Identità ed Alterità nell’Unione Europea · 1 La stessa Unità d’Italia, questione...

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di FLAVIA CAVALIERE Centro Europe Direct LUPT Università degli Studi di Napoli Federico II Codirettore del coordinamento di settore “Politiche linguistiche, glottodidattica e Multilinguismo” Ricercatore di lingua e traduzione - lingua inglese Dipartimento di Studi Umanistici Università degli Studi di Napoli Federico II Identità ed Alterità nell’Unione Europea

Transcript of Identità ed Alterità nell’Unione Europea · 1 La stessa Unità d’Italia, questione...

di FLAVIA CAVALIERE Centro Europe Direct LUPT Università degli Studi di Napoli Federico II Codirettore del coordinamento di settore “Politiche linguistiche, glottodidattica e Multilinguismo” Ricercatore di lingua e traduzione - lingua inglese Dipartimento di Studi Umanistici Università degli Studi di Napoli Federico II

Identità ed Alterità nell’Unione Europea

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Articolo già pubblicato nel numero1 di luglio 2015/anno 1 di RISE, riproposto in questa sede per la sua significativa attualità dei contenuti

Abstract

Identity and Alterity in European Union Most European states have been countries of immigration for a long time and are today de facto multiethnic and multicultural. Nonetheless, the management of ethno-cultural diversity is still a key issues in the process of European integration. In this process the notion of identity plays a pivotal role. Identity is continuously reshaped throughout one’s existence: we all have multi-layered identities, which cannot and should not be compartmentalized, let alone labeled, since they are not innate, unchangeable entities, which can be genetically transmitted. Collective identities are in fact neither a once-and-for-all or a clear-cut affair, but rather a socio-cultural perception. Additionally, evolution in communications and technology, as well as migration flows and the more general phenomenon of globalization are creating socio-political transformations and are profoundly transforming knowledge, perception and behaviour. In particular, reactions to globalization, which tends to exacerbate the identity-centred behaviour (Maalouf 1998, p.125). The fear of standardization is in fact driving everyone to all the more assert their difference, and has led to the onset of many particularisms which, however by reducing the identity of a person to a single belonging, reneges on the complexity of everyone’s identity. The need of collective membership, whether it is cultural, religious or national, tough in itself legitimate, has led too often to the fear of the Other and to his absolute negation. Communities tend to coalesce around a (frequently hostile) confrontation between “us” and “them”, and the desire for identity has often led to “murderous slippage”. Throughout the history of mankind many genocides have been committed on the basis of personal, religious, ethnic or national identity, and identity-based crimes are still under way in many parts of the world. In this scenario also different languages may purposely become over ostentatious signs of difference. Conversely, if the European Union ever wants to be a true multiethnic society, we all must learn to transcend our differences and our individual particularist belonging, in the recognition not only of the Other, but of being strangers to ourselves too (Kristeva 1988/2014).

© European Union, 2013 / Source: AFP-Services ,EC - Audiovisual Service / Photo: Cunningham Harold

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L’ odierna società europea si definisce ormai multiculturale, sulla base di dati attestanti la sempre più vasta compresenza nei paese dell’Unione di cittadini di diverse etnie e profili culturali, provenienti da ogni continente. Tuttavia, sarebbe sufficiente ripercorrere a ritroso la lunga storia di molte nazioni europee, per comprendere che la coabitazione di popoli diversi e la multiculturalità sono fenomeni tutt’altro che nuovi nelle realtà di molte nazioni. L’Italia, in particolare,1 è stata, fin dall’antichità, teatro di diversi fenomeni migratori: attraversata e/o abitata nei secoli da etruschi, greci, romani, galli, germani, bizantini, normanni, francesi, spagnoli, arabi, tedeschi, austriaci, cui si sono poi aggiunti albanesi e Rom e, più recentemente, immigrati da vari paesi, limitrofi e non. 2Tuttavia, se fino al secolo scorso, soprattutto in Europa, il concetto di identità coincideva sostanzialmente con l’ identità nazionale tout court, un’associazione generalmente indicata attraverso la semplice equazione una lingua = una nazione3, particolarmente nell’odierno melting-pot, marcato dal fenomeno della globalizzazione, il monolitico concetto identitario si frantuma in una pluralità di significati ineffabile e variabili. In un passato non troppo lontano, qualsiasi

1 La stessa Unità d’Italia, questione ap-parentemente ancora non del tutto risolta come emerge dallo scenario socio-politico odierno, fu, come noto, faticosamente perseguita e conse-guita attraverso la confluenza di diverse visioni, strategie e tattiche, la combinazione di trame diplomatiche, iniziative politiche e anche azioni militari. è il risultato di un meticciamento cioè di una mescolanza storica. La stessa costruzione faticosa e travagliata, tuttora non risolta del tut-to, dell’unità d’Italia ne è l’espressione più em-blematica. 2 A tale fenomeni di mescolanza ‘storica’, va anche aggiunto il meticciamento creato dal-le migrazioni interne delle popolazioni dal Mez-zogiorno al Nord e dalle ondate migratorie che hanno portato, all’inizio del secolo scorso, di milioni d’italiani all’estero in cerca di condizioni di vita migliori.3 L’associazione di una determinata va-rietà di linguaggio e l’appartenenza ad una spe-cifica comunità viene definita “linguistic nationi-sm” (Kramsh 1998, p.72).

status, da quello civile a quello socio-economico, culturale etc., era destinato a restare invariato per tutto l’arco vitale di un individuo. Nel nostro tempo invece, almeno in alcune parti del mondo – Europa inclusa – non esiste più alcun tipo di confine, reale e/o metaforico, ed è possibile valicare e confondere qualsiasi tipo di categoria. Basti citare, per fare qualche esempio, l’odierna mobilità sociale contraddistinta ad esempio dai matrimoni, ormai una consuetudine, tra semplici borghesi e rampolli/e di famiglie reali,4 fino alla possibilità di cambiare anche il proprio sesso, senza voler menzionare l’estrema facilità con cui oggi è consentito viaggiare, comunicare o anche divorziare, possibilità del tutto impensabili, fino a poco tempo addietro. Attraverso le nuove tecnologie, grazie anche alla virtual mobility,5 oggi possiamo essere tutti

4 Cfr. A. Bagnasco et al. 2007. Corso di Sociologia. Bologna: Il Mulino.

5 La virtual mobility - o anche ‘virtual ac-cessibility’- concerne gli usi delle nuove frontiere tecnologiche in ambito degli scambi comunica-tivi (Information and Communications Technolo-gies o ICT) come alternativa sempre più alla mo-bilità fisica. In altri termini, con virtual mobility si indicano tutte le attività di inter-scambio e/o comunicative rese oggigiorno possibili grazie al supporto della tecnologia che ha trasforma-to l’intero pianeta nel famigerato villaggio glo-bale, dove la telepresenza consente a chiunque di raggiungere qualsiasi luogo e/o persona. La presenza fisica in un determinato spazio ter-ritoriale non impedisce di prendere parte a re-lazioni transnazionali senza alcuna necessità di viaggiare grazie a piattaforme comunicative sincrone come videoconferenze, chats (si pensi ad esempio a Skype, MSN, etc…) o asincrone come email e social networks (tweeter , Face-book , Google, etc. . ); e, grazie al video di un computer, non è altrettanto necessario recarsi al cinema o al teatro per vedere un film o assistere ad un concerto. Anderson, ben consapevole del-la portata socio-culturale di questo fenomeno, rilevava, già ventenn’anni orsono, come «The Moroccan construction worker in Amsterdam can every night listen to Rabat’s broadcasting services and has no difficulty in buying pirated cassettes of his country’s favourite singers. The illegal alien, Yakuza sponsored, Thai bartend-er in a Tokyo suburb shows his Thai comrades

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ovunque contemporaneamente, o acquisire molteplici, infinite identità.

L’identità non può più essere concepita come univoca, oggettiva, immutabile, ma piuttosto percepita come complesso risultato di culture condivise, di consenso corrisposto, di realtà e memorie comuni, appartenenti non solo ad un popolo, ma ad un singolo individuo. Inoltre, anche rispetto al singolo individuo, la singola identità è data dalla summa di molteplici identità, ossia una identità razziale, etnica, religiosa, culturale, sessuale, sociale etc., e che, tra l’altro, sono anche diacronicamente variabili.6 L’identità,

karaoke videotapes just made in Bangkok. The Filipina maid in Hong Kong phones her sister in Manila and sends money electronically to her mother in Cebu. The successful Indian student in Vancouver can keep in daily touch with her former Delhi classmates by electronic mail. To say nothing of an ever-growing blizzard of faxes» (Anderson 1994, p. 323).

6 Per riportare una serie di esempi pro-posti dall’economista e antropologo indiano

infatti, è sempre collocata nel tempo e nello spazio, quindi mai statica, ma dinamica ed evolve nel tempo, inevitabilmente attraverso le esperienze di vita e le fasi del ciclo dell’esistenza (Fabietti 2000). Nondimeno, pur consapevole di questo pluralismo identitario, l’ essere umano, particolarmente oggi, continua rigidamente a classificare se stesso, ma soprattutto l’altro, a costruire dei confini che sono meramente mentali e frutto di costruzioni socio-culturali e Amartya Sen nel prologo del suo libro Identity and Violence. The Illusion of Destiny (2006, p.8), «La stessa persona può essere, senza la mini-ma contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, ma-ratoneta, storica, insegnante, romanziera, fem-minista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz e profondamente convinta che esistano es-seri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicare al più presto (preferibil-mente in inglese). Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultanea-mente, le conferisce una determinata identità».

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pregiudizi interiorizzate. Il mito dell’identità, l’identitarismo, si è codificato, ma non a caso, proprio nell’odierno scenario di globalizzazione, in cui i rapporti tra i paesi e le culture – divenuti contemporaneamente sempre più frequenti, ma anche sempre più conflittuali – hanno creato crisi relazionali e di riconoscimento. La forzosa compressione della complessità e delle molteplici sfaccettature delle storie personali di ogni individuo in un’unica dimensione è spesso una strategia di tutela dei propri privilegi, o un meccanismo di difesa con cui l’individuo stesso reagisce ad un comportamento e/o ambiente sociale poco accogliente ed inclusivo, come accade troppo spesso con le minoranze culturali e gli immigrati. In tal senso, l’identità diviene in realtà una etichetta, uno strumento di selezione e/o di distinzione per se stessi e per gli altri, rassicurante e gratificante perché consente di auto differenziarsi. Tuttavia, ogni «iperinvestimento unidimensionale dell’identità» disattiva «il repertorio potenziale totale» della persona e, innescando un circolo vizioso, più si accentua l’«iperinvestimento identitario», più la persona tende a cancellare la propria variegata fisionomia individuale, e ad essere depauperata di qualsiasi «ossatura» organizzatrice e stabilizzatrice (Devereux 1970, p. 199)7. Purtroppo, nello scenario contemporaneo, sempre più numerosi sono gli esempi di persone che cancellano ogni segmento identitario potenzialmente significante a livello individuale, per annientarsi in specifici gruppi (che suddividono le popolazioni in base alle religioni o etnie) seguendo un «un approccio solitarista» all’identità umana 7 Il saggio scritto nel 1970 dall’antropo-logo e psicoanalista ungherese naturalizzato francese, Georges Devereux, ‘L’identità etnica: le sue logiche e le sue disfunzionalità’, appare particolarmente attuale nell’odierna società mul-tietnica. Nel saggio Devereux, fondatore dell’et-nopsicologia e della psicologia transulturale, ri-flette criticamente sui concetti di identità etnica e culturale: valorizzando il decentramento e la complementarietà di prospettive come princi-pi fondamentali per una società multietnica, si pretende ridurre a essa le polimorfe componenti che definiscono le caratteristiche di un individuo o di un gruppo.

(Sen 2006, prologo, p. VIII) che oltre a miniaturizzare il singolo individuo, giunge addirittura anche a mettere in discussione la comune appartenenza al genere umano. Come spiega Remotti (2011, p.18) «Quando si fa un discorso identitario, immediatamente il noi entra in una logica di contrapposizione (“noi” contro gli “altri”), logica che tende facilmente a trasformarsi in una logica di negazione. Riflettiamo: i “noi”, affermando se stessi (esattamente come A = A), affermano la propria irriducibile diversità rispetto agli “altri”; a loro volta, gli “altri” non sono altro che “altri”, sono semplicemente “altri”, esistono solo come “altri”. Non solo, ma questi altri diventano immediatamente delle minacce. Il solo fatto di essere altri è un qualcosa di minaccioso;l’alterità diventa una minaccia. Perché mai? Perché quando si parla di identità, tutta la positività si addensa nel “noi” identitario e l’alterità si configura inevitabilmente come una mera negazione: gli altri non hanno altro statuto che quello di negatori del nostro essere, della nostra sostanza».In tale ottica, l’ ossessiva affermazione dell’identità, quindi sempre disfunzionale, può infatti diventare anche «omicidia», come spiega magistralmente lo scrittore libanese di lingua francese, Amin Malouf. Nel suo libro, Les identités meurtrières, Malouf, muovendo dalla descrizione delle vicende del Libano multiculturale, mostra come la rivendicazione identitaria possa celermente mutarsi in una struttura sociale in cui le differenze, piuttosto che un valore, diventano disuguaglianze negatrici delle identità altrui. Nella stessa prospettiva di analisi si pone anche Amartya Sen, ricordando come «Con un’ adeguata dose di istigazione, un sentimento di identità con un gruppo di persone può essere trasformato in un’arma potentissima per esercitare violenza su un altro gruppo» (2006, p.12 ).8Nell’arco della

8 Sen nel già citato libro del 2006 descrive l’esperienza spesso tragica del mosaico cultu-rale rappresentato dal continente indiano, per giungere a dimostrare come, laddove persone e gruppi tendono a definire se stessi e /o l’altro con un unico tratto per tracciare dei confini net-ti che tuttavia non esistono, ciò inevitabilmente conduce alla ‘purificazione,’ ossia allo sterminio

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sua storia, l’uomo in ogni parte del mondo ha commesso, e continua a compiere, atroci efferatezze in difesa delle diverse identità: in nome dell’identità razziale si sono perpetrati i crimini del colonialismo e lo sterminio degli ebrei; le guerre di religione di ieri e di oggi, nelle loro diverse manifestazioni, sono mosse a causa di diverse identità religiose, ed ugualmente indicibili violenze si sono compiute, e si continuano a compiere in varie parti del mondo nella contrapposizione tra differenti identità culturali e o etniche, come nei massacri, non solo tra Hutu e Tutsi in Rwanda e Burundi – ma ormai in tutto il Medio Oriente – tra sciiti e sunniti, oppure in Kosovo, e ancora tra ebrei e palestinesi in Israele e in Palestina. Anche paesi dell’Unione Europea, sono stati teatro di questa assurda contrapposizione ‘identitaria’, in nome della quale sono state barbaramente mietute vittime con atti terroristici, spesso stigmatizzati dalle varie nazioni con un richiamo ai comuni valori di una ‘identità europea’. Una ‘identità europea’ che tuttavia deve essere intesa

etnico-culturale dell’altro diverso da sé (come avvenuto in Sud Africa nel regime dell’apartheid in Sud Africa, o negli eccidi degli indiani d’Ame-rica, e in molte storie drammatiche recenti e del passato).

principalmente non come etichetta che ancora una volta contrappone un gruppo ad un altro, ma come principio guida unificante in cui possano riconoscersi tutti gli individui che aderiscono e si identificano nei principi di democrazia, solidarietà e tolleranza che governano e guidano l’Unione. Parafrando Nussbaum (1999, p. 87) il cittadino europeo deve sviluppare la capacità di comprendere le culture lontane e le minoranze etniche, razziali e religiose all’interno della propria. Se le categorie logiche e culturali del pensiero europeo sono fortemente radicate nella tradizione storica e intellettuale occidentale, e greco-romana-rinascimentale, non certo facili da misconoscere, affinché il confronto multiculturale sia un incontro costruttivo – e non un giudizio polemico unilateralmente superiore – è doveroso e necessario adottare un “etnocentrismo critico” (De Martino,1977, pp. 396, 397)9. Solo riconoscendo una

9 De Martino (1977), opponendosi ad ogni forma di etnocentrismo dogmatico, con i suoi deprecabili corollari del razzismo e del pregiudi-zio sociale, invocava un “etnocentrismo critico”, inteso come tentativo di allargamento della pro-pria coscienza culturale di fronte ad ogni cultura “altra”, pur nella consapevolezza dell’inevitabile influenza delle proprie categorie interpretative e dei propri modelli interpretativi e concettuali. L’etnologo italiano coniò l’espressione, “etno-

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pluralità di punti di vista, è possibile sperare di comprendere la complessità, dell’agire umano, e/o accettare quanto riteniamo abbia un’identità diversa dalla nostra. Etimologicamente, il lemma ‘identità’ proviene dal tardo latino identĭtas -atis, a sua volta mutuato dal pronome definito latino idem ‘medesimo’; esso indica pertanto ciò che è ‘identico’ e consente il riconoscimento, l‘identificazione’. Ma, come già evidenziato, il concetto monolitico di identità rinvia ad una rappresentazione del Sé che non ha alcun riscontro nella realtà. Infatti, come specifica la Kristeva ([1990] 2014, p. 128) «Esiste una identità: la mia, la nostra; ma essa può essere costruita all’infinito. Alla domanda “Chi sono io?” la miglior risposta europea non è, con tutta evidenza, la certezza, ma l’amore per il punto interrogativo».

centrismo critico” per configurare quindi un pro-cesso di presa di coscienza critica dei limiti della propria storia culturale, sociale, politica anche attraverso una continua ridiscussione delle pro-prie categorie analitiche.

Tuttavia, nei paesi con presenze di minoranze linguistiche, ad esempio, è la lingua ad essere spesso indicata come elemento identitario. Come suggerisce Remotti, per richiede il riconoscimento della propria lingua sarebbe più giusto rivendicarla come elemento di differenziazione, piuttosto che invocare questioni identitarie, che divengono, come visto, troppo spesso meri «mezzi finzionali mediante cui i soggetti sociali rivendicano diritti o cercano di ottenere determinati tipi di riconoscimento» (2011, p.24). Spiega ancora Remotti (2011, p.24) «La differenza è una cosa, l’identità è un’altra: la differenza è sempre un rapportarsi e un paragonarsi ad altri (noi A siamo diversi da B), mentre l’identità è l’affermazione di una nostra essenza, o sostanza, e basta (A = A). La differenza è percepibile persino con i sensi; l’identità è invece una finzione. Questa distinzione, per quanto sottile, è fondamentale». Se infatti il riconoscimento delle proprie differenze è negoziabile, il

© European Parliament / Pietro Naj-Oleari

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concetto dell’identità diviene, come già mostrato, necessariamente conflittuale. Una comunità può legittimamente richiedere il riconoscimento della propria lingua, ma, contemporaneamente condividere con le comunità confinanti altre lingue, ed altri tratti che le accomunano. Ma, laddove la lingua diviene mero strumento identitario, essa risulterà inevitabilmente elemento di frizione e contrapposizione. In una tale ottica vengono ineluttabilmente negati quei principi di coesistenza e convivenza nell’armonioso rispetto delle differenze, come invece invocato dal motto dell’Unione Europea che, come noto, recita “united in diversity”. Il presupposto di un’armoniosa convivenza risiede nella negazione dell’intransigente individualismo dell’uomo moderno e, come auspica la Kristeva, (1990/2014, pp. 174-178), nella possibilità che, piuttosto che combattere l’estraneità dell’altro, tentando di fagocitarlo in una realtà che lo annulli, ognuno riconosca le proprie incoerenze ed “estraneità”: «È già così difficile – ma anche vantaggioso – coesistere in quel nuovo paese multinazionale (e non sovra-nazionale) che è l’Europa, un paese che pure si compone di nazioni dalle culture affini, dalle religioni simili, dalle economie interdipendenti da secoli! Possiamo quindi misurare quali problemi ponga, in seno a un medesimo insieme politico (a sua volta già in via di integrazione in altri insiemi), la coabitazione di popolazioni le cui considerevoli differenze, etniche, religiose, economiche, si scontrano con la tradizione e le mentalità in vigore tra coloro che li accolgono.[…] In assenza di un nuovo legame comunitario – religione salvatrice che integrerebbe la massa degli erranti e dei diversi in un nuovo consenso, diverso da quello del “più danaro e beni per tutti” – siamo condotti, per la prima volta nella storia, a vivere con i diversi scommettendo sui nostri codici morali personali, senza che alcun insieme capace di inglobare le nostre particolarità possa trascenderle. È sul punto di sorgere una comunità paradossale, fatta di stranieri che si accettano nella misura in cui si riconoscono stranieri essi stessi. La

società multinazionale sarebbe così il risultato di un individualismo estremo ma consapevole dei suoi disagi e dei suoi limiti, un individualismo che conosce soltanto irriducibili pronti ad aiutarsi nella loro debolezza, quella debolezza che ha come altro nome la nostra estraneità radicale».

BibliografiaAnderson, Bernhard.1994 “Exodus”. Critical Enquiry. XX Winter:323-324.Bagnasco, Arnaldo et al. 2007. Corso di Sociologia. Bologna: Il Mulino.Devereux, Georges. [1970]. L’identité ethnique. Ses bases logiques et ses dysfunctions. In 1985. Ethnopsychanalyse complémentariste. Paris: Flammarion, pp. 165-211.trad. it. L’identità etnica: le sue logiche e le sue disfunzionalità. In Saggi di etnopsicologia complementaristica. Milano: Bompiani.De Martino, Ernesto.[1977]2000. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Torino: Einaudi.Fabietti, Ugo. 2000, “Il traffico delle culture”. Dal tribale al globale. Fabietti, Ugo, Roberto Malighetti, Vincenzo Matera (eds). Milano: Mondadori. pp. 165-232. Kramsh. Claire. 1998. Language and Culture. Oxford: Oxford University Press. Kristeva, Julia. 1988. Étrangers à nous-mêmes. Paris: Fayard. (Traduzione di A. Serra) Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità. [1990] 2014 Roma: Donzelli Editore. Maalouf, Amin. 1998. Les identités meurtrières, Paris: Grasset & Fasquelle,.Nussbaum, Martha. 1999. Coltivare l’umanità. Roma: Carocci.Remotti, Francesco. “L’ossessione identitaria”. 2011. Rivista Italiana di Gruppoanalisi, XXV, (1): pp. 9-29. http://www.parcobarro.it/meab/ossessione.pdfSen, Amartya. 2006. Identity and Violence. The Illusion of Destiny. New York-London: W.W. Norton & Company. Trad. italiana di Fabio Galimberti, Identità e violenza. Roma/Bari: Laterza.