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LA CRISI ECONOMICO-FINANZIARIA COME CRISI DI SENSO IL RUOLO DELLA SOCIETA’ CIVILE
Stefano Zamagni
1. Introduzione
La crisi finanziaria, iniziata nell’estate 2007 negli Usa e poi diffusasi per contagio nel resto
del mondo, ha natura sistemica. Né di crisi congiunturale né di crisi regionale dunque si tratta. Essa
è il punto di arrivo, inevitabile, di un processo che da oltre trent’anni ha modificato alla radice il
modo di essere e di funzionare della finanza, minando così le basi stesse di quell’ordine sociale
liberale che è cifra inequivocabile del modello di civiltà occidentale. Duplice la natura delle cause
della crisi: quelle prossime, che dicono delle peculiarità specifiche assunte in tempi recenti dai
mercati finanziari e quelle remote, che chiamano in causa taluni aspetti della matrice culturale che
ha accompagnato la transizione dal capitalismo industriale a quello finanziario. Da quando ha
iniziato a prendere forma quel fenomeno di portata epocale che chiamiamo globalizzazione, la
finanza non solamente ha accresciuto costantemente la sua quota di attività in ambito economico,
ma ha progressivamente contribuito a modificare sia le mappe cognitive delle persone sia il loro
sistema di valori. E’ a quest’ultimo aspetto che si fa riferimento quando oggi si parla di
finanziarizzazione (financialization) della società. “Finanza”, letteralmente, è tutto ciò che ha un
fine; se questo fuoriesce dal suo alveo storico, la finanza non può che generare effetti perversi.
In quel che segue, mi soffermerò, brevemente, sulle cause remote della crisi. (Sulle cause
prossime, i contributi sono ormai schiera). L’intento che muove questa nota è quello di far emergere
dai fatti che narrano del disastro finanziario quell’ideologia fallace – travestita da presunta
scientificità – di cui si sono imbevuti operatori di mercato, autorità politiche di governo, agenzie di
controllo, quella specifica scuola di pensiero economico, oggi dominante, nota come mainstream
economico. Si tratta dell’ideologia che, a partire dall’assunto antropologico dell’homo oeconomicus
ovvero dell’egoismo razionale, giunge, dopo un lungo itinerario, alla conclusione che i mercati,
anche quelli finanziari, sono assetti istituzionali in grado di autoregolarsi e ciò nel duplice senso di
assetti capaci di darsi da sé le regole per il proprio funzionamento ed inoltre di farle rispettare.
Il ponte che collega quell’assunto a tale conclusione è l’ethos dell’efficienza, vero e proprio
principio regolativo della società post-moderna. E’ dalla pervasività nella nostra cultura del
principio di efficienza che discende quel “mito performativo” per il quale dire significa fare, e
dunque che una cosa diventa vera per il solo fatto che la facciamo. E’ questo stato d’animo generale
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che ha fornito il carburante alla macchina speculativa. La quale si è bensì potuta avvalere di
strumenti e prodotti finanziari con una “potenza di fuoco” mai vista in precedenza. Si pensi solo ad
automatismi come il program trading computerizzato, qualcosa di analogo ad un acceleratore di
particelle, che amplifica, in modo pro-ciclico, la tendenza al rialzo e al ribasso del mercato
borsistico. Ma è evidente che una bolla speculativa dalle proporzioni di quella che oggi conosciamo
mai si sarebbe potuta realizzare senza quella “bolla mentale” che ha fatto credere a tantissimi che
fosse possibile ridurre il rischio a zero, qualora si fosse riusciti a spalmarlo in modo acconcio tra un
numero sufficientemente elevato di operatori.
Ma il rischio se è endogeno – come lo è il rischio finanziario - può essere spostato o ridotto,
mai annullato. Tale senso di onnipotenza, foraggiato per parecchi anni dall’euforia finanziaria, si è
impadronito degli habitus mentali non solamente dei trader e degli istituti della finanza, ma anche
delle autorità politiche, dei centri mediatici, di non pochi ambienti universitari e di ricerca.
L’autoreferenzialità della finanza – la finanza che diviene fine a sé e in sé – ha così fatto
dimenticare la massima di Platone secondo cui: “L’unica buona moneta con cui bisogna cambiare
tutte le altre è la phronesis, l’intelligenza che sta in guardia”. Una massima che l’illustre economista
americano J. Galbraith assai più prosaicamente ha reso così: “E’ bene che ogni tanto i soldi vengano
separati dagli imbecilli”. Ed è bene che così avvenga, perché sono molti gli innocenti che pagano
per la hybris degli imbecilli nel senso di Leon Bloy. Come la storia insegna, il phronos zeon, l’ira
degli dei che si accompagna alla hybris, si abbatte sempre sugli ultimi e sui più vulnerabili, il che è
semplicemente scandaloso.
2. Le cause remote della crisi
Raggruppo i fattori di crisi che chiamo strutturali in tre blocchi. Il primo concerne il
mutamento radicale nel rapporto tra finanza e produzione di beni e servizi che si è venuto a
consolidare nel corso dell’ultimo trentennio. A partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, la
più parte dei paesi occidentali hanno condizionato le loro promesse in materia pensionistica ad
investimenti che dipendevano dalla profittabilità sostenibile dei nuovi strumenti finanziari. Al
tempo stesso, la creazione di questi nuovi strumenti ha via via esposto l’economia reale ai capricci
della finanza, generando il bisogno crescente di destinare alla remunerazione dei risparmi in essi
investiti quote crescenti di valore aggiunto. Le pressioni sulle imprese derivanti dalle borse e dai
fondi di private equity si sono trasferite in pressioni ancora maggiori in altre direzioni: sui dirigenti
ossessivamente indotti a migliorare continuamente le performance delle loro gestioni allo scopo di
ricevere volumi crescenti di stocks options; sui consumatori per convincerli, mediante l’impiego di
sofisticate tecniche di marketing, a comprare sempre di più pur in assenza di potere d’acquisto; sulle
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imprese dell’economia reale per convincerle ad aumentare il valore per l’azionista (shareholder
value). E così è accaduto che la richiesta persistente di risultati finanziari sempre più brillanti abbia
cominciato a ripercuotersi, attraverso un tipico meccanismo di trickle down (di sgocciolamento),
sull’intero sistema economico, fino a diventare un vero e proprio modello culturale. Per rincorrere
un futuro sempre più radioso, si è così dimenticato il presente.
Il secondo fattore causale della crisi è la diffusione a livello di cultura popolare dell’ethos
dell’efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica. Per un
verso, ciò ha finito col legittimare l’avidità – che è la forma più nota e più diffusa di avarizia –
come una sorta di virtù civica: il greed market che sostituisce il free market. “Greed is good, greed
is right” (l’avidità è buona; l’avidità è giusta), predicava Gordon Gekko, il protagonista del celebre
film del 1987, Wall Street. Per l’altro verso, l’ethos dell’efficienza è all’origine dell’alternanza,
ormai sistematica, di avidità e panico. Né vale, come più di un commentatore ha cercato di spiegare,
che il panico sarebbe conseguenza di comportamenti irrazionali da parte degli operatori. Perché il
panico è nient’altro che un’euforia col segno meno davanti; dunque se l’euforia, secondo la teoria
prevalente, è razionale, anche il panico lo è. Il fatto è che è la teoria ad essere aporetica, come dirò
nel prossimo paragrafo.
Passo da ultimo al terzo blocco di cause remote. Esse hanno tutte a che vedere con le
specificità della matrice culturale che si è andata consolidando negli ultimi decenni sull’onda, da un
lato, del processo di globalizzazione e, dall’altro, dall’avvento della terza rivoluzione industriale,
quella delle tecnologie info-telematiche. Due aspetti specifici di tale matrice sono rilevanti ai fini
presenti. Il primo riguarda la presa d’atto che alla base dell’attuale economia capitalistica è presente
una seria contraddizione di tipo pragmatico – non logico, beninteso. Quella capitalistica è
certamente un’economia di mercato, cioè un assetto istituzionale in cui sono presenti e operativi i
due principi basilari della modernità: la libertà di agire e fare impresa; l’eguaglianza di tutti di
fronte alla legge. Al tempo stesso, però, l’istituzione principe del capitalismo – l’impresa
capitalistica, appunto – è andata edificandosi nel corso degli ultimi tre secoli sul principio di
gerarchia. Ha preso così corpo un sistema di produzione in cui vi è una struttura centralizzata alla
quale un certo numero di individui cedono, volontariamente, in cambio di un prezzo (il salario),
alcuni dei loro beni e servizi, che una volta entrati nell’impresa sfuggono al controllo di coloro che
li hanno forniti.
Sappiamo bene, dalla storia economica come ciò sia avvenuto e conosciamo anche i notevoli
progressi sul fronte economico che tale assetto istituzionale ha garantito. Ma il fatto è che
nell’attuale passaggio d’epoca – dalla modernità alla dopomodernità – sempre più frequenti sono le
voci che si levano ad indicare le difficoltà di far marciare assieme principio democratico e principio
capitalistico. Il fenomeno della cosiddetta privatizzazione del pubblico è ciò che soprattutto fa
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problema: le imprese dell’economia capitalistica vanno assumendo sempre più il controllo del
comportamento degli individui – i quali, si badi, trascorrono ben oltre la metà del loro tempo di vita
sul luogo di lavoro – sottraendolo allo Stato o ad altre agenzie, prima fra tutte la famiglia. Nozioni
come libertà di scelta, tolleranza, eguaglianza di fronte alla legge, partecipazione ed altre simili,
coniate e diffuse all’epoca dell’Umanesimo civile e rafforzate poi al tempo dell’Illuminismo, come
antidoto al potere assoluto (o quasi) del sovrano, vengono fatte proprie, opportunamente ricalibrate,
dalle imprese capitalistiche per trasformare gli individui, non più sudditi, in acquirenti di quei beni e
servizi che esse stesso producono.
Il secondo aspetto riguarda l’insoddisfazione, sempre più diffusa, circa il modo di
interpretare il principio di libertà. Come è noto, tre sono le dimensioni costitutive della libertà:
l’autonomia, l’immunità, la capacitazione. L’autonomia dice della libertà di scelta: non si è liberi se
non si è posti nella condizione di scegliere. L’immunità dice, invece, dell’assenza di coercizione da
parte di un qualche agente esterno. E’, in buona sostanza, la libertà negativa (ovvero la “libertà da”)
di cui ha parlato I. Berlin. La capacitazione, (letteralmente: capacità di azione) nel senso di A. Sen,
infine, dice della capacità di scelta, di conseguire cioè gli obiettivi, almeno in parte o in qualche
misura, che il soggetto si pone. Non si è liberi se mai (o almeno in parte) si riesce a realizzare il
proprio piano di vita. Ebbene, mentre l’approccio liberal-liberista vale ad assicurare la prima e la
seconda dimensione della libertà a scapito della terza, l’approccio stato-centrico,vuoi nella versione
dell’economia mista vuoi in quella del socialismo di mercato, tende a privilegiare la seconda e la
terza dimensione a scapito della prima. Il liberismo è bensì capace di far da volano del mutamento,
ma non è altrettanto capace di gestirne le conseguenze negative, dovute all’elevata asimmetria
temporale tra la distribuzione dei costi del mutamento e quella dei benefici. I primi sono immediati
e tendono a ricadere sui segmenti più sprovveduti della popolazione; i secondi si verificano in
seguito nel tempo e vanno a beneficiare i soggetti con maggiore talento. Come J. Schumpeter fu tra
i primi a riconoscere, è il meccanismo della distruzione creatrice il cuore del sistema capitalistico –
il quale distrugge “il vecchio” per creare “il nuovo” e crea “il nuovo” per distruggere “il vecchio”–
ma anche il suo tallone d’Achille perché, a meno di creare adeguate “safety nets” (reti di sicurezza),
è evidente che coloro che si vedono danneggiati dal meccanismo della distribuzione creatrice si
organizzeranno per boicottarla, creando lobbies di tipo neo-corporativismo per impedire che il
processo di innovazione abbia luogo. D’altro canto, il socialismo di mercato – nelle sue plurime
versioni – se propone lo Stato come soggetto incaricato di far fronte alle asincronie di cui si è detto,
non intacca la logica del mercato capitalistico; ma restringe solamente l’area di operatività e di
incidenza. Come si può comprendere, la sfida da raccogliere è quella di fare stare insieme tutte e tre
le dimensioni della libertà: è questa la ragione per la quale il paradigma del bene comune appare
come una prospettiva quanto meno interessante da esplorare.
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Alla luce di quanto precede riusciamo a comprendere perché la crisi finanziaria non può
dirsi un evento né inatteso né inspiegabile. Ecco perché, senza nulla togliere agli indispensabili
interventi in chiave regolatoria e alle necessarie nuove forme di controllo, non riusciremo ad
impedire l’insorgere in futuro di episodi analoghi se non si aggredisce il male alla radice, vale a dire
se non si modifica la matrice culturale del nostro sistema economico.
3. Una crisi di senso
Due sono i tipi di crisi che, grosso modo, è possibile identificare nella storia delle nostre
società: dialettica l’una, entropica l’altra. Dialettica è la crisi che nasce da un conflitto fondamentale
che prende corpo entro una determinata società e che contiene, al proprio interno, i germi o le forze
del proprio superamento. (Va da sé che non necessariamente l’uscita dalla crisi rappresenta un
progresso rispetto alla situazione precedente). Esempi storici e famosi di crisi dialettica sono quelli
della rivoluzione americana, della rivoluzione francese, della rivoluzione di ottobre in Russia nel
1917. Entropica, invece, è la crisi che tende a far collassare il sistema, per implosione, senza
modificarlo. Questo tipo di crisi si sviluppa ogniqualvolta la società perde il senso – cioè,
letteralmente, la direzione – del proprio incedere. Anche di tale tipo di crisi la storia ci offre esempi
notevoli: la caduta dell’impero romano; la transizione dal feudalesimo alla modernità; il crollo del
muro di Berlino e dell’impero sovietico.
Perchè è importante tale distinzione? Perché sono diverse le strategie di uscita dai due tipi di
crisi. Non si esce da una crisi entropica con aggiustamenti di natura tecnica o con provvedimenti
solo legislativi e regolamentari – pure necessari – ma affrontando di petto, risolvendola, la
questione del senso. Ecco perché sono indispensabili a tale scopo minoranze profetiche che
sappiano indicare alla società la nuova direzione verso cui muovere mediante un supplemento di
pensiero e soprattutto la testimonianza delle opere. Così è stato quando Benedetto, lanciando il suo
celebre “ora et labora”, inaugurò la nuova era, quella delle cattedrali. (Mai si dirà abbastanza della
portata rivoluzionaria, sul piano sia sociale sia economico, dell’impianto concettuale del carisma
benedettino. Il lavoro, da secoli considerato attività tipica dello schiavo, diviene piuttosto con
Benedetto la via maestra per la libertà: è per diventare liberi che occorre lavorare. Non solo, ma il
lavoro viene sollevato al livello della preghiera. Come dirà poi Francesco, guai a separare
Laborantes e contemplantes; in ciascuna persona preghiera e lavoro devono sempre procedere in
parallelo).
Ebbene, la grande crisi economico-finanziaria tuttora in atto è di tipo basicamente entropico.
E dunque non è corretto assimilare – se non per gli aspetti meramente quantitativi – la presente crisi
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a quella del 1929 che fu, piuttosto, di natura dialettica. Quest’ultima, infatti, fu dovuta ad errori
umani commessi, soprattutto dalle autorità di controllo delle transazioni economiche e finanziarie,
conseguenti ad un preciso deficit di conoscenza circa i modi di funzionamento del mercato
capitalistico. Tanto che ci volle il “genio” di J.M. Keynes per provvedere alla bisogna. Si pensi al
ruolo del pensiero keynesiano nella articolazione del New Deal di Roosevelt. Nella crisi attuale è
certamente vero che ci sono stati errori umani - anche gravi come ho mostrato in Zamagni (2009) –
ma questi sono stati la conseguenza non tanto di un deficit conoscitivo, quanto piuttosto della crisi
di senso che ha investito la società dell’occidente avanzato a far tempo dall’inizio di quell’evento di
portata epocale che è la globalizzazione.
Sorge spontanea la domanda: in cosa si esprime e dove maggiormente si è manifestata
questa crisi di senso? La mia risposta è: in una triplice separazione. E precisamente, la separazione
tra la sfera dell’economico e la sfera del sociale; il lavoro separato dalla creazione della ricchezza; il
mercato separato della democrazia. Vedo di chiarire, seppure in breve, cominciando dalla prima.
Una delle tante eredità non certo positive che la modernità ci ha lasciato è il convincimento
in base al quale titolo di accesso al “club dell’economia” è l’essere cercatori di profitto; quanto a
dire che non si è propriamente imprenditori se non si cerca di perseguire esclusivamente la
massimizzazione del profitto. In caso contrario, ci si deve rassegnare a far parte dell’ambito del
sociale, dove appunto operano le imprese sociali, la cooperative sociali, le fondazioni di vario tipo,
ecc. Questa assurda concettualizzazione – a sua volta figlia dell’errore teorico che porta a
confondere l’economia di mercato, che è il genus, con una sua particolare species e cioè il sistema
capitalistico – ha finito con l’identificare l’economia con il luogo della produzione della ricchezza
(un luogo il cui principio regolativo è l’efficienza) e a pensare il sociale come il luogo della
redistribuzione dove la solidarietà e/o la compassione, (pubblica o privata che sia) sono i canoni
fondamentali. Si sono viste e stiamo vedendo le conseguenze di tale separazione. Come il celebre
storico-economico Angus Madison ha mostrato, negli ultimi trent’anni gli indicatori della
diseguaglianza sociale, interstatale e intrastatale, hanno registrato aumenti semplicemente
scandalosi, anche in quei paesi dove il welfare state ha giocato un ruolo importante in termini di
risorse amministrate. Eppure, schiere di economisti e di filosofi della politica hanno creduto per
lungo tempo che la proposta Kantiana: “facciamo la torta più grande e poi ripartiamola con
giustizia” fosse la soluzione del problema dell’equità. Non si può non ricordare, a tale proposito, la
potenza espressiva dell’aforisma lanciato dal pensiero economico neo-conservatore secondo cui
“una marea che sale solleva tutte le barche”, da cui la celebre tesi dell’effetto di sgocciolamento
(trickle-down effect): la ricchezza, a mò di pioggia benefica irrora prima o poi tutti, anche i più
poveri. E dire che già il grande economista francese Leon Walras, nel 1873, aveva avvertito:
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“quando porrete mano alla ripartizione della torta non potrete ripartire le ingiustizie commesse per
farla più grande”. Parole queste che la crisi attuale ha tristemente inverate.
La recente lettera enciclica Caritas in Veritate di papa Benedetto XVI indica a tutto tondo
che la via d’uscita dal problema qui sollevato è nel ricomporre ciò che è stato artatamente separato.
Prendendo posizione a favore di quella concezione del mercato – tipica dell’economia civile –
secondo cui il legame sociale non può venire ridotto al solo “cash nexus”, l’enciclica suggerisce che
si può vivere l’esperienza della socialità umana all’interno di una normale vita economica e non già
al di fuori di essa come vorrebbe il modello dicotomico di ordine sociale. La sfida da raccogliere è
allora quella della seconda navigazione nel senso di Platone: né vedere l’economia in endemico e
ontologico conflitto con la vita buona perché vista come luogo dello sfruttamento e dell’alienazione,
né concepirlo come il luogo in cui possono trovare soluzione tutti i problemi della società, come
ritiene il pensiero anarco-liberista.
Passo al secondo caso di separazione. Per secoli l’umanità si è attenuta all’idea anche
all’origine della creazione di ricchezza c’è il lavoro umano – dell’un tipo o dell’altro non fa
differenza. Tanto che Adam Smith apre la sua opera fondamentale, La Ricchezza delle Nazioni
(1776) proprio con tale considerazione. Quale la novità che la finanziarizzazione dell’economia,
iniziata circa un trentennio fa, ha finito col determinare? L’idea secondo cui sarebbe la finanza
speculativa a creare ricchezza, molto di più e assai più in fretta dell’attività lavorativa. Una miriade
di episodi e di fatti ce ne danno conferma. In Gran Bretagna – paese che ha dato i natali alla
rivoluzione industriale – il settore manifatturiero contribuisce oggi con un modesto 12% al PIL
nazionale e, fino al 2008, gli occupati nel settore della finanza erano giunti a oltre sei milioni di
unità (oggi, metà di questi sono senza lavoro). Negli ultimi decenni, nelle migliori università del
mondo, i dipendenti e i programmi di ricerca di business studies sono letteralmente esplosi,
spiazzando e/o impoverendo altre aree di studio. (Si veda anche la distribuzione dei fondi tra aree di
ricerca. E si vedano ancora le scelte dei corsi di laurea, o dei piani di studio, da parte degli studenti
iscritti alle facoltà di economia). E così via. L’affermazione e la diffusione dell’ethos della finanza
sono valsi - complici i media – ad accreditare il convincimento che non v’è bisogno di lavorare per
arricchirsi; meglio tentare la sorte e soprattutto non avere troppi scrupoli morali.
Le conseguenze di tale pseudo rivoluzione culturale sono sotto gli occhi di tutti. (Si pensi al
maldestro tentativo di sostituire alla figura del lavoratore quella del cittadino-consumatore come
categoria centrale dell’ordine sociale). Oggi, ad esempio, non disponiamo di un’idea condivisa di
lavoro che ci consenta di capire le trasformazioni in atto. Sappiamo che a partire dalla Rivoluzione
Commerciale dell’XI secolo, si afferma gradualmente l’idea del lavoro artigianale, che realizza
l’unità tra attività e conoscenza, tra processo produttivo e mestiere – termine quest’ultimo che rinvia
a maestria. Con l’avvento della rivoluzione industriale prima e del fordismo-taylarismo poi, avanza
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l’idea della mansione (segno di attività parcellizzate), non più del mestiere, e con essa la centralità
della libertà dal lavoro, come emancipazione dal “regno della necessità”. E oggi, che siamo entrati
nella società post-fordista, che idea abbiamo del lavoro? C’è chi propone l’idea della competenza
declinata in termini di figura professionale, ma non ci si rende conto delle implicazioni pericolose
che ne possono derivare. Una fra tutte: la confusione tra meritocrazia e principio di meritorietà,
come se i due termini fossero sinonimi. La civiltà occidentale poggia su una idea forte, l’idea della
“vita buona”, da cui il diritto-dovere per ciascuno di progettare la propria vita in vista di una civile
felicità. Ma da dove partire per conseguire un tale obiettivo se non dal lavoro inteso quale luogo di
una buona esistenza? La fioritura umana – cioè l’eudainomia nel senso di Aristotele – non va
cercata dopo il lavoro, come accadeva ieri, perché l’essere umano incontra la sua umanità mentre
lavora. Di qui l’urgenza di iniziare ad elaborare il concetto di eudaimonia lavorativa che per un
verso vada oltre l’ipertrofia lavorativa tipica dei tempi nostri (il lavoro che riempie un vuoto
antropologico crescente) e per l’altro verso valga a declinare l’idea di libertà del lavoro (la libertà di
scegliere quelle attività che sono in grado di arricchire la mente e il cuore di coloro che sono
impegnati nel processo lavorativo).
Chiaramente, l’accoglimento del paradigma eudaimonico implica che i fini dell’impresa –
quali che ne sia la forma giuridica – sono irriducibili al solo profitto, pur non escludendolo. Implica
dunque che possano nascere e svilupparsi imprese a vocazione civile in grado di superare la propria
autoreferenzialità, dilatando così lo spazio della possibilità effettiva di scelta lavorativa da parte
delle persone. Non si dimentichi, infatti, che scegliere l’opzione migliore tra quelle di un “cattivo”
insieme di scelta non significa affatto che un individuo si merita ciò che ha scelto. La libertà di
scelta fonda il consenso solamente se chi sceglie è posto nella condizione di concorrere alla
definizione dell’insieme di scelta stesso. Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società
di umani in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sul principio dello
scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad agire su trasferimenti di tipo assistenzialistico di
natura pubblica, ci dà conto del perché sia così difficile passare dall’idea del lavoro come attività a
quella del lavoro come opera.
Infine, di una terza separazione al fondo della crisi attuale mette conto dire. Si tratta di
questo. Da sempre la teoria economica – specialmente quella della scuola di pensiero neo-austriaca
– sostiene che il successo e il progresso di una società dipendono crucialmente dalla sua capacità di
mobilizzare e gestire la conoscenza che esiste, dispersa, tra tutti coloro che ne fanno parte. Infatti, il
merito principale del mercato, inteso come istituzione socio-economica, è proprio quello di fornire
una soluzione ottimale al problema della conoscenza. Come già F. von Hayek ebbe a chiarire nel
suo celebre (e celebrato) saggio del 1937, al fine di incanalare in modo efficace la conoscenza
locale, quella cioè di cui sono portatori i cittadini di una società, è necessario un meccanismo
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decentralizzato di coordinamento, e il sistema dei prezzi di cui il mercato basicamente consta è
esattamente quel che serve alla bisogna. Questo modo di vedere le cose, assai comune tra gli
economisti, tende tuttavia ad oscurare un elemento di centrale rilevanza.
Invero, il funzionamento del meccanismo dei prezzi come strumento di coordinamento
presuppone che i soggetti economici condividano e perciò comprendano la “lingua” del mercato.
Valga un’analogia. Pedoni e automobilisti si fermano di fronte al semaforo che segna il rosso
perché condividono il medesimo significato della luce rossa. Se quest’ultima evocasse, per alcuni,
l’adesione ad una particolare posizione politica e, per altri, un segnale di pericolo è evidente che
nessun coordinamento sarebbe possibile, con le conseguenze che è facile immaginare. L’esempio
suggerisce che non uno, ma due, sono i tipi di conoscenza di cui il mercato ha bisogno per assolvere
al compito principale di cui sopra si è detto. Il primo tipo è depositato in ciascun individuo ed è
quello che – come bene chiarito dallo stesso F. von Hayek – può essere gestito dai normali
meccanismi del mercato. Il secondo tipo di conoscenza, invece, è quella che circola tra i vari gruppi
di cui consta la società ed ha a che vedere con la lingua comune che consente ad una pluralità di
individui di condividere i significati delle categorie di discorso che vengono utilizzate e di
intendersi reciprocamente quando vengono in contatto.
E’ un fatto che in qualsiasi società coesistono molti linguaggi diversi, e il linguaggio del
mercato è solamente uno di questi. Se questo fosse l’unico, non ci sarebbero problemi: per
mobilizzare in modo efficiente la conoscenza locale di tipo individuale basterebbero gli usuali
strumenti di mercato. Ma così non è, per la semplice ragione che le società contemporanee sono
contesti multi-culturali nei quali la conoscenza di tipo individuale deve viaggiare attraverso confini
linguistici ed è questo che pone difficoltà formidabili. Il pensiero neo-austriaco ha potuto
prescindere da tale difficoltà assumendo, implicitamente, che il problema della conoscenza di tipo
istituzionale di fatto non esistesse, ad esempio perché tutti i membri della società condividono il
medesimo sistema di valori e accettano gli stessi principi di organizzazione sociale. Ma quando così
non è, come la realtà ci obbliga a prendere atto, si ha che per governare una società “multi-
linguistica” è necessaria un’altra istituzione, diversa dal mercato, che faccia emergere quella lingua
di contatto capace di far dialogare i membri appartenenti a diverse comunità linguistiche. Ebbene,
questa istituzione è la democrazia deliberativa. Questo ci aiuta a comprendere perchè il problema
della gestione della conoscenza nelle nostre società di oggi, e quindi in definitiva il problema dello
sviluppo, postula che due istituzioni – la democrazia e il mercato – siano poste nella condizione di
operare congiuntamente, fianco a fianco. Invece, la separazione tra mercato e democrazia che si è
andata consumando nel corso dell’ultimo quarto di secolo sull’onda dell’esaltazione di un certo
relativismo culturale e di una esasperata mentalità individualistica ha fatto credere – anche a
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studiosi avvertiti – che fosse possibile espandere l’area del mercato senza preoccuparsi di fare i
conti con l’intensificazione della democrazia.
Due le principali implicazioni che ne sono derivate. Primo, l’idea perniciosa secondo cui il
mercato sarebbe una zona moralmente neutra che non avrebbe bisogno di sottoporsi ad alcun
giudizio etico perché già conterrebbe nel proprio nucleo duro (hard core) quei principi morali che
sono sufficienti alla sua legittimazione sociale. Al contrario, non essendo in grado di autofondarsi, il
mercato per venire in esistenza presuppone che già sia stata elaborata la “lingua di contatto”. E tale
considerazione basterebbe a sconfiggere da sola ogni pretesa di autoreferenzialità. Secondo, se la
democrazia, che è un bene fragile, va soggetta a lento degrado, può accadere che il mercato sia
impedito di raccogliere e gestire in modo efficiente la conoscenza, e quindi può accadere che la
società cessi di progredire, senza che ciò avvenga per un qualche difetto dei meccanismi del
mercato, bensì per un deficit di democrazia. Ebbene, la crisi economico-finanziaria in corso – una
crisi di natura appunto entropica e non dialettica – è la migliore e più cocente conferma empirica di
tale proposizione. Si pensi, per fare un solo esempio, alla prevalenza, nelle sfere sia economica sia
politica, del corto termismo (short termism), dell’idea cioè secondo cui l’orizzonte temporale delle
decisioni ha da essere il breve periodo. La democrazia, invece, ha necessariamente di mira il lungo
periodo. Se le preposizioni del mercato sono senza – contro – sopra (senza gli altri; contro gli altri;
sopra gli altri), quelle della democrazia sono con-per-in (con gli altri; per gli altri; negli altri). In
definitiva, abbiamo bisogno di ricongiungere mercato e democrazia per scongiurare il duplice
pericolo dell’individualismo e dello statalismo centralistico. Si ha individualismo quando ogni
membro della società vuol essere il tutto; si ha centralismo quando a voler essere il tutto è un
singolo componente. Nell’un caso si esalta a tal punto la diversità da far morire l’unità del
consorzio umano; nell’altro caso, per affermare l’uniformità si sacrifica la diversità.
4. Il messaggio e il monito della crisi
Cosa ha da comunicare la crisi attuale alla teoria della finanza e agli economisti in generale?
Un duplice insegnamento. Primo, che quanto più spinta è la raffinatezza degli strumenti analitici
(matematici ed econometrici) impiegati, tanto più alta deve essere la consapevolezza dei pericoli
insiti nell’impiego pratico dei prodotti della nuova tecno finanza. E’ questa irresponsabile mancanza
di umiltà intellettuale ad aver indotto non pochi economisti del mainstream, inclusi prestigiosi, ma
poco saggi, premi Nobel, a guardare con supponenza ad autori come J. M. Keynes e Hyman Minsky
e a considerare superati maestri del calibro di John Hicks o di James Tobin, studiosi nelle cui opere
erano già prefigurate buona parte delle conseguenze che ora stiamo registrando. (Ricorderò sempre
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l’immagine metaforica di Hicks quando, ancora nei primi anni ’70 del secolo scorso, insisteva sulla
necessità di inserire, di tanto in tanto, granelli di sabbia negli ingranaggi della macchina finanziaria,
per rallentarne la velocità – un’idea questa che poi Tobin tradurrà nella proposta nota come “Tobin
tax”). L’umiltà avrebbe poi consentito di fare tesoro di un notevole precedente storico, quello del
celebre economista americano Irving Fisher, tanto geniale sotto il profilo matematico (Gibbs, il
grande fisico della termodinamica era stato uno dei suoi mentori) quanto catastrofico speculatore di
borsa. Nell’autunno del 1929 dichiarò pubblicamente che i corsi azionari avevano ormai raggiunto
la massima stabilità e che mai Wall Street sarebbe andata incontro a un crollo. Fu così che,
operando sulla base del modello teorico che lui stesso aveva elaborato, Fisher perdette, oltre alla
reputazione di economista, quasi l’intero patrimonio di famiglia.
Cosa c’è alla base di certa arroganza intellettuale ancora così frequente in certi circoli
accademici? L’incapacità di comprendere, per difetto di preparazione filosofica, la distinzione tra
razionalità e ragionevolezza. Un argomento economico può ben essere razionale, matematicamente
ineccepibile, ma se le sue premesse, cioè i suoi assunti, non sono ragionevoli, risulterà di scarso
aiuto; anzi, può condurre a disastri. Ha scritto il celebre filosofo della scienza von Wright (1987): “I
giudizi di ragionevolezza sono orientati verso il valore; essi vertono … su ciò che si ritiene buono o
cattivo per l’uomo. Ciò che è ragionevole è senza dubbio anche razionale, ma ciò che è meramente
razionale non è sempre ragionevole”.
La seconda grande lezione che dalla crisi arriva all’economia è quella di affrettare i tempi
del superamento della cosiddetta “saggezza convenzionale” (conventional wisdom), secondo cui
tutti gli agenti economici sarebbero mossi all’azione da un orientamento motivazionale di tipo
egocentrico ed auto-interessato. Oggi sappiamo che tale assunto è fattualmente falso: è certamente
vero che, a seconda dei contesti e dei periodi storici, c’è una percentuale, più o meno alta, di
soggetti il cui unico obiettivo è il perseguimento del self-interest, ma questa disposizione d’animo
non descrive l’intero universo degli agenti economici. Eppure, i modelli della teoria della finanza
continuano a postulare – mi auguro ancora per poco – che gli agenti siano tutti homines oeconomici.
La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: da quei modelli discendono direttive d’azione che vengono
“vendute” al settore bancario e finanziario A loro volta, i dirigenti che guidano la danza in tale
settore si adoperano, con grande abilità tecnico-comunicativa, per trasformare quelle direttive in
precisi prodotti che vengono poi suggeriti o consigliati – si fa per dire –alla vasta platea degli
investitori, individuali o collettivi. Alcuni di questi sono presi da “fame del denaro”, ma molti altri
sono indotti a scelte che non avrebbero operato in presenza di una effettiva pluralità di offerte. Il
punto è che i modelli matematico-finanziari non suggeriscono solamente linee di condotta; essi
cambiano il mindset delle persone, come i risultati più recenti della ricerca sperimentale delle
neuroscienze confermano ad abundantiam.
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Quest’ultima considerazione mi consente di fissare un attimo l’attenzione sul ruolo che
l’avidità ha avuto nel predisporre il terreno sul quale l’albero della crisi ha potuto crescere
rigogliosissimo. Soprattutto tra gli economisti è diffusa l’idea secondo cui l’avarizia sia un vizio,
tutto sommato, minore e comunque facilmente correggibile con l’impiego di schemi adeguati di
incentivo. Non è per caso se nei testi di economia, da quelli più raffinati a quelli di più ampia
divulgazione, mai si parla di comportamento avaro.In tali lavori neppure si considera dotata di
senso la domanda se le preferenze dell’homo oeconomicus siano avare o meno. Questi deve
solamente pensare a comportarsi in modo razionale, massimizzando, sotto opportune condizioni,
l’interesse proprio, quale che esso sia. Eppure, l’avarizia – il più “economico” dei vizi capitali –
costituisce uno dei più frequenti casi di “fallimento della ragione” in ambito economico. Poiché
difetta di una ragione ben conformata, l’avaro non sa indirizzare la passione dell’avere che alberga
in ciascun essere umano; in particolare, non sa indicare a tale passione – di per sé fisiologica – i
beni che è ragionevole appetire. L’avaro tesaurizza, si accaparra ricchezza sottraendola alla
circolazione; non facilita la produzione, ma la ostacola fino a comportamenti dissipativi. E’ un fatto
che l’assenza in economia di una teoria delle motivazioni ad agire razionalmente – quali motivi
abbiamo per fare ciò che riconosciamo di dover fare – è ciò che spiega l’inadeguatezza della
disciplina a comprendere il fenomeno dell’avarizia nelle sue molteplici manifestazioni (tanto è vero
che non ne tratta): perché l’avaro continua ad accumulare insaziabilmente pur sapendo che il potere
che la ricchezza gli conferisce mai potrà essere realizzato? L’economia possiede bensì una teoria
delle ragioni per fare quel che l’homo oeconomicus giudica di dover fare, ma non una teoria dei
motivi per fare ciò che questi riconosce di dover fare.
Un secondo elemento connota di sé il vizio in questione. A partire dalla tarda antichità, la
nozione di avarizia sia andata soggetta ad una pluralità di slittamenti semantici, secondo una
alternanza che non trova riscontro in nessuno degli altri vizi capitali. Come darsi conto di un
fenomeno così peculiare da sembrare un curiosum? Se nella tarda antichità, l’avarizia viene bollata
come “radice” di tutti i mali “Radix Omnium Malorum Avaritia”, secondo la celebre definizione di
San Paolo (Timoteo, I, 10) (donde l’acronimo R.O.M.A., che inizia a circolare tra IV e V secolo
mentre l’impero romano si va disfacendo), come il vizio cioè da cui traggono alimento tutti gli altri,
l’alto medioevo, contraddistinto da una forte impronta monastica, attribuirà alla superbia il titolo di
“initium omnium malorum”, il punto cioè da cui inizia il moto della predisposizione al male. La
superbia è inizio perché è passione dell’essere come Dio; l’avarizia è radice perché è passione
dell’avere quanto Dio. Come ricordava Aristotele, infatti, i vizi, in quanto “abiti del male”, sono un
impedimento serio alla perfezione intesa come fioritura umana: rispetto al fine della perfezione
monastica è l’inobedientia l’impedimento più grave ad accettare il contemptus mundi (il disprezzo
del mondo) come regola di vita, così tanto esaltata da Pier Damiani e da Innocenzo III.
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Con l’avvento della rivoluzione commerciale dell’XI secolo, cui si accompagna un marcato
rinnovamento teologico e pastorale – si pensi alla riforma gregoriana – l’avarizia torna ad occupare
il primo posto nella scala dei vizi. All’alba del nuovo millennio nascono le “città” e con esse i
traffici, la mercatura, i comuni. Come si dirà, al cambiamento radicale dell’ordine socio-economico
non corrisponde un miglioramento morale: ai peccati di superbia e di invidia, tipici del mondo
rurale e dell’ordo feudalis, si aggiungono in forma nuova i peccati di avarizia e di lussuria, tipici
delle città. Ma è l’avarizia il più insidioso e pericoloso dei vizi capitali, perché è il vizio dei
mercanti, i rappresentanti più influenti di quella “economia nuova” che minaccia il potere del
sacerdotium. Un mutamento di prospettiva inatteso si ha con l’Umanesimo civile del XV secolo,
quando pensatori influenti come Poggio Bracciolini, Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Matteo
Palmieri, Lorenzo Valla, Marsilio da Padova iniziano, non senza correre più di un rischio, a
veicolare l’idea secondo cui l’avarizia diventa peccato quando è ricerca smodata del denaro e non
già quando è ricerca del superfluo come la petrinologia economica – secondo cui “l’economia
buona e leale” è solo quella di sussistenza – imponeva. Nel suo celebre De avaritia (1428), Poggio
non solamente afferma che “l’avarizia non è contro natura”, ma addirittura descrive gli avari come
uomini “forti, prudenti, industriosi, severi, temperati, d’animo grande e di grandissima saggezza”
(sic!). Non solamente essa insegna alle persone a provvedere a se stesse, ma tende a favorire il
processo di accumulazione del capitale e, per tale via, ad accelerare lo sviluppo della comunità
intera.
Il seme gettato dai cosiddetti “umanisti laici” e il pensiero di Thomas Hobbes, l’inventore
del contrattualismo, secondo cui è il contratto sociale e non la teologia a definire ciò che è vizio e
ciò che è virtù, daranno frutto nella stagione dell’Illuminismo, quando sulla scia dell’opera di
Bernard de Mandeville, prima, e dell’utilitarismo di Jeremy Bentham, poi, l’avarizia diventa di fatto
una quasi virtù. Chi cerca il denaro – come il mercante, ma non solo – potrà non essere felice, ma la
sua azione produce comunque effetti sociali positivi. Come sopra annotato, ciò dà conto della
pressoché totale scomparsa del termine avarizia dal lessico economico che, a far tempo dalla
Ricchezza delle Nazioni (1776) di Adam Smith, prende a circolare negli ambienti europei e nord-
americani. Con l’Illuminismo, di marca sia scozzese sia francese, si diffonde il convincimento in
base al quale, in forza di un tipico meccanismo di eterogenesi dei fini, il modo più efficace di
aiutare i poveri è quello di favorire l’opera degli avari.
L’ultimo quarto del XX secolo, all’incirca in concomitanza con l’avvento della nuova
globalizzazione e della terza rivoluzione industriale (quella delle tecnologie info-telematiche), vede
un inatteso ritorno d’interesse alla problematica dell’avarizia. Accusata di essere, oggi, la principale
generatrice di scarsità secondarie, in quanto non permette di distinguere tra bisogni e desideri,
l’avarizia è il vizio che più di ogni altro è cresciuto in maniera spettacolare nel corso del secolo
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scorso. Oggi la brama smodata delle cose pare tornata ad essere percepita come uno dei più seri
impedimenti al progresso civile e morale delle nostre società. Se il superbo è posseduto da se stesso,
l’avaro lo è dalle cose. Il suo comportamento presenta tratti inconfondibili: l’avaro accumula ma
non investe; conserva ma non usa; possiede ma non condivide. Anche le società, e non solo i
singoli, possono diventare avare; ed è proprio questo che fa problema rispetto al fine del progresso
sociale. Sembra di nuovo tornato d’attualità l’antico monito di Machiavelli quando scriveva: “Ai
popoli nuoce molto più l’avarizia de’ suoi cittadini che la rapacità degli nimici”.
Qual è la natura propria dell’avarizia? Esiste nell’essere umano un sentimento che spinge
alla ricerca appassionata di ciò che si confà alle sue esigenze, che ha il nome di desiderio. Il
desiderio umano, quando non è deviato, si volge alle cose come a dei beni che lo appaghino. Ma
può sbagliare mira. Perché alcuni dei beni cui esso si volge sono beni apparenti, cioè mali: beni che
sembrano soddisfarlo, ma che in realtà lo piegano verso il disordine e lo spingono verso l’infelicità.
Il desiderio è in sé l’energia della vita, ma si possono desiderare cose che fanno fiorire e cose che ci
fanno appassire. Ebbene, l’avarizia è un desiderio che fa appassire. E’ il deragliamento del desiderio
che cresce su se stesso. Sappiamo perché. I beni diventano beni, cioè cose buone, quando sono
messi in comune. I beni non condivisi sono sempre vie di infelicità, persino in un mondo opulento.
Il denaro tenuto stretto, come geloso possesso, in realtà impoverisce il suo possessore, perché lo
spoglia della capacità di dono. L’avaro, per definizione, non riesce a donare e dunque non può
essere felice. Può fare regali, può cioè impegnarsi in pratiche filantropiche se ciò gli serve,
strumentalmente, ad accrescere il suo possesso.
Afferriamo così il significato profondo dell’enunciato di Eraclito - “ciò che il desiderio
vuole, lo compra a prezzo dell’anima”- che bene interpreta la condizione esistenziale dell’avaro, il
quale “vende” l’anima per “comprarsi” il desiderio di accumulare senza limite. Perché l’avaro è un
soggetto che accumula oggetti in modo ripetitivo e ossessivo, indipendentemente dal valore reale di
ciò che raccoglie. Eppure, senza pratiche estese di dono mai si potranno realizzare le condizioni per
una vita felice. Si potrà anche arrivare ad un mercato efficiente e ad uno Stato autorevole (e perfino
giusto), ma non si riuscirà certo a risolvere quel “disagio di civiltà” di cui parla Freud nel suo
saggio famoso. Due infatti sono le categorie di beni di cui tutti avvertono la necessità: i beni di
giustizia e i beni di gratuità. I primi – si pensi ai beni erogati dal welfare state – fissano un preciso
dovere in capo ad un soggetto – tipicamente l’ente pubblico – affinché i diritti dei cittadini su quei
beni vengano soddisfatti. I beni di gratuità, invece, - sono tali i beni relazionali – fissano
un’obbligazione che discende dal legame che ci unisce l’un l’altro. Infatti, è il riconoscimento di
una mutua ligatio tra persone a fondare l’ob-ligatio. E dunque mentre per difendere un diritto si
può, e si deve, ricorrere alla legge, si adempie ad un’obbligazione per via di gratuità reciprocante.
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Mai nessuna legge potrà imporre ai cittadini di praticare la reciprocità e mai nessun incentivo
economico potrà favorire comportamenti gratuiti. Eppure non v’è chi non veda quanto i beni di
gratuità siano importanti per il bisogno di felicità che ciascun uomo si porta dentro.
Anche l’avaro lo sa, ma non riesce ad ottenerli, perché, rifiutandosi di legarsi all’altro, non
riesce a tradurre in pratica il messaggio della regola d’oro: “ama ogni altro come te stesso”.
L’avaro, infatti, non ama se stesso, ma solamente “la roba” che accumula. Tanto meno può amare
allora gli altri, nei confronti dei quali può solo limitarsi ad applicare la regola di rame: “fai all’altro
ciò che l’altro fa a te”. Come l’altro tratta l’avaro? Da avaro, e così il cerchio si chiude
rafforzandosi sempre più. Secondo la celebre espressione di Kierkegaard, la porta della felicità si
apre verso l’esterno, sicchè può essere dischiusa solo andando “fuori di sé”. Il che è proprio quanto
l’avaro non riesce a fare.
Oggi, siamo forse in grado di andare oltre la riduttiva interpretazione di Voltaire secondo cui
“gli uomini odiano coloro che chiamano avari solo perché non ne possono cavar nulla” (Dizionario
filosofico, 1764) e di vedere nell’avarizia il vizio capitale che, se non controbilanciato da autentiche
e vaste pratiche di gratuità, può minacciare la sostenibilità del nostro modello di civiltà. L’aveva
ben compreso Dickens, che nel suo Canto di Natale (1843) fa compiere al freddo e avaro
Ebeneezer Scrooge il gesto rimasto celebre, indimenticabile. Il vecchio finanziere della City, che
mai aveva speso un centesimo e che considerava il Natale una perdita di tempo e dunque di denaro,
alla fine scopre la verità su di sé, assieme a qualcosa della vita che non aveva ancora assaporato.
Nell’incredulità generale, comincia a distribuire non solamente il denaro ossessivamente
accumulato nel corso di una vita guidata dalla passione dell’avere, ma anche simpatia e tenerezza. E
da ciascuno si congeda con le parole: “Vi ringrazio, vi sono molto, molto riconoscente”.
Finalmente, da vecchio, l’avaro Scrooge aveva scoperto cos’è la reciprocità e con essa aveva
assaporato la felicità.