IDENTITÀ, ALTERITÀ, CULTURE -...

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IDENTITÀ, ALTERITÀ, CULTURE D. NAPOLITANI I. PREMESSE L’unico segno generale della pazzia è la perdita del senso comune (sensus communis) e il subentrare invece del senso logico personale (sensus privatus). E. Kant, Antropologia pragmatica, p. 107 Essa è la più violenta fra le passioni dell’uomo di natura, in uno stato in cui egli non può evitare di trovarsi con gli altri in un rapporto di reciproche [pretese. Chi può essere felice soltanto in base all’arbitrio di un altro (sia poi questo tanto benevolo quanto si vuole), si sente a ragione infelice. p. 159 Metto in esergo queste citazioni di Kant come se ponessi all’ombra di questo gigante del pensiero moderno il mio autorizzarmi a rilanciare con forza la proposta di Binswanger di una connessione strutturale tra psicologia ed antropologia: non più due discipline confinanti e varia- mente intersecantesi ma due campi di osservazione di un medesimo “oggetto”, l’uomo-in-azione che produce il suo ambiente specifico (la cultura) da cui ricorsivamente viene prodotto. Nel definire “pragma- tica” la sua “antropologia” Kant intende sottrarla ai vincoli metafisici (i principi universali, gli “a-priori”) su cui si fondano le sue tre Critiche, anticipando in tal modo il pensiero fenomenologico, nei suoi sviluppi non metafisici, che pone pragmaticamente il fenomeno non come og- Comprendre 19, 2009 195

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IDENTITÀ, ALTERITÀ, CULTURE D. NAPOLITANI

I. PREMESSE

L’unico segno generale della pazzia è la perdita del senso comune (sensus communis)

e il subentrare invece del senso logico personale (sensus privatus).

E. Kant, Antropologia pragmatica, p. 107

Essa è la più violenta fra le passioni dell’uomo di natura,

in uno stato in cui egli non può evitare di trovarsi con gli altri in un rapporto di reciproche

[pretese.

Chi può essere felice soltanto in base all’arbitrio di un altro

(sia poi questo tanto benevolo quanto si vuole), si sente a ragione infelice.

p. 159

Metto in esergo queste citazioni di Kant come se ponessi all’ombra di questo gigante del pensiero moderno il mio autorizzarmi a rilanciare con forza la proposta di Binswanger di una connessione strutturale tra psicologia ed antropologia: non più due discipline confinanti e varia-mente intersecantesi ma due campi di osservazione di un medesimo “oggetto”, l’uomo-in-azione che produce il suo ambiente specifico (la cultura) da cui ricorsivamente viene prodotto. Nel definire “pragma-tica” la sua “antropologia” Kant intende sottrarla ai vincoli metafisici (i principi universali, gli “a-priori”) su cui si fondano le sue tre Critiche, anticipando in tal modo il pensiero fenomenologico, nei suoi sviluppi non metafisici, che pone pragmaticamente il fenomeno non come og-

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getto in sé ma come dato dell’esperienza che l’uomo ne fa a partire dal suo modo di interpretarlo.

C’è inoltre uno specifico motivo in questo mio richiamo a Kant, poi-ché in entrambe le citazioni egli allude ad un tema che fa da perno alle mie più o meno sistematiche speculazioni “antropoanalitiche” sulla li-nea del pensiero fenomenologico con un particolare riferimento all’opera di Ludwig Binswanger. Voglio mettere in evidenza alcune suggestive connessioni tra le anticipazioni fenomenologiche di Kant e alcuni punti chiave dell’opera di Binswanger (pp. 22-23), lì dove egli mette in crisi i paradigmi della “scienza” psichiatrica e psicologica di-mostrando l’assoluta improprietà di concetti desunti dalle scienze fisi-che e adattate al dominio antropologico nei termini di normalità (o di sanità) e di devianza (o di malattia)1:

Con la dottrina heideggeriana dell’essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein) come trascendenza è stato eliminato il cancro che minava alla ba-se tutte le precedenti psicologie e si è finalmente aperta la strada all’antropologia. Il cancro è rappresentato dalla dottrina della scis-sione del “mondo” in soggetto e oggetto. In forza di questa dottrina l’esistenza umana è stata ridotta a mero soggetto privo del suo mondo. E un “soggetto” nel quale hanno luogo tutti i possibili processi, eventi, funzioni, che ha tutte le possibili caratteristiche e compie tutti i possi-bili atti, senza che nessuno sia in grado di dire, salvo supporlo attra-verso mere “costruzioni” teoriche, come possa incontrarsi con un “og-getto” e cominciare a intendersi con altri soggetti. Essere-nel-mondo significa sempre, per dirla in breve, essere nel mondo con i miei simili, essere con le altre esistenze (Mitdaseiende). Heidegger, postulando l'essere-nel-mondo come trascendenza, non soltanto ha superato la scissione tra soggetto e oggetto della conoscenza, non soltanto ha col-mato lo hiatus tra Io e mondo, ma ha anche illuminato la struttura del soggetto come trascendenza, ha aperto un nuovo orizzonte di compren-sione e ha dato impulso nuovo all'indagine scientifica sull’essere del-l’uomo in genere e sui particolari suoi modi di essere. È dunque chiaro

1 Nella prefazione a quest’opera di Binswanger, D. Cargnello e F. Giacanelli scri-vono tra l’altro: «È evidente che le formulazioni della psicopatologia classica de-vono essere riviste ab imis ove si accetti appunto che i disturbi mentali prima di essere il frutto di una turba di questa o quella funzione o anche del loro interagire e coordinarsi, sono espressione di un particolare rapporto coesistentivo o un parti-colare modo di essere. “Psicopatologia”, si è detto ancora: ma forse è giunto il momento di cominciare a parlare di alienistica se si vuole finalmente superare l’ipostasi della “psiche” e accettare, come oggetto della nostra indagine, non un principio entificato ma la condizione, reale e propriamente umana, dell’essere-alienato».

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– e ciò mi preme particolarmente sottolineare – che in luogo della scis-sione dell’essere in soggetto (uomo, persona) e oggetto (cosa, am-biente) subentra qui, garantita dalla trascendenza, l’unità tra persona e mondo.

Mi sembra qui evidente la stretta consonanza tra la visione proposta da Kant nella sua Antropologia pragmatica e l’enunciato di Binswanger circa il fatto che la psicologia «si è finalmente aperta la strada all’antropologia». L’antropologia non pone a confronto le più diverse culture con un modello teorico di una cultura “normale”, poiché os-serva e cerca di dare un senso alla specificità di ciascuna cultura nel proprio contesto storico ed ambientale. Così la stessa civiltà occidenta-le, in cui la riflessione antropologica si istituisce come una disciplina autonoma, diventa materia di analisi, e la sua pretesa di essere al vertice di una gerarchia di valori tale da essere legittimata a sviluppare politi-che di dominio su civiltà giudicate “inferiori” viene assunta come un carattere antropologico che necessita di essere compreso con lo steso metodo con cui vengono comprese civiltà diverse. Questa comprensio-ne – che accade del resto in una diffusa crisi dei paradigmi scientifici “oggettivi” ed universalistici – diventa, nel suo diffondersi, un atto che contribuisce significativamente ad aprire e a rafforzare circoli dialogici e cooperativi tra intere collettività esposte a reciproche intolleranze fino al punto di reciproci sterminii.

La materia specifica delle scienze psicologico-psichiatriche è la mente, che linguisticamente propone un’irrisolvibile aporia: essa è una materia sine materia, è la “cosa” di cui si occupano la scienza, la reli-gione, la filosofia, ciascuna descrivendola secondo il proprio specifico contesto culturale e storico, assumendo, poi, la propria descrizione co-me presentazione di una cosa realmente vera che rende false le pre-sunzioni di verità affermate da altre discipline. Se allora scaviamo nelle radici linguistiche di questa misteriosa parola troviamo che l’unico mo-do in cui essa si declina come atto è “mentire” (Napolitani, 1997): la mente (soggetto grammaticale) mente (predicato verbale), in accordo con l’etimologia (Devoto) che ci dice: «Dal latino tardo mentire, deri-vato di mens mentis “mente”, dapprima col significato d’“immaginare”, poi “fingere”, quindi “mentire”». Inoltre, come suffisso (-mente) essa è l’ablativo di mens, mentis e descrive il modo con cui un atto o un com-portamento appare all’osservatore: così se dico «egli si comportò “sa-namente” o “giocosamente”» pretendo che tutti credano al mio modo di intendere quel comportamento come se esso fosse oggettivamente in-tenzionato in modo sano o in modo giocoso. Infine, declinato come al-tro suffisso (-mento), si formano sostantivi maschili deverbali che indi-

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cano un’azione o il suo effetto (arredamento, cambiamento, movi-mento, versamento e simili). Possiamo dire che solo in quest’ultima sua declinazione la radice mente acquista una concretezza empirica a cui poi vengono date interpretazioni che variano a seconda delle sintassi di cui si servono.

L’antropologia è quella disciplina che ha come oggetto le azioni dell’uomo (la cultura nelle sue forme rituali, istituzionali, e nelle cre-denze su cui queste si formano) e nel momento in cui la psicologia si dispone a considerare l’uomo nella sua intenzionalità, che trascende la sua concreta fisicità per connetterlo intimamente col mondo, finisce con l’abbandonare paradigmi e sintassi di altri saperi disciplinari per af-frontare antropologicamente l’esistenza dell’uomo, il che significa la sua cultura. Ricordo qui Mario Trevi (pp. 16 e 17):

L’unica vera critica di Jung a Freud – l’unica critica che si approfon-disce nel tempo e che si dimostra fruttuosa per una prospettiva storici-stica della psicoanalisi – è quella basata sull’inconsapevolezza di Freud circa l’antropologia filosofica che la sua dottrina inevitabil-mente presuppone […] in realtà sarebbe difficile circoscrivere questa antropologia [quella freudiana] cui sembrano concorrere tanto il mate-rialismo metafisico e il pessimismo hobbesiano quanto la tradizione empirista e lo scientismo positivistico. Quel che qui si vuole riproporre è il valore dell’assunto junghiano circa l’imprescindibilità di un pre-supposto antropologico a ogni possibile teoria psicologica.

Se il modo specifico di essere dell’uomo è il suo trascendersi nel mon-do (il Mit-dasein heideggeriano) dobbiamo sottrarre il concetto di tra-scendenza dall’ambito metafisico (il trascendersi in un altro mondo, un trasumanare come un andare oltre la natura umana, di cui Dante dice «Trasumanar significar per verba Non si poria») per trovare un metodo che ci consenta di comprendere questo prodigioso fenomeno come ca-rattere specifico della natura umana a contatto con il suo ambiente fisi-co e mentale. Un grande fisico, Arthur Eddington ci dice a tal proposito (p. 174):

Abbiamo visto che là dove la scienza ha compiuto le massime conqui-ste, lo spirito ha ricevuto dalla natura ciò che egli stesso le aveva pre-stato: dai lidi dell’ignoto abbiamo scoperto un’orma misteriosa. Ab-biamo escogitato l’una dopo l’altra profonde teorie per riuscire a scru-tarne l’origine. Alfine siamo riusciti a ricostruire l’essere da cui quell’orma deriva. Ed ecco: quell’orma siamo noi stessi.

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Eppure fino ad oggi, prevalentemente, psicologie e psichiatrie erigono le loro costruzioni teoriche e le loro tecniche “terapeutiche” ponendo l’incomprensibilità di ideazioni e di comportamenti come espressioni sintomatiche di una mente guasta: in medicina un sintomo rimanda uni-vocamente ad un organo ed a sue eventuali disfunzioni e, se questo ri-mando lascia lacune di senso, la scienza medica interroga se stessa nel-la ricerca di strumenti conoscitivi che possano colmare queste lacune. In una prospettiva antropo-analitica l’incomprensibilità della schizofre-nia, al contrario, non è un sintomo di una presunta malattia, ma è la di-chiarazione di un difetto di comprensione dell’osservatore di questo fe-nomeno.

Se facciamo una diagnosi psicologica significa che rileviamo in qualcuno un comportamento “strano”, cioè estraneo rispetto ai confini del senso comune di cui siamo in qualche modo “militanti”, e, come ta-li, ci serviamo degli strumenti di un potere scientifico forte, quale è la medicina, per nominare il nostro sentimento di estraneità, come se fosse un carattere dell’“oggetto” in esame, con il lessico medico: parliamo allora di quel comportamento come di un sintomo di una qualche ma-lattia per la quale coniamo nomi di fantasia che per lo più rimandano etimologicamente ad un essere fuori dai confini del territorio che “logi-camente” abitiamo. Ad esempio: delirio significa fuori dal solco (in la-tino lira), schizofrenia significa mente separata (dalla nostra comunità), dis-sociata perché non con-sociata, ossessione significa essere assediati (dal latino obsidēre) da un potere estraneo, con allusione al potere de-moniaco, e così via. Ma nell’uso di questi termini viene smarrito il loro carattere comparativo (l’estraneo a confronto con il famigliare) per as-sumere un carattere denotativo di un oggetto di osservazione, analoga-mente a quel che indicano termini medici come polmonite, neoplasia, setticemia, ecc. E su queste nominazioni si costruiscono sistemi noso-grafici per cui dissociazione significa un supposto mancato raccordo tra funzioni della mente dell’oggetto osservato, così come il delirio è l’uscire dalle righe dell’unica logica pensabile (quella nostra con cui osserviamo e giudichiamo) di una mente oggettivamente guasta, e così via.

Mentre il sintomo in medicina appare al giudizio dell’osservatore indipendentemente dal contesto esistenziale del malato, è proprio que-sto contesto che rende un comportamento comprensibile e quindi con-divisibile oppure tanto incomprensibilmente estraneo da dover essere combattuto come un male che minaccia la quiete domestica della co-munità cui apparteniamo e di cui ci costituiamo come i vigili custodi (Foucault). Possiamo, ad esempio, ben dire che la certezza irriducibile sulla verità dell’esistenza di un ente invisibile, un Dio o un diavolo, si presenti con la medesima fenomenologia di un delirio “laico”, e che i

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riti connessi a questa certezza si presentino con i medesimi caratteri co-attivi di qualsiasi altro evento ossessivo, e che l’umore penitenziale di chi si autoinfligge i più crudeli sacrifici (magari fino al sacrificio e-stremo di sé) non è meno nero dell’umore del malinconico, e così via. Ma se noi comprendiamo, perché culturalmente condividiamo, le prati-che inscritte in un’istituzione religiosa, esoneriamo i “fedeli” da ogni connotazione diagnostica e risparmiamo loro ogni nostro affanno tera-peutico.

Kant sviluppando l’enunciato da me riportato in epigrafe sostiene che in qualsiasi forma di disordine mentale, nel senso di un prevalere di un senso privato, si può rilevare una

“sragionevolezza positiva”, cioè un'altra regola, come se l'anima fosse “spostata” in un punto dal quale vede tutti gli oggetti diversamente, e si trova in un luogo lontano da quel sensorio communi che è necessario per l'unità della vita. […] Ma è degno di meraviglia il fatto che le forze dell'animo messe in disordine si compongano tuttavia in un certo si-stema, e che la natura cerchi di portare anche nella sragionevolezza un principio di collegamento, affinché il pensiero, quand'anche non possa giungere obiettivamente alla vera cognizione delle cose, pure dal lato soggettivo non rimanga inerte appoggio alla vita animale». [corsivo mio]

A. Gaston riprende la prospettiva kantiana sostenendo che ci accorgiamo con “meraviglia”, appunto, che tutto il mentale continua a comporsi in un certo sistema e che, al di là del disordine immediato, esiste una tendenza a un altro ordine, un rimando a un altro livello di senso, che afferriamo intuitivamente, ma con il quale non riusciamo a stabilire una relazione significativa. Questo diverso livello di senso si coniuga, come l’osservazione clinica ci mostra quotidianamente, sotto il rigido cono d’ombra del senso privato, logico e, bisogna aggiungere, emozionale. Dalla perplessa, angosciosa e totale me-concernenza del-l'esperienza delirante alla monotona e vuota lamentela sulla perdita del depresso, dall'incombenza somatica dell'ipocondriaco alla rabbiosa ri-petitività dell'ossessivo, la più o meno profonda prevalenza del prìvatus sul communis, nota o ignota, voluta o subita, parziale o totale, ci di-sloca in un altro luogo nel quale la nostra continuità si colora più o meno intimamente di alienità.

Il certo sistema che viene proposto da queste citazioni non è creato ex-novo da chi è sottratto alle norme del senso comune, ma è trasposizione

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nella realtà presente del soggetto di una sua realtà storica: questa re-altà consiste nella normalità, o normatività, che ha caratterizzato il complesso sistema relazionale originario a cui il soggetto è rimasto fe-dele. Narciso fu segnato, nella sua breve vita, dall’intenzionalità ma-terna che il mito vuole modulata sull’ammonimento di Tiresia («Tuo figlio vivrà fin tanto che non conoscerà se stesso», il che significa «fin tanto che rimarrà raccolto nel grembo coscienziale di te madre») e, li-gio a questa “norma”, evitò qualsiasi relazione conservandosi in una so-litudine che potremmo chiamare “autistica”. Fino al giorno in cui ri-specchiandosi come d’abitudine in uno specchio d’acqua non vide que-sto incresparsi per un soffio dispettoso di Zefiro, il vento di primavera, e vide quindi scomparire la sua immagine fusa con l’acqua: non più, in questa immagine, un Narciso riflettente la sua condizione esistenziale di un tutt’uno con l’intenzionalità materna, ma, improvvisamente, un lui stesso riflessivo sulla propria auto-nomia, sul suo sapere di sé emer-gente dalla norma che lo aveva fin lì condotto. L’insopportabile ango-scia per questa lacerazione lo indusse a trafiggere il suo cuore e a mo-rire. Questa versione del mito è preferita da Graves rispetto all’altra più diffusa per cui Narciso, innamorato della propria immagine, nel tenta-tivo di congiungersi ad essa abbracciandola, finì con l’annegare. Freud adottò questa vulgata che, non tenendo conto del mito nella sua inte-rezza – e di conseguenza del senso privato del comportamento di Nar-ciso come riassunto nel monito di Tiresia –, si prestava ad essere utiliz-zata come solenne testimonianza della pulsione libidica rivolta al pro-prio corpo piuttosto che ad un oggetto esterno.

Il carattere tragico dell’apertura dell’esserci alla conoscenza permea tutta la cultura e la mitologia dell’antica Grecia, nei termini dell’Eroe che sfida il destino (moira) o perseguendo un suo personale progetto di mondo o cercando di sottrarvisi con avventurose strategie (Napolitani, 2003). Ma il destino non soccombe al libero arbitrio dell’uomo ma in-combe su di lui fino a costringerlo ad uniformarsi al proprio immutabile disegno, al suo essere l’Uguale nel suo “eterno ritorno” (Nietzsche, 1882-1886). Un profondo mutamento nella visione del rapporto tra uo-mo e destino si annuncia nel mito biblico dove la prima donna, Eva, si lascia sedurre dal proprio daimon per accedere nel sapore di un frutto proibito alla conoscenza di sé, della differenza di genere dell’Altro da sé, della scoperta della comune creatività esposta alla fatica del lavoro, al dolore del parto, ad un consapevole orizzonte di mortalità. Lo stesso Freud concepisce il destino come una configurazione del potere deter-minante del Super-io sulla vita del soggetto umano, per cui afferma (1924):

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Ma tutti coloro che attribuiscono il governo del mondo alla Provvi-denza, a Dio, o a Dio e alla Natura, destano il sospetto di considerare ancor sempre queste potenze ultime e remote come una coppia di geni-tori (in senso mitologico) e di sentirsi ad esse legati da vincoli libidici.

Ma per Freud si tratta pur sempre di una faccenda fisica, “economica”, nel gioco tra le pulsioni dell’oggetto-psiche quanto istituisce l’istanza morale, dovunque la si “proietti” e quale che sia il suo modo di decli-narsi nell’esistenza del soggetto, tanto da nominare “nevrosi di destino” quell’insieme di comportamenti che si riassumono nella diagnosi di masochismo, per cui specifica (ibid.):

Il masochismo induce nella tentazione di commettere azioni “peccami-nose”, che dovranno poi essere espiate o sopportando i rimproveri del-la coscienza sadica [corsivo mio] […] o tollerando i castighi inflitti da quella grande autorità parentale che è il destino. Per provocare la pu-nizione di quest’ultimo rappresentante dei suoi genitori, il masochista deve agire in un modo dissennato e contro i propri interessi, deve di-struggere le prospettive che gli si aprono nel mondo reale, ed even-tualmente deve distruggere la propria reale esistenza.

L’accenno che Freud fa qui alla “coscienza” non rimanda dunque al cum-scire originario, alla dimora (in greco ethos) costruita dalle per-sone fisiche della famiglia insieme al neonato con i suoi dispositivi pro-tomentali, ma esprime una fantasiosa costruzione “scientifica” dell’etica esclusivamente sulla base di energie pulsionali solipsistica-mente prodotte dal figlio ed immaginariamente elaborate lungo le di-verse età della sua vita.

Il senso privato di cui ci parla Kant e che viene ripreso da Gaston per designare l’alienità di alcune esistenze o di particolari comporta-menti rispetto al senso comune si riferisce al contrario ad esperienze re-lazionali che hanno concretamente2 caratterizzato la dimora originaria, ovviamente con una predominanza delle logiche emozionali, delle in-tenzionalità dell’ambiente rispetto alla relativa “semplicità” delle co-determinazioni del neonato. Fin tanto che queste esperienze non ven-gono esposte ad una conoscenza riflessiva esse persistono come il fon-damento del senso privato che modula, in parte o in toto, ogni succes-siva esperienza di rapporto dell’individuo con il mondo.

2 Concretum è il participio passato del verbo concrescere, che ha la medesima ra-dice del verbo creare.

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II. COSCIENZA

La coscienza è qualcosa di cui conosciamo il significato

finché nessuno ci chiede di definirla.

G. Edelman

Se spiegare la mente è l’estrema frontiera della scienza della vita,

spesso la coscienza pare l’estremo mistero nella spiegazione della mente.

Per alcuni è un mistero insolubile.

A.R. Damasio

Invece di cercare di trovare un “ingrediente in più”per spiegare come la coscienza

emerga dalla materia e dal cervello, la mia proposta riformula il problema nei termini

di un tentativo di trovare delle connessioni significative tra due irriducibili domini

[fenomenici.

La riduzione fenomenologica non “scopre” qualche territorio oggettivo,

ma produce piuttosto nuovi fenomeni all’interno del dominio esperienziale,

con uno schiudersi di molteplici possibilità.

La seconda sfida lanciata dalla mia proposta [la neurofenomenologia] è quella

dell’esigenza di trasformazione dello stile e dei valori della stessa comunità dei ricercatori.

Se non accettiamo il fatto che, a questo stadio della nostra storia intellettuale e scientifica,

è necessaria una sorta di ri-apprendimento radicale,

non possiamo sperare di fare un passo avanti e spezzare la ciclicità storica

di fascinazione-rifiuto della coscienza nella filosofia della mente e nella scienza cognitiva.

F. Varela, 1997

Sostiene J. Jaines che i contenuti della coscienza sono altrettanti “ana-loghi” di quanto chiamiamo mondo reale e che per indicare questi ana-loghi non abbiamo parole specifiche, per cui siamo costretti a costruire metafore che approssimativamente alludano all’intenzione di signifi-cato (detta da Jaines “struzione”) che intendiamo esprimere. E della metafora questo Autore distingue il metaferendo, che è la cosa che cer-chiamo di esprimere a parole, dal metaferente che è l’immagine, deri-vata dall’esperienza del mondo reale, che adoperiamo per realizzare, comunicare, l’intenzione di significato. Egli porta questo esempio: «Se dico che la nave solca il mare, il metaferendo è il modo in cui lo scafo procede attraverso l’acqua, il metaferente è l’azione dell’aratro». Se-guendo questo suggerimento possiamo applicare alla stessa parola “co-scienza” il carattere di una metafora, dove il metaferendo è la cosa che sfugge ad ogni nostra possibilità di definizione (v. la citazione di Edel-

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man riportata qui sopra) ed il metaferente è l’esperienza reale del sape-re (scire) unita all’esperienza del “con”. Del “sapere” sappiamo in base ad una immediata esperienza empirica elaborata in termini razionali, con quella razionalità che è stata per eccellenza rappresentata dalla pa-rola “scienza”: il “sapere” è un fenomeno di cui si sa primariamente in una dimensione soggettiva (“so di sapere”) che viene certificato at-traverso quel metodo di comunicazione e condivisione che è la scienza. Anche il “cum” rimanda ad un’esperienza empirica quale ad esempio è evocata dalla voce “compagno”, dal tardo latino cum e panis = “che mangia lo stesso pane”. Il mistero della voce coscienza risulta dalla combinazione strutturale di due termini pertinenti a due ambiti espe-rienziali contrapposti, quello della singolarità soggettiva e quello della insiemità oggettiva, quello dei qualia dell’esperienza vissuta e quello dei quanta dell’esperienza empirica. La coscienza è un tipo di sapere radicalmente condiviso che, nelle sue radici, nasce da un accoppia-mento di due enti separati e pure razionalmente indistinguibili, e che si manifesta nei modi di un imperativo nelle condotte umane.

L’aporia che qui propongo – l’essere una cosa assolutamente singo-lare e strutturalmente plurale – è uno dei tanti modi con i quali il pen-siero scientifico e quello filosofico cercano di affrontare oggi il pro-blema della dualità fenomenica di res extensa e di res cogitans. Dalla contrapposizione tra il dualismo cartesiano – due fenomeni appartenenti a dominii ontologici irriducibili l’uno all’altro – e il riduzionismo bio-logico – il mentale, in tutte le sue accezioni, è il prodotto del cervello in cui si manifesta –, si passa oggi al tentativo di riformulare questo pro-blema attraverso la creazione di un campo cognitivo unitario scienti-fico-filosofico. È quel che tra gli altri si propone Varela con la sua Neu-rofenomenologia di cui dice, come riportato qui in esergo: «la mia pro-posta riformula il problema nei termini di un tentativo di trovare delle connessioni significative tra due irriducibili domini fenomenici».

Il cardine intorno a cui ruota la mia proposta di “connessione signi-ficativa” è la storicità di ogni evento sensibile, ivi compreso quanto in-cludiamo nella voce mente o coscienza. Nella letteratura scientifica e filosofica questi fenomeni vengono per lo più riguardati o come pro-prietà specificamente umane o come proprietà del vivente a diversi li-velli di complessificazione evolutiva. Ma, comunque, si tratta di fun-zioni presenti sin dall’origine filo od onto-genetica dell’individuo, co-me analoghi delle strutture biologiche che si sviluppano linearmente dai primi abbozzi fino alle forme compiute nell’essere umano adulto. La psicoanalisi sembra occuparsi della genesi e dello sviluppo della cosa “psiche” ma in una prospettiva sostanzialmente riduzionista:

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1. la “psiche” è ridotta ad un complesso di funzioni che consentono di adattare alla “realtà” energie primitive e comuni a tutti i viventi la cui intrinseca anarchia non consentirebbe all’animale uomo di soprav-vivere;

2. la “realtà” viene ridotta all’insieme degli “oggetti” predisposti na-turalmente per il soddisfacimento dei bisogni pulsionali dell’individuo;

3. il disegno dell’esistenza umana è ridotto nella sua chiusura tra una condizione iniziale di immaturità ed una condizione finale di maturità, in analogia ad ogni forma vivente vegetale o animale;

4. questo disegno si compie attraverso il passaggio e il superamento di fasi o stadi evolutivi che si distinguono per la parte del corpo di volta in volta assunta come il centro del cosmo individuale, per cui sono no-minati fase orale, anale, fallica e genitale.

Questa visione evolutiva è senza storia, dizione con la quale si fa u-sualmente riferimento al succedersi di eventi culturali, istituzionali, po-litici imprevedibili nel loro mutarsi ed aperti a sviluppi di cui non è concepibile un traguardo di compiuta perfezione. Ciò che del resto lo stesso Freud ammette esplicitamente quando, abbandonando una vi-sione casuale, relazionale, storicistica della genesi della sofferenza mentale (la teoria traumatica e le correlate neuropsicosi da difesa), af-ferma esplicitamente di non considerare più i racconti dei pazienti rela-tivi alla loro infanzia come “storie famigliari” bensì come “romanzi” prodotti da fantasie malate per rimozioni, sublimazioni, dislocamenti e altri meccanismi di difesa.

In Individualità e gruppalità mi sono soffermato sulla vicenda esi-stenziale di Freud che segna il suo passaggio da una prospettiva storici-stica ad una visione riduttivamente biologistica della mente indivi-duale3: questo giro di boa avviene in seguito alla morte del padre e vie-ne sancito nella stesura de L’interpretazione dei sogni, iniziato nel 1897, l’anno successivo a questo evento luttuoso. Nel capitolo Sogni tipici egli dedica un paragrafo a I sogni della morte di persone care in cui assume la tragedia di Sofocle Edipo re come se fosse una compiuta trascrizione del mito di Edipo presente nella tradizione orale dell’antica Grecia. Questo mito comprende nella sua interezza – come Graves ci mostra – la preistoria di Edipo, centrata sulla figura del padre, Laio, 3 In Al di là del principio di piacere Freud sancirà questa sua visione scrivendo: «Mi pare che l’evoluzione del genere umano fino a questo momento non abbia af-fatto bisogno di una spiegazione diversa da quella che vale per gli animali; quell’infaticabile impulso verso un ulteriore perfezionamento che si può osservare in una minoranza di individui umani può essere facilmente spiegato come conse-guenza della rimozione pulsionale su cui è fondata la civiltà umana in tutto ciò che ha di più valido e prezioso».

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che, esiliato da Tebe, trovò ospitalità presso il re Pelope. Qui egli se-dusse il giovane figlio del suo ospite, Crisippo, e quando il suo esilio fu revocato, lo rapì e lo condusse con sé a Tebe dove ne causò la morte. In una delle versioni del mito, Pelope si rivolse a Giove perché a Laio toc-casse una giusta punizione: Giove accolse l’appello e decretò che un figlio di Laio lo avrebbe ucciso e ne avrebbe preso il posto accanto a Giocasta, riparando così anche la sterilità di lei dovuta all’omosessualità del coniuge. Non possiamo ovviamente immaginare la ragione che indusse Sofocle a prendere di questo mito solo la parte conclusiva, facendo di Edipo un eroe negativo in quanto parricida e in-cestuoso, come se queste declinazioni della sua esistenza fossero derive di un suo destino personale e non strettamente connesse alle vicende paterne. Ma non è azzardato supporre che Freud, dopo la morte del pa-dre, si sia agganciato al dramma di Sofocle – e non al mito di Edipo – per proporre come principio universale la potenziale delittuosità di ogni figlio nei confronti di genitori vissuti come puri oggetti di scarico di “naturali” pulsioni libidiche e aggressive. Del resto lo stesso Freud ha avvertito questa problematica “coscienziale” quando nella prefazione alla seconda edizione del suo libro afferma (p. 5):

Esso mi è apparso come un brano della mia autobiografia, come la mia reazione alla morte di mio padre, dunque all’avvenimento più impor-tante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo.

Mi servo di questo episodio drammatico come di una singolare sugge-stione per sviluppare il mio discorso sulla coscienza. Non presumo cer-tamente di “analizzare” le vicende storiche dell’uomo Freud, ma as-sumo questa sua “scelta”, che ha determinato la specifica posizione del-la sua opera nella cultura moderna, come una grande metafora, in modo analogo alle metafore che i fatti della vita e i loro racconti offrono ai loro interpreti. In questa prospettiva mi chiedo che cosa abbia potuto “convertire” Freud, sì da indurlo ad abbandonare la strada da lui ini-zialmente intrapresa sul carattere strutturalmente relazionale del fe-nomeno “mente”, per conformarsi ad una visione che presenta un dop-pio metaferente:

1. è attendibile pensare che la sua educazione si sia compiuta se-condo la rigorosa tradizione ebraica, che pone il padre come la figura dominante della famiglia, ad “immagine e somiglianza” della figura del Creatore. Come nel mito della Genesi furono i figli, indotti dal Mali-gno, a diventare causa dei loro mali, così per tutti i figli a venire sarà il

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loro anarchico Es a provocare la punizione del loro padre interiorizzato (v. sopra le citazioni sul “masochismo”).

2. Freud è un medico, per cui egli si forma in un orizzonte scienti-fico e professionale che fa del corpo l’oggetto della ricerca e della pra-tica curativa. Ed il corpo è un “oggetto”4 ordinato secondo una esatta architettura (l’anatomia) ed altrettanto esatte funzioni, comprese quelle senso-percettive o comportamentali (la fisiologia) e tutto ciò che altera questo ordine è aitìa (in greco = causa del male). Non può che essere altrettanto fisica la causa della “patologia psichica”, e, nel rinnegare i suoi neurotica (termine che allude ad un’ipotesi strutturalmente rela-zionale della mente), Freud rientra nel proprio alveo culturale, sia indi-viduando nelle energie fisiche individuali le cause dei disordini mentali, sia sottraendosi allo scandalo di una desacralizzazione delle immagini genitoriali, in particolare quella del padre.

Nell’aforisma 90 (Il bene e la buona coscienza) di Umano, troppo umano, Nieztsche afferma:

Credete voi che tutte le cose buone abbiano avuto in tutti i tempi una buona coscienza? La scienza, ossia qualcosa di molto buono, è entrata nel mondo senza di essa, e del tutto priva di ogni pathos, piuttosto clandestinamente, per vie traverse, avanzando col capo velato o ma-scherato, simile a una delinquente e sempre almeno col sentimento di una contrabbandiera. La buona coscienza ha la cattiva coscienza come primo grado non come contrapposto: giacché ogni cosa buona è stata una volta nuova, per conseguenza inusitata, contro il costume, immo-rale, e ha roso il cuore come un verme al fortunato inventore.

Alla luce di questo aforisma che, senza particolari difficoltà, possiamo riconoscere nell’esperienza di chiunque abbia proposto nuove ipotesi scientifiche capaci di portare disordine in quanto già stabilmente isti-tuito, possiamo forse comprendere il dramma freudiano, rinunciando a “spiegarlo” nei termini di una scelta razionalmente compiuta. S.H. Foulkes, noto in Europa come il fondatore della gruppoanalisi5, usa il termine “resistenza” per indicare la tenace opposizione dell’ambiente

4 Nessuna menzione fa Freud della distinzione che si andava profilando nella cul-tura tedesca proprio nella sua epoca tra corpo anatomico (Körper) e corpo vivente (Leib), dizione quest’ultima che a partire da Husserl viene riproposta da tutto il pensiero fenomenologico ad indicare la natura dell’essere umano, in quanto esi-stenza (Dasein). 5 In un mio recente lavoro (2008b) mi avvalgo delle ricerche di Edi Gatti Pertegato per affrontare la misteriosa “rimozione” del vero fondatore della gruppo-analisi, Trigant Burrow, dalla storiografia gruppoanalitica.

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psicoanalitico alla proposta gruppoanalitica di una mente fenomenolo-gicamente intesa. Egli scrive:

La mente non è una cosa che esiste ma una serie di eventi che si muo-vono e procedono ad ogni istante. La difficoltà che la gente ha ancora nel campo della psicoterapia e al di fuori di essa nell’accettare la mia ipotesi come una base per comprendere e per intervenire, si può par-zialmente spiegare come l’usuale incapacità e riluttanza ad imparare qualsiasi cosa nuova. Imparare qualcosa di nuovo implica il cambia-mento dell’intero atteggiamento di una persona riguardo ad un certo numero di cose, riguardo a se stesso e riguardo al mondo in cui si vive. Io credo, tuttavia, che ci sia una resistenza del tutto specifica contro l’accettazione dei processi mentali come multi-personali, una resi-stenza basata sulle conseguenze personalissime e generali che derivano dall’accettare questa verità.

Recentemente (2008a) mi sono servito di una metafora per indicare l’intreccio tra quel che con Dilthey indichiamo come esperienza vissuta (Erlebnis) e l’esperienza empirica (Erfahrung) nel rapporto con un am-biente storicamente definito:

Utilizziamo ora una nuova metafora per alludere alla relazione tra le due forme di esperienza: possiamo rappresentarci l’insieme dell’esistenza cognitiva come un tessuto, che risulta dall’intreccio tra i fili di una trama e quelli, a essa perpendicolari, di un ordito. Se usiamo l’immagine della trama per intendere l’insieme delle cose, dei fatti, dei tempi che costituiscono la messa in scena di un racconto, possiamo uti-lizzarla per indicare quanto è misurabile, registrabile, “oggettivo” per chiunque vi partecipi – l’autore, l’attore, lo spettatore. Se parliamo dell’ordito (la medesima radice di ordine), possiamo invece indicare il modo assolutamente singolare con cui quei dati oggettivi si compon-gono nella mente di chi, a qualsiasi titolo, li osserva. La medesima trama può quindi intrecciarsi con gli orditi più diversi, dando luogo a “tessuti” cognitivi, al limite, incompatibili tra loro. Incompatibili non perché diverse sono le trame, ma perché diversi sono i modi con cui es-se vengono “ordinate”.

L’ordine cui faccio originario riferimento è l’ordito che tipicizza la dimora, l’ethos, in cui è gettata l’esistenza ai suoi albori, è l’insieme di eventi che si replicano con una regolarità tale da rendere del tutto singolare l’ambiente in cui l’individuo nasce e viene allevato. Gli even-ti non consistono solo nei fatti oggettivi e la loro regolarità non va ri-dotta solo alle cadenze temporali e agli stereotipi comportamentali del-

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le persone che coabitano nella medesima dimora, ma essi sono anche, prima di tutto, carichi di intenzionalità che variamente si intrecciano e che investono il nuovo nato che sin dall’inizio co-costruisce gli eventi con i suoi rudimentali dispositivi protomentali. Se per gli adulti questo mondo è anche osservabile, confrontabile e maneggiabile come un in-sieme di parti discontinue cui una razionalità può applicarsi con la propria discrezionalità volitiva, il bambino vi è totalmente immerso come in un continuum indifferenziato che è la “sua” normalità assoluta che lo rende tutt’uno con essa. L’esperienza vissuta di questa proto-condizione esistenziale è il nucleo coscienziale, l’ordito iniziale che andrà progressivamente infoltendosi e intrecciandosi con la trama del-le successive esperienze empiriche.

Kant allude al concetto di normalità quando si riferisce alla pazzia, de-finendo questa come “perdita del senso comune” e quindi comparsa di un “senso logico privato”: quale la differenza tra senso comune e senso privato? “Senso” indica la capacità di sentire, avvertire, distinguere, in-tuire, e quando il giudizio o il comportamento che ne consegue è con-diviso dalla comunità in cui questi si manifestano allora se ne parla co-me di un senso comune, quindi di un buon senso. Quando manca questa condivisione, Kant non parla di non-senso, d’insensatezza, ma di senso privato, per cui, a prescindere dal grado di condivisibilità delle sue e-spressioni, tutti gli esseri umani sono dotati di un senso attraverso il quale conferiscono senso.

Ma che cosa è “comune”? Dal Vocabolario etimologico Pianigiani: «comune dal latino communem composto da cum e munis col signifi-cato di prestazione, e quindi co-obbligato, obbligato a partecipare cioè a dare, col diritto di ricevere alcuna cosa, alcun ufficio o beneficio»; il contrario di immune col significato di libero da prestazioni, o, nel lin-guaggio biologico, refrattario a contagi, infezioni. Quindi il senso è comune quando le sue espressioni linguistiche, affettive, cognitive, so-no negoziabili all’interno di una determinata comunità, sono cioè tali da consentire scambi di prestazioni vincolate da medesimi parametri nor-mativi, agiti nel medesimo ordine di valori.

Che cosa è “privato”? Letteralmente, quanto è esonerato da co-ob-bligazioni “comuni”, quanto è sottratto ad un munis condiviso: privato e immune diventano così sinonimi. Ma per quanto “privato”, il senso rimane comunque senso, nella sua specifica congruenza logica, anche se le sue manifestazioni si producono in uno spazio/tempo pertinente ad una storia tanto personale (cioè comune a un nucleo famigliare origina-rio) da escludere possibilità di riconoscimento da parte di chi non vi ha attivamente partecipato. E se volessimo utilizzare la metafora del “tes-

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suto”, potremmo dire che anche qui vi sono trame e orditi ma che questi fili sono alle loro estremità ritorti in modo da non potersi intrecciare con trame e orditi di altri tessuti: il tessuto “privato” tende a restare sempre uguale a se stesso senza “contaminarsi” con altri.

Vedremo in seguito come questi enunciati astratti hanno il loro fon-damento incarnato nelle esperienze vissute di ciascun individuo umano e nelle strutture culturali, sociali, che variamente le rispecchiano. Ma non possiamo lasciare Kant prima di aver riflettuto sulla seconda cita-zione riportata in epigrafe, sul suo folgorante riferimento alla “più vio-lenta tra le passioni”, quella per la libertà. Non è neanche concepibile la nozione di libertà se non facendo riferimento all’essere totalmente sot-toposto “all’arbitrio dell’altro”: questa, e soltanto questa, è la condi-zione in cui si accende la passione per la libertà. Questa è la condizione nella quale tutti siamo nati e cresciuti all’origine della nostra storia per-sonale, ed è una condizione che persiste nella coscienza anche quando i processi di emancipazione si sono avviati in modo tanto consistente da distinguere il Sé dall’altro e di trovare nella parola il tramite eccellente per le negoziazioni “comuni”. Ma Kant presta attenzione ad un feno-meno bizzarro nella logica del senso comune: «Chi può essere felice soltanto in base all’arbitrio di un altro (sia poi questo tanto benevolo quanto si vuole), si sente a ragione infelice». Felicità e infelicità che coincidono segnano la linea di confine tra il claustrum di un senso pri-vato che non si dimette e l’agorà del senso comune che si spalanca sot-to la passione per la libertà. Ed è di questo bilico che mi accingo ora a trattare.

III. IDENTITÀ

L’identità (da idem, il medesimo) è il termine che indica la consapevo-lezza di un ente razionale di essere sempre il medesimo e distinto da tutti gli altri: unico. Egli può dire: alcuni tratti caratterizzanti la mia fi-sionomia, il colore della pelle o dell’iride, la mia statura a compimento dei processi di crescita, e poi, il mio nome e cognome, data e luogo di nascita, la mia ascendenza prossima secondo certificazione dei miei do-cumenti anagrafici, sono tutti “dati” che nella loro combinazione for-mano quell’insieme che definisco la mia identità. Ma questi sono, lette-ralmente, “dati” per i quali si giustifica l’espressione ricorrente: «Sono “fatto” così». Ma “dati” e “fatti” presuppongono un agente o un in-sieme di agenti (biologici, culturali, fisici) che nel loro combinarsi va-riamente hanno prodotto quel me stesso di cui ho una consapevolezza razionale, della stessa natura della consapevolezza che ho di qualsiasi

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altro oggetto nel mondo. Conosco la mia identità come conosco tutto ciò che casualmente mi trovo gettato contro (ob-jectum) e dal momento in cui ho consapevolezza di questa oggettività so di esserne dipendente, assoggettato, di esserne il sub-jectum. E al tempo stesso in cui acquisto cognizione di quanto nella sua separatezza mi è gettato contro, il “mi” diventa rilevante nella mia ragione e ne nasce quell’esperienza di sog-gettività che nel declinarsi come desiderio, come anticipazione di un futuro possibile, e quindi come volitività, mi induce ad un atto di ma-neggiamento di quello stesso oggetto da cui sono necessariamente di-pendente. È qui che si accende “la più violenta tra le passioni dell’uomo” (vedi sopra), l’anelito di invertire la condizione iniziale di dipendenza dall’oggetto in una condizione non solo di maneggiamento, di uso, di godimento dell’oggetto, ma anche di sue trasformazioni.

Si può forse dire che il primo ob-jectum che si presenta alla senso-rialità del neonato sia il proprio corpo quando questo si fa “sentire” do-lorosamente: fame, contrazioni viscerali, freddo, particolari posture e quant’altro possa alterare la quiete in cui quel corpicino con-siste. Uso questo verbo per indicare quel modo dello stare (sistere) qualificato dal cum (l’essere tutt’uno con) analogamente a quel che abbiamo visto per la parola coscienza (cum-scire) contrapposta ad un sapere singolare che rompe la quiete di un sapere assolutamente condiviso. La perdita della “consistenza coscienziale” espone l’uomo alla necessità di un proprio atto, di un proprio personale muoversi al di fuori del perimetro del pro-prio originario sistere, di accedere alla propria ex-sistenza. Con questo atto di apertura si trans-forma la mia identità: essa è originariamente solo nella mente degli dei, nel sapere e nelle mani di chi mi ha messo al mondo, ed io posso solo lentamente e dolorosamente scoprirla quando essa mi “colpisce” in tempi e modi così ripetitivi da apparirmi analoga a qualsiasi altra datità del mio ambiente. È solo in questa esperienza vissuta (l’essere dolorosamente colpito) e non per l’esperienza senso-riale in sé, che si annuncia una mia primitiva consapevolezza di essere sub-jectum, assoggettato, all’insieme degli ob-jecta che costellano il mio ambiente, ivi compresi il mio corpo e gli atti che quasi automati-camente, ripetitivamente esso esprime.

Prima di accedere ad un’esperienza di soggettività, non in quanto es-sere soggetto a, ma in quanto essere soggetto di, l’essere umano è to-talmente immerso nell’“arbitrio di un altro” (v. la citazione di Kant) che lo “apprende”, lo assume nella propria esistenza non come ob-jectum a sé, ma come elemento costitutivo del proprio stesso essere sub-jectum: la madre è quella donna che si trasforma, deformandosi, nel momento lungo della propria generatività. In questa apprensione, sia nel senso della fisicità di questo assumere come proprio il nascente, sia nel senso

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della specifica inquietudine che questa sfida le provoca, ella pratica il suo trascendersi nel suo essere simultaneamente dentro e al di là della propria identità, ella è dentro il suo bambino pur restando ancorata alla propria medesimità. Questo trascendersi è un atto di conoscenza non razionale, discreta, separata e separante, ma è l’atto di una cognizione rivolta ad un oggetto-in-divenire, animato solo dalla in-tenzione pene-trante del soggetto che ne fa intima esperienza. Attraverso l’intenzionalità la madre abita con le sue memorie e le sue attese, con il suo passato ed il suo futuro, con le sue speranze o la sua disperazione, il possibile oggetto-che-diviene-suo-figlio.

Di queste vicende cognitive della madre possiamo parlare perché possiamo argomentare su un’esperienza comune a tutti gli esseri umani in procinto di dar vita ad un oggetto in divenire (non solo bambini, ma idee, progetti, sogni); ciò di cui non possiamo parlare è della nostra e-sperienza in quanto noi stessi oggetti in divenire, poiché quest’esperienza vissuta all’inizio della vita in modo totalizzante, è immersa nell’oblio di un’età non sufficientemente matura perché pos-sano essere registrate (memorizzate) le proprie esperienze. Possiamo solo congetturare il tipo di corrispondenza a cui il neonato è disposto nei confronti dell’intenzionalità materna, sia avvalendoci di tutti quei momenti che da adulti viviamo come “stato nascente”, sia appoggian-doci a quanto ci raccontano quelle neuroscienze che si appoggiano, a loro volta, al pensiero fenomenologico.

IV. LO STATO NASCENTE

L’espressione “stato nascente” è riferita originariamente a particolari caratteristiche di aggregati sociali nel loro muoversi contro o oltre le istituzioni, cosa che Max Weber fa derivare dal potere carismatico di un capo che induce nei suoi seguaci una fede assoluta in ciò che profeti-camente annuncia secondo la formula «sta scritto, ma io vi dico». Fran-cesco Alberoni (1971) attribuisce lo stato nascente a quegli aggregati sociali che condividono una visione per la quale si traguarda una nuova condizione di libertà contro i limiti imposti dall’ordine dominante as-sunto fin lì come un assoluto. Pur condividendo con Weber la natura collettiva dello stato nascente, egli non lo fa strettamente dipendere dal potere carismatico di un capo, ma piuttosto da una conversione repen-tina di un gruppo, di una coppia o anche di un singolo individuo ad una nuova visione del mondo o del proprio rapporto col mondo (p. 63).

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Il convertito rompe coi vecchi valori e con il suo entroterra di relazioni stabilite in forza della acquisita consapevolezza di valori universali non riducibili al passato che gli appare contingente. Egli “nasce” una se-conda volta ad una nuova vita che si presenta a lui come dialettica-mente antitetica a quella antica. Egli va apertamente verso la verità ed agisce e parla in nome della necessità di vero. Ma la verità è ad un tempo la verità del valore che non è mai contingente e la verità della contingenza. Ritroviamo così la polarità fondamentale del collective behavior di gruppo. La verità è il luogo di convergenza storica e dia-lettica dei due momenti.

La conversione6 così intesa è espressione dell’apertura dell’esserci, del suo anelito a sgusciare dallo stato di dipendenza che lo rende “felice-mente infelice”. Ma il concetto di conversione viene applicato in genere a quel fenomeno di cambiamento per il quale un individuo o un intero aggregato di individui sospinto dalla “più violenta tra le passioni uma-ne” mira a raggiungere un maggiore grado di libertà e di verità rispetto ad una condizione precedente nella quale libertà e verità gli risultano ora, dal vertice di una nuova visione, costrette in una rete di relazioni non più significata come un assoluto ma come un ingombro, un impe-dimento da abbattere. Ma c’è una conversione originaria: l’uomo non è sin da subito “uomo”, ma egli è quell’animale che persiste nel suo pro-cesso di mutazione dalla specie da cui proviene, è un animale-che-si-fa-uomo, senza mai raggiungere una stabilità di specie come l’evoluzione mutativa garantisce ad ogni specie che si perfeziona in una nuova orga-nizzazione biologica. L’uomo è cioè quell’organizzazione vivente che mancante di una perfetta corrispondenza tra i suoi dispositivi organi-smici e il suo proprio ambiente (Gehlen), deve farsi un ambiente ade-guato ad un se stesso in continua formazione, ad un se stesso coinciden-te con il suo processo antropopoietico, secondo la voce pon-derosamente documentata da Francesco Remotti. E il “farsi uomo” si-gnifica entrare in contatto non solo con le cose nella loro semplice nu-dità (quelle cose preselezionate dai dispositivi istintuali e ad essi imme-diatamente corrispondenti) ma prevalentemente con cose, ivi compresa la propria identità, già da subito vestite di valori simbolici. Clifford Ge-ertz mette poi in evidenza che ciò che risulta da questi in-vestimenti è la cultura che nelle sue istituzioni è una cosa neo-formata dai processi antropopoietici e, come tale, è aperta a interpretazioni che rientrano ri-

6 Questo termine va qui inteso non secondo l’uso comune per cui si viene conver-titi da qualcuno o ci si converte ad un credo già istituito, ma va inteso come un’emergenza auto-ri-organizzativa (Morin, 1986) delle proprie strutture cogniti-ve, attuali o potenziali.

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corsivamente nei processi culturali e che quindi indefinitamente tra-sformano gli oggetti culturali a cui si applicano (tr. it., p. 92):

Noi siamo animali incompleti o non finiti che si completano e si rifini-scono attraverso la cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari.

Il simbolo è un concetto tanto evanescente e così controverso nell’ampio dibattito che si accende per definirlo quanto lo è il concetto mente o coscienza da cui è espresso e che, ricorsivamente, forma. Esso è il modo con cui si manifesta al suo esordio l’atto cognitivo in quanto atto concepitivo, trasformativo, metapoietico del mondo che l’uomo a-bita. Esso non entra nell’ordine dei significanti – i segni che informano qualcosa di un ente non concretamente presente – e il suo autore non è un “chi” individuale o collettivo, un Io conscio o inconscio, ma una co-esistenza, il radicale Mit-dasein; esso resterebbe totalmente in ombra se non ci fosse un apparato razionale che lo raccogliesse e che lo interpre-tasse. È quel che capita col sogno, struttura simbolica per eccellenza, che si presenta nel silenzio del mondo come una figura enigmatica di bizzarri componimenti cronotopici e multipersonali: il suo racconto, già monco e variamente deformato, è una traccia della co-esistenza perso-nale, il cui senso nasce solo dalla ratio di chi lo ascolta. Mario Trevi sviluppando la riflessione junghiana sul simbolo, ne distingue due tipi: il simbolo probletico (da proballein = progettare) che indica una possi-bilità aperta al futuro e il simbolo sinezetico (da synizanein = tornare allo stato precedente) che indica un paesaggio inscritto nel passato. Ma una medesima configurazione simbolica pone una domanda a chi si po-ne al suo ascolto e questi vi risponde con i propri canoni culturali che, se non ne stabiliscono razionalmente un significato nei termini di una verità ultima, gli consentono di formulare a sua volta nuove domande in un processo indefinito di interrogativi dai quali emergono risposte sem-pre approssimative e precarie. Alcune di queste hanno un potere persu-asivo tale da diffondersi nel mondo alimentando il suo senso comune, al punto di costituirsi come il presupposto condiviso delle culture e del-le loro istituzioni, modificandone alcune, facendone estinguere altre e annunciandone di nuove con una potenza rivoluzionaria.

Nel processo di alterificazione (v. in seguito) l’Altro si annuncia in un alone simbolico che compone in sé un “già noto da sempre” e la promessa di un “impensabile nuovo”. L’intenzionalità del soggetto, la sua coscienza aprono la strada all’esperienza che nasce da questo in-contro: potrei dire: «ti ho identificato e ciò mi conferma nella mia iden-tità», oppure «lo sconosciuto che sei accende in me la curiosità (il cur

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di ogni domanda) e seguendo questo percorso io stesso divento Altro rispetto alla mia consolidata identità». Ciò significa che sono io a rendere quel tessuto simbolico che io nomino “il mio simile, il mio prossimo” co-me un simbolo sinezetico o piuttosto come un simbolo probletico.

Giovanni Stanghellini distingue tre modi di fare conoscenza dell’Altro. Egli limita questa riflessione all’ambito clinico, l’osser-va-zione e l’elaborazione concettuale delle esistenze “psicopatologiche”, assumendo queste come esistenze che hanno “messo tra parentesi” gli assiomi del senso comune, in un modo praticamente speculare alla “e-pochè” del pensiero fenomenologico. L’incomprensibilità della follia si deve dunque al fatto che chi non riesce a dimettere il proprio senso co-mune considera incomprensibilmente alieno chi al senso comune non accede o da cui si separa per alterazioni delle sue funzioni cognitive a livello neuronale. A prescindere da alcune differenze sulla genesi della follia, trovo il pensiero di questo Autore come un contributo decisivo per la fondazione di una scienza della coscienza di tipo esistenziale o antropologico. Egli distingue, dunque, tre tipi di conoscenza, una cono-scenza in prima persona, una conoscenza in terza persona ed una in se-conda persona.

La conoscenza in prima persona è quella empatica, che potrebbe es-sere anche detta quella della consonanza intenzionale. Se accolgo come se fossero miei i moti dell’animo dell’altro, se ne “rispecchio” i carat-teri, ho a disposizione una serie di “mattoni” attraverso cui ne ricostrui-sco l’identità,

ricostruzione che avviene nello spazio più privato della coscienza dell’osservatore. La ricostruzione dell’esperienza dell’altro si compie cioè all’interno del soggetto che lo esplora. (Stanghellini, p. 47)

Ma questa forma di conoscenza è possibile solo se osservatore e os-servato partecipano del medesimo senso comune, se sono situati nel medesimo orizzonte culturale, ma se uno dei due è radicato nella pro-pria identità “privata” – nel senso che cerco qui di sviluppare – l’ap-proccio empatico non si dà ed ogni riconoscimento di similitudine vie-ne tematizzato dai propri codici la cui prevalenza finisce col produrre una conoscenza in terza persona.

L’epochè husserliana mostra qui un limite insuperabile: io posso so-spendere i miei pregiudizi ma non i movimenti trascendentali della mia e altrui coscienza: se il mio interlocutore non può vedermi se non come l’estraneo che minaccia la sua “privata normalità”, io rispecchierò in primis questa intenzionalità, secondo il suggerimento di Stanghellini

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per cui ogni ricostruzione dell’altro non può che avvenire nello spazio più privato della coscienza dell’osservatore.

La conoscenza in terza persona è un tentativo di rimediare all’incomprensibilità attraverso una spiegabilità del “non comune”, let-teralmente dell’idiota (dal gr. idiṓtēs “individuo privato, senza cariche pubbliche”). Questo tipo di conoscenza è sostanzialmente la medesima che consente l’identificazione di un fenomeno “oggettivo” attraverso il suo conformarsi ai dispositivi razionali su base senso-percettiva del soggetto osservante: le categorie razionali di spazio, tempo e relazioni causali ordinano il mondo che risulta quindi conformato alla ratio clas-sificatoria dell’osservatore. Così gli “idioti” formano una classe che si suddivide in una serie indefinita di sottoclassi, ciascuna con una propria causa specifica, appartenente ad una causalità generale che le acco-muna. Come abbiamo già visto, la scienza medica fa da supporto alla scienza psicologica, per cui identificare il folle attraverso un’interpretazione semiotica, avvia una serie di pratiche “terapeutiche” che mirano a riportare il senso privato dell’“idiota” al senso comune del suo “terapeuta”, confermandolo così nella sua identità culturale.

Ciò che consente l’avvio di un superamento (e non un superamento univoco e definitivo) della conoscenza soggettiva e di quella oggettiva (“il cancro della psicologia”, dice Binswanger) è la conoscenza in se-conda persona, che Stanghellini definisce

conoscenza dialogica condivisa dal “soggetto” e dall’“oggetto” della ricerca. È un tipo di conoscenza centrata sul “noi” […] essa dischiude, parallelamente alla comprensione dell’altro, la comprensione di sé (p. 52)

Egli fa riferimento in prima istanza al modello antropologico etnogra-fico così come paradigmaticamente enunciato da Ernesto De Martino con il suo etnocentrismo critico. Il confronto con altre culture non può prescindere dal fatto che chi ci si confronta lo fa dal vertice della pro-pria cultura, che non solo non può essere ridotta ad alcuna epochè ma che può al contrario essere la condizione per un avvicinamento cono-scitivo col diverso grazie ad una riflessione critica che essa stessa pro-duce e che viene ulteriormente incrementata proprio dal confronto con l’altro. In questa zona di confine si apre la possibilità di cogliere nel fondamento della propria identità un sensus privatus permanentemente attivo anche nei più emancipati ricercatori, partecipi però del sensus communis che consente loro le più svariate e nuove negoziazioni sia con l’altro che con il sé medesimo. Il baricentro di ogni negoziazione è l’interpretazione, non in senso semiotico ma in quello propriamente

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ermeneutico (Napolitani, 1997) che Gadamer fa coincidere con l’arte del domandare, precisando che «l’arte del domandare è l’arte del do-mandare ancora». L’interpretazione ermeneutica consiste in una rispo-sta alla domanda fondamentale sul senso di un atto, di un’idea, di un comportamento, una risposta che si va costruendo nel confronto tra gli interlocutori con la forza argomentativa, con la passione a volte dram-matica, con i lirismi che folgorano la scena dove le computazioni si a-renano, come se si trattasse di una vera composizione narrativa. Cia-scun interlocutore dispone di un archivio di risposte prêt-à-porter che tendono ad occupare il campo relazionale e, solo quando la domanda investe questa specie di corpo-a-corpo e la strenua difesa che ciascuno opera per conservare le proprie identità pietrificate, si apre lo spazio per una co-costruzione di un senso comune ad entrambi, di un accordo er-meneutico che chiama in causa la reciproca responsabilità, quella di-sposizione ad avere cura della propria dimora (il greco ethos) fino al punto di una vera e propria ristrutturazione: dal privato al comune e dal comune pietrificato ad un comune nascente.

V. LA PRIMA CONVERSIONE: IL FARSI IDENTICO

Dobbiamo riflettere su quella prima conversione per la quale l’embrione umano passa da uno stato biologico in-intenzionale, pre-co-scienziale, dotato solo di una potenzialità che lo dispone al suo Mit-dasein, ad uno stato di concreta attualità del suo divenire uomo. Questa riflessione ci permette di entrare nel merito della formazione dell’identità individuale a partire dal suo paleoambiente (il grembo ma-terno) con il quale non avvengono scambi del tipo di quelli che s’instaurano a partire dalla separazione fisica, a partire dalla nascita. Pur potendo ipotizzare che l’atto intenzionale della madre possa “toc-care” negli ultimi tempi della gravidanza i corrispondenti dispositivi dell’embrione, è solo dopo la nascita che il neonato mostra comporta-menti attribuibili ad una vera e propria consonanza intenzionale. Si è in linea di massima disposti ad attribuire i movimenti automatici del neo-nato, quale ad esempio la sua ricerca del capezzolo e la complessa di-namica della suzione, al suo apparato neurologico, già sufficientemente maturo da produrre quel comportamento come paradigmatico del fe-nomeno di attaccamento a cui si farà poi riferimento per spiegare, nei suoi fondamenti biologici, ogni forma di attaccamento che l’essere u-mano mostrerà anche in età adulta nei confronti di oggetti-madre. Ma la clinica neonatologica ci mostra una varietà di comportamenti nel ne-onato umano incomparabile con la relativa uniformità del comporta-

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mento del neonato non umano, che sembra perfettamente riconducibile a meccanismi di adattamento reciproco tra madre e figlio di tipo istin-tuale, cioè non interferito da quegli atti cognitivi trascendentali definiti nei termini dell’intenzionalità. Sono i modi di questa cognizione reci-proca tra madre e bambino che modulano le forme dell’attaccamento e, se la consonanza intenzionale è prevalentemente significata dal rifiuto, i comportamenti biologici dell’infante rispecchiano tale rifiuto: ad esem-pio il rifiuto disperato e disperante del sonno o il rifiuto ad “appren-dere” il seno materno, nell’alternarsi parossistico della ricerca famelica del capezzolo e del successivo sputarlo fuori, o il sistematico rigurgito di quanto ha inizialmente ingerito fino ad un deperimento grave che non ha spiegazioni biologiche, e così via.

Nella medesima prospettiva possiamo osservare il fenomeno dell’apprendimento: ne abbiamo già fatto un cenno parlando della ma-dre nel suo iniziale assumere il figlio come oggetto-che-diviene e sa-ranno i modi intenzionali di questo apprendimento a modulare le forme di apprendimento del figlio. Potremmo brevemente dire che i modi dell’attaccamento e dell’apprendimento del figlio tendono in prima i-stanza a rispecchiare (vedi il sistema dei neuroni specchio) i modi con cui la madre si attacca o apprende il figlio. E ciò non in virtù di un semplice processo di imitazione come avviene nelle specie non umane, ma per quel processo che è il fondamento del farsi dell’identità perso-nale a partire dalla datità dell’identità genetica. Il fare identità è detta identificare/identificarsi, ed il processo di identificazione non consiste, nella deriva delle considerazioni fin qui esposte, nell’imitazione adat-tativa di un’immagine o di un comportamento, ma nella corrispondenza di intenzionalità tra due o più soggetti. L’identificazione è il primo pro-cesso che qualifica la condizione umana come apertura all’altro, è il punto di partenza per concepire la mente umana come strutturalmente sociale, come una facoltà cognitivo-emotiva non situata nel cranio del singolo, ma in quel “tra” costituito dalle reciproche trascendenze in uno spazio intersoggettivo.

Scrive a questo proposito Francesco Remotti (1996, pp. 13 e 14)7: Ma la tesi dell’incompletezza biologica dell’uomo ha pure un’altra componente o implicazione: quella della natura sociale del pensiero e delle emozioni. Non solo in antropologia, ma anche in altre scienze umane (come la psicoanalisi, la linguistica, la sociologia), tende a im-porsi sempre più l’idea secondo cui gli esseri umani non possono es-

7 Cito a questo punto un antropologo che nel valersi dei contributi di psicoanalisti contribuisce di fatto al progetto di un’unificazione antropoanalitica delle due di-scipline.

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sere intesi come entità isolate che soltanto successivamente, e per così dire gradatamente, scoprono la vita sociale (con i suoi vantaggi e con i suoi ostacoli). È significativo che anche una disciplina come la psicoa-nalisi, dedita per vocazione all’analisi della psiche individuale, abbia rinunciato, almeno in certi suoi rappresentanti, all’impostazione freu-diana. Per Freud – sostiene per esempio Stephen Mitchell (1993) – l’uomo sarebbe un “coacervo di tensioni fisiche di carattere a-sociale", un impasto di desideri e di pulsioni fondamentalmente di natura ses-suale e aggressiva che urgono per realizzarsi, di “energie primitive e animalesche” che non possono non entrare in conflitto con le esigenze, opposte, della realtà sociale, inevitabilmente “più superficiali” e “se-condarie”. Per il modello relazionale, che questa corrente di psicoana-listi intende far valere richiamandosi a H.S. Sullivan, a W.R.D. Fair-bairn, a H. Kohut, l’individuo è invece un essere che fin da subito si co-struisce entro un contesto di relazioni sociali (Mitchell, 1993). I legami sociali non risultano perciò aggiuntivi, ma immediatamente essenziali e decisivi (Liotti, 1994).

Possiamo dunque dire che il primo processo di conversione è quello per cui il neonato umano abbandona il “suo essere felice in base all’arbitrio dell’altro”, il mitico Eden in cui “altro” è il suo proprio “non-altro”, in base all’automatico scambio programmato dal suo bagaglio genetico che biblicamente corrisponde alla volontà di un Dio che lo trattiene all’interno del suo intenzionarlo come propaggine di sé, creatura natu-rale in un omologo mondo di creaturalità naturale. Il neonato entra in contatto con Lucifero, se ne lascia sedurre come Eva nell’incantesimo della conoscenza, e, convertito dal “potere carismatico” di lui (direbbe Weber) si dispone al godimento del proprio arbitrio sospinto dalla vio-lenta passione per la libertà. È ovvio che questa formulazione della prima conversione – dal mondo assoluto nella naturalità creaturale al mondo delle precarietà cognitive – è un atto ancora fortemente ancorato (ombelicato) alla condizione prenatale, tanto da non poter essere speri-mentato come esito di una scelta discreta, o di rivoluzione volontaria contro l’ordine preesistente, pur se la Bibbia connota questa conver-sione come atto deliberato di disobbedienza meritevole di una “cac-ciata” nella mortalità. Ma questa prima conversione, per quanto dram-maticamente vissuta da ogni figlio di donna, non è da lui né registrata né elaborata per l’immaturità del suo sistema neuronico, ma non può essere sottratta alla riflessione adulta sia quando si tocca il tema delle origini dell’identità, sia quando si riflette su tutti i successivi processi di conversione che indefinitamente qualificano l’esistenza umana.

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I dispositivi neonatali devono dunque essere tali da consentire una corrispondenza tra lo “stato nascente” materno (in quanto sua compo-nente intenzionale nei confronti del figlio) e “stato nascente” del figlio che verosimilmente costituisce il carattere dominante della sua proto-mente. Alberoni (1979) riprende il concetto di “stato nascente” quando tratta dell’innamoramento. Non possiamo certo dire che il neonato sia “innamorato” della madre, perché questa emozione così pervasiva ir-rompe nell’ordinata stabilità delle quotidiane istituzioni relazionali e si qualifica proprio per le perturbazioni più o meno estese di tale stabilità. L’innamoramento, inoltre, è quella passione per la quale si compene-trano in modo prodigioso il sentire l’altro nella sua piena separatezza, nella sua diversità di genere e di esistenza e il sentirlo come parte inte-grante di sé, la propria anima, la propria stessa vita. Quando la propria consapevolezza identitaria si coniuga con la propria coscienza trascen-dente (l’intenzionalità), il soggetto si dispone ad una compenetrazione to-talizzante con l’altro come fondamento di una co-costruzione di mondo.

Il neonato non può quindi vivere emozioni confrontabili con l’innamoramento adulto perché, possiamo dire, è tutto trascendenza, ma la sua coscienza senza soggetto è già disposta ad apprendere la pre-senza dell’altro, con-fondendosi con questa. Questo apprendimento è esattamente il reciproco dell’apprendimento/apprensione della madre, ma a differenza di questa il neonato non dispone di risorse razionali né di una cultura pre-istituita che gli consentano una discrezionalità nei confronti di quanto apprende. Egli non dispone di uno scire autonomo ma il suo è un cum-scire, un sapere sostanziato dalla complessità dei saperi materni, sia intenzionali che razionali, sia trascendenti che con-tingenti rispetto alla propria storica identità. Possiamo immaginare l’esperienza vissuta del neonato come quell’esperienza incarnata che, pur vedendo necessariamente coinvolti dispositivi protomentali del ne-onato, non può essere elaborata nei modi di una razionalità pertinente ad un soggetto definito da un suo stesso processo di differenziazione già comunque avviato. Così l’aporia che si propone nel mio dire che “la sua coscienza senza soggetto è già disposta ad apprendere la presenza dell’altro”, per poi dire che la sua coscienza (il cum-scire) viene “fatta” dalla presenza materna, pone l’interrogativo se sia la coscienza causa dell’apprendimento o se sia questo causa della coscienza. Dobbiamo forse mantenere sospeso questo interrogativo nello stesso modo con cui Winnicott mantenne sospeso l’interrogativo sulla priorità tra atti per-cettivi e atti concepitivi: il bambino percepisce l’oggetto che ha già concepito o concepisce solo l’oggetto in quanto già percepito? Dob-biamo, forse, solo arrenderci all’apertura cognitiva del pensiero com-

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plesso che, per certi ambiti del sapere, introduce il concetto di ricorsi-vità circolare in fenomeni non riducibili al piano della causalità lineare.

Mantenere sospeso un interrogativo circa la causa di un evento è una condizione che espone l’intelletto costruito dalla e nella logica della causalità ad un certo grado di smarrimento che può essere vissuto come minaccia alla propria identità culturale, al punto da ricorrere alla fede in cause immaginarie corrispondenti a modelli della propria “normalità privata” (come avviene ad esempio negli sviluppi paranoidei). Appren-dere un evento secondo queste modalità significa prenderlo dentro di sé, possederlo così da confermare e rafforzare la propria identità, senza correre il rischio di sorprese perturbanti. Se “prendere” significa ridurre un oggetto identificato in proprio potere o essere ridotti nel potere al-trui, sorprendere viene dal latino super-prehendere, dove il prefisso su-per allude a ciò che sta sopra o oltre il già noto e identificato. Altri pre-fissi capovolgono il significato di prendere in quanto possedere: com-prendere, im-prendere, intra-prendere, in cui il potere si declina come possibilità in divenire e non come possesso.

Come fin qui delineato, il processo di reciproco apprendimento tra madre e figlio non consiste in una registrazione della datità di un og-getto ma in un’assunzione come elemento integrante della propria co-scienza di un oggetto-che-diviene, un oggetto non definito in una com-piutezza razionale ma indefinito per la sua intenzionalità e che può es-sere assunto come proprio solo da un soggetto il cui dispositivo tra-scendente entri in consonanza con l’atto intenzionale del proprio og-getto. Gallese parla di “consonanza intenzionale” per indicare questa stretta corrispondenza trascendentale tra madre e figlio, e la conse-guente creazione di uno spazio mentale “noi-centrico” che è il “luogo” dell’empatia.

Voglio qui precisare la differenza tra imitazione e identificazione, nella stessa linea di pensiero che mi porta a distinguere tra apprendi-mento e attaccamento come fenomeni genericamente animali, e i mede-simi processi come fenomeni specificamente umani. Il sistema delle cellule specchio è la base neuronica dell’imitazione: se un individuo guarda un gesto o un comportamento di un altro individuo, si attivano in lui quelle medesime reti neuronali che hanno provocato il gesto o il comportamento dell’individuo osservato, attivazione che può al limite manifestarsi nel compimento del medesimo atto motorio. Attraverso questa attivazione l’osservatore “sa quel che l’altro fa” (Rizzolati e Si-nigaglia) a prescindere da qualsiasi elaborazione che possa fare di que-sta esperienza. Per Gallese questa forma di conoscenza per rispecchia-mento compete anche all’essere umano nella produzione di quella “consonanza intenzionale” generatrice di ogni forma di conoscenza

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empatica. Ma quando si trova a riflettere su quella forma clinica defi-nita autismo in cui sembra assente ogni possibilità di relazioni intersog-gettive, egli ricorre all’ipotesi di una qualche patologia del sistema del-le cellule specchio, di natura genetica o accidentale. Questo è possibile, come si è ritenuto e si ritiene diffusamente possibile che ogni de-viazione da una normalità condivisa sia primariamente un fatto di cel-lule, neurotrasmettitori, ormoni e così via. Ma all’ipotesi di un deficit di sistemi cellulari si può opporre l’ipotesi che in un tempo molto precoce dell’esistenza del neonato abbia prevalso nel complesso insieme dell’intenzionalità materna un non concepire il figlio come oggetto-in-divenire, di non accompagnare l’evento fisico di una maternità inci-piente con il suo correlato mentale, di non apprenderlo quindi come parte integrante della propria soggettività-in-divenire, ma di appren-derlo come mero objectum della propria identità chiusa. Di conse-guenza anche il processo di attaccamento al proprio figlio, pur rispon-dendo ai suoi bisogni elementari che gli garantiscono la sopravvivenza, è monco, in modo quantitativamente variabile, di quella disposizione specificamente umana a cui alludiamo con la parola amore come e-spressione di uno “stato nascente”. «Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende», dice Dante, dove la gentilezza del cuore sta a indicare la sua immediata disposizione a riversarsi nella sua propria condizione di neo-apertura su un oggetto in cui si rispecchia.

In queste condizioni attraverso le sue cellule specchio il neonato ap-prende il non apprendere materno, ed il suo cuore non si declina in quella gentilezza a cui soltanto “l’amor s’apprende”. È qui dunque che in massimo grado si manifesta nel figlio il farsi identico all’identità del-la madre che, pietrificata nel suo non-divenire, si traduce in un’identità senza divenire del figlio autistico.

È lecito ipotizzare che la coscienza di un individuo umano adulto si formi nel rispecchiamento delle più diverse intenzionalità dell’ambiente in cui è nato ed è stato allevato, e che quindi l’originario spazio noi-centrico sia fatto di una “molteplicità condivisa” (come nell’espressione usata da Gallese nel titolo del suo lavoro), che io riferisco alla moltepli-cità degli atti intenzionali della madre: quelle intenzionalità che espri-mono l’esperienza di un co-nascere della madre con il figlio andranno a costituire nel figlio quelle componenti coscienziali aperte ad un dive-nire (nei termini emozionali della curiosità, dell’interesse, e in genere di un apprendimento creativo, riconcepitivo delle cose del mondo), mentre le intenzionalità espresse da una coscienza rappresa nella propria iden-tità fossilizzata andranno a costituire nel figlio quell’impalcatura rigida che è l’esperienza della propria identità, come cosa tra le cose del mondo.

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VI. LA SECONDA CONVERSIONE: IL FARSI SOGGETTO AGLI ORDINI RAZIONALI

Quali che siano i modi del processo di identificazione originaria, pos-siamo dunque dire che il farsi iniziale della propria identità avviene nel reciproco trascendersi intenzionale della madre e del figlio, il quale non può che corrispondere con i suoi dispositivi protomentali all’identità già formata della madre. Se parlo di “identità già formata” alludo al fat-to che a partire da un certo livello dell’indefinito processo di forma-zione, l’identità non coincide più con la propria protomentalità, che, come qualsiasi altro fenomeno biologico, è un dispositivo genetica-mente costituito (anche se si co-determina nel suo incontro con il mon-do), ma si complessifica per lo svolgersi delle trame esistenziali che l’esserci co-costruisce con il suo ambiente. Se il nucleo coscienziale o-riginario si forma all’interno della relazione con la madre, di cui assu-me specularmente le caratteristiche intenzionali (l’identificazione come il farsi-identico-a), nel suo progressivo sviluppo il sistema neuronale tende ad organizzarsi sulla base di connessioni che consentono una re-lativa stabilità alle elaborazioni delle esperienze vissute e di quelle em-piriche. Si tratta di quelle connessioni che si manifestano nei modi dell’ordine razionale, nella forma del pensiero categoriale, a cominciare dalle categorie di spazio e di tempo. Queste connessioni, seguendo i-dentificatoriamente le linee-guida della razionalità dell’ambiente (della sua specifica identità culturale) tendono a ribadirsi, ad auto-confermarsi nel tempo, consentendo così all’esserci-in-formazione una stabilità co-gnitiva tale da promettergli una quiete analoga a quella della originaria consonanza coscienziale.

Se la prima conversione consiste nell’accesso all’umano Mit-dasein emergente con atti di coscienza dall’opaco vivere passivamente della creatura, una seconda conversione consiste nell’accesso alla cultura as-sumendone le forme con lo sviluppo della razionalità. Ma la razionalità ha una lingua biforcuta come quella del mitico serpente: la conoscenza che vi si fonda promette una quiete dopo le tempeste incontrollabili, in-nominabili del proprio essere stato oggetto dell’arbitrio sovrano dell’ambiente, ma sono la stessa razionalità e la conoscenza che si svi-luppa attraverso essa a corrodere la stabilità delle sue costruzioni. Il convertito al potere della ratio si proclama sovrano su un mondo a lui assoggettato, si conferisce un’identità sub specie aeternitatis sia asse-gnandosi un’anima immortale sia rispecchiandosi negli universalia di cui presume sia fatto oggettivamente il mondo (vedi la citazione di Ed-dington riportata sopra).

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Se Cartesio parla di una res cogitans in opposizione ad una res e-xtensa ne parla come di due enti ontologicamente, metafisicamente, di-stinti. Così, al contrario, se Freud ed una parte cospicua delle attuali neuroscienze sostengono che la res cogitans è solo uno dei modi con cui la biologia cerebrale si manifesta, essi parlano di un monismo al-trettanto metafisico, in quanto coincidente con l’esperienza empirica immune dalle turbolenze non oggettivabili dell’esperienza vissuta. Ma queste “figure” razionali sono espressioni di un pensiero dimentico di se stesso, un pensiero che si riflette, forte della propria formata identità, nell’identità cosale del mondo, un pensiero che, seguendo la metafora del tessuto come intreccio di trame e orditi, racconta le trame del mon-do ignorando gli orditi di cui ogni racconto è intessuto.

Oggi il pensiero fenomenologico ed ermeneutico diventa riflessivo sulla sua razionalità, sulla sua attitudine riflettente (come Narciso che si riflette nell’immagine che lo riflette specularmente), e tremando sulla nietzsciana “morte di Dio” si propone come “pensiero debole” (Vat-timo e Rovatti). In questa “debolezza” si delinea fenomenologicamente il divenire di una razionalità che com-prende, che prende gli oggetti della sua investigazione – le trame del mondo reale – insieme alla pro-pria coscienza intenzionante – gli orditi della propria storica, contingen-te esistenza. Scriveva Heidegger:

L’uomo ancora non pensa, e invero non pensa perché ciò che va pen-sato si allontana da lui; che egli non pensi non è in nessun modo do-vuto soltanto al fatto che l’uomo non si rivolga in misura sufficiente a ciò che va pensato. Ciò che va pensato si distoglie dall’uomo. Gli si sottrae. Ma come è mai possibile venir a sapere qualcosa di ciò che da sempre si sottrae e anche solo dargli un nome? Ciò che si sottrae ri-fiuta la sua venuta. Ma: il sottrarsi non è un semplice niente. Esso è e-vento.

“Ciò che si sottrae” e a cui è difficile dare “anche solo un nome” è l’oscuro grembo di ogni gemmazione ideativa, è quel puro “evento”, sottratto alla memoria, in cui consiste l’essere venuti al mondo, in quel-lo specifico mondo per ciascun essere umano definito dalla famiglia come formata dalla e formatrice della sua specifica comunità di appar-tenenza. Oggi, sempre più diffusamente, come scrivevo alcuni anni fa (2003),

l’atto di conoscenza, come antenna che si insinua o come punta di tra-pano che perfora livelli superficiali per attingere a “profondità” ultime dell’essere, pesca in un vuoto sorprendente: gli “oggetti” scompaiono

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nella loro presunta metafisica fissità, non si danno più appigli empirici esaurientemente credibili per antenne o trapani, e questi si trovano in qualche modo costretti a dar ragione del vuoto da loro stessi prodotto. Che si tratti delle cose del mondo esterno o delle cose del mondo in-terno, non è più di queste che la conoscenza può dare una spiegazione definitoria, univoca e ultima, ma è solo dei tracciati, degli itinerari percorsi tra di esse che la conoscenza può alimentare se stessa. La co-noscenza, cioè, apre vuoti dove l’“esame di realtà” vedeva “pieni”, e questa apertura di vuoti non è più attribuita a difetti operativi di una macchina registrante, ma è intesa come la qualità più propria del pen-siero umano, del suo inter-esse, letteralmente essere in mezzo alle cose, e non sopra [scientificamente] o dentro [empaticamente] di esse. Questi spazi intermedi tra le cose sono occupati soltanto da linee sottili che connettono le cose tra di loro, componendo nel loro insieme un tessuto connettivo – una visione del mondo intesa come visione dei propri iti-nerari nel mondo – dal quale dipende il modo con cui l’uomo tocca le cose pur senza sapere nulla della loro “sostanzialità”.

Ma la rinuncia al traguardo di questa seconda conversione e al pensiero “forte” che da essa è nato non è cosa facile: la “verità” religiosa e quel-la “scientifica” (scienza intesa come l’insieme di trapani e antenne mi-rati alla sostanza oggettiva del mondo) oggi traballano, e con loro tra-ballano le stesse identità individuali e collettive che sul loro fonda-mento si sono istituite. Il fenomeno che devasta l’umanità a livello pla-netario è oggi il fondamentalismo sia religioso che (paleo)scientifico, ciascuno che si arroga una posizione dominante nella gerarchia dei va-lori in nome di una verità assoluta. Questi fondamentalismi si appog-giano nelle loro pretese sulle trasformazioni imponenti che le loro ve-rità hanno prodotto, nel tempo breve degli ultimi 3000 anni, a livello delle istituzioni sociali ed a livello della formazione di un sensus com-munis che consente oggi traffici e negoziazioni tra le più lontane tradi-zioni locali. Ma vien da pensare che queste verità, concepite al servizio dell’uomo, sono oggi solo al servizio di se stesse e, in nome di Dio o in nome della Natura, esse lasciano sgocciolare via la piena umanità dell’esserci. Come una madre, rappresa in una sua identità fossilizzata, non apprende il-figlio-che-diviene, esponendo questo a un “destino” autistico, così queste verità, incapaci di comprendere l’uomo-che-di-viene nella sua incompiutezza ontologica, lo fissano nella condizione di oggetto assoggettato ad un Ordine (sopra)naturale. Le derive autistiche a livello individuale (una per tutte: le tossicodipendenze) si riflettono in quelle forme di autismo collettivo rappresentate sia dalle teocrazie sempre più ridotte a residui fossili sia dalla tecnocrazia (figlia e serva

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dell’accoppiamento tra paleoscienza e poteri economici) che minaccia di sommergere il mondo con le proprie scorie.

Sotto la cappa di un “rifiuto” planetario il cuore dell’uomo continua a battere e l’orizzonte comprensivo di un pensiero “debole”, di un nuo-vo e diverso confronto con il mistero dell’“evento”, dello sviluppo del dialogo come fonte di conoscenza, nella rinuncia al confortevole racco-glimento negli assoluti, e quindi nell’accettazione della sfida del relati-vismo cognitivo che da ogni dove ci viene lanciata, vibrano in ciascuno di noi le parole di Pablo Neruda: «È per nascere che siamo nati».

VII. LE CONVERSIONI TERZE: IL FARSI ALTRO Ho concluso il paragrafo precedente con il paradosso di nuovi ri-nasci-menti oltre il dato empirico dell’essere nati una volta per tutte. La ra-zionalità relegherebbe questo enunciato nel regno fantasioso della poe-sia, oltre i confini certi dei propri dominî scientifici e teologici, ed af-fermerebbe: «O si è nati o non si è: terzium non datur». Verità e falsità si escludono reciprocamente e ogni mediazione ha il carattere evane-scente del fantasma che turba il nostro sonno e che, quando appare nel-le nostre dimore quotidiane con il suo essere non essente, scardina le nostre sicurezze avvolgendoci nel suo manto: l’angoscia senza nome.

Ho recentemente scritto (2006): “Sicuro”: dal latino se-curum dove il se- indica privazione e cura si-gnifica «interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impe-gna sia il nostro animo che la nostra attività» (Vocabolario Treccani). Chi è “al sicuro”, appoggiato coi piedi su un fondamento assunto come irriducibile verità, è dunque esonerato da “ogni interessamento solerte e premuroso”, essendo, per lo più, tale fondamento non solo una con-venzione cognitiva, ma anche una convinzione etica (basta qui ricor-dare l’“etica della convinzione” confrontata con l’“etica della respon-sabilità” in Max Weber [Op. cit.]).

Nell’urto incessante tra identità radicate nei loro fondamentalismi ra-zionali, ciascuna sicura di sé nel proprio sensus privatus, si indebolisce quel sensus communis che pure la razionalità ha prospettato all’interno dei propri paradigmi. Ma se, come abbiamo visto fin’ora, questi para-digmi si indeboliscono, ciò che essi mantenevano ai loro margini pren-de spazio con una nuova con-sistenza. Il divenire – l’uomo e il mondo che insieme divengono – non è più restringibile nell’ambito angusto della prevedibilità empirica né in quello della prevedibilità di fede in

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una vita ultraterrena. Eventualità, emergenza, possibilità, mutazione sono alcuni concetti chiave che pongono le cose in una realtà di-veniente, che si sottrae ad ogni definizione chiusa, sottraendole alla fis-sità del loro apparire perfette cioè chiuse nel loro tempo passato, quali che siano le trasformazioni che deterministicamente possano subire ad opera di cause altrettanto chiuse, perfette. Un principio di indetermina-zione impregna il nostro sapere tanto nelle scienze fisiche (Heisem-berg) quanto nelle speculazioni filosofiche (il viraggio del Dasein da soggetto a progetto), e il futuro, nella sua sostanziale imprevedibilità, entra con forza anche nel sapere psicoanalitico attraverso quel poderoso trittico composto nel titolo Memoria del futuro (Bion).

Heidegger (1927) fa di “cura” una parola chiave per leggere l’esistenza (il Dasein) in quanto co-esistenza (Mit-dasein), e distingue la cura autentica (Sorge) da quel curare inautentico (Besorgen) che ha il significato di procurare ciò della cui mancanza l’altro soffre. L’autenticità della cura consiste dunque in un atto che a partire dalla trascendentalità della coscienza (l’empatia) si prende cura della libertà dell’altro: il farsi testimone “solerte e premuroso” della fatica che l’altro compie per sottrarre il suo futuro all’oblio, a quell’oblio prodotto dal suo essere smarrito nei labirinti del proprio passato.

Individui o società la cui identità è prevalentemente ancorata ad una razionalità identificatoria, che sono quindi portatori di una verità in-controvertibile, si dispongono a curare nel senso del Besorgen, in quan-to questo atto è conferma e rafforzamento della propria verità, specie quando attraverso questo atto il “beneficiato” si conforma alla nor-malità identitaria del “benefattore”: questo avviene nel ristretto circolo famigliare o tribale dove al bisognoso è garantita l’appartenenza al suo collettivo e il godimento delle sue risorse alla condizione che egli ap-prenda e pratichi il lessico “comune”. Altrimenti è punizione (dal latino poena, la cui radice indoeuropea indica pagare) attraverso cui il “di-subbidiente” paga il suo debito (il dovere non assolto) per i benefici ri-cevuti e non adeguatamente ricambiati. Ma la tutela della propria iden-tità, non solo individuale ma anche collettiva, può arrivare al punto che la semplice apparizione del “diverso” provochi una reazione d’allarme che scatena una violenza distruttiva che esclude ab inizio ogni tentativo di assimilazione dell’altro alla propria normalità. Nessuna differenza tra la “follia” omicida a livello individuale e gli stermini di massa di intere popolazioni (Remotti, 1996): in entrambi i casi il senso privato, comune alla comunità di appartenenza originaria, impedisce l’accesso ad un senso comune esteso anche al “diverso”, che va eliminato perché il suo stesso esistere compromette la pretesa di unicità della verità che l’identità identificatoria sostiene e da cui è sostenuta.

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Se la prima conversione consiste nell’emergenza della coscienza come co-intenzionalità trascendentale da quel grumo biologico pre-mentale (non proto-mentale) che è lo zigote nei primi tempi del suo svi-luppo, e se la seconda conversione consiste nell’assumere come propria la “normalità” linguistica e comportamentale del proprio ambiente, so-no solo le conversioni terze che consentono all’uomo il suo pieno Mit-dasein: non è ancora co-esitenza quella in cui si declina l’esistenza at-traverso le sue prime due conversioni, perché l’altro è assunto nel pro-prio orizzonte solo in forza di una consonanza intenzionale o in forza di una condivisione di paradigmi razionali reciprocamente compatibili, di valori corrispondenti ad una medesima verità, anche se variamente de-clinata. Ma solo quando la diversità si annuncia come prodigio, quando essa mobilita non allarme ma stupore, quando la coscienza e la raziona-lità si dispongono ad un’apertura tale da consentire un moto di “interes-se sollecito e premuroso” verso ciò che fa sentire la verità con cui si è fino ad allora identificato come una gabbia e non più come una forza, solo allora si apre per lui la possibilità di una conversione terza. Uso questo aggettivo ordinale non solo perché indica un momento mutativo dell’esperienza successivo ai primi due, ma perché contiene un riferi-mento alla “terzità”, termine con il quale si indica un evento altro ri-spetto ai fatti che sono in gioco in un accoppiamento stabile ed abituale. In questo ordine di relazioni ogni fenomeno “terzo” che minaccia di al-terare la sua stabilità è prevalentemente visto con diffidenza e, quando dovesse produrre un’“alterazione” dell’identità della relazione di ac-coppiamento, esso viene represso nei modi più diversi.

È superfluo sottolineare che la repressione a cui faccio qui riferi-mento è cosa del tutto diversa da quella a cui si riferisce Freud: egli so-stiene (v. in particolare Freud, 1929) che la repressione si rivolge con-tro un primum, contro le energie pulsionali nelle loro espressioni anar-chiche, e che solo grazie alla repressione le medesime pulsioni possono essere utilizzate, via sublimazione, per la costruzione della civiltà. Nel-la prospettiva antropologico-esistenziale è l’apertura al terzo che viene repressa, cosa che inibisce la crescita individuale come lo sviluppo di intere civiltà, sotto il monito del tertium non datur: la verità unica e as-soluta è la fortezza in cui si rinserra l’identità individuale e collettiva.

Perché l’apertura al terzo sia autentica Sorge essa non può ridursi ad una manifestazione caritativa o di supponente tolleranza. Essa necessa-riamente implica una disidentificazione, per quanto parziale e oscillante nel tempo, dell’esserci (Da-sein) che diviene un con-esserci (Mit-dasein): questa trasformazione avviene alla temperatura dello stato na-scente, produce “quel rinascere per cui siamo nati”. Voglio con ciò dire che il terzo a cui ci si apre ci fa sperimentare specularmente una nostra

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propria intima alterità: non siamo più gli stessi. Nel concepire l’Altro nella sua diversità, nel fare Altro l’altro, noi stessi ci alterifichiamo. Conio questo neologismo per sottolineare il novum di questa conver-sione rispetto a quella già compiuta, “perfetta”, dell’identificazione.

Ma la ratio con la quale necessariamente cerco di nominare l’innominabile evento dell’esperienza di rinascita (v. sopra la citazione di Heidegger sull’impensabilità dell’Evento che si sottrae alla ragione) produce enunciati che rischiano di veleggiare nel mondo degli univer-sali, con una pretesa di verità in sintonia o in contrasto con mille altre pretese analoghe magari ben più documentate. Se parlo di esperienze vissute, queste devono essere embodied (direbbe Varela), incarnate in quel corpo vivente da cui nascono atti intenzionali della coscienza che concependo il mondo come Altro, ne viene a sua volta “alterificato”. Allora, se parlo di esperienza di rinascita implico necessariamente un accoppiamento generativo di cui è paradigmatico l’accoppiamento a-moroso. Sul piano del corpo anatomo-fisiologico l’accoppiamento è quella vicenda che consente a due gameti di compenetrarsi per la pro-duzione di un nuovo ente cellulare che non è uguale alla somma dei ca-ratteri dei due gameti ma è il prodotto delle loro imprevedibili combi-nazioni molecolari, è una vera e propria “terzità”. Sul piano del corpo vivente l’accoppiamento sessuale umano nella sua interezza8 è quell’evento per il quale due individui sono reciprocamente attratti dal-le loro specifiche differenze, dall’essere l’uno per l’altro estranei, dove l’estraneità anziché essere rigettata nell’indifferenza o produrre timore, viene avvertita come un invito, come un appello a superare una frontie-ra per accedere ad un mondo libero da tutti i vincoli che costringono il proprio mondo abituale: “sono libero/a” è l’espressione magica che, ol-tre il suo significare non avere rapporti amorosi in atto, esprime la di-sposizione di un’esistenza a intrecciarsi in modo esclusivo ad un’altra esistenza, dischiudendo così lo spazio totalizzante di un “noi”. Questo reciproco intenzionarsi come portatori di libertà – quella condizione u-topica che accende per Kant “la più violenta delle passioni” – genera la prepotente necessità di scoprirsi, di denudarsi, di lasciare che l’altro possa accogliere la disadorna essenzialità della propria risposta all’appello. Da questo “perdimento d’amore”, da questo “noi” incar-nato, può scaturire una nuova declinazione del co-esistere nei modi del-la reciproca cura: una relazione inter-soggettiva in cui le differenze tor-nano a disegnarsi come alterità-in-rapporto, come un Mit-dasein non più affidato soltanto ad una consonanza intenzionale creatrice di uno 8 La sessualità è in tutte le culture ampiamente usata per il raggiungimento di sco-pi individuali o sociali che la sottraggono alla dimensione dell’esistenza nella sua trascendentalità.

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“spazio noi-centrico” (Gallese) ma allevata in un reciproco intenzio-narsi come Altro, nei suoi limiti storici e nel suo implacabile anelito al-la libertà.

Questa conversione terza in cui consiste il processo di alterificazione non ha quel carattere di stabilità che caratterizza le prime due conver-sioni: essa può essere abortita ed è in ogni momento esposta al ritor-nante dominio dell’identità secondo tradizione. Non sempre si regge “l’insostenibile leggerezza dell’essere” (secondo la felice immagine di Kundera), e la sicurezza, – il “sine-cura” – garantita dalla propria iden-tità identificatoria, razionalmente “vera”, è canto di Sirena nel mare a-perto dell’alterificazione.

VIII. CONCLUSIONE

Lo svolgimento di questo mio discorso potrebbe far pensare che io a-dotti il termine conversione (prima, seconda, terza) come un analogo di “fase” o “stadio”, secondo una visione di uno sviluppo lineare della co-scienza, a parità dello sviluppo dei processi cognitivi per Piaget, o delle vicende pulsionali per Freud. Il mio racconto è lineare – dalle Premesse alla Conclusione – ma non i suoi contenuti: se, ad esempio, dico che la prima conversione consiste nella mentalizzazione di un grumo di mate-ria vivente, l’embrione, non intendo questo processo come compiuto una volta per tutte in una definita età, perché esso si sviluppa ogni volta che il corpo anatomico (Körper) diviene oggetto di coscienza e quindi corpo vissuto (Leib). Così, quando parlo degli affari del sesso ne sotto-lineo le sue componenti antropologico-esistenziali e parlo della mede-sima libertà di cui parlo a proposito della relativa emancipazione del soggetto intenzionale dal suo essere subjectum alla fisica molecolare e cellulare del mondo in cui inizialmente si forma, o della sua emancipa-zione, sempre relativa, dall’arbitrio altrui grazie allo sviluppo delle sue capacità razionalmente volitive. Non c’è momento dell’esistenza in cui non entrino in gioco quei modi cognitivi pre-razionali a cui Bion fa ri-ferimento con la nozione di protomentalità, del cui fondamento neuro-nico la neurofenomenologia potrà forse un giorno dirci qualcosa di spe-cifico, che si esprime nella produzione di “idee fetali” o di “pensieri selvatici” (Bion, 1998; Napolitani, 2002): qualunque esperienza che possa essere riferita ad uno “stato nascente” può essere compresa solo riferendoci ad una “protomente”, che non può quindi essere ridotta ad una condizione di “immaturità”.

Potrebbe inoltre apparire che l’identità, quale costruzione immagina-ria fondata su processi d’identificazione, costituisca un vincolo che si

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oppone a quella passione violenta che è l’anelito alla libertà. E, po-tremmo dire, qualcosa più che un vincolo: un animale in gabbia è quell’essere vivente che dispone di attitudini comportamentali perfet-tamente compiute e tali da minacciare l’ordine nel quale l’uomo lo co-stringe vincolandolo in una gabbia. L’uomo al contrario si va facendo in quell’indefinito processo antropopoietico attraverso quella condi-zione di cattività in cui è inscritto lungo tutto l’arco della sua vita: è la gabbia che lo fa diventare uomo, fino al punto in cui ne può parzial-mente emergere o ne può modificare l’intera struttura. F. Remotti (1996) affronta il medesimo problema nel suo Contro l’identità nel quale sottolinea più volte che i vincoli identitari sul piano delle istitu-zioni culturali sono il terreno su cui l’uomo produce la sua umanizza-zione nel suo storico divenire.

Solo quando l’identità identificatoria non concede spazi all’incontro con l’Altro, non tollera quella lacerazione che questo incontro le pro-duce nel fare Altro se stessa (un parto!), l’uomo si declina in quell’esistenza mancata che Heidegger chiama deiezione. E qui torno alla proposizione di Kant circa il senso privato: il senso è privato quan-do è comune ad una collettività ristretta di tipo tribale, con i suoi riti ri-gidi e non “parlabili”, con il suo ordine non negoziabile per cui l’Altro non può essere che il nemico. È questo senso arcaicamente comune che si oppone anche violentemente ad un senso attualmente comune, il sen-so dell’incontro con il diverso (ciò che appare al di fuori del perimetro dell’ethos – della dimora delle origini), dell’apertura al dialogo, dell’amore nella sua autenticità.

Se mi sono soffermato sul tema della cura non è solo perché essa è un modo di manifestarsi dell’eros nei processi della conoscenza conce-pitiva (cioè non solo razionalmente apprenditiva e categorizzante), co-me già anticipato da Platone nel suo Simposio, ma perché attraverso questa prospettiva fenomenologico-ermeneutica la pratica psicotera-peutica si svincola dai canoni della tradizione positivistica in cui è nata. Ripropongo qui una delle citazioni di Kant che ho posto in epigrafe:

Chi può essere felice soltanto in base all’arbitrio di un altro (sia poi questo tanto benevolo quanto si vuole), si sente a ragione infelice.

L’infelicità di una persona che chiede la mia cura non è la stessa cosa delle note dolenti con cui un malato informa il suo medico di un’insufficienza o di una disfunzione di un organo: l’infelicità è limita-zione della propria libertà a progettarsi, a prendersi cura dell’Altro e quindi di se stesso, come se la sua coscienza fosse “a posto” solo nel suo continuare a trascendersi nell’Ordine tribale in cui è nato piuttosto

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che in una nuova “comunanza” in cui si profila l’avventura dell’alterificazione.

Tutto il percorso fin qui tracciato intende contribuire allo sviluppo del progetto antropologico-esistenziale in cui confluiscono, organica-mente intrecciate, tutte le discipline che si occupano dell’uomo nel mondo-della-vita (Lebenswelt), espressione introdotta da Husserl per distinguere il mondo, come costruito dalla coscienza intenzionale, dal mondo della scienza, che si fonda su una presunta obiettività della co-noscenza che crede di operare su una cosalità in sé essente. Una scienza della coscienza non pretende di ridurre a pura illusione la scienza natu-ralistica ma introduce una riflessione sistematica sul fondamento co-scienziale di ogni forma di sapere, cosa che viene oggi confermato cla-morosamente dalla ricerca neuroscientifica: non più lo studio del cer-vello come parte di un corpo anatomico o biochimico in sé, ma come una co-costruzione ad opera di componenti materiali, geneticamente dati, e di componenti esperienziali della trascendentalità della co-scienza. Il mondo-della-vita non enuncia dunque un principio astratto ed universale ma esso indica il farsi concreto del mondo per l’uomo che lo abita: la sua concretezza (dal latino concretus, part. passato di con-crescĕre) si offre all’esperienza empirica attraverso la sua cultura, il che significa attraverso le sue istituzioni, dure, persistenti, perentorie come le pietre miliari che definiscono le strade dell’uomo in cammino. Nessuna differenza nel processo di formazione delle culture di intere comunità e il processo di formazione di quella singolare cultura che de-finiamo identità individuale.

Non c’è società umana che non sia la sua storia, dalle sue più lon-tane e oscure origini fino alla sua piena attualità, e non solo perché essa può essere ricostruita attraverso tradizioni orali o scritte o attraverso re-perti archeologici o addirittura fossili, ma perché essa si ripropone nel presente sia in alcuni caratteri che appaiono assolutamente specifici e non contaminati da altre culture (i primitivismi culturali) sia in altri ca-ratteri che raccontano le ibridazioni avvenute nel tempo con le più di-verse culture. Possiamo con ciò dire che, salvo rarissime eccezioni, non ci sia oggi gruppo etnico che non presenti nel complesso delle manife-stazioni della sua vita materiale, sociale e spirituale elementi ancora vi-vi, fattualmente attuali, di culture terze con cui si sia incontrato, e per lo più scontrato, nel corso del suo sviluppo. Anche per i gruppi etnici pos-siamo parlare di conversioni terze, e come per lo sviluppo dell’identità individuale ogni processo di alterificazione lascia tracce indelebili che si attualizzano nel comportamento e nell’ideazione, così avviene nei gruppi etnici in cui si combinano o si urtono disposizioni conservative fino ad estremi fondamentalistici con disposizioni aperturiste che fanno

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dell’accoglimento attivo dell’estraneo un valore che produce ricchezza, nel senso più comprensivo del termine.

Possiamo con ciò affermare che ogni civiltà è in sé multiculturale come multiculturale è l’identità complessa di ogni singolo individuo ed, usando la metafora linguistica, possiamo dire che ogni forma di idioti-smo (costrutto linguistico idiomatico, non inserito in un paradigma o schema di derivazione, dal greco idiōtismòs, “vita da privato”), costitui-sce, nelle relazioni interpersonali come in quelle interetniche, una “for-tezza vuota” (l’autismo, secondo Bettelheim) che si oppone con vio-lenza alla circolazione ermeneutica che alimenta il sensus communis nel suo divenire.

Post scriptum

Prima di dare alle stampe questo mio lavoro, l’ho inviato in lettura a molti amici e colleghi, sia appartenenti alla mia medesima area cultu-rale sia cultori di altre discipline, per riceverne commenti che mettes-sero in evidenza mie lacune espositive o aspetti critici dei contenuti che ho cercato di proporre. Mi è stata, tra l’altro, contestata una mia pre-sunta unificazione tra psicologia e antropologia non solo per un loro re-ciproco rimando a comuni paradigmi epistemologici ma addirittura per una loro confluenza in un’unica sagoma professionale. Cerco di chiarire.

Ogni disciplina accademicamente statuita si declina in una grande varietà di pratiche professionali – le specializzazioni –, che reciproca-mente si riconoscono affini per la comune matrice accademica. Così in medicina un internista, un chirurgo, un anatomista, un medico legale, un neuroscienziato, e ogni altro specialista o sottospecialista, hanno in comune il medesimo oggetto di osservazione, di indagine, di cura: un corpo come aggregato di molecole, cellule, organi, definiti e sempre meglio definibili nelle loro funzioni reciproche e di contatto con un mondo, esterno ai tegumenti in cui sono racchiusi. Anche lo psichiatra si legittima nell’ambito della medicina in quanto osserva, indaga e cura un particolare organo di questo corpo, il cervello come sicura base biolo-gica di ogni processo senso-motorio, ideativo e quindi comportamentale.

E lo psicologo? Egli ha uno statuto accademico distinto da quello della medicina, differenziandosi quindi dal medico allo stesso titolo con cui se ne differenziano avvocati, filosofi, letterati, economisti e simili. Nessuno di questi assume però come suo riferimento fondamentale le istituzioni linguistiche e pragmatiche di un altro e, pur occupandosi tut-te dell’uomo, non si occupano del suo corpo che rimane di ambito e-sclusivo della medicina. Perché soltanto la psicologia vi fa ricorso cer-

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cando di trovare un suo spazio (ahi, quanto subalterno!) nelle istituzioni sanitarie e nel territorio delle scienze biologiche? Perché non valorizza e amplifica la sua ufficialmente riconosciuta autonomia epistemologica e professionale per diventare “ancella” del sapere e delle pratiche medi-che? Perché le associazioni psicoanalitiche hanno sin dalle loro origini privilegiato come titolo per nuove associature coloro che vantassero una laurea in medicina? Perché nel corso della sottospecializzazione in psicoterapia gli allievi sono per lo più richiedenti precise informazioni sulle categorie diagnostiche, sulle cause patogenetiche, sui rimedi tec-nici da adottare nel loro mestiere di terapeuti in funzione di presunte specificità patologiche, piuttosto che interessarsi a “che cosa significa pensare” a confronto del pensare del proprio cliente?

Il senso comune dell’operare scientifico è tutt’oggi fortemente anco-rato ai paradigmi della macrofisica (e non più della microfisica) domi-nati dalla dicotomia soggetto/oggetto, di cui l’oggetto è empiricamente e statisticamente verificabile e prevedibile ed il soggetto è una variabile da tenere sotto controllo perché le sue inferenze nell’osservazione pos-sono, oltre un certo limite, alterare l’“oggettività” dei fenomeni osser-vati a cui porre rimedio. Basti pensare all’enfasi che nella cultura psi-coanalitica si dà alla “neutralità” dell’analista. Il potere persuasivo di questa logica è tanto imperante (anche al di fuori dell’ambito scienti-fico-professionale) da rappresentare l’ossatura della nostra identità cul-turale, da costituirsi come il senso comune che individualmente ci per-mea come patto di appartenenza alla comunità di cui siamo parte.

Il senso privato non è soltanto quello che fa riferimento ad una nor-malità originaria, ma può essere anche inteso come la proposta di nuove normalità in un mondo compattato su un suo consolidato senso co-mune. Questo tipo di proposta è promessa o minaccia di alterificazione, di un’esperienza di disidentità attraverso la quale si annuncia una terzità che, nel nostro caso, fa violenza alla logica del subjectus versus objec-tum, con il suo implicito monito: “terzium non datur”. Nel suo aforisma più sopra citato Nieztsche dice fra l’altro che ogni nuova conoscenza entra nel mondo «piuttosto clandestinamente, per vie traverse, avan-zando col capo velato o mascherato, simile a una delinquente e sempre almeno col sentimento di una contrabbandiera».

Se, come io faccio, non invento una nuova scienza ma rilancio, con miei modesti contributi originali, una prospettiva scientifica vecchia di circa un secolo, ma che ha avuto accoglienza in tutti i saperi umanistici ma non nell’ambito psichiatrico-psicologico di cui pure Binswanger (u-no dei suoi fondatori) faceva parte, appaio come “un delinquente”, non ostante il fiorire negli ultimi decenni di sviluppi teorici e di approcci clinici squisitamente fenomenologici. Per rimanere nel nostro ambito

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professionale e nei confini del nostro paese basta ricordare i nomi pre-stigiosi di D. Cargnello, B. Callieri, L. Calvi, U. Galimberti, S. Mistu-ra, G. Stanghellini, E. Borgna, G. Di Petta, M. Rossi Monti e di tanti al-tri che in varia misura considero miei maestri o, comunque, compagni di viaggio.

Non è questo, nella sua specificità locale, un esempio paradigmatico delle aperture laceranti del multiculturalismo così come oggi si impone a livello globale?

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