui sono immersi oscilla tra il cambio delle stagioni, le cerimonie e le imprese eroiche ripetitive sino alla ritualità. In queste condizioni, l’eroe per vincere non deve necessariamente inventare qualcosa di nuovo. La sua eccezionalità è segnata dalla sua gigantesca altezza e forza. Egli non ha bisogno di inventiva, giacché non

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inventa nulla. Tuttavia in questa fase egli non riceve ancora una caratteristica negativa. Egli non è stupido dato che il contrassegno di intelligenza o stupidità in generale non risulta marcato. Ma ecco giungere il momento dell’esplosione. L’immutabilità e la ripetitività sono sostituite dall’imprevedibilità. All’età della forza subentra lo scoppio dell’astuzia. (…) questi due tipi di eroi, posti l’uno di fronte all’altro, si trasformano in nemici, in esponenti di epoche in lotta. Ma nella successione cronologica essi si delineano come due ineluttabili fasi interdipendenti.41

Le due ruote del biciclo si manifestano anche attraverso due tipi di testualità, come puntualizza Lotman nel saggio “La semiosfera e il problema dell’intreccio” in Universe of the Mind. I testi arcaici, che nascono come riflesso delle leggi del tempo ciclico, non presentano le categorie dell’“inizio” e della “fine” e sono sostanzialmente privi di intreccio (ossia di una logica narrativo-sequenziale); d’altronde, la vita dell’uomo non è vista come una linea che corre dalla vita alla morte ma come un ciclo che si ripete infinitamente. La struttura testuale, inoltre, riflette il mondo gerarchizzato e isomorfico del cosmo ove, ad esempio, la similarità fra la notte, l’inverno e la morte non è una metafora – nel senso moderno del termini – ma una loro proprietà topologico-trasformazionale che permette l’unità delle molte identità e viceversa.

Il testi “moderni” o narrativi riflettono invece l’universo del pensiero logico-razionale, che tende a sezionare la realtà attraverso un frazionamento e una normazione del tempo: anche volendo, questa mente post-arcaica non può tradurre il mondo delle origini senza perderne l’immersione in una realtà fondamentalmente sintetica e sensoriale.

Cercando di ricapitolare quanto visto sinora potremmo tratteggiare il seguente schema:

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Paradigma 1 Paradigma 2

Visione scientifica basata su

Leggi di natura Emergenza della complessità

Concezione fisica del tempo

Tempo ciclico Tempo lineare

Concezione metafisica del tempo

Eterna ricorrenza Creatività e libertà Progresso

Modi del manifestarsi della storia (agli occhi

dell’ osservatore)

Totale predittibilità

Impredittibilità o tempo multiplo-lineare

(punti di biforcazione)

Predittibilità lineare e

incrementale

Auto-descrizione

culturale

Ordine originario (o archetipo)

Esplosione Causalità

Binarismo o descrizione

utopica dell’esplosione

Ternarietà o descrizione mediatrice

dell’esplosione

Interpretazione umana

della temporalità

Storia come iterazione (l’essere

eternamente costante o

eternamente immutabile)

Storia come processo creativo

Storia come movimento escatologico o inevitabile

predestinazione

Simbolo

L’armonia degli antichi

sacri cori (Platone)

Il creatore-sperimentatore

Il grande maestro o il

grande orologiaio

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Campo paradigmatico dell’attività

umana

Miti e ritualismi Arte e scienza Tecnologia

Tabella 6 – Il tempo nella visione bio-semiotica di Prigogine-Lotman

1.2 Alcune riflessioni sul tempo negli scritti degli anni Settanta-Ottanta

1.2.1 La memoria e la costruzione ideologica della storia

Dicevamo pocanzi che Lotman, almeno fino agli anni Ottanta, si occupa sporadicamente del tempo. Fanno eccezione alcuni saggi ove egli cerca di interpretare e tipologizzare la cultura russa alla luce delle sue macro-tappe storiche – i due saggi cui faremo riferimento in modo particolare sono: “Valore modellizzante dei concetti di “fine” e “inizio”” (1970)42 e “Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX” (1973)43. Qui, inizia a delinearsi una riflessione che sarà ripresa ampiamente dalla seconda metà degli anni Ottanta, ossia quella sull’idea di storia come costruzione semiotica umana.

Per Lotman la storia è prima di tutto una categoria narrativa, ossia un modo attraverso cui l’uomo interpreta, raccontandoli, gli eventi che lo chiamano in causa. Senza una loro interpretazione e, dunque, messa in racconto, egli si troverebbe sprovvisto di collegamenti esplicativi fra il “prima” e il “dopo” e, dunque, di uno sguardo (individuale e collettivo) capace di cogliere il senso di ciò che gli accade.

Questo, secondo Lotman, è particolarmente evidente nei racconti archetipici delle civiltà, vale a dire in quei testi che hanno un valore fondativo per l’identità delle culture: sono questi, infatti, che coagulano il tempo-memoria imprimendo un preciso ritmo e un preciso

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orientamento al tempo-racconto (la storia). Si tratta di un punto fondamentale. Secondo Lotman ogni cultura, in quanto coscienza collettiva, interpreta il suo cammino incorporando o espellendo quei testi che sono più o meno in sintonia con la coscienza collettiva stessa, ossia con quel nucleo semantico-testuale forte che è anche la sua memoria. Tanto più questo nucleo è stretto, tanto più la cultura sarà una successione di “testoclastie”, di distruzione o dimenticanza di interi corpus testuali disallineati alla memoria legittima – la quale non è sempre la stessa ma si trasforma con il processo di reinterpretazione (a volte lento, a volte esplosivo) dello stesso nucleo semantico-testuale44 (o centro culturale).

La storia è dunque l’occhio dell’oggi che, alla luce dell’autocoscienza culturale –paradossalmente memoria inverata dall’hic et nunc – guarda il passato reinterpretando e raccontando continuamente i grandi testi che in-formano l’identità culturale. Capiamo subito che la sua portata veritativa, secondo Lotman, è assai limitata, come lo è il concetto di identità o memoria o centro testuale: un universo apodittico, che (di nuovo) paradossalmente è in continua trasformazione.

Alla luce di questo, possiamo ora parlare dei due saggi a cui si accennava pocanzi: “Valore modellizzante dei concetti di “fine” e “inizio”” e “Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX”.

Se andiamo ad analizzare il primo vediamo come Lotman provi a identificare due ritmi storici, da far risalire (per generalizzazione) alla prevalenza di certi testi archetipici rispetto ad altri, secondo la polarità: orientamento all’“inizio” (o origini) vs orientamento alla “fine” (destino) – si tratta di una tipologizzazione che fa riferimento a culture post-assiali, ove il tempo ciclico viene subordinato a quello lineare o storico.

Vi sono infatti culture, come quelle antiche o, più tardi, altamente simboliche (la Rus’ di Kiev45, ad esempio), che si fondano su testi marcanti principalmente l’inizio. In questo caso, l’interpretazione della storia fa si che esista culturalmente solo ciò di cui si può provare l’origine, risalire alla radice e, dunque, dimostrare l’esistenza stessa.

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Questo per Lotman ha un immediata portata ideologica, poiché se tutto «(…) ciò che è creato (che ha un inizio) viene pensato come [esistente e] indistruttibile (non avente fine)»46, tutto ciò che invece non è dimostrabile come geneticamente originato allora non esisterà o sarà comunque soggetto a corruzione: accade così che solo la società, la legge, l’istituzione, la fede, la consuetudine, la lingua originari sono esistenti, validi e autentici, tutto il resto è considerato come nulla o non-cultura47 – capiamo bene che, in nome della purezza delle origini, una cultura dominante può facilmente legittimare l’annullamento sul piano ideologico e pratico l’esistenza di intere altre culture.

E veniamo al secondo ritmo storico, che si sviluppa in culture orientate al “fine” attraverso la valorizzazione di testi escatologici – la cui trattazione sarà caratteristica dell’“ultimo” Lotman. Qui tutta la cultura tende a un destino preordinato e ogni evento che in essa si manifesta è valutato in conformità alla coerenza con questo “fine” espresso testualmente. Ci troviamo di fronte allo stesso meccanismo cultural-epurativo che abbiamo affrontato pocanzi, con la differenza che la legittimità di una cultura e dei suoi eventi punta gli occhi non già su un passato aurorale ma su un futuro già conosciuto e, in virtù di questo, distrugge o semplicemente dimentica tutto ciò che non rientra nel progetto finale.

Scrive Lotman:

(…) al sistema che marca l’inizio (…) corrisponderanno tutti i testi sull’“età dell’oro” come punto di partenza della storia del genere umano, mentre ai sistemi che marcano la fine corrisponderà il trasferimento dell’armonia al termine del processo storico.

Si hanno così due concezioni dello sviluppo storico “corretto”: il ritorno a un punto di partenza o l’avvicinamento a un punto finale; il corso della storia immaginato come progressivo o regressivo. (…) Si situano fuori dalle categorie dell’“inizio” e della “fine” tanto i modelli ciclici del mondo quanto quelli acronici.48

Emerge in questo saggio una critica implicita a quei meccanismi culturali che, non accettando l’eterogeneità e l’indeterminismo

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dell’esistente, impongono un modello corretto, ordinato, (fatalmente) armonioso di sviluppo storico e, dunque, di narrazione storiografica.

1.2.2 L’hegelismo in Russia. Storia ed escatologismo

Questa critica emerge in modo evidente nel saggio “Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX” (1973)49, da collegarsi al già affrontato saggio “Il testo nel testo” (1981), che sarà ripreso nel prossimo paragrafo.

In questi due scritti Lotman riprende in particolare il concetto di cultura orientata al “fine”, sottolineando come, sul finire del mondo zarista, questo modo di interpretare la direzione del tempo è stato parte (e lo è tuttora, in forma residuale) di un più generale orientamento alla realtà che va sotto il nome di hegelismo: la prima forma di filosofia nella storia del pensiero russo, si sviluppa intorno al 1830-’40.

Quando ormai la cultura europea vede la spaccatura della scuola hegeliana in Destra e Sinistra, l’intelligencija inizia a scoprire questa forma di pensiero totalmente estranea alla sua tradizione, trovandosi così «dinanzi ai sistemi già pienamente compiuti della filosofia tedesca», dalla quale rimane abbagliata, «tanto per la sistematica compiutezza quanto per la forza dialettica costruttiva del pensiero»50. L’idealismo, in particolare, pare rispondere in modo efficace al sogno dell’intellettuali russi di creare un sistema razionale di pensiero ove l’ideale entri nella vita e la vita si innalzi al rango di ideale, anche per contrastare gli strascichi empiristi e anti-spirituali dell’epoca precedente. La necessità, scrive infatti Lotman, di ricucire gli strappi causati dal razionalismo illuminista del XVIII secolo51, porta la cultura russa a sviluppare un pensiero fondato sull’Idea52, in grado di legittimare un nuovo modo di vedere il mondo: non frammentato e “naturale” – ossia scientificamente de-semiotizzato53 – ma, in antitesi al modello illuminista, unitario, ideal-utopistico, denso di una realtà

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“altra” non subito coglibile: un mondo portatore del senso ultimo delle cose54.

Rispetto alla straordinaria ricchezza della corrente idealista tedesca, poi, dopo un iniziale orientamento verso la sua forma più romantica55 (Fichte e Schelling), l’intelligencija predilige senza dubbio l’esito assolutista di Hegel – è qui che si staglia la distinzione fra occidentalisti e slavofili, questi ultimi più legati alla dimensione mistica e sapienziale del conoscere56.

La corrente hegeliana russa57 – consacrata da N. V. Stankevič e continuata, con toni più accesi, dal cenacolo cresciuto intorno alla sua delicata e carismatica figura (M. Bakunin, V. G. Belinskij e altri) – è caratterizzata dal fatto che i suoi esponenti vivono per la maggior parte una parabola intellettuale che aderisce dapprima, e fermamente, all’Hegel conservatore e termina drammaticamente con l’Hegel rivoluzionario, rimanendo da esso insoddisfatti. Costoro, cioè, vivono radicalmente l’anelito al raggiungimento della Ragione (seguendo l’hegeliano principio: tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale58) ma si accorgono ben presto che questa sperata Unità (di vita e pensiero, di prassi e idealità) porta a una sintesi incapace di esprimere la reale contraddittorietà, ricchezza ed esuberanza della vita: una vita che anela al cambiamento e non alla «quiete assoluta»59 del momento unificativo. Questa visione, scrive Lotman,

(…) coincide con l’esplosione delle idee storicistiche e dialettiche così tipica del pensiero sociale russo durante tutti gli anni quaranta del secolo scorso. Questi problemi interessano Puškin, a partire da Poltava, il giovane Kireevskij, Čaadaev, il circolo di Stankevič e sboccano nell’originale fenomeno dell’hegelismo russo. “La riconciliazione con la realtà” è l’espressione estrema ma logica di questi stati d’animo. L’idea del mondo come una successione di fatti reali, che sono l’espressione del moto profondo dello spirito, conferiva a tutti gli avvenimenti un duplice senso: semantico, in quanto rapporto tra le manifestazioni fisiche della vita e il loro senso occulto, e sintagmatico, in quanto rapporto tra esse e la totalità storica. Questa tendenza a conferire un senso alle cose costituiva

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l’aspetto fondamentale della cultura, e penetrava non solo nella filosofia, ma anche nella vita quotidiana.60

In virtù del fatto che la storia possiede una sua intima necessità e una sua precisa logica interna61, la cultura russa inizia ad essere vista come un’autocoscienza collettiva in cammino verso un “fine” (la realizzazione dello Spirito o dell’infinito immanente62), in cui gli eventi storici altro non sono che una tappa del divenire dell’assoluto, ossia del corso del mondo: «una volontà divina – scrive Hegel – domina poderosa nel mondo, e non è così impotente da non saperne determinare il gran contenuto»63. Per venir però considerati come tali, gli eventi devono essere un riecheggio del sistema ideale della storia, ossia di quel “fine” che tutto riporta a unità e sintesi64. Ogni evento che, in qualche modo, se ne allontana, viene forzato a far parte della sistema o espulso da esso: la predominanza della sintesi sul momento contraddittivo fa sì che l’eterogeneità venga vista come un momento transitorio e imperfetto della realizzazione dell’Idea65: «per Hegel, scrive Lotman, la storia è come una lezione data da un maestro esperto: questo maestro è la Grande Idea»66.

Anche qui, lo schema dialettico si rivela insufficiente poiché è incapace di rendere la reale dinamicità della storia, nel suo divenire. Non solo. Affermando come suo apice la realizzazione dello Stato (incarnazione della Ragione), la storia così intesa è incapace di esprimere l’individuo nella sua particolarità e, dunque, nella sua realizzazione pratico-spirituale che è, come abbiamo visto, la caratteristica e l’anelito dell’uomo russo67 – questione fondamentale per l’ultimo Lotman. Come ha scritto L. Gancikoff,

dall’interpretazione assolutistica e conservatrice del principio della razionalità del reale deriva evidentemente che la personalità individuale non può affermarsi come veramente reale se non viene giustificata razionalmente, cioè presentata come l’affermazione particolare, ma allo stesso necessaria, dello Spirito. Ma in tal caso cosa rimane della sua individualità e in che maniera essa può determinarsi come tale?68

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Per coerenza, l’individuo deve, infine,

rinnegare la sua soggettiva personalità, riconoscendola menzogna, deve inchinarsi dinanzi al principio mondiale ed universale, riconoscendolo come sola vera realtà. L’individuo, dunque, non ha alcuna possibilità d’affermarsi da sé, personalmente, tanto più che questo principio universale e mondiale è posto al di sopra della sua individualità come qualche cosa che lo supera infinitamente (…).69

L’avvallamento di questo principio porta, in ultima analisi, all’affermazione assoluta della società che, «nel momento superiore della sua vita, nello Stato, è l’affermazione suprema dell’Idea»70. La legittimazione di tale superiorità, come è facile intuire, non fa altro che assecondare la Russia autocratica e imperiale, che necessita di tutto fuorché di un pensiero conservatore: è qui che gli intellettuali hegeliani russi, per rispondere all’urgenza della questione sociale, ribaltano drammaticamente la loro posizione e finiscono per re-interpretare Hegel in termini rivoluzionari71.

Ne deriva, col tempo, l’affermarsi e il diffondersi di un’idea di cammino storico, sociale e culturale visto come un divenire senza mediazione, portato avanti da una conflittualità incessante72, in una versione massimalista, radicale e sanguinaria – complice l’imitazione del modello rivoluzionario francese, di cui lo stesso Hegel era rimasto profondamente affascinato. Il passaggio dalla Destra alla Sinistra hegeliana in Russia immette, com’è inoltre facile intuire, il germe della futura rivoluzione comunista.

1.2.3 Storia come progresso e come prassi tecno-scientifica

Nella sua ultima parabola intellettuale, Lotman riprenderà più e più volte il tema dell’hegelismo in Russia, con una valutazione piuttosto critica del senso di escatologismo che esso ha portato nelle viscere della cultura russa. Adottando il concetto di “esplosione” egli cercherà di decostruire e disarticolare proprio questa visione fatalmente utopistica

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(e sanguinaria) di processo storico. Possiamo però dire che già nel 1981, nel saggio “Il testo nel testo” (1981), egli scrive:

Lo studio comparato di casi diversi di simili “esplosioni culturali” in cui ci imbattiamo nella storia della civiltà mondiale, mette in evidenza il carattere semplificatorio dell’idea proposta da Voltaire nel Saggio sui costumi e lo spirito dei popoli, da Condorcet in Esquisse d’un tableau historique des progrés de l’esprit humain e inoltre della concezione dell’unità del cammino dello spirito umano sviluppata da Hegel.

Con Voltaire e Condorcet (ispiratori, tra l’altro, della Rivoluzione Francese), Lotman fa riferimento a tutte quelle visioni di processo storico in cui si è cercato di dimostrare che il “fine” del cammino dell’umanità sarebbe una scalata ascendente, universale e omogeneizzante verso livelli sempre maggiori di perfettibilità – ove la perfezione è sempre incarnata dalla cultura occidentale. Si tratta in questo caso di un altro modello interpretativo della storia, ossia linear-progressista. Qui storia e utopia del progresso divengono equivalenti: gli individui, spiega Lotman in “Clio al bivio” (1992), si presentano come alunni che risolvono uno stesso compito: qualcuno avvicinandosi all’algoritmo ideale, qualcun altro commettendo errori.73

Soffermandosi in particolare sull’Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano di Condorcet (1795, postumo)74 – a cui forse dovremmo aggiungere anche il Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società75 di A. Comte (1822) – possiamo riconoscere nell’opera dell’economista e filosofo francese i primi fondamenti della sistematizzazione del problema della previsione nelle scienze sociali, ovvero del rapporto fra storia, progresso economico e comportamento razionale76.

Si fa qui strada l’idea che il benessere e l’utile debbano essere i parametri valutativi della validità del pensiero (inteso come storia del perfezionamento socioculturale). Allora, poiché la conoscenza scientifica è vista come fonte di felicità – essa infatti unisce gli uomini e permette la pace e il progresso della specie umana – mentre la conoscenza

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“umanistica”, aprendo questioni che non possono trovare soluzioni definitive, è vista come fonte di infelicità e di discordia fra gli uomini, l’unico pensiero legittimo sarà quello scientifico e tutta la storia si dovrà volgere alla ragione tecnico-pragmatica. Ne scaturisce una conoscenza totalmente asservita all’azione, votata all’efficienza ed esaurita nella contingenza: la storia perde la sua vocazione meta e si riduce a una manciata di parametri.

Ne discende inoltre un’idea di società che deve necessariamente ed inevitabilmente progredire e pervenire a livelli sempre più elevati di perfezionamento e benessere. Dopo Condorcet, H. de Saint-Simon sviluppa ulteriormente questa prospettiva, teorizzando una società fondata sulla filosofia positiva, ove domina un nuovo potere spirituale: quello degli scienziati, ossia di coloro «che possono predire il più gran numero di cose»77 – e nell’Ottocento la verificazione di una predizione è ciò che dà ad un uomo la reputazione di scienziato.

Prima di concludere, dobbiamo sottolineare che, per Lotman, questa visione della storia (come progresso e come prassi tecno-scientifica) è una soluzione fatale quanto quella hegeliana, perché estromette totalmente la creatività e la casualità dalla vita dell’umanità. La storia, sottolinea il semiologo russo sulla falsariga di Puškin, è l’insieme di logica e di Provvidenza, non è un’algebra: se la storia fosse un non può essere in altro modo lo storico sarebbe un astronomo e la vita dell’umanità sarebbe predetta dal calendario78.

1.3 Il tempo in Lotman dopo Prigogine: «(…) ciò che oggi è nascosto nel rumore di fondo delle nostre osservazioni, domani potrebbe rivelarsi un elemento in grado di giocare un ruolo cruciale»79

La crescente attenzione di Lotman per il tempo è da ricercarsi, in primo luogo, nell’influenza esercitata dal collega e amico di sempre Boris Uspenskij80, grande conoscitore e attento esaminatore della storia

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della cultura slava e dei linguaggi sacri (artistici e mitologici): influenza che, come abbiamo visto, trapela dalle riflessioni sulla temporalità arcaica e storico-narrativa; in secondo luogo, è da rinvenirsi nel dialogo con il mondo delle scienze naturali, in seno al quale, lungo tutto il corso del Novecento, sono sorte considerazioni fondamentali in merito alla nozione fisica di tempo.

Dedichiamoci, ora, proprio a questa seconda prospettiva, condensata – secondo Lotman – nel pensiero di Prigogine.

Il chimico e fisico russo, dopo aver ricevuto nel 1977 il Nobel per i lavori sulla termodinamica di non equilibrio81, inizia il suo “periodo epistemologico” grazie alla collaborazione con la filosofa belga I. Stengers. Il frutto di questo confronto interdisciplinare è La nouvelle alliance: métamorphose de la science (1979), dalla quale nasce un decennio dopo l’opera Entre le temps et l'éternité (1988)82.

I Nostri intendono dimostrare che la potenza inventiva del tempo83 e l’evoluzione creatrice84 non sono un’esperienza meramente intima e soggettiva dell’uomo ma la struttura e la disposizione immanente del tempo fisico, osservabili e deducibili dalla sua fenomenologia. Un tempo, dunque, fondamentalmente irreversibile e attivo che, come tale, agisce tanto nella natura quanto nella cultura: «dobbiamo riconoscere che il tempo separa l’uomo dalla natura, oppure possiamo costruire un modello conoscitivo che sia aperto all’idea del tempo umano come espressione esasperata di un divenire che condividiamo con l’universo?» e che sin dall’antichità viene disconosciuto o relegato a mera apparenza?

Pecca della fisica classica, secondo Prigogine e Stengers, è infatti quella di aver sempre sostenuto che, al di sotto del reale osservabile, ovvero di un’apparente fenomenico divenire – lo scorrere del tempo che inesorabilmente deteriora le cose – fosse possibile «raggiungere una realtà intelligibile atemporale»85, sorretta dalle eterne, immutabili leggi di natura86. Questa visione ha finito per imporre un’idea di tempo (reversibile e determinista) che neanche la seconda rivoluzione scientifica è riuscita a sradicare completamente87; ciò che senza dubbio

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l’ha messa più in discussione è stato il secondo principio della termodinamica: la legge della crescita irreversibile dell’entropia, nella quale però è annidato un determinismo altrettanto inesorabile88. Il disordine, l’omogeneità e l’equilibrio molecolare che caratterizzano i sistemi termodinamici al massimo della loro entropia esprimono infatti un quadro fisico e metafisico ben preciso: l’entropia distrugge le «disomogeneità che la generano, cioè [le] sue stesse condizioni di esistenza»89, alimentando un processo irreversibile volto alla “fine” (la morte termica dell’universo); questo significa che, da un lato, essa descrive finalmente «un mondo aperto alla storia»90 ma, dall’altro, pare introdurre una visione escatologica della stessa, ove il «livellamento progressivo delle differenze»91 toglie ogni motivo di novità, creatività e imprevedibilità al divenire.

Se dunque le leggi di natura parlano di una preclusione della novità per via dell’eterna fisica dell’essere, la termodinamica classica, dal canto suo, afferma che «il solo evento al quale [può] dare senso è la preparazione iniziale di un sistema lontano dall’equilibrio, e ciò che essa descrive è il modo in cui questo evento diviene insignificante: il sistema dimentica la particolarità della sua origini per evolvere verso uno stato che poche variabili sono sufficienti a descrivere»92; quindi più di evento si potrebbe parlare di predizione.

Secondo Prigogine, per aprire il tempo alla novità ed evitare il riduzionismo a cui ambo le prospettive possono portare, è necessario eliminare la visione dualistica che oppone le leggi di natura alla termodinamica, soprattutto a quella di non equilibrio93.

È in questo senso che diventa necessario introdurre la fenomenologia di non equilibrio in seno all’antagonismo leggi di natura vs termodinamica, proprio al fine di correggere tale dualismo: se da una lato il principio di legalità funge da sfondo di “attesa” – soddisfacendo le esigenze minimali necessarie per un tempo evolutivo – dall’altro, la termodinamica introduce la dimensione di un tempo che passa, in parte degradando e in parte creando.

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I sistemi dissipativi

I sistemi organizzantisi lontano dallo stato di equilibrio (o sistemi dissipativi) mostrano che il tempo fisico manifesta una struttura eminentemente evolutiva e creatrice: essi sono sì produttori di entropia ma questa, anziché portare al degradamento del sistema, ossia al livellamento delle sue differenze, dà vita a nuovi stati della materia, creando un nuovo ordine94 – l’ordine dal caos, come recita il titolo anglosassone e russo de La nouvelle alliance95. I sistemi dissipativi presentano un comportamento: irreversibile (dimensione evolutiva); autorganizzativo (dimensione creativa).

Il comportamento del sistema lontano dall’equilibrio è, in altre parole, “sensibile” a se stesso, «alle fluttuazioni della sua propria attività» – ossia a debolissime interazioni del tutto trascurabili vicino all’equilibrio – ed è quindi intrinsecamente instabile, aleatorio e non controllabile e/o manipolabile96. Tale instabilità è molto legata ai punti di biforcazione, passati i quali il sistema può diventare probabilmente stabile97: stabilità che è solo provvisoria e sempre (e irreversibilmente) suscettibile a nuove “sensibilità”98. Adottando questa prospettiva di ricerca (il non equilibrio al posto dell’equilibrio), Prigogine scopre con sorpresa lo statuto di normalità della complessità che caratterizza il processo di sensibilizzazione e di autorganizzazione molecolare: non sono tanto il “semplice”, il “certo” e il “prevedibile” ad essere la regola della nostra esperienza della realtà, quanto il “complesso”, il “probabile” e “l’imprevedibile”99. Egli arriva a dire che «la storia della vita può indubbiamente essere letta, almeno in parte, come la storia di una demoltiplicazione di “sensibilità”, come l’incorporazione, da parte dell’organismo vivente attivo, di interazioni deboli, le quali divengono altrettante informazioni che tessono i suoi rapporti col mondo»100, secondo una logica di complessità crescente.

Prigogine e Stengers non mancano di sottolineare i risvolti culturali

di questa riappropriazione del divenire da parte della fisica, secondo una doppia direzione. In primo luogo, proprio perché il tempo marchia tanto l’uomo-natura quanto l’uomo-persona, tanto cioè le scienze naturali quanto quelle umane, diventa auspicabile una maggiore unità della conoscenza scientifica, eretta sul tempo e sul dialogo interdisciplinare – ove “naturalmente” la fisica funge da interfaccia.

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Scrivono i Nostri, con un linguaggio che molto ci ricorda Vernadskij e Lotman:

(…) è sorprendete constatare come nell’epoca in cui la fisica, grazie al secondo principio della termodinamica, annuncia l’evoluzione irreversibile là dove sembrava regnare l’eternità, le scienze e la cultura scoprono ovunque la potenza creatrice de tempo. È l’epoca in cui tutti i tratti della cultura umana, le lingue, le religioni, le tecniche, le istituzioni politiche, i giudizi etici ed estetici, vengono visti come prodotti di storia, e in cui la storia umana si legge come la scoperta progressiva dei mezzi razionali per dominare il mondo. È l’epoca in cui la geologia e la paleontologia insegnano che la Terra, e tutto ciò che appariva come il quadro fisso della nostra esistenza, gli oceani, le montagne, le specie viventi, sono il frutto di una lunga storia caratterizzata da distruzioni e creazioni.101

In secondo luogo, emerge una nuova idea di storia, insieme solidale di coerenze ed eventi, di regolarità soggiacenti e possibilità potenzialmente significative. Come infatti né le sole legalità né la sola termodinamica possono esprimere la complessità della natura, così né la sola logicità storica né la sola anarchia degli eventi sono in grado di restituire il reale movimento dell’umanità nel tempo. La storia, in altre parole, è dotata tanto di linearità quanto di momenti altamente “sensibili” ai punti di biforcazione, passati i quali può prendere nuove, inedite strade102:

che cos’è un’instabilità? Come favorirla o, al contrario, premunirsene? Ma la situazione qui è molto più complessa che in fisica: contrariamente alle molecole, gli uomini ricordano, immaginano, stabiliscono o inventano correlazioni; in breve, sono in grado di porsi il problema del loro vivere. Le circostanze assumono dunque significati molteplici e comprendono anche i racconti o le analisi mediante cui cerchiamo di interpretarle. Le relazioni non lineari, di cui i fisici hanno compreso il ruolo cruciale in fisica, sono qui non soltanto onnipresenti, ma suscettibili di collegare i punti di vista locali, le visioni globali, le rappresentazioni divergenti del passato, de presente e del futuro.103

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Queste riflessioni hanno un effetto flagrante su Lotman. Egli nota, prima di tutto, come alle nozioni fisiche di leggi di natura e di termodinamica corrispondano due diverse visioni antropologiche di tempo: “ciclicità” e “linearità” (cf. tab. 6). Questa, a sua volta – essendo soggetta, in termini (analogicamente) prigoginiani, tanto alla gradualità predicibile (sistemi in equilibrio termodinamico) quanto alla discontinuità impredicibile (sistemi dissipativi) – non è considerarsi come una traiettoria fatalmente deterministica ma come un movimento fatto di progresso e di spazi di rottura: «contrariamente alle rappresentazioni del grande positivismo [ottocentesco, nel nostro tempo] l’accento non viene più posto sul progresso, lineare e rassicurante: la complessificazione apre la via all’instabilità, alla crisi, alla differenziazione, perfino alle catastrofi e alle impasse»104. Tali considerazioni portano Lotman a rivedere la storia della cultura russa (e, più in generale, il concetto di storia) e a tentare un lavoro intellettuale di decostruzione di un certo modello storico che, specie nel mondo russo e poi sovietico, si fondava proprio su una visione deterministica.

1986-1990

Nel capitolo precedente, parlando di Universe of the Mind (1990), abbiamo sottolineato l’importanza e l’originalità della terza parte di quest’opera, intitolata “Cultural memory, history and semiotics”. Abbiamo inoltre sottolineato che questa completa in modo più sistematico i numerosi saggi che Lotman scrive sul concetto semiotico di tempo dopo la svolta organicistica della semiosfera.

Riprendiamola dunque in mano e vediamo come si articola; “Cultural memory, history and semiotics” consta di cinque saggi: “Il problema del fatto storico”, “Le leggi storiche e la struttura del testo”, “Un’alternativa: cultura senza educazione o cultura ante cultura?”, “Il ruolo dei simboli tipologici nella storia della cultura”105, “Può esserci una scienza della storia e quali sono le sue funzioni nel sistema culturale?”; a questi, d’edizione anglosassone, incorporiamo un saggio subito

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precedente: “Sul ruolo dei fattori casuali nell’evoluzione letteraria”106 (1989), che – lo ricordiamo – era stato scritto nel 1985 e poi rimaneggiato dopo la scoperta dell’opera prigoginiana nel 1986.

Possiamo ora iniziare a trattare il tema del tempo nell’“ultimo” Lotman, alla luce di quella che abbiamo chiamato epistemologia della complessità.

1.3.1 La teoria della “relatività” storica

In questi scritti Lotman affronta principalmente due tematiche, l’una consequenziale all’altra: 1) il fatto storico come concetto ambiguo; 2) il problema dell’accesso alla storia.

La storia, scrive Lotman, è una disciplina particolare e richiede una metodologia altrettanto particolare. L’intento del ricercatore, infatti, è quello di ricostruire e comprendere il passato come realmente è stato e, per fare questo, egli deve lavorare con i “fatti” storici, coaguli del tempo intrisi di punti di vista e linguaggi culturali differenti: in altre parole, questi non ha mai a che fare un dato “vergine” che possa fungere da punto di partenza oggettivo.

La storia è dunque una scienza diversa tanto dalle discipline deduttive quanto da quelle induttive: nel primo caso, lo sfondo euristico è costruito in modo ipotetico come quadro congetturale progressivamente confutabile (o falsificabile), nel secondo caso esso parte da un dato osservativo-sperimentale che precede ogni interpretazione. Lo storico, dal canto suo, parte sì da un dato – il “fatto” testuale – il quale è già però un’interpretazione incarnata: in essa, precisa Lotman, possono essere sedimentate le passioni psicologico-politiche del proprio tempo, le superstizioni e i pregiudizi collettivi, i modi culturali di esprimersi e di dar forma alla realtà.

Ma anche il “non detto”, il silenzio, l’interdizione, ciò che insomma non viene ritenuto degno di diventare fatto storico, diventa per il ricercatore una forma di storicità depositata inconsciamente nell’interpretazione. Egli dunque deve lavorare con il “fatto” testuale

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sapendo che questo «è sempre creato da qualcuno e per qualche scopo»107 e veicola eventi che si presentano in forma codificata. Il suo compito diventa allora quello di decodificare, ossia ricostruire, il codice del passato correlandolo rizomaticamente con i linguaggi ad esso contemporanei (dimensione sincronica) e che con quelli presenti (dimensione diacronica). Seguiamo Lotman:

la scienza storica si è posta sin dall’inizio in una posizione molto particolare: nelle altre scienze un fatto è il punto di partenza, la base primaria dalla quale [si] iniziano a scoprire connessioni e leggi. Ma nella sfera della cultura, un fatto è il risultato di un’analisi preparatoria. Esso è creato dallo studioso nel processo di ricerca e non è mai qualcosa di assoluto. Un fatto è relativo (…) all’universo della cultura. Galleggia nello spazio semiotico e in esso si dissolve poiché i codici culturali [lo] alterano.108

Si tratta però sempre di una situazione relativa perché, se è vero che la cultura lo assorbe, è vero anche che il fatto storico, con i suoi elementi non-sistematici, pulsa nello spazio semiotico rivoluzionandolo e ristrutturandolo dal di dentro.

Questa prospettiva critica, “multifattoriale” (e per certi versi sospettosa) della storia è legata, secondo Lotman, alla presa di coscienza dell’uomo contemporaneo che la verità non brilla più come il sole; finito il tempo di Cartesio e Newton, ossia di una visione oggettiva della realtà e del superosservatore onnisciente ed esterno, la posizione dalla quale lo scienziato oggi lavora non è più quella della verità ma della relatività109. Su questa scia, la scienza storica si configura come un problema di traduzione da una lingua a un’altra: una traduzione, precisa Lotman (riprendendo Heisenberg), che ha perso precisione e soprattutto fiducia negli sguardi passati: una traduzione che è, prima di tutto, indeterminatezza e decostruzione.

Vediamo ora al secondo punto, ossia il problema dell’accesso alla storia.

In realtà abbiamo già affrontato questi argomenti nel § 2.2: le critiche che Lotman muove alla tradizione storiografica rispetto

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all’accesso al passato si rifanno alla (pericolosa) equivalenza fra storia e narrazione. Raccontare gli eventi, infatti, è spesso coinciso con l’attività intellettuale di organizzazione logico-argomentativa e retorica degli stessi, e la loro trasformazione in una struttura narrativa (plot). Questa attività implica la decisione di imprimere al materiale multiforme del tempo un’architettura di nessi gerarchici o di causa-effetto che non sono immanenti alla realtà ma che sembrano spiegare bene la sua dinamica e il suo svolgimento: è il caso dell’interpretazione linear-progressista, logico-dialettica, e via dicendo. È questa attività, in ultima analisi, che “crea” l’evento, ossia trasforma un fatto in un “nodo storico” portatore di senso entro la trama della narrazione.

In questo panorama, un caso storiografico virtuoso, secondo Lotman, è quello della Scuola delle Annales (1929-1989) – dal nome della rivista fondata nel 1929. Adottando una visione antipositivistica, gli esponenti della longue durée (primo fra tutti F. Braudel) hanno prediletto un approccio immobile allo studio della storia, vista come una sorta di impercettibile movimento geologico portato avanti dalle masse e da processi storico-collettivi lenti e anonimi. In questo modo, la Scuola ha praticamente decostruito le grandi narrazioni ed estromesso i “leggendari” episodi politico-militari o le memorabili biografie di personalità eccezionali, affermando l’histoire des hommes, non de l’Homme110, la storia delle mentalità collettive, della vita quotidiana, delle culture e dei loro apparati linguistici, dell’uomo nel suo tempo individuale, sociale, ambientale. Non solo. Fin dal principio, i padri fondatori delle Annales, L. Febvre e M. Bloch, hanno proposto un approccio interdisciplinare allo studio della storia, un approccio – come ricorda P. Burke – in grado di «“abbattere i compartimenti stagni” (abbatre les cloisons), e di combattere la specializzazione angusta, ovvero l’esprit de spécialité»111: con il motto “Storici, siate geografi. Siate anche giuristi. E sociologi. E psicologi”112, Febvre e Bloch hanno inaugurato una visione della scienza storica dal carattere fortemente interdisciplinare, cosa che non poteva che attrarre l’attenzione di Lotman.

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Sebbene questi, come vedremo, prediliga un altro approccio – quello suggeritogli da Prigogine, legato all’imprevedibilità e alla creatività – non manca di sottolineare l’imprescindibilità di questa riflessione sulla forza, lenta ma inesorabile, quasi deterministica, dell’incoscienza delle masse. Per il Nostro, tuttavia, è necessario un passo successivo: rendersi cioè conto che la storia è sì frutto della collettività, ma di una collettività intelligente, cosciente ed agente sul tempo, tanto nella sua gradualità quanto nella sua impredicibilità.

La storia è dentro noi, ma noi siamo carne della storia poiché, per perpetrarsi, essa deve depositarsi nell’intelletto collettivo: e a sua volta «il pensiero è dentro noi, ma noi siamo dentro il pensiero»113. Viviamo in una sorta di Matriosca che tiene insieme i molti e l’uno, le storie personali e la storia dell’umanità, il pensiero del singolo e quello della cultura, le memorie e la memoria collettiva114: è questa complessità ricorsiva, come vedremo ora, che fa sviluppare a Lotman un modello (incompiuto) di cultura nel tempo.

1992-1993

Veniamo alle ultimissime opere di Lotman. Oltre a La cultura e l’esplosione (1992) e a I meccanismi impredittibili della cultura (1993, per l’edizione italiana Cercare la strada. Modelli della cultura) faremo qui riferimento a: “Sul ruolo dei fattori casuali nella storia della cultura” (1992)115, “Sulla dinamica della cultura” (1992), “Clio al bivio” (1992), “Tesi per una semiotica della cultura russa. (Programma di studio della cultura russa)” (1992), “I meccanismi dei processi dinamici in semiotica” (1992).

1.3.2 Dal bivio alla rivoluzione o alla ricostruzione: storia come processo “alchemico” o storia come processo “chimico”?

«Comprendere il senso equivale a comprendere un linguaggio. Il segreto della storia è nel mistero della sua lingua»116: comprendere questa lingua significa accedere al suo senso profondo.

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L’avvicendamento delle tendenze storiografiche, secondo Lotman, è fatta di ribaltamenti concettuali orientati alla scoperta di questo segreto linguaggio e, da ultimo, del senso profondo che si cela dietro gli avvenimenti – senso che, nei secoli, è stato pronunciato dalla Ragione, dalla divina Volontà, dallo Spirito del mondo, dall’Ideologia storico-materiale, dall’Inconscio collettivo, ecc. Il compito dello storico, specie dopo l’epoca dei Lumi117, è stato quello di ristabilire «il nesso fra fatto e senso»118, ossia di rendere intellegibili quei legami (invisibili agli occhi comuni) fra gli avvenimenti, la cultura e il quadro concettuale assunto a prospettiva interpretativa – romantica, materialistico-dialettica, psicanalitica, ecc.

Il problema di questo approccio, secondo Lotman, sta nel fatto che ogni prospettiva ha teso ad imprimere al processo storico una precisa identità, che gli avvenimenti, l’elaborazione culturale e, soprattutto, la loro interpretazione sin/diacronica dovevano confermare e corroborare. Questi venivano trattati, di conseguenza, come tappe inevitabili del dispiegamento dell’identità storica, tesa verso un preciso fine. È accaduto così, ad esempio, che «gli storici romantici hanno considerato storicamente significanti [solo] avvenimenti e fatti portatori dell’idea storica. Su questa base Hegel ha dichiarato storicamente inesistenti intere epoche e interi popoli: l’idea universale era passata loro vicina senza sfiorarli»119. La ricerca di una forte coerenza semantica in seno alla storia può dunque indurre ad errore o anche ad una semplificazione eccessiva dei fatti culturali. Già nel 1974, nel saggio “L’insieme artistico come spazio quotidiano”, Lotman aveva avanzato delle critiche rispetto alla tendenza degli storici a voler forzatamente individuare “lo spirito dell’epoca”, “lo stile del tempo”, “il ritratto del secolo” – specie in campo artistico – a discapito dell’eterogeneità poliglotta che caratterizza l’espressività umana120; posizione ripresa in un saggio di dodici anni dopo, “La memoria della cultura” (1986), ove egli scrive: «Tutti i tentativi degli studiosi, nell’interesse dell’armonia della concezione, di far entrare i diversi rami dell’arte in un unico quadro cronologico, conducono più a semplificazioni che a un

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contributo nel chiarimento della questione»121. Ancora, a questo proposito Lotman non manca di sottolineare come, in epoca contemporanea, intere manifestazioni dell’intelletto umano – specie quelle artistiche e, in generale, culturali – siano state trattate come la “stagnola di una caramella”122, atta solo ad essere scartata e buttata via, alla ricerca del contenuto profondo (le strutture materiali)123. La concezione razionalistica o idealistica o dialettica di processo storico-culturale – e le rispettive dinamiche – andrebbero invece sostitute con una visione multipla, interdisciplinare e complementare dei modi attraverso cui l’uomo si esprime in una data epoca (arte, economia, organizzazione sociale, ecc.): è proprio questa polidirezionalità che può aiutare lo storico a non cedere alla tentazione di costruire un sistema a senso unico124: la storia, scrive Lotman, «si presenta a noi non come un gomitolo dispiegato in un filo infinito, ma come una valanga di materia viva che si autosviluppa. (…) non come un processo unilineare, ma come un torrente multifattoriale»125.

Secondo Lotman è poi necessario un passo ulteriore, che egli rinviene nel concetto di imprevedibilità, a sua volta desunto da quello di complessità.

Riprendendo analogicamente i concetti prigoginiani di “soluzioni di equilibrio” e “soluzioni di non equilibrio”, Lotman sottolinea come l’elaborazione di un nuovo paradigma scientifico per lo studio della storia dovrebbe contemplare tanto la prevedibilità quanto l’imprevedibilità, tanto lo sviluppo graduale quanto quello creativo. Mentre la scuola delle Annales ha messo virtuosamente in risalto l’importanza del primo, quale svolgimento positivo e necessario del cammino dell’umanità, Lotman mette in risalto il valore dei momenti di indeterminatezza storica, ossia di quei “buchi” che permettono a questo cammino di biforcarsi e di prendere nuove traiettorie. La storia dovrebbe dunque essere pensata come una strada costellata di bivi126, il cui superamento e incamminamento successivo non sono l’unica soluzione possibile e necessaria, ma una possibilità tra le tante127. Nel saggio “Clio al bivio”, Lotman sottolinea che l’idea di una storia intesa

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invece come traiettoria costellata di regolarità deve molto alle scienze naturali dei secoli XVII-XVIII e, in particolare, al passaggio dal concetto di alchimia a quello di chimica: una delle differenza principali tra queste due, scrive il culturologo russo, sta nel fatto che «la reazione alchemica era in principio un mistero: il conseguente non si otteneva come automatica conseguenza del precedente, bensì poteva verificarsi solo quando concorrevano determinate circostanze misteriose. Ogni reazione era unica e irripetibile»128. La chimica, invece, interpreta la realtà attraverso regolarità univoche che estromettono totalmente il mistero e la creatività dalla natura. La scienza storica ha subito un processo di matematizzazione (o razionalizzazione) molto simile, che oggi, sull’esempio della nuova imprevedibile chimica di Prigogine, può introdurre nella sua metodologia il possibile, oltre che il certo: Clio, la musa della storia129 «si presenta non come una passeggera in un vagone che si muove sulle rotaie da un punto all’altro, ma come una pellegrina che va di bivio in bivio e sceglie un cammino»130.

Questo approccio ha tre importanti conseguenze. In primo luogo, l’uomo evita di pensarsi come inesorabilmente predestinato a un fine ideologicamente costruito, il che evita anche la cancellazione culturale (la culturoclastia, potremmo dire) di tutto ciò che esula dal suo progetto storico. In secondo luogo, permette di pensare alla storia come a una sistema fatto di antinomie, che può cioè essere trasformato tanto dalla coscienza e azione individuali quanto da quelle collettive, tanto dall’esplosione inventiva quanto dalla sequenzialità logica131. In terzo luogo, attraverso – ecco la puntualizzazione metodologica di Lotman – l’adozione del metodo struttural-comparativo per lo studio delle diverse culture132, questo approccio permette di evidenziare sia le vie reali che quelle potenziali, ponendo proprio l’accento sul valore della probabilità (e non tanto della certezza, la quale può rivelarsi una cattiva guida): esattamente come sostengono Prigogine e Stengers, per i quali è fondamentale ripensare la cultura umana evidenziando il valore di quei fenomeni che sono trattabili solo probabilisticamente perché emergenti nei “punti di biforcazione” – un valore che consiste in potenzialità libere

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e creative e che trasforma una possibilità in un evento, il quale, come scrivono i Nostri,

non può essere, per definizione, dedotto da una legge deterministica: esso implica, in un modo o nell’altro, che ciò che si è prodotto “avrebbe potuto” non prodursi, esso rinvia dunque a dei possibili che nessun sapere può ridurre. Il modo di intelligibilità dei possibili in quanto tali e degli eventi che decidono tra questi possibili è, per definizione, la descrizione probabilistica. Tuttavia, le leggi probabilistiche, in se stesse, non sono ancora sufficienti. Ogni storia, ogni narrazione implica degli eventi, implica che si sia prodotto ciò che avrebbe potuto non accadere, ma essa è interessante solo se questi eventi sono portatori di senso. Una successione di tiri di dadi non si racconta, a meno che certi tiri non abbiano conseguenze significative: il dado è lo strumento di un gioco d’azzardo solo se il gioco ha una posta.133

La posta in gioco, per Lotman, è l’avvenire di tutti quei paesi che si stanno aprendo alla libertà – e si sa che «la brama di “vedere il futuro” è caratteristica dell’umanità [ma] preme specialmente in tempi di crisi»134.

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che quando scrive La cultura e l’esplosione e I meccanismi impredittibili della cultura il semiologo russo sta vivendo in pieno il passaggio dal sovietismo al post-sovietismo: un periodo, dunque, di radicali cambiamenti, frutto di un evento (il crollo del regime) assolutamente imprevedibile e che pare avere, di fronte a sé, un libero e liberante fascio di possibilità virtuose. In altre parole, Lotman vuole suggerire ai suoi contemporanei che la trasformazione post-sovietica non passerà né attraverso il “giocare al passato” (ossia copiarlo) né attraverso il “tutto possibile” (ossia il gioco d’azzardo), ma, individuando una gerarchia di possibilità e potenzialità, essa passerà attraverso la più fattibile, ragionevole e socialmente virtuosa.

Diventa in questo modo altrettanto importante re-interrogarsi sul passato e cercare di interpretarlo con occhi complessi per comprenderlo meglio. Se è vero che una pistola carica ma non esplosa non è

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funzionalmente identica a una solo scarica, studiare gli eventi del passato attraverso uno sguardo comparativo capace di valorizzare il “non esploso” può portare alla luce interessanti analogie fra le diverse culture e può anche spiegare i meccanismi che sottostanno l’egemonia di certe soluzioni storiche rispetto ad altre, a livello transculturale.

Dicevamo pocanzi che non sempre la certezza è una buona guida: spesso, osserva Lotman, la reiterazione di certi “copioni” ha innescato meccanismi di terrore e persecuzione, portando a delle vere e proprie apocalissi. Valorizzare il “non esploso”, per il semiologo russo, significa individuare strade alternative, che per loro debolezza e marginalità spesso non state favorite; sebbene queste siano orami perdute, non si esimono dal dare suggerimenti all’oggi per un profondo e onesto discernimento sulle empasse del passato.

Scrive Lotman in due brani particolarmente illuminanti:

Il “reale” sviluppo degli avvenimenti sceglie in un largo ventaglio di possibilità un’unica linea, rigettando tutto ciò che non si realizza come se fosse irrealizzabile. Il futuro si trasforma così in una catena prevedibile. Si tratta di una concezione fatalista del futuro (tipica per esempio di tutte le forme di hegelismo), che costruisce il futuro con le categorie di un pensiero formatosi nello studio del passato. Nella realtà lo spazio tra il presente e il futuro non è simmetrico, per principio, a quello che intercorre tra presente e passato: dal presente conduce al futuro non un’unica strada, ma una moltitudine di percorsi di pari probabilità.135

Il mondo dell’umanità è movimento da un passato scomparso a un futuro non ancora cominciato. Voltandosi indietro l’uomo ricerca nel passato ciò che, gli sembra, potrebbe predirgli il futuro, e, di conseguenza, facilitargli l’orientamento nel presente. Nei periodi di sviluppo graduale (oppure nelle sfere in cui la gradualità domina) lo studio del passato può avere in effetti un ruolo costruttivo. Ma nei momenti di esplosione questa “memoria storica” può rivelarsi una pessima guida, generare errori a volte anche molto tragici. L’epoca della Rivoluzione francese, memore della storia romana e convinta dell’esistenza di analogie, più politico-teatrali che storiche, tra se stessa e quella si abbandonò a una lunga serie di eccessi sanguinosi che non erano

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affatto inevitabili. Effetto simile ebbe il desiderio degli artefici della Rivoluzione russa e della guerra civile, negli anni 1917-20, di interpretare la propria epoca attraverso il prisma della Rivoluzione francese.136

Capiamo dunque che per Lotman la riabilitazione delle vie perdute – ossia, ancora una volta, del marginale – ha un evidente valore salvifico. Appassionato dell’“incoerente”, del disarticolante, Lotman promuove nelle sue ultime opere l’adozione di un pensiero meno sistematico e più attento alle trappole di una visione deterministica e monoprospettica di processo storico-culturale: valori particolarmente cari al semiologo russo sono quello della libertà, della presa di coscienza (collettiva e individuale) e della responsabilità personale, facoltà che, come vedremo ora, possono essere risolutive per il re-indirizzamento del processo storico.

1.3.3 Esplosioni binarie ed esplosioni ternarie

Concentriamo ora per un attimo su quello che alla tabella 6 abbiamo chiamato “Paradigma 2”:

Paradigma 2

Visione scientifica basata su: Emergenza della complessità

Concezione fisica del tempo: Tempo lineare

Concezione metafisica del tempo: Creatività e libertà Progresso

Modi del manifestarsi della storia (agli occhi

dell’osservatore):

Impredittibilità o tempo multiplo-lineare

(punti di biforcazione)

Predittibilità lineare e incrementale

Auto-descrizione culturale: Esplosione Causalità

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Binarismo o descrizione

utopica dell’esplosione

Ternarietà o descrizione mediatrice

dell’esplosione

Interpretazione umana della temporalità: Storia come processo creativo

Storia come movimento

escatologico o inevitabile

predestinazione

Simbolo: Il creatore-sperimentatore Il grande maestro o il grande orologiaio

Campo paradigmatico dell’attività umana Arte e scienza Tecnologia

Tabella 7 – Il tempo nella visione bio-semiotica di Prigogine-Lotman (focus sul paradigma 2)

Un tema che ancora non abbiamo affrontato è quello dell’esplosione. Lotman vi dedica numerose pagine ne La cultura e l’esplosione, I meccanismi impredittibili della cultura e vari saggi tra cui, in particolare, I meccanismi dei processi dinamici in semiotica”137.

La storia può vivere lunghi periodi di sviluppo graduale e intervalli di profonda crisi138 che, come la febbre in un organismo malato, ha la funzione di espellere ciò che culturalmente “infetta” il corpo sociale e riequilibrare l’armonia fra le part i di questo corpo.

Negli ultimi anni di studio, Lotman mette a confronto la storia della Russia con particolari periodi della storia europea – in primis, i tempi convulsi della Riforma e la Rivoluzione Francese (a cui la rivoluzione bolscevica si era ispirata) – e nota che immancabilmente questa “febbre” viene vissuta dall’uomo come un momento esplosivo, di catastrofe e di rinascita, ove il vecchio viene storicamente (e sanguinosamente) annullato e il nuovo istituito a paradigma di verità.

Quali sono – si chiede allora Lotman – i meccanismi che fanno sì che i periodi di crisi siano interpretati come un’“esplosione”? Modificandoli, sarebbe possibile favorire l’idea di un nuovo corso meno catastrofico?

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La risposta, egli suggerisce, è da ricercarsi nei meccanismi collettivi di memorizzazione e di autocoscienza o autodescrizione.

Cerchiamo, prima di tutto, di dare un definizione di esplosione. Questa, scrive Lotman, è quel momento storico particolare che «interrompe la catena delle cause e degli effetti e proietta in superficie uno spazio di eventi parimenti probabili di cui è impossibile per principio dire quale di realizzerà. Il momento dell’esplosione si colloca nell’intersezione di passato e futuro, in una dimensione quasi atemporale»139. È proprio in questa “a” che si gioca la possibilità o meno di un incamminamento virtuoso; la sospensione dell’identità storica, infatti, esige che la collettività dia un senso agli accadimenti, creando delle connessioni semantiche fra passato, presente e “presentimento”. Questo è il momento dell’autocoscienza – che si realizza nei termini di un’autodescrizione biografica – in cui la collettività, compatibilmente con il suo nucleo semantico-culturale forte, decide I) quanta memoria cancellare e quanta invece custodire, II) quali fasci di potenzialità recidere e quali invece sviluppare140. Due sono le possibilità secondo Lotman: la parziale custodia della memoria e l’avviamento verso un percorso storico compatibile con essa oppure la totale cancellazione del passato e la ricostruzione di “una nuova terra e di un nuovo cielo”141 (in una forma ideologizzata di Apocalissi, la quale viene svuotata del suo contenuto religioso).

Lotman chiama rispettivamente queste due possibilità “sistemi ternari” e “sistemi binari”, con una fondamentale postilla: «l’assoluta distruzione del vecchio [è] impossibile sia nelle strutture ternarie che in quelle binarie»142. Cosa significa questo? Significa che le strutture binarie, volendo radere al suolo il loro passato, vanno contro la loro stessa natura semiotica e finiscono per autodistruggersi: esse auto-alimentano una dissociazione fra la realtà reale – ciò che sono storicamente, in termini di ferite, cesure ma anche risorse – e l’ideale che vogliono essere. Non solo. Poiché la presa di coscienza collettiva implica un processo autodescrittivo di revisione e risemantizzazione della memoria alla luce del presente, le strutture binarie si trovano

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esponenzialmente impegnate in un’operazione di ri-narrazione della storia – che può essere di ri-mitologizzazione (origine) o, il più delle volte, di ri-escalogizzazione (fine). Non è un caso che in esse la retorica e la creazione di metafore apocalittiche esplodano con articolare forza143. Secondo Lotman poi, il concetto di binarietà si rifà ancora una volta a un’impostazione culturale fondata sull’escatologismo di matrice hegeliana.

Le strutture ternarie invece si realizzano in quelle collettività capaci di «conservare nei mutamenti l’immutabilità, e di rendere l’immutabilità una forma di mutamento»144; capaci, ancora, di far sì che «la continuità si intrecci con le lacerazioni, formando un unico nesso storico»145. In esse il momento dell’esplosione non è vissuto, a livello di autocoscienza, come l’apertura radicale al possibile (che deve diventare fattibile) ma come un graduale passaggio al cambiamento e mediazione antinomica fra gli opposti. Capiamo dunque che nella visione lotmaniana l’esplosione è un’opportunità costruttiva (un processo di creazione) per l’uomo solo se viene esperita come scelta di strade inedite tracciate però come passaggi graduali, tolleranti e ragionati146 e se viene preceduta da un discernimento etico e dalla presa di responsabilità individuale e collettiva.

Ma a chi pensa Lotman quando parla di strutture binarie e ternarie? Proprio nella sua operazione di analisi comparativa fra cultura russa e cultura europea egli nota come queste due corrispondano rispettivamente (e tendenzialmente) allo schema binario e a quello ternario. Secondo Lotman, eccezion fatta per particolari crisi storiche come la rivoluzione protestante e quella francese, l’Europa è profondamente debitrice dell’impronta lasciata dall’Impero Romano, ossia da un modello politico-statale, sociale e culturale che ha saputo combinare, allo stesso tempo, la dilazione dell’esplosione in alcune sfere culturali e lo sviluppo graduale in altre. Esso ha saputo inoltre allargare, con il tempo, il suo nucleo semantico-mnemonico, incorporando progressivamente le istanze culturali che giungevano dai suoi confini; in questo modo si è salvato dal rischio di quella che

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abbiamo chiamato “culturoclastia” e dal disastro di un’implosione repentina.

Lo schema binario è invece caratteristico del mondo russo e poi sovietico147, il quale, pensandosi attraverso polarizzazioni oppositive, tende immancabilmente a cadere nell’utopia e nel massimalismo e ad auto-crearsi un percorso accidentato, fatto di Paradiso e Inferno148: il battesimo della Rus’, la riforma petrina, la rivoluzione di ottobre, benché fossero state precedute da un lungo periodo di gestazione e di accumulo graduale di tensione, furono descritte come eventi totalmente imprevisti, secondo il “copione” del modello mitologico della nuova creazione149 – il cui simbolo, per Lotman, rimane sempre la costruzione ex novo di San Pietroburgo, città sorta come per “magia”.

Possiamo ora riportare un brano de La cultura e l’esplosione in cui Lotman riassume quanto detto sinora:

(…) le strutture ternarie conservano determinati valori del periodo precedente, trasferendoli dalla periferia al centro del sistema. Al contrario, l’ideale del sistema binario è il completo annientamento di tutto l’esistente che viene considerato contaminato da irrimediabili vizi. Il sistema ternario aspira ad adeguare l’ideale alla realtà, quello binario a realizzare concretamente l’irrealizzabile ideale. Nei sistemi binari l’esplosione si impadronisce dell’intera massa della vita quotidiana. L’inattualità di questo esperimento non si manifesta subito. All’inizio esso attira gli strati più massimalisti della società con la poesia della costruzione repentina di “una nuova terra e di un nuovo cielo” [Apocalisse XXI, 1], con il suo radicalismo. Il prezzo che dovrà essere pagato per l’utopia si rivela soltanto allo stadio successivo. Tratto caratteristico dei momenti esplosivi nei sistemi binari è il loro vivere se stessi come momenti unici e a nulla paragonabili in tutta la storia dell’umanità. Si proclama la soppressione non di qualche strato concreto, ma della esistenza stessa della storia. Nell’ideale è l’apocalittico “non vi sarà più tempo” [Apocalisse X, 6], e nella realizzazione pratica le parole con le quali Saltykov termina la sua Istorija odnogo goroda [Storia di una città]: “La storia ha interrotto il suo corso”.150

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Queste opere, specie I meccanismi impredittibili della cultura, erano state pensate da Lotman per un pubblico ben preciso: i connazionali estoni, ossia tutte quelle persone che stavano vivendo l’entusiasmo del crollo sovietico ma che presto avrebbero dovuto fare i conti con il post-traumatico processo di ricostruzione culturale (nazionale, politico-economica, etnica, psicologica). Lotman è giusto testimone del periodo della perestrojka (1985-1991), della rivoluzione di velluto (1989) e dell’indipendenza degli Stati baltici, oltre che delle repubbliche slave (1991), e vive a pieno la disgregazione dell’impero sovietico e la primissima fase di transizione dalla Cultura alle culture – una fase che, come molta letteratura sociopolitica e socioeconomica ha sottolineato, si potrebbe definire “euforica”: ma non vive il vero e proprio shock culturale che ad essa è seguito, la perdita di orientamento e di auto-coscienza, lo smarrimento di fronte a un’inedita autonomia e soprattutto di fronte all’autonomia e definitezza identitaria di Stati più datati – come quelli europei. Lotman quindi non manca di offrire suggerimenti per i posteri (consapevole di essere ormai alla fine del suo personale cammino) che vanno presi però come un bilancio151 e un presentimento più che come precipue valutazioni d questo “post”152.

Quando ancora l’Unione Europea è solo un abbozzo (1993), egli vede nel dialogo fra il vecchio continente occidentale e orientale una prospettiva feconda, ricca di irrinunciabili possibilità. È proprio la conoscenza di un mondo così distante, in termini di radici culturali e forma mentis, che potrebbe aiutare l’Est europeo a transitare gradualmente e felicemente dal sovietismo al “post”, evitando quindi l’interruzione del corso storico. Scrive Lotman: «Il radicale mutamento nei rapporti tra l’Europa orientale e quella occidentale, che avviene davanti i nostri occhi, dà, forse, la possibilità di passare al sistema ternario comune all’Europa e di rinunciare all’ideale di distruggere il vecchio mondo sino alle fondamenta, dopo di che sulle sue rovine costruire il nuovo. Lasciare sfuggire questa possibilità sarebbe una catastrofe storica»153.

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Un altro lascito del semiologo russo fa invece riferimento a una riflessione di tipo più biografico. In diversi scritti, a volte in modo celato altre in modo più esplicito, egli sottolinea come nella vita sia necessario fare delle scelte per il bene. La scelta comporta dei rischi di persecuzione, limitazione, critica o addirittura condanna, ma va fatta perché il destino dell’uomo è quello di assumersi la responsabilità di sé e degli altri. La scelta è la diretta conseguenza della coscienza, la coscienza dell’individualità ossia dell’essere uomo, canna pensante unica e irripetibile: e la coscienza – l’abbiamo visto – può portare l’uomo e la sua storia tanto alla vita quanto alla distruzione. Sottrarsi alla scelta per il bene significa, secondo Lotman, rinunciare a compiere pienamente il proprio destino:

Perfino i mammiferi che hanno il branco (il collettivo) come unità comportamentale minima, nel periodo dell’accoppiamento attuano dei rituali che attivano il processo della scelta individuale. L’imperativo stesso di scegliersi un comportamento, che per gli animali che vivono in branco si pone in questi momenti, e poi per l’uomo diventa un meccanismo costante, modifica l’intero sistema alla radice, introducendovi il momento dell’autocoscienza e quello dell’autocontrollo. Cambia la natura del processo. Sorge il confitto tra personale e impersonale, i cui poli non si elidono e non debbono elidersi a vicenda, rimanendo sempre in uno stato di estrema conflittualità. Ecco il meccanismo segreto di intersezione di continuo e discreto, graduale ed esplosivo (…).154

Se dovessimo infine chiedere a Lotman alcune prospettive per il processo di transizione del mondo post-sovietico, potremmo sottolineare le seguenti: 1) elaborare un modello teoretico ed empirico in grado di dare espressione al “non più” e “non ancora”, ossia all’intervallo di transizione (o interim/promezhutok, da J. Tynjanov)155; 2) rivedere le narrazioni sulla storia, capire ove queste veicolano nuclei semantici di conflitto o di trasformazione radicale (i falsi Cieli nuovi e Terre nuove di cui parlavamo pocanzi) anziché di transizione graduale e soprattutto concordante (non antitetica); 3) incentivare le pratiche

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discorsive che veicolino un diverso modo di procedere del pensiero156: vale a dire il dialogo, il riconoscimento dell’altro-da-sé non in forma antagonista ma costruttiva (creatrice di inedite forme di accoglimento e collaborazione); 4) lavorare sul linguaggio: non valorizzare né un localismo sfrenato (o nazionalismo) né un globalismo che resetta le singole identità, né la chiusura totale, né l’apertura totale.

2. L’arte: il laboratorio dell’imprevedibilità. Etica e libertà

Per me non c’è niente di più appassionante che passeggiare per le vie o conversare con un passante qualunque; faccio domande, ma non mi interessano molto le risposte: io studio i volti. Quante volte dopo una passeggiata del genere mi è sembrato che l’unica cosa da fare fosse spararsi. Ma a volte capitano certi visi di bambini o di vecchiette che compensano di tutto e riempiono di gioia la vita per alcuni giorni. No, l’umanità non è ancora morta, il ritratto ce lo deve ricordare in ogni momento.157

E veniamo ora al ruolo che l’arte assume, secondo Lotman, nella storia dell’umanità, ossia in quel tempo lineare che distingue l’uomo-cultura dalla natura. Per fare questo, come egli stesso ci suggerisce, bisogna tratteggiare le differenze che sussistono tra l’uomo e il mondo animale e che si riassumono sostanzialmente nel concetto di “autocoscienza”.

Prima fra tutte è la percezione dell’eterogeneità del reale che, mentre nel mondo animale è vissuta come qualcosa di abbracciato,

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ordinato e unificato da un principio di legalità (espresso in primis dalla ciclicità del tempo), nell’uomo essa dà luogo a una irrisolvibile lacerazione tra il sentirsi parte di questo tutto158 e, allo stesso tempo, una totalità in sé, (peraltro) transitoria – vedremo in seguito come quest’antinomia è alla base della semiosi sociale (cf. § 4). Qui Lotman è debitore di Vernadskij, il quale, come frase introduttiva della Biosfera, aveva posto un verso del poeta T. Tyutčev: “Un ordine immutabile è in tutto, armonia universale della natura (1865)”. E difatti Lotman scrive nella Cultura e l’esplosione: «la natura, secondo Tjutčev159, è dotata di armonia. A essa si contrappone la disarmonia dell’animo umano. Il concetto filosofico di armonia sottintende “un’unità nella multiformità (…) l’ordine dell’organizzazione del mondo”160. La lacerazione fra l’uomo e il mondo, di cui parla Tjutčev, è la contraddizione tra armonia e disarmonia»161.

Questo, secondo Lotman, è dovuto al fatto che, se per un verso, egli in quanto animale si trova immerso in quell’essere della natura «eternamente immutabile o che eternamente si ripete»162, per l’altro, «è inserito in un movimento disarmonico, cioè in un asimmetrico movimento aperto»163 che egli stesso, con la sua coscienza, il suo essere io-individuo, si crea: pur appartenendo a questo logos ordinante che si estrinseca nel mondo animale attraverso un comportamento collettivo e dunque necessariamente appreso e prevedibile, l’uomo – “canna pensante”, non completamente soggetto alle leggi naturali – è portato a interrompere questa “prevedibilità” e a imporre al tempo la sua soggettività, ossia a imprimergli un movimento lineare. In questo atto di coscienza, secondo Lotman, egli oltrepassa il comportamento meramente rituale, crea il nuovo, dà vita all’inatteso e si erige a individuo, differenziandosi così ontologicamente dal mondo animale164.

Una seconda qualità distintiva dunque, dopo la diversa percezione del rapporto tutto-parte, è l’imprevedibilità, ossia la capacità di produrre, attraverso il pensiero-che-crea, dei buchi di senso che impongano una nuova traiettoria alla storia umana. È dunque il pensiero creativo (e in primis l’arte in quanto esplosione di senso) a

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sfondare il muro del consueto e a gettare, ogni volta, nuova luce sulla natura umana nel suo essere “canna pensante”, coscienza in atto. Scrive Lotman: «(…) se ci volgiamo a considerare la storia dell’umanità, possiamo dire che il ruolo dell’imprevedibilità ha avuto una sostanziale impennata nel momento in cui l’uomo è divenuto tale, e che anzi proprio essa è stata il fondamento di questo passaggio. Su di essa riposa un sentimento cardinale dell’essere umano: l’autocoscienza, la riflessione sulla propria coscienza e sul proprio comportamento. Su di essa riposa una componente ineliminabile dell’autocoscienza: l’arte. Il pensiero non potrebbe esistere, per definizione, senza l’arte (…). L’esistenza stessa dell’arte è legata e discende necessariamente dalla linearità dello sviluppo della storia umana »165.

E, continua Lotman, è proprio questo tempo che caratterizza l’uomo – il tempo lineare aperto – a fare dell’arte una sospensione del già conosciuto e, al contempo, una risoluzione della provvisorietà: esso, infatti, pone l’uomo di fronte a «situazioni sempre nuove e necessariamente uniche»166 che, da un lato, lo portano a sentirsi un “tutto” transitorio della storia e, dall’altro, gli chiedono di interrogarsi sulla sua condizione di provvisorietà, incompatibile con una concezione di tempo “prevedibile”: è per l’appunto l’arte – come vedremo – a rispondere a quest’interrogativo, dandogli la libertà di oltrepassare le leggi e i vincoli della realtà. Vediamo bene come.

Va detto, anzitutto, che qui emerge una terza qualità distintiva dell’uomo rispetto al mondo animale, ossia la differenza fra memoria genetica e memoria “solo per me”, continuità e unicità. L’uomo infatti, essendo inserito nella dimensione del collettivo, è informato dalla memoria genetica dell’umanità che non ha altra finalità se non quella di trasmettersi e perpetuarsi167: così, scrive Lotman, egli diventa «semplice materiale per la reincarnazione della memoria sovraindividuale, dell’ereditarietà»168 – ovviamente questo, specie in momenti di crisi storiche, può diventare perpetuazione di un’ideologia e far ristagnare la cultura nel suo modello ereditariamente intoccabile. Ma l’uomo, come abbiamo visto, si percepisce anche come un “tutto” che, staccandosi

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dalla dimensione del collettivo ed entrando in quella individuale, sente di esser «un attimo fuggente tra presente e futuro»169 che non può dunque ridursi a mera ricezione del passato – un po’ come si diceva a proposito del comportamento animale: appreso e prevedibile. Egli cioè vive un tempo soggettivo, si individualizza nella storia, si crea una memoria “solo per me”: uno spazio di senso che costituisce la sua autocoscienza e la sua capacità di scelta e di responsabilità individuali. Qui l’arte ha un ruolo fondamentale. L’uomo, infatti, elevandosi a “canna pensante”, avverte anche i limiti che la realtà gli impone; un caso paradigmatico, per Lotman, è il vincolo derivante dal rapporto parola/azione. Quando la parola infatti è piegata sull’azione – prassismo che distrugge la libertà di espressione170 – l’individuo si trova incuneato in una realtà in cui l’appartenenza al collettivo diventa un vero e proprio livellamento di prospettive e il principio di eterogeneità del reale – che abbiamo visto essere fondante per l’uomo – risulta schiacciato da un tutto pianificato, eternamente immutabile e pragmaticamente ordinato171. Ecco che allora l’arte, in quanto espressione di individualità e, dunque, di imprevedibilità, diventa spazio di senso libero e liberante, ossia pensiero-che-crea ex novo, sospendendo il già conosciuto. Scrive Lotman: «l’arte riflette la vita capovolgendola, con la sua libertà compensa l’uomo della illiberalità reale»172 e getta così le basi per l’apertura di nuovi cammini nella storia dell’umanità.

L’irruzione dell’arte nel processo storico ne modifica radicalmente il carattere. Se la storia è una finestra sul passato, allora l’arte è una finestra sul futuro (con una sostanziale avvertenza: i vetri di queste finestre possono essere specchi). Ma mentre il passato è sentito come una strada che conduce direttamente al presente (presente che, in questa prospettiva, appare l’unica possibile conseguenza del passato), il passaggio al futuro è pensato come un’esplosione: tra il presente e il futuro scorre l’imprevedibilità.

(…) La realtà (…) è come la principessa delle fiabe, alla cui mano aspirano più principi. Finché la scelta non è compiuta tutti hanno la stessa probabilità di successo e tutti possono fregiarsi del titolo

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di “fidanzato”. Se però descriviamo questa situazione retrospettivamente, a scelta compiuta, l’unico coronato di successo ci sembrerà predestinato alla vittoria, e gli altri indegni usurpatori. L’arte guarda alla vita con gli occhi della fidanzata ancora libera, la storia invece come con lo sguardo della moglie vincolata dalla sua scelta.173

Sempre per tornare all’esempio dell’empasse parola/azione, l’arte non a caso è la prima delle manifestazioni umane ad essere censurata in tempi di crisi sociale174, proprio perché profilandosi come parola175 che agisce liberamente essa va contro la mutezza della prassi e diventa al contempo «servizio sociale»176, custode dell’etica umana e bersaglio dell’anti-individualità. L’arte, scrive Lotman ne “Il fuoco nel vaso” (1992), è libertà, ossia «un eccesso, il frutto in un atto di volontà che vince lo spazio generale della non libertà. Il rapporto qui è simile a quello che si instaura nella lotta tra l’informazione (che può essere vista come una manifestazione di libertà: la libertà di scelta) e l’entropia»177, quella forza che scatena l’apatia e la distruzione178.

L’arte, arriva a dire Lotman – riferendosi alla differenza fra sviluppo storico binario (distruzione) e sviluppo storico ternario (mediazione) – potrebbe salvare la storia dell’umanità dall’utopia, ossia da sistemi di pensiero assolutisti, e guidare invece lo sviluppo di un modello di semiosi culturale fondata sull’uni-molteplicità e realizzantisi concretamente in un’identità culturale globale multiprospettica179.

Ma come fa infine l’arte a garantire questa libertà e permettere all’uomo di oltrepassare la contingenza per aprire nuove strade? Come fa cioè ad essere effettivamente una finestra sul futuro? Secondo Lotman il linguaggio artistico, attraverso la sua natura poliglotta, ha la capacità di intuire gli oggetti in modo diverso da come essi paiono nella contingenza, ossia impacciati dalle leggi della realtà180, e di liberarli dai legami consueti, o al contrario, di coglierne le impreviste similarità e le analogie: gli oggetti, così compresi da un pensiero-che-crea ex novo, «entrano in nuovi rapporti e legami [e] rivelano così il proprio significato

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profondo (…) l’essenza nascosta»181. Vediamo ora in che cosa consiste questa essenza nascosta. 3. Poliglottismo, scienza e tecnica

3.1 Poliglottismo e ispirazione. Il pensiero creativo

«E così che per comprendere l’essenza dell’umanità, la filosofia dei Lumi modellizzava un’immagine dell’Uomo»182. Introduciamo questa parte dedicata all’eterogeneità culturale e al concetto semiotico che la sussume, il poliglottismo, con una riflessione su una della “tentazioni” speculative a cui, secondo Lotman, è più soggetto l’uomo: l’unificazione e la riduzione della diversità. Come era accaduto infatti per l’Illuminismo – che, nel suo tentativo di de-semiotizzare la cultura e di cercare i “dati” di natura, aveva finito per creare delle categorie prime, razionali e idealisticamente astratte – così anche nella cultura contemporanea, fondata sulla ragione scientifica, la speculazione si è spesso tradotta in una semplificazione del rapporto tra intelletto, ragione ed empeiria: cosa che ha preferenzialmente dato luogo a modellizzazioni scientifiche disancorate dalla realtà. Un caso paradigmatico, secondo Lotman, è avvenuto nelle scienze umane, con il tentativo di modellizzare i processi comunicativi183: identificando in un unico soggetto i due agenti della comunicazione (emittente e ricevente), si è finito per attribuire a questa un’unità solo ideale, molto lontana dalle reali condizioni della relazionalità umana. La comunicazione si presenta infatti come una vera e propria «resistenza di forze»184 ove l’asimmetria informativa, l’eterogeneità dei linguaggi, il diverso bagaglio mnemonico – ossia la non coincidente memoria “solo per me” ma anche una possibile diversità della memoria storico-genetica – e lo iato fra l’io-individuo e l’io-collettivo (cf. § 4.1) sono costituenti irrinunciabili.

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Il concetto di “intraducibilità” assume infatti un ruolo particolarmente importante negli scritti degli anni Ottanta-Novanta. Secondo Lotman, la semiosi culturale, in quanto processo dinamico, prende vita non certo da una comunicazione perfettamente simmetrica quanto piuttosto da quegli scarti o iati semantici fra linguaggi che, al primo acchito, possono apparire delle imperfezioni nella traduzione inter- e intralinguistica, ma che poi si rivelano essere l’humus stesso della crescita informativa della cultura. Scrive Lotman: «(…) la traduzione dell’intraducibile risulta essere, per il portatore d’informazione, un valore elevato», e ancora: «l’incomprensione (…) si presenta come un meccanismo di senso prezioso quanto la comprensione»185.

Ma cosa sono questi scarti o iati semantici? Nella Cultura e l’esplosione Lotman lo spiega bene nel capitolo dedicato all’ispirazione. La realtà, come noi la conosciamo – la realtà fenomenica o culturale, in una parola: la semiosfera186 – è fatta di spazi di senso, di mondi semiotici risultanti dalla complessa intersezione di strati testuali, a loro volta frutto di un rapporto rizomatico fra testi187 che tendono a tradursi con gradi diversi di successo (o a volte di insuccesso) – si pensi alla rappresentazione pittorica e letteraria o musicale e teatrale di un medesimo soggetto: e non a caso Lotman pensa ai testi come a un tessuto fittamente intrecciato188.

A livello macro, questi spazi semiotici non vivono in uno stato di impermeabilità ma entrano in rapporto l’uno con l’altro, cercando reciprocamente di tradursi. È il caso, ad esempio, della scienza e dell’arte che, pur adottando due diversi linguaggi, vanno sempre più nella direzione di una collaborazione teoretica189 e, dunque, di una reciproca comprensione. O ancora, a livello micro, scrive Lotman ne “Il testo e il poliglottismo della cultura” (1992), è il caso della lingua naturale e di quelle spaziale190 che, entrando continuamente in contatto, duplicano infinitamente i significati degli oggetti (culturalizzati o non ancora culturalizzati).

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La nostra conoscenza del mondo è un riverbero poliglotta e ipertestuale di queste molteplici micro- e macro-correlazioni fra spazi semantici che, appunto, hanno modi diversi per esprimersi, richiamarsi e differenziarsi. Le loro intersezioni dunque sono un momento costitutivo della cultura che cresce tanto più i nuclei di senso non si cristallizzano ma, al contrario, si fecondano e danno vita a nuovi, inediti nuclei: e lo fanno rompendo la coerenza del senso “atteso”. Per Lotman, l’io-individuo, “canna pensante”, ha qui un ruolo fondamentale; scrive il semiologo russo: «Le intersezioni di spazi di senso, che generano un senso nuovo, sono legate alla coscienza individuale»191. Perché questo? Come già abbiamo visto con l’arte, laboratorio di imprevedibilità, è il soggetto con la sua presa in proprio della realtà a creare dei buchi nel già conosciuto e a intuire e istituire nuovi rapporti fra le cose. Per spiegare questo meccanismo semiotico – lo stesso che, come visto precedentemente, porta gli oggetti del reale a rivelare il proprio significato profondo, la loro essenza nascosta – Lotman usa il concetto di ispirazione (fenomeno cognitivo squisitamente individuale) e lo fa citando due frammenti poetici: «le divenne visibile (all’anima) in un minuto / ciò che era invisibile da tempi remoti»192, e ancora, «L’ispirazione? L’ispirazione è la disposizione dell’anima alla viva appropriazione delle impressioni, di conseguenza alla rapida comprensione dei concetti, il che rende possibile la loro spiegazione. / L’ispirazione è necessaria nella poesia come nella geometria»193.

Per Lotman l’ispirazione194 è quella tensione conoscitiva che porta l’uomo ad accogliere la realtà – la realtà noumenica – senza l’interpolazione del ragionamento e, in questo accoglimento, a intuire (il vedere dell’anima) come essa si presenta di per sé, direi quasi in forma non semiotizzata o culturalizzata195, rinvenendo così legami estranei, “illegittimi”. Non a caso Lotman poche righe dopo, riprendendo una poesia di Blok, L’artista (versi 5 e 6), scrive a proposito del pensiero logico-analitico, della Ragione: «La fase seguente [dopo quella dell’ispirazione] è quella dell’introspezione, il logico mondo verbale

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“con fredda attenzione” tende a “capire, fissare e uccidere”: esprimere con le parole ciò che è extraverbale, e con la logica ciò che per la logica è al di là dei limiti»196. Lotman evidenzia qui la portata conoscitiva dell’intraducibile, che sempre ha luogo in seno ad un’intersezione di spazi semantici asimmetrici e che sembra essere coglibile solo dal nous, quale rivelatore di inconcepibili, illogici, apparentemente inesprimibili rapporti fra le cose – certo, fermo restando il valore conoscitivo della ragione. Questa particolare intersezione dà luogo a quella che Lotman definisce un’esplosione di senso, che non è la mera fuoriuscita di nuova informazione ma la sospensione di tutte le coordinate (culturali, temporali, spaziali) entro cui si forma il senso e l’emersione di qualcosa di radicalmente nuovo, frutto di un’unità non sintetica delle asimmetrie: l’esplosione è «il mondo della suprema chiarezza, che cancella le contraddizioni in una certa loro unità profonda»; è «il momento delle suprema tensione [che] abolisce tutti i confini dell’intraducibile e rende unitario ciò che è incompatibile»197. Lotman, va detto, ha sempre in mente l’ispirazione poetica e, più in generale, l’apertura estetica, ossia quel modo di aprirsi al mondo che si fa capace di dare forma anche a ciò che sembra dover rimanere inespresso (extraverbale) e di portare alla luce l’eterogeneità del reale, raccogliendola all’uni-molteplicità – e salvando così il sapere umano dall’utopia dell’unificazione indistinta. Ritroviamo un sunto di quando detto sinora ne I meccanismi impredittibili della cultura, ove Lotman scrive:

La traducibilità dell’intraducibile, che richiede elevatissima tensione, è proprio ciò che crea le premesse per una esplosione di senso. L’impossibilità di una traduzione letterale dalla lingua della poesia alla lingua della pittura, o perfino dalla lingua del teatro a quella, apparentemente simile, del cinema è fonte generatrice di nuovi sensi. Nessuna arte funge semplicemente da strumento per l’espressione di una stessa cosa, che poteva essere detta anche in altri modi. La lingua modella la realtà: lingue diverse, intraducibili le une nelle altre, creano modelli della realtà necessariamente inadeguati. La multiformità ridondante dei generi artistici è dovuta al fatto che noi non

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disponiamo di uno strumento adatto a diventare base di un modello universale che abbracci tutta la complessità del reale. Così come scienze diverse abbracciano aspetti diversi della vita e non possono essere sostituite da una qualche scienza universale, arti diverse creano immagini della realtà diverse e intraducibili le une nelle altre. Essenza della conoscenza artistica è l’esplosione di senso provocata dall’intersecarsi di immagini della realtà che non potrebbero intersecarsi altrimenti: l’ispirazione.198

Tornando alla Cultura e l’esplosione, Lotman conclude questa riflessione dedicata all’ispirazione con una considerazione fondamentale sul rapporto fra realtà noumenica (extra-linguistica) e semiosfera, risolvendo in certo modo l’inconoscibilità di questo mondo “extra”. Secondo Lotman ha certo ragione Kant quando sostiene che il soggetto non può neanche concepire un mondo fuori i confini della lingua, essendo questa l’unico modo che egli ha per pronunciarla. Ma, ribatte il semiologo russo, ogni singolo soggetto non ha una sola lingua per comunicare questa doppia realtà – il mondo espresso ed esprimibile (la semiosfera) e quello noumenico, intuibile attraverso l’aisthesis; e, soprattutto, ogni io-individuo non è inserito in modo impermeabile nello spazio semiotico ma vive in una condizione di continua comunicazione/traduzione con gli altri soggetti, determinando in questo modo una trama estremamente complessa di linguaggi e testi stratificati: è proprio questa dinamica reticolare della semiosi a permettere, da un lato, la continua emersione di buchi nel senso, ossia dell’intraducibile e, dall’altro, come conseguenza, la continua possibilità di uno sfondamento dello spazio semiotico e di apertura al mondo extra-linguistico199. Secondo Lotman infatti è proprio la reciproca intraducibilità delle lingue (ad esempio, verbale e iconica) o di interi mondi semiotici (scienza e arte, scienza e mito, arte e mito) ad essere la fonte dell’adeguatezza dell’oggetto extralinguistico al suo riflesso nel mondo delle lingue.

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3.2 Linguaggio scientifico, tecnica e ragione tecno-pragmatica

Un particolare aspetto del concetto lotmaniano di poliglottismo è il riconoscimento dell’impossibilità di adottare un singolo linguaggio scientifico – sia rispetto alle scienze umane che a quelle naturali – per la comprensione dei processi che soggiacciono alla dinamica culturale.

L’unità ideale, per Lotman, è una contraddizione della realtà che è tutto eccetto che astrattamente monoprospettica: la sua modellizzazione, come ci suggerisce nella Cultura e l’esplosione, deve fondarsi sulla dinamica reale dei linguaggi, sempre irriducibili l’uno all’altro ma fatalmente e reciprocamente necessari. Se, infatti, la semiosfera è costituita da una trama multistratificata di testi e linguaggi provenienti da diversi spazi semiotici, capiamo bene che estrapolare da questa complessità modelli di conoscenza rappresentativi significa necessariamente “recidere” alcuni fili del tessuto, vale a dire alcune correlazioni interne ed esterne ad ogni spazio. Ovviamente questo è un rischio che ogni approccio euristico deve affrontare se vuole rendere intellegibili determinati fenomeni della semiosfera – fenomeni che, senza una rappresentazione esemplificativa rimarrebbero di difficile comprensione. Lotman tuttavia mette in guardia da una potenziale degenerazione di questo rischio, ossia dalla “cattiva astrazione”200: sintomo di una modellizzazione scientifica che, disincarnandosi dal reale, tende ad essere vuoto metaforismo, deformante e utopico, ossia a creare un’unità sintetica delle differenze, ove queste vengono pragmaticamente azzerate201. Non è un caso che Lotman, come abbiamo visto in particolare nel I meccanismi impredittibili della cultura, innalzi il linguaggio artistico e l’aisthesis a fondamento del pensiero umano – a dispetto di chi attribuisce loro un valore epistemologico inferiore a quello di altre scienze – sottolineando che la scienza è proprio scienza quando, come l’arte e insieme all’arte202, non rinuncia al pensiero creativo-intuitivo, quando sa ricercare l’unità dell’incompatibile in modo profondo e non ideale (o ideologico), ossia andando sino in fondo alle differenze, custodendole. E questo può

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avvenire solo se si considera la realtà nelle sue antinomie, ossia informata da una pluralità di linguaggi dialoganti e reciprocamente rivolti a rendere il movimento reale delle cose, eterogeneo e contradditorio. Di qui il suggerimento di Lotman (che è anche il suo lascito) di tornare all’aristotelica unità poliedrica della scienza.

3.2.1 Il dialogo interdisciplinare come paradigma del poliglottismo lotmaniano

L’ultima pagina dell’ultima elaborazione teorica di Lotman, I meccanismi impredittibili della cultura, recita:

Il cammino su cui si è avviata la scienza apre prospettive di unità nella conoscenza delle diverse sere del mondo che ci circonda. Lasciati i metodi specialistici di indagine (…) torniamo al problema che si poneva ad Aristotele e alla scienza medievale: la struttura unitaria del sapere scientifico. Nel percorrere questo cammino ci imbattiamo in un ostacolo di importanza fondamentale: il problema del rapporto tra generale e individuale.203

Cerchiamo anzitutto di capire cosa si intende per “struttura unitaria del sapere” e in che rapporto stanno le molteplici e autonome forme della conoscenza con il concetto di universum. Questo ci aiuterà a capire come il poliglottismo in Lotman non rischi mai di diventare una “torre di Babele”204 del sapere umano ma si profili sempre come una struttura complessa ove il generale e l’individuale si compenetrano andando a creare un’unità prismatica.

L’esigenza di dare un’unità e una coerenza all’esperienza intellettuale è sempre stata presente nell’uomo, sin dall’epoca aurorale della civiltà. Ne sono un luminoso esempio i miti fondativi, elaborati dall’uomo per spiegare la Gloria che sembra avvolgerlo e rivelarglisi205; la cultura classica, con l’idea di polis206, e poi quella cristiano-medievale, con le grandi summae teologiche, sono le prime compiute espressioni di questa esigenza che, in esse, diventa la ricerca di un modello di

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conoscenza (e di uomo) Universalgelehrte, ossia in grado di riassumere in sé sia la visione razional-scientifica del mondo che quella filosofico-sapienziale. È proprio nel Medioevo che – sulla spinta della riesumazione aristotelica operata da Tommaso d’Aquino – non solo si tenta una integrazione dei saperi sotto il metasapere della teologia ma si pongono le fondamenta dell’idea stessa di università, quale luogo di dialogo comunionale fra le molteplici discipline: idea poi compiutamente sviluppata dall’antropocentrismo rinascimentale.

Nella modernità, il razionalismo illuminista se, da un lato, completa questa operazione di integrazione disciplinare con la realizzazione delle grandi enciclopedie, dall’altro, inizia ad affermare un progressivo scollamento della razionalità scientifica dalla sophia, dando vita a quella che, in epoca contemporanea, sarà la forte dicotomia tra scienze della natura e scienze dello spirito. Soffermiamoci dunque sulla modernità, perché è qui che germogliano quei problemi di ordine metodologico che tanto interesseranno i dibatti sull’episteme nel Novecento e che saranno evidenti anche nella prima semiotica lotmaniana, in cerca di una fondazione dal punto di vista epistemologico. Quello che infatti avviene, nel Sei-Settecento, è il progressivo differenziarsi del metodo di ricerca delle diverse branche disciplinari, “la cui crescente profondità e ampiezza di conoscenze, prima a livello cosmologico e poi antropologico e biologico, comincia a rendere più difficoltosa – o almeno di soluzione non certo immediata – una “riconduzione” di tali conoscenze all’interno di un [unico] quadro coerente ed unitario”, qual era, come visto pocanzi, quello teologico. Se, da un lato, questo comporta una feconda e incrementale specializzazione del sapere umano (in tutte le sue sfumature), dall’altro, porta a una crescente autonomia e parcellizzazione dei settori scientifici: la conoscenza, prima rappresentabile come un albero dalle molteplici ramificazioni (sempre però accomunate dall’unità dell’esperienza intellettuale), nella modernità diventa una proliferazione di mondi, impermeabili l’uno all’altro207.

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È qui che si staglia una figura particolarmente interessante per il discorso che stiamo portando avanti, ossia quella di G. Leibniz, uno degli ultimi Universalgelehrte della modernità e influente ispiratore di Lotman.

Sulla scia di Aristotele, Tommaso d’Aquino e la Scolastica, Leibniz propone un modello sapienziale di conoscenza, ove la molteplicità dei saperi deve sempre ancorarsi e riposare nell’unità intellettuale e morale della persona: essere cioè un’esperienza integrale della realtà – che è, visto pocanzi (§ 1.2.2), la peculiarità e l’anelito del pensiero russo. Il presupposto filosofico di questo modello sta nel concetto di “monade” (fondamentale per la semiotica lotmaniana), ossia “ciò che è uno”208. La monade è «la fondamentale realtà metafisica di cui tutto l’universo è fatto. Le monadi sono sostanze semplici, individuali e inestese, costituenti il principio di unità di ogni cosa. A sua volta, ciascuna monade è “specchio” dell’intero universo: ciascuna monade riflette dal suo peculiare punto di vista l’intero universo [o la perfetta armonia di divina ideazione], in perfetto accordo o armonia con le rappresentazioni di tutte le altre monadi. In altre parole, in ciascuno di questi “atomi metafisici”, costituenti tutta la realtà, la molteplicità dell’universo è ricondotta a unità»209, ossia compensata dall’identità (diversitas identitate compensata). In virtù di questa intima somiglianza – per rispecchiamento – delle monadi fra loro con l’identità una che le custodisce in un tutto legato, la concezione leibniziana di conoscenza che ne discende non può che essere enciclopedica e analogica: enciclopedica perché unitaria pur nella sua eterogeneità, analogica perché sussistente grazie ai rapporti di uno-similarità e proporzione fra le diverse forme del sapere.

Il concetto di analogia ci invita ora a fare un salto all’epoca contemporanea ove, abbiamo visto, la progressiva (e legittima) specializzazione dei settori disciplinari ha portato ad una sostanziale auto-referenzialità della loro fondazione epistemologica, creando un universo della conoscenza estremamente frammentato, relativista e talvolta poco incline al dialogo. Esistono oggi, scrive G. Tanzella Nitti,

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non solo istanze di una nuova ricerca dell'unificazione del reale alla luce di inediti apparati teorici210, ma anche «insistenti riflessioni, provenienti da ambiti diversificati e indipendenti, che paiono suggerire la necessità di saperi aperti, correlati ed analogici»211. Quello cioè che sembra emergere non è tanto un ritorno nostalgico al sapere universale, quanto piuttosto l’esigenza di un sapere che nasca dall’“attraversamento” dialogico delle diverse esperienze scientifiche, dalle scienze dalla natura a quelle dello spirito.

Oggi si parla di metodo interdisciplinare e transdisciplinare212 per esprimere questa tensione euristica e gnoseologica all’unità di cui parla Jasper, pur nel rispetto dell’imprescindibile autonomia delle discipline. Su questo orizzonte si staglia anche Lotman, per il quale la scienza semiotica, vista l’inedita demoltiplicazione delle prospettive interpretative degli ambiti del sapere, ha proprio il compito di contribuire al dialogo interdisciplinare e di proporsi come possibile via verso una comprensione complessa del reale – fondata, appunto, sull’unificazione poliedrica delle prospettive.

Questa visione ci viene confermata da un saggio del 1989, “La cultura come soggetto e come oggetto per se stessa”, ove Lotman adotta il concetto di “monade” per spiegare il rapporto fra individuale e universale, ossia il poliglottismo213. Secondo il semiologo russo, la cultura può essere definita come un universo costituito da molteplici universi che rispecchiano le sue medesime caratteristiche: determinatezza, autosufficienza, presenza di confini. In virtù della capacità di auto-riflessione della cultura – che, proprio perché atto auto-descrittivo, contiene in sé le descrizioni particolari – questi universi (o monadi) stanno in rapporto di convergenza e tendono a formare “un’interezza integrata”, ossia un’unità antinomica, ove diversi linguaggi e diversi visioni del mondo si integrano nel meta-linguaggio culturale214. Avviene così che ogni monade, ogni personalità culturale, da un lato, assomiglia a «un numero decimale ossessionato dall’idea di diventare un intero» (quindi fondamentalmente auto-referenziale), dall’altro, in quanto parte dell’intero, non può che essere in relazione di traduzione

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con le altri monadi. Questo “avvicinamento” semantico di universi eterogenei – la traduzione non è equivalenza ma similarità – dà vita, secondo Lotman, a un fecondo meccanismo di metaforogenesi, ossia si produzione infinita di senso. Questa idea gli viene certamente suggerita da Bachtin quando, nel Problema dei generi del discorso (1952-’53), scriveva: «ogni singola enunciazione è un anello nella catena della comunicazione verbale. Essa ha confini netti, determinati dall’alternanza dei soggetti dei discorso (parlanti), ma all’interno di questi confini l’enunciazione, come la monade di Leibniz, riflette il processo verbale, le altrui enunciazioni, e, prima di tutto, gli anelli interiori della catena (a volte vicinissimi, a volte – nei campi della comunicazione culturale – anche molto lontani»215.

Se pensiamo di nuovo alla scienza, capiamo bene perché per il semiologo russo il dialogo interdisciplinare sia così importante: esso mette in relazione le scienze alla luce dell’unità della cultura umana (che si esprime proprio attraverso le diverse visioni scientifiche del mondo e fa di esse un’unica esperienza intellettuale) ma, allo stesso tempo, ne custodisce la specifica identità. Esso fa emergere inoltre una sua proprietà fondamentale, ossia che si tratta – appunto – di un dialogo, di una traduzione imperfetta, che necessita di interpolarsi attraverso modelli fondati sull’analogia – fonte di grande creatività euristica e di metaforogenesi linguistico-scientifica.

Allo stesso tempo, le riflessioni fatte sinora ci fanno capire meglio perché per Lotman sia così importante la ricerca di un linguaggio scientifico comune (metalinguaggio) e il ritorno alla “struttura unitaria del sapere”. Qui per metalinguaggio, come abbiamo visto con il metasapere teologico che ha caratterizzato la nascita dell’universitas medievale, egli intende proprio la ricerca di un linguaggio scientifico che sappia unificare integralmente la conoscenza del reale, ponendo in correlazione i diversi saperi, i quali si portano dietro i loro propri, peculiari linguaggi e apparati teorici. Secondo Lotman la semiotica può certo supportare questa impresa, aiutando lo scienziato a cercare punti di contatto con lo stesso, intero mondo delle scienze e le analogie che

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con esso intrattiene, pur non rinunciando alle sue peculiarità metodologiche ed epistemologiche.

Il concetto aristotelico-tomista di “struttura unitaria del sapere scientifico” viene dunque riportato alla contemporaneità e riscoperto nella sua attualità: esso si profila come un habitus euristico – ma in Lotman si veste di un carattere eminentemente etico – volto a porre in essere una scienza aperta e intrinsecamente correlata, mai schiacciata su un particolare modello di conoscenza. In questa prospettiva, è quasi inevitabile che la semiotica lotmaniana sfoci nel dialogo interdisciplinare e nel poliglottismo scientifico, essendo tutta edificata sul riconoscimento dell’alterità quale «illegittima cometa / Nel cielo sgombro di astri (Puškin)»216 ossia sul valore del nuovo che sempre arriva dall’esterno – un altro uomo, un altro sistema di pensiero, un altro apparato scientifico, un altro sistema culturale – e si profila come scoperta imprevedibile e creatrice, che disarticola la “propria” orbita, calcolata e autosufficiente (il mondo chiuso e impermeabile dei vari settori disciplinari).

Possiamo dire che, in questo modo, Lotman rettifica in parte la posizione assunta nei primi scritti ove, con la nascita delle semiotica sovietica (1962, Simpozium po strukturnomu izučeniju znakovych sistem), si sanciva l’inizio di una scienze dei segni molto vincolata alle scienze dure (matematica e cibernetica in particolare). Come riporta lo stesso Lotman nel 1967, «(…) la tendenza propria della scienza contemporanea, a sperare la contrapposizione, indiscussa per gli scienziati del XIX secolo, fra le scienze esatte e quelle umanistiche, è organicamente connessa con quell’aspirazione all’unità che è inerente alla cultura nel nostro secolo»217 (un’unità, continua Lotman, che si realizza attraverso i metodi esatti, matematici e strutturali). Ritorna qui il concetto di “struttura unitaria del sapere” ma in un’accezione diversa da quella esposta ne I meccanismi impredittibili della cultura – sono passati quasi trent’anni nel frattempo: se infatti nell’“ultimo” Lotman si parla di un’unità fondata sul dialogo equanime delle prospettive scientifiche, qui essa è realizzata attraverso un piegamento

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metodologico sulle scienze dure, apparentemente più oggettive e legittime per fondare un discorso scientifico.

Vediamo dunque che il lungo cammino compiuto da Lotman, nel suo essere grande scienziato e grande umanista, lo porta progressivamente a condensare in sé questa profonda dicotomia e a vedere nel poliglottismo scientifico, non una carenza epistemologica di sistematizzazione e unificazione, ma la natura stessa della scienza che, come l’arte, è una e poliedrica: «Così come scienze diverse abbracciano aspetti diversi della vita e non possono essere sostituite da una qualche scienza universale, arti diverse creano immagini della realtà diverse e intraducibili le une nelle altre»218.

3.2.2 Il problema della tecnicizzazione della ragione

Sempre parlando della scienza (in senso lato), un particolare aspetto che Lotman sottolinea soprattutto nei Meccanismi impredittibili della cultura è il suo rapporto con la tecnica.

Nella Cultura e l’esplosione questa è vista come un esempio paradigmatico dell’agire umano in seno a un processo temporale graduale. La lentezza con cui si produce il cambiamento non vuole dire, tuttavia, che essa non sia portatrice di crisi: proprio parlando de “Il progresso tecnico come problema culturologico” (1988) Lotman precisa che l’agire dell’uomo come faber trasforma radicalmente l’ambiente e i suoi oggetti, apportando modifiche profonde al modo di vivere e di significare219: «l’aspetto fisico dello spazio culturale dell’umanità ha un significato non solo pratico ma anche semantico. Un cambiamento (…) nel mondo degli oggetti fisici trasforma la regole abituali della produzione semantica di significato»220 e, di conseguenza, della “consuetudine” (o tradizione) culturale; questo, come vedremo, può condurre allo scoppio di comportamenti irrazionali in seno alla società (§ 4.2)

Lotman, dunque, attribuisce alla tecnica un andamento causale, dagli sviluppi attesi e prevedibili221, ma, allo stesso tempo, mette in

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guardia dalla sua “trasparenza”. E precisa nella Cultura e l’esplosione: «(…) è proprio del progresso tecnico essere poderosamente stimolato dalle necessità pratiche»222. Ecco che arriviamo precipuamente al punto sviluppato ne I meccanismi impredittibili della cultura. Emerge qui una certa preoccupazione di Lotman – che è anche il filo conduttore dell’opera nel suo insieme – per il piegamento della tecnica sulla prassi, ossia per l’involuzione di quella che dovrebbe essere un’attività umana libera (una libertà attesa) a tecnicismo al servizio della contingenza223. Scrive Lotman:

Lo sviluppo ottimale del progresso richiede una interrelazione armonica di scienza e tecnica. Non solo, ma queste due opposte tendenze della mente umana hanno bisogno l’una dell’altra, rappresentano ognuna per l’altra il momento della valutazione e della critica. Ma nella realtà della cultura umana questa armonia è un fenomeno rarissimo. Il concentrarsi dell’attenzione pubblica sulle conquiste della tecnica, tipica del XX secolo, frena la scienza, poiché la società ne incoraggia soltanto quegli aspetti che sembrano di immediata utilità tecnica. Ma la tecnica è al servizio dell’oggi o al massimo del domani, di un domani che lei stessa contribuisce a creare: il nuovo può venire solo dalla scienza, capace di muoversi in avanti secondo la logica dell’esplosione. La tecnica con i suoi risultati visibili e la sua verificabile utilità può farsi aggressiva, e pretendere di parlare a nome della scienza. Questo è particolarmente pericoloso quando a distribuire risorse tra le due sono le persone “di buon senso”, burocrati di vario genere. Massimamente pericoloso quando la pianificazione della scienza è in mano a uno stato centralizzato. L’esistenza di qualcosa che non possa essere pianificato dal centro, l’impossibilità di includere in un piano una “scoperta non scoperta” non solo provoca la sfiducia del burocrate, ma gli suona come un’offesa personale. Per questo la fusione di tecnica e burocrazia rappresenta la minaccia più diretta al progresso scientifico.224

È evidente che qui Lotman sferra una seria critica a tutti quei sistemi politici che hanno creato un’equivalenza fra sistema di pensiero e sistema tecnico-burocratico, facendo dell’attività umana una mera,

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immutabile ripetizione di un domani già pianificato, ossia di un’idea di progresso che è tutto fuorché libera espressione del nuovo-in-potenza. Come già visto nei § 1.2 e 1.3, il semiologo russo denuncia, in particolare, l’esperienza storico-politico sovietica che, accogliendo lo scientismo positivista225 e il materialismo dialettico, ha creato una sistema di vita e pensiero fondato sulla fede (religiosa) nella prassi, ove la scienza226 e la tecnica sono asservite al governo del sospetto e della sorveglianza. Un governo che presume di possedere la supervisione razionale della natura, dell’uomo e del suo futuro e in cui «la prassi e il suo successo»227 fanno la verità del pensiero e della teoria228. Ma è anche, più sottilmente, la denuncia nei confronti di una scienza che ha rinunciato ad essere attività creativa, libera e liberante, e si trasformata in un mezzo di potere. Ha scritto E. Morin a proposito: «Qual è l’errore del pensiero formalizzante e quantificatore che ha dominato le scienze? Non è certamente quello di essere un pensiero formalizzante e quantificatore, e non è nemmeno quello di mettere fra parentesi ciò che non è quantificabile e formalizzabile. Sta invece nel fatto che questo pensiero è arrivato a credere che ciò che non fosse quantificabile e formalizzabile non esistesse, o non fosse nient’altro che la schiuma del reale. Sogno delirante, e sappiamo che niente è più folle del delirio della coerenza astratta»229.

Nelle parole di Lotman e di Morin riecheggiano quelle di L. Pareyson a proposito dei caratteri del pensiero ideologico230, che qui riassumiamo:

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Storicità: rapporto fra pensiero e situazione

Pragmaticità(o tecnicizzazione della ragione):

rapporto fra teoria e prassi

Le idee non fanno che esprimere la situazione storica, accettando di essere valutate solo in base alla loro aderenza al tempo in cui sorgono la storicità non è mera

condizionalità storica del pensiero, ma completa identificazione con la situazione il pensiero è prigioniero della

situazione, si esaurisce nella situazione stessa

la storicità, svuotando il pensiero di ciò che lo costituisce come pensiero (cioè il suo rapporto con la verità231) ne prepara e ne provoca la completa pragmatizzazione: dalla storicità 1) alla svalutazione dell’aspetto teorico del pensiero, 2) all’esagerazione del suo aspetto pratico, 3) allo strumentalismo o prassismo più radicale il pensiero privo di verità si

asservisce all’azione: si risolve nell’azione e si identifica con essa non c’è altra verità che l’efficienza:

la prassi esaurisce o lo scopo o l’essenza stessa della teoria

Tabella 8 – Pensiero, storia e ideologia

Lotman sperimenta sulla sua pelle gli effetti che può avere una razionalità portata all’estremo, soprattutto quando si sposa con un apparato tecno-politico votato all’“imperialismo” ideologico. Per questo motivo egli pone precipua attenzione all’impatto che questa distorsione storica – non la prima e non l’ultima del cammino dell’umanità – può avere sul sociale e al modo attraverso cui è possibile coralmente oltrepassarla.

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4. Dov’è il soggetto?

4.1 La semiosi sociale. L’uomo tra individualismo e collettivismo

Uno dei temi che Lotman sviluppa maggiormente negli ultimi anni è quello della semiosi sociale, ossia dei diversi modi attraverso cui l’uomo configura se stesso rispetto al collettivo umano, andando così a creare molteplici (ma non infinite) possibilità di strutture societarie. Questa tipologia di semiosi prende dunque vita dall’irriducibile antinomia fra l’io come totalità (l’io-individuo) e l’io come parte (l’io-umanità) e dà luogo ad una polarizzazione semantica che va dal massimo individualismo al massimo collettivismo. L’uno e il molteplice, nella loro conflittuale unitarietà, emergono qui come forme pre-semiotiche di apertura dell’uomo al senso232, ossia come una struttura archetipica della coscienza umana che diventa poi categoria interpretativa del mondo: una sorta di contraddizione originaria che, come vedremo ora, si condensa primariamente nello iato fra “proprio” e “altrui”233, innescando una serie infinita di denominazioni della differenza.

La riflessione lotmaniana su questo tema, come sviluppata ne I meccanismi impredittibili della cultura, va letta alla luce di quello che Lotman scrive, ne La cultura e l’esplosione, a proposito della particolare emergenza che differenzia l’uomo dal mondo animale (§ 1). Mentre infatti questo è legato alla dimensione del collettivo (un “io” che equivale al “noi”), l’uomo è legato all’emersione dell’individualità la quale si esprime attraverso i nomi propri234 e, dunque, al riconoscimento di una sostanziale irriducibilità tra il “proprio” e l’“altrui”; individualità che, tra l’altro, coincide con l’emersione della figura del soggetto in seno ai costrutti testuali narrativi235. Scrive Lotman: «È probabile che la più acuta manifestazione della natura umana sia l’uso dei nomi propri e l’evidenziazione, legata a tale uso, dell’individualità, dell’originalità della personalità singola come fondamento del suo valore per l’“altro” e gli “altri”. L’“io” e l’“altro”

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sono i due lati di un unico atto di autocoscienza e sono impossibili l’uno senza l’altro»236. Con la divisione del mondo in “proprio” e “altrui” – divisione operata nell’uomo sin dai primi istanti di vita attraverso i nomi propri237 – vengono poste «le fondamenta di quel confine della coscienza che si conserva come la dominante più importante della cultura. Così sorge il confine di senso che in seguito giocherà un ruolo fondamentale nella strutturazione sociale, culturale, cosmogonica, etica del mondo»238. Ecco dunque che quest’originaria differenza tra totalità e partitività, ossia tra “proprio” e “altrui”, non solo è costituiva della struttura antropologica dell’uomo ma diventa il principale serbatoio della semiosi sociale, polarità semantica attorno alla quale si addensano tutte quelle empasse ideologiche legate all’antinomia io-individuo vs io-umanità.

E veniamo ora a I meccanismi impredittibili della cultura, ove Lotman spiega precipuamente questa tesi, alla luce del concetto di “isomorfismo”. L’uomo, scrive il semiologo russo, si inserisce naturalmente nella dimensione del collettivo che, come detto pocanzi, implica una corrispondenza fra l’io e il noi, un essere-parte-di. Può accadere, tuttavia, che – specie nei momenti storici “esplosivi” – il collettivo degeneri nel collettivismo, ossia in una forma di aggregazione che schiaccia il singolo e lo dispone in un’organizzazione sociale simile a quella del branco, ove vige «l’unitarietà nell’ambito degli elementi significanti»239, vale a dire l’appiattimento e l’omogeneizzazione della semiosi culturale: l’io equivale al noi, chi non è con noi è contro di noi. Ma può accadere anche che il singolo si senta come un numero che, invece di rimanere un decimale, si sente ossessionato «dall’idea di diventare un intero»240, ossia dall’anelito di essere il “tutto” e di non abbisognare del sociale.

Cosa può garantire allora la coesione del noi e, al contempo, la distinzione dell’io in seno al rapporto io-altro? È, appunto, il principio isomorfico il quale, sottolinea Lotman, da un lato crea una corrispondenza dinamica fra il tutto e le parti e, dall’altro, ne mantiene la differenza. Tradotto in termini socio-semiotici, questo significa che

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l’uomo ha due modi di considerare se stesso rispetto al rapporto che intrattiene con il collettivo umano: come totalità (io-individuo) egli è in rapporto di somiglianza con l’umanità, essendo tuttavia assolutamente “altro” da essa; come parte (io-umanità), egli diventa collettivo, ossia si trova in rapporto di appartenenza e di particolarità.

Ne segue che la struttura sociale nella sua configurazione più generale e archetipica non è un tutto in quanto mera somma (branco o massa) delle sue parti (anonimi soggetti) ma è un’unità complessa che custodisce sia la dimensione della gregarietà, il “noi” – e in questo senso essa continua ad essere un’organizzazione di tipo collettivo, tipica del mondo arcaico e di quello animale – che quella dell’individualità. Solo in questo modo ogni singolo uomo può acquistare (per somiglianza) i tratti principali della famiglia umana – la coscienza, la responsabilità, la capacità di scelta, l’intera somma delle qualità etiche e dei peccati da essa compiuti241 – e, al contempo, non rimanere fuso e confuso con essa. Il principio isomorfico fa sì che tutti siano simili fra loro perché simili alla famiglia umana e, allo stesso tempo, distinti l’uno dall’altro perché particolari identità di questa identità condivisa. Per capire meglio questa dinamica ci viene in aiuto il concetto di “monade”, sviluppato da Lotman nel saggio “La cultura come soggetto e oggetto per se stessa” (1989). Sulla scorta dell’idea leibniziana di diversitas identitate compensata (§ 3.2.1), egli vede l’umanità come un insieme di monadi capaci (in coscienza) di diventare parti dell’intero e, allo stesso tempo, di preservare la loro particolarità242: la legge dell’isomorfismo che governa «le parti e l’intero, e le parti tra loro [ossia l’enorme organismo dell’umanità, la semiosfera], potrebbe essere pensata, richiamando l’immagine biblica della somiglianza dell’Uomo a Dio, come la più basilare unità presentata da milioni di versioni individuali rispetto alla suprema e unica essenza»243. Non si tratta di un’uguaglianza ma di un’immagine e somiglianza che preserva la sostanziale «infinita varietà delle monadi»244 e della loro individualità.

Scrive Lotman ne I meccanismi impredittibili della cultura: «(…) nessun “noi” o “loro” vero, realmente esistente, realmente umano, è

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composto di unità geometricamente, fisiologicamente, psicologicamente identiche. Il collettivo rappresenta sempre una sintesi complessa di affinità e diversità, è contemporaneamente “io” e “loro”. La perdita di uno qualsiasi di questi poli lo distrugge, trasformandolo o nell’unione casuale di particelle scollegate e incollegabili, o in una folla che soffoca l’“io” di ciascuno»245.

Ogni estremizzazione dei due poli io-individuo e io-umanità porta la semiosi sociale a una deviazione dalla sua natura, che è, come vedremo, ternaria e dà luogo ad un binarismo senza fine che va dal culto del singolo a quello della massa246. In questo Lotman rispecchia una certa riflessione politologica contemporanea che, in epoca post-ideologica, ha cercato di chiarire la genesi dei totalitarismi novecenteschi e, più in generale, del difficile cammino percorso dalla democrazia nel secolo breve247; come ha sottolineato A. M. Baggio, il modello individualista e quello collettivista si edificano su una concezione ben precisa di bene comune e di Stato.

Alla posizione individualista (…) si deve far notare che l’azione libera delle individualità produce ricchezza, ma non dà nessuna garanzia che essa sia un bene per tutti: poco alla volta, invece, si impone nella società il controllo economico dei più forti, che giunge a limitare le stesse condizioni di libertà e uguaglianza delle opportunità che costituiscono i presupposti dell’individualismo. Quanto al collettivismo, nella versione marxiana esso sosteneva che la classe operaia, lottando per la propria emancipazione, avrebbe emancipato anche tutto il resto della società: la classe operaia doveva dunque cercare di realizzare il proprio bene, che sarebbe coinciso, alla fine, col bene comune. Teniamo presente che la prospettiva collettivista permane anche quando le trasformazioni sociali non consentono più il discorso classista marxiano; essa si esprime, allora, in una adesione agli interessi delle categorie sociali più estese e più organizzate, in una accentuazione del ruolo dello Stato, in una spontanea diffidenza nei confronti della libera iniziativa. È evidente, in entrambe le posizioni, il tipico errore ideologico consistente nello scambiare il particolare (l’individuo, la classe)

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con l’universale (la società intera), nel decidere che è un bene di tutti quello che invece è forse il bene solo di una parte. (…) Marxismo e liberalismo, in modo opposto, minano l’idea di bene comune e di Stato: il primo assolutizza i conflitti, e dunque tra le classi sociali in lotta mortale non vi può essere niente in comune; il secondo nega che esistano i conflitti, e lascia che, in realtà, i conflitti vengano regolati, privatamente, dalla legge del più forte. 248

Anche Lotman pone l’accento sul fatto che, nella storia dell’umanità, i sistemi sociali si sono edificati sull’antitesi “io” o “noi”, cercando di fondere sempre uno dei due poli in un’ideale, irreale sintesi: o il soggetto perso in un ermafroditico “noi” che cancella le differenze o il sociale ridotto ad un soggettivismo impermeabile249. Disordini e ribellione, difatti – ammonisce Lotman in Universe of the Mind – emergono quando due metodi di codifica sociale entrano in conflitto: per esempio, nel caso in cui la struttura socio-semiotica descrive un individuo come una parte, quando invece la persona (non un individuo-oggetto generico) percepisce se stessa come un’unità autonoma, un soggetto semiotico250. Un caso estremo, continua Lotman, è avvenuto con Ivan il Terribile e con Stalin – interessante notare la simmetria!; è risaputo che quando un boiardo cadeva in disgrazia, lo zar trucidava lui e coloro che gli erano in qualche modo legati: non solo la famiglia ma anche i servitori e tutti gli abitanti del suo villaggio (il quale, a sua volta, veniva raso al suolo e ribattezzato con un altro nome). Imputare questa esecuzione collettiva alla mera crudeltà patologica dello zar, continua Lotman, ci distrae dal vero problema che sottostà a una pratica tanto efferata e sommaria: non possedendo uno proprio status individuale, la donna, il bambino, il servitore, il contadino, erano parte dell’unica persona del boiardo e, per questo motivo, parte della sua tragica sorte251. Nel periodo staliniano questa prassi si trasforma in una politica del sospetto252, ove la possibilità di codificare in modo differente la struttura socio-semiotica viene “ingegneristicamente” impedita: il collettivo deve uniformare (e ottenebrare) una « una «massa di anime morte, non più servi della gleba ma servi di un sistema disumano»253.

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L’imposizione di una polarizzazione sul “noi” o sull’“io” può avere, poi, delle gravi conseguenze sul processo storico di auto-descrizione culturale: se, come abbiamo detto pocanzi, l’atto di coscienza è sempre l’unità differenziata del “proprio” e dell’“altrui”, il binarismo non può che portare a un’autocoscienza polarizzata, parziale e totalizzante, auto-rispecchiante, ideologicamente costruita, che cerca di protrarsi nel tempo attraverso una discorsivizzazione dialettico-oppositiva: la necessità del nemico, scrive Baggio, «è tipica dell’ideologia (intesa nel senso negativo, di falsa coscienza, di pensiero totalitario – o espressivo, secondo la definizione di Pareyson – che ritiene di possedere tutta la verità), che si alimenta dello scontro perché priva di forza interiore, di vera identità: e non può avere un’identità autentica chi non conosce il proprio limite, chi pensa di essere tutto»254.

In questo senso, Lotman opta decisamente per una visione antinomica del rapporto io-alterità, ossia per un’unità che, sul piano della logica, sembra essere contraddittoria mentre su quello della vita è assolutamente coerente: è la vita stessa a mostrare all’uomo che le contraddizioni – come ad esempio il riconoscimento di un “io” che è contemporaneamente tutto e parte – non sono l’imperfezione di una coerenza logica astrattamente e idealmente raggiungibile ma costituiscono l’esperienza integrale della realtà, fatta appunto di contrari congiunti senza i quali essa rimarrebbe incompleta e depauperata. Non a caso Lotman, proprio parlando dei «processi che una logica rigorosa definisce “scorretti”»255, sottolinea che sono proprio quelli ad assicurare dinamismo alla realtà poiché, non essendo “logici”256 e dunque prevedibili, diventano fonte del «radicalmente nuovo»257, della vita stessa della semiosi: in questo caso, l’“altro” – ossia lo “scorretto”, il diverso – diventa nell’etica lotmaniana la principale risorsa della semiosi sociale, l’imprevedibile illogico scardinatore dell’assolutamente “io” o dell’assolutamente “noi”.

Per fondare quest’etica dell’alterità, Lotman attribuisce alla semiosi sociale un modello di funzionamento ternario, fondato sul principio isomorfico; egli prende ad esempio il dialogismo sessuale – già adottato

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nel saggio del 1983, “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (da un punto di vista semiotico)”, per spiegare i paradossi della comunicazione258 – poiché, come l’antinomia uno-molteplice, esso si profila come una forma pre-semiotica di apertura dell’uomo al senso, un’unità contraddittoria originaria dalla quale scaturiscono un’infinita serie di antitesi semantiche. Seguiamo Lotman: «Nel destino storico e biologico dell’umanità è insita una duplicità originaria: quella sessuale, riprodotta infinite volte in una lunga scala di opposizioni binarie. (…) La continuazione biologica della specie, proposta in potenza tramite la differenza tra i sessi, può realizzarsi soltanto se la differenza trapassa in una unità che sia in grado di produrre una struttura ternaria. Modello ideale della ternarietà è la Trinità Divina: essa si fonda sulla binarietà di materiale e spirituale, superata da una superiore unità, che dà forma a una ternarietà come pienezza assoluta»259. Pur con una certa inesattezza260, probabilmente Lotman – anche sulla scorta della riflessione monadologica (§ 3.2.1) – prende a modello la concezione leibniziana di Trinità261: il più perfetto esempio di unità nella molteplicità, ove le tre identità si custodiscono reciprocamente andando a essere una unitas plurimorum.

Subito dopo Lotman indica una seconda strada che può essere presa dalla binarietà: invece che verso l’unità integrale – un’unità che custodisce le differenze rendendole compiute nell’identità differenziata dell’uno – gli opposti si dirigono verso l’unità sintetica o quella che Lotman definisce «assolutizzazione dell’unità»262. In questo caso le differenze sono schiacciate dall’identità sovrastante dell’uno che tutto riassume in sé in modo ideale e drammaticamente astratto: e non è un caso che Lotman si riferisca alla «lunga serie di concezioni politiche che hanno presentato l’assolutismo, il dispotismo, l’autocrazia come ideale di società umana»263, con un chiaro riferimento all’hegelismo russo, declinatosi poi in totalitarismo. La semiosi del modello ternario prende vita dunque dalla differenza fra due poli che generano senso coesistendo non in modo oppositivo ma antinomico e, dunque, si arricchiscono l’uno del contrario dell’altro dando vita a una nuova

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integrale identità che si rispecchia a sua volta nelle identità particolari delle sue parti – parti che, lo ricordiamo, come la monade leibniziana, sono contemporaneamente interi.

La semiosi sociale diventa per Lotman il “pretesto” per denunciare tutte quelle empasse ideologiche che nella storia dell’umanità – dalla caccia alle streghe alla persecuzioni dei cosacchi fino allo stalinismo – hanno usato la guerra all’“altro” per cicatrizzare la paura che deriva dal non riconoscerlo e accettarlo.

Pur con valutazioni differenti da parte di filosofi diversi, il principio dell’antitesi resta immutabile: “noi” e “io” si contrappongono in quanto poli opposti e alternativi dell’etica umana. Ma la struttura costruita secondo questo modello è necessariamente incompleta: ridurre un modello da ternario a binario per natura comporta costi altissimi. Non a caso questo modello binario rigido si è rivelato così comodo per le manifestazioni di intolleranza e di emozioni sociali distruttive: la ben nota formula “chi non è con noi è contro di noi” riaffiora alla superficie ogni qual volta all’edificazione subentra la distruzione.264

Ai meccanismi semiotici delle passioni collettive (distruttive) sarà appunto dedicata la parte che segue.

4.2 Psicosi collettive e persecuzioni. Proprio nel tempo luminoso della Ragione migliaia di roghi annerirono i cieli d’Europa265

Le passioni collettive “esplosive” furono il pensiero fisso dell’ultimo Lotman. Alcuni lavori, rimasti incompiuti e inediti, lasciano intendere che il semiologo russo avrebbe probabilmente continuato ad approfondire questa tematica, incardinandola in un orizzonte più ampio: ossia alla luce dei “modelli” rivoluzionari e, in particolare, delle analogie fra la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione d’Ottobre.

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Non è un caso che Mihhail Lotman, proprio per sviluppare l’eredità del padre, abbia pubblicato una raccolta in estone dal titolo Hirm ja segadus (Paura e confusione), in cui sono contenuti tutti i saggi lotmaniani prendenti in esame la genesi semiotica delle psicosi collettive e della culturo- e omofobia.

In esso ritroviamo, in ordine cronologico: “Semiotica dei concetti di “vergogna” e “paura”” (1970)266, “L’ode di Lomonosov ispirata al libro di Giobbe” (1983)267, “Il progresso tecnico come problema culturologico” (1988)268, “Nella prospettiva della rivoluzione francese” (1989)269, “Sul ruolo dei fattori casuali nell’evoluzione letteraria” (1989)270, “Il meccanismo dei Torbidi. (Per una tipologia della cultura della storia russa)” (1992)271 – re-intitolato però da M. Lotman “Il meccanismo della confusione. (La storia della tipologia della cultura russa)”272 – “Volontà di Dio o gioco d’azzardo? Le leggi della storia e i processi casuali” (1992)273, “La caccia alle streghe. Semiotica della paura” (1998)274. A questi andrebbe ancora aggiunto un dattiloscritto inedito intitolato “Spiegazione del meccanismo delle emozioni di massa” (1987)275.

Per una più profonda comprensione della tematica che tanto stava a cuore a Lotman, si è scelto di tradurre dal russo quei saggi che, come si può evincere dalle note, non sono ancora presenti in edizione italiana, anglosassone e spagnola – e ai quali si farà riferimento nel presente paragrafo: “Nella prospettiva della rivoluzione francese” (1989), “Il meccanismo dei Torbidi” (1992), “Volontà di Dio o gioco d’azzardo? Le leggi della storia e i processi casuali” (1992); e ancora, “Ripetibilità e unicità nel meccanismo della cultura” (1992)276, non incluso in Hirm ja segadus ma utile per completare la trattazione del rapporto fra storia, “esplosività” e passioni collettive.

L’ultimo Lotman vede infatti nella psicologia delle masse un importante oggetto di studio per la comprensione della storia277, in special modo per quei periodi caratterizzati da dinamiche sociali vincolate alla paura. L’obiettivo dello storico potrebbe allora essere quello di costruire dei modelli delle passioni collettive “distruttive” e i relativi meccanismi di auto-propagazione.

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L’“oggetto della paura” si profila come un tema di ricerca particolarmente spinoso, soprattutto quando si tratta di una minaccia sconosciuta. Vi sono periodi storici, infatti, in cui la paura ha solide ragioni d’esistenza: la diffusione di un’epidemia, la guerra imminente, l’invasione dello straniero; ma ve ne sono altri in cui il sentimento di terrore si diffonde senza una causa reale: «in questa situazione sorgono destinatari mistificati, costruiti semioticamente: non è la minaccia che suscita paura, ma la paura che crea la minaccia. Oggetto della paura è una costruzione sociale, è la nascita di codici semiotici con l’aiuto dei quali il socium in questione codifica se stesso e il mondo che lo circonda»278.

A questo proposito, un costrutto culturale significativo è quello del complotto o della cospirazione che sorge quasi sempre in assenza di un pericolo oggettivo. Qui, secondo Lotman, la collettività tende a riesumare con un movimento all’indietro i modelli arcaici delle società segrete e a “manipolarli” attraverso la simbologia della propaganda, di modo da adattarli ogni volta a nuovi soggetti alieni279.

Su questo meccanismo, sempre ritornante nella storia dell’umanità, si focalizza “Il progresso tecnico come problema culturologico” (1988), saggio che si sposa con “La caccia alle streghe. Semiotica della paura” (1988-1989), con cui condivide peraltro alcuni frammenti sul tema della persecuzione xenofobica e della creazione culturale del capro espiatorio280.

Lotman, che è solito usare le analogie del passato per spiegare il presente281, vede nel Rinascimento un età-chiave per capire i meccanismi socio-semiotici che sottostanno la creazione del diverso in tempo di novità –ovvero tempo di crisi. L’avvento storico della Ragione si presenta come un periodo particolarmente contradditorio, carico di forze centrifughe e centripete che si trascinano fino alla fine del Settecento (investendo anche la Rivoluzione Francese). È un tempo infatti che vede l’espansione degli orizzonti geografici, con la scoperta di terre vergini e “selvagge”, e, al contempo, l’edificazione di nuovi confini politico-territoriali, con l’affermarsi della lingua nazionale; che assiste

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alla specializzazione delle scienze e dei metodi di ricerca e, contemporaneamente, alla frammentazione dell’universalismo medievale; che contempla «la fede ottimistica nell’onnipotenza del genio umano»282 e la diffusione incondizionata della paura isterica (in un male occulto che è sempre fuori-di-sé); che esalta la forza rischiarante del progresso tecnologico e scientifico e, al contempo, la “mitologia del pericolo” e del complotto283.

Il Rinascimento è il tempo delle utopie, della fiducia nella virtuosità umana284 ma anche di una trasformazione radicale, in chiave antropocentrica, del rapporto uomo-mondo. Scrive Lotman: «il culto della genialità umana aveva, tuttavia, un lato degradante: la natura era vista come un materiale grezzo o un territorio nemico, da conquistare e trasformare. Francis Bacon, nel suo utopistico scritto del 1626, La Nuova Atlantide, dipingeva una società ideale regolata dalla “Casa di Salomone”, un Ordine di filosofi, un’Accademia delle Scienze, per così dire. Il capo di questa “Casa” afferma: “Fine della nostra istituzione è la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo” (Bacon 1974: 288). Gli sforzi degli scienziati [furono] diretti a cambiare l’ordine naturale delle cose»285.

La manipolabilità del mondo si esprime soprattutto nella volontà di trasformare la dimensione dello spazio e del tempo. L’uomo rinascimentale si proietta tanto su una tela infinitamente (e illusoriamente) profonda286 quanto su una geografia che, con l’implementazione dei collegamenti e dei trasporti287, va contraendosi: lo spazio, in altre, non è più qualcosa di dato e di assoluto ma una proprietà da sfruttare. Allo stesso modo, l’assolutezza e l’imperscrutabilità del tempo medievale sembrano infrangersi dinanzi al suo desiderio di eliminare la casualità (e l’irrazionalità) dalla storia. Simbolo di questo sogno è l’orologio che, misurando e matematizzando il tempo, lo controlla e rende scandibili (e prevedibili) i comportamenti quotidiani.

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Paradossalmente, però, tale predicibilità è compromessa da un nuovo habitus “irrazionale” nato proprio in seno alla Ragione: l’opportunismo, ossia la convinzione che l’uomo, in quanto illimitatamente capace di imprimere la sua volontà sulle cose – ossia manipolarle – sia in grado di crearsi la fortuna288 (o cambiare l’ordine naturale delle cose), cioè trasformare la situazione in opportunità: il caso, per la Ragione, non esiste – o, meglio, è un’occasione da volgere a sé – e qualunque mezzo diventa lecito per “la realizzazione di ogni possibile obiettivo” (Bacon 1974: 288). La storia diventa, in questo modo, il dispiegamento della scaltrezza umana, in cammino verso rapporti sempre più “virtuosi” tra mezzi e utile289; ma è una storia per nulla prevedibile, tutta nelle mani di un Principe astuto che sembra giocare d’azzardo con gli avvenimenti.

È qui, secondo Lotman, che la sfera del linguaggio e della comunicazione subisce delle trasformazioni irrimediabili, complice la nascita della stampa e la produzione libraria290. La Parola medievale – pronunciata da Dio o da un suo portavoce (spirituale o secolare) – si umanizza e diviene “parola”, espressione ordinaria, soggettiva, arbitraria, non più scevra da ogni possibile ambiguità; diventa perciò chiaro, scrive Lotman, che essa «può ricevere differenti significati, dipendenti dalle intenzioni del parlante. La parola diventa astuta come la politica, individualmente significante. (…) La Parola con la “p” maiuscola, [ossia] l’unica, massimamente autorevole, trasparentemente referenziale Parola viene sostituita dalla parola comune e popolare. Diventa democratica ma perde la sua autorità e credibilità»291; e perdendo questi attributi, si fa scaltra e ingannevole. Il patto comunicazionale all’interno della piramide sociale viene in questo modo minato e il regime del sospetto si fa sempre più incalzante.

Da queste riflessioni Lotman ricava un’importante deduzione: la rivoluzione scientifica e tecnologica si accompagna sempre alla crisi sociale e allo scoppio di comportamenti irrazionali (profilandosi dunque come un problema culturologico). Si tratta, di nuovo, di un paradosso poiché la crescita della razionalità e dell’efficienza tecno-pragmatica

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dovrebbero indebolire le passioni collettive, anziché stimolarle292. Invece la novità293, venendo percepita come eccentrica, particolare, sconosciuta e non imbrigliabile, induce alla perdita d’orientamento e finisce per istigare la paura e la ricerca di un “altro” colpevole, di un capro espiatorio294 – nella “Semiotica dei concetti di “vergogna” e “paura”” (1970), Lotman aveva già sottolineato che «la paura e la coercizione definiscono il nostro rapporto con gli “altri”»295 e danno vita a delle precise figure dell’alterità (izgoj). Questo avviene attraverso un movimento all’indietro, ossia la riesumazione di modelli psicologici e culturali arcaici, ove lo sconosciuto è oscuro.

Il tessuto del razionalismo rinascimentale e poi illuminista è, infatti, cucito con il filo dell’irrazionale e dell’“altro” oscuro: le scienze sono accompagnate dall’esoterismo, la medicina dall’alchimia, la luce della Ragione dall’“epoca d’oro di Satana”296, il Principe da Faust e Dracula. Ma sopra ogni cosa si intesse il fenomeno della caccia alle streghe, una vera psicosi collettiva durata più di duecento anni (dalla fine del 1400 all’inizio del 1700) ed estesa in tutta Europa.

Nel 1983, nel saggio, “L’ode di Lomonosov ispirata al libro di Giobbe”, Lotman scriveva:

Il Rinascimento fu un fenomeno particolarmente complesso, come è apparso evidente nell’epoca barocca. Per certi aspetti esso ha preparato il “secolo della ragione”, per altri ha risvegliato violente ondate di irrazionalismo e di paura. Preparandosi al suo trionfo, la ragione ha spesso indossato la maschera di Mefistofele.297

[Ormai alla fine del Rinascimento] il secolo di Rubens, Rembrandt, Velasquez, Poussin, Boileau, Molière, Racine, Giordano Bruno, Descartes, Leibnitz (…) fu anche il secolo in cui, sotto la spinta del fanatismo e di un’atmosfera di terrore, le esecuzioni mostruose diventarono un fatto quotidiano.298

Ma che cosa accade precisamente in quei duecento anni di roghi e torture? La caccia alle streghe ha luogo in un periodo di lacerazioni di matrice politico-religiosa, che parlano di tutto fuorché di Dio: il conflitto

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cattolico-protestante inaugurato dalla Riforma (1517) e combattuto violentemente dall’Inquisizione della Controriforma (1555-1559), le Guerre di Religione (1562-1598), la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) – e si badi bene che il più alto momento di esplosione della paura si ha tra il 1575 e il 1625299 (!). A questo si va ad aggiungere la crisi legata al carattere secolare, “pagano” della cultura nascente: una cultura tecno-scientifica che semplicemente non ha più bisogno della fede. Scrive Lotman:

Machiavelli e Bodin crearono teorie dello Stato completamente secolari, senza posto per una divinità. Copernico e Galilei estromisero praticamente Dio dall’universo. Né le considerazioni religiose né quelle morali fermarono il papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia) quando, nel 1495, fece un accordo con il sultano turco Beyazit II, ricevendo 300.000 corone, per avvelenare il fratello e rivale del sultano, Cem (suo ospite). Gli umanisti bandirono Dio al fine di liberare lo spazio per l’uomo. Ma nella coscienza popolare questo spazio era occupato dal diavolo. Il XVI e il XVII secolo sono indicati dagli storici come l’“epoca d’oro di Satana” e ’“esplosione del satanismo”. Il panico raggiunse l’apice tra il 1575 e il 1625 (gli anni in cui Bacon scrisse Novum Organum e The Advancement of Learning, e Bodin scrisse De La Republique; gli anni di Giordano Bruno, Galileo, Shakespeare, Cervantes, e Rembrandt). La fede nella potenza del diavolo divenne ossessiva. (…) La paura del diavolo sembrava enfatizzare la tragica situazione dell’uomo del XVI secolo e produsse una valanga di scritti su Satana, le streghe e sulle loro malvagie macchinazioni.300

In altre parole, la frammentazione del nucleo culturale (Teocentrico) e la sua messa in crisi da parte del nuovo, inquietante sapere tecno-scientifico portano ad uno sradicamento del «modo abituale di vita»301 e alla ricerca del colpevole: quando la vita – precisa Lotman – perde le sue fondamenta, chiunque veste, pensa o prega in modo differente scatena la paura302 (tanto più se lo spazio del nucleo viene riempito con il segno opposto e diventa Fobocentrico).

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Tra la fine del 1400 e l’inizio del 1700 la xenofobia nei confronti delle minoranze religiose e razziali diventa una nevrosi collettiva. Questo è esponenzialmente vero per la donna, figura oscura che nel Rinascimento ha un ruolo sempre più attivo nella società303: per le masse confuse, basta così che ella mostri un comportamento insolito per diventare l’incarnazione del futuro regno di Satana304 ed essere messa al rogo; si tratta in genere di un comportamento legato alla sfera sessuale (la copulazione con Satana o la deprivazione “magica” della potenza virile) o alla sfera del tradimento sociale (congiura, complotto): tutto ciò che, insomma, può minare alla radice la sopravvivenza del collettivo “androcentrico”.

La donna è, in certo modo, come la scienza e la tecnologia: una novità, e ogni sua particolarità accende l’accusa. Difatti, scrive Lotman ne “La caccia alle streghe”, nelle cronache dei roghi

troviamo simili annotazioni: «bambina», «ragazzina sui 15 anni» e così via. Molto frequenti nella lista sono annotazioni quali “forestiera”, “forestiero”, “tre tessitori forestieri”, “vecchia forestiera”. Si ritrovano anche indicazioni relative ad handicap fisici: il 28° giorno è stata bruciata una ragazza cieca. Ma è pericoloso anche l’esatto contrario: nel ventesimo rogo morì Babelina Göbel, vicino al cui nome c’è questa annotazione: «la più bella giovane di Würzburg». Il quarto giorno è stata messa al rogo una levatrice, che si vestiva in modo troppo elegante. (…) Nella lista si trova spesso l’annotazione «donna grassa». (…) Viene così a delinearsi anche il volto dell’accusatore: si tratta dalla massa di medio livello, priva di tratti marcati, che prova paura, odio e invidia nei confronti di coloro che possiedono una qualche qualità che salta all’occhio.305

Si crea una situazione molto simile a quella che si verificherà negli anni dello Stalinismo. La paura genera una cultura del sospetto, che si erge su un meccanismo di accuse a catena, ove la sola denuncia basta a generare una scia di esecuzioni.

La paura e il sospetto creò un’atmosfera in cui la denuncia portava automaticamente al giudizio, mentre ogni nuovo rogo,

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da un lato, addensava il miasma della paura e, dall’altro, accresceva la tentazione di riempirsi velocemente le tasche a discapito della prossima vittima.306

Gli accusatori, scrive Lotman, diventano «vittime delle paure da loro stessi fomentate»307 e creano proprio quel clima di tradimento sociale che intendono scongiurare: il tutti contro tutti distrugge alle fondamenta la collettività e il concetto stesso di bene comune, dando luogo a fratture che non saranno più riparate308 (fra uomo e donna, fra cristiano e musulmano/ebreo, fra cattolico e protestante, e via dicendo).

L’epidemia della caccia alle streghe è, insomma, un fenomeno culturologico esemplare per Lotman, e non solo perché, con tratti diversi, si ripete continuamente nella storia, ma anche perché cela un altro importante meccanismo psicologico collettivo – oltre a quello, già visto, della correlazione fra innovazione tecno-scientifica e metamorfosi sociale.

La paura per il Male ha luogo nel periodo di fondazione del razionalismo, che prepara il terreno alla definitiva auto-esaltazione della Ragione (Positivismo). Quando, tra la seconda metà del XVII secolo e l'inizio del XVIII secolo, la paura in Europa si dissolve309 e il clima psicologico si converte in entusiasmo, «ciò che solo ieri sembrava possibile e naturale appare impossibile e incomprensibile»310: per coerenza, il risveglio311 e il rischiaramento della ragione fanno sì che la storia perda la «connessione psicologica con il recente passato [dissociandosi] cronologicamente da esso, [e] spingendolo più in là nel tempo»312. Con un movimento all’indietro, la cronaca illuminista e poi positivista finisce così per imputare all’Inquisizione medievale lo sterminio di streghe e indovini, nonché di ebrei e musulmani. Ma è proprio tra la fine del 1400 e l’inizio del 1700 che si verifica un’“amnesia” della tradizione giudiziaria cresciuta nel Medioevo, attraverso la semplificazione delle procedure legali, la cancellazione delle norme di difesa e l’annullamento di tutte le limitazioni all’uso della tortura: «il famoso umanista Jean Bodin scrisse: “Non una strega su un

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milione sarebbe punita se la procedura fosse governata da leggi ordinarie; il sospetto è un motivo sufficiente per la tortura poiché le voci non nascono mai dal nulla»313.

La storia, in altre parole – ed è questo che affascina e inquieta Lotman – subisce continue distorsioni ad opera di un intelletto collettivo che, per essere coerente con se stesso, non può ammettere di avere paura, e proietta pertanto fuori di sé le sue cesure.

5. Memoria, testo e testualità, pluri-semiosfera

Abbiamo visto con le psicosi collettive quanto importante sia il ruolo della memoria nella cultura: un meccanismo che ricorda, distorce, riesuma, dimentica, getta luce sui fatti storici.

La memoria vive all’interno di una contraddizione: è tanto più unitaria, quanto più è articolata (ossia poliglotta); è tanto più efficiente, quanto più è complessa. Paradossalmente, per conservarsi, deve trasformarsi; per crescere, deve individualizzarsi e intrecciarsi con altre memorie.

Come avevamo già puntualizzato nel saggio del 1983, “L’asimmetria e il dialogo” (figura 2), essa è assicurata, per un verso, dalla presenza di testi “canonici” e dall’unità e invarianza di certi codici linguistici, e, per l’altro, dal carattere ininterrotto e regolare dell’interferenza semantica fra testi codificati. Ne “La memoria della cultura” (1986) Lotman la definisce linguaggio comune o profondità diacronica dei diversi linguaggi che attraversano la cultura e suoi sistemi comunicativi: da questo rapporto discende l’equivalenza secondo cui, «quanto più è complesso un linguaggio, [ossia] quanto più si rivela efficace per la trasmissione e la produzione di informazione complessa, tanta maggiore è la profondità che deve possedere la sua memoria. La memoria profonda è garantita dalla presenza di elementi linguistici che, in primo luogo, sono soggetti a modifiche (…), e, in secondo luogo,

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hanno la capacità di conservarsi nel sistema tanto nella sua invarianza quanto nella molteplicità delle sue realizzazioni»314.

La memoria non va vista come un deposito informativo ordinato – simile, scrive il Nostro ne “La memoria alla luce della culturologia” (1985), a una biblioteca315 – ma come una sorta di caleidoscopio composto di frammenti testuali che si illuminano316 e si richiamano, riflettendosi317; come un fusto attraversato da crescite multiple e relazioni rizomatiche, ove l’incontro con il diverso culturale accelera esponenzialmente la dinamica mnemonico-creativa318.

Sempre nel saggio del ’85, la memoria assume i caratteri del glocal: è il linguaggio comune (globale) della cultura ma, essendo anche parte delle «semantiche locali»319 delle sub-culture, si profila come un linguaggio particolare, in una condizione di continua trasformazione e traduzione. Da qui, ancora, Lotman distingue la “memoria informativa” dalla “memoria creativa” (e creatrice): la prima è, in certo modo, la conoscenza condivisa, risultato di un percorso collettivo di acquisizione d’informazione – la tecnologia ne è l’esempio paradigmatico: l’ultimo taglio cronologico è il più rappresentativo poiché porta alla luce la quantità d’innovazione prodotta e accumulata; la seconda è la conoscenza culturale pancronica320, ove l’antico e il nuovo, il rimosso e il ricordo convivono sincronicamente in forma di testi, realizzati e in potenza. Per la cultura, la “memoria creativa” rappresenta il motore dell’imprevedibilità perché, grazie a inaspettate ritornanze testuali, fa comparire nuovi testi «“Come una illegittima cometa / Nel cielo sgombro di astri (Puškin)»321. Lotman fa qui riferimento all’arte ma, più in generale (come si può evincere da alcuni saggi del 1987322) al simbolo (artistico, religioso, sacro-archetipo, mitologico, ecc.): quel testo, concluso in se stesso, «che può essere facilmente astratto dall’ambiente semiotico e con altrettanta facilità può essere fatto rientrare in un altro ambiente testuale. A ciò si ricollega un suo tratto essenziale: il simbolo non appartiene mai a un taglio sincronico della cultura, ma attraversa sempre questo taglio in verticale, giungendo dal passato e uscendo nel futuro. La memoria del simbolo è sempre più antica della memoria del

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suo ambiente testuale non simbolico»323. Essendo transtemporale e transpaziale, il simbolo è un vero e proprio «unificatore della cultura»324, una sorta di sua identità originaria, che sempre riemerge nella forma della reminiscenza. Questa impressione di ricordo, secondo Lotman, è legata al fatto che «la sua sostanza invariante [la sua indipendenza semantica e strutturale] si realizza in diverse varianti»325, in stretta correlazione con il contesto nel quale riemerge. Il simbolo è la memoria pulsante e creatrice della cultura, una sua riserva di senso, di continuità e di unità.

Vediamo come nell’ultimo Lotman la semiosfera acquisti progressivamente una dimensione volumetrica e si profili come uno spazio brulicante di macro- e micro-testi che si richiamano, si rispecchiano, si diversificano esponenzialmente e affondano le loro radici tanto nel più lontano e arcaico passato quanto nel più inimmaginabile e imprevedibile futuro. Essi, scrive il semiologo russo nel saggio del 1992 “Il testo e il poliglottismo della cultura”, sono come i semi delle piante, «capaci di conservare e riprodurre il ricordo delle strutture precedenti»326 e di generare un torrente di informazioni327, la vita culturale.

1 Prigogine viene naturalizzato belga dopo essere fuggito da Mosca insieme alla famiglia, a causa della rivoluzione bolscevica (per questo motivo le sue opere sono originariamente in francese).

2 I. Prigogine, I. Stengers, Porjadok iz chaosa. Novyj dialog čeloveka s prirodoj [L’ordine dal caos. Il nuovo dialogo dell’individuo con la natura], Progress, Mosca, 1986. Ritroviamo questa informazione alla nota 13 di “Sobre el papel de los factores casuales en la evolución literaria” (1989), Discurso. Revista Internacional de semiótica i teoría literaria, 8/1993, p. 101. Viene sottolineato infatti che Lotman dovette riscrivere questo saggio – scritto nel 1985 per il Seminario Semiotico dell’Università di Tartu – dopo aver scoperto l’anno successivo (1986) l’opera di Prigogine.

3 I. Prigogine, Ot sushchestvuiushchego k voznikaiushchemu: Vremoa i slozhnost’ v fizicheskij naukaj [Dall’essere al divenire. Tempo e complessità nelle scienze fisiche], Nauka, Mosca, 1985. In edizione italiana lo troviamo

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come Dall'essere al divenire. Tempo e complessità nelle scienze fisiche, Einaudi, Torino, 1986. In edizione inglese come From Being to Becoming: Time and Complexity in the Physical Sciences, W. H. Freeman, San Francisco 1980. Testo citato da Lotman in: “Clío en la encrucijada” (1992), in La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998, p. 253.

4 I. Prigogine, I. Stengers, Porjadok iz chaosa. Novyj dialog čeloveka s prirodoj [L’ordine dal caos. Il nuovo dialogo dell’individuo con la natura], Progress, Mosca, 1986. Il testo originale è in lingua francese, con il titolo: La nouvelle alliance: métamorphose de la science (1979), Gallimard, Paris. In edizione italiana lo troviamo come La nuova alleanza. Uomo e natura in una scienza unificata (1981), Einaudi, Torino. In edizione inglese come Order out of chaos: man's new dialogue with nature (1984), Bantam Books, Toronto – New York.

Testo citato da Lotman in: “L’architettura nel contesto della cultura” (1987), in Il girotondo delle Muse. Saggi sulla semiotica delle arti e della rappresentazione, op. cit., p. 42; Universe of the Mind. A Semiotic Theory of the Mind, I.B. Tauris & Co Ltd, p. 230; “Sobre el papel de los factores casuales en la historia de la cultura” (1992), La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996, p. 246; “Clío en la encrucijada” (1992), in La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998, p. 252.

5 I. Prigogine, I. Stengers, Entre le temps et l'éternité (1988), Fayard, Paris. Si tratta di un approfondimento de La nouvelle alliance. In edizione italiana lo troviamo come Tra il tempo e l'eternità (1989), Einaudi, Torino. Non esiste invece in edizione russa e inglese. Testo citato da Lotman in: “Sobre el papel de los factores casuales en la evolución literaria” (1989), Discurso. Revista Internacional de semiótica i teoría literaria, 8/1993, p. 101; Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., 35.

6 Nella prospettiva della fisica classica l’evoluzione del mondo e la conseguente corruzione della materia sarebbero solamente apparenti.

7 La cibernetica fa dell’entropia un concetto metafisico, simbolo della corruzione imperante nella seconda guerra mondiale. Lo stesso avviene in Lotman, ove il contrario della cultura è proprio l’entropia.

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8 I. Prigogine, I. Stengers, 1981: 127, cit. in L. Tampellini, recensione a I.

Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino, 1981, in DISF online.

9 N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Vol. III. Ottocento e Novecento, Paravia, Torino, 1992, p. 276.

10 Fenomeno che porta a un decremento del livello di entropia (e di probabilità). Tra l’altro, è proprio in queste condizioni che si assiste al comportamento del sistema nei termini di un tutto interrelato – Prigogine parla di una «globale situazione di non-equilibrio» – (Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino, 1999, p. 148).

11 Scrivono Prigogine e Stengers: «come spiegare la transizione da una storia di tipo “chimico”, in cui si sintetizzano delle molecole individuali, a una storia “biologica”, in cui queste diverse sintesi divengono interdipendenti, in cui le molecole non sono più soltanto delle strutture complesse particolari, ma degli attori la cui esistenza rinvia all’attività di altri attori e la cui attività è necessaria all’esistenza di questi? Come passare dall’idea di “condizioni generali di sintesi”, del tipo di quelle che i chimici manipolano, a quella di “informazione”, a quella di “messaggio” che una molecola rappresenta per altre molecole? In che modo biomolecole differenti hanno assunto un senso le une rispetto alle altre?», e ancora: «l’irreversibilità (…) si inscrive nella materia. Come può inscriversi in modo tale che le strutture che essa crea siano capaci di divenire attrici di un’altra storia?», I. Prigogine, I. Stengers, Tra il tempo e l’eternità, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pp. 84-85.

12 Secondo Bocchi e Ceruti, «il contributo di Ilya Progogine allo studio del problema del tempo ha sconvolto l’assetto e le immagini acquisite dalla fisica classica e ha tolto le ragioni di ogni separazione radicale fra scienza e tempo. Oggi, ci dice Prigogine, l’irreversibilità non può più essere rifiutata come apparenza, non è più un’illusione e non può quindi essere più ricondotta alla nostra ignoranza. Al tempo illusione (secondo un’espressione di Einstein) della meccanica e al tempo della degradazione della termodinamica classica, si aggiunge oggi la possibilità di concepire un tempo della creazione il cui simbolo sono le instabilità dei sistemi che possono passare da una struttura all’altra proprio per il fatto che sono instabili», G. Bocchi e M. Ceruti, “Presentazione” di La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, pp. XXIX-XXX.

13 Sintetizza Tanzella-Nitti: «Lo studio dell’evoluzione dei sistemi termodinamici lontano dalle soluzioni di equilibrio consente di descrivere l’emergenza di strutture organizzate, morfologicamente più ricche e complesse rispetto a

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quanto mostrato dal sistema di partenza. Le “soluzioni di non equilibrio”, possibili attorno ai “punti di biforcazione” di un sistema, che sono anche quelli maggiormente “indicibili” e dunque trattabili solo probabilisticamente (…), descrivono proprio la dimensione “evolutiva” o di “sviluppo creativo” del sistema. Le soluzioni di equilibrio, invece, che si danno lontano dalle biforcazioni (…) ricondurrebbero il sistema nella fenomenologia predicibile e deterministica rappresentata dalle sue leggi note», G. Tanzella-Nitti, “Leggi naturali”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, pp. 796-797.

14 «Più facilmente associate alla descrizione dei sistemi di equilibrio, alle soluzioni stabili, agli sviluppi predicibili, le leggi naturali rimanderebbero alla nozione di legame e di eterna ricorrenza, mentre l’idea di emergenza o di complessità rinvierebbero alla nozione di creatività o, perfino, di libertà», Ivi, p. 797.

15 Come cornici filosofiche maggiormente adeguate egli cita l’opera di M. Heidegger, Essere e tempo (1927) e La scienza e il mondo moderno, A. N. Whitehead – citata anche da Vernadskij – (Ibidem).

16 Tanzella-Nitti non manca di rilevare una forte criticità nella visione di Prigogine: il chimico russo infatti tenderebbe a creare un’equivalenza riduzionistica fra le leggi naturali e il determinismo e fra il principio di legalità (ossia le regolarità riscontrate in natura) e il fissismo, attribuendo così alla sola termodinamica di non equilibrio la capacità di generare novità e ricchezza nell’universo (Ivi, pp. 797-798).

17 Concetti che, abbiamo appena visto, implicano a loro volta le nozioni di legge naturale e processo evolutivo.

18 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità (Kul’tura i vzryv, Moskva 1993), op. cit., p. 18.

19 M. Lotman, “Summary”, in Izbrannye stat’i v trech tomach, III., Aleksandra, Tallinn, 1993, p. 484.

20 Ibidem. 21 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p.

27. 22 Ivi, p. 18. 23 Anche se i media studies hanno in realtà dimostrato come, nel campo

dell’innovazione tecnologica, si evidenzino degli eventi discontinui che portano ad un radicale cambiamento del sistema.

24 Ivi, p. 158. 25 Ibidem.

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26 V. Mancuso, “Pavel Florenskij. Il pensiero contro l’ideologia”, in La

Repubblica, 29 Maggio 2010, p. 40. 27 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 81. 28 Di qui la simbologia primordiale dell’Uroboro, la figura mitica del serpente

circolare che si morde la coda, ossia l’archetipo primordiale dell’indistinto (E. Neumann, La grande madre (fenomenologia delle configurazioni femminili dell'inconscio), Astrolabio, Roma, 1981, pp. 50-21).

29 J. Lotman, “Letteratura e mitologia”, art. cit., pp. 204-205. 30 Questo passaggio è mirabilmente spiegato da Hans Urs von Balthasar nel

capitolo “Passaggio alla filosofia”, Gloria. Una estetica teologica, IV volume. Nello spazio della metafisica: l’antichità, Jaca Book, Milano, 1971.

Si veda anche Origine e senso della storia di Karl Jaspers, in particolare il concetto di “epoca assiale” (K. Jaspers, Origine e senso della storia, Edizioni di Comunità, Milano, 1965).

31 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 42. «L'uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell'universo su di lui; l'universo invece non ne sa niente. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensare bene: questo è il principio della morale», Les Pensées, 1669, fr. 347 (B. Pascal, Pensieri, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1994).

32 Questa posizione è presente anche in Pierre Francastel, secondo il quale «il mito è parola e modo di conoscenza finché né tempo né spazio sono considerate cause di una distinzione fondamentale tra gli esseri e le cose. Per il pensiero mitico la vita circola eternamente nell’universo stabilendo fra gli esseri cicli di passaggio. Il pensiero mitico presuppone la fede assoluta nel principio d’identità, nonché nell’importanza fondamentale della vita genetica degli esseri umani e nella sua identità con la vita del mondo. Nel pensiero mitico lo spazio è poco differenziato. Può essere una forza a disposizione dei totem, un insieme di zone di valore affettivo, un aggregato di luoghi la cui unità è messa a dura prova dalla presenza corporea. È qualitativo e discontinuo; ampio e stretto successivamente e quasi simultaneamente: relativo ai bisogni affettivi del soggetto o della comunità. I suoi diversi elementi si giustappongono senza difficoltà poiché si crede nello

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svolgimento continuo della vita, fonte unica d’azione e conoscenza. Inoltre i fenomeni della natura e quelli della vita individuale e sociale sono integrati e hanno solo valore d’inizio rispetto alla realtà unica, la forza vitale. Anche il tempo si dissolve: essendo ogni individuo un momento della vita, il tempo non ha origini e la sua evocazione è legata ad un rituale che integra nella spazialità certi atti-tipo della vita umana e della società. Il legame del tempo e dello spazio si attua così in funzione delle costruzioni sociali ed affettive, al di fuori della storia, al si fuori dell’oggetto. (…) Non si tratta di un pensiero vago, ma di un pensiero concreto che si muove sul piano sensibile. Il linguaggio mitico consente agli uomini di esprimere e valorizzare gli atti in cui si esprime la loro affettività e la loro potenza», P. Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, Mimesis, Milano 2005, pp. 72-74.

33 Scrivono Prigogine e Stengers: «conosciamo (…) l’importanza che aveva nell’antichità l’idea di un tempo circolare, che ritorna periodicamente alle sue origini. Ma lo stesso esterno ritorno è segnato dalla freccia del tempo, come il ritmo delle stagioni, o quello delle generazioni umane. Nessuna speculazione, nessun sapere ha mai affermato l’equivalenza tra ciò che si fa e ciò che si disfa, tra una pianta che cresce, fiorisce e muore, e una pianta che rinasce, ringiovanisce e ritorna al suo seme primitivo, tra un uomo che matura e impara, e un uomo che diventa progressivamente fanciullo, poi embrione, poi cellula», I. Prigogine, I. Stengers, Tra il tempo e l’eternità, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 27.

34 Tra l’altro questo fenomeno, come abbiamo visto in precedenza (cap. 3, § 5.1), si lega imprescindibilmente all’attività del cervello umano: «(…) è evidente che l’influenza reciproca fra la coscienza ciclica continua e quella lineare discreta si ritrova in tutto il corso della cultura umana e costituisce una particolarità dell’attività mentale degli uomini. L’influenza reciproca fra il pensiero mitologico e quello logico e la loro convergenza nella sfera dell’arte è così un fenomeno sempre presente nella cultura umana», J. Lotman, “Letteratura e mitologia”, p. 209.

35 La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 43. 36 E specifica Lotman: «(…) non a caso l’incarnazione ideale dell’arte sono per

Platone “gli antichi sacri cori”. Il coro chiuso – simbolo della ripetizione ciclica nella natura – diviene per Platone l’ideale incarnazione dell’arte», J. Lotman, Ibidem.

37 Ibidem. 38 Ivi, p. 200.

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39 Si veda anche I. Lotman, “Los mecanismos de los procesos dinámicos en la

cultura” (Caracas 1992), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 5(2005).

40 Ivi, p. 79. 41 Ivi, p. 80. 42 J. Lotman, “Valore modellizzante dei concetti di “fine” e “inizio”” (O

modelirujuščem značenii ponjatij ‘konca’ i ‘načala’ v chudožestvennych tekstach, Tartu 1970) in Tipologia della cultura, op. cit. (una prima edizione italiana era uscita nel 1973 con il titolo “Funzione modellizzante dei concetti di “fine” e “inizio””, in Il verri, 2, pp. 25-31). Lotman parla della tipologizzazione culturale di “fine” e “inizio” anche nell’Introduzione (1970) a Tipologia della cultura, pp. 31-32.

43 J. Lotman, “Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX”, art. cit.

44 Scrive Lotman sempre nel 1970: «La cultura esclude costantemente d sé determinati testi. (…) La storia della distruzione dei testi e della eliminazione da essi delle riserve della memoria collettiva procede parallelamente alla storia della creazione di nuovi testi. (…) La cultura per sua natura è diretta contro la dimenticanza, essa la supera trasformandola in uno dei meccanismi della memoria. (…) Conviene tener presente che una delle forme più aspre della lotta culturale consiste nella esigenza assoluta di “dimenticare” determinati aspetti dell’esperienza storica precedente. Le epoche di regresso storico (…) nell’imporre alla collettività schemi di storia estremamente mitologizzati, esigono in ultima analisi dalla società la dimenticanza dei testi che non si assoggettano alla loro organizzazione. (…) il tramonto sociale (…) andrà di pari passo di regola con una cristallizzazione del meccanismo della memoria collettiva e una crescente tendenza verso il restringimento del suo volume», J. Lotman, “Sul meccanismo semiotico della cultura”, art. cit. pp. 70-71. E ancora, scrive Lotman in “Introduzione” alla raccolta italiana Tipologia della cultura: «La storia intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi. L’origine della storia (e, prima ancora del mito) come un determinato tipo di coscienza è una forma di memoria collettiva», J. Lotman, “Introduzione” a Tipologia della cultura, op. cit. p. 31.

45 Il più antico stato organizzato slavo-orientale. Per un’ulteriore riflessione sull’identità della cultura russa nel suo tempo aurorale si veda, sempre di

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Lotman, il saggio “L’opposizione “onore-gloria” nei testi profani del periodo di Kiev del Medioevo russo” (Ob oppozicii “čest” – “slava” v svetskich tekstach kievskogo perioda, Tartu 1967), in Tipologia della cultura, op. cit.

46 J. Lotman, “L’opposizione “onore-gloria” nei testi profani del periodo di Kiev del Medioevo russo”, art. cit., p. 136.

47 E continua Lotman, richiamando certe riflessioni di René Girard: «Perciò gli Stati che hanno un inizio (leggende sui fondatori) si contrappongono a quelli che ne sono privi, come esistenti politicamente a inesistenti: esistono politicamente quelli che possono invocare un antenato», J. Lotman, “L’opposizione “onore-gloria” nei testi profani del periodo di Kiev del Medioevo russo”, art. cit., pp. 136-137.

48 J. Lotman, “Valore modellizzante dei concetti di “fine” e “inizio””, art. cit., pp. 138-139. I modelli ciclici, come abbiamo visto, tornano sì all’origine ma a seguito di un movimento iterativo, che non implica l’atto di coscienza e di volontà di un ritorno all’“età dell’oro”. Rispetto a questa posizione Lotman sembra però contraddirsi vent’anni dopo in Universe of the Mind, ove inserisce i racconti mitologici (ossia ciclici) nella tipologia dei sistemi storico-narrativi che marcano l’inizio: «Il racconto storico e i romanzi che ad esso vengono associati sono soggetti alla successione causale e temporale e sono pertanto orientati alla fine. Il significato strutturale principale si concentra alla fine del testo. La domanda “Come andò a finire?” è tipica della nostra percezione tanto dei episodi storici che di quelli romanzeschi. I testi mitologici che raccontato gli atti della creazione e di fondatori leggendari sono orientati all’inizio. Lo evinciamo non solo dalla persistente domanda “Da dove ebbe origine?” ma anche dalla marcatezza dell’incipit nel testo e dalla sommesso ruolo della fine», J. Lotman, Universe of the Mind. A Semiotic Theory of culture, op. cit., p. 240. Tra l’altro per Lotman, il passaggio dalla cultura “ciclica” a quella “lineare” si profila altresì come un problema di carattere testuale: quanto più semiosfere o mondi culturali autonomi tendono a fecondarsi testualmente, tanto più i cammini che essi prendono si rivelano imprevedibili, ossia non soggetti alle leggi dell’iterazione e della staticità. Scrive Lotman: «Le culture arcaiche ben stabilizzate possono restare per un tempo molto lungo in una condizione di chiusura ciclica e di immobilità bilanciata. L’inserimento nella loro sfera di testi esterni mette in moto il meccanismo di auto sviluppo. Quanto maggiore è il divario e quindi la difficoltà di decifrare i testi inseriti dall’esterno attraverso i codici del ceppo testuale “madre”, tanto più

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dinamica è la situazione alla quale è condotta la cultura nel suo insieme», J. Lotman, “Il testo nel testo”, art. cit. p. 256.

49 J. Lotman, “Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX”, art. cit.

50 L. Gancikoff, “L’Hegelismo in Russia”, in A. Gemelli et al., Hegel nel centenario della sua morte, Rivista di filosofia neo-scolastica (supplemento speciale al volume XXIII, dicembre 1932), Società Editrice “Vita e Pensiero”, Milano, 1932, p. 166.

51 Vediamo meglio in cosa consiste questa lacerazione. Spiega Lotman a proposito: «L’illuminismo europeo del secolo XVIII fu uno dei sistemi più potenti della cultura dell’età moderna. Esso, peraltro, in quanto distruggeva la sintagmatica, creava il quadro di un mondo frammentato, e di un mondo assurdo, in quanto si metteva contro la semantica» (J. Lotman, “Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX”, art. cit., p. 59). Per capire questo passaggio, dobbiamo far riferimento all’intero saggio: il semiologo russo sottolinea, poche pagine prima, come semantica e sintagmatica fossero un tipo di organizzazione segnica che aveva caratterizzato rispettivamente la Russia medievale e quella chiesastico-teocratica e assolutistica dei secoli XVI-XVII. Tutta la produzione semiotica della Rus’ di Kiev (o medievale) si basa infatti – scrive Lotman – su un’unica opposizione semantica fondamentale profonda: Virtù-Peccato. Da lì, scaturiscono una serie di opposizioni semantiche (come cielo-terra, eterno-temporale, salvezza-rovina, bene-peccato) che vanno poi a mettersi-in-espressione e a formare un complesso unitario di segni (sintagma): l’espressione però rimane solo un’impronta della semantica, cui spetta il primato: il senso profondo della realtà è sempre uno, incommensurabile e indivisibile e fa sì che la realtà stessa sia, agli occhi dei medievali russi, un tutto simbolico. All’opposto si trova la Russia centralizzata dei secoli XVI-XVII. Qui è al piano dell’espressione che spetta il primato. Seguiamo Lotman: «Il significato simbolico degli avvenimenti e dei fenomeni viene respinto: il mondo vive non nel rapporto tra due piani (l’essenza e l’espressione), ma su un solo piano: chiesastico o statuale. (…) Il passaggio a questo sistema è visto come una liberazione dall’annebbiamento medievale, come la riabilitazione dell’attività pratica. I simboli provocano irritazione: Pietro I distrugge consapevolmente la ritualistica medievale di corte degli zar moscoviti (…). La struttura semantica viene sostituita da quella sintagmatica. Il significato di un uomo o di un fenomeno è determinato non dal suo rapporto con le

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essenze di un altro piano, ma dal suo inserimento in un piano determinato. L’appartenenza a un tutto diventa contrassegno di significanza culturale: esistere significa essere parte. Il tutto ha un valore non in quanto è simbolo di qualcosa di più profondo, ma per sé stesso, cioè in quanto è chiesa, stato, patria, ceto» (J. Lotman, “Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX”, art. cit., pp. 51-52). Ciò che dunque accade nella Russia illuminista è il disconoscimento sia della semanticità del reale che del suo ordine sintagmatico, e per questo appare assurdo (senza significato) e frammento (senza ordine e collegamenti). Sempre in questo saggio, Lotman scrive a proposito della negazione del carattere segnico della cultura: «Nei momenti di crisi storica, quando gli istituti sociali sono screditati e l’idea stessa di società è intesa come sinonimo di oppressione, nasce un sistema di cultura caratterizzato dalla tendenza alla desemiotizzazione. Nella cultura europea dell’età moderna, compresa quella russa, a esprimere in modo più completo questo codice fu l’illuminismo. A differenza della struttura semantico-simbolica del medioevo, l’illuminismo partiva dall’idea che fossero dotate di maggior valore le cose reali che non possono essere usate come segni: non i soldi, le uniformi, i gradi o le reputazioni, bensì il pane, l’acqua, la vita, l’amore. A differenza del codice sintagmatico dell’epoca assolutistica, l’illuminismo partiva dall’idea che la massima realtà fosse posseduta da ciò che non è parte: non dalla frazione ma dal tutto. Esiste ciò che esiste separatamente. (…) L’illuminista non aspirava a inserirsi nella maggioranza, poiché era convinto che tutte le autentiche proprietà e necessità dell’uomo fossero già racchiuse in lui come dati antropologici. Qualsiasi aggiunta significava alterazione, menzogna, pregiudizio. (…) distruggendo i segni delle culture precedenti, l’illuminismo crea i segni della distruzione dei segni. (…) l’illuminismo invita ad abbandonare le chimere del mondo segnico e a tornare alla realtà della vita naturale, non deformata dalle “parole”. L’essenza delle cose è contrapposta ai segni come il reale al fantastico» (Ivi, pp. 54-58-59). Un’ulteriore specificazione di quest’ultima riflessione sull’Illuminismo russo ci arriva da un saggio di sei anni prima, “L’opposizione “onore-gloria” nei testi profani del periodo di Kiev del Medioevo russo” (1967): «(…) la concezione dell’illuminista era (…) l’aspirazione a costruire un modello del mondo con le sue essenze prese direttamente. Il ritorno alla naturalezza, alla Natura, era connesso a un atteggiamento negativo verso tutte le forme di segnicità. (…) Equiparando la desemiotizzazione alla liberazione dell’uomo dalle catene sociali, l’Illuminismo assumeva un atteggiamento decisamente negativo verso i concetti puramente segnici, dietro i quali non avvertiva il

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“dato” di natura» (J. Lotman, “L’opposizione “onore-gloria” nei testi profani del periodo di Kiev del Medioevo russo”, art. cit., p. 267).

52 La realtà, per Hegel, è un Soggetto spirituale in divenire che prende il nome di Idea o Ragione. La razionalità hegeliana, dunque, è molto diversa dal razionalismo illuminista, fondato sull’intelletto finito del singolo individuo che si pone di fronte alla realtà e alla storia (l’infinito) con le sue astrazioni e i suoi giudizi parziali.

53 «L’illuminista (…) era convinto che tutte le autentiche proprietà e necessità dell’uomo fossero già racchiuse in lui come dati antropologici. Qualsiasi aggiunta significava alterazione, menzogna, pregiudizio», J. Lotman, “Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX”, art. cit., p. 58.

54 In un saggio del 1989, “La cultura come oggetto e come soggetto per se stessa”, Lotman sottolinea che l’hegelismo ha anche condizionato profondamente il modo di vedere e di studiare la cultura. Sotto l’influenza dell’Idea in divenire, la cultura è «considerata come una sorta di oggetto posto all’infuori del ricercatore. Questo oggetto si trova a un certo stadio di sviluppo, che è regolare, progressivamente diretto all’evoluzione. Il ricercatore rimane fuori dall’oggetto. L’atto di cognizione è considerato come uno scoprimento delle regolarità (le strutture) nascoste nell’oggetto (la cultura). Il ricercatore, provvisto di logica, rimane nella posizione della verità. I “fattori soggettivi” sono considerati come molteplici deviazioni dalla verità, derivanti da tendenze a-scientifiche: parzialità, ignoranza, o semplicemente disonestà», Y. Lotman, “Culture as a subject and an object in itself” (Kultura kak subekt i sama-sebe obekt, Tartu 1989), Trames, 1(51/46), 1, p. 7.

55 Orientamento che coincide anche con la diffusione del pensiero di Rousseau nell’impero russo.

56 Per le precipue caratteristiche della cultura russa, la corrente filosofica idealista attecchì con estrema radicalità nel suo terreno intellettuale, andando poi a penetrare nelle fibre più intime della vita quotidiana. Allo stesso tempo, però, fece un percorso totalmente opposto a quello della filosofia occidentale: dall’idealismo al realismo, ossia a una forma (tutta russa) di “conoscenza integrale”. L’idealismo, in altre parole, venne inizialmente alimentato tanto dalla corrente occidentalista quanto da quella slavofila. Ma, mentre «gli slavofili, orientati verso gli ideali religiosi e storici della Russia vecchia, ponevano a base dalla loro filosofia della storia e della religione i principi teoretici dello

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Schelling dell’ultima fase (…), gli occidentalisti, orientati, in opposizione agli slavofili, verso i valori della civiltà europea, vedevano nel sistema dello Hegel l’unico fondamento per consolidare la loro ideologia». Accadde così che, alla fine dell’Ottocento, con l’evidente insufficienza dell’impianto hegeliano a giustificare e (soprattutto) a trasformare la realtà, la corrente slavofila si dimostrò più capace a esprimere l’anima russa e lo fece tornando «alle posizioni tradizionali del realismo (orientato prevalentemente verso il platonismo) e [tentando] di creare un sistema ontologico e di dare una vera filosofia della vita», L. Gancikoff, “L’Hegelismo in Russia”, in A. Gemelli et al., Hegel nel centenario della sua morte, Rivista di filosofia neo-scolastica (supplemento speciale al volume XXIII, dicembre 1932), Società Editrice “Vita e Pensiero”, Milano, 1932, p. 168 e 167.

57 Ossia la corrente occidentalista. 58 Enunciato della prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel

(1821), il quale afferma così il principio logico che sottostà alla sua opera: ossia l’identità tra Ragione e Realtà. Con la prima parte della formula, scrivono Abbagnano e Fornero, «Hegel intende dire che la razionalità non è pura idealità, astrazione, schema, dover-essere, ma la forma stessa di ciò che esiste, poiché la Ragione governa il mondo e lo costituisce. Viceversa, con la seconda parte della formula, Hegel intende affermare che la realtà non è una materia caotica, ma il dispiegarsi di una struttura razionale (l’Idea o la Ragione) che si manifesta in modo inconsapevole nella natura e consapevole nell’uomo. Per cui con il suo aforisma, Hegel non esprime la semplice possibilità che la realtà sia penetrata o intesa dalla ragione, ma la necessaria, totale e sostanziale identità di realtà e ragione», N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Vol. III. Ottocento e Novecento, Paravia, Torino, 1992, p. 112.

59 L. Gancikoff, “L’Hegelismo in Russia”, in A. Gemelli et al., Hegel nel centenario della sua morte, Rivista di filosofia neo-scolastica (supplemento speciale al volume XXIII, dicembre 1932), Società Editrice “Vita e Pensiero”, Milano, 1932, p. 176.

60 J. Lotman, “Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX”, art. cit., p. 59. Kireevskij e Čaadaev fanno parte della corrente slavofila mentre il circolo di Stankevič di quella occidentalista.

61 La realtà costituisce una «totalità processuale necessaria, formata da una serie ascendente di “gradi” o “momenti”, che rappresentano, ognuno, il risultato di quelli precedenti ed il presupposto di quelli seguenti», N.

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Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Vol. III. Ottocento e Novecento, Paravia, Torino, 1992, p. 112.

62 Il Soggetto spirituale in divenire. 63 F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia

(Vorlesungen über die philosophie der Geschichte, 1840), cit. da N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Vol. III. Ottocento e Novecento, Paravia, Torino, 1992, p. 139.

64 «(…) i vari eventi correlati con uno stesso momento ideale dello sviluppo dello spirito, cioè provvisti di uno stesso significato, venivano considerati varianti dello stesso fatto storico, il quale appunto fungeva da evento storico», Ivi, p. 60.

65 «La dialettica ha un significato globalmente ottimistico, poiché essa ha il compito di unificare il molteplice, conciliare le opposizioni, pacificare i conflitti, ridurre ogni cosa all’ordine e alla perfezione del Tutto. Molteplicità, opposizione, conflitto sono senza dubbio reali secondo Hegel, ma solo come momenti di passaggio. In altri termini, il negativo, per Hegel, sussiste solo come un momento del farsi del positivo e la tragedia, nella sua filosofia, è solo l’aspetto superficiale e transeunte di una sostanziale commedia (nel senso letterale di vicenda avente un epilogo positivo)», N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Vol. III. Ottocento e Novecento, Paravia, Torino, 1992, p. 117.

66 I. Lotman, “Los mecanismos de los procesos dinámicos en la cultura” (Caracas 1992), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 5(2005).

67 I Russi rifiutano la mera scientificità del conoscere – caratteristica della filosofia occidentale – e optano per una pensiero capace di affondare nella vita con tutte le sue contraddizioni: «in un certo senso è [a loro] estranea la distinzione della teoria dalla pratica, d’una teoria sulla quale si fonda poi la pratica»; quella dei Russi è una teoria che si innalza alla vita e con essa, solidalmente, diviene “conoscenza integrale” (L. Gancikoff, “L’Hegelismo in Russia”, in A. Gemelli et al., Hegel nel centenario della sua morte, Rivista di filosofia neo-scolastica (supplemento speciale al volume XXIII, dicembre 1932), Società Editrice “Vita e Pensiero”, Milano, 1932, p. 167).

68 Ivi, p. 181. 69 Ivi, p. 182. 70 Ivi, p. 182. Con lo Stato anche la Patria – meta fondamentale per i russi –

diventa un “fine” onnipotente che schiaccia l’individuo: una patria, continua infatti Gancikoff, che «non è una madre tenera, anzi piuttosto crudele ed

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intollerante di fronte al qualsiasi affermazione personale. La società è la realtà suprema, ed essa o esige una assoluta riconciliazione con sé, un riconoscimento pieno da parte dell’uomo, o lo sopprime senza pietà», Ivi, p. 182.

71 Come ha scritto N. Bobbio, «Hegel non è un reazionario ma non è neppure, quando scrive La filosofia del diritto, un liberale: è puramente e semplicemente un conservatore, in quanto pregia più lo Stato che l’individuo, più l’autorità che la libertà, più l’onnipotenza che i diritti soggettivi, più la coesione del tutto che l’indipendenza delle parti, più l’obbedienza che la resistenza, più il vertice della piramide (il monarca) che la base (il popolo)»: una siffatta visione non poteva che, alla lunga, star stretta anche agli occidentalisti russi più convinti (N. Bobbio, Studi hegeliani, Einaudi, Torino, 1981, pp. 189-190).

72 Una conflittualità generata dal metodo dialettico che «converte relazioni duali i dualismi di tipo contradditorio» (V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 21); vi è, continua Possenti – riprendendo l’Intervista politico-filosofica (sezione “Marxismo e dialettica”) di L. Coletti – «una differenza fondamentale tra “opposizione reale” (o opposizione di contrarietà) e “contraddizione dialettica”. La prima è un’opposizione senza contraddizione, che, non violando il principio di non-contraddizione, è in piena armonia con la logica formale: nel caso della opposizione reale, si ha a che fare con estremi (o opposti) reali entrambi positivi, che non si mediano ma che sono di fatto posti in contrapposizione (…), in modo tale che l’uno è il contrario, ma non il contradditorio dell’altro. La seconda opposizione è invece di tipo contradditorio e dà luogo a un’opposizione dialettica», ove i poli “A non-A” «sono niente in sé e per sé, sono negativi. Ma ciascuno è negativo-relazione», ivi, pp. 15-16.

73 I. Lotman, “Clío en la encrucijada” (Klio na rasput’e, Tallinn 1992), in La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998, p. 246.

74 Nel suo Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, Condorcet distingue, nella storia dell’umanità, dieci periodi: I primi tre periodi – formazione delle società primitive, epoca della pastorizia ed epoca dell’agricoltura, si concludono con l’invenzione della scrittura alfabetica in Grecia. Il quarto è la storia della filosofia e del sapere greco fino ad Aristotele, il quinto fa riferimento alla romanità e il sesto è l’età buia che porterà alle crociate. Quindi inizia la trasformazione dell’uomo e l’invenzione della stampa (settimo), la rivoluzione scientifica di Cartesio, Bacon, Galileo

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(ottavo) e il nuovo periodo chiuso con la creazione della Repubblica francese (nono). L’ultima e decima epoca riguarda “i progressi futuri dello spirito umano”. La previsione, dice Condorcet, è un’operazione che può giustificarsi in presenza di leggi necessarie e immutabili, oppure può prendere forma dalla conoscenza dell’esperienza del passato. Alla filosofia compete soprattutto questa seconda forma di previsione.

75 Il Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società, insieme al Sistema di politica positiva o Trattato di sociologia che istituisce la religione dell’umanità rappresenta l’esito più drammatico della visione “correttiva della storia.

76 I processi sociali, sia dal punto di vista politico e morale che da quello economico, sono sottoposti a teorie probabilistiche di analisi dei meccanismi costi-benefici e la loro valutazione dal punto di vista storico è fatta in base a livelli ascendenti di progresso e benessere: «stime (…) sulla previsione della nuzialità, divorzi, omicidi costituiranno il corpo della “mathématique sociale”, ossia dell’analisi matematici del comportamento razionale. (…) A livello culturale, le religioni e le superstizioni dei popoli si avvieranno verso un processo di crisi irreversibile, soppiantate dalle idee di “uomini impegnati a diffondere (…) le verità utili al loro benessere, e ad illuminarli sui loro interessi come sui loro diritti”»76, A. Lo Presti, L’onda lunga della modernità. Pensiero politico e senso del futuro, Rubbettino, Catanzaro 2005, pp. 48-49.

77 Ivi, p. 283. 78 I. Lotman, “Clío en la encrucijada” (Klio na rasput’e, Tallinn 1992), in La

semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998, p. 249 (citato anche in I. Lotman, “Sobre el papel de los factores casuales en la historia de la cultura” (Vmesto zakliucheniia. O roli sluchainyj faktorov v istorii kul’tury, Tallinn 1992), in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, p. 249).

79 I. Prigogine, I. Stengers, Tra il tempo e l’eternità, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 100.

80 J. Lotman, “Historical laws and the structure of the text”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 221. I. Prigogine, Etude Thermodynamics des Phenomenes Irreversibles (1945); I. Prigogine, R. Dufay, Chemical Thermodynamics (1954); I. Prigogine, Introduction to Thermodynamics of Irreversible Processes (1955); I. Prigogine, The Molecular Theory of Solutions (1957); Non-Equilibrium Statistical Mechanics (1962); I. Prigogine, P. Glansdorff, Structure, stabilité et

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fluctuations (1971); I. Prigogine, R. Herman, Kinetic Theory of Vehicular Traffic (1971); I. Prigogine, G. Nicolis, Self-Organization in Non-Equilibrium Systems (1977).

82 In queste due opere Prigogine esamina dapprima la meccanica classica (1979) e poi quella quantistica (1988), sottolineando che questa, pur nascendo nel cuore della rivoluzionaria teoria della relatività, dal punto di vista della fenomenologia del tempo è erede della meccanica classica, portatrice di «una negazione radicale dell’irreversibilità temporale» (I. Prigogine, I. Stengers, Tra il tempo e l’eternità, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 8).

83 Ivi, p. 21. 84 Prigogine e Stengers fanno riferimento a H. Bergson (1907), Ivi, p. 11. 85 Ivi, p. 33. 86 «Fin dalle origini, la fisica è stata lacerata dall’opposizione tra tempo ed

eternità: tra il tempo irreversibile delle descrizioni fenomenologiche e l’eternità intelligibile delle leggi che dovevano permetterci di interpretare queste descrizioni fenomenologiche», Ivi, p. 15.

87 Sull’incompatibilità fra la meccanica classica e quantistica e il II principio della termodinamica (dal punto di vista del concetto di evoluzione irreversibile) di vedano in particolare ivi pp. 13-14. Sinteticamente Prigogine denuncia il fatto che la meccanica quantistica ammette sì l’irreversibilità del tempo ma come un’implicazione del mero atto di osservazione, non riconoscendo che il tempo è fondamentalmente, immanentemente irreversibile.

88 Ivi, p. 24. 89 Ivi, p. 24. 90 Ibidem. 91 Ivi, p. 44. 92 Ivi, p. 48. 93 Negli anni Cinquanta una sorta di “appendice” della seconda rivoluzione

scientifica – ossia la scoperta 1) delle strutture di non-equilibrio, 2) dell’instabilità delle particelle elementari, 3) della storicità dell’universo – scardinano alle fondamenta il concetto di reversibilità e confermano la necessità di una scienza meno deterministica.

94 Questa è una situazione ordinaria in natura, specialmente nel vivente. Lo stato di equilibrio, invece, come postulato dalla termodinamica classica, è «un esempio particolare di stato stazionario, in cui gli scambi [del sistema termodinamico] con l’ambiente non fanno variare l’entropia» semplicemente perché la sua produzione interna è compensata stabilmente

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dal suo apporto esterno o ambientale: «il sistema è la sede di un’attività permanente, produttrice di entropia, che si mantiene a prezzo di scambi continui con l’ambiente», Ivi, p. 49.

95 Order out of chaos: man's new dialogue with nature, Porjadok iz chaosa. Novyj dialog čeloveka s prirodoj.

96 Al contrario «vicino all’equilibrio il comportamento del sistema è, per tempi sufficientemente lunghi, interamente determinato dalle condizioni di contorno», ossia dai rapporti che instaura col suo ambiente (e che lo scienziato può controllare e modificare a piacere), Ivi, p. 60.

97 Ivi, pp. 58-61. 98 In un altro saggio Prigogine specifica che «il non equilibrio trasforma

completamente le proprietà della materia: a causa del non equilibrio le particelle diventano “sensibili” ad altre molecole che si trovano a distanze macroscopiche. Mi piace dire, in certo qual modo, che nello stato di equilibrio la materia è “cieca” e che essa comincia a “vedere” nello stato di non equilibrio», I. Prigogine, “L’esplorazione della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 156.

99 Come ha sottolineato Stengers, «la questione della complessità richiede una ridefinizione della categoria di semplicità. Il modello semplice non deriva più la sua potenza e il suo interesse dalla possibilità di una generalizzazione, di un’estensione, di ciò che afferma. Indica invece la possibilità di accostarsi a certi fenomeni in modo tale che si presentino come calcolabili. La semplicità designa una situazione singolare nella quale uno schema teorico risponde alla sua vocazione, che è quella di uno strumento: far parlare il reale, produrlo come trattabile e calcolabile. Contrariamente alla coppia semplice/complicato, la coppia semplice/complesso non mette in luce la potenza di estensione del semplice ma la sua singolarità così come può essere compresa retroattivamente a partire da situazioni in cui deve essere preso sul serio il fatto che la descrizione (teoricamente informata) di un problema non definisce con ciò stesso lo spazio di un calcolo possibile», I. Stengers, “Perché non può esserci un paradigma della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 48.

100 Ivi, p. 60. 101 Ivi, pp. 24-25. 102 Come «l’evoluzione di un sistema, di collisione in collisione, determina (…)

un flusso di correlazioni, [ossia] la creazione di correlazioni implicanti un

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numero sempre crescente di gradi di libertà» (ivi, pp. 114-115), così nella storia (specialmente nella visione lotmaniana) il continuo incontro/scontro fra culture e subculture crea una proliferazione di mondi, che, alla lunga, si liberano dei “centri” o poteri culturali.

103 Ivi, p. 65. 104 I. Stengers, “Perché non può esserci un paradigma della complessità”, in G.

Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 38.

105 Saggio del ’79, raccolto in edizione italiana per l’antologia Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, op. cit. con il titolo “L’“accordo” e l’“affidare se stessi” come modelli archetipi della cultura” (Dogovor i “vručenie sebja” kak archetipičeskie modeli Kul’tury, 1979, scritto per il volume). In questo saggio – che non useremo nel presente paragrafo – Lotman definisce una tipologizzazione dei modelli socio-culturali arcaici (riverberantesi poi nelle culture moderne) in base all’opposizione magico/religioso, ove magico implica la reciprocità, la costrizione, l’equivalenza dei rapporti, la contrattualità, ossia l’accordo; mentre religioso implica l’unilateralità, l’assenza di costrizione, la non equivalenza dei rapporti, il dono, ossia l’affidamento. Quest’opposizione implica due diversi modi di espressione. Nel caso dell’accordo viene enfatizzata la segnicità, il rituale, l’etichetta, la convenzionalità; nel caso dell’affidamento il simbolismo, la non-convenzionalità ossia l’autenticità, un comportamento puramente pratico scevro di ogni semioticità.

106 Lotman ripropone poi questo saggio nel 1992 con il titolo “Sul ruolo del fattori casuali nella storia della cultura”; lo scritto è praticamente uguale, eccezion fatta per una paginetta aggiunta in conclusione, che riprende la riflessione ormai matura su Prigogine. Accenneremo a questo saggio nel prossimo paragrafo, dedicato appunto agli scritti del 1992-1993.

107 J. Lotman, “The problem of the historical fact”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 217.

108 Ivi, p. 220. 109 J. Lotman, “Can there be a science of history and what are its functions in

the cultural system?”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 269.

110 J. Lotman, “Historical laws and the structure of the text”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 224.

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111 P. Burke, Una rivoluzione storiografica. La Scuola delle “Annales”. 1929-

1989, Laterza, Roma-Bari, 2002. 112 P. Burke cita L. Febvre, Problemi di metodo storico, Einaudi, Torino, 1976, p.

152. 113 J. Lotman, “Conclusions”, in Universe of the Mind. A Semiotic Theory of

Culture, op. cit., p. 273. 114 Il pensiero di Lotman ricorda molto quello di E. Morin quando scrive che, «in

certa misura, la totalità della nostra informazione genetica si trova in ognuna delle nostre cellule, e la società in quanto “tutto” è presente nelle nostre menti attraverso la cultura che ci ha formati e informati. In altri termini, possiamo dire anche che “il mondo è nella nostra mente, che è nel nostro mondo”. La nostra mente/cervello “produce” quel mondo che ha prodotto la mente/cervello. Noi produciamo la società dalla quale siamo prodotti», E. Morin, “Le vie della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 34.

115 Versione completa di “Sobre el papel de los factores casuales en la evolución literaria” (O roli sluchainyj faktorov v literaturnoi evoliutsii, Tartu 1989)]. La parte aggiunta, in realtà, è presente anche in “Clío en la encrucijada” (Klio na rasput’e, Tallinn 1992).

116 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 23. 117 Come abbiamo più volte sottolineato, la visione illuminista di realtà

disconosce qualsiasi forma di segnicità; la Ragione, dunque, non ha bisogno di attribuire un senso agli avvenimenti: essa semplicemente li riconosce come facenti parte di un lineare e razionale percorso di epurazione dell’uomo dalle chimere della superstizione, verso gradi sempre maggiori di progresso e perfettibilità antropologica.

118 Ibidem. 119 Ibidem. E ancora scrive ne La cultura e l’esplosione: «(…) la cultura

ricostruisce il proprio passato», trasforma e corregge la memoria e, con l’occhio nel passato e la coscienza nel presente, interpreta la propria storia come "inevitabile predestinazione». Lotman riprende poi un verso di Pasternak, il quale – attribuendo a Hegel una frase di Schlegel – aveva scritto: Una volta Hegel per caso / e, probabilmente, a casaccio / chiamò lo storico profeta / che predice all’indietro. Scrive Lotman: «La frase arguta che attirò l’attenzione di Pasternak, in realtà, riflette in maniera molto profonda le base della concezione hegeliana e dell’atteggiamento di Hegel verso la storia. Lo sguardo retrospettivo permette allo storico di analizzare il passato come da due punti di vista: 1) trovandosi nel futuro rispetto

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all’avvenimento descritto, egli vede di fronte a sé tutta la catena delle azioni realmente compiutesi, 2) trasferendosi nel passato con lo sguardo della mente e guardando dal passato nel futuro egli conosce già i risultati del processo. Tuttavia è come se questi risultati ancora non si fossero realizzati e vengono offerti al lettore come predizioni. Nel corso di questo processo la casualità scompare totalmente dalla storia», J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit. p. 158.

120 Scriveva Lotman: «ciò che ci interessa non è quali tratti generali permettano di ascrivere determinati quadri, statue, testi poetici, mobili, abiti, alle manifestazioni di uno stile, ma il motivo per cui sia caratteristico di un certo stile manifestarsi in fenomeni di genere diverso», ossia il motivo per cui l’uomo tenda alla complessità più che alla semplificazione (J. Lotman, “L’insieme artistico come spazio quotidiano”, art. cit., p. 32).

121 I. Lotman, “La memoria de la cultura” (Pamiat’ kul’tury, Vilnius 1986), in La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998, p. 153.

122 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 26. 123 «L’assenza di fatalità [da Lotman intesa come inevitabilità predestinante] si

fa particolarmente evidente nel campo della cultura e dell’arte, il cui livello di libertà è molto più alto. Espressioni del tipo: “i tempi erano maturi” per un Napoleone (per uno Shakespeare, per un Puškin, per un Dostoevskij), e “egli comparve”, ancora dotate di senso per uno storico o per uno scrittore cresciuto alla scuola di Schelling o di Hegel, appaiono oggi a noi meri artifizi retorici»; e ancora, qualche pagina prima: «Lo storico, a posteriori, può affermare che il Romanticismo fu conseguenza inevitabile del Razionalismo dei rappresentanti di Classicismo e Illuminismo; il Decadentismo è per lui conseguenza altrettanto inevitabile di Realismo e Naturalismo», Ivi, pp. 97 e 93.

124 «La ricerca comparata, per esempio, dei processi economici, da un lato, e delle opere d’arte dall’altro, ci fornisce non cause ed effetti, ma i due poli di un processo dinamico, intraducibili l’uno nell’altro, ma allo stesso tempo compenetrati da reciproche influenze», Ivi, p. 79.

125 I. Lotman, “Clío en la encrucijada” (Klio na rasput’e, Tallinn 1992), in La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998, p. 252.

126 Complessificata, come abbiamo detto al § …, dal ritmo pulsante e sempre riemergente del tempo ciclico.

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127 Puntualizza Lotman, riferendosi in particolare al modo attraverso cui la

l’impero russo prima e quello sovietico dopo hanno concepito la storia: «Il cammino sia dell’uomo singolo che dell’umanità è cosparso di possibilità irrealizzate, di strade perdute. La coscienza hegeliana, penetrata in maniera persino a noi impercettibile nell’essenza stessa del nostro pensiero, ci ha educati alla venerazione dei fatti realizzati e al disprezzo per ciò che avrebbe potuto accadere, ma non è diventato realtà. Le riflessioni su queste strade perdute vengono trattate con spregio dalla tradizione hegeliana, considerate come romanticismo (…). Ci si può tuttavia immaginare un punto di vista secondo il quale proprio queste vie “perdute” rappresentano uno dei problemi più inquietanti per il filosofo-storico», J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 77.

128 I. Lotman, “Clío en la encrucijada”, art. cit., p. 254. 129 Figlia di Mnemosine, che è anche il titolo dell’ultima opera di Lotman. 130 I. Lotman, “Clío en la encrucijada”, art. cit., p. 254. 131 Lotman appare piuttosto contradditorio rispetto a quest’ultimo punto.

Mentre infatti ne La cultura e l’esplosione egli tende ad attribuire pari valore trasformativo ai processi esplosivi e a quelli “logici”, ossia graduali e prevedibili [«l’imprevedibilità dei processi esplosivi non è assolutamente l’unica via verso il nuovo. (…) intere sfere della cultura possono realizzare il proprio movimento soltanto sotto forma di cambiamenti graduali», op. cit., p. 17], in I meccanismi impredittibili della cultura sembra invece prediligere i soli processi esplosivi – questo, probabilmente, perché nell’opera del 1993 l’attenzione di Lotman è tutta rivolta al ruolo liberatorio dell’arte nella storia: arte che, per il semiologo russo, è tutto ciò che non viene rigidamente limitato dalle leggi della causalità logica (Ivi, p. 99): «Wittgenstein sosteneva la tesi (…) che non è possibile, rimanendo all’interno della logica, descrivere qualcosa di nuovo. Si tratta di un pensiero molto profondo, che distingue i processi dinamici in processi “che si compiono all’interno della logica” – che cioè sono prevedibili e non creano niente che sia radicalmente nuovo – e processi che una logica rigoroso definisce “scorretti”. Sono proprio questi ultimi a generare il nuovo. (…) Generatori del nuovo sono i processi asimmetrici: qui pertanto è racchiuso il meccanismo della semiosi dinamica», J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 84.

132 Spiega Mihhail Lotman, nel saggio conclusivo alla raccolta in tre volumi delle opere del padre: «Ciò che è potenziale, è reale, ma può diventare un

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oggetto della ricerca scientifica solo nel processo della sua realizzazione. L’approccio euristico tradizionale consiste nell’analisi delle sole potenzialità realizzate. Il metodo struttural-comparativo permette di spostare l’indagine nel regno delle potenzialità mancate (…) della totalità dinamica; queste possibilità irrealizzate sono parte dell’essenza della realtà anche se sono destinate a rimanere in stato di latenza. Una pistola carica ma non esplosa non è funzionalmente identica a una solo scarica. Questo principio è particolarmente importante nell’approccio tipologico alla cultura. La storia della cultura del mondo contempla non solo il materiale usato e concluso degli eventi e dei fatti ma anche l’intero paradigma della possibilità. L’interazione con altri sistemi conduce alla formazione di una gerarchia di possibilità: molte di quelle che sembrano egualmente probabili all’analisi immanente cambiano di risultato attraverso la loro interazione con le possibilità degli altri sistemi e diventano quasi improbabili quando viene considerato l’intero», M. Lotman, “Summary”, in Jurij M. Lotman. Izbrannye stat’i v trech tomach, III., Aleksandra, Tallinn, 1993.

133 I. Prigogine, I. Stengers, Tra il tempo e l’eternità, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pp. 46-47.

134 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture” (Tejnicheskii progress kak kul’turologuicheskaia problema, Tartu 1988), Poetics Today, Vol. 12, No. 4, National Literatures / Social Spaces (Winter, 1991), Duke University Press, p. 782. Capiamo perché studiare la storia in modo ipotetico-comparativo è così importante per Lotman: questo metodo non può certo creare modelli futurologici precisi ma può offrire almeno spettri di alternative che si basano su analogie col passato e che possono portare alla luce le empasse da non ripetere.

135 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 81. 136 Ivi, p. 79. 137 I. Lotman, “Los mecanismos de los procesos dinámicos en la cultura”

(Caracas 1992), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 5(2005).

138 La crisi in genere è vissuta come una catastrofe perché – come sottolinea Lotman ne “Il progresso tecnico come problema culturologico” (1988) – quando si è di fronte a tempi simili, i limiti spaziali dei cambiamenti crescono progressivamente mentre i limiti temporali si contraggono infinitamente (immagine che fa ricordare quella di una bomba atomica). Questo significa che i partecipanti e testimoni percepiscono e tramandano

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questi cambiamenti come incrementalmente catastrofici (Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture” art. cit., p. 782).

139 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 35, corsivo mio – qui Lotman fa riferimento a Entre le temps et l’ééternité di Prigogine-Stengers. E chiarisce più avanti: «Il criterio che permette di determinare la natura esplosiva di un processo (…) consiste nella imprevedibilità di principio di un evento. L’evento che si realizza e quello che non si realizza sono, nel momento dell’esplosione, varianti intercambiabili», Ivi, p. 96.

140 «[Nei processi esplosivi] ciascuno degli eventi realizzatisi è circondato da una nube di eventi non realizzati. Le vie che da essi avrebbero potuto iniziare risultano perdute per sempre. Il movimento si realizza non soltanto come un nuovo evento, ma anche come nuova direzione. Un tale approccio è il più indicato nei casi in cui si tratta di eventi storici, unici per la loro natura, nei quali un avvenimento casuale apre il varco all’inizio di una nuova e imprevedibile regolarità. (…) Ogni “grande” evento non soltanto apre nuove strade, ma recide interi fasci di potenzialità del futuro», J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., pp. 77-78.

141 Ivi, p. 205-206. 142 Ibidem. 143 Ivi, pp. 37-38. Vedremo al § 2 il ruolo che l’arte assume in queste circostanze

storiche. 144 Ivi, p. 214. 145 Ivi, p. 208. 146 Lotman «Al posto [del modello catastrofico] noi ne proponiamo un altro, nel

quale l’imprevedibilità dell’esplosione extratemporale costantemente si trasforma, nella coscienza degli uomini, nella prevedibilità della dinamica da essa generata e viceversa. Il primo modello può metaforicamente rappresentarsi il Signore come un grande pedagogo, il quale con inusuale maestria dimostra (a chi?) un processo a lui noto in precedenza. Il secondo modello può essere illustrato con l’immagine di un creatore-sperimentatore, che ha impostato un grande esperimento, i cui risultati sono per lui stesso inaspettati e imprevedibili. Un tale sguardo trasforma l’universo in fonte inesauribile di informazione, in quella Psiche a cui è proprio il logos che accresce se stesso, del quale parlava Eraclito (…). Nelle sue ricerche di una nuova lingua l’arte non può esaurirsi proprio come non può esaurirsi la realtà che essa va conoscendo», Ivi, pp. 196-197.

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147 Non più limitato dalla censura, Lotman scrive: «Così l’epoca delle riforme

nella Russia dell’ultimo trentennio del XIX secolo fu fatta fallire dal simultaneo passaggio ai metodi del terrore sia da parte del governo che dei democratici. Il desiderio di fermare la storia si scontrò con l’aspirazione a costringerla a compiere un balzo», Ivi, p. 208.

148 Nella storia della Russia, scrive Lotman, «chi crea il caso estremo di sistema binario è Ivan il Terribile nel XVI secolo: ciò che realizza Ivan, in realtà, è un esperimento, un esperimento costante. Egli stesso in realtà non sa chi è, se Dio o il Diavolo. Non c'è una terza possibilità. Non può essere semplicemente un uomo, e lo verifica [di continuo] attraverso i suoi crimini, se Dio lo controlla, o attraverso la sua imitazione della santità, se lo controlla il diavolo. Vuole capire chi è. Ma è del tutto evidente che lo zar di Russia può essere unicamente o Dio o il diavolo, ma non un uomo», I. Lotman, “Los mecanismos de los procesos dinámicos en la cultura” (Caracas 1992), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 5(2005).

149 Y. Lotman, “Theses towards a semiotics of Russian culture”, Elementa, 1994, 1(3),219-227.

150 Ivi, pp. 205-206. 151 Scrive Lotman nel saggio “Clio al bivio” (1992): «Il tempo che stiamo vivendo

è un tempo di bilancio, un tempo di “finali”; termina il XX secolo, termina il millennio trascorso dal battesimo della Russia – in effetti, il primo millennio della cultura russa – termina il secondo millennio dell’esistenza della nuova cultura europea. E sul fondo di tutto questo si scoprono “finali” a noi più vicini: i trecento anni dalla riforma di Pietro il Grande, [evento] che richiede insistentemente un’interpretazione; nel 1990, i duecento anni dal Viaggio da Pietroburgo a Mosca, tempo di riflessioni sui risultati del movimento liberatore russo. E gli anni Novanta del XX secolo, nel loro insieme, prospettano inevitabilmente la questione che la Grande Rivoluzione Francese ha lasciato ai cittadini d’Europa e del mondo», I. Lotman, “Clío en la encrucijada” (Klio na rasput’e, Tallinn 1992), in La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998, pp. 244-245.

152 Dobbiamo, in altre parole, accogliere il pensiero di Lotman come la visione di chi, attraverso una profonda conoscenza del mondo russo, della sua storia e dei suoi tratti culturali caratteristici, prova a immaginare il cammino di uno Spirito a lui familiare ma estremamente imprevedibile.

153 Ivi, p. 216.

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154 Ivi, p. 106. 155 Y. Lotman, “Theses towards a semiotics of Russian culture”, Elementa,

1994, 1(3), 219-227. 156 Il pensiero ideologico, come ha sottolineato L. Pareyson, a causa della sua

condizionalità storica e pragmatica (cf. § 3.2.2), è ragione svuotata di ciò che la costituisce (il pensiero veritativo): vuota razionalità e mera discorsività, ossia apparato concettuale privo di contenuti (L. Pareyson, “Filosofia e ideologia”, in Ideologia e filosofia. Atti del XXI convegno del Centro studi filosofici tra professori universitari. Gallarate 1966, Mocelliana, Brescia, 1967, pp. 40-63). Per questo motivo è così importante capire le strategie linguistico-argomentative che caratterizzano le pratiche discorsive in tempi di crisi storica e sociale.

157 J. Lotman, “Il ritratto” (Portret, 1993), in S. Burini e A. Niero (a cura di), Il girotondo delle Muse. Saggi sulla semiotica delle arti e della rappresentazione, op. cit., p. 91.

158 L’appartenenza al cosmo, ossia a un tutto ordinato, si riflette nel concetto di collettività come di un tutto coordinato. Questo si riverbera, al sua volta, nell’io-gregario dell’uomo, dimensione tipica del mondo animale.

159 F.I. Tjutčev, Poln. Sobr. stichotvorenij (Raccolta completa delle poesie), Leningrad 1939, p. 134 (trad. it. in F.I. Tjutčev, Poesie, Mursia, Milano 1959, p. 264. La poesia, senza titolo, fu scritta nel 1865.

160 Qui Lotman cita E.L. Radlov, Filosofskij slovar (Dizionario filosofico), Moskva 1913, col. 112.

161 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 42.

162 Ibidem. 163 Ibidem. 164 Ivi, pp. 43-44. 165 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 78. 166 Ivi, p. 78. 167 In questa prospettiva, l’uomo è molto simile all’animale, parte del «mondo

ciclico della natura [ove] il passato e il futuro si identificano [e ove] la predizione è di fatto sostituita dalla memoria», Ivi, p. 78.

168 Ivi, p. 106. 169 Ivi, p. 82. 170 Secondo Lotman, la parola non identificata con l’azione è caratteristica

dell’Europa occidentale e si realizza nella libertà di espressione; la parola

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identificata con l’azione è invece propria del mondo russo, ove la repressione vige sovrana.

171 Si ha qui una “traduzione” umana dell’ordine naturale – l’ordine chiuso e ciclico – in forma però ideologica.

172 Ivi, p. 76. 173 Ivi, pp. 80-81. 174 Nella Russia autocratica e poi sovietica, infatti, «la letteratura furiosa [o

furia verbale] si combina all’impotenza politica, lo spazio artistico si riempie di testi colmi di libertà», Ivi, p. 76.

175 Parola intesa in senso lato, ossia come linguaggio artistico non solo verbale. 176 Ivi, p. 75. 177 J. Lotman, “Il fuoco nel vaso” (Ogon’s sosude, 1992 inedito in Russia), in

“Strumenti critici” XII (1997), 2 (n. 84), pp. 181-192, poi in S. Burini A. Niero (a cura di), Il girotondo delle Muse. Saggi sulla semiotica delle arti e della rappresentazione, op. cit., p. 121.

178 Céline Lafontaine “The Cybernetic Matrix of ‘French Theory’”, Theory, Culture & Society, SAGE (Los Angeles, London, New Delhi and Singapore), 2007, Vol. 24(5): 27-46, p. 31.

179 Il ruolo dell’arte in seno alla cultura è, secondo Lotman, vitale: «Noi viviamo un periodo di crisi profonda. L’umanità, se avrà futuro, costituirà immancabilmente una unità strutturale, fondata su un processo di sviluppo unitario. Ma questa unità sarebbe impossibile e fatale se frutto di un livellamento indifferenziato, e non della complessa intersezione di strutture eterogenee. Il graduale sviluppo e spostamento nell’imprevedibilità devono dare forma a una unità complessa: l’imprevedibilità esperita nella sfera dell’arte può trasferirsi nella vita in forma blanda, priva di catastrofismo, e, come un vaccino, conferire all’organismo una sicura immunità», J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 72.

180 Le leggi della realtà possono essere vincoli socio-culturali, temporali, spaziali.

181 Ivi, p. 82. 182 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p.

11. 183 Ibidem. 184 Ivi, 15. 185 Ibidem.

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186 «Oltre i limiti della semiotica della cultura si estende la realtà, che si trova al

di fuori dei confini del lingua. La parola “realtà” copre due diversi fenomeni. Da una parte essa è la realtà fenomenica, secondo la definizione kantiana, cioè quella realtà che è in correlazione con la cultura, ora contrapponendosi ora fondandosi con essa. In un altro senso, nel senso noumenico (secondo la terminologia di Kant [appercezione originaria]), si può parlare della realtà come di uno spazio che si trova fatalmente al di là dei confini della cultura», Ivi, p. 38.

187 Ogni strato presenta fra i testi «(…) complesse correlazioni interne, diverso grado di traducibilità e spazi di intraducibilità», Ivi, pp. 37-38.

188 «La cultura nel suo insieme può essere considerata come testo. È tuttavia eccezionalmente importante sottolineare che essa è un testo organizzato in maniera complessa, che si scinde in una gerarchia di “testi nei testi” e che forma un complesso intreccio di testi. Dato che la stessa parola “testo” include nella sua etimologia l’idea dell’intrecciarsi dei fili nel tessuto, possiamo dire che con una tale interpretazione restituiamo al concetto di “testo” il suo significato originario», Ivi, p. 99.

189 Spesso l’arte ha anticipato intuitivamente la scienza che, specie nella contemporaneità, si è accorta dell’insopprimibile necessità di adottare una visione intuitivo-creativa della realtà. Per contro è innegabile che questa si sia alimentata della scienza, andando a sperimentare linguaggi che, sotto certi aspetti, potessero rendere conto di certe scoperte scientifiche (si pensi al concetto di “tempo” e “spazio”).

190 In questo saggio, Lotman eleva il linguaggio spaziale a sistema modellizzante primario, esattamente come quello naturale – anche se, come abbiamo visto, dagli anni Ottanta la distinzione tra primario e secondario non è più così importante: «tutta l’attività dell’uomo come homo sapiens è legata ai modelli di classificazione dello spazio, alla divisione tra “proprio” e “altrui” e alla traduzione dei vari vincoli sociali, religiosi, politici, di parentela nel linguaggio delle relazioni spaziali. La divisione dello spazio in “colto” e “incolto” (caotico), spazio dei vivi e spazio dei morti, sacro e profano, spazio senza pericolo e spazio che nasconde una minaccia, e l’idea che a ogni spazio corrispondano i suoi abitanti – dei, uomini, una forza maligna e suoi sinonimi culturali – sono una caratteristica inalienabile della cultura», I. Lotman, “El texto y el poliglotismo de la cultura” (Tekst i poliglotizm kul’tury, Tallinn 1992), in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996, pp. 83-84.

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191 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p.

32. 192 Ivi, p. 39 (nota 2): il verso è tratto dalla lirica Pesnja (Canzone) del 1818, cfr.

V.A. Žukovskij, Sobranie sočinenij v 4 t., cit., vol. I, p. 310. Il termine aggiunto tra parentesi tonda è di Lotman.

193 Ivi, p. 39 (nota 3): A.S. Puškin, Poln. sobr. soč., cit. vol. XI, p. 41, trad. it. in Tutti i romanzi e le novelle, (a cura di) E. Lo Gatto, Mursia, Milano, 1958, p. 697.

194 Ispirazione che, non a caso, è il principio del linguaggio artistico e di quello scientifico, qualora si profili come pensiero creativo.

195 Pochi anni prima, nel saggio “La cultura come oggetto e come soggetto per se stessa” (1989), questa possibilità viene in realtà esclusa. Scrive Lotman: «noi affermiamo che i testi vengono ricevuti dall’esterno e, allo stesso tempo, supponiamo che siano una “realtà extrasemiotica”. La contraddizione emerge dal fatto che la semiosfera non è in condizione di entrare in contatto con qualsiasi cosa eccetto che coi testi, sebbene i testi stessi siano il prodotto della semiosi. Ne segue che ogni contatto con lo spazio, dispiegato “dall’altro lato del confine di una data semiosfera”, richiede una semiotizzazione preliminare di questo spazio. Esattamente come la comunicazione in seno alla sfera della lingua naturale è per forza una comunicazione con l’aiuto della lingua naturale, così la comunicazione in seno al regno della cultura è sempre una comunicazione culturale. (…) Con uno spazio realmente extrasemiotico, la semiosfera non si incontra praticamente mai», Y. Lotman, “Culture as a subject and an object in itself” (Kultura kak subekt i sama-sebe obekt, Tartu 1989), Trames, 1(51/46), 1, pp. 14-15.

196 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 35.

197 Ivi, p. 36. 198 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 46-47. 199 Non caso Lotman parla dell’esplosione di senso come di una finestra nello

spazio semiotico che è – l’abbiamo visto – la stessa definizione data all’arte, quale finestra sul futuro.

200 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 38.

201 Come ha puntualizzato anche un eminente teorico della modellizzazione scientifica, H. Atlan, nella contemporaneità è emerso chiaramente che l’insufficienza dei modelli risiede in genere nella loro incapacità di dar

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spazio al caso, alla creatività, all’indeterminatezza, alla presenza dell’osservatore/creatore: in una parola, alla complessità: «Si tratta dunque di costruire dei modelli di organizzazione in grado di modificarsi da sé, e di creare dei significati che siano imprevisti e sorprendenti anche per coloro che fabbricano i modelli. È questa la condizione minimale perché si possa parlare di autocreazione dei significati. La soluzione di questi paradossi si trova in realtà nell’utilizzazione simultanea di due ingredienti che generalmente sono trascurati nella fabbricazione di modelli. Si tratta da una lato di una certa quantità di indeterminazione, dell’utilizzazione del caso nella fabbricazione dell’evoluzione del modello; e dall’altro si tratta anche di prendere in considerazione il ruolo dell’osservatore e del contesto nella definizione del significato dell’informazione. Il primo ingrediente consente alla novità di avere un suo ruolo. Si può riprodurre qualcosa di nuovo proprio perché non tutto è determinato a priori. Il secondo ingrediente permette a questa novità di non essere un semplice caos e di potere acquisire eventualmente un significato, p. 143 a posteriori, in un determinato contesto di osservazioni e proprio per questo contesto. Detto in altri termini, possiamo forse riassumere ciò che intendiamo con autorganizzazione proprio affermando che autorganizzazione significa permettere al caso di acquisire un significato, a posteriori e in un determinato contesto di osservazione», H. Atlan, “Complessità, disordine e autocreazione del significato”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 144.

202 «Quanto più l’arte sarà arte e la scienza, tanto più esse saranno specifiche nelle proprie funzioni culturali, e tanto più reale e fruttuoso sarà il loro dialogo», J. Lotman, Che cosa dà l’approccio semiotico? (Čto daët semiotičeskij podchod?, Moskva 1976), in La semiotica nei Paesi Slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., poi in F. Sedda (a cura di), Tesi per una semiotica delle culture (con il titolo “Che cosa dà l’approccio semiotico?”), Meltemi, Roma, 2006. Qui si userà la versione del 2006, quindi p. 226.

203 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 106. 204 Ritroviamo questa espressione in J. Lotman, “La cultura come intelletto

collettivo e i problemi dell’intelligenza artificiale”, art. cit., p. 38-39 e in J. Lotman, Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, op. cit., p. 111.

205 H. U. Von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica. Vol. 4: Nello spazio della metafisica. L’antichità, Jaka Book, Milano, 1971, p. 147.

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206 La comunità politica greca, che ordina la vita della cittadini e gli esige un

preciso ethos comportamentale, si fonda sulla concordia, ossia sull’idea di unità nella diversità: la concordia, che fonda il senso di coappartenenza tipico della polis, cerca l’accordo delle opinioni differenti e non la loro identità. Dobbiamo tenere conto di questo modello socio-culturale fondato sulla comunità – e spezzato nel XVII dalle teorie politiche edificate invece sul concetto di individuo – per capire da dove viene, in Occidente, la dicotomia tra universale e individuale, tutto e parte.

207 Ciononostante, come ha sottolineato Tanzella-Nitti, la modernità presenta tentativi di sistematizzazione, soprattutto a livello speculativo: e lo fa «sia in sede razionalista, affidandola all'unificazione del metodo, prima con Cartesio e poi con Kant, sia in sede idealista, lasciando allo Spirito, alla Ragione o alla Storia il compito di svelare il ruolo delle parti all'interno del tutto: il sapere è “uno” perché lo spirito, la ragione o la storia sono uno». Essa cioè crea le premesse concettuali – facilmente declinantisi in prassi – di un’idea di unità ove le differenze sono azzerate invece che custodite (G. Tanzella-Nitti, “Unità del sapere”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 1418).

208 Nel 1714 Leibniz scrisse in francese due brevi “sommari” nei quali sintetizzava i punti essenziali della propria filosofia: Principi della Natura e della Grazia fondati sulla ragione e I principi della filosofia o Monadologia (il titolo Monadologia non è di Leibniz, ma fu aggiunto dal traduttore tedesco). Entrambi gli scritti, furono pubblicati postumi, nel 1718 e nel 1720, si aprono con la definizione della “monade”, cioè della sostanza semplice costitutiva di tutte le cose (www.filosofico.net).

209 M. R. Antognazza, “Leibniz, Gottfried Wilhelm (1646-1716)”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, 1899.

210 G. Tanzella-Nitti, “Unità del sapere”, in DISF, (a cura di) G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova Editrice, Roma, 2002, 1421.

211 Ivi, 1421 e ss. 212 Ivi, 1421 e ss. 213 Va detto che già nel saggio del 1974, “L’insieme artistico come spazio

quotidiano”, Lotman enuncia questo concetto. Sebbene in questa riflessione egli contempli la dinamica dell’uni-molteplicità delle arti, ossia il poliglottismo artistico, possiamo senza dubbio vedere in essa il modello del

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più generale poliglottismo culturale, la cui ricchezza scaturisce proprio dalla visione di un mondo modellato tanto dall’arte visiva quanto dalla matematica, tanto dalla letteratura quanto dalla logica, tanto dalla musica quanto dalla fisica. Il paradosso dell’attività gnoseologica umana sta proprio nel fatto che il singolo, come la collettività, non si accontentano di un unico modo per esprimere (o modellizzare) la realtà – ad esempio un’unica arte, un unico testo artistico – ma necessitano di esternarla in molteplici strutture di pensiero, unitarie, autonome ma analogicamente legate fra loro: sempre in questo saggio, Lotman sottolinea che la capacità delle lingue di modellizzare lo stesso, intero mondo, ossia di rispecchiarlo interamente da punti di vista differenti, fa si che esse – come le monadi leibniziane, potremmo dire – siano in certo modo equivalenti, nel senso di analogiche.

214 Ritroviamo la stessa visione del rapporto fra individuale e universale ne “La cultura e l’organismo” (1984), scritto che, abbandonata la terminologia cibernetica, si propone come preludio alla svolta organicista effettuata da Lotman negli anni Ottanta – svolta riassunta nel noto saggio “La semiosfera” (1984). In esso il semiologo russo parte dalla considerazione che il mondo (o universo) sia sostenuto da un’unità strutturale e che, in virtù di questo principio unificante, «ai diversi livelli dell’organizzazione tutti gli aspetti della materia debbano rivelare caratteri di isomorfismo»; e continua Lotman: «da una certo punto di vista sarebbe desiderabile descrivere tutto servendosi di un unico metalinguaggio», J. Lotman, “La cultura e l’organismo”, art. cit., p. 77.

215 M. M. Bachtin, “Il problema dei generi del discorso”, in L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino, 1988, p. 283.

216 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 31. 217 J. Lotman, “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica”, art. cit., p. 107. 218 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., pp. 46-47. 219 Secondo Lotman, i cambiamenti tecnologici, ossia le protesi dell’uomo,

portano sempre con sé dei cambiamenti strutturali e, soprattutto, antropologici. La scrittura, per esempio, ha avuto sì come conseguenza lo sviluppo della burocrazia arcaica ma la trasformazione più profonda che ha apportato è stata l’elevazione dell’uomo a “individuo”, un individuo che crea: «la possibilità di [scrivere e] documentare aprì le porte alla creatività individuale e cambiò drasticamente lo status dell’individuo. Da quel momento in poi, l’idea di civilizzazione fu inestricabilmente legata all’idea di creatività individuale, personale. La tradizione diventa il fattore

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conservativo [o mnemonico] mentre l’individuo incarna il lievito della storia, il suo elemento dinamico», Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”, art. cit., p. 784.

220 Ivi, pp. 795-796. 221 A differenza della scienza che, essendo un’attività umana creatrice, procede

per esplosioni di senso, ossia per irruzioni semantiche impreviste. Ovviamente, sottolinea Lotman, si tratta di una distinzione archetipica: «(…) nel periodico avvicendarsi di progressi della teoria scientifica e di successi tecnici si può scorgere l’alternarsi di periodi di prevedibilità e imprevedibilità. S’intende che un tale modello possiede un alto grado di convenzionalità. Una catena coerente di esplosioni e sviluppi graduali non esiste mai isolatamente nella realtà. Essa è circondata da fasci di processi a lei sincronici, e queste influenze collaterali, ingerendosi costantemente, possono turbare il quadro preciso dell’alternanza delle esplosioni e delle gradualità», J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 79.

222 Ivi, p. 18. 223 Già nel 1976 Lotman scriveva: «i timori nei confronti della scientifizzazione e

tecnicizzazione della cultura sono antichi e hanno radici profonde. L’uomo meccanico, l’automa, la bambola viva, un mondo dominato dagli uomini sono incubi tradizionali della cultura dell’era moderna. (…) Quando Hoffmann fantasticava di bambole senz’anima e di automi maligni, aveva davanti agli occhi l’enorme macchina sociale prussiana, che non brillava affatto per attività tecnica e per progresso scientifico», J. Lotman, Che cosa dà l’approccio semiotico? (Čto daët semiotičeskij podchod?, Moskva 1976), in La semiotica nei Paesi Slavi. Programmi, problemi, analisi, op. cit., poi in F. Sedda (a cura di), Tesi per una semiotica delle culture (con il titolo “Che cosa dà l’approccio semiotico?”), Meltemi, Roma, 2006. Qui si userà la versione del 2006, quindi p. 225.

224 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., pp. 53-54. Nell’Unione Sovietica, conferma Tagliagambe, «sotto l’assillo per le urgenze pratiche dettate dalla pianificazione e dai problemi dell’emergenza economica, [il prassismo tecnologico] finisce per provocare la svuotamento della stessa cultura scientifica. La scienza viene piegata sempre più alle necessità sociali di breve e brevissimo periodo e modellata e valutata sulla base dei risultati pratici conseguiti nell’immediato», S. Tagliagambe, Scienza, filosofia, politica in URSS. 1924-1939, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 48.

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225 L’ordine del sapere pratico «comprende sia il dominio dell’Agire (“agibile”,

practón), sia quello del Fare (“factibile”, poietón). L’ordine dell’Agire rappresenta il dominio della moralità, o del bene propriamente umano. (…) [Per il positivismo] non esiste un ordine dell’agire o della moralità come tale, [per cui] l’intero ordine del pratico si risolve sostanzialmente nel tecnico: l’essenza del positivismo e della tecnocrazia risiede nella affermazione che la soluzione dei problemi pratici si riduce a quella dei problemi tecnici», V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 23.

226 Come ha sottolineato Abbagnano, «il positivismo è il romanticismo della scienza. La tendenza propria del romanticismo a identificare il finito e l’infinito, a considerare il finito come la rivelazione e la realizzazione progressiva dell’infinito, è trasferita e realizzata dal positivismo nel seno della scienza. Con il positivismo, la scienza si esalta, si pone come l’unica manifestazione legittima dell’infinito, perciò di carica di un significato religioso (…). Il positivismo accompagna e stimola la nascita e l’affermazione dell’organizzazione tecnico-industriale della società, fondata e condizionata dalla scienza. (…) L’uomo ha creduto in quest’epoca di aver trovato nella scienza la garanzia infallibile del proprio destino. Ha rigettato perciò, ritenendola inutile e superstiziosa, ogni garanzia soprannaturale e ha posto l’infinito nella scienza, costringendo nelle forme di essa la morale, la religione, la politica, la totalità della sua esistenza», N. Abbagnano, Storia della filosofia. La filosofia moderna e contemporanea: dal Romanticismo all’esistenzialismo, volume III, UTET, Torino 1993, p. 281.

227 V. Possenti, “Introduzione” a Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano, 1979, p. 33.

228 Una teoria asservita alla prassi – ove la prassi è priva dell’ordine dell’agire (cf. supra) – «altro non è che una teoria che regola una tecnica, che si pone come estranea e indifferente all’agire etico, e che infine costituisce in contrapposizione ragione e norme/valori, lasciando a decisioni arbitrarie e soggettive il campo dell’agire. La differenza tra norme/valori e decisioni/scelte è (…) sostanziale: le prime, fondate filosoficamente, esprimono una regolazione razionale dell’agire, le seconde prese in quanto tali e separatamente dal loro essere giustificate dal valore, sono fondate solo in una opzione di senso personale ed esistenziale, arbitrariamente fatta propria o assunta dal soggetto. L’etica, come scienza del bene e della libertà, si dissolve in una opinione oggettiva riguardo ai valori: è quanto accade oggi in una società nella quale ad un crescente potere di

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disposizione tecnica sulla natura si congiunge una crescita di soggettivismo e irrazionalismo dell’agire. La potenza sui mezzi è pagata a caro prezzo con una irrazionalità dei fini », Ivi, p. 55.

229 E. Morin, “Le vie della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 33.

230 L. Pareyson, “Filosofia e ideologia”, in Ideologia e filosofia. Atti del XXI convegno del Centro studi filosofici tra professori universitari. Gallarate 1966, Mocelliana, Brescia, 1967, pp. 40-63.

231 La verità intemporale e universale a cui ciascuno, personalmente, può aprirsi e mettersi in ascolto, senza mai pretendere di esaurirla o possederla. In questa prospettiva la situazione storica è via d’accesso alla verità, che si rivela attraverso le molteplici, storiche, valide interpretazioni che essa riceve (ove l’interpretazione non è soggettivismo o intimismo ma apertura ontologica della persona), Ivi, pp. 40-63.

232 Benché, come abbiamo ripetutamente visto, in Lotman l’uomo è sempre sovrainformato dalla semiosi, che attira la “realtà” nella realtà (la cultura).

233 Iato che afferma che «non vi è l’“io” senza gli “altri”. Ma solamente nella coscienza dell’uomo “io” e “tutti gli altri tranne me” vanno a formare un qualcosa di unitario e allo stesso tempo di conflittuale», J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 51.

234 Scrive Lotman in uno dei suoi ultimi, bellissimi saggi, “Il ritratto” (1993): «Il ritratto antico – l’impronta del dito sull’argilla – rivela già una doppia funzione di partenza: esso vale non solo come qualcosa che sostituisce una persona (oppure la indica), ma anche come quella stessa persona, ossia è qualcosa di separabile e inseparabile dall’individuo, inseparabile nello stesso senso in cui non è separabile dall’individuo un piede o la testa. Analoga è la funzione del nome che, pur essendo indubbiamente un segno, non viene assimilato né grammaticalmente né funzionalmente alle altre parole della lingua. Per questo motivo il nome nella cultura arcaica costituiva un segreto, in ciò era come se rimandasse a una parte del corpo, oltretutto la parte più intima», J. Lotman, “Il ritratto” (Portret, 1993), in S. Burini e A. Niero (a cura di), Il girotondo delle Muse. Saggi sulla semiotica delle arti e della rappresentazione, op. cit., p. 64.

235 I testi arcaici, riflesso delle leggi del tempo ciclico, oltre a non presentare le categorie dell’“inizio” e della “fine” non mostrano neppure la figura del soggetto, che implica un “distacco” dell’uomo da ciò che lo circonda, ossia una presa di coscienza del suo essere altro dal cosmo. Queste considerazioni sono evincibili dal saggio “L’origine del soggetto in

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prospettiva tipologica” (I. Lotman, “El origen del sujet a una luz tipológica” (Proisjozhdenie siuzheta v tipologuicheskom osveshchenii, Tartu 1973), La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998).

236 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 48.

237 Sul valore ontologico dei nomi propri si veda il saggio: J. M Lotman, “Mito – Nome – Cultura” (Mif – Imja – Kul’tura, Tartu 1973), in Semiotica e cultura, op. cit.

238 J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., pp. 48-49.

239 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 41. 240 Y. Lotman, “Culture as a subject and an object in itself” (Kultura kak subekt i

sama-sebe obekt, Tartu 1989), Trames, 1(51/46), 1, p. 12. 241 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., pp. 43 e 106. 242 Y. Lotman, “Culture as a subject and an object in itself” (Kultura kak subekt i

sama-sebe obekt, Tartu 1989), Trames, 1(51/46), 1, p. 12. 243 Ibidem. 244 Ibidem. 245 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 40. 246 Un «insieme unitario di carne, composto di membri omogenei, “una mano

di milioni di dita, stretta in un pugno micidiale” (Majakovskij)», Ivi, p. 39. Nelle parole di Lotman sembrano riecheggiare quelle di M. De Certeau, che nella dedica alla sua Invenzione dei quotidiano, scrive: l’epoca contemporanea vede «l’avvento del numero, quello della democrazia, della grande città, delle amministrazioni, della cibernetica. È il flusso continuo della folla, tessuto fitto come una stoffa senza strappi né rammendi, composto da una moltitudine di eroi quantificati che perdono nome e volto divenendo il linguaggio mobile di calcoli e di razionalità che non appartengono a nessuno. Fiumi di numeri lungo le strade», M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2005, pp. 25-26.

247 A. Badiou, Il secolo, Feltrinelli, Milano, 2006. 248 A. M. Baggio, “Trinità e politica”, Nuova Umanità, XIX (1997/6) 114, p. 777-

778. 249 Ancora, Baggio individua quattro tipologie di inclinazioni politico-societarie

che possono deformare il rapporto io-noi e che traggono origine dall’interpretazione ideologica di due termini fondativi per la società

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politica: l’amicizia e la giustizia (Aristotele, Etica nicomachea, VIII, 1, 1155°). Da una parte, scrive Baggio, «stanno le posizioni di coloro che svalutano la giustizia, a privilegio dell’amicizia»: da questa scelta scaturiscono tanto la variante utopica – che vede «una società perfettamente strutturata come un formicaio, o perfettamente destrutturata e spontanea» – quanto la variante corporativa o tradizional-comunitarista, ove «a ciascuno è assegnato un compito ed un ruolo nell’organismo, in base ad un ordinamento e a dei valori tramandati». Dall’altra parte stanno le posizioni di coloro che diffidano dell’amicizia e «assumono la giustizia come perno unico della costruzione sociale». Da questa scelta si configurano tanto la variante individualistica – in cui «la giustizia è considerata esclusivamente dal punto di vista dell’uguaglianza formale dei singoli, che vengono posti, dalla legge, in condizione di parità», poi non sempre effettiva – quanto la variante collettivista, ove la giustizia è «considerata soprattutto dal punto di vista materiale», A. M. Baggio, “Trinità e politica”, Nuova Umanità, XIX (1997/6) 114, pp. 775-776.

250 J. Lotman, Universe of the Mind. A Semiotic Theory of culture, op. cit., p. 138.

251 Ivi, p. 139. 252 Nel periodo stalinista avviene lo stesso sciame di esecuzioni a catena, ma a

causarle è il meccanismo di sospetto e accusa generato dal collettivismo sovietico.

253 E. Montale, articolo sul “Corriere della sera”, 9 aprile 1967, riportato in “Antologia critica” a Il maestro e Margherita, Dalai editore, Milano, 2011.

254 A. M. Baggio, “Trinità e politica”, Nuova Umanità, XIX (1997/6) 114, p. 769. Scrive L. Pareyson: «le ideologie sono per natura totalizzanti, cioè pretendono d’essere una visione completa e totale del mondo. (…) considerano la verità come totalmente esplicitabile, cioè come possibile oggetto d’un possesso esclusivo», L. Pareyson, “Filosofia e ideologia”, in Ideologia e filosofia. Atti del XXI convegno del Centro studi filosofici tra professori universitari. Gallarate 1966, Mocelliana, Brescia, 1967, p. 59-60.

255 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 84. 256 O “simmetrici”. 257 Scrive Lotman: «Il mondo è in continuo mutamento. Spesso ci troviamo a

ripetere l’antico detto sul come sia impossibile entrare due volte nello stesso fiume. (…) Wittgenstein sosteneva la tesi (…) che non è possibile, rimanendo all’interno della logica, descrivere qualcosa di nuovo. Si tratta di un pensiero molto profondo, che distingue i processi dinamici in processi

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“che si compiono all’interno della logica” – che cioè sono prevedibili e non creano niente che sia radicalmente nuovo – e processi che una logica rigorosa definisce “scorretti”. Sono proprio questi ultimi a generare il nuovo. (…) Generatori del nuovo sono i processi asimmetrici: qui pertanto è racchiuso il meccanismo della semiosi dinamica. Ma i processi simmetrici, che dominano il mondo intellettuale degli animali, occupano un posto sostanziale anche nel mondo umano», Ivi, p. 84.

258 Lotman aveva già messo in luce l’importanza dell’alterità nella comunicazione umana in uno scritto del 1983, “Una teoria del rapporto reciproco fra le culture (da un punto di vista semiotico”, in occasione del quale aveva cercato di delineare una teoria del rapporto reciproco fra le culture. Egli osserva come il bisogno dell’altro-da-sé sia presente tanto nei rapporti intersoggettivi quanto in quelli inter-intraculturali (una cultura, un popolo, un linguaggio, un testo altri), notando quindi che il concetto di alterità porta, in seno alla comunicazione umana, a tre paradossi che rigettano completamente l’idea di “semplicità” di atto comunicativo – qui Lotman, pur se in modo implicito, sta facendo una dura critica a tutti quei modelli che vorrebbero l’atto comunicativo come un mero passaggio di informazioni da un soggetto A (emittente) a un soggetto B (ricevente). Lotman parte dalla considerazione che l’evoluzione biologica dell’uomo, dalle reazioni monocellulari alla dialogicità sessuale, è un cammino verso la complessità; egli in particolare è incuriosito dal fatto che attorno ad un’azione eminentemente “meccanica” come quella della riproduzione, la cultura costruisca una ricchissima casistica di situazioni ove è proprio la non praticabilità di quest’azione ad assurgere a modello culturale (l’ideale dell’amor platonico, il codice cavalleresco dell’amore, l’erotismo mistico delle sete medievali, ecc.): “incontriamo, scrive Lotman, un processo di progressiva complicazione che è in contraddizione con la funzione di partenza” (art. cit. p. 120.). La dialogicità sessuale, cioè, essendo l’archetipo di una duplicità originaria (l’io e l’assolutamente altro), sembra doversi caricare semioticamente di un’infinita serie di opposizioni semantiche che rendano conto della sua contraddittorietà, ossia della sostanziale irriducibilità dei soggetti della comunicazione (I paradosso). Ma questa contraddittorietà, continua Lotman, oltrepassa l’ambito della polarità sessuale e si manifesta in generale nel linguaggio umano, ove sembra essere importante non tanto la circolazione dell’informazione semplice quanto di quella complessa: anzi, sottolinea Lotman, paradossalmente i testi dotati di maggior valore culturale e antropologico e di più alta densità

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semantica e capacità innovativa – ossia gli atti della coscienza creativa (poesia, arte, mito, ecc.) – sono proprio i meno adatti ad essere trasmessi, per via della loro intraducibilità in altre lingue (II paradosso). La coscienza creativa, dunque, per essere tale, non può sussistere in un sistema totalmente isolato, statico, monostrutturale, ma ha bisogno di uno scambio con l’esterno, che si può realizzare solo attraverso la traduzione interlinguistica e intertestuale, in una parola: con il dialogo. Con un ulteriore salto, dal linguaggio alla cultura, Lotman arriva a dire che un testo estraneo, l’altro-da-sé, non solo è importante ma necessario, costitutivo, vitale per lo sviluppo culturale, pena la sua implosione semantica: “non si può avere uno sviluppo immanente della cultura, scrive Lotman, senza l’affluire di testi dall’esterno” (art. cit. p. 124). Tanto più allora un sistema culturale sarà complesso e comprensivo di formazioni a loro volta eterogenee – specialmente se rientranti nell’orbita della coscienza creativa – tanto più esso avrà bisogno di un continuo scambio con l’esterno per svilupparsi organicamente e trasformarsi in un nuova realtà. Arriviamo così al III paradosso della comunicazione umana: il congegno minimo capace di generare informazioni nuove oltrepassa sensibilmente il rapporto unidirezionale alla Robinson Crusoe: esso si configura piuttosto, secondo Lotman, come una catena comunicativa ove i soggetti coinvolti (siano essi persone, popoli o culture) devono essere personalità semiotiche indipendenti la cui relazione si realizza in una progressiva integrazione di codici e memoria – in un linguaggio meno cibernetico potremmo dire: di linguaggi e tradizione. Ciò che emergerà da questa relazione dialogica sarà una nuova personalità semiotica ove le differenze si riconoscono nell’identità e l’identità nelle differenze: ove cioè le mani possono stare una di fronte all’altra.

259 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 44. Lotman aveva già preso la Trinità come modello di spiegazione ideale della semiosi nel saggio “Cervello – testo – cultura – intelligenza artificiale”: «Alla base del dispositivo pensante si trova una contraddizione: il dispositivo capace di produrre nuova informazione deve essere unico e doppio al stesso tempo. Questo significa che ciascuna delle sue sub-strutture binarie deve essere al contempo tanto un tutto quanto una parte del tutto. Il modello ideale diventa la Trinità, ove ogni tutto è una parte di un’unità di un ordine più alto, e ogni parte è un tutto a un livello più basso», J. Lotman, “Cervello – testo – cultura – intelligenza artificiale”, in Semiosfera: humanidades-tecnologías, Universidad Carlos III de Madrid. Instituto de

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Humanidades y Comunicación "Miguel de Unamuno", 2/1994, p. 89-90. Più in generale, la Trinità, come modello ideale del rapporto fra gli uomini, sembra essere una costante nella riflessione contemporanea. Si pensi a E. Morin che, dovendo spiegare il cosiddetto pensiero multidimensionale della società odierna, si basa prima sul modello dialogico (e non dialettico!) e poi su quello trinitario: «che cosa significa dialogica? Significa che due logiche, due “nature” due principi sono connessi in un’unità senza che con ciò la dualità si dissolva nell’unità. Stanno in ciò le radici di quell’idea di “unidualità” da me proposta in taluni casi: così l’uomo è un essere uniduale, nello stesso tempo completamente biologico e completamente culturale. Anche i tre possono essere uno. La teologia cattolica ha espresso ciò nella Trinità, nella quale le tre persone sono una sola persona pur restando distinte e separate. È un bell’esempio di complessità teologica, in cui il Figlio rigenera il Padre da cui è generato, e in cui le istanze si generano reciprocamente. In altro modo – ma in maniera altrettanto difficile – dobbiamo intendere la dialogica sulla Terra», E. Morin, “Le vie della complessità”, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 33.

260 Non è corretto infatti definire la Trinità come “binarietà di materiale e spirituale” poiché, teologicamente, si tratta di Tre distinte Persone, e non di Due che, relazionandosi, formano “a un livello più alto” (cf. supra “Cervello – testo – cultura – intelligenza artificiale”, pp. 89-90) una superiore unità.

261 Va sottolineato che nel mondo russo ortodosso si stagliano grandi pensatori della Trinità come P. A. Forenskij o S. N. Bulgakov. Come ha sottolineato N. Valentini, nell’alterità florenskijana – di cui Lotman è debitore – l’«apertura dell’Io verso il non-Io non è semplicemente il risultato di una relazione duale, bensì ternaria, poiché solo nel Terzo può accadere quell’autentico riconoscimento è ritrovamento del soggetto. Utilizzando il linguaggio della logica formale il filosofo russo precisa in che senso sia possibile pensare a un soggetto che dimostra se stesso. Soltanto la relazione triadica può aprire il senso di un’autentica fondazione dell’identità attraverso l’alterità, sia pure nella distinzione e senza alcuna con-fusione totalizzante. Solo in essa, per Florenskij, il soggetto della verità dischiude con graduale nitidezza il triplice Volto dell’Io, del Tu e del Lui: “L’autodeterminazione e autofondazione dell’Io soggetto della verità è un rapporto con il Lui attraverso il tu. Attraverso il tu, l’Io si fa Lui oggettivo e in questo trova la propria affermazione e oggettivazione come Io. Il Lui è l’Io rivelato”. (…) Diversamente dalle filosofie dialogiche neo-ebraiche da Buber a Lévinas che

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approdano alla differenza e al primato dell’alterità» ovvero al «principio dialogico e [alla] struttura intersoggettiva come dato costitutivo del soggetto», l’etica florenskijana arriva sì all’altro ma per approdare all’«unità sostanziale (comunionale)», N. Valentini, “L’etica dell’alterità come amicizia”, in Saperi in dialogo. Dieci anni di ricerche, Liguori Editore, 2004, p. 42, 45 (cit. P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, 1998:83).

262 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. P. 44. 263 Ibidem. 264 Ibidem. 265 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”,

art. cit., p. 791. 266 Tradotto in italiano: J. Lotman, “Semiotica dei concetti di “vergogna” e

“paura”” (O semiotike ponjatij “styd” i “strach” v mechanizme kul’tury, Tartu 1970), in Tipologia della cultura, p. cit.

267 Tradotto in italiano: J. Lotman, “L’ode di Lomonosov ispirata al libro di Giobbe” (Ob “Ode vybrannoj iz Iova” Lomonosova, AN SSSR, Serija Literatury i Jazyka, vol. 42, n. 3, 1983), in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit.

268 Tradotto in spagnolo: I. Lotman, “El progreso técnico como problema culturologíco” (Tejnicheskii progress kak kul’turologuicheskaia problema, Tartu 1988), in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996. Tradotto in inglese: Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture” (Tejnicheskii progress kak kul’turologuicheskaia problema, Tartu 1988), Poetics Today, Vol. 12, No. 4, National Literatures / Social Spaces (Winter, 1991), Duke University Press, pp. 781-800.

269 J. Lotman, “Nella prospettiva della rivoluzione francese” (V perspektive Frantsuzskoj revoljutsii, 1989), in Istorija i tipologija russkoj kul’tury, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2002, pp. 371-374.

270 Tradotto in spagnolo: I. Lotman, “Sobre el papel de los factores casuales en la evolución literaria” (O roli sluchainyj faktorov v literaturnoi evoliutsii, Tartu 1989), in Discurso. Revista Internacional de semiótica i teoría literaria, 8/1993.

271 J. Lotman, “Il meccanismo dei Torbidi (Per una tipologia della cultura della storia russa)” (Mechanizm Smuty (K tipologii russkoj istorii kul’tury), 1992), in “Studia Russica Helsingiensia et Tartuensia III”, Slavica Helsingiensia 11,

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Helsinki, 1992, 7-23; poi in Istorija i tipologija russkoj kul’tury, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2002, pp. 33-46.

272 “Segadusteaja mehhanism (Vene kultuuriajaloo tüpoloogiast)”. 273 J. Lotman, “Volontà di Dio o gioco d’azzardo? Le leggi della storia e i processi

casuali” (Izjavlenie Gospodne ili azartnaja igra? Zakonomernoe i slučajnoe v istoričeskom protsesse, 1992), in Ju. M. Lotman i Tartusko-Moskovskaja semiotičeskaja škola (izbrannye stat’i 1992-1993), Gnozis, Moskva, 1994, pp. 353-363; poi in Istorija i tipologija russkoj kul’tury, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2002, pp. 342-348.

274 Tradotto in italiano: J. Lotman, “La caccia alle streghe. Semiotica della paura” (Ochota za ved’mami. Semiotika stracha, Tartu 1998), in T. Migliore (a cura di), Incidenti ed esplosioni. A. J. Greimas e J. M. Lotman. Per una semiotica della cultura, nota introduttiva di S. Burini, Aracne Editrice, Roma, 2010. Fondamentale è la nota redazionale scritta da Mihhail Lotman per questo lavoro pubblicato solo nel 1998. Il saggio, spiega il filologo estone, «rientra in un ciclo di ultime ricerche di Ju.M. Lotman dedicate all’analisi della semiotica del cataclisma sociale e che si raggruppano attorno alla monografia La cultura e l’esplosione. L’inizio di questo ciclo si considera l’articolo Sull’«Ode tratta dal libro di Giobbe» di Lomonosov, mentre la seconda pubblicazione doveva essere il presente lavoro, il cui testo è stato redatto in due varianti: 1) Caccia alle streghe. La semiotica della paura e 2) La paura collettiva come fenomeno storico. La caccia alle streghe. Entrambe le varianti hanno più o meno la stessa lunghezza (la seconda è di una pagina più lunga), ma sono profondamente diverse sia per come viene posta la questione, sia per le conclusioni semiotiche a cui si giunge. La seconda variante comincia con un rimando alle idee e alle pubblicazioni di Ilya Prigogine, cosa che ci permette datarla intorno alla fine 1988 - inizio 1989 (prima della partenza di Lotman per Monaco). Ju.M. Lotman molto di rado rifaceva in modo radicale un lavoro già scritto, preferendo, in caso di necessità, scriverne uno nuovo («quel ch’è scritto, è scritto», usava commentare in questi casi). La presenza stessa di due varianti, quindi, dice di quanto fossero importanti per l’autore sia questo tema sia il tipo di cambiamenti apportati. A memoria di chi scrive, due volte Ju.M. Lotman annunciò che avrebbe dovuto totalmente rivedere le cose sinora studiate o addirittura mettersi a studiare daccapo. La prima “crisi” fu all’inizio degli anni ’60 ed era collegata all’interesse per la cibernetica, la teoria dell’informazione e discipline matematiche quali la logica, la teoria del gioco e soprattutto la topologia. La seconda “crisi” era invece collegata allo

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studio dei processi che si trovavano nei punti di intersezione fra la semiotica della cultura, la storia e la psicologia della coscienza di massa. Il grande entusiasmo con cui Lotman aveva recepito le idee di Prigogine era anche dovuto al fatto che lui stesso, sulla base del suo stesso materiale, era giunto a conclusioni in una certa misura simili. Purtroppo, nell’archivio di Lotman la seconda variante, quella che rielabora il lavoro che qui viene pubblicato, si è conservata soltanto in modo incompleto: mancano le pagine 15-20. Il dattiloscritto è costituito dalla terza copia battuta a macchina, il che significa che la prima e la seconda erano state consegnate per la stampa oppure portate in Germania; della loro sorte per ora non si sa nulla», M. Lotman, “Nota redazionale” a “La caccia alle streghe. Semiotica della paura”, art. cit., pp. 243-244.

275 “Objasnenie mekhanizma vozniknovenija massovykh emotsij” (1987), depositato presso l'Estonian Semiotics Repository dell'Estonian Institute of Humanities (University of Tallinn).

276 J. M. Lotman, “Ripetitività e unicità nel meccanismo della cultura” (Povtorjaemost’ i unikal’nost’ v mechanizme kul’tury, 1992), in Istorija i tipologija russkoj kul’tury, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2002, pp. 67-70.

277 «La storia tende sempre di più a diventare una scienza della coscienza di massa», J. Lotman, “La caccia alle streghe. Semiotica della paura”, art. cit., p. 245.

278 Ivi, p. 246 (corsivo mio). 279 Il semiologo russo è debitore degli studi di M. Vovelle sulla Rivoluzione

Francese, un periodo storico estremamente “passionale”, dominato dal mito della cospirazione.

280 Pochi anni prima, era uscito in Francia Il capro espiatorio (Le Bouc émissaire, 1982) di René Girard, di cui Lotman non era a conoscenza – sebbene, in genere, recepisse la letteratura europea occidentale in lingua francese.

281 L’uso delle analogie storiche si rifà all’approccio comparativo che abbiamo delineato nei paragrafi precedenti. Non si tratta di un “giocare al passato”, tendenza da cui Lotman mette seriamente in guardia.

282 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”, art. cit., p. 785.

283 Ivi, p. 792. 284 Scrive Baggio a questo proposito: «le diverse forme di pensiero utopico –

che puntino, come meta finale, ad una società perfettamente strutturata come un formicaio, o perfettamente destrutturata e spontanea – hanno in comune l’idea di perfezione, ritenuta alla portata delle natura umana, come

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possesso già presente anche se soffocato da condizioni avverse che vanno rimosse, o come termine di un progresso». Nella società utopica, dunque, non è «necessario preoccuparsi della giustizia formale, ma [bisogna] invece rimuovere le cause – sociali, istituzionali – dell’inimicizia, dando vita ad un assetto sociale completamente diverso, che consenta l’espressione di tutte le possibilità positive contenute nella natura umana: l’eliminazione degli ostacoli all’amicizia porterebbe di per sé gli uomini, considerati come naturalmente buoni, ad una condizione di fraternità e di amicizia superiori alla giustizia»: una fraternità e un’amicizia, però, rigidamente controllati dall’ideologia della virtuosità (A. M. Baggio, “Trinità e politica”, Nuova Umanità, XIX (1997/6) 114, p. 774-775).

285 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”, art. cit., p. 785. Lotman cita F. Bacon, The Advancement of Learning and New Atlantis, Oxford University Press, London, 1974. Per la traduzione ci si è serviti di F. Bacon, La Nuova Atlantide, in Scritti filosofici, (a cura di) P. Rossi, Torino, Utet, 1975. Molti anni prima, in un saggio del 1976, Lotman scriveva: «nel corso dei secoli l’aspetto tecnico-scientifico era orientato verso l’idea che il mondo della natura fosse fatto in modo imperfetto, che bisognasse perfezionarlo, che di conseguenza occorresse inventare ciò che in natura non esiste e razionalizzare ciò che esiste in essa. Per la coscienza scientifica contemporanea il mondo della natura si rivela come un meccanismo estremamente complesso e finalizzato, le cui lezioni non possiamo largamente utilizzare solo a causa della nostra impreparazione tecnico-scientifica», J. Lotman, Che cosa dà l’approccio semiotico? (Čto daët semiotičeskij podchod?, Moskva 1976), in La semiotica nei Paesi Slavi. Programmi, problemi, analisi, Feltrinelli, Milano, 1979, poi in F. Sedda (a cura di), Tesi per una semiotica delle culture (con il titolo “Che cosa dà l’approccio semiotico?”), Meltemi, Roma, 2006. Qui si userà la versione del 2006, quindi p. 226. Anche P. Francastel ha sottolineato che «il Rinascimento ha creato l’immagine di una natura distinta dall’uomo, ma sul metro dell’uomo e delle sue reazioni. [La contemporaneità] indica che andiamo verso un mondo di relazioni, nel quale l’uomo non è più modello e centro di tutte le cose. Non è più la natura fatta ad immagine dell’uomo, ma è l’uomo che è ad immagine della natura», P. Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, Mimesis, Milano 2005 p. 192.

286 La nascita del concetto albertiano di prospettiva – Leon Battista Alberti, Trattato della pittura (1435) – come “finestra aperta sul mondo”, e di “punto di vista” ha potenziato la suggestione mimetica dell’immagine e ha

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fatto esperire lo spazio come un occhio sull’infinito. Scrive Erwin Panofsky: «(…) l’intero quadro – per citare le parole di un altro del Rinascimento [ossia Alberti] – si trasforma in una “finestra” attraverso la quale noi crediamo di guardare lo spazio, – dove cioè la superficie materiale pittorica o in rilievo, sulla quale appaiono, disegnate o scolpite, le forme delle singole figure o delle cose, viene negata come tale, e viene trasformata nel “piano figurativo” sul quale si proietta uno spazio unitario visto attraverso di esso e comprendente tutte le singole cose – indipendentemente dal fatto che questa proiezione venga costruita in base all’impressione sensibile immediata oppure mediante una costruzione geometrica», E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1985, p. 37.

287 Ossia l’implementazione dei collegamenti stradali e navali. A intensificare questa percezione ristretta dello spazio è, inoltre, l’artiglieria: l’uomo rinascimentale sperimenta infatti che la profondità infinita dello spazio simbolico viene contraddetta dalla distanza immediata della palla di cannone (Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”, art. cit., p. 784).

288 Lotman parla di una “filosofia della fortuna” che alimentò lo spirito rinascimentale di amoralità e di avventurismo (Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”, art. cit., p. 788).

289 La critica di Lotman va chiaramente al machiavellismo e alla rottura del patto tra etica e politica – di cui il semiologo russo ha esperienza sulla sua pelle, ovviamente in altri luoghi e in altri tempi.

290 Come puntualizzato ne “La caccia alle streghe”, con i progressi della produzione libraria si ha anche una forte diffusione della letteratura demonologica.

291 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”, art. cit., p. 797 (i verbi sono tutti tradotti al presente).

292 Ivi, p. 793. 293 Lotman fa il seguente esempio: «Le cose nuove, prive di radici tradizionali,

posseggono un accentuato potenziale simbolico. La significatività degli oggetti crea una mitologia degli oggetti. Così, [nel Rinascimento], da un lato, emergeva una mitologia dell’oro, del lusso e dello splendore, che si mescolava al mito dell’uomo abile artigiano, creatore divino (…). Dall’altro, vi era il mito popolare dell’“Oro del Diavolo” e della natura demoniaca di ogni cosa creata da mani umane. L’odio per l’arte si mischiò con l’odio per la ricchezza e divenne la base di tutto uno strato della mitologia popolare»,

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Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”, art. cit., p. 796.

294 Scrive Lotman: «Nell’atmosfera di speranza e paura tipica del Rinascimento, l’atteggiamento sfacciato di alcuni e la perplessità di altri erano profondamente intrecciati. Questa era l’atmosfera della rivoluzione scientifica e tecnologica. La paura era causata dalla perdita di orientamento nella vita. Ma coloro che la sperimentavano non la percepivano in questi termini. Erano alla ricerca di un capro espiatorio, bramosi di scovare i responsabili della corruzione generale. La paura desiderava ardentemente di incarnarsi. Prima di tutto apparve la paura per la scienza e la paura per lo scienziato, la cui figura nell’immaginario comune era quella di un mago malvagio con il diavolo che sbircia dalla sua spalla», Ivi, p. 789.

295 J. Lotman, “Semiotica dei concetti di “vergogna” e “paura”” (O semiotike ponjatij “styd” i “strach” v mechanizme kul’tury, Tartu 1970), in Tipologia della cultura, op. cit., p. 212.

296 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”, art. cit., pp. 790 e 796.

297 Tradotto in italiano: J. Lotman, “L’ode di Lomonosov ispirata al libro di Giobbe” (Ob “Ode vybrannoj iz Iova” Lomonosova, AN SSSR, Serija Literatury i Jazyka, vol. 42, n. 3, 1983), in La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, op. cit., p. 152.

298 Ivi, p. 150. 299 Ivi, p. 790 e J. Lotman, “La caccia alle streghe. Semiotica della paura”, art.

cit., p. 250. 300 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”,

art. cit., p. 790. 301 Ibidem. 302 Ivi, p. 790. 303 Scrive Lotman ne “La caccia alla streghe”: «Per una società sopraffatta dalla

paura, come si profila questo nemico? Il primo, fondamentale modo in cui ci si rappresenta le streghe può essere così formulato: esse sono una pericolosa minoranza organizzata. Il primo tratto caratteristico dell’oggetto della paura è la sua minoritarietà. La società sceglie la sua parte effettivamente meno difesa, la parte che subisce il maggior numero di offese sociali, facendola assurgere al rango di nemico. Nel periodo che ci interessa, tale minoranza era senza dubbio rappresentata dalle donne», J. Lotman, “La caccia alle streghe. Semiotica della paura”, art. cit., p. 253.

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304 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”,

art. cit., p. 792. 305 J. Lotman, “La caccia alle streghe. Semiotica della paura”, art. cit., pp. 254-

255. 306 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”,

art. cit., p. 792. 307 J. Lotman, “La caccia alle streghe. Semiotica della paura”, art. cit., p. 258. 308 Così Lotman spiega il clima di terrore che caratterizza la caccia alle streghe,

così come diversi altri periodi della storia: «Da un punto di vista psicologico l’atmosfera intorno alla caccia alle streghe si crea in questo modo: all’inizio le streghe rappresentano per i loro persecutori un numero estremamente ridotto di esseri malintenzionati dai tratti palesemente evidenti (le si può distinguere anche in base all’aspetto esteriore e al comportamento senza bisogno di ricerche particolari). La lotta contro di loro appare non difficile. Poi, l’atmosfera di crescente sospetto induce a immaginare la furbizia del diavolo, che nasconde abilmente i suoi adepti. L’assenza di indizi aumenta ancora di più il sospetto, di quanto non faccia la loro presenza: nell’assenza si scorgono le insidie e le trappole di Satana. A questo punto possono destare sospetti non coloro che celebrano i riti della chiesa in modo disattento, ma coloro che lo fanno con troppo zelo: spesso l’andare in chiesa è indizio del desiderio di distogliere l’attenzione dei veri credenti e di indebolire la loro vigilanza. Denunciare la vicina in quanto strega non difende più la delatrice stessa dall’accusa di stregoneria, bensì induce al sospetto: non vorrà lei stessa in questo modo nascondere il proprio misfatto? Anche la tonaca e la dignità ecclesiastica non valgono come difesa: Satana è furbo. Gli accusatori, i delatori e i giudici stessi vengono inesorabilmente coinvolti in un meccanismo di distruzione, diventando vittime di quella stessa paura che, per i più diversi impulsi personali, aveva innescato prima di allora. Così Johann von Schöneburg, arcivescovo di Treviri, fa finire sul rogo il rettore dell’università che fino a quel momento era stato il giudice delle streghe, mentre Johann Georg II, vescovo di Bamberg, mette a morte il cancelliere e tutti i borgomastri, che così si trovano a sperimentare sulla loro pelle la logica incontrovertibile di un vortice che trasforma gli accusatori nelle vittime di una nuova ondata di accuse. In costoro si vedono i nemici più pericolosi, perché camuffati», Ivi, pp. 256-257.

309 Complice l’“addomesticamento” delle scoperte tecnologiche e una situazione strutturale (politica, religiosa, socioeconomica) più stabile.

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310 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”,

art. cit., p. 793. 311 L’uomo del XVIII secolo, scrive Lotman, si sentiva d’essersi risvegliato da un

sonno profondo e pesante, come il dormiente dell’opera di Goya, Il sonno della ragione genera mostri (El sueño de la razón produce monstruos, 1797).

312 Y. Lotman, “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture”, art. cit., p. 794.

313 Ivi, p. 791. 314 I. Lotman, “La memoria de la cultura” (Pamiat’ kul’tury, Vilnius 1986), in La

semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998, p. 155.

315 I. Lotman, “La memoria a la luz de la culturología” (Pamiat’ v kul’turologuicheskom osveshchenii, Wien 1985), in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996, p. 159.

316 Ibidem e p. 161. 317 Non a caso Lotman scrive nel 1988 un saggio sulla “Semiotica dello specchio

e della specularità”, sottolineando che la riflessione, la specularità e tutti i giochi del rispecchiamento sono parte integrante del meccanismo semiotico della cultura che, attraverso essi, crea i confini del diverso e del simile.

318 Questa prospettiva, secondo Lotman, disconosce tanto l’idea strutturalista che la cultura sia una fenomeno invariante, in cui i fatti storici sarebbero accidenti superficiali della sua essenza eterna ed extra-temporale, quanto l’idea evoluzionista che essa sia una struttura sì storica ma chiusa in se stessa, diretta progressivamente verso il suo fine (I. Lotman, “La memoria de la cultura”, art. cit., p. 152). Con parole diverse, nella Cultura e l’esplosione Lotman spiegherà la dinamica fra invarianza e novità nel seguente modo: «La cultura nel suo insieme può essere considerata come testo. È tuttavia eccezionalmente importante sottolineare che essa è un testo organizzato in maniera complessa, che si scinde in una gerarchia di “testi nei testi” e che forma un complesso intreccio di testi. Dato che la stessa parola “testo” include nella sua etimologia l’idea dell’intrecciarsi dei fili nel tessuto, possiamo dire che con una tale interpretazione restituiamo al concetto di “testo” il suo significato originario. (…) L’idea del testo come di uno spazio di senso organizzato in maniera omogenea si completa con un rimando

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all’intrusione di multiformi elementi “casuali” provenienti da altri testi. Essi entrano in un gioco imprevedibile con le strutture di base e aumentano bruscamente le possibilità di successivi imprevedibili sviluppi. Se il sistema si sviluppasse senza imprevedibili intrusioni esterne (cioè se fosse una struttura unitaria, chiusa in sé), allora si svilupperebbe secondo leggi cicliche. In questo caso il suo ideale sarebbe rappresentato dalla ripetitività. Preso isolatamente, un sistema finirebbe per esaurire persino i momenti esplosivi in esso inclusi. La costante introduzione in un sistema di elementi dall’esterno conferisce al suo movimento un carattere, allo stesso tempo, di linearità e imprevedibilità», J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 99.

319 I. Lotman, “La memoria a la luz de la culturología”, art. cit., p. 158. 320 Ivi, p. 159. 321 J. Lotman, Cercare la strada. Modelli della cultura, op. cit., p. 31. 322 J. Lotman, “Il simbolo nel sistema della cultura” (1987) e J. Lotman et al.,

“Osservazioni preliminari sul problema: emblema-simbolo-mito nella cultura del XVIII secolo” (1987); a questi va aggiunto il saggio di Z. Minc, “Alcune osservazioni supplementari sul problema: il simbolo nella cultura” (1987, nello stesso numero dei Trudy).

323 J. M. Lotman, “Il simbolo nel sistema della cultura” (Simvol v sisteme kul’tury, Tartu 1987), in Il simbolo e lo specchio. Scritti della scuola semiotica di Mosca-Tartu, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1997, p. 55.

324 Ibidem. 325 Ivi, p. 56. 326 I. Lotman, “El texto y el poliglotismo de la cultura” (Tekst i poliglotizm

kul’tury, Tallinn 1992), in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996, p. 89.

327 Ibidem.

APPENDICE

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Jurij M. Lotman

Il meccanismo dei Torbidi. (Per una tipologia della cultura della storia russa)∗

Descrivendo la peculiarità della rivoluzione russa V.I. Lenin scrive che tutte le rivoluzioni borghesi hanno avuto una fase preliminare e spontanea di preparazione, quando la loro struttura economica attraversava un periodo di “maturazione uterina” all’interno del sistema economico precedente. A differenza loro, secondo la caratterizzazione dello stesso autore, il sistema socialista non ha avuto il periodo di sviluppo uterino. Secondo questa concezione come conseguenza del passaggio dal capitalismo al socialismo si figurava un unico fenomeno – un’esplosione che distrugge le fondamenta della struttura sociale precedente e che sulla base dei suoi resti crea un sistema nuovo, impossibile fino a quel momento. La presente opera si prefigge lo scopo di dimostrare come nel caso in questione non si tratti di un fenomeno unico la cui peculiarità è determinata da una situazione che “non avrebbe precedenti nella storia dell’umanità” – il passaggio dalla società classista a una senza classi – ma di una delle caratteristiche determinanti del sistema binario, in particolare della storia russa durante il periodo moscovita-pietroburghese. Quindi non si dovrebbe parlare di specificità del passaggio da un sistema economico (capitalismo) a un altro (socialismo), ma di una certa costante nello sviluppo della struttura sociale binaria. La dinamica del sistema ternario è caratterizzata da una relativa gradualità. Questo certamente non esclude la manifestazione periodica di momenti esplosivi (rivoluzionari). Tuttavia il carattere stesso della rivoluzione è diverso nelle strutture binarie e ternarie. Nella struttura ternaria gli elementi sono distribuiti in modo non uniforme. A capo della collettività storica emerge una

∗ J. M. Lotman, Mechanizm Smuty. (K tipologii russkoj istorii kul’tury), (1992), in

Istorija i tipologija russkoj kul’tury, trad. a cura di B. Osimo, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2002, pp. 33-46.

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certa coppia conflittuale ed è proprio questa a determinare il carattere essenziale dell’epoca. Le peripezie drammatiche e gli scontri tra questi due strati culturali in primo luogo attirano l’attenzione sia dei contemporanei che degli storici. In questo caso il terzo elemento della cultura si trova in uno stato spontaneo. È nascosto nel profondo del conflitto e aderisce, di norma, a una delle tendenze dominanti, talvolta tingendosi delle sue sfumature e assimilando il suo programma. Ma nei momenti critici in cui le forze dominanti in lotta giungono a un vicolo cieco, dal quale non riescono a trovare l’uscita, e davanti alla società comincia a delinearsi il volto della catastrofe, d’un tratto emerge la “terza forza”, già abbastanza matura e pronta a occupare storicamente il posto di guida. In tali strutture l’esplosione non è caratterizzata dalla catastrofe generale – al suo interno si sprigiona una forza costruttiva: l’esplosione ripulisce le “stalle di Augias” della storia e apre la strada ad una nuova fase. Tale è stata per esempio la Rivoluzione francese che con il suo carattere catastrofico ha provocato lo stupore dei contemporanei e ha definito il modello storiografico di rivoluzione. Per gli storici le vicende dei conflitti politici, del terrore e delle guerre rivoluzionarie hanno messo in secondo piano la “terza forza” che fino allora si celava nel profondo degli avvenimenti. Il “grande terrore” e la distruzione di massa dei castelli nobiliari, l’occupazione dei terreni feudali da parte dei contadini, lo sviluppo dell’economia borghese: tutti questi processi hanno avuto inizio prima della rivoluzione e hanno proseguito il loro corso senza fondersi con la rivoluzione stessa. Non a caso la vittoria della controrivoluzione prima e il crollo dell’impero dopo non hanno influito sul passaggio dei terreni feudali nelle mani dei contadini. I papà Grandet e Goriot convivevano con tutte le peripezie politiche di quell’epoca catastrofica e quando il diluvio è finito nell’arca si trovavano proprio loro. Quindi il momento esplosivo racchiudeva in sé tendenze sia distruttive che costruttive e demolendo determinati strati dell’ordine sociale e culturale ha contemporaneamente spianato la strada ad altri. Nelle strutture binarie il momento esplosivo acquisisce un carattere diverso. Qui le tendenze in lotta, non avendo alcuna

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terza alternativa, devono scontrarsi frontalmente. In queste condizioni il cambiamento assume inevitabilmente il carattere di catastrofe e può realizzarsi solo in due forme: in primo luogo la tendenza a rinunciare al cambiamento in generale e a orientarsi verso la massima stabilità della struttura costituita, in secondo luogo la tendenza al completo annientamento apocalittico dell’esistente e la creazione al suo posto di un ordine ideale altrettanto apocalittico. Un esempio della prima tendenza è la Cina, e della seconda la Russia. Una tale sistema è stato descritto da Dostoevskij mediante Šigalev (Demoni). Dostoevskij pensava di descrivere la teoria “russa” della rivoluzione, ma in effetti ha creato un’immagine della rivoluzione di modello cinese – una società socialista con l’uguaglianza portata all’estremo e la completa regolamentazione dell’intero sistema, che crea per i propri cittadini qualcosa di simile allo sfogo psicologico, periodicamente subisce un’esplosione ossia liberazione estrema delle forze antisociali dell’uomo. Tuttavia in seguito la società ritorna di nuovo all’immobilità iniziale. Quindi tale esplosione non rappresenta una componente dinamica, ma la sua negazione. In sostanza, anche l’esplosione è una forma d’immobilità. L’altra forma del sistema binario è legata non all’immobilità, ma allo sviluppo estremo dell’imprevedibilità. Se nel primo caso la costante culturale-psicologica non cambia, nel secondo caso diventa una sfera di cambiamenti caotici. Nell’apparente contrapposizione le due tendenze sorgono sull’o stesso terreno della struttura binaria. Il sistema binario si è affermato nella storia russa dopo la fine del periodo di Kiev e ha abbracciato i periodi moscovita e pietroburghese e il secondo periodo moscovita iniziato dopo la Rivoluzione d’ottobre e finito con lo smembramento dell’Unione sovietica in stati indipendenti. In sostanza questo periodo può essere definito “epoca di formazione, fioritura e crollo dell’impero”. Tale periodo si è manifestato nella maggiore completezza durante la fase pietroburghese compresa in maniera quasi simbolica nella cornice simmetrica di Mosca.

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L’intero periodo è caratterizzato dal binarismo del sistema. La Rus’ di Kiev, attraversata da influenze scandinavo-bizantine, fiorita sul crocevia storico tra l’Occidente e l’Oriente, ha creato una combinazione unica nella storia russa tra cristianesimo e cavalleria. Un incrocio di strutture1 culturali così multiformi non ha avuto un seguito. La fase successiva aveva carattere binario. Tutti i sistemi socioculturali che si sono succeduti sul territorio russo durante il periodo tra il XV e XX secolo si distinguevano per una determinata unità ancor più evidente dato che ogni nuova fase dichiarava la propria unicità, negava i legami con tutti i sistemi precedenti e proclamava l’inizio di una nuova era nella storia dell’umanità o, per lo meno, nella Russia. Certamente tracciare il confine geografico tra le sfere delle strutture ternarie e binarie sarebbe possibile solo per mezzo di una schematizzazione molto approssimativa: all’interno dei diversi sistemi culturali nazionali possiamo rilevare integrazioni, mescolanze e contrasti in sincronia con le diverse culture. Tuttavia si può parlare di certe dominanti storico-culturali che in ogni periodo storico determinano la fisionomia della cultura in questione. Abbiamo in passato evidenziato che se nella cultura occidentale ha dominato l’accordo – principio giuridico basato sulla giurisprudenza romana – per i russi è molto più caratteristico il principio dell’“autoassegnazione”. La struttura binaria non riconosce nemmeno l’uguaglianza relativa delle parti in conflitto che permetterebbe di supporre il diritto della parte contrastante se non sulla verità, almeno sull’esistenza, ovunque sorga un conflitto: nella politica, nella religione, nella scienza o nell’arte. L’idea stessa della tolleranza è estranea alla psicologia del binarismo e al suo posto ci sono altre definizioni come mancanza di principi, opportunismo, sfiducia. Per questo la psicologia del binarismo riconosce solo la vittoria senza compromessi. Un tratto caratteristico del binarismo è il massimalismo. Il conflitto, ovunque si presenti, acquisisce il carattere di scontro tra il Bene e il Male. A ciò è legata la contraddizione sostanziale che sta alla base di tale sistema. L’idea dell’affermazione del paradiso terrestre è una delle idee più caratteristiche delle strutture binarie. Da qui la tipica

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divinizzazione del potere terrestre come forza che attua questa trasfigurazione miracolosa. Nel caso in questione non è molto importante se tale potere sia incarnato dal predicatore religioso, dal monarca o dal terrorista. È essenziale l’idea stessa di trasfigurazione finale dell’ordine terrestre. Tuttavia tale situazione ha custodito al suo interno la contraddizione iniziale: il passaggio dal regno del Male al «regno millenario di Dio sulla terra» s’immaginava come risultato momentaneo dell’esplosione salvifica che riorganizza l’intero mondo. Nello stesso tempo si sottolineava che l’assenza del periodo di transizione provoca la necessità di una pausa prima del salto. Il trionfo degli ideali viene rinviato a un futuro più o meno lontano, e per il momento deve cominciare un brusco peggioramento della vita. Il regno terrestre di Cristo deve essere preceduto dal regno dell’Anticristo. A questo riguardo il principio del binarismo ha radici profondi nell’Apocalisse e in una serie di dottrine mistiche del massimalismo. «Il quinto angelo suonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell'Abisso; egli aprì il pozzo dell'Abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l'atmosfera. Dal fumo uscirono cavallette che si sparsero sulla terra e fu dato loro un potere pari a quello degli scorpioni della terra. E fu detto loro di non danneggiare né erba né arbusti né alberi, ma soltanto gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte. Però non fu concesso loro di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi, e il tormento è come il tormento dello scorpione quando punge un uomo. In quei giorni gli uomini cercheranno la morte, ma non la troveranno; brameranno morire, ma la morte li fuggirà» (Apocalisse di Giovanni, 9, 1-6). Dopo il peccato finale, la fame e la morte viene la nascita del Nuovo Mondo. «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (l’Apocalisse di Giovanni, 21, 1-2).

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L’idea apocalittica del passaggio al Bene tramite il Male, come abbiamo già detto, si ripete regolarmente nelle svariate dottrine mistiche che confermano la vittoria finale del paradiso terrestre. Ma la stessa idea si incontra anche nelle dottrine rivoluzionarie. Confrontiamo per esempio lo slogan degli socialisti rivoluzionari: «Attraverso la sconfitta – verso la vittoria». I rivoluzionari vivono ogni impeto come un’offensiva escatologica del male prima dell’immancabile vittoria finale. Da qui la mitologia dell’“ultima battaglia decisiva”. A ciò è legata anche la poesia sulla morte e sul sacrificio espiatorio. Confrontiamo per esempio le parole pronunciate da Aleksandr Odoevskij al momento dell’uscita sulla piazza del Senato: «Moriremo fratelli! Ah, come moriremo gloriosamente!». In sostanza quest’idea sta alla base della concezione staliniana di “rivoluzione”: la vittoria della rivoluzione in Russia suscita inevitabilmente l’inasprimento della reazione nei paesi capitalistici. Tale punto di vista trova la sua manifestazione estrema nel fascismo. Quindi la vittoria del bene (in questo caso della rivoluzione) porta al rafforzamento del male (la reazione). Questo porta inevitabilmente il lager socialista non a indebolire l’organizzazione statale come era previsto dai “classici del marxismo”, ma a rinforzarla. Una conclusione logica di ciò è il passaggio al terrorismo di stato. In questa maniera tra la vittoria iniziale (il trionfo del socialismo “in un solo paese”) e la vittoria finale (il trionfo mondiale) trascorre un periodo di inasprimento di quella stessa lotta di classe la cui soppressione ci si prefigge come scopo finale. Il sistema binario ha inevitabilmente uno sviluppo convulso. L’assenza della terza componente sorta in maniera nascosta conduce l’esplosione a concludersi con la completa dissoluzione della struttura sociale. Nell’arco di tempo storico di nostro interesse tali dissoluzioni si sono verificate nel periodo tra gli zar Ivan il Terribile e Aleksej Mihajlovič (culminato con l’epoca dei torbidi), dello zar Pëtr e di recente con lo smembramento dell’URSS in stati indipendenti. Il momento esplosivo è caratterizzato dal lancio di un’intera gamma di séguiti potenziali. Il processo storico successivo attua una scelta: determinate tendenze restano soffocate, altre

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si sviluppano ulteriormente. Immediatamente dopo l’esplosione si apre un alto numero di vie future potenziali. Perciò avviene il processo di scelta. Va sottolineato che tale scelta fatta a ridosso dell’esplosione, di norma, ha carattere casuale e imprevedibile. Tuttavia, in seguito, la scelta comprende anche il fattore dell’attività consapevole dell’uomo che si adopera affinché determinati aspetti della realtà vengano repressi e dichiarati inessenziali e altri vengano imposti a forza nella storia del modello ideale. Prendendo in considerazione questi processi diventa evidente che lo storico deve studiare non solo gli eventi nella loro forma costituita e canonizzata nel passato, ma anche le direzioni potenzialmente possibili e mai intraprese. In questo senso è indicativa l’idea pionieristica di A. V. Isačenko. Un certo tono polemico suscitato dalla situazione sorta all’interno della slavistica all’inizio degli anni Settanta non offusca il senso scientifico dell’intervento dello studioso. Dato il significato teorico fondamentale e la concisione delle tesi citate, le riportiamo qui integralmente. È del tutto evidente che la storia non viene scritta col condizionale. Tuttavia risulta necessario accogliere come non convincente l’affermazione secondo la quale ciò che è effettivamente avvenuto “doveva” avvenire esattamente così. È facile fare profezie col senno di poi. La storia ha sempre in serbo più varianti. E non ci sono motivi per ritenere che il realmente accaduto sia, a tutti i costi, la manifestazione del “corso progressivo della storia”. L’intero sviluppo della Russia sarebbe avvenuto in un modo del tutto diverso se alla fine del XV secolo fosse stata Novgorod e non Mosca a risultare la forza direttiva predominante del paese unificato. E tale possibilità è realmente esistita. Nel XV secolo Novgorod era una città quasi europea che non conosceva la corruzione sorta nella parte del paese sotto occupazione tartara, né l’estrema arretratezza della vita del granducato di Mosca e dei boiari. Fondandosi sull’antica tradizione democratico-repubblicana e mantenendo le più attive relazioni commerciali e politiche con i paesi occidentali, Novgorod a capo della Rus’ unificata non avrebbe permesso

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l’isolamento fatale del paese dal progresso spirituale e tecnico europeo durante il Rinascimento. Le idee dell’umanesimo e della Riforma non si sarebbero fermate ai confini della Polonia e avrebbero cambiato profondamente il volto dell’arretrata Moscovia, avvicinando il paese alle principali fonti del pensiero europeo. È molto probabile che sotto l’influenza della Riforma a Novgorod sarebbe nata la prima traduzione della Bibbia non nella forma astrusa dell’antico bulgaro, ma nella lingua russa viva (si veda l’attività letteraria dei “giudaizzanti”). L’attività reazionaria degli emigranti balcanici, che trascinavano Mosca indietro verso Bisanzio, nelle condizioni di europeizzazione non avrebbe trovato terreno fertile e la vera letteratura (e non solo i monumenti letterari) in lingua russa sarebbe comparsa due secoli e mezzo prima, e la lingua letteraria stessa avrebbe rispecchiato non tanto il biascicamento delle fornaie di pane eucaristico di Mosca, quanto la lingua degli abitanti illuminati di Novgorod. La lingua letteraria si sarebbe sviluppata non alle condizioni di serra dello slavismo, non nell’ambiente viziato del clero poco acculturato, ma nell’ambiente democratico della città libera e spiritualmente aperta all’Occidente come all’Oriente. I pensieri qui proposti rappresentano solo un esperimento mentale che permette di considerare lo sviluppo reale soltanto una delle possibili varianti, un’espressione particolare degli avvenimenti sullo sfondo del non accaduto2. La raccolta che contiene lo scritto citato è stata pubblicata nell’autunno del 1972 e comprende testi della fine degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta. Questa osservazione cronologica richiama la nostra attenzione poiché nel 1968, quasi in contemporanea, in Inghilterra esce il film Se… (regia di L. Anderson) nel quale gli avvenimenti offerti come reali agli spettatori sono inseriti nell’àmbito delle loro possibili varianti. Ciò che accade è solo uno degli elementi nell’ampia gamma delle possibilità. Čaadaev ha riflettuto sul rapporto tra storia reale e sue possibilità inespresse. Se si guardasse alle diverse direzioni della storia nazionale come a una serie di vie potenzialmente percorribili, tale punto di vista potrebbe essere trasferito dal campo delle ipotesi alla sfera della ricerca

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storiografica. A questo riguardo espressioni come via “prussiana” o “italiana” all’unificazione dello stato possono essere considerate dati per una ricerca comparata. In realtà un simile corso del pensiero scientifico non è privo di precedenti. Nel suo libro pubblicato nel 1923 Saggi sulla storia dei torbidi nello stato moscovita nei secoli XVI e XVII, S. F. Platonov all’analisi dei torbidi antepone il confronto tipologico tra la due vie della Russia: Mosca e Novgorod. E nonostante la conclusione cui arriva lo studioso sia diversa da quella di A. V. Isačenko, il carattere stesso del pensiero scientifico è comparabile. Si potrebbero citare altri esempi al riguardo. Il pensiero escatologico sostituisce la dinamica della catastrofe. Da qui la divergenza tra la realtà e l’autocoscienza storica. Ogni epoca che attraversa un’esplosione si valuta nei termini dell’Apocalisse – come qualcosa di mai accaduto e senza precedenti. In questi termini si valutava il periodo sotto lo zar Pëtr I. L’autocoscienza dell’epoca si basava sulla contrapposizione del “vecchio” e del “nuovo”. Una posizione considerava come fonte del male il “nuovo” e l’altra il “vecchio”, ma entrambe erano situate dentro i confini di questi termini. In ciò lo storico rileva con sorpresa che sotto lo slogan “vecchio” talvolta si realizza un pionierismo coraggioso e il “nuovo” spesso si rivela solo un cambiamento del nome delle tradizioni vecchie. La struttura binaria è legata in maniera organica all’idea di esplosione. Tale esplosione deve avere carattere globale e onnicomprensivo. Tutto il passato è soggetto all’annientamento e ciò che viene creato al suo posto si presenta non come continuazione ma come negazione del precedentemente esistito. La sorpresa, l’imprevedibilità e il carattere catastrofico del processo non spaventano i suoi partecipanti, che temono l’esatto contrario, ovvero che la distruzione possa non essere di carattere globale. Per esempio Aleksandr Blok ha accolto intrepidamente gli estremi degli eccessi rivoluzionari condannando l’intellighenzia per aver perso la capacità di “ascoltare la musica della rivoluzione”. Perciò il ripristino della “vita borghese” all’inizio della NEP (Nuova politica economica) – di fatto della quotidianità della vita come tale – ha gettato Blok nella disperazione ed è stata

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una delle cause dirette della sua morte. Nelle memorie si racconta che i suoni della musica quotidiana che giungevano dalle mescite e dai ristoranti nuovo stile hanno fatto impazzire Blok nel vero senso della parola. Per lui la “musica della rivoluzione” è stata sostituita dalla musica dei ristoranti, la quotidianità ha sconfitto la tempesta. Chiaramente non tutti gli intellettuali in quel periodo condividevano le opinioni di Blok. Alcuni dei vecchi e stretti collaboratori letterari, come Z. Gippius, hanno colpito Blok perché non avevano orecchio. La critica blokiana degli avvenimenti rivoluzionari non era suscitata dagli eccessi delle rappresaglie popolari, ma dai tentativi degli intellettuali (in particolare dai bolscevichi) di dirigere la rivoluzione. Non a caso, a quei tempi la sua appartenenza al partito Blok la definisce, con una certa imprecisione politica, “socialrivoluzionaria”. Tali pareri non sono rimasti invariati e, evidentemente, hanno cominciato a subire cambiamenti sostanziali negli ultimi mesi della vita di Blok. Tutto ciò ci costringe a vedere diversamente il ruolo dei torbidi nella storia russa. Il periodo della formazione dello stato russo e della sua veloce crescita è caratterizzato da una relativa stabilità. Nella politica reale avviene un processo di sviluppo veloce. Tale processo non è privo di situazioni conflittuali e di scontri aspri. Tuttavia nel complesso ha il carattere di un movimento storico che si sviluppa continuamente in una direzione. La tendenza dominante è rappresentata dall’organizzazione di un unico stato con a capo il potere autocratico illimitato. Secondo la logica generale europea di sviluppo storico, il risultato naturale di tale processo avrebbe dovuto essere il passaggio a una struttura politica con un grado di civiltà maggiore. Questo a sua volta era legato allo sviluppo dell’economia e all’avvicinamento alla civiltà europea. Questo processo poteva avvenire senza complicazioni, come per esempio in Austria, oppure accompagnato da moti rivoluzionari come in Francia, ma in ogni caso aveva il carattere di un unico processo logicamente dispiegato. In questo senso è indicativo che gli storici della nouvelle histoire descrivessero questi avvenimenti storici come subordinati allo sviluppo lento e graduale.

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Da questo punto di vista ha senso individuare le differenze tra la rivoluzione e i “torbidi”. La prima è caratteristica dei sistemi ternari e la seconda è un fenomeno tipico dei sistemi binari. Nel definire la rivoluzione come levatrice della storia si ha in mente che al momento della nascita il bambino si è già formato nel ventre materno. I sistemi ternari al momento esplosivo portano in superficie ciò che si è già formato spontaneamente al loro interno. I sistemi binari pongono tra il “vecchio” e il “nuovo” il momento di completo annientamento. Quindi il periodo spontaneo di formazione del nuovo si rinnega totalmente. In questo senso i “torbidi” sono un fenomeno regolare e periodico della cultura russa. Di fatto nel corso dell’impero i “torbidi” hanno avuto luogo alla fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, alla fine del XVII e all’inizio del XVIII, alla fine del XVIII e all’inizio del XIX, alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, e nei tempi odierni. Nonostante la diversa sfumatura di tali eventi storici e la differenza sostanziale delle forze che vi partecipano (differenza di orientamento, di programma) tutti questi hanno avuto caratteristiche tipologiche comuni: l’idea che la crisi in atto fosse “la fine della storia” e “l’inizio di una nuova era”, che a seguito della crisi s’instaurasse l’ordine ideale e che la via futura fosse contrapposta in linea di principio alle direzioni storiche europee. Il regno di Ivan il Terribile ha esaurito le possibilità logiche di potere illimitato dello Stato. Le parole della sua guardia: «Tu, sovrano, come Dio» esprimevano l’essenza stessa del principio moscovita del potere3. L’attività di governo di Ivan il Terribile rappresenta il passaggio di realizzazione di tale idea. Gli storici ritengono che l’interruzione della diretta discendenza dei Rjurikidi nel regno di Ivan il Terribile4 sia stata una coincidenza storica, che soltanto per caso che coincideva con la crisi del principio del dispotismo illimitato. Con questo è impossibile essere d’accordo. Le vaste cognizioni sulla storia delle strutture statali dispotiche testimoniano che l’omicidio dell’erede oppure, in una svolta simmetrica, il parricidio dell’erede non rappresenti un eccesso, ma una regolarità che accompagna quel tipo di trasmissione del potere supremo. La sfumatura dovuta alle caratteristiche personali di Ivan il

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Terribile – la sua aspirazione a controllare sperimentalmente l’illimitatezza del proprio potere – non cambia la base del fenomeno. Tra la crisi del dispotismo e l’interruzione della continuità ereditaria dei sovrani esiste un legame logico. È indicativo come la crisi della continuità del potere a cavallo tra il XVI e il XVII secolo e l’idea della limitatezza dell’autocrazia si intreccino tra loro. Dopo la morte di Ivan il Terribile è maturata l’idea dello zar elettivo e non ereditario. Come giustamente ha mostrato Platonov, lo zarevic Dmitrij non è stato vittima del padre solo perché, essendo ufficialmente ritenuto figlio illegittimo, non aveva nessun diritto di aspirare al trono. L’idea di successione al trono è nata dopo la morte di suo padre ed era legata non ai diritti giuridici, ma a una tradizione del tutto diversa – al mito dell’uccisione dell’erede legittimo. Bisogna sottolineare in particolare che i tentativi di limitare il potere dispotico ereditario derivano da forze sociali diverse ostili tra loro. Si tratta della voce dell’epoca e non dell’espressione degli interessi di una classe precisa. Sarebbe interessante esaminare la concatenazione dei tentativi d’autoriduzione del potere. L’ascesa al trono di Boris Godunov (1598) è stata accompagnata da un rituale di invito al trono complesso e senza precedenti nella tradizione. È indicativo soprattutto il fatto che dopo l’attuazione di una serie ponderata di istanze popolari, statali e ecclesiastici che supplicavano Godunov a prendere il potere, secondo le fonti, Boris ha compiuto l’intera serie di gesti tipici: volgendo il viso al popolo ha sollevato la camicia sopra la testa e l’ha agitata. Era un originale impegno a condividere l’ultima camicia col popolo. Lo zar limitava il suo potere con una solenne promessa pubblica. Il falso Dmitrij non è riuscito a far tornare dall’esilio Šujskij, poiché quest’ultimo insieme a Golicyn ha proposto in segreto al re Sigismondo di far ascendere al trono moscovita il principe Vladislav. Le condizioni alle quali in seguito sono state condotte le trattative hanno varie versioni. In una delle ipotesi il potere di Vladislav è stato sottoposto a tali limitazioni da non poter essere di fatto chiamato “autocratico”. L’altra ipotesi, che difende gli interessi dei boiari di sangue, limitava il diritto dell’aristocrazia non

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ereditaria a far parte del potere statale. Tuttavia tutte le varianti hanno qualcosa in comune: non si poteva parlare di autocrazia in relazione all’interpretazione di Ivan il Terribile. I gruppi sociali discutevano tra loro a favore di chi sarebbe stata attuata la limitazione, ma erano uniti riguardo all’idea stessa. In questo senso è particolarmente indicativa la condotta dello “zar boiaro” Vasilij Šujskij. Ancora prima dell’ascesa al trono, Šujskij ha adottato la tattica del sostegno alla folla rivoltosa. «Gli Šujskij erano i primi politicanti moscoviti a prendere l’abitudine di rivolgersi alla folla. Durante il regno di Boris hanno spinto “uomini commerciali” a chiedere al re Feodor “per l’amor dei figli” di divorziare dalla zarina Irina. In seguito alla morte di Boris, Vasilij Šujskij ha sollevato la folla contro i Godunov testimoniando sulla “verità” dell’impostore e la folla li ha criticati duramente. E poco dopo ha tentato a istigare la stessa folla contro l’impostore stesso, rischiando la pelle»5. È ancor più rilevante che nel rito di giuramento Šujskij, contrariamente alle aspettative dei boiari, abbia introdotto il giuramento dello zar al popolo. In particolare bisogna rilevare la promessa solenne di Šujskij di punire solo il colpevole senza estendere la disgrazia ai suoi parenti prossimi. Platonov vede in questo una grazia comune destinata al giorno solenne, priva del significato di principio. Su questo chiaramente è impossibile concordare. Ivan il Terribile non era di certo una persona buona, ma la sua ambizione successiva di annientare oltre ai colpevoli anche i loro parenti può trovare spiegazione non solo nelle caratteristiche personali dello zar, ma anche nell’idea che un soggetto giuridico, sia alla grazia che alla punizione, è rappresentato non dalla singola “persona” ma dalla personalità collettiva che comprende la famiglia, i servi e persino gli animali della tenuta di famiglia. In base a questa convinzione si sono formate idee fondamentali come il mestničestvo (ordine di successione di cariche statali in Russia tra il XV e il XVII secolo), l’idea dell’onore di famiglia. Il boiaro, piuttosto che accettare la perdita del suo posto al banchetto reale, andava al patibolo. Dal punto di vista della mentalità “illuminata” del XIX secolo questo è ignoranza, ma

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per il pensiero medievale rappresenta una deduzione logica dall’opinione che il merito sia questione di sangue. L’idea della responsabilità individuale proclamata da Šujskij è una delle innovazioni più audaci del periodo critico. L’autorità del popolo in qualità di fonte del potere è così cresciuta nel periodo dei torbidi da essere menzionata formalmente nell’introduzione del titolo di Minin. L’elezione del assemblea popolare è diventata fondamento legittimo dei diritti al trono dei Romanov. Anche in seguito, durante le numerose congiure di palazzo e dei torbidi, si ripeteva l’appello al popolo come a una fonte del potere. Tale idea è di nuovo riemersa in superficie durante la lotta per il trono tra Sof’ja e Pëtr. Di quanto profondamente è stato minato il pensiero del diritto ereditario al trono testimonia il seguente particolare: trovandosi in una posizione senza via d’uscita durante la sfortunata campagna del Prut, Pëtr s’è rivolto al Senato esonerandolo dall’eseguire i suoi ordini nel caso venisse fatto prigioniero. Come se avesse dimenticato di avere un erede legittimo (i suoi rapporti con Aleksej erano ancora lontani dall’odio reciproco e, nel complesso, sono rimasti leali) Pëtr prescriveva ai senatori di “eleggere tra loro una persona degna”6 del trono. I diritti ereditari nella sua coscienza erano così minati da dimenticarli nel momento disperato. In conseguenza dei torbidi tra il XVII e il XVIII secolo è apparso necessario il passaggio della Russia a un potere legislativo-autocratico moderato, come per esempio quello svedese. Ma ciò non è avvenuto. Si è formato un regime paradossale che Madame de Staël più tardi definisce: «Il sistema politico della Russia è dispotismo limitato dalla garrota»7. Lo sviluppo ulteriore della Russia si è basato su contraddizioni inconciliabili. Da un lato l’organizzazione statale si fondava sui principi europei dell’assolutismo. Questo ha comportato la trasformazione in metafora poetica della retorica sulla natura divina del potere che di fatto era una variante dell’idea europea di assolutismo. Dall’altro lato si è mantenuta la struttura binaria, la quale involontariamente induceva a percepire la metafora come realtà. Di conseguenza l’organizzazione statale russa del XVIII secolo si basava

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inizialmente su una serie di contraddizioni inconciliabili suscettibili di catastrofi. L’essenziale era la creazione di uno stato “regolare” di tipo europeo basato sulla servitù della gleba. Se in Europa l’assolutismo è stato accompagnato dallo sviluppo economico e in maniera intrinseca preparava il cambiamento dell’intero sistema, in Russia avveniva qualcosa di diametralmente opposto. L’europeizzazione della mentalità della parte istruita della società, l’adesione alla famiglia dei popoli europei è stata accompagnata non dall’allentamento ma dal rafforzamento marcato della servitù della gleba. Verso la seconda metà del XVIII secolo la forma di dipendenza feudale, già esclusa dalla vita europea, ha avuto un tale sviluppo in Russia che in determinati casi la servitù della gleba si trasformava in schiavitù. Su un simile terreno era impossibile costruire un’economia del tipo europeo e lo sviluppo della Russia, che all’inizio del XVIII secolo ha vissuto uno slancio tecnico-industriale, ha subìto un arresto. Al momento della campagna di Sebastopoli, la Russia era diventata il paese più vasto e allo stesso tempo più arretrato d’Europa. Un’altra conseguenza importante consisteva nella nascita di una contraddizione da cui non esisteva una via d’uscita “normale”. Per un successivo sviluppo sul modello europeo era necessaria l’emancipazione della servitù della gleba. Tuttavia tale compito, nonostante fosse evidente alla maggior parte dei regnanti russi della seconda metà del XVII e della prima metà del XIX secolo e per molte personalità pubbliche, ha incontrato ostacoli invalicabili. Ekaterina II, Aleksandr I, Nikolaj I e i lungimiranti dignitari di corte, come Speranskij e il conte Kiselëv, capivano benissimo i pericoli che si nascondevano dietro la servitù della gleba e la necessità di trovare una soluzione. Senza dire che la servitù della gleba incontrava critiche all’interno dei movimenti di liberazione. Tuttavia sulla via delle riforme sono sorti ostacoli invalicabili derivanti dalla base stessa dell’organizzazione pubblica. Il sistema binario che permette una scelta soltanto tra l’organizzazione e il caos ha riposto nel governo le speranze per l’emancipazione della servitù della gleba. Quindi il governo russo ha assunto il ruolo

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di fautore del progresso. Confrontiamo le parole di Puškin indirizzate al granduca Mihail: «Voi Romanov siete tutti rivoluzionari». Contemporaneamente sono sorte una serie di contraddizioni: l’evoluzione delle idee rivoluzionarie ha portato alla diffusione di sentimenti antigovernativi e l’esitazione del potere ledeva le aspettative al riguardo. Un’altra situazione era ancor più notevole – i liberali russi (“rivoluzionari” nobili, decabristi) si sono trovati davanti a una scelta difficile: al fine di attuare la riforma agricola bisognava superare la resistenza della nobiltà, e ciò necessitava di un potere statale forte. Il decabrista Nikolaj Turgenev alla fine del 1810 diceva che non si deve pretendere la repubblica prima che venga abolita la servitù della gleba. Al contrario, secondo alcuni, come per esempio Dmitriev-Mamonov, la libertà della nobiltà e la sua capacità di resistere al dispotismo statale sono la garanzia della libertà popolare e il potere stesso della nobiltà si basa sui legami che quest’ultima intrattiene con i contadini; perciò l’abolizione della servitù della gleba, minando l’unità tra nobili e popolo, renderà illimitato il dispotismo statale. In seguito i decabristi nel periodo più maturo del loro movimento hanno tentato di superare tale contraddizione mettendo all’interno di un unico programma la costituzione e la libertà dei contadini. Tuttavia lo sdoppiamento fatale delle idee politiche è rimasto tale fino alla fine. Questa situazione di stallo si distingueva per un altro aspetto caratteristico: ogni nuovo governo dopo Pëtr e prima della rivoluzione di febbraio respingeva le iniziative del precedente. Elizaveta ha fondato il suo diritto al trono mediante l’esilio di Pëtr tralasciando i nomi dei reggenti successivi. Ekaterina II ha iniziato il suo regno cancellando solennemente il regno di suo marito dalla storia russa. Lo stesso è avvenuto con Pavel I. Aleksandr ha fatto una promessa solenne di «regnare seguendo il cuore e le leggi della nostra Ekaterina II» e il regno di Pavel I è stato dichiarato inesistente. Anche Nikolaj I, che riteneva di essere legato al fratello maggiore per via dell’insurrezione decabrista e della sua tragica ascesa al trono, ha di fatto interrotto la continuità tra i due regni. Lo stesso è

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avvenuto poi all’inizio dei regni di Aleksandr II, Aleksandr III e Nikolaj II. È interessante che l’assenza di continuità caratterizzi anche la storia del movimento rivoluzionario – ogni volta la cancellazione vince sulla continuità. Quindi la storia politica si forma come una catena di esplosioni. Lo sviluppo di forme economiche borghesi, il veloce progresso economico negli ultimi decenni del XIX secolo, la formazione dell’intellighenzia – la somma dei processi economici e culturali della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo crea la possibilità di passaggio al sistema ternario. Se, da un lato, Dostoevskij e Tolstoj temono la possibilità di trasformazione dei peccatori in giusti, dall’altro Čehov elimina questo problema: il suo protagonista non può essere descritto con un linguaggio ambivalente. Proprio questo ha condotto alcuni suoi contemporanei ad accusarlo di mancanza di ideali e indifferenza politica. Tuttavia la direzione di Čehov non ha trovato un seguito oggettivo e a vincere è stata la via di Blok – il massimalismo. Nel 1917 è iniziata la terza e ultima fase della storia del sistema binario. Una delle differenze essenziali tra sistemi binari e ternari è che il primo possiede una serie di vantaggi se inteso come ideale e non come programma pratico d’azione. Tale sistema trasformato nella pratica politica inevitabilmente decade fino ad arrivare alla forma estrema del dispotismo. Le famose parole di Cristo «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» non possono essere isolate da altre come «il mio regno non è di questo mondo». La realizzazione politica della struttura binaria è un tentativo disperato di creare un regno dei Cieli non di questo mondo, ma di fatto comporta solo forme estreme di dispotismo. Da ciò deriva il significato indubbiamente positivo delle strutture binarie nello strato secondario della cultura – nell’ambito delle idee e dell’arte – e l’altrettanto notevole pericolo dei tentativi di attuare tali strutture nella realtà politica. Questo determina sia le attrattive che le debolezze della cultura russa. La vita senza Tolstoj e Dostoevskij sarebbe moralmente e spiritualmente povera, la vita secondo Tolstoj e Dostoevskij sarebbe inattuabile e mostruosa.

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L’ultima fase nella storia del periodo di nostro interesse è terminata con le conseguenze tragiche provocate dall’applicazione degli ideali del sistema binario alla reale attività storica. L’epoca del comunismo di guerra è stata il primo tentativo di “soppressione” della storia. Tale prova si basava sulla fede escatologica che la storia fosse giunta alla fine. Spesso si menzionava il detto di Engels secondo il quale le epoche precedenti studiavano la storia, mentre la rivoluzione proletaria sostituisce lo studio della storia con il suo rifacimento. All’inizio della NEP (Nuova politica economica) si è evidentemente avuto un fallimento dei piani utopistici. La Russia si è trovata a un bivio. Una delle vie presupponeva il riconoscimento del fallimento del tentativo e il lento slittamento verso la via “normale” di sviluppo. Evidentemente negli ultimi mesi tali idee balenavano nella mente di Lenin che vedeva la NEP “a lungo e sul serio”. Contemporaneamente in una simile direzione si sviluppavano le idee degli smenovehovcy. Tuttavia tale possibilità è stata persa. A prevalere è stato il binarismo tradizionale della coscienza abituato alla divisione “senza compromessi” delle forze politiche in amici e nemici, in bene e male. Gli slogan dell’epoca sono diventati del tipo: «Chi non sta con noi, è contro di noi» e «Se il nemico non si arrende, lo annientano». Tale coscienza aveva bisogno della presenza del nemico e lo generava continuamente. Solo la comparsa del vero nemico durante la guerra patria ha in parte attenuato la produzione di quel nemico immaginario ma necessario politicamente. Nel suo ultimo periodo di sviluppo, ai giorni nostri, la struttura binaria è terminata. Tuttavia il passaggio a un sistema diverso lede le profonde tradizioni storiche e tutte le aspettative di una rottura veloce di tale direzione dimostrano soltanto la resistenza della psicologia binaria. Tutti i piani per la realizzazione di un profondo cambiamento socioeconomico e psicologico in un determinato periodo ricordano tanto i “piani quinquennali in quattro anni”, l’idea che mediante i metodi “di forza” e “di autorità” si possa superare il corso oggettivo della storia e che la rinuncia all’esplosione possa essere attuata mediante l’esplosione.

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I sistemi binari e ternari nella condizione naturale si suddividono in diversi strati culturali. I sistemi ternari trovano maggior uso naturale nella sfera pratica ed empirica della cultura, in quanto lo sviluppo qui è limitato dalle possibilità materiali del processo. I sistemi binari con il loro massimalismo trovano terreno fertile nell’ambito dei modelli astratti, della dottrina teorica e dell’immaginazione artistica. Tuttavia tale ripartizione naturale raramente prevale nella realtà. Da un lato in determinate culture, come per esempio tra i protestanti, il culto del buonsenso, della temperanza e della ragione acquisiscono un carattere dominante e, visto il vantaggio pratico, si trasforma in virtù. Su ciò si fondano i principi sulla base dei quali si creano gli ideali sociali. Nella cultura russa la situazione è opposta. L’idea del massimalismo sulla negazione del “volgare” nell’ambito della coscienza artistica si trasferisce nella sfera del comportamento pratico. Turgenev con la sua attenzione agli umori sociali lo ha espresso in versi. Le caratteristiche tipiche della vita sociale russa alla fine del XIX secolo – l’identificazione dell’estremo con principi e il comportamento sprezzante nei confronti dei “gradualisti” – sono state ben rappresentate da Turgenev. Il problema del passaggio da un punto di vista binario a uno ternario è sorto, come abbiamo visto, nell’epoca dei “torbidi” all’inizio del XVII secolo. Tuttavia ogni volta tale problema s’imbatteva in ostacoli invalicabili: lo stato viveva una crisi dietro l’altra, si aspirava al passaggio a un sistema europeo (ossia ternario) e ogni tentativo terminava con una nuova crisi. Di fatto anche oggi la Russia si trova davanti alla stessa questione. La difficoltà quasi fatale del passaggio è determinata dal fatto che le due strutture sono caratterizzate da imprevedibilità reciproca. Dal punto di vista del sistema binario, il sistema ternario è rappresentato da caos e disintegrazione (quindi l’idea sistematicamente ripetuta della “putrefazione” dell’Occidente). Ma dal punto di vista del sistema ternario, il sistema binario è rappresentato dalla catastrofe, perciò il passaggio da un sistema all’altro viene vissuto psicologicamente come la morte. La crisi che la Russia vive

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oggi è, da un lato, la stessa crisi che in diverse forme ma con la stessa essenza si ripete dai tempi di Pietro ai giorni nostri. Dall’altro lato stiamo vivendo una situazione nuova, poiché ora la questione del passaggio alla struttura ternaria europea ha acquisito carattere amletico – «essere o non essere».

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Jurij M. Lotman

Volontà di Dio o gioco d’azzardo? (Le leggi della storia e i processi casuali)∗

Lo storico che si occupa d’indagini sul materiale concreto generalmente è incline a essere soddisfatto della formula di Ranke: lo scopo della storia è ricostruire il passato. Tuttavia, nonostante la chiarezza ingenua di questo compito, svolgerlo risulta assai difficile, sempre che sia possibile. Il concetto di “ricostruire il passato” presuppone di seguire una procedura comune a tutte le scienze: chiarimento e scelta di fatti e instaurazione di legami regolari tra loro. I fatti presuppongono l’esistenza di qualcosa di primario esistente al di fuori dello storico e prima della sua analisi. È la datità. In che posizione si trova lo storico? Lo storico è condannato ad avere a che fare con testi. Tra l’evento “com’è” e lo storico c’è un testo, e ciò cambia radicalmente la situazione scientifica. Il testo è sempre creato da qualcuno e rappresenta un evento accaduto tradotto in un certo linguaggio. Una stessa realtà, codificata in modi diversi, produce testi diversi, a volte contraddittori. L’estrazione dal testo di un fatto, da un racconto su un avvenimento di avvenimenti costituisce un’operazione di decodifica. Perciò, rendendosene conto o no, lo storico parte dalle manipolazioni semiotiche del proprio materiale fonte: il testo. Se svolge queste operazioni in modo inconsapevole e il ricercatore, convintosi dell’autenticità del documento, ritiene che la conoscenza del linguaggio e il senso intuitivo di affidabilità siano sufficienti a capire il testo, di norma avviene la sostituzione al posto del pubblico storico di quella “conoscenza naturale” che a una verifica risulta la coscienza dello storico stesso con tutti i suoi pregiudizi storicoculturali.

∗ J. M. Lotman, Izjavlenie Gospodne ili azartnaja igra? Zakonomernoe i

slučajnoe v istoričeskom protsesse, (1992), in Istorija i tipologija russkoj kul’tury, trad. a cura di B. Osimo, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2002, pp. 342-348.

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Dal punto di vista delle culture diverse, dei diversi generi testuali e financo nell’ambito di una stessa cultura uno stesso evento reale può risultare degno di fissazione scritta, trasformazione in testo, o non degno di registrazione. Così, per esempio, nelle cronache scandinave medievali e nei letopisi russi sono annotati gli scontri bellici, le faide, gli avvenimenti cruenti. E se non succedeva niente di simile, si considerava che non ci fossero eventi. Nelle saghe islandesi in questi casi si diceva “era tutto tranquillo”, nei letopisi russi l’annalista dopo avere annotato l’anno lasciava uno spazio vuoto oppure scriveva “mirno byst’”, “vivere in pace”. La concezione di “evento storico” dipende dal tipo di cultura ed è un importante indicatore tipologico. Per questo prendendo in mano il testo, lo storico è costretto a distinguere che cosa nel testo è un evento dal punto di vista suo, di storico, e che cosa era un evento degno di menzione dal punto di vista dell’autore del testo e dei suoi contemporanei. Quindi lo storico fin dall’inizio si ritrova in una situazione strana: nelle altre discipline il ricercatore parte dai fatti, mentre lo storico arriva ai fatti come risultato di una data analisi, e non in qualità di punto di partenza. Tuttavia, è ancora più complesso individuare le regolarità. Il fatto che il punto di partenza della ricerca storica sia un testo comporta conseguenze molteplici che influiscono in modo molto diretto sul modo in cui ci raffiguriamo i rapporti storici tra gli eventi. Ogni testo, innanzitutto, è un’espressione in linguaggio naturale (per il concetto di “linguaggio naturale” si vedano i dizionari di semiotica) e, di conseguenza, è inevitabilmente organizzato in base alle leggi della struttura della data lingua. Tuttavia ancora Roman Jakobson in “Alla ricerca dell’essenza della lingua” (1965), sottolineando gli elementi di iconicità del linguaggio naturale, rilevava che esiste la tendenza degli ascoltatori a recepire i legami formali come contenuti e, di conseguenza, a trasferire la struttura della lingua sulla struttura dell’oggetto. Sono ancora più sostanziali le leggi della costruzione testuale a livello sovrafrastico, ossia le leggi della retorica. La costruzione del testo corretto, non appena usciamo dai confini della frase in unità più ampie, presuppone la presenza di un

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intreccio. L’intreccio ha sue leggi logiche. Per raccontare di un evento è indispensabile organizzarlo in base alle leggi di questa logica, ossia organizzare gli episodi con una certa consequenzialità nell’intreccio, inserire l’intreccio nella realtà extratestuale, ricostruire eventi simultanei e magari non legati tra loro in una concatenazione consequenziale e connessa. E infine al livello massimo il testo ha una codifica ideologica. Leggi di ordine politico, religioso, filosofico, codici di genere testuale, considerazioni di bon ton che lo storico deve ricostruire sulla base di quegli stessi testi, a volte cadendo in un circolo vizioso logico – tutto ciò comporta una codifica aggiuntiva. La differenza di livello di consapevolezza e di scopo dell’attività tra autore del testo e storico che lo legge costituisce la soglia massima di decodifica. Lo sforzo di superare le difficoltà enumerate da parte della scienza storica è determinato in certa misura dalla nascita nella storiografia francese dell’ultimo mezzo secolo che attualmente si è formata come scuola della Nuovelle histoire o Storia della lunga durata, come chiamano anche questo indirizzo. Un impulso indiretto alla nascita delle ricerche scientifiche nel nuovo indirizzo è stata l’evidente crisi della “storia politica” di stampo positivista, che già nella seconda metà dell’Ottocento ha patito per il compilazionismo e la nullità teorica che la contraddistingueva. Lo sforzo di liberare la storia degli “atti dei governanti” e delle “biografie degli uomini illustri” ha prodotto l’interesse per la vita delle masse e per i processi anonimi. Elencando i precursori di questo modo di guardare alla storia, Jacques Le Goff ricorda Voltaire, Chateaubriand, Guizot e Michelet. E noi, da parte nostra, aggiungeremmo all’elenco Lev Tolstoj che ripeteva insistentemente che la storia autentica si compie nella vita privata e nei movimenti inconsapevoli di massa, e che non si stancava di ridere delle apologie degli “uomini illustri”. A questo è legato il famoso slogan: “la storia dell’uomo senza l’uomo”. L’esigenza di studiare gli anonimi, collettivi impulsi storici che indirizzano le azioni delle masse che non si accorgono delle forze che agiscono su di loro determina la tematica nuova di questa scuola che ha condotto lo storico ben

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oltre i limiti dei temi di routine delle loro ricerche. Questo indirizzo ha introdotto nella scienza storica aria fresca e l’ha arricchita con una serie di ricerche ormai divenute classiche. E tuttavia non tutti i princìpi di questa scuola sono accettabili senza riserve. La storia non è solo un processo consapevole, ma non è nemmeno soltanto un processo inconsapevole. È tensione reciproca dei due elementi. Se la “storia politica” trascura un lato del processo storico biunivoco, la “nuova storia” fa lo stesso con l’altro lato. Qualsiasi processo dinamico che si compia con la partecipazione dell’uomo oscilla tra il polo dei cambiamenti lenti ininterrotti (sui quali coscienza e volontà umane non hanno influenza, spesso non sono nemmeno percepibili ai contemporanei, poiché la loro periodicità è più lunga della vita di una generazione) e il polo dell’attività umana consapevole compiuta in séguito a sforzi intellettuali personali di volontà. Separare un lato dall’altro è impossibile come il nord dal sud. La loro contrapposizione è la ragione della loro esistenza. E come nella geniale individualità di Byron si possono individuare blocchi di processi anonimi di massa, così nella creatività e nella personalità di qualsiasi attivista della “cultura di massa” del byronismo europeo dell’inizio dell’Ottocento si possono trovare elementi di ripetitività. Tutto ciò che fanno gli uomini e con la partecipazione degli uomini non può in qualche misura non appartenere a processi anonimi della storia e non può non appartenere in questa o quella misura a un principio personale. Questo è determinato dall’essenza stessa del rapporto tra uomo e cultura – dal contemporaneo isomorfismo del suo universo e dalla necessità di esserne solo una parte. Il diverso livello di partecipazione degli sforzi umani consapevoli ai diversi livelli d’un unico processo storico concerne contemporaneamente le differenze di valutazione della casualità, da una parte, e delle possibilità creative della personalità, dall’altro lato. Il compito di “liberare la storia dai grandi uomini” può produrre una storia senza creatività e una storia senza pensiero e senza libertà. La libertà di pensiero, il libero arbitrio, ossia la possibilità di scegliere un itinerario. E Hegel e gli storici della “nouvelle école” inaspettatamente si

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avvicinano in questo itinerario, agli antipodi sotto tutti gli altri aspetti,. La storiografia di Hegel si basa sulla rappresentazione del movimento verso la libertà come scopo del processo storico. Ma già la predestinazione originaria chiaramente solleva il problema della libertà, e questo chiaramente consegue dalle considerazioni del filosofo tedesco. Non a caso Hegel è convinto che “il mondo della razionalità e della volontà autoscoscente non è regolato dal caso”. Per Hegel lo spirito si realizza attraverso i grandi artefici, per la “nuova storia” le forze anonime che guidano lo sviluppo storico si realizzano attraverso fenomeni incoscenti di massa. In entrambi i casi l’azione storica è un’azione priva di scelta. Per la metodologia di questa scuola si osserva quella psicologia scientifica secolare costruita sulla convinzione che là dove finisce il determinismo finisce la scienza. Dal famigerato “demone Laplace” fino alla convinzione di Einstein che “Il Signore non gioca a dadi”, trapela lo sforzo di liberare il mondo dalla casualità o, perlomeno, di ricondurla entro i confini della scienza. Abbiamo già visto a quale deformazione è esposta la realtà extratestuale, trasformandosi per lo storico in un testo fonte. Abbiamo anche visto per che vie gli storici cercano di allontanarsi da questo pericolo. Un’altra fonte di deformazione della realtà si trova non sotto la mano dell’autore del documento fonte, ma in conseguenza delle azioni del suo storico interprete. La storia si sviluppa lungo un vettore (freccia) del tempo. La sua direzione è determinata dal movimento dal passato verso il presente. Lo storico invece osserva i testi studiati dal presente verso il passato. Si riteneva che la sostanza della concatenazione degli eventi non cambiasse se li osserviamo nella direzione della freccia del tempo o dal punto di vista opposto. Marc Bloch, intitolando in modo simmetrico due capitoli del suo libro finale –“Comprendere il presente attraverso il passato” e “Comprendere il passato attraverso il presente” – in tal modo sottolineò la simmetricità della direzione del tempo per lo storico. Inoltre, riteneva che lo sguardo retrospettico permettesse allo storico di distinguere le opinioni

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sostanziali da quelle casuali. Paragonando il passato ricostruito dallo storico con un film, Bloch fa una metafora: “Ma nella pellicola che prende in esame, solo l'ultimo fotogramma è intatto. Per ricostituire i tratti sfocati degli altri, è stato necessario anzitutto svolgere la bobina in senso inverso a quello della 'ripresa'” (Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere dello storico, Torino, Einaudi, 1998). Si potrebbe osservare subito che in questo film tutti i fotogrammi, tranne l’ultimo, risulteranno del tutto prevedibili e, di conseguenza, del tutto superflui. Ma non si tratta nemmeno di questo. È più importante osservare che si tradisce l’essenza stessa del processo storico. La storia è un processo asimmetrico, irreversibile. Usando l’immagine di Marc Bloch, è un film talmente strano che, osservato in senso inverso, non ci porta al fotogramma iniziale. Sta qui la radice delle nostre divergenze. Secondo Bloch – e questo è conseguenza naturale dello sguardo retrospettivo – gli eventi del passato lo storico li deve osservare non solo come la cosa più verosimile, ma anche l’unica possibile. Se invece ci si basa sull’idea che l’evento storico è sempre il risultato dell’attualizzazione di una delle alternative e che nella storia condizioni identiche non significano necessariamente conseguenze identiche, occorrono altri procedimenti di approccio al materiale. Occorre anche un’altra pratica di approccio storico: i percorsi attualizzati saranno circondati di gruppi di possibilità non attualizzate. Immaginiamo un film che mostri la vita di un uomo dalla nascita alla vecchiaia. Guardandolo in retrospettiva, diremo: quest’uomo ha sempre avuto una sola possibilità e con regolarità ferrea è finito come doveva finire. L’erroneità di questo modo di vedere le cose è evidente se si osservano i fotogrammi in prospettiva: allora il film diventa il racconto sulle possibilità perse e per la scoperta profonda dell’essenza della vita richiede una serie di riprese alternative parallele. E può darsi che in una variante il protagonista muoia a sedic’anni sulle barricate, e in un’altra a sessant’anni denunci i vicini di casa ai servizi segreti. Il filosofo illuminista Jean-Antoine Caritat de Condorcet, messo fuori legge, alcune settimane prima di suicidarsi, di nascosto dal tribunale giacobino ha lavorato a un libro sul

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progresso storico che capovolgeva l’ottimismo illuministico. Marc Bloch si trovava in una situazione simile: combattente clandestino antinazista a cui la fucilazione ha impedito di concludere il libro citato, aggira del tutto il problema dell’attività personale e della responsabilità come categorie storiche. È un’altra prova che le idee hanno una regolarità e una tendenza allo sviluppo autonomo. Sono più conservative del comportamento personale e si modificano più lentamente sotto l’influenza delle circostanze. La storia quindi costituisce un processo irreversibile (non equilibrato). Per analizzare la sostanza di simili processi di comprensione, di cosa significano se applicati alla storia, è particolarmente importante analizzare questi fenomeni come avviene nelle opere di Ilya Prigogine, che ha studiato i processi dinamici a livello chimico, fisico e biologico. Questi scritti hanno un profondo senso rivoluzionario per il pensiero scientifico nell’insieme: inseriscono nel contesto scientifico fenomeni casuali e, inoltre, delucidano qual è il loro ruolo funzionale nella dinamica generale del mondo. I processi dinamici che si svolgono in condizioni equilibrate si compiono lungo curve ben precise. Tuttavia man mano che ci si allontana dai punti entropici di equilibrio, il movimento si avvicina ai punti critici, i processi cessano di seguire il corso prevedibile. (Prigogine li chiama “punti di biforcazione”, per significare che questo punto produce prosecuzioni alternative della curva.) In questi punti il processo giunge a un momento in cui la previsione univoca del futuro diviene impossibile. Lo sviluppo successivo è la realizzazione di una tra diverse alternative parimenti verosimili. Si può solo dire che il passaggio avverrà in una condizione all’interno di un certo gruppo di alternative. In questo momento un ruolo decisivo può svolgerlo il caso, dove per “caso” s’intende non certo assenza di causе, ma solo un fenomeno di un altro ordine di cause. “In condizioni fortemente squilibrate i processi di autoorganizzazione corrispondono all’interazione tra il caso e la necessità, tra le fluttuazioni (dal latino fluctus; ricordiamo che Orazio usava tale parola con il significato di flutto/onda: "О navis, referent in mare to novi fluctusi") e le regole deterministiche. Riteniamo che nei punti di biforcazione ad

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avere il ruolo fondamentale siano le fluttuazioni e gli elementi casuali, mentre negli intervalli tra le biforcazioni predominino gli aspetti deterministici” (Ilya Prigogine, Isabelle Stengers Ordine dal caos 1986:54). Quindi il casuale e il regolare cessano la loro incompatibilità e appaiono come due condizioni possibili dello stesso oggetto. Quando tale oggetto si muove nel campo deterministico si presenta come un punto in sviluppo lineare, quando invece si trova nello spazio fluttuante risulta un continuum di possibilità potenziali, con il caso che funge da dispositivo d’avviamento. Le idee di I. Prigogine, che gettano luce sulla teoria generale dei processi dinamici, risultano molto proficue anche riguardo al movimento storico. Sono facilmente esplicabili in relazione ai fatti della storia mondiale e al complesso intreccio storico di movimenti spontanei inconsci e autocoscienti. Nel 1929 L. Szilárd ha pubblicato l’opera con il titolo esplicativo “Sulla diminuzione di entropia nel sistema termodinamico per l’intervento di esseri intelligenti”. Questo significa che nei punti di biforcazione non entra in azione solo il meccanismo della casualità ma anche il meccanismo della scelta consapevole che diventa un elemento oggettivo principale del processo storico. Tale interpretazione sotto una nuova luce rappresenta una necessità della semiotica storica: l’analisi dell’immagine che il mondo ha dell’unità umana che deve attuare una scelta. In un certo senso questo si avvicina a ciò che la “nuova storia” chiama “mentalità”. Tuttavia i risultati delle ricerche in quest’ambito e il confronto delle scoperte dei ricercatori russi V. N. Toporov, B. A. Uspenskij, V. V. Ivanov, A. A. Zaliznjak, A. M. Pjatigorskij, E. V. Padučeva, M. I. Lekomceva e molti altri nel campo della ricostruzione delle diverse coscienze di tipo etnoculturale inducono a riconoscere che nel caso in questione la semiotica storica della cultura sia la via più promettente. Quando si esamina il processo storico in direzione della freccia del tempo, i punti di biforcazione risultano quei momenti storici in cui la tensione dei poli strutturali contrastanti raggiunge il livello più elevato e l’intero sistema perde l’equilibrio. In questi momenti il comportamento delle singole

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persone, nonché delle masse, smette di essere prevedibile in modo automatico; la determinazione passa in secondo piano. In ciò il movimento storico non deve essere considerato una traiettoria, ma un continuum con potenzialità di concludersi pari a quelle delle varianti. Tali nodi caratterizzati da una minore prevedibilità costituiscono i momenti in cui avvengono rivoluzioni o notevoli mutamenti storici. La scelta della via che in effetti si realizzerà dipende da un complesso di circostanze casuali e, in larga misura, dalla coscienza stessa degli attori. Non a caso in quei momenti la parola, il discorso e la propaganda acquisiscono una particolare importanza storica. Se a precedere la scelta troviamo una situazione di indeterminatezza, dopo la sua attuazione si forma per principio una situazione nuova per la quale tale scelta era necessaria, una situazione che costituisce la realtà oggettiva per il movimento successivo. Tale scelta da casuale, in seguito alla sua attuazione, diventa determinata. Il retrospettivo rafforza il senso di determinazione. Per il movimento successivo la scelta rappresenta il primo anello della nuova regolarità. Esaminiamo ora il comportamento del singolo, che di norma si attiene a certi stereotipi (tradizioni, norme, etica e altri) che determinano il corso “normale” e prevedibile delle sue azioni. Tuttavia il numero degli stereotipi, considerati nel loro complesso in una collettività, è notevolmente più alto rispetto agli stereotipi ai quali si attiene il singolo. Alcune delle possibilità a disposizione vengono respinte, altre risultano meno preferibili e altre ancora vengono considerate varianti ammissibili. Nel momento in cui la tensione storica, sociale e psicologica raggiunge il punto critico, quando si scosta in maniera considerevole dalla sua visione del mondo (di norma in condizioni di alta tensione emotiva), l’uomo potrebbe cambiare lo stereotipo come se passasse a un’altra “orbita” comportamentale, un atteggiamento del tutto imprevedibile in condizioni “normali”. Naturalmente, “imprevedibile” per il caso concreto, ma del tutto prevedibile in relazione ad altro. Per esempio potrebbe far proprio il comportamento di un protagonista teatrale, di una “personalità romana” o di un “personaggio storico”. Per gli storici, secondo i quali l’uomo, come il personaggio di una tragedia classica, agisce sempre

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conservando “l’unità del carattere”, era naturale immaginarsi il sanculotto nella stessa maniera in cui è stato raffigurato da Dickens nel Tale of two Cities. Di maggior sorpresa è stata la scoperta che le persone coinvolte nella resa della Bastiglia e nelle stragi di settembre appartenevano alla media borghesia e ed erano padri di famiglia. Se esaminassimo il comportamento della folla in un momento simile, scopriremmo una determinata ripetibilità nel modo in cui molte persone hanno cambiato il loro comportamento scegliendo in certi casi un’“orbita” per loro del tutto imprevedibile. Ciò che è mediamente prevedibile per la “folla” risulta imprevedibile per il singolo. Da ciò si potebbe ipotizzare che i fenomeni individuali siano caratterizati da una minore prevedibilità e che ciò li differenzia dai fenomeni di massa. Tuttavia tale ipotesi sembra prematura. Anche lo storico puramente empirico sa che spesso il comportamento della folla risulta meno prevedibile della reazione del singolo. In questo senso è di particolare interesse il parere di I. Prigogine e I. Stengers secondo i quali vicino ai punti di biforcazione il sistema ha la tendenza a passare a un regime di comportamento individuale. Più si è vicini alla norma, più il comportamento del sistema è prevedibile. Tuttavia esiste anche un altro lato della questione: laddove è possibile prevedere l’anello successivo dell’avvenimento si può affermare che non è avvenuto un atto di scelta tra pari possibilità. Ma la coscienza rappresenta sempre una scelta. Quindi, escludendo la scelta (l’imprevedibilità che l’osservatore esterno considera casualità), escludiamo dal processo storico anche la coscienza. E le regole storiche si differenziano da tutte le altre per il fatto che non è possibile comprenderle senza l’attività cosciente, e semiotica, degli uomini. A questo riguardo è particolarmente indicativo il pensiero creativo. La coscienza creativa rappresenta un atto di genesi dell’imprevedibile in base agli algoritmi automatici del testo. Tuttavia la bassa probabilità che sorga per esempio un “romanticismo byroniano” senza Byron determina la situazione solo fino al momento della sua origine. Inoltre, nell’ambito della cultura, più un certo fenomeno è inatteso,

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più forte è la sua influenza sulla situazione culturale dopo la sua attualizzazione. Il testo “inverosimile” diventa realtà e lo sviluppo successivo si basa su tale testo come su un fatto. La sorpresa scompare, l’orginalità dei geni si trasforma in consuetudine degli imitatori, i “byroniani” seguono Byron, i dandy di tutta l’Europa seguono Brummell. Nella lettura retrospettiva si elimina la discretezza drammatica di tale processo e Byron risulta il “primo byroniano”, il seguace dei propri seguaci o, come ciò viene di solito definito nelle ricerche storicoculturali, il “precursore”. Friedrich Schlegel nei Frammenti ha pubblicato la massima: “Lo storico è un profeta rivolto al passato”. Questa osservazione arguta ci fornisce un pretesto per evidenziare la differenza tra la posizione dell’indovino che predice il futuro e quella dello storico che “predice” il passato. Nessun indovino, o profeta, qualifica il futuro in modo univoco come qualcosa di ineluttabile e unicamente possibile: la predizione o si forma in base al principio del periodo ipotetico di secondo grado (del tipo “se fai quello e quello, accade quello e quello”) oppure si forma intenzionalmente in modo vago da necessitare un’interpretazione aggiuntiva. In ogni caso la predizione mantiene sempre un margine di indeterminatezza, inesauribilità della scelta tra alcune alternative. Lo storico che “predice all’indietro” si differenzia dall’indovino perché “rimuove” l’indeterminatezza: quello che di fatto non è avvenuto per lo storico non sarebbe nemmeno potuto accadere. Il processo storico perde la sua indeterminatezza ossia cessa di essere informativo. Possiamo, quindi, concludere che la necessità di appoggiarsi ai testi pone lo storico davanti all’inevitabilità di un doppio travisamento. Da un lato, la tendenza sintagmatica del testo trasforma l’avvenimento in una struttura narrativa e, dall’altro, la tendenza contrastante dell’opinione dello storico travisa altrettanto l’oggetto descritto.

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Jurij M. Lotman

Nella prospettiva della Rivoluzione francese∗

1. Nella presente relazione non vengono esaminati gli aspetti socioeconomici, politici, o simili, ma gli aspetti culturali e psicologici dei movimenti rivoluzionari. Nei periodi caratterizzati da forti mutamenti sociali, l’autocoscienza delle persone acquisisce un particolare significato sociale e influisce sulle situazioni di scelta che sorgono inevitabilmente in ogni fase epocale della storia. 2. L’interpretazione che le persone coinvolte danno dei grandi processi storici assume inevitabilmente un doppio carattere: a) L’avvenimento è considerato la ripetizione di avvenimenti passati. In questo caso, di norma, si assume come base un determinato modello storico (classico, biblico, ecc.). Tra i numerosi fatti storici si distinguono per importanza quelli che mostrano un’analogia con fatti precedenti. La storia contemporanea si traduce nella lingua del passato. b) Gli avvenimenti contemporanei si esaminano come qualcosa di eccezionale, mai accaduto e senza paragoni. Tale approccio interpreta gli avvenimenti in maniera escatologica: come una Grande Fine o un Grande Inizio. Nelle interpretazioni effettive della contemporaneità possono coesistere entrambi gli approcci che assumono un peso diverso in gruppi sociali diversi (oppure all’interno dello stesso gruppo sociale). 3. La rivoluzione francese, com’è noto, si è proiettata verso la storia classica e, in particolar modo, verso quella romana. La particolarità di tale autointerpretazione sta nel suo carattere attivo: oltre a interpretare gli avvenimenti si addentra nella loro storia. L’“aspetto romano” della rivoluzione francese non si rifletteva nelle sue effettive manifestazioni sociopolitiche, ma nel modo in cui tali azioni venivano interpretate dai protagonisti stessi della rivoluzione.

∗ J. M. Lotman, V perspektive Frantsuzskoj revoljutsii, (1989), in Istorija i

tipologija russkoj kul’tury, trad. a cura di B. Osimo, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2002, pp. 371-374.

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Il “comportamento romano” è diventato una parola d’ordine dei rivoluzionari per identificarsi tra loro. Si veda a questo proposito la protesta popolare di Marat: quando uno dei membri dell’Assemblea nazionale si rivolge a Mirabeau in prima persona, Marat afferma che tale atteggiamento si addice solo ai romani e Mirabeau non ne è degno8. Quindi ci si riferiva al comportamento romano, ai sentimenti e ai gesti romani, e non ai modelli di organizzazione economica o politica. Tale tendenza comportamentale distingueva il rivoluzionario dai suoi predecessori prossimi, ossia dagli illuministi del XVIII secolo. Per gli illuministi Roma era uno spazio di idee: l’illuminista aspirava a pensare come un romano. Per i rivoluzionari si trattava di un sfera d’azione: il giacobino aspirava a riprodurre il gesto “romano”. Tuttavia i rivoluzionari conoscevano di fatto il “comportamento romano” soltanto sotto l’aspetto teatrale. Il protagonista della rivoluzione si comportava da “romano” all’Assemblea nazionale e alle riunioni del club, davanti alla folla e sul patibolo: in tutte queste occasioni il comportamento si basava sulla regola teatrale. Oltre a quelle “romane”, esistevano altre regole comportamentali. In base alla posizione, ci si poteva comportare da “sanculotto”, da “vero aristocratico” o altro. Tuttavia era necessario scegliere un tipo di comportamento che diventava il mezzo d’identificazione sociale. Persino nel caso in cui il singolo cercava di evitare tale scelta, la società gli imponeva a forza un ruolo che segnava il suo destino. 4. Tale approccio ha conferito al comportamento un’inevitabile teatralità: il teatro è diventato una forma organizzativa delle relazioni tra le persone. Come è noto, Napoleone nel creare i riti militari si consigliava con Talma e il comportamento teatrale andava oltre alle parate9. Proprio mediante il teatro il comportamento si tramandava alle future generazioni, per le quali il “comportamento rivoluzionario di Parigi” era diventato ciò che per Parigi era il “comportamento romano”. 5. La costante teatralità del comportamento non era del tutto caratteristica del populismo russo, nonostante le somiglianze di determinati elementi teatrali nel comportamento, nell’abbigliamento e nei gesti dei rivoluzionari. La teatralità

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era in contraddizione, sul piano tattico, con la cospirazione e, sul piano filosofico-etico, con l’ideale della “persona vera”. 6. La Rivoluzione d’ottobre ha potenziato la semioticità del comportamento senza la quale era impossibile comprendere l’essenza degli avvenimenti. Le “vecchie guardie” che operavano in clandestinità all’epoca della guerra civile sono state in parte escluse e loro erano soltanto un’esigua parte della massa coinvolta nella rivoluzione. Tra i rivoluzionari della vecchia generazione predominavano le regole di comportamento consolidate nell’ambiente dell’intellighenzia all’inizio del Novecento. Tale comportamento riduceva l’importanza della sfera d’espressione. Il rivoluzionario dell’inizio del Novecento non diffondeva i propri ideali nel comportamento quotidiano sia per motivi cospirativi sia per buona educazione. Sulla base dei gesti e delle maniere nella vita quotidiana era impossibile distinguere i bolscevichi dai menscevichi o dai socialrivoluzionari10, nonché dall’insieme di intellettuali simpatizzanti dei cadetti o senza partito (ingegneri, insegnanti, ufficiali, ecc.) dai cui ranghi si sono formati gli strati più bassi del movimento dei “bianchi”. La differenziazione comportamentale si è delineata notevolmente quando in entrambi gli schieramenti si sono riversati i giovani che generazionalmente non erano legati all’intellighenzia prerivoluzionaria. Proprio questa massa di persone che ha coinvolto la rivoluzione in varie forme di azione politica, come i giacobini ai tempi, ha trasferito le idee politiche nell’ambito del comportamento pratico. Le masse di persone unitesi alla rivoluzione soltanto negli ultimi mesi, o addirittura negli ultimi giorni, erano costrette a prendere una posizione sociale, trovando il proprio posto in un mondo in continuo mutamento. Questo ha comportato, da un lato, un miscuglio semiotico senza precedenti e, dall’altro, un forte aumento di significato dei valori semiotici all’interno della struttura sociale. È indicativo per esempio il dibattito sull’introduzione delle prime onorificenze sovietiche: i vecchi rappresentanti del partito erano contrari a tale misura, come anche a tutti gli altri segni simbolici nel nuovo esercito e nella struttura sociale; tuttavia, sia le onorificenze che i segni distintivi si sono consolidati. In generale, gli anni della guerra

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civile hanno visto il rigoglioso sviluppo di diverse sfere e forme d’espressione semiotica. L’abbigliamento, i tessuti, le regole della moda e la loro infrazione: tutto era impregnato di una particolare semiosi. Con il coinvolgimento nell’attività politica delle masse di soldati, spesso analfabeti, l’acconciatura, l’abbigliamento, l’intonazione, il gesto conferiscono senso politico, non di rado alla persona meritevole (si veda il tema degli occhiali nell’Armata a cavallo di Babel’). È caratteristico l’intenso dibattito nella stampa sovietica durante la guerra civile tra l’agente segreto Lacis e Jaroslavskij sui metodi di riconoscimento del “nemico”. Lacis, convinto che il terrore rivoluzionario persegua gli scopi di classe e non quelli personali, riteneva come motivi sufficienti per l’arresto, oltre alla posizione sociale e all’istruzione, anche l’abbigliamento, l’acconciatura e i gesti. Come obiezione Jaroslavskij ha dipinto una scena raffigurante l’interrogatorio sulla base del quale il “compagno Lacis” fucila Carl Marx. In queste condizioni la semiotica trionfa apertamente sulla realtà. Secondo un’affermazione calzante di Andrej Belyj, in conseguenza della vittoria del materialismo, la materia è scomparsa. Lo slancio della semiosi ha permesso alle persone di superare le difficoltà reali, considerandole segni di un futuro benessere sociale (si veda la poesia "Racconto di Hrenov sul sistema e sulla gente di Kuznetsk" di Majakovskij). Ma molto prima e da una posizione del tutto diversa, la psicologia di tale percezione è stata denunciata da Anna Ahmatova nei versi: «Tutto è rubato, tradito, venduto…». La realtà e la materialità attribuiscono al vecchio mondo il “nuovo” rappresentato in maniera puramente semiotica: è rappresentato come un sistema di segni simbolici («bosco», «nuove costellazioni») e dal presentimento del loro significato («Favoloso… A nessuno, a nessuno noto / Ma da noi da secoli desiderato»). Vedere l’attualità attraverso il prisma dei segni di una realtà diversa coincide, secondo Ahmatova, alle emozioni nobili. Per entrambi gli schieramenti la rinuncia alla semioticità del comportamento a causa della materialità della quotidianità è attribuita alla borghesia che non appartiene a nessuno dei due mondi.

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6. Le situazioni rivoluzionarie si creano nel momento in cui le masse prendono coscienza della disperazione pericolosa della propria posizione. In questi casi la sensazione collettiva di disperazione non genera la passività che è un frutto della disperazione individuale, ma una determinazione illimitata. I giacobini hanno mostrato che l’abilità della guida rivoluzionaria consiste nel mantenimento costante del senso di disperazione. Tuttavia questo è un mezzo pericoloso poiché potrebbe essere utilizzato dalle forze politiche opposte. Inoltre, in una situazione di disperazione il partito rivoluzionario deve introdurre degli slogan di salvezza che siano comprensibili alle masse. In sostanza i giacobini sapevano che in condizioni rivoluzionarie i concetti di “reale” e di “comprensibile alle masse” sono contrastanti tra loro. Nei momenti di disperazione la rivoluzione propone slogan visibilmente inattuabili e questi ispirano le masse, sostituendo il programma dei veri politici. Così quando l’esercito controrivoluzionario si dirigeva verso Parigi e la rivoluzione mancava di forza militare organizzata, la Convenzione ha proposto lo slogan della vittoria mondiale la cui alternativa era la morte. Tutti gli slogan del popolo erano legati a ciò e subordinati alla vittoria. Successivamente tali slogan massimalisti simbolici, dopo aver fatto la loro parte sono usciti di scena insieme ai giacobini. Anche la Rivoluzione d’ottobre ha avuto un periodo analogo quando si riteneva che la soluzione di tutti i problemi dovesse derivare dalla vittoria della rivoluzione mondiale. La nota poesia “Granada” di Svetlov rifletteva tale necessità storica di illusioni sulla vittoria della rivoluzione. Il contadino ucraino associa la soluzione dei suoi problemi quotidiani alla realizzazione anticipata del suo sogno di rivoluzione spagnola. La rappresentazione e l’analisi di tale stato psichico e del comportamento della gente nell’epoca della rivoluzione è uno dei temi centrali dell’opera di Andrej Platonov. I giacobini sono stati estromessi quando l’inattuabilità del loro programma è diventata evidente. Lenin ha dato prova della sua bravura quando, alla fine della guerra civile, ha affermato l’inattuabilità degli slogan massimalisti sulla rivoluzione mondiale provenienti dalla ballata di Svetlov che erano

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d’ispirazione non solo al partito ma anche al contadino. Inoltre il passaggio della politica dal campo degli ideali massimalistici alla realtà pratica indicava la presa di coscienza che la rivoluzione era finita. La tragedia del popolo durante la guerra civile, descritta in molte opere letterarie degli anni Venti del Novecento, consisteva nell’impossibilità di passare alla sfera della pratica da parte di chi ha vissuto nell’epoca della semiotica. I racconti e i romanzi di B. Pil’njak, A. Platonov, K. Fedin, I. Erenburg e di molti altri mostrano come l’uomo, eroico nel mondo semiotico degli slogan, strappato alla vita quotidiana dalla rivoluzione, nella vita “normale” della realtà postrivoluzionaria muore moralmente e fisicamente. È curioso come la letteratura che rispecchia apertamente gli umori della gente negli anni Venti rappresenti la realtà mostruosa della guerra civile come eroica e normale e la successiva realtà normalizzata e pacifica come anomala e mostruosa. Tuttavia nella situazione pacifica tale trasferimento di ideali e norme creatisi alle condizioni estreme della rivoluzione e della guerra ha inevitabilmente portato all’uso di violenza della minoranza rivoluzionaria, prima, e della burocrazia, poi, sul popolo. D’altronde il successi del fascismo e dello stalinismo nella seconda metà degli anni Venti e negli anni Trenta erano, in particolare, legati al fatto che, in quegli anni, i movimenti democratici in Europa si sono dimostrati impotenti a promuovere il loro programma ideale in una situazione estrema. 7. Oggi siamo testimoni della fine del grande ciclo storico legato al mutamento radicale della struttura sociale della società. I momenti di smarrimento sociale che viviamo non sorprendono lo storico al quale sono noti fenomeni analoghi del passato. Nel confronto con le situazioni iniziali delle rispettive fasi passate, la valutazione negativa delle fasi precedenti si dimostra in superiorità decisiva sui programmi futuri formulati in modo sufficientemente chiaro. Tale posizione non è nuova. Tuttavia lo storico, che riflette e analizza, sa che lo sviluppo storico non ha mai un’unica possibilità e comporta sempre una scelta all’interno di una gamma abbastanza ampia di varianti. Perciò è chiaro che il

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futuro non può essere previsto in modo univoco. In tali condizioni particolare importanza acquisiscono l’esame accurato e il giudizio ponderato delle alternative reali. Il processo storico successivo assume inevitabilmente un carattere di lotta per un pubblico di massa. La vittoria in tale lotta di una o di un’altra forza ha un rilievo “interpopolare”, se non mondiale. Si devono tenere in mente la psicologia di massa e i modelli comportamentali delle persone coinvolte nella decisione sulla sorte di tutti i popoli. Il compito degli intellettuali contemporanei ha un doppio carattere: da un lato interpretare i complessi processi attuali e, dall’altro, conferire alla conclusione ottenuta una forma accessibile a tutti i popoli. L’“illuminazione sociopolitica” diventa il compito bellico delle forze democratiche.

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Jurij M. Lotman

Ripetibilità e unicità nel meccanismo della cultura∗

Raffrontando i processi graduali con quelli esplosivi, si notano due differenze radicali: i processi graduali si possono compiere senza autoconsapevolezza e autodescrizione, in modo spontaneo. È nella loro stessa natura che progrediscano così, inconsapevolmente. I processi graduali si evolvono secondo le loro leggi interne, obbiettive, e sono autosufficienti. Il passaggio dai processi graduali a quelli esplosivi, verosimilmente, può avvenire solo in conseguenza di una catastrofe non pianificata. I processi esplosivi non solo si evolvono in modo rapido, ma sono anche per definizione11 impredicibili (per questo, a esser rigorosi, li si può chiamare “processi” solo perché in forma puramente isolata non si presentano quasi mai: generalmente si attualizzano come momenti catastrofici di sistemi più generali nella cui costituzione di norma s’intrecciano, formando un’unità complessa con processi graduali). Di conseguenza, sarebbe più esatto parlare non di “processi esplosivi”, ma di “momenti esplosivi”. Tuttavia la locuzione “processi esplosivi” è comoda per far rimarcare il contrasto con i processi graduali. D’altra parte, nemmeno quest’ultima definizione è scevra di riserve: se l’esplosione, di fatto, non è un processo perché implica un passaggio imprevedibile a un altro stato, in sostanza nemmeno il processo graduale è un processo, poiché l’immobilità ne limita la dinamica. Tecnicamente, un processo nasce proprio all’intersezione tra queste due forme d’esistenza. Fatta questa riserva, nonostante l’intrinseca imprecisione d’ora in poi uso comunque il termine “processo”. L’imprevedibilità del processo esplosivo lo trasforma in un potente meccanismo dinamico. Investendo i singoli livelli specifici della struttura o tutta la struttura nell’insieme, il processo esplosivo si svolge in modo incomparabilmente più

∗ J. M. Lotman, Povtorjaemost’ i unikal’nost’ v mechanizme kul’tury, (1992), in

Istorija i tipologija russkoj kul’tury, trad. a cura di B. Osimo, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2002, pp. 67-70.

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rapido (e, di conseguenza, più evidente all’osservatore esterno). Quando negli annali della Slavia antica si annotava “byst’ tiho12”, ciò significava che l’avvenimento si svolgeva in modo talmente lento che all’osservatore passava inosservato. Questi si ritrovava all’interno dell’evento – la sua origine era al di là dei confini della sua memoria ed esperienza, il suo compimento rimandava a una tappa successiva della vita della cultura. A ciò è legato in particolare il fatto che un osservatore (un contemporaneo o un autore di memorie) si accorge dell’avvenimento quando i suoi confini sono legati ai confini della memoria dell’osservatore. Ciò di fatto coincide con la percezione di una catastrofe. Non a caso, la memoria di un contemporaneo, di norma, fissa proprio le catastrofi. In questo senso la catastrofe potrebbe essere definita come “esplosione agli occhi di un contemporaneo”. Ciò che da una di queste posizioni sembra una catastrofe da un’altra può essere definito “condizione dell’esistenza”. Di conseguenza, solo dal primo punto di vista merita la definizione di “avvenimento”. Il risultato pratico di tale contrapposizione è la differenza tra i princìpi di descrizione degli avvenimenti da parte di un contemporaneo immerso in quella cultura, e quelli di uno straniero. Quello che per il primo è il corso naturale delle cose per il secondo è un eccesso. Non a caso uno straniero descrive un ordine affermato (consuetudini e princìpi), mentre l’osservatore locale li chiama “eccessi”. Un diplomatico straniero a cui è stato domandato ai tempi di Anna Ioànnovna cosa lo stupisse maggiormente qui, ha risposto in modo straordinariamente preciso: “Tutto”13. Da quanto detto discende che un mondo del tutto organizzato in base alle leggi dello sviluppo graduale e privo di momenti di imprevedibilità sarebbe, inoltre, privo di meccanismi di autocoscienza, senza i quali è impossibile un processo intellettuale nel vero senso della parola. Quanto detto può essere parafrasato così: un mondo chiuso in una struttura che basta a sé stessa non può ergersi a soggetto di coscienza. Dicendo questo, prescindiamo da qualsiasi considerazione valutativa, e la parola “ergersi” va intesa come un nonsense linguistico, che la lingua ci impone, forse, a dispetto della conoscenza obbiettiva. La vita quotidiana non può essere

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unica e bastare a sé stessa. Di fatto, una parte sostanziale dei problemi complessi del campo scientifico che ci interessa qui è legata all’antinomia tra l’unità chiusa e la sua impossibilità, dell’isomorfismo dell’unico e dell’universale e, nel contempo, del loro anisomorfismo di principio. Questo problema, verosimilmente, sta alla base di molte contraddizioni-unità interne, il campo del sapere che ci interessa. I ragionamenti appena fatti introducono a un concetto nuovo nella semiotica della cultura: il concetto di “esplosione”. “Esplosione” è un momento di sviluppo dinamico che crea una situazione di imprevedibilità di principio. Perciò l’inserimento del processo dinamico dell’esplosione esclude la possibilità di un suo moto circolare. La direzione opposta non porta al punto di partenza. Quando Hegel diceva che “il movimento in avanti è ritorno alla base d’origine”, s’immaginava il processo storico come qualcosa che scorre secondo un modello circolare (il modello circolare dispiegato in modo lineare nello spazio o nel tempo si trasforma in una linea regolare ondulare). Antitesi di questa visione del processo storico può essere solo la morte globale, l’annientamento completo. Da questo punto di vista la storia ha solo due possibilità: ripetersi alla vecchia maniera in forme rinnovate o annichilirsi. La prima si realizza come passaggio della quantità in nuova qualità, la seconda come liquidazione. L’introduzione nel processo dinamico del concetto di “esplosione” permette di uscire dalla scelta “cattiva”: l’imprevedibilità di principio del risultato dell’esplosione ci mette davanti alla necessità di introdurre nei metodi della scienza i princìpi dello studio dell’unico. Ciò da un lato rende il fenomeno dell’uomo uno dei problemi fondamentali dello studio dell’organismo vivente in generale, dall’altra fa uscire l’arte dalla sfera della periferia scientifica, del vivaio fatto a modo suo in cui trovano rifugio gli amanti delle sciocchezze raffinate, e la inserisce in uno dei campi principali dello studio del processi dinamici. Il destino storico dello strutturalismo nelle prime tappe di sviluppo è stato che le sue idee sono state determinate in modo significativo dalle idee della linguistica strutturale. In pratica, il suo metodo consisteva nella semplice trasposizione

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delle conquiste della linguistica strutturale (nella sua prima versione) nell’àmbito più ampio degli oggetti culturali. Così facendo si supponeva che l’unità della cultura fosse determinata dall’unità del suo linguaggio, e che l’unità stessa del linguaggio fosse il risultato di alcuni princìpi fondamentali che si realizzano in modo diverso, ma che nel profondo rimettono in atto alcune regolarità generali. Il testo si è dunque ricondotto a un certo sistema generale, dalla cui posizione le differenze tra i vari linguaggi (il risultato dei loro destini storici) in linea di principio sono profondamente relative. Tuttavia è possibile anche il punto di vista opposto. Si può supporre che la cultura per sua stessa natura implichi la presenza di linguaggi in linea di principio diversi e non reciprocamente traducibili; che la sua base minimale sia la presenza di due linguaggi non riducibili uno all’altro è una differenza di tipo binario, un cui esempio fondamentale è la vittoria globale nella struttura della vita del binarismo delle differenze sessuali. Il sistema binario, di norma, si sviluppa in insiemi eterogenei di tipo polistrutturale. Su questa base posa un ulteriore principio strutturale: si suppone che un sistema creatosi in conseguenza dell’aumento della complessità della struttura binaria di base forse si sviluppa in senso contrario nella direzione opposta. Se quindi dalla struttura binaria si forma una polistruttura, da quest’ultima è possibile ottenere un sistema storicamente iniziale. L’altro presupposto si basa sull’ipotesi dell’unità globale di tutti i risultati dello sviluppo della paleostruttura binaria iniziale. Ciò significa che in quel punto storico iniziale – su cui possiamo giudicare solo in modo ipotetico – tutti i paleolinguaggi convergono. Quindi la storia delle lingue è storia della Lingua còlta nei vari momenti della sua evoluzione. Quest’ultima parola compare qui non per caso: lo sviluppo semiotico è concepito come processo evolutivo. Ciò è coerente con il trionfo delle idee dell’evoluzionismo in un dato periodo di sviluppo della scienza (in particolare, il risultato della vittoria del darwinismo sul lamarquismo). La soluzione di questi problemi generali non rientra affatto nei nostri compiti. Tuttavia, perché il lettore capisca alcuni aspetti dei nostri ragionamenti, risultano utili. Il punto debole dei

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postulati esposti prima ci sembra innanzitutto l’esclusione del potente fattore della casualità. Ciò in grande misura discende dal fatto che la struttura dinamica globale è concepita come un tutto unico che ha un punto di partenza comune e leggi dinamiche comuni. Di conseguenza, il meccanismo della casualità risulta escluso dalla scienza. Si suppone che si trovi al di là dei suoi confini, che è ancora più importante e che la spiegazione scientifica dei processi dinamici possa tranquillamente farne a meno. La differenza di percorsi in quella o quell’altra sfera si spiega col fatto che la natura agirebbe per prova ed errore, mettendo da parte la forma nata per caso ma evoluzionisticamente ingiustificata. Ma va precisato che lo sviluppo ulteriore della genetica trasforma significativamente la semplicità delle concezioni iniziali. Tuttavia nel campo della storia della cultura non sono nate idee nuove e più complesse. È però possibile che proprio in questa fase la teoria della cultura possa da utilizzatrice delle idee scientifiche generali trasformarsi in loro generatrice. Si tratta di non ricondurre la casualità oltre i confini della scienza, ma di costruirvi sopra determinati aspetti della teoria dei processi dinamici. Il ruolo della casualità nella teoria dell’arte è legato alla rappresentazione dell’irripetibilità e dell’unicità dei testi artistici. Va però rilevato che queste idee sono perlopiù proprie dell’arte europea e ne condizionano la direzionalità spaziotemporale irreversibile. In termini semplici, l’arte europea (come esempio prendiamo l’arte figurativa) tende al dinamismo direzionale e al punto di vista fisso. In questo senso l’antitesi del quadro può essere l’ornamento. Il quadro si distingue dall’ornamento, in particolare, perché non può essere letto uniformemente dal punto iniziale a quello finale e, di conseguenza, non ha il criterio temporale o dell’intreccio14. L’antitesi della presenza dell’intreccio è l’assenza di un intreccio e appare qui particolarmente significativa. In particolare, in virtù del suo carattere del tutto diverso, il principio stesso dell’inventiva cambia: in un caso si accentua la ripetibilità, nell’altro la non ripetibilità, l’unicità. La presenza di un intreccio e il tempo risultano altrettanto indissolubilmente legati-contrapposti, come l’ornamentalità e

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l’extratemporalità. Quindi sarebbe più corretto parlare in questo senso non di differenza tra arti verbali, musicali e così via, ma tra arti “ornamentali” e arti che colgono un certo momento temporale. La distinzione di due tipi di oggetti – ripetibili e non ripetibili – pone la base per differenziazione dei metodi scientifici. Quando agli albori della scuola semiotica di Tartu infuriava il dibattito se in primo piano bisognava mettere l’analisi del giallo o di altre forme d’arte prevedibili, o se occorresse porre alla base del metodo scientifico l’unicità dei mondi artistici di Tolstoj e di Čehov, di fatto la discussione verteva sul fatto se la descrizione semiotica dell’arte sarebbe stata la base sulla quale sarebbero stati elaborati i metodi per accostare il semplice e il complesso (il non artistico con l’artistico) o se sarebbero stati elaborati percorsi in linea di principio nuovi nella disciplina per i quali i sistemi d’estrema complessità sarebbero state la base delle ricerche di una nuova fase della semiotica.

1 Si confrontino per esempio l’unione tra cristianesimo e paganesimo,

cavalleria e influenze folcloriche della steppa, voci occidentali e bizantine in Canto dell’impresa di Igor. Tale apertura alle diverse tendenze della cultura mondiale ha lasciato perplessi i ricercatori che cercavano nell’opera caratteristiche moscovite e ha fatto nascere l’ipotesi della falsità dell’opera.

2 VII Congresso internazionale degli slavisti a Varsavia, 1973: 85-86. 3 Si vedano al riguardo: Živov, Uspenskij Lo zar e Dio. Gli aspetti semiotici della

sacralizzazione del monarca in Russia -Le lingue della cultura e i problemi di traducibilità 1987; Uspenskij Lo zar e l’impostore. L’impostura in Russa come fenomeno storico-culturale – La lingua medievale dell’arte; L’eco del concetto “Mosca – terza Roma” nell’ideologia di Pietro I.

4 Si veda per esempio Platonov L’epoca dei torbidi. Saggi sulla storia dei torbidi nello stato moscovita nei secoli XVI e XVII 1923.

5 Platonov L’epoca dei torbidi: 86. 6 In ogni caso l’ereditarietà del potere obbligava Pëtr a dover almeno

menzionare i motivi della privazione del potere statale nei confronti di Aleksej.

7 Le ultime parole alludono allo strangolamento di Paolo I. 8 È caratteristico che Marat si ritenesse “romano” pur sapendo benissimo di

essere un cittadino francese nativo di Ginevra. Tuttavia il suo definirsi “romano” non era una metafora: si trattava di realtà di livello diverso.

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9 L’adattamento teatrale era presente anche nel comportamento sul campo di

battaglia, dove il gesto ha svolto un ruolo che fino allora non gli era consono. È indicativo che nonostante il nuovo esercito rivoluzionario non avesse una divisa imposta nei primi anni di guerra, tuttavia si sia immediatamente creata un’antitesi significativa: “sanculotto in stracci – invasore in divisa” ossia “il segno dello zero” (gli abiti del sanculotto) – forma prussiana. Successivamente l’abbigliamento del sanculotto è diventato la divisa rivoluzionaria. La contrapposizione degli schieramenti ha acquisito il carattere dell’antitesi della divisa. Esattamente così erano vestite le guardie rivoluzionarie durante l’autunno e l’inverno del 1917 contrapponendosi al vecchio esercito “in divisa”, ossia alle “future” guardie bianche. Ma tra il 1918 e il 1920 si forma una nuova divisa militare: la differenza d’abbigliamento delimitava l’orientamento politico. Attualmente la mancanza di una delimitazione netta tra i rappresentanti di diversi schieramenti mediante l’abbigliamento è una peculiarità della fase iniziale del movimento sociale.

10 Nella poesia satirica dell’epoca della prima rivoluzione russa “Se trovassero nella vostra casa…” si risolve in maniera ironica la questione semiotica: come riconoscere in base all’aspetto esteriore l’appartenenza di una persona a uno o a un altro partito. È curioso che l’autore della poesia qualifica “l’esplosivo” e le opere di Marx come segni distintivi dei membri del partito rivoluzionario e “Le fotografie di Nizza e della Riviera / Le applique di bronzo“ come segni dei cadetti, ossia indica, da un lato, i segni della tattica e dell’ideologia rivoluzionaria e, dall’altro, il livello materiale. In entrambi i casi però non si tratta di un particolare tipo di comportamento.

11 O “in linea di principio”. 12 Grosso modo, “fu tranquillo”. 13 A questo va aggiunta una regola storiografica non sempre osservabile;

l’osservazione di uno straniero e di un compatriota sono particolarmente preziose per lo storico delle fonti, ma non si deve dimenticare la loro diversa natura codicale. Per raffrontarle, occorre tradurle in un linguaggio comune come per esempio se stessimo analizzando materiale avendo tra le mani fonti in russo e in francese. La semplice collazione crea una sorta di particolare volapuk scientifico.

14 Con una certa dose di affidabilità la contrapposizione di quadro e ornamento si può trasferire sull’antitesi tra musica europea e cinese. La direzionalità lineare dell’una si distingue dalla struttura spaziale dell’altra. Nella musica europea la dinamica dà la direzione, in quella cinese spazio. Perciò nella seconda il criterio della fine sul piano strutturale è notevolmente indebolito

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e di fatto si riduce alla necessità tecnica di concludere l’azione musicale. Laddove è necessario creare una dinamica, la musica cinese cambia timbro, forza, ma non l’ornamento della ripetizione. Tuttavia non si può non notare che quegli stessi princìpi dell’antitesi, ma con minore assolutizzazione, evidentemente, sono propri della musica in generale; facendo perno sui meccanismi di denominazione e del loro racconto, in forma significativamente trasformata li si può notare, per esempio, nell’antitesi tra motivo e polifonia o in conflitto tra gluckisti e piccinnisti.

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BIBLIOGRAFIA LOTMANIANA

I. Un commento sulla selezione dei testi adottati

Il presente lavoro si basa sulle traduzioni degli scritti Lotmaniani in lingua italiana, spagnola, inglese e, solo in alcuni casi, russa. Dopo diversi colloqui con i docenti del Dipartimento di Semiotica dell’Università di Tartu, Peeter Torop in particolare, mi sembra di poter dire che la lettura incrociata e interlinguistica di questo cospicuo materiale possa sopperire parzialmente al limitato accesso ai testi in lingua originale (cosa che potrebbe rappresentare forse il limite più evidente del presente lavoro, il quale – lo si ricorda – non pretende certo di essere una ricostruzione filologica dell’opera di Lotman, ma un ripercorrimento storico-epistemologico del suo pensiero).

Come si vedrà, si è scelto di non riportare la bibliografia inglese, essendo uscito da poco il minuzioso saggio di Kalevi Kull, “Juri Lotman in English”1. Possiamo però sottolineare che i saggi pubblicati dal 1973 (anno della prima pubblicazione) al 1981-’82 sono praticamente tutti

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presenti in edizione italiana. Più interessanti invece, per il pubblico nostrano, sono le traduzioni anglosassoni dell’“ultimo” Lotman, ossia: la monografia Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture (1990) e i tre saggi: “Technological Progress as a Problem in the Study of Culture” (1988), “Culture as a subject and an object in itself” (1989), “Theses towards a semiotics of Russian culture” (1992) – testi che, insieme alle antologie in lingua inglese usate per il presente lavoro, sono inseriti nella “Bibliografia generale”.

Come si vedrà, ancora, ai dati bibliografici in edizione spagnola è stato talvolta apposto un asterisco (*), segno che la stessa pubblicazione è presente in edizione italiana. Le due, congiuntamente, ritengo che possano rappresentare un corpus testuale integrale ed esauriente.

Anche se si è cercato di offrire un’accurata organizzazione bibliografica, si rimanda il lettore all’insostituibile ricostruzione che ha proposto Lyubov Kiseleva nel III libro dell’antologia Izbrannye stat’i (Tallinn, 1993), di cui diremo tra poco. Di essa, è possibile trovare una versione aggiornata nel III libro dell’antologia madrilena La semiosfera (Madrid, 2000), ad opera di Lyubov Kiselova e Manuel Cáceres.

Per quanto riguarda invece la sezione dedicata alla bibliografia inedita di Lotman si fa riferimento alle pubblicazioni in lingua russa dal 1984 al 1993 che ancora non sono state tradotte in italiano; si noterà, grazie alle abbreviazioni es e en, che alcune di esse sono state già recepite in lingua spagnola e inglese. Si rimanda anche al fondamentale saggio di Silvia Burini “L’ultimo Lotman: scritti dal 1991 al 1993”2.

Di seguito le antologie usate per articolare la suddetta sezione:

• Izbrannye stat’i: v trech tomach. Tom. I (Stati po semiotike i tipologii kul’tury) [Saggi scelti in tre volumi. Tomo I: Saggi di semiotica e tipologia della cultura], Aleksandra, Tallinn, 1992;

• Izbrannye stat’i: v trech tomach. Tom. II (Stat’i po istorii russkoj literatury XVIII- pervoj poloviny XIX veka) [Saggi scelti in tre volumi. Tomo II: Saggi di storia della letteratura russa dal XVIII secolo alla prima metà del XIX secolo], Aleksandra, Tallinn, 1992;

• Izbrannye stat’i: v trech tomach. Tom. III (Stat’i po istorii russkoj literatury. Teorija i semiotika drugich iskusstv. Mechanizmy

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kultury. Melkie zametki) [Saggi scelti in tre volumi. Tomo III: Saggi di storia della letteratura russa, teoria e semiotica delle altre arti, meccanismi della cultura, brevi note], Aleksandra, Tallinn, 1993;

• Ju. M. Lotman i Tartusko-Moskovskaja semiotičeskaja škola (izbrannye stat’i 1992-1993) [Ju. M. Lotman e la Scuola semiotica di Tartu-Mosca. Saggi scelti, 1992-1993], Gnozis, Moskva, 1994;

• Besedy o russkoj kul’ture. Byt I tradicii russkogo dvorjanstva (XVIII – načalo XIX veka) [Conversazioni sulla cultura russa. Il byt e le tradizioni della nobilità russa (XVIII – inizio XIX secolo], Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 1994;

• Semiosfera, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2000; • Istorija i tipologija russkoj kul’tury [Storia e tipologia della cultura

russa], Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2002; • Stat’i po semiotike kul’tury i iskusstva [Saggi di semiotica della

cultura e dell’arte], Akademičeskij proekt, Sankt-Peterburg, 2002; • Čemu učatsja ljudi. Stat’i i zametki [Che cosa le persone

imparano. Articoli e note], TSentr knigi VGBIL im. M. I. Rudomino, Moskva, 20103.

II. L’archivio e i depositi degli scritti Lotmaniani in Estonia. Alcune

note sull’Eesti Semiootikavaramu di Tallinn

Le informazioni che seguiranno sono tratte dall’intervento di Igor Pilshchikov, “An Overview of Jurij Lotman’s Archive at Tallinn University”, tenutosi durante il congresso internazionale per il 90° anniversario dalla nascita di Lotman (Tartu 28 febbraio - 2 marzo 2012). Colgo l’occasione per ringraziare lui e i colleghi dell’Archivio, Tatjana Kuzovkina, Gabriel Superfin, Mikhail Trunin, per avermi concesso il materiale dell’esposizione.

L’archivio privato di Jurij M. Lotman e Zara Mints venne prelevato agli inizi degli anni Novanta e ospitato nella biblioteca universitaria di Tartu. Una buona parte di esso, insieme alla collezione di circa seimila libri dei coniugi Lotman, venne poi trasferito nel 2005 presso l’università

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di Tallinn, ad opera della Fondazione per il Patrimonio della Semiotica Estone (Eesti Semiootikavaramu), che ha iniziato i lavori di catalogazione alla fine del 2009.

Ad oggi, l’archivio della capitale ha visto l’ordinamento di circa metà del suo patrimonio che, per motivi organizzativi, è stato diviso in due collezioni: quella di Zara Mints e quella di Lotman, a sua volta articolata in due sezioni: l’epistolario e l’archivio principale. La catalogazione di quest’ultimo ha finora fatto emergere i materiali di un ciclo di lezioni inedite sui poemi di Puškin (“Poemy Puškina”, 1971 circa) e di un ciclo di lezioni di estetica che erano state spedite da Lotman all’università di Tartu nel 1960 e che dovevano fungere da abbozzo alle Lezioni di poetica strutturale (1964); inoltre, ha svelato la presenza di più di 60 scritti inediti tra cui:

• una recensione al terzo volume dell’edizione accademica dello scrittore russo A. Radiščev (1749-1802), dal titolo “O tekstologičeskoj točnosti” (Sulla precisione testuale), della metà degli anni Cinquanta;

• l’articolo “Lomonosov i puti razvitija russkoj obščestvennoj mysli” (Lomonosov e le vie dello sviluppo del pensiero sociale russo), del 1961 circa;

• uno scritto del 1967, inviato al VGIK4 (Istituto statale pan-russo di cinematografia) per la conferenza sul grande regista sovietico S. Eisenstein;

• l’introduzione al settimo volume della Kratkaja Literaturnaja Entsiklopedija (Breve Enciclopedia Letteraria), dal titolo “Strukturalizm v literaturovedenii” (Lo strutturalismo nello studio della letteratura), del 1968 circa;

• l’articolo “Nekotorye problemy sravnitel’nogo izučenija chudožestvennych tekstov (Alcuni problemi dello studio comparato dei testi artistici), del 1970 circa;

• l’articolo “O nekotorych aspektach funktsii vešči v iskusstve” (Alcuni aspetti della funzione delle cose nell’arte), del 1971 circa;

• le tesi per gli atti del convegno “K probleme ustojčivosti nekotorych srednevekovych modelej v kul’turnom soznanii posledujuščich epoch (Sul problema della stabilità di alcuni

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modelli medievali nella coscienza culturale delle epoche successive), del 1971 circa;

• un dattiloscritto del libro del 1972 Analiz poetičeskogo teksta (L'analisi del testo poetico), molto diverso da quello pubblicato;

• l’articolo “O vosproizvedeenii jazyka Pisem russkogo putešestvennika” (Sulla riproduzione del linguaggio delle Lettere di un viaggiatore russo di Karamzin), della fine degli anni Settanta;

• uno scritto del 1987 inviato al VII Congresso Internazionale sul Siècle des Lumières (Mukkula, Finlandia);

• vari articoli per il dizionario di estetica: “poetika” (poetica), “kompozitsija” (composizione), “Puškin”, “tekst chudožestvennyj” (testo artistico), “lirika” (lirica), del 1987 circa, e probabilmente l’articolo “Stihi i proza” (Poesia e prosa”, del 1984;

• l’articolo “Sostojanie vdochnovenija kak ob’ekt semiotičeskoj kul’turologii” (Lo stato dell’ispirazione come oggetto della semiotica della cultura), dei primi anni Novanta.

L’epistolario della collezione di Lotman a Tallinn contiene invece le

lettere dei familiari (35 da sua moglie, Zara Mints, circa 60 dalle sorelle, e più di 20 da altri parenti) e la corrispondenza con circa 500 personalità dell’epoca, tra studiosi di letteratura, teatro e cinema, linguisti e semiologi: P. Ariste, K. Eimermacher, L. Ginzburg, A. Greimas, E. Etkind, C. Lévi-Strauss, V. Strada, A. Zaliznjak, per citarne alcuni.

La sua catalogazione ha visto recentemente la scoperta di 500 nuove lettere, che si vanno ad aggiungere all’enorme patrimonio epistolare custodito nella biblioteca universitaria di Tartu, con le sue 18.000 lettere circa.

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J. M. Lotman nelle pubblicazioni in lingua italiana

1962 J. M. Lotman, “La struttura intellettuale della Figlia del capitano” (Idejnaja

struktura Kapitanskoj dočki, Pskovskij Gosudarstvennyj Pedagogičeskij Institut Imeni S.M. Kirova 1962), in Da Rousseau a Tolstoi: saggi sulla cultura russa, Il Mulino, Bologna, 1984.

J. M. Lotman, “Le origini della “corrente tolstoiana” nella letteratura russa degli anni 1830-1840” (Istoki “tolstovskogo napravlenija” v russkoj literature 1830-ch godov, Tartu 1962), in Da Rousseau a Tolstoi: saggi sulla cultura russa, Il Mulino, Bologna, 1984.

1963 J. M. Lotman, “Sulla delimitazione del concetto di struttura a livello linguistico e

letterario” (O razgraničenii lingvističeskogo i literaturovedčeskogo ponjatija struktury, 1963), non edito in italiano.

1964 J. M. Lotman, “Discorso d’apertura” della prima Scuola estiva sui sistemi

modellizzanti secondari, Kääriku, 19-29 agosto 1964, in La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, Feltrinelli, Milano, 1979.

[J. M. Lotman, Lezioni di poetica strutturale (Lekcii po struktural’noj poetike. Vvedenie, teorija stiha, 1964), non edito in italiano.]

1965 J. M. Lotman, “Il concetto di spazio geografico nei testi medievali russi” (O

ponjatii geografičeskogo prostranstva v russkich srednevekovych tekstach, Tartu 1965), in Tipologia della cultura, Bompiani, Milano, 1975.

1967 J. M. Lotman, “Metodi esatti nella scienza letteraria sovietica”, in Strumenti

critici, 1967, I, fasc. II, pp. 107-127. J. M. Lotman, “Il problema di una tipologia della cultura” (K probleme tipologii

kul’tury, Tartu 1967), in I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, Bompiani, Milano, 1969.

J. M. Lotman, “Tesi sull’‘Arte come sistema secondario di modelliz-zazione’” (Tezisy k probleme “Iskusstvo v rjadu modelirujuščich sistem”, Tartu 1967), in Semiotica e cultura, Ricciardi, Milano-Napoli, 1975 (un’altra ed. it. si trova in Tipologia della cultura, Bompiani, Milano, 1975).

483

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1978 J. M. Lotman, “El fenómeno de la cultura” (Fenomen kul’tury, Tartu 1978), in La

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J. M. Lotman, “La lengua hablada en la perspectiva historicocultural” (Ustnaia rech’ v istoriko-kul’turnoi perspektive, Tartu 1978), in La semiosfera.

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J. M. Lotman, “Los muñecos en el sistema de la cultura” (Kukly v sisteme kul’tury, Moskva 1978), in La semiosfera. Vol. III. Semiótica de las artes y de la cultura, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 2000.*

J. M. Lotman, “Sobre el lenguaje de los dibujos animados” (O jazyke mul’tiplikacionnych fil’mov, Tartu 1978), in La semiosfera. Vol. III. Semiótica de las artes y de la cultura, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 2000.*

1979 J. M. Lotman, “El lenguaje teatral y la pintura (Contributión al problema de la

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J. M. Lotman, “El texto en el texto” (Tekst v tekste, Tartu 1981), in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996.*

J. M. Lotman, Z. G. Minc, “Literatura y mitología” (Literatura i mifologija, Tartu 1981), in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996.*

J. M. Lotman, “La retórica” (Ritorika, Tartu 1981), in Escritos. Revista del Centro de Ciencias del Lenguaje, 9/1993 (un’altra versione è presente in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996).

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1983 J. M. Lotman, “Asimetría y diálogo” (Asimmetrija i dialog, Tartu 1983), in La

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J. M. Lotman, “Para la costrucción de una teoría de la interacción de las culturas (el aspecto semiótico)” (K postroeniju teorii vzaimodejstvija jul’tur (semiotičeskij aspekt), Tartu 1983), in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996.*

J. M. Lotman, N. N. Nikolaenko “La “sección áurea” y los problemas del diálogo intracerebral” (“Zolotoe sechenie” i problema vnutrimozgovogo dialoga, 1983), in La semiosfera. Vol. III. Semiótica de las artes y de la cultura, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 2000.

J. M. Lotman, “El último examen, la última clase… Algunas palabras sobre Román Osipovich Jakobson” (Mõni sõna Roman Jakobsonist, Tallinn 1983 e Tallinn 1995; Poslednii eksamen, poslednii urok… Noeskol’ko slov o Romane Osipoviche Iakobsone, Sankt-Peterburg 2003), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 11-12-13(2008/2009).

1984 J. M. Lotman, “Acerca de la semiosfera” (O semisfere, Tartu 1984), in La

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J. M. Lotman, “La naturaleza muerta en la perspectiva de la semiótica” (Natjurmort v perspektive semiotiki, Moskva 1984), in La semiosfera. Vol. III. Semiótica de las artes y de la cultura, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 2000.*

1985 J. M. Lotman, “La memoria a la luz de la culturología” (Pamiat’ v

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1986 J. M. Lotman, “La memoria de la cultura” (Pamiat’ kul’tury, Vilnius 1986), in La

semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998.

J. M. Lotman, “Sobre el concepto contemporáneo de texto” (K sovremennomu poniatiiu teksta, 1986), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 2(2003).

1987 J. M. Lotman, “El símbolo en el sistema de la cultura” (Simvol v sisteme

kul’tury, Tartu 1987), in Escritos. Revista del Centro de Ciencias del Lenguaje, 9/1993 (un’altra versione è presente in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996).*

J. M. Lotman, “Algunas ideas sobre la tipologías de las culturas” (Neskol’ko myslei o tipologuii kul’tur, Moskva 1987), in La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998.

J. M. Lotman, “La arquitectura en el contexto de la cultura” (Architektura v kontekste kul’tury, Sofia 1987), in La semiosfera. Vol. III. Semiótica de las artes y de la cultura, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 2000.*

J. M. Lotman, “Sobre las paradojas de la redundancia: el lenguaje artístico y la historia” (Bologna 1987), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 4(2004).

1988 J. M. Lotman, “El progreso técnico como problema culturologíco” (Tejnicheskii

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1989 J. M. Lotman, “La cultura como sujeto y objeto para sí misma” (Kul’tura kak

sub’ekt i sama-sebe ob’ekt, Tallinn 1989), in La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998.

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J. M. Lotman, “Sobre el papel de los factores casuales en la evolución literaria” (O roli sluchainyj faktorov v literaturnoi evoliutsii, Tartu 1989), in Discurso. Revista Internacional de semiótica i teoría literaria, 8/1993.

1992 J. M. Lotman, “El texto y el poliglotismo de la cultura” (Tekst i poliglotizm

kul’tury, Tallinn 1992), in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996.

J. M. Lotman, “Sobre el papel de los factores casuales en la historia de la cultura” (Vmesto zakliucheniia. O roli sluchainyj faktorov v istorii kul’tury, Tallinn 1992), in La semiosfera. Vol. I. Semiótica de la cultura y del texto, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1996 [versione compelta di “Sobre el papel de los factores casuales en la evolución literaria” (O roli sluchainyj faktorov v literaturnoi evoliutsii, Tartu 1989)].

J. M. Lotman, “La biografia literaria en el contexto histórico-cultural (Sobre la correlación tipológica entre el texto y la personalidad del autor)” (Literaturnaia biografiia v istoriko-kul’turnom kontekste (k tipologuicheskomu sootnosheniiu teksta i lichnosti avtora), Tallinn 1992), in La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998.

J. M. Lotman, “Clío en la encrucijada” (Klio na rasput’e, Tallinn 1992), in La semiosfera. Vol. II. Semiótica de la cultura, del texto, de la conducta y del espacio, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 1998.

J. M. Lotman, “Sobre la dinámica de la cultura” (O dinamike kul’tury, Tartu 1992), in Discurso. Revista Internacional de Semiótica y Teoría Literaria, 1993/3 (un’altra versione è presente in La semiosfera. Vol. III. Semiótica de las artes y de la cultura, edición D. Navarro, Madrid, Cátedra, 2000).

J. M. Lotman, “Los mecanismos de los procesos dinámicos en la cultura” (Caracas 1992), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 5(2005).

J. M. Lotman, “El fenómeno del arte” (Fenomen judozhestva), capitolo XVI de La cultura y la explosión (Kul’tura i vzryv, 1992), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 5(2005).*

J. M. Lotman, “La modernidad entre la Europa del este y del oeste” (La Coruña 1992), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 9(2007).

498

J. M. Lotman, “Sobreviviremos, si somos sabios” (My vyzhivem, esli budem mudrymi, Tartu 1992), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 10(2007).

1993 J. M. Lotman, “El retrato” (Portret, 1993), in La semiosfera. Vol. III. Semiótica de

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Revista Internacional de Semiótica y Teoría Literaria, 1993/3 (un’altra versione è presente in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 1/2003).

1994-1995 J. M. Lotman, No-memorias (Ne-memuary, Moskva 1994), in Entretextos.

Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, I parte 10(2007), II parte 11-12-13(2008/2009).*

J. M. Lotman, “Doble retrato” (Dvoinoi portret, Moskva 1995), in Entretextos. Revista Electrónica Semestral de Estudios Semióticos de la Cultura, 11-12-13(2008/2009).

J. M. Lotman inedito dal 1985 al 1993∗

1985 J. M. Lotman, “Il Viaggio all’isola d’amore di Trediakovskij e la funzione della

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J. M. Lotman, “Il problema Oriente e Occidente nell’opera del tardo Lermontov” (Problema Vostoka i Zapada v tvorčestve pozdnego Lermontova, 1985), in Izbrannye stat’i: v trech tomach. Tom. III (Stat’i

∗ Si veda anche S. Burini, “L’ultimo Lotman: scritti dal 1991 al 1993”, in T. Migliore (a cura di), Incidenti ed esplosioni. A. J. Greimas, J. M. Lotman. Per una semiotica della cultura, ARACNE Editrice, Roma, 2010.

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po istorii russkoj literatury. Teorija i semiotika drugich iskusstv. Mechanizmy kultury. Melkie zametki), Aleksandra, Tallinn, 1993, pp. 9-23.

J. M. Lotman, “Su un passo oscuro nella lettera di Grigorij Skovoroda” (Ob odnom temnom meste v pis’me Grigorija Skovorody, 1985), in Izbrannye stat’i: v trech tomach. Tom. III (Stat’i po istorii russkoj literatury. Teorija i semiotika drugich iskusstv. Mechanizmy kultury. Melkie zametki), Aleksandra, Tallinn, 1993, pp. 389-390.

J. M. Lotman, “Alcune riflessioni a proposito del problema ‘Standal e Stern’” (Neskol’ko slov k probleme «Stendal’ i Stern», 1985), in Izbrannye stat’i: v trech tomach. Tom. III (Stat’i po istorii russkoj literatury. Teorija i semiotika drugich iskusstv. Mechanizmy kultury. Melkie zametki), Aleksandra, Tallinn, 1993, pp. 428-429.

J. M. Lotman, “La memoria alla luce della culturologia” (Pamiat’ v kul’turologuicheskom osveshchenii, 1985), in Semiosfera, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2000, pp. 673-675; poi in Čemu učatsja ljudi. Stat’i i zametki, TSentr knigi VGBIL im. M. I. Rudomino, Moskva, 2010, pp. 249-255.ES

1986 J. M. Lotman, “L’idea della poesia sugli ultimi giorni di Pompei” (Zamysel

stihotvorenija o poslednem dne Pompei, 1986), in Izbrannye stat’i: v trech tomach. Tom. II (Stat’i po istorii russkoj literatury XVIII- pervoj poloviny XIX veka), Aleksandra, Tallinn, 1992, pp. 445-451.

J. M. Lotman, “Arcaisti-Illuministi” (Archaisty-prosvetiteli, 1986), in Izbrannye stat’i: v trech tomach. Tom. III (Stat’i po istorii russkoj literatury. Teorija i semiotika drugich iskusstv. Mechanizmy kultury. Melkie zametki), Aleksandra, Tallinn, 1993, pp. 356-367.

J. M. Lotman, “Sul X capitolo dell’Evgenij Onegin” (Vokrug desjatoj glavy «Evgenija Onegina», 1986), in Izbrannye stat’i: v trech tomach. Tom. III (Stat’i po istorii russkoj literatury. Teorija i semiotika drugich iskusstv. Mechanizmy kultury. Melkie zametki), Aleksandra, Tallinn, 1993, pp. 213-245.

J. M. Lotman, “La memoria della cultura” (Pamiat’ kul’tury, 1986), in Semiosfera, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2000, pp. 614-621; poi in Čemu učatsja ljudi. Stat’i i zametki, TSentr knigi VGBIL im. M. I. Rudomino, Moskva, 2010, pp. 256-269.ES

J. M. Lotman, “Lomonosov e alcune domande sull’identità della cultura russa del XVIII secolo” (Lomonosov i nekotorye vorposy svoeobrazija russkoj

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kul’tury XVIII veka, 1986), in Istorija i tipologija russkoj kul’tury, Iskusstvo-SPB, Sankt-Peterburg, 2002, pp. 368-370.

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1987 J. M. Lotman, “Les Jardins di Delille nella traduzione di Voeikov e il loro posto

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J. M. Lotman, “Lo spazio dell’intreccio nel romanzo russo del XIX secolo” (Siužetnoe prostranstvo russkogo romana XIX stoletija, 1987), in Izbrannye stat’i: v trech tomach. Tom. III (Stat’i po istorii russkoj literatury. Teorija i semiotika drugich iskusstv. Mechanizmy kultury. Melkie zametki), Aleksandra, Tallinn, 1993, pp. 91-106.

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1988 J. M. Lotman, “Il progresso tecnico come problema culturologico”

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1992 J. M. Lotman, “Sulla dinamica della cultura” (O dinamike kul’tury, 1992), in

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3 Il titolo fa riferimento alle tre cose che, secondo Lotman, le persone dovrebbero apprendere nella vita: conoscenza, memoria e coscienza.

4 Vserossijskij Gosudarstvennyj Institut Kinematografii. 5 Sulla rivista tartuense Sign System Studies è possibile trovare numerosi saggi e

articoli dedicati a precipui aspetti della teoria lotmaniana. Ai fini di questa elencazione bibliografica ho scelto solo quelli a trattazione più generale.

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