La cultura contadina nel Triangolo Lariano rivissuta ......sopra di me Dedo, perchè era il più...

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Bando Cariplo anno scolastico 2013/14 La cultura contadina nel Triangolo Lariano rivissuta attraverso i racconti Lavoro realizzato da:Gilardoni Marco,Tettamanti Luca, Siena Lorenzo,Cozzani Ludovico.

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La cultura contadina nel Triangolo Lariano

rivissuta attraverso i racconti

Lavoro realizzato da:Gilardoni Marco,Tettamanti Luca, Siena Lorenzo,Cozzani Ludovico.

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L'aereo assassino

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Tra il 1943 e il '44 un aereo inglese era solito sorvolare periodicamente il lago di Como, mitragliando con la sua 20mm. La sua base non poteva essere molto lontana, era sempre lo stesso e nei suoi raid fece più di una vittima. Presso Varenna uccise un padre con suo figlio. Ognuno di loro guidava un carro carico di fascine: l'aereo, apparso all'improvviso dal cielo, li mitragliò prima che si potessero mettersi al riparo. Durante un altro raid, prese di mira anche un piccolo battello che faceva servizio di trasporto persone in centro lago. Partito dal pontile di Menaggio, il battellino fu mitragliato mentre si stava dirigendo a Bellagio: le vittime furono tre o quattro, tra cui una giovane maestra di Pescallo.

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Un giorno d'estate del '44 comparve anche qui da noi: proveniente da Limonta, scese in picchiata tra S.Vito e la località detta “Il Pino” per colpire un auto Balilla che saliva da Regatola.

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Mio padre si trovava nel prato sottostante la strada e stava rastrellando il prato, quando sentì il rumore dell'aereo in avvicinamento. Vide salire da Regatola il taxista Mauri, detto barachin, con la sua Balilla; quando l'auto si trovò quasi all'incrocio, mio padre, gesticolando fece capire all'autista che l'aereo killer era nei paraggi. Barachin allora portò rapidamente l'auto alla curva dell'incrocio e corse a piedi verso il ristorante Bellavista. Mentre correva, partirono i colpi della 20mm dell'aereo. Mio padre si riparò contro il muro di sostegno della strada: ricordo che mi disse che le pallottole, cadendo nel prato, alzavano la terra come le talpe. In un palo della recinzione del parato soprastante la strada si vede tuttora il foro di un proiettile, che ne trapassò il metallo. I nastri delle cariche dei proiettili caddero, invece, sopra S.Vito.

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Proprio mentre l'aereo stava mitragliando la Balilla di barachin, sopraggiunse un signore di Magreglio, detto Puliròo, a bordo del suo carro carico di mele, proveniente da Regatola. I due cavalli, attaccati in fila indiana al carro, si spaventarono a tal punto all'udire i colpi che si girarono, tornando indietro di corsa; al tornante, affrontato troppo velocemente, il carro però si ribaltò e le mele rotolarono giu per la strada sterrata, seguendo l'avvallamento predisposto per lo scolo dell'acqua. Le donne di Regatola, alla vista di quel ben di dio che rotolava per strada, corsero fuori dalle case, incuranti dell'aereo, per raccogliere cio che la provvidenza mandava a loro.

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L'aereo assassino, dopo aver fatto la picchiata e mitragliato fortunatamente stavolta senza vittime, si rialzo verso S.Giovanni e riprese quota andando in direzione del monte Crocione. Io mi trovavo in montagna nei pressi del ristorante la Busciona e stavo scendendo lungo la strada con il carro carico di legna, trainato da un asino. Con me vi erano altri quattro trasportatori, ognuno con il suo carro carico di legna: stavamo tutti andando in piazza a Breno dove c'era la pesa pubblica. Da quella zona abbiamo assistito all'evoluzione dell'aereo, preoccupati dal fatto che, coi carri, saremmo stati un facile bersaglio se l'aereo si fosse diretto verso di noi. Giunti a Breno, dopo aver pesato i nostri carichi, il nostro piccolo convoglio si divise: due andarono a Visgnola, uno a Suira, mentre io e il mio amico Giulio, detto Marmin, dovevamo proseguire per la Cà Negra, vicino al palazzo scolastico, per consegnare la legna.

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Giunti dinanzi a Villa Giulia, un camion a rimorchio mi tamponò, facendo cadere alcune fascine. Nel frattempo si sentì in lontananza il ben conosciuto rumore dell'aereo, che ne preannunciava il ritporno. In fretta, io e Giulio ripartimmo allora coi nostri carri. Imboccata la strada che porta alle scuole comunali, vedemmo l'aereo che stava di nuovo sorvolando Bellagio. A quel tempo, la strada che saliva verso le scuole era una stradina stretta, fiancheggiata da muri: attorno, e su fino Aureggio, vi erano solo campi e filari di viti.

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Sentendo l'aereo avvicinarsi, presi dalla paura di essere mitragliati, staccammo gli asini dai carri e, aperto un portone che dava in un podere di fronte all'attuale Albergo Fioroni, ci rifugiammo tra i filari d'uva. Era tempo di vendemmia e quando l'aereo ci sorvolò, noi ce ne stavamo ormai tra le fronde mangiando quell'uva matura, mentre i nostri due asini brucavano addiritura i grappoli direttamente dei filari! Così la paura finì in una festa.

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L'albero della cuccagna

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Nel 1953, in occasione della festa di S.Giovanni, si pensò di allestire in piazza un albero della cuccagna; l'idea fu di Don Enrico, il vicario di Don Giulio Botta. Il tronco utilizzato era di notevoli dimensioni: cinque persone, una sopra l'altra, giungevano solo a metà della sua altezza. Lo issarono dinanzi all'oratorio e, per dargli un buon appoggio, scavarono una buca profonda: così facendo, vennero però alla luce delle ossa umane dell'antico cimitero.

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Sulla cima dell'albero fu collocata una ruota di bicicletta fissata orizzontalmente e ad essa furono appesi salami, salsicce, fischi di vino, un prosciutto ed altre delizie; alla base del palo fu, invece, collocato un cesto contenente tutto il necessario per preparare una cena ad un numeroso gruppo di convitati: tutto ciò costituiva il premio per chi fosse riuscito per primo a raggiungere la cima.Alla scalata dell'albero della cuccagna si poteva partecipare singolarmente oppure in squadre, ma alla gara potevano prendere parte solo non più di cinque componenti di ciascuna squadra alla volta.

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Io ed i miei amici coetanei di S.Giovanni formammo una squadra chiamata “ I Ragazzi dell'Oratorio” perchè frequentavamo l'oratorio parrocchiale che, a quel tempo, aveva sede al Palazzone di Guggiate, nei locali al pian terreno. Avevamo undici-dodici anni e tutto quel ben di Dio appeso all'albero della cuccagna ci ingolosiva parecchio. Per rendere più difficile la scalata, il tronco era stato lisciato e cosparso di grasso: questo creava le maggiori difficoltà, ma era comunque permesso aiutarsi nella salita utilizzando della segatura per rendere meno viscoso il tronco. Oltre alla nostra, si erano iscritte due squadre di “cuntrabandée de Lescen” composte da giovani di 18-20 anni: erano tutti ragazzi agili, perchè abituati ad andare per montagne con la bricolla; poi c'era una squadra di ragazzi di S.Giovanni, anche loro diciottenni; infine si era iscitto pure Nino Bareton, presentandosi come singolo partecipante.

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Il primo tentativo lo fece proprio lui,Bareton: indossava una casacca di sacco, ma il grasso era tanto e scivolò subito fino alla base del palo. Dopo toccò ai ragazzi di S.Giovanni: si misero uno sopra l'altro, ma poi, non trovando alcun appiglio, anche loro alla fine scivolarono. Fu poi il turno della prima squadra dei cuntrabandée: anche loro salirono uno sopra l'altro e riuscirono perfino ad avanzare verso la cima più dei ragazzi di S.Giovanni che li avevano preceduti ma poi, nell'ultimo tratto, dovettero cedere anch'essi a causa dell'abbondante grasso ancora presente sul palo.

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A questo punto toccò a noi: sotto mettemmo Baleti, poi Togn e Tato, dopo io e sopra di me Dedo, perchè era il più minuto del gruppo. Da sotto spingevo Dedo che procedeva arrampicandosi. Nell'ultimo tratto il palo presentava una crepa e per me questo fu un notevole aiuto: un appiglio sulla superficie liscia! Ma poi nell'ultimo tratto della scalata, laddove nessuno era ancora arrivato, il grasso era troppo abbondante, gli altri sotto di noi cedettero e scivolammo giù pure io e Dedo.

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Dopo di noi toccò alla seconda squadra dei cuntrabandée di Lezzeno che, per poco, non arrivò in cima al palo. Si ricominciò dunque da capo con Bareton. Al secondo giro, sul palo non c'era quasi più grasso e fu semplice per tutti avanzare, ma né Nino Bareton né la squadra di S.Giovanni e né la prima squadra di Lezzeno riuscirono a raggiungere la cima del palo: ormai mancava comunque veramente poco.

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A quel punto toccò nuovamente a noi. Lì accanto, i ragazzi di Lezzeno si stavano già preparando per darci il cambio, sicuri che non saremmo riusciti ad arrivare in vetta nemmeno questa volta, in quanto eravamo i più piccoli e per questo ci deridevano. Questa volta scambiammo un componente della nostra squadra con un ragazzo più grande: Baruschi al posto di Baleti e mettemmo lui alla base. Così, con una base più solida e niente più grasso lungo il tratto iniziale del palo,riuscimmo in breve ad avvicinarci alla cima. Il grasso ancora presente nei pressi della sommità del palo, ci mise comunque nuovamente in difficoltà, anche se Dedo, sopra di me, continuava a spargere della segatura sul grasso pescandola da un sacchetto che aveva con se.

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Ad un certo punto, arrivato nei pressi della crepa nel tronco già individuato nel nostro primo tentativo, la sfruttai per attaccarmi saldamente al palo. Sotto di me sentivo che gli altri stavano ormai cedendo e decisi allora di agire subito: con un notevole sforzo, mi slanciai quindi verso l'alto dando così la spinta decisiva a Dedo che riuscì in tal modo ad avanzare quel tanto che ancora serviva per raggiungere, finalmente, i premi appesi sulla sommità del palo. Ce l'avevamo fatta!

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Ad un certo punto, arrivato nei pressi della crepa nel tronco già individuato nel nostro primo tentativo, la sfruttai per attaccarmi saldamente al palo. Sotto di me sentivo che gli altri stavano ormai cedendo e decisi allora di agire subito: con un notevole sforzo, mi slanciai quindi verso l'alto dando così la spinta decisiva a Dedo che riuscì in tal modo ad avanzare quel tanto che ancora serviva per raggiungere, finalmente, i premi appesi sulla sommità del palo. Ce l'avevamo fatta!

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Festeggiammo la vittoria con un sontuoso pranzo, a cui parteciparono anche Don Giulio e Don Enrico, preparato con le cibarie vinte e cucinato dalla signora Antonietta, mamma del Dedo. Il nostro amico abitava a S.Giovanni, in via Loreti, nella portineria della Villa Galimberti: i suoi familiari erano, infatti, i custodi di questa villa. Sua madre allestì la tavolata al pian terreno della portineria, in un ampio salone dal pavimento di graniglia rossa, lucida a specchio, arredato con mobili antichi, tra i quali spiccava un grande tavolo circondato da sedie in stile savonarola.

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Il monte San Primo e la leggenda dei sette fratelli

eremiti

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“Tanti e tanti anni fa, in un imprecisato paese del nostro lago, sette fratelli devoti a Dio decisero di dedicare la loro vita alla preghiera e alla solitudine e, per questo motivo, ciascuno di loro si ritirò in un proprio eremo, tutti ricavati in luoghi solitari, lontano dalla vita comunitaria. La leggenda ricorda i nomi di questi sette fratelli ed il luogo del loro eremitaggio: San Sfirio, il maggiore dei fratelli, si ritirò sulla vetta del monte Legnoncino. San Defendente scelse il monte Cavedino, nel territorio tra Perledo ed Esino. San Primo andò sulla vetta più alta di Bellagio, che ora porta il suo nome. Sant'Amate preferì invece la sella tra il monte Bregagno e la Grona. San Lucio andò sulle montagne della Val Cavargna. San Jorio si rifugiò presso l'omonimo passo al confine con la Svizzera. Sant'Eufemia, l'unica sorella, preferì invece non rifugiarsi ad altitudini elevate e si ritirò sul ceppo di Musso.

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Questi luoghi, benchè distanti tra loro, erano dislocati in modo da formare una catena visiva. Ogni eremita alla sera, accendendo un fuoco presso il proprio eremo, era visto e vedeva lui stesso almeno altri due fratelli; con questo sistema di collegamento, ogni sera si salutavano l'un l'altro e si accertavano che tutti i fratelli eremiti godessero di buona salute”

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Questa leggenda ha una sua base storica, e cioè l'utilizzo di fuochi come sistema di segnalazione, tra postazioni strategiche visivamente collegate tra di loro. Fin dai tempi dell'Impero Romano, l'utilizzo di questo sistema di segnalazione permetteva, in poco tempo, la trasmissione di informazioni dai passi della Rezia lungo il lago fino alla pianura e viceversa. La visione notturna di questi fuochi, condita con un poco di religiosità e tanta fantasia, diede origini a questa leggenda che si narrava la sera ai bambini prima di metterli a letto.

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Esistono diverse varianti di questo racconto, che differiscono l'un dall'altra al variare del paese dove viene narrato. Ad esempio, Pietro Pensa nel suo libro “Noi gente del Lario” cita la versione valsassinese, in cui la sorella eremita è considerata S.Margherita anziché S.Eufemia e si narra che si ritirò presso Casargo, località visibile da gran parte della Valsassina; similmente, in Val Varrone si tramanda un altra versione della leggenda che considera stavolta San Ulderio come uno dei sette fratelli eremiti e si racconta che scelse la sua dimora sul monte Croce di Muggio poiché questa zona è ben visibile dagli abitanti di Pagnona, mentre è sconosciuto a chi abita in centro lago.

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Tra i fratelli eremiti è citato anche S.Primo il quale, dice questa leggenda, si ritirò sulla montagna di Bellagio che da lui prese poi il nome. Storicamente sappiamo che su quella vetta sorgeva un tempo una chiesetta dedicata ai Santi Primo e Feliciano: fratelli che vennero martirizzati a Roma nel 3° secolo, all'epoca dell'imperatore Diocleziano. Si narra che, dopo molte torture, vennero gettati in pasto alle belve nell'arena, le quali però sorprendentemente non li sbranarono, ma vi si avvicinarono mansuete, costringendo quindi i loro carnefici ad ucciderli per decapitazione.

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Per il fatto di essere stati risparmiati dalle belve feroci, Primo e Feliciano vengono considerati i santi protettori dagli attacchi delle fiere. La chiesetta, edificata sulla vetta della montagna più alta del Triangolo Lariano, aveva proprio lo scopo di invocare la protezione di questi santi in una zona notoriamente infestata da lupi e orsi: l'ultimo orso venne avvistato nel 1886 mentre branchi di lupi, che per fame si spinsero ai confini dei centri abitati, sono registrati nelle cronache di fine settecento. La dedicazione dei questa chiesetta diede poi il nome di S.Primo all'intera montagna, il cui originario appellativo è andato perduto.

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La più antica documentazione a noi pervenuta a riguardo di questa chiesetta è un atto di compra vendita risalente al 1399 in cui, tra i proprietari di alcuni appezzamenti di terra nel territorio di Bellagio, è citata anche la chiesetta dedicata a S.Primo. Nel libro “Memorie storiche della Valassina” , scritto nel 1795 dal sacerdote Carlo Mazza, sono riportate prove documentarie che, in periodi antecedenti al sedicesimo secolo gli abitanti di alcuni paesi della Pieve di Asso vi si recavano processionalmente il 9 giugno, giorno di S.Primo. Questa consuetudine venne però interrotta a causa di disordini scoppiati tra gli abitanti di Sormano e quelli di Rezzago, confluiti in processione alla chiesetta durante un violento nubifragio; ecco, in proposito, quanto scrive il Mazza nel suo libro:

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“Caglio, Rezzago e Sormano per un voto fatto da tempo immemorabile si portavano processionalmente, ogni anno, alla già detta montuosa Chiesetta di S.Primo, per cantarvi la Messa nella Festa de' Santi Primo e Feliciano, ove solevano accorrere altri popoli. Trovatesi colà radunate le tre processioni, delle suddette nostre terre, in tempo che cadde una dirotta pioggia, nacquero vari disordini cagionati dal voler tutte ricoverarsi in quella chiesetta troppo piccola per contenerle, e dall'insolvenza della gioventù di Sormano che respinse a forza e discacciò quei di Rezzago, come si legge in una visita del 1603. In vista di ciò, prima il parroco di Rezzago e in appreso anche quelli delle altre terre, supplicarono per essere dispensati dal voto, il quale fu commutato nello sborso di un soldo all'anno, per ogni fuocolare delle loro rispettive chiese”

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Il Mazza cita anche un documento del 1596, attestante la devozione a S. Primo da parte degli abitanti di Valbrona: “Valbrona essendosi le tre terre di quella parrocchia obbligate per voto, anticamente, di fare ogni announa processione a S. Primo (ossia alla cappella di quel Santo, posta sopra il monte altissimo di tale nome) alla quale doveva intervenire uno persona per ogni focolare, si ottenne in seguito di cambiare il voto in un obbligo – che si assunse ogni focolare – di pagare annualmente alla sua chiesa soldi n°1 e dinari 6”. Si ricava tutto ciò da una visita del 1596.

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E' da notare che questa chiesetta si trova non solo sulla vetta della montagna più alta del Triangolo Lariano ma, anticamente, anche alla confluenza di tre pievi: Bellagio, Nesso e Pieve d'Isola (perché Lezzeno era parte della Pieve d'Isola), inoltre il territorio della Pieve di Asso era relativamente poco lontano; questo ne faceva meta di pellegrinaggi da ben quattro pievi! Il sacerdote Pietro Antonio Tacchi, arciprete di Nesso dal 1654 al 1690, afferma nei suo scritti che nella chiesa di S. Primo si celebrò fino al 1660 circa e che in seguito, malgrado il permesso vescovile, “non si ha potuto far li dovuti apparecchi per celebrarvi, stante la calamità dei tempi presenti”.

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Alla fine dell'Ottocento, di questa chiesa restavano solo pochi sassi perimetrali. L'allora arciprete di Nesso pensò pertanto di ricostruirla, aggiungendovi anche un rifugio alpino: l'idea venne accolta con entusiasmo dalla popolazione delle tre pievi di Nesso, Bellagio e d'Isola e nel autunno del 1900 iniziarono i lavori. Durante gli scavi vennero alla luce le fondamenta dell'antico edificio, che aveva l'abside volto ad oriente come si usava anticamente. Furono ritrovati anche calcinacci con tracce di affreschi ed un monolite con incisa una croce, che venne riutilizzato come architrave per la porta del rifugio. I lavori terminarono nell'estate del 1901 ed il 2 settembre la chiesa venne inaugurata “ Per salutare il nuovo secolo”, come dissero i promotori dell'opera, dedicandola a Gesù Cristo Salvatore ed a San Primo Martire.

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Questo nuovo edificio ebbe però vita breve: sappiamo, infatti, che negli anni '20 era ancora in piedi ma, già negli anni '40, della chiesetta restava solo un cumulo di macerie. Attualmente, sulla vetta del S. Primo si scorge solo una debole traccia dei sassi perimetrali.

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Il contrabbando: la testimonianza del Lüisin

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Nell'ascoltare i racconti dei nostri nonni, è impossibile non imbattersi in storie che parlano di contrabbando: alcuni narrano esperienze personali, altri riportano fatti appresi conversando con altri; nei paesi lariani, tutte le persone che hanno vissuto gli anni '50, '60, '70 e, ancora meglio, coloro che hanno vissuto anche la guerra e l'anteguerra, sanno cos'è una “bricolla” ed hanno sicuramente più di una storia da raccontare in merito. Ad ogni modo, eccovi una breve introduzione al contrabbando, giusto per dare un quadro sintetico della materia a chi non è molto ferrato in proposito.

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La parola contrabbando è composta da contra e bando e significa quindi contro la legge: con questo termine si indica, infatti, il passare la frontiera clandestinamente con delle merci senza pagare i dazi, cioè le tasse che lo Stato applica sulla merce importata. Si viola quindi la legge eludendo il pagamento delle imposte doganali.

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Alla fine del tredicesimo secolo, con il controllo del lago da parte dei Visconti, signori di Milano, venne istituita a Bellagio la figura del “ Capitano del Lario”, un ufficiale con compiti di dogana e di polizia su tutto il territorio del Lario. Per assolvere a questo incarico disponeva di due imbarcazioni chiamate “Correbiesse”, ciascuna dotata di venti remi e della capacità di circa sessanta soldati, con le quali pattugliava il lago a caccia di pirati e contrabbandieri: da questa documentazione se ne deduce che il contrabbando era già a quell'epoca largamente praticato! In tempi più recenti sappiamo che, durante il Risorgimento, dal confine Italo-Svizzero passavano non solo merci ma anche idee, sotto forma di giornali ed altre pubblicazioni patriottiche proibite che, stampate in Svizzera, erano poi portate clandestinamente nel Regno Lombardo-Veneto.

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Il contrabbando di merci si intensificò durante il Regno d'Italia, con l'istituzione dei Monopoli di Stato: dalla Svizzera si importavano clandestinamente in Italia soprattutto tabacchi, caffè, cioccolata ed anche orologi, mentre dall'Italia in Svizzera si esportavano generi alimentari quali riso, farina e salumi, soprattutto durante la seconda guerra mondiale quando nel paese elvetico vi erano difficoltà a reperire generi alimentari. Sono molti gli anziani che hanno esperienze da narrare in merito. E' questo un argomento che meriterebbe una ben più ampia trattazione ma, in questa sede, mi limito a riportare la testimonianza, comunque molto significativa, di una persona che era un vero esperto in materia: el Lüisin de Crela.

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Sala Luigi, classe 1915, meglio conosciuto come “el Lüisin de Crela”, deve il suo soprannome alla località Crella, presso S. Giovanni di Bellagio, dove sorge l'omonima villa con ampio parco in cui da generazioni la famiglia del Lüisin viveva, incaricata della sua custodia.

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Dotato di intelligenza e di astuzia non comuni, divenne famoso durante la seconda guerra mondiale grazie alla sua abilità di meccanico elettricista, al seguito dell'esercito italiano, nella tragica campagna di Russia: sapeva riparare e far funzionare i mezzi militari persino nella disastrosa ritirata, disponendo solo di pochi attrezzi e della sua abilità. Terminata la guerra ricevette numerose proposte di lavoro, anche da importanti case automobilistiche, che però rifiutò preferendo restare al suo paese, nella sua Crella.

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Applicò la sua genialità nelle attività tecniche e meccaniche più disparate: a tutto trovava soluzione. Ci si rivolgeva a lui per riparare dai semplici elettrodomestici ai più complessi impianti elettrici, idraulici e meccanici. Sempre cordiale, brillante nella conversazione, con l'immancabile sigaretta appoggiata tra le labbra, con sapienza e disinvoltura passava dalla messa a punto di una pregiata moto d'epoca alla riparazione del ferro da stiro della vicina di casa e... all'accomodamento o modifica di auto, spesso sistemandovi un doppiofondo, che venivano poi usate per il trasporto di sigarette o caffè di contrabbando!

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El Lüisin non si impegnava nel contrabbando solamente come meccanico, ma spesso partecipava di persona al trasporto dei sacch. Nelle nostre zone questa attività era un “secondo lavoro” : rischioso, permetteva un buon guadagno, ma per praticarlo necessitava di doti quali l'astuzia, intelligenza e la prontezza di riflessi, tutte caratteristiche di cui il Lüisin non era certo carente.

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Circa un anno prima della sua scomparsa lo intervistai chiedendogli di spiegarmi, a modo suo e secondo la sua esperienza, come “funzionava” il contrabbando: “Non era una cosa improvvisata al momento,” mi precisò innanzitutto, ”tutto era organizzato nei minimi particolari per eludere la sorveglianza e per incanalare la merce nel mercato nero. C'era el padron (il padrone), che organizzava tutto il percorso della merce, dalla partenza in Svizzera allo smercio in Italia, servendosi dei capp (i capi), che si occupavano delle varie fasi, assoldando gli uomini giusti e dando loro le direttive. Il trasporto della merce da contrabbandare era come a staffetta: un gruppo attraversava la frontiera, poi dopo un certo tratto le bricolle passavano ad un altro gruppo, e così via: potevano esserci vari passaggi, a seconda della destinazione della merce.

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Circa un anno prima della sua scomparsa lo intervistai chiedendogli di spiegarmi, a modo suo e secondo la sua esperienza, come “funzionava” il contrabbando: “Non era una cosa improvvisata al momento,” mi precisò innanzitutto, ”tutto era organizzato nei minimi particolari per eludere la sorveglianza e per incanalare la merce nel mercato nero. C'era el padron (il padrone), che organizzava tutto il percorso della merce, dalla partenza in Svizzera allo smercio in Italia, servendosi dei capp (i capi), che si occupavano delle varie fasi, assoldando gli uomini giusti e dando loro le direttive. Il trasporto della merce da contrabbandare era come a staffetta: un gruppo attraversava la frontiera, poi dopo un certo tratto le bricolle passavano ad un altro gruppo, e così via: potevano esserci vari passaggi, a seconda della destinazione della merce.

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El sacch, ossia la “bricolla”, era uno zaino fatto di tela di juta, tutto cucito e sigillato, con la merce stipata all'interno; anche gli spallacci solitamente erano della stessa tela. Erano ben fatti, ideati in modo da rimanere in alto lungo la schiena, dando in tal modo poco ingombro e quindi più libertà di movimento malgrado il loro notevole peso: trenta, quaranta chilogrammi, certe volte anche di più.

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Le spedizioni venivano fatte in gruppo, oltrepassando il confine a piedi, in fila, seguendo il più esperto. Come calzature si usavano i pedù e cioè delle scarpe fatte con della semplice tela juta cucita. Gli “spalloni” si cucivano queste scarpe ai piedi al momento, prima di partire dalla Svizzera con la bricolla in spalla. Questi pedù avevano il pregio di non fare rumore camminando: essere silenziosi era una delle prime necessità di un contrabbandiere. In tasca tenevano sempre un fulcin per ogni evenienza, anche per tagliare gli spallacci della bricolla e fuggire abbandonando il carico se proprio non potevano farne a meno; l'abbandono della bricolla era comunque una soluzione estrema: anche se scoperti, le tentavano tutte per salvare pelle e carico.

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Quelli con cui io avevo a che fare scendevano dalla Val d'Intelvi ed anche dalla Val Perlana, coi sacchi in spalla. Il sentiero lo sceglievano al momento, a seconda di dove si ritenevano più al sicuro dai controlli dei finanzieri. Al lago arrivavano ad Argegno, Colonno, Campo o Lenno. Come ho detto prima, i contrabbandieri lavoravano in squadre per darsi il cambio e velocizzare il trasporto: le bricolle giunte a destinazione potevano aver fatto molti cambi dalla partenza.

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Io mi occupavo del tragitto sul lago, trasportando le bricolle con la barca: non ho invece mai fatto il tragitto della montagna. Da Bellagio, io ed altri uomini partivamo con delle barche a remi in direzione dell'altra sponda dove, lungo la riva, in punti pattuiti tra Argegno e la Tremezzina, raccoglievamo le bricolle. Ovviamente tutta l'operazione di recupero si svolgeva di notte e dovevamo anche remare cercando di non far rumore. In seguito venne anche l'era dei motoscafi.

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Passava el capp e ci ingaggiava dicendo: ”Dumann gh'è un giir, te ghe set?” e, se si era disponibili, si accettava. I capi maneggiavano i soldi e si occupavano dei cambi, pagando i contrabbandieri solo a consegna effettuata. Sceglievano gente fidata, non i ladri, perchè un vero contrabbandiere aveva una sua etica, era un uomo di parola. Qui a S. Giovanni c'era gente di fiducia e c'erano anche ladri, come del resto anche negli altri paesi e, se si dava in mano una bricolla ad un disonesto, questi la faceva sparire. Ma i capp sapevano a chi rivolgersi per i cambi, evitando i ladri: bisognava starci attenti, anche durante i carichi e scarichi.

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Chi portava la bricolla erano solo uomini, con l'unica eccezione di alcune donne di Lezzeno: le ho viste personalmente caricarsi in spalla i sacch e lavorare come uomini. Dopo avere preso a bordo i sacch si andava a scaricarli dove indicatoci dai capp e - comunque, a nostra valutazione – dove in quel momento, era più sicuro andare per portare a termine l'operazione. Solitamente scaricavamo le bricolle dalle barche nella zona delle Ville presso S. Giovanni oppure alle Grosgalle, tra Bellagio e Lezzeno. Si andava però a scaricare anche a Colico, se necessario, oppure a Mandello, Valmadrera, Parè, spesso a Malgrate. In questi luoghi vi erano delle basi di riferimento: solitamente si trattava di osterie.

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C'era merce che entrava e che usciva dalla Svizzera. Durante la seconda guerra mondiale si portavano in Svizzera sacchi di riso e farina, provenienti dal mercato nero, che andavamo a prendere a Varenna dove giungevano via treno; in quegli anni, difficili per tutti, spesso erano richiesti dagli svizzeri anche altri generi alimentari quali i salumi.

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In tèemp de guèra tante persone espatriarono clandestinamente, valicando di notte le montagne di confine: soprattutto ebrei e ricercati per motivi politici, furono infatti in molti a fuggire in Svizzera eludendo la dogana, facendosi guidare da qualcuno pratico della zona lungo i sentieri del contrabbando. Anche la Principessa Ella Walker della Torre e Tasso si rifugiò in Svizzera per sfuggire ai nazisti che avevano occupato la Villa Serbelloni di Bellagio, dove lei risiedeva: scappò clandestinamente, con alcuni dei suoi domestici, dapprima in barca per attraversare il lago e poi a piedi sulle montagne in direzione della Svizzera. La Principessa aveva al seguito tutto ciò che dei suoi averi poteva portare con sé ma, purtroppo per lei, coloro che l'accompagnarono erano delle persone disoneste, e così giunse salva in Svizzera ma, durante il tragitto, quasi tutti i suoi averi sparirono!

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A questo punto del racconto, Lüisin rivive una tragica esperienza personale, che ancora dopo tanti anni provoca in lui una forte commozione: “ Un giorno, è stato nel '53, mi chiesero se c'ero per un giro, uno come tanti, ma io non potevo perchè avevo parecchio da fare in villa e non ce l'avrei fatta a liberarmi per tempo, e così al mio posto ci andò Berto Riscett. Quello che accadde a lui ed al Pep di Lezzeno, a bordo di un motoscafo al lago di Acquaseria, non me lo so spiegare ancora oggi: qualcosa comunque non quadrò, andò storto ed i due contrabbandieri si ritrovarono sotto il fuoco dei finanzieri che li avevano sorpresi. Per ripararsi dai proiettili, Berto e Pep si sdraiarono tra i sacchi, ma una pallottola li trapassò entrambi... Sì! Prima uno e poi l'altro, uccidendoli sul colpo! Dovevo esserci io al posto del Berto...”

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Dopo questa drammatica rievocazione, Lüisin il filo dei ricordi piacevoli: “Giravano tanti soldi in mano ai padron ed ai capp: negli anni d'oro del contrabbando, gli anni '50, quegli uomini ne maneggiavano una quantità indescrivibile. El Taca di Lezzeno si metteva in mostra arrotolando le mille lire e fumandole come sigarette. Maneggiava talmente tanta cartamoneta che, per calcolarne l'ammontare, non contava ma la pesava! C'è chi quei soldi ha saputo amministrarli bene, costruendo un buon futuro per sé e per i figli; altri, invece, li hanno spesi senza misura, soprattutto nei locali notturni e si sono trovati poi senza niente in mano.

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Quando le cose andavo bene e si riusciva a consegnare la merce di contrabbando senza problemi, si festeggiava: in questo caso, la classica domanda era sempre: “Cusa femm?” (cosa facciamo), alla quale solitamente si rispondeva: “Nemm a Milann a béef el cafè!“ (andiamo a Milano a bere il caffè) e realmente si andava fin là solo per bere il caffè e poi tornarsene a casa. A Milano ci recavamo nella galleria Vittorio Emanuele dove il più esuberante della nostra compagnia si recava sempre nel suo centro, per schiacciare con il tallone gli attributi del toro che vi si trova raffigurato sul pavimento. Si diceva che, andando a Milano, avrebbe portato fortuna compiere quel gesto: lui però lo faceva teatralmente e gesticolava a tal punto che i passanti scoppiavano in risate.

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Un giorno, sempre per festeggiare i guadagni, alla solita domanda: “Cusa femm?” abbiamo risposto: “Vemm a Genua!” ed in auto siamo andati fino a Genova, solo per bere un caffè. El Mucc di Lezzeno era veramente in gamba: sapeva sempre come districarsi e sfuggire alle guardie anche nelle situazioni più critiche: “Baloss cumè el Mucc gh'éra dumà lùu!” (Nessuno era astuto come lui). Quando era lui ad organizzare le uscite, i ragazzi ci andavano volentieri, perchè si sentivano al sicuro. Trovava sempre il modo per eludere i controlli e gli appostamenti della finanza. Un giorno riuscirono ad arrestarlo, ma fu solo perchè il motore della sua barca, naturalmente carica di sacchi, si guastò ed i finanzieri riuscirono quindi a raggiungerlo con il loro motoscafo.

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Una delle sue imprese più famose fu un viaggio di piacere con la moglie, destinazione Napoli, con l'auto carica di merce nel doppio fondo! Per eludere i controlli, el Mucc arrivò persino a travestirsi da prete, utilizzando una tonaca del fratello che, a quell'epoca, studiava in seminario: così abbigliato, passeggiava tranquillamente presso Argegno, sulla strada trafficata e sotto gli occhi di tutti, in attesa degli spalloni che scendevano carichi dalle montagne, per mettere poi i loro sacchi in barca ed attraversare il lago.

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Oltre ai tabacchi, caffè, cioccolata ed orologi, sul mercato nero un tempo veniva immesso anche il famoso “burro di Colonno”, costituito, in realtà, da margarina alla quale delle mani esperte aggiungevano solo una piccola percentuale di burro autentico. Dalla vendita di questo burro adulterato se ne occupavano le donne: nascondendolo dentro ceste o borse, lo distribuivano poi nei paesi e nelle città dei dintorni.

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Verso la fine degli anni '50 il modo di contrabbandare cambiò: ai contrabbandieri a piedi con il sacco in spalla, si sostituirono auto, furgoni e camion con il doppio fondo. Il contrabbando che io conoscevo terminò negli anni '70; l'importazione clandestina che esiste ora non ha nulla a che fare con la nostra vecchi attività de sfrusadòo: ora non si contrabbanda più caffè, sigarette e cioccolato.”

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I racconti sono stati tratti dal libro: -Tacàa al fööch

-L'aereo assassino: narrazione di Bernardon del Funtanin del Fòo; -L'albero della cuccagna:narrazione di Mario Maranesi;

-Il monte S.Primo e la leggenda dei sette fratelli eremiti:narrazione di Italia Cartocci;

-Il contrabbando:la testimonianza del Lüisin:narrazione di Luigi Sala detto Lüisin de Crela.

Le immagini sono state tratte dal libro “ Tacàa al fööch” e “Cento gondole lariane” entambi di Lucia Sala;

Dal libro “Itinerario fotografico letterario Del borgo di Bellagio tra L'ottocento ed Oggi” di Sissi De Carli, Carlo Gilardoni,

Lodovico Gilardoni