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1 La costituzione mista in Polibio di John Thornton (Università di Roma) 1. Le leggi e i costumi Nel progetto originario delle Storie, Polibio si proponeva di indagare un fatto paradoxon, inatteso, sorprendente: «come, e grazie a quale genere di regime politico quasi tutto il mondo abitato sia stato assoggettato e sia caduto in nemmeno cinquantatré anni interi sotto il dominio unico dei Romani, cosa che non risulta essere mai avvenuta prima» (I 1, 5; cf. VI 2, 3; VIII 2, 3-4; XXXIX 8, 7). Colpisce immediatamente il ruolo riservato alla politeia nel processo storico: l’ordinamento politico viene strettamente connesso alla conquista della maggior parte dell’ecumene; si potrebbe quasi dire che Polibio voglia ricondurre la conquista alle caratteristiche del sistema istituzionale romano, e, a rigore, intenda spiegarla con l’eccellenza della politeia. La connessione fra le particolarità del sistema politico (politeuma) romano e le diverse fasi della conquista, fino al progetto di dominio universale, viene affermata poi ancor più esplicitamente in III 2, 6 1 . In un brano successivo, un frammento da riportare alla parte introduttiva del libro VI, la forma della politeia viene elevata al rango di causa dei successi e degli insuccessi di uno Stato su un piano ancor più generale: «non solo, infatti, scaturiscono da questa, come da una sorgente, tutti i progetti e disegni di imprese, ma da questa essi sono anche portati a compimento» (VI 2, 8-10) 2 . 1 «Sospendendo la narrazione a questo punto, affronteremo il discorso sulla costituzione dei Romani, e immediatamente dopo mostreremo che la natura particolare del sistema politico giovò loro moltissimo non solo a guadagnarsi il dominio su Italici e Sicelioti e ad aggiungervi, inoltre, quello su Iberi e Celti, ma anche, da ultimo, dopo aver prevalso in guerra sui Cartaginesi, a concepire il disegno di impero universale»; cf. anche VI 51, 5-8, dove il successo su Cartagine viene riportato alla migliore qualità del processo decisionale a Roma, affidato al senato, e dunque agli aristoi, rispetto a Cartagine, dove se ne era già impadronito il demos (i polloì). Le traduzioni di Polibio sono tratte dall’edizione delle Storie a cura di D. MUSTI, con traduzione italiana di M. MARI (libri I-XVIII; XXVIII-XXXIII; frammenti), F. CANALI DE ROSSI (libri XIX-XXVII), A.L. SANTARELLI (libri XXXIV-XXXIX), I-VIII, Milano, BUR, 2001-2006. 2 Vd. V. PÖSCHL, Römischer Staat und griechisches Staatsdenken bei Cicero. Untersuchungen zu Ciceros Schrift De re publica, Berlin, Junker und Dünnhaupt Verlag, 1936, pp. 57-58; L. ZANCAN, Dottrina delle costituzioni e decadenza politica in Polibio, «RIL», 1936, pp. 499-512, in particolare pp. 503; 506; H. RYFFEL, ΜΕΤΑΒΟΛΗ ΠΟΛΙΤΕΙΩΝ. Der Wandel der Staatsverfassungen, Bern, Verlag Paul Haupt, 1949, pp. 181-182; K. ZIEGLER, Polybios 1), RE XXI, 2, Stuttgart und Waldsee, Alfred Druckenmüller Verlag, 1952, coll. 1440-1578, in particolare 1490; K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution in Antiquity. A Critical Analysis of Polybius’ Political Ideas, New York, Columbia University Press, 1954, p. 34: «He had found the solution to this problem in the excellence of their constitution» (cf. ibidem, p. 89); P. PÉDECH, La méthode historique de Polybe, Paris, Le Belles Lettres, 1964, pp. 303-304; A. ROVERI, Studi su Polibio, Bologna, Zanichelli, 1964, pp. 163-165; 180; K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen. Beobachtungen zu Prinzipien griechischer und römischer Historiographie bei Polybios, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag, 1966, pp. 24-27; 61; G. SASSO, Polibio e Machiavelli: costituzione, potenza, conquista (1961), in ID., Studi su Machiavelli, Napoli, Morano, 1967, pp. 223-280, in particolare 242-244 (riedito, con il titolo Machiavelli e Polibio. Costituzione,

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La costituzione mista in Polibio

di John Thornton

(Università di Roma) 1. Le leggi e i costumi Nel progetto originario delle Storie, Polibio si proponeva di indagare un fatto paradoxon, inatteso, sorprendente: «come, e grazie a quale genere di regime politico quasi tutto il mondo abitato sia stato assoggettato e sia caduto in nemmeno cinquantatré anni interi sotto il dominio unico dei Romani, cosa che non risulta essere mai avvenuta prima» (I 1, 5; cf. VI 2, 3; VIII 2, 3-4; XXXIX 8, 7). Colpisce immediatamente il ruolo riservato alla politeia nel processo storico: l’ordinamento politico viene strettamente connesso alla conquista della maggior parte dell’ecumene; si potrebbe quasi dire che Polibio voglia ricondurre la conquista alle caratteristiche del sistema istituzionale romano, e, a rigore, intenda spiegarla con l’eccellenza della politeia. La connessione fra le particolarità del sistema politico (politeuma) romano e le diverse fasi della conquista, fino al progetto di dominio universale, viene affermata poi ancor più esplicitamente in III 2, 61. In un brano successivo, un frammento da riportare alla parte introduttiva del libro VI, la forma della politeia viene elevata al rango di causa dei successi e degli insuccessi di uno Stato su un piano ancor più generale: «non solo, infatti, scaturiscono da questa, come da una sorgente, tutti i progetti e disegni di imprese, ma da questa essi sono anche portati a compimento» (VI 2, 8-10)2. 1 «Sospendendo la narrazione a questo punto, affronteremo il discorso sulla costituzione dei Romani, e immediatamente dopo mostreremo che la natura particolare del sistema politico giovò loro moltissimo non solo a guadagnarsi il dominio su Italici e Sicelioti e ad aggiungervi, inoltre, quello su Iberi e Celti, ma anche, da ultimo, dopo aver prevalso in guerra sui Cartaginesi, a concepire il disegno di impero universale»; cf. anche VI 51, 5-8, dove il successo su Cartagine viene riportato alla migliore qualità del processo decisionale a Roma, affidato al senato, e dunque agli aristoi, rispetto a Cartagine, dove se ne era già impadronito il demos (i polloì). Le traduzioni di Polibio sono tratte dall’edizione delle Storie a cura di D. MUSTI, con traduzione italiana di M. MARI (libri I-XVIII; XXVIII-XXXIII; frammenti), F. CANALI DE ROSSI (libri XIX-XXVII), A.L. SANTARELLI (libri XXXIV-XXXIX), I-VIII, Milano, BUR, 2001-2006. 2 Vd. V. PÖSCHL, Römischer Staat und griechisches Staatsdenken bei Cicero. Untersuchungen zu Ciceros Schrift De re publica, Berlin, Junker und Dünnhaupt Verlag, 1936, pp. 57-58; L. ZANCAN, Dottrina delle costituzioni e decadenza politica in Polibio, «RIL», 1936, pp. 499-512, in particolare pp. 503; 506; H. RYFFEL, ΜΕΤΑΒΟΛΗ ΠΟΛΙΤΕΙΩΝ. Der Wandel der Staatsverfassungen, Bern, Verlag Paul Haupt, 1949, pp. 181-182; K. ZIEGLER, Polybios 1), RE XXI, 2, Stuttgart und Waldsee, Alfred Druckenmüller Verlag, 1952, coll. 1440-1578, in particolare 1490; K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution in Antiquity. A Critical Analysis of Polybius’ Political Ideas, New York, Columbia University Press, 1954, p. 34: «He had found the solution to this problem in the excellence of their constitution» (cf. ibidem, p. 89); P. PÉDECH, La méthode historique de Polybe, Paris, Le Belles Lettres, 1964, pp. 303-304; A. ROVERI, Studi su Polibio, Bologna, Zanichelli, 1964, pp. 163-165; 180; K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen. Beobachtungen zu Prinzipien griechischer und römischer Historiographie bei Polybios, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag, 1966, pp. 24-27; 61; G. SASSO, Polibio e Machiavelli: costituzione, potenza, conquista (1961), in ID., Studi su Machiavelli, Napoli, Morano, 1967, pp. 223-280, in particolare 242-244 (riedito, con il titolo Machiavelli e Polibio. Costituzione,

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Alle due domande poste all’inizio delle Storie – «come, e grazie a quale genere di regime politico» Roma fosse pervenuta così rapidamente a un dominio tanto esteso da potersi prevedere che sarebbe risultato insuperabile anche in futuro – Polibio si proponeva di dare risposta nel corso dell’opera3. Alla prima doveva rispondere concretamente la narrazione delle forme della conquista romana dal 220 al 168 a.C. – il periodo di cinquantatré anni al termine del quale Polibio riteneva che Roma avesse acquistato il dominio incontrastato (aderitos exousia, XXXI 25, 6) su quasi l’intera ecumene; all’altra domanda, quella relativa alla politeia che aveva reso possibile il fatto paradoxon (I 1, 4; 2, 1) della conquista, Polibio si riservò di rispondere dopo aver condotto la narrazione della guerra annibalica fino al momento più drammatico per Roma, la sconfitta di Canne, il disastro militare che mise in moto le defezioni più gravi dei socii romani nell’Italia meridionale e in Sicilia, da Capua a Taranto a Siracusa4.

potenza, conquista, in ID., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1987, pp. 67-118); G.J.D. AALDERS, Die Theorie der gemischten Verfassung im Altertum, Amsterdam, Hakkert, 1968, pp. 90-91; 96; K.-E. PETZOLD, Studien zur Methode des Polybios und zu ihrer historischen Auswertung, München, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, 1969, pp. 64-65; 75-76. Più di recente, vd. anche J.G.A. POCOCK, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, I. Il pensiero politico fiorentino (1975), trad. it. di A. PRANDI, Bologna, Società editrice il Mulino, 1980, p. 193; R. WEIL, Notice, in POLYBE, Histoires. Livre VI. Texte établi er traduit par R. WEIL avec la collaboration de C. NICOLET, Paris, Le Belles Lettres, 1977, pp. 9-64, in particolare p. 14; G.W. TROMPF, The Idea of Historical Recurrence in Western Thought. From Antiquity to the Reformation, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1979, p. 5; W. NIPPEL, Mischverfassungstheorie und Verfassungsrealität in Antike und früher Neuzeit, Stuttgart, Klett-Cotta, 1980, p. 142; F.W. WALBANK, The idea of decline in Polybius (1980), ora in ID., Polybius, Rome and the Hellenistic World, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 193-211, in particolare p. 200; H. EISENBERGER, Die Natur und die römische Politeia im 6. Buch des Polybios, «Philologus», 126 (1982), pp. 44-58, in particolare 45-46; B. MEISSNER, ΠΡΑΓΜΑΤΙΚΗ ΙΣΤΟΡΙΑ: Polybios über den Zweck pragmatischer Geschichtsschreibung, «Saeculum», 37 (1986), pp. 313-351, in particolare pp. 319; 334; e da ultimo D.E. HAHM, Kings and constitutions: Hellenistic theories, in C. ROWE and M. SCHOFIELD (ed. by), The Cambridge History of Greek and Roman Political Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 457-476, in particolare p. 464; F. MILLAR, The Roman Republic in Political Thought, Hanover and London, University Press of New England, 2002, p. 23; C.B. CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’s Histories, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 2004, pp. 81-85; D.E. HAHM, The Mixed Constitution in Greek Thought, in R.K. BALOT (ed. by), A Companion to Greek and Roman Political Thought, Malden, MA-Oxford, Wiley-Blackwell, 2009, pp. 178-198, in particolare p. 191, e H.I. FLOWER, Roman Republics, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2010, p. 25. Sulla molteplicità degli aspetti compresi nella parola greca politeia, che solitamente si traduce come ‘costituzione’, o ‘stato’, e in particolare sul suo impiego in Polibio, vd. R. WEIL, Notice, cit., p. 15; F.W. WALBANK, A Greek looks at Rome: Polybius VI revisited (1998), ora in ID., Polybius, Rome and the Hellenistic World, cit., pp. 277-292, in particolare p. 278; e ora C.B. CHAMPION, Cultural Politics, cit., p. 75; ID., Polybius on Political Constitutions, Interstate Relations, and Imperial Expansion, c.d.s. 3 Cf. già F.W. WALBANK, Polybius and the Roman State, «GRBS», 5 (1964), pp. 239-260, in particolare p. 244. 4 Per le defezioni degli alleati nel dopo Canne cf. LIV. XXII 61, 10-12 (e vd. ora M.P. FRONDA, Between Rome and Carthage. Southern Italy during the Second Punic War, Cambridge, Cambridge University Press, 2010). Vd. per esempio K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., p. 44; P. PÉDECH, La méthode, cit., p. 306; A. ROVERI, Studi su Polibio, cit., p. 164; K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen, cit., pp. 32-33; 79-80; F.W. WALBANK, Polybius, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1972, pp. 133, 144-145; C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, in Polybe, Entretiens sur l’Antiquité classique XX, Fondation Hardt, Genève, 1974, pp. 207-258, in particolare p. 213, testo e nota 2; 243; 255; G.W. TROMPF, The Idea of Historical Recurrence, cit., p. 65; D. MUSTI, Polibio, in L. FIRPO (dir.), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, I, Torino, Utet, 1982, pp. 609-651, in particolare pp. 610-611; D.E. HAHM, Polybius’ applied political theory, in A. LAKS and M. SCHOFIELD (ed. by), Justice and Generosity. Studies in Hellenistic Social and Political Philosophy. Proceedings of the Sixth Symposium Hellenisticum, Cambridge, 1995, pp. 7-47, in particolare pp. 7-8; A. LINTOTT, The Constitution of the Roman Republic, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 16; 218; H. MOURITSEN, Plebs and Politics in the Late Roman Republic, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, pp. 5-6; F. MILLAR, The Roman Republic, cit., p. 28; B. MCGING, Polybius’ Histories, New York, Oxford University Press, 2010, p. 170. In generale, sul VI libro, essenziale F.W. WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, I. Commentary on Books I-VI, Oxford, Clarendon Press, 1957, pp. 635-746 (in particolare per es. p. 647 sulla convinzione polibiana della connessione fra conquista e forma costituzionale all’origine del VI libro).

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Come, infatti, chi nella sfera privata esprime opinioni sugli uomini malvagi o buoni, quando veramente si propone di metterli alla prova, non prende in esame i momenti della vita di costoro caratterizzati da una vita sicura, ma i rovesci legati a circostanze infelici e i successi còlti in quelle felici, ritenendo che la sola pietra di paragone di un uomo perfetto sia il saper sopportare con magnanimità e nobili sentimenti i radicali mutamenti della fortuna, nello stesso modo bisogna giudicare anche una costituzione. Perciò, non vedendo quale mutamento di condizione si potrebbe riscontrare, ai nostri tempi, più netto e più grande di quello toccato ai Romani, ho riservato a questo momento l’esposizione di questi argomenti: da questi si potrà comprendere l’entità del mutamento (VI 2, 5-7). Nonostante il libro VI delle Storie non ci sia pervenuto per intero, è ancora evidente quanto Polibio tenesse alla sua connessione con il contesto narrativo in cui aveva scelto di introdurre l’esame della politeia romana. Significativamente, oltre ai passi già esaminati, e al breve riferimento in 11, 25, il libro si chiude – non solo nella versione frammentaria che possiamo leggerne oggi – con un aneddoto tratto dall’epoca stessa in cui la narrazione si era interrotta per fare posto all’analisi, introdotto «per rendere evidenti non solo con le parole ma anche con i fatti – quasi presentando un solo esempio delle opere di un valido artista – quale fosse a quel tempo il vigore e la forza dello Stato (della politeia)» (VI 58, 1). Polibio dunque presenta la politeia romana come l’artista che crea, cioè come il fattore che determinava le esemplari decisioni politiche della repubblica; e a riprova della sua eccellenza scelse il fermo rifiuto opposto alla proposta di Annibale di liberare, dietro pagamento di un riscatto, gli ottomila soldati romani che, lasciati a presidiare l’accampamento durante la battaglia di Canne, erano caduti in potere del nemico, incolpevoli, dopo la disfatta. Annibale aveva concesso ai prigionieri di inviare a Roma dieci loro rappresentanti per trattare il riscatto e la salvezza, sotto giuramento che al termine della missione sarebbero tornati da lui. «Uno dei prescelti, mentre ormai stava uscendo dal campo, disse di aver dimenticato qualcosa e tornò indietro, e ripartì dopo aver preso quello che aveva lasciato, credendo, poiché era tornato indietro, di aver mantenuto la parola e sciolto il giuramento». Giunti a Roma, i dieci presentarono l’offerta di Annibale, disponibile a lasciarli liberi al prezzo di tre mine ciascuno. Ascoltata la proposta recata dai concittadini, osserva Polibio, i Romani (di fatto, il senato, come risulta chiaramente dal brano stesso di Polibio ed è esplicito nel parallelo racconto liviano6), nonostante le perdite subite in battaglia, la defezione degli alleati e il rischio concreto che Annibale marciasse contro Roma, non trascurarono quel che si addiceva loro piegandosi alle sventure, né lasciarono da parte nei loro ragionamenti nessuna delle cose necessarie, ma, comprendendo il piano di Annibale (con quell’azione egli voleva procurarsi denaro in abbondanza e allo stesso tempo privare gli avversari del desiderio di farsi onore in battaglia, dando a intendere che agli sconfitti restava comunque una speranza di salvezza), furono tanto lontani dall’esaudire ogni richiesta da non attribuire maggiore importanza né alla pietà per i congiunti, né ai vantaggi che avrebbero ricavato da quegli uomini: anzi resero vani i calcoli e le speranze di Annibale rifiutando il riscatto per gli uomini, mentre a se stessi imposero la legge di vincere o morire combattendo, poiché in caso di sconfitta non avevano nessun’altra speranza di salvezza. Perciò, con questo proposito, inviarono i nove legati che tornavano indietro volontariamente, nei termini del giuramento, e legarono e riconsegnarono ai nemici quello che aveva cercato con un sotterfugio di sciogliere il giuramento: così Annibale, anziché gioire per aver sconfitto in battaglia i Romani, si perse d’animo, impressionato dalla fermezza e dalla grandezza d’animo di quegli uomini nelle loro decisioni (VI 58, 8-13)7.

5 Dove Polibio, introducendo la descrizione dell’ordinamento istituzionale romano, precisa che andava riferita all’epoca «in cui essi, battuti nella battaglia di Canne, subirono un disastro su tutta la linea». Cf. infra, § 4. 6 LIV. XXII 58-61, che riporta due versioni dell’episodio, come già CIC. off. III 113-115, che affiancava alla versione polibiana quella di Acilio. 7 Sulle tensioni suscitate dalla scelta del senato di anteporre le esigenze della patria ai legami familiari, vd. M. LEIGH, Comedy and the Rise of Rome, Oxford, Oxford University Press, 2004, cap. 3, The Captivi and the Paradoxes of Postliminium, pp. 57-97. A.M. ECKSTEIN, Physis and Nomos: Polybius, the Romans, and Cato the Elder, in P. CARTLEDGE, P. GARSNEY, and E. GRUEN (ed. by), Hellenistic Constructs. Essays in Culture, History, and Historiography, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1997, pp. 175-198, in particolare 187-190 osserva come questo aneddoto rappresenti il culmine del VI libro, esemplificazione del successo del sistema educativo romano. Per la sua funzione di connessione alla ripresa della narrazione della guerra annibalica nel libro VII, vd. per es. K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen, cit., pp. 96-97.

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Nella riflessione di Polibio, dunque, l’eccellenza della politeia determina anche l’ethos di un popolo, e per questa via ne influenza le decisioni politiche; in particolare, il carattere delle decisioni prese a Roma nel momento della più profonda crisi militare e politica della repubblica rese possibile non solo resistere all’attacco di Annibale fino a sconfiggerlo, ma anche poi conquistare il dominio sull’intero bacino mediterraneo8. Così, Polibio insiste sugli effetti morali del sistema delle leggi e dei costumi romani; fra gli ultimi capitoli del VI libro che ci siano pervenuti, un gruppo coerente e consistente è dedicato a mostrare la cura del politeuma romano «per forgiare uomini in grado di sopportare tutto pur di conseguire in patria la fama di valorosi» (VI 52, 11)9. Ritenendo anche qui sufficiente riportare un solo esempio, Polibio introdusse a questo punto la celebre descrizione delle pubbliche esequie dei membri della nobilitas romana, con la rievocazione delle aretaì e delle praxeis (virtù e imprese militari) del defunto nella laudatio funebris, il discorso commemorativo pronunciato dai rostra, la tribuna degli oratori nel foro10. Negli spettatori, l’attivazione della memoria produceva effetti di sympatheia, di condivisione del lutto, sentito come una perdita per l’intera comunità; ma, soprattutto, Polibio loda l’uso di ricordare pubblicamente successi e imprese non solo del defunto, ma anche di tutti i suoi antenati, spettacolarmente rappresentati nella processione funebre da figuranti che ne indossavano le maschere di cera e portavano le vesti e le insegne corrispondenti agli onori che ciascuno aveva ricevuto nella sua vita pubblica.

Di conseguenza, venendo sempre rinnovata la fama di virtù degli uomini di valore, la gloria di coloro che hanno compiuto qualche bella azione si fa immortale, e la celebrità di coloro che hanno reso benefici alla patria diviene nota ai più ed è trasmessa ai posteri. Ma la cosa più importante è che i giovani sono incoraggiati a sopportare qualunque cosa per il bene dello Stato, per conseguire la gloria che accompagna gli uomini di valore (VI 54, 2-3)11. Quindi, Polibio passava in rassegna i frutti di questa sorta di educazione permanente alla virtù, e le prove di valore fornite dai cittadini romani, disposti ad anteporre il bene dello Stato alla vita stessa, e persino ai vincoli familiari – tanto che alcuni, da magistrati, non avevano esitato neppure a condannare a morte i figli12. Scegliendo ancora una volta di provare le proprie affermazioni con un solo esempio, riferì poi il celebre aneddoto di Orazio Coclite13, che aveva affrontato coraggiosamente la morte per dare il tempo ai compagni di tagliare il ponte per impedire

8 In VI 47, 1-4, nell’ambito del confronto fra le politeiai di Sparta e dei Cretesi, di cui contestava l’analogia sostenuta invece dai «più dotti degli scrittori antichi – Eforo, Senofonte, Callistene, Platone –» (VI 45, 1), Polibio aveva affermato la reciproca dipendenza fra i costumi e le leggi, la vita privata degli uomini e il carattere generale della città: vd. C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, cit., pp. 216; 243-245. 9 Cf. ancora C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, cit., p. 244. 10 Sulla laudatio funebris e la sua evoluzione nel tempo, nel contesto del progressivo affermarsi della retorica a Roma, e poi fino alla trasformazione in età cristiana, vd. W. KIERDORF, Laudatio funebris. Interpretationen und Untersuchungen zur Entwicklung der römischen Leichenrede, Meisenheim am Glan, Verlag Anton Hain, 1980, che parte proprio da questo brano polibiano; cf. anche E. GABBA, Dionigi d’Alicarnasso sull’origine romana del discorso funebre, «SCO», 46, 1, (1998), pp. 25-27. Sulla pompa funebris nel suo complesso cf. H.I. FLOWER, Ancestor Masks and Aristocratic Power in Roman Culture, Oxford, Clarendon Press, 1996, pp. 91-158; E. FLAIG, Ritualisierte Politik. Zeichen, Gesten und Herrschaft im Alten Rom, 2. Auflage, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2004, pp. 49-68. 11 A. MOMIGLIANO, Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture, tr. it. di M.L. Bassi, Torino, Einaudi 1980, p. 30 rileva come Polibio taccia «sull’altro aspetto di tali cerimonie, l’ostentazione cioè del culto degli antenati, dell’orgoglio familiare, e la riaffermazione da parte di alcune gentes, e contro altre, del proprio tradizionale diritto al potere». 12 S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II, 1, Bari, Laterza, 1966, pp. 149-153 riteneva che qui Polibio accennasse, «implicitamente, ad un episodio che la leggenda attribuì a Giunio Bruto, l’eversore della ‘tirannide’ di Tarquinio il Superbo, e fondatore della repubblica» (sull’uccisione dei figli di Bruto, colpevoli di aver congiurato contro la repubblica per favorire il ritorno dei Tarquini, vd. LIV. II 3-5). A.M. ECKSTEIN, Physis and Nomos, cit., p. 188 n. 43 associa a Bruto Aulo Postumio (cf. LIV. IV 29, 5-6) e Tito Manlio Torquato (LIV. VIII 7, da vedere con il commento di S.P. OAKLEY, A Commentary on Livy Books VI-X, II. Books VII-VIII, Oxford, Clarendon Press, 1998, pp. 436-451). Su questo brano, vd. B. MEISSNER, ΠΡΑΓΜΑΤΙΚΗ ΙΣΤΟΡΙΑ, cit., pp. 337-338. 13 Cf. LIV. II 10 (una versione secondo cui però l’eroe sarebbe riuscito a salvarsi gettandosi armato nel Tevere e raggiungendo i suoi a nuoto). Vd. M.B. ROLLER, Exemplarity in Roman Culture: The Cases of Horatius Cocles and Cloelia, «CPh», 99 (2004), pp. 1-56, in particolare 1-4 (la tradizione su Orazio Coclite impiegata per mostrare le caratteristiche dell’esemplarità nella cultura politica romana); 10-28.

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ai nemici di penetrare a Roma, e lo lodò per aver attribuito «maggior valore alla sicurezza della patria e alla propria gloria futura che all’esistenza presente e alla vita che gli restava. Tali sono, a quanto sembra, lo slancio e l’ambizione a compiere nobili imprese suscitati nei giovani dalle usanze in vigore presso i Romani» (VI 55, 3-4). Anche sul piano più specifico degli ordinamenti militari, Polibio aveva espresso il proprio apprezzamento per gli usi romani, capaci di «esortare in modo magnifico i giovani ad affrontare i pericoli» (VI 39, 1). Il sistema del pubblico conferimento di premi e ricompense ai soldati segnalatisi per valore e coraggio nelle imprese belliche ha significativi elementi di parallelismo, almeno nella rappresentazione polibiana, con la rievocazione delle gesta dei membri della nobilitas nelle cerimonie funebri: anche qui, un pubblico elogio, pronunciato dal comandante di fronte all’adunata dell’esercito14, si accompagna al diritto di ostentare in futuro i segni del pubblico riconoscimento del proprio valore, e di conservarne memoria nelle proprie case. Non a caso, anche a questo proposito Polibio sceglie di sottolineare gli effetti ortativi del costume:

Con incentivi come questi esortano alla combattività e allo spirito di emulazione in battaglia non solo chi ascolta ed è presente, ma anche chi resta a casa; chi ha ricevuto tali doni, infatti, oltre alla gloria presso le truppe e a una fama immediata a casa, anche dopo il ritorno in patria partecipa ai cortei portando segni di distinzione, poiché possono esibire ornamenti solo coloro che sono stati premiati dai generali per il loro coraggio, e in casa collocano nei punti meglio visibili le spoglie, facendone segni e testimonianze del proprio valore. Tali essendo, nell’esercito, la cura e l’attenzione sia per le onorificenze, sia per le punizioni, le loro azioni di guerra non possono che avere un esito fortunato e brillante (VI 39, 8-11)15. Il riferimento alle punizioni, nell’ultimo paragrafo del passo appena citato, apre uno spiraglio su quello che potremmo definire ‘the dark side’ della via romana alla virtù. Nei capitoli precedenti, partendo dal sistema del controllo delle sentinelle negli accampamenti, Polibio aveva disegnato un quadro inquietante del meccanismo delle punizioni nell’esercito romano, degli strumenti con cui si imponeva il rispetto della disciplina militare e, attraverso il terrore, si inducevano i soldati a non abbandonare mai il posto di guardia e a non volgere le spalle al nemico in battaglia (VI 36, 6 – 38, 4). Ai suoi lettori greci, Polibio aveva descritto senza orrore apparente le modalità della xylokopia, bastonatura, latinamente fustuarium; e conformemente alla sua convinzione della centralità del sistema di punizioni e premi per il buon funzionamento degli organismi sociali (cf. VI 14, 4), aveva concluso con approvazione, osservando che «perciò, essendo la pena così dura e inesorabile, le guardie notturne funzionano presso di loro in modo perfetto» (VI 37, 6). Più in generale, poi, passando in rassegna i poteri che consentivano ai tribuni militari di mantenere la disciplina fra i soldati condannandoli anche alla flagellazione, in caso di reati o di atti di vigliaccheria, aveva rilevato con ammirazione che era proprio «per timore della relativa pena» che certe sentinelle vanno incontro a morte certa, non volendo abbandonare il loro posto anche se i loro assalitori sono molto più numerosi […]; mentre alcuni, dopo aver lasciato cadere lo scudo o la spada o qualche altra arma nel corso della battaglia, si scagliano senza riflettere contro i nemici, sperando o di recuperare quello che hanno perduto o, se accade loro qualcosa, di sottrarsi a sicuro disonore e agli insulti dei compagni (VI 37, 12-13)16. Infine, Polibio aveva lodato come «una soluzione vantaggiosa e tale da incutere al tempo stesso timore» la decimazione dei reparti colpevoli di aver ceduto alla pressione nemica. In questo caso, al pubblico elogio del coraggio si sostituiva il biasimo pubblico della viltà, ai riconoscimenti

14 Cf. E. FLAIG, Ritualisierte Politik, cit., pp. 22-23, con riferimento a SALLUSTIO, Iug. 54, 1. 15 Già C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, cit., p. 244, aveva osservato, a proposito di questo brano, come «le passage sur la militia lui-même culmine en quelque sorte avec les chapitres 37-39, qui détaillent longuement les ‘récompenses et punitions’ qui assurent la cohésion et la force des armées romaines». 16 C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, cit., p. 251 n. 1, ha rilevato la stretta analogia fra queste parole di Polibio e l’aneddoto relativo al figlio di Catone, che avrebbe recuperato con valore la spada cadutagli di mano durante la battaglia di Pidna, in PLUT. Cat. ma. 20, 10-11.

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perpetui un trattamento infamante: a quanti un sorteggio favorevole avesse salvato dal fustuarium non si dava più frumento, ma orzo – considerato un cibo inferiore, adatto agli schiavi, o agli animali; inoltre, li si obbligava a prendere posizione al di fuori dell’accampamento. In questo modo, osserva Polibio, «poiché il pericolo e la minaccia del sorteggio gravano su tutti nella stessa misura, dato che non si sa quello che può accadere, e poiché la punizione esemplare che impone di cibarsi di orzo riguarda tutti allo stesso modo, è stata adottata una consuetudine in grado sia di incutere terrore, sia di correggere i comportamenti sbagliati» (VI 38, 4)17. Il quadro non è ancora completo. Nell’ambito del confronto fra i sistemi istituzionali di Roma e di Cartagine, le due potenze che si erano affrontate nella guerra annibalica, Polibio affermava la superiorità di costumi e consuetudini18 romani anche a proposito dei chrematismoì, i guadagni, e lodava la ferma condanna della corruzione elettorale nelle leggi della repubblica19. È probabile, in realtà, che nell’affermare la superiorità romana Polibio non pensasse solo al funzionamento delle elezioni, ma anche più in generale alla gestione dei fondi pubblici: la narrazione liviana delle vicende che costrinsero Annibale ad abbandonare Cartagine per rifugiarsi presso il re seleucide Antioco III è chiaramente di derivazione polibiana20, e contiene una aperta condanna dell’abitudine al peculato che Annibale si sarebbe sforzato di combattere21, esacerbando l’ostilità dei suoi avversari. Il tema della corruzione suscita in Polibio un doloroso confronto fra l’astinenza dei magistrati romani e i ben diversi costumi del mondo greco contemporaneo22; nel tentativo di fornire una spiegazione di questa difformità, egli indica la pervasiva presenza degli scrupoli religiosi nella società romana. Benché, come è noto, giustifichi la deisidaimonia romana – una caratteristica solitamente attribuita ai barbari, e condannata come eccessiva23 – in funzione del necessario contenimento dei desideri illegali, dell’ira irrazionale e delle violente passioni delle masse, del plethos (VI 56, 11), in realtà poi Polibio ne estende gli effetti positivi anche ai magistrati24:

Pertanto, a parte il resto, fra i Greci chi amministra la cosa pubblica, anche se gli viene affidato soltanto un talento, con dieci revisori, altrettanti sigilli e un numero doppio di testimoni, non riesce a mantener fede alla parola data, mentre a Roma, pur maneggiando forti somme di denaro come magistrati o come legati, rispettano il loro dovere semplicemente in forza della parola data nel giuramento. E mentre presso gli altri popoli è raro trovare un uomo che si astenga dal toccare il denaro pubblico e si conservi puro a questo riguardo, fra i Romani è raro che qualcuno sia sorpreso in un’azione del genere (VI 56, 13-15). Anche sul piano dei costumi, dunque, Polibio riscontra la stessa eccezionalità romana che già aveva rilevato su quello dell’analisi istituzionale, nelle caratteristiche della politeia. La sua insistenza sulla capacità degli usi romani di ispirare nei giovani amore per la virtù, disinteresse personale e perseguimento del bene comune fino all’estremo sacrificio è però indicativa dell’importanza che a queste qualità Polibio attribuiva per il mantenimento del buon ordine

17 L’importanza che Polibio assegnava al sistema di premi e punizioni nell’esercito romano è rilevata anche da A.M. ECKSTEIN, Physis and Nomos, cit., pp. 183-184. 18 Per il posto essenziale che ethe kaì nomima occupano nell’eziologia storica di Polibio, e nel libro VI delle Storie, vd. ancora C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, cit., pp. 216-217 (e cf. già P. PÉDECH, La méthode, cit., p. 303, e le importanti considerazioni di V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., p. 75). 19 POLYB. VI 56, 1-5, con K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 115-116; 256; 455-456 n. 5. 20 Vd. almeno J. BRISCOE, A Commentary on Livy. Books XXXI-XXXIII, Oxford, Clarendon Press, 1973, pp. 335-336, che ammette comunque la possibilità «that Livy has incorporated into a basically Polybian account details from annalistic sources». 21 Cf. in particolare LIV. XXXIII 46, 8; 47, 3 (tum vero ii, quos paverat per aliquot annos publicus peculatus, velut bonis ereptis, non furtorum manubiis extortis…). 22 Vd. G. ZECCHINI, Polibio e la corruzione, «RSA», 36 (2006), pp. 23-33. 23 Su questo aspetto, vd. A. ERSKINE, Polybios and Barbarian Rome, «MediterrAnt», 3 (2000), pp. 165-182, in particolare pp. 176-181. Cf. anche, più in generale, K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., p. 58; C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, cit., p. 245. 24 Cf. K.-E. PETZOLD, Studien, cit., p. 80; A.M. ECKSTEIN, Physis and Nomos, cit., pp. 185, 189.

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istituzionale e della salute dello Stato: come ha scritto Claude Nicolet, «‘honneur’, ‘récompense’, ‘punitions’ – émulation et discipline, tels sont donc les η – servis par des lois – qui font la force de Rome»25. Tutta la riflessione polibiana sulle diverse forme istituzionali e sulla loro successione è permeata infatti da un vivo e doloroso senso di fragilità, di precarietà, di instabilità; e a provocare la crisi, il deterioramento delle forme semplici di politeia, che rapidamente si corrompono trasformandosi nella corrispondente forma di segno negativo, è ogni volta la degenerazione morale dei detentori del potere. Ciò risulterà chiaro dall’analisi dei capitoli iniziali del libro, relativi appunto alla teoria delle diverse forme istituzionali e del loro ciclico succedersi (anakyklosis), che convive in Polibio con la tesi della superiorità della costituzione mista e con l’accentuazione del pervasivo ritmo naturale di nascita, maturazione, decadimento. Sulle forme di questa convivenza, sugli attriti che nascono dalla giustapposizione di tre principi distinti si dovrà naturalmente tornare a riflettere.26

25 C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, cit., p. 244; cf. anche pp. 217 n. 2 e soprattutto 243-245, con un importante rinvio a VI 47, 2, «où Polybe déclare que l’essentiel, pour juger un peuple, consiste à juger les mœurs et les lois», in quanto la loro buona qualità garantisce quella degli uomini e della costituzione (p. 254). 26 La tesi della inconciliabilità delle teorie «della forma mista stabile di governo e della ναύλωσις aveva portato all’individuazione di «due momenti diversi nella composizione dell’opera», il secondo dei quali, quello appunto della ciclica successione delle costituzioni, che «presagiva la catastrofe di Roma», rifletterebbe l’impressione suscitata in Polibio dai moti graccani: dopo il 133, quando avrebbe fatto queste aggiunte al libro, a Polibio non sarebbe riuscito di «eliminare le manifeste contraddizioni»: così E. CIACERI, Il trattato di Cicerone De re publica e le teorie di Polibio sulla costituzione romana, «RAL», s. V, 27 (1918), pp. 236-249; 266-278; 303-315, in particolare pp. 240-242; 266 riformulò la tesi già presentata da P. LA ROCHE, Charakteristik des Polybios, Leipzig, 1857 (n. v.), e da O. CUNTZ, Polybius und sein Werk, Leipzig, Druck und Verlag von B.G. Teubner, 1902, pp. 37-42 (ma Cuntz per parte sua riteneva che solo VI 9, 10-14, VI 51, 3 ss. e VI 57 riflettessero «eine gründliche Änderung seiner Anschauungen über den römischen Staat», e attribuiva l’anaciclosi allo schema originario, in quanto «durch ihn wird die Güte der lykurgischen und römischen Verfassung erwiesen»: p. 41 nota 3); a leggere nella dottrina dell’anaciclosi la convinzione nell’inevitabile tramonto di Roma maturata da Polibio e dagli ambienti a lui più vicini – in primo luogo Scipione Emiliano – a seguito degli eventi graccani era stato già E. MEYER, Untersuchungen zur Geschichte der Gracchen, Halle, Max Niemeyer, 1894, p. 8. Cf. anche R. LAQUEUR, Polybius, Leipzig-Berlin, Verlag von B.G. Teubner, 1913, pp. 243 ss., che collegava la teoria dell’anaciclosi ai capitoli 51 e 57, e riconduceva questo strato all’influenza di Panezio; K. SVOBODA, Die Abfassungszeit des Geschichtswerkes des Polybios, «Philologus», 72 (1913), pp. 465-483, in particolare 472 sgg., che però riportava l’idea dell’anaciclosi e del declino di Roma a prima del 146, e riteneva il libro incompleto (così anche E. KORNEMANN, Zum Staatsrecht des Polybios, «Philologus», 86 (1931), pp. 169-184, in particolare pp. 170 per l’incompletezza, e 180 ss. per l’influenza di Panezio, cui sarebbe da ricondurre la seconda redazione); il sopraggiungere della morte avrebbe impedito a Polibio di completare la revisione dell’opera prima della pubblicazione; e G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, III. L’età delle guerre puniche, I, Firenze, La Nuova Italia, 19672 (prima edizione Torino, Bocca, 1916), pp. 201-205 che parlava di «giudizi affatto inconciliabili» e riportava la previsione del declino all’impressione suscitata dalla «sedizione graccana», tornando così alla posizione di E. MEYER, Untersuchungen, cit., p. 8. Cf. anche K. ZIEGLER, Polybios 1), cit., coll. 1496-1498; W. THEILER, Schichten im 6. Buch des Polybios, «Hermes», 81 (1953), pp. 296-302; e K.-E. PETZOLD, Studien, cit., pp. 64-90; 182-183. Nonostante le osservazioni a volte acutissime di cui sono ricchi, si ha l’impressione che i lavori degli ‘analitici’ vogliano imporre a Polibio un rigore logico che gli è estraneo (cf. D. MUSTI, Polibio, cit., pp. 627-628, e già L. ZANCAN, Dottrina delle costituzioni, cit., che negò con forza la necessità di spiegare le contraddizioni, vere o presunte, riscontrabili nel VI libro con la tesi delle due redazioni); inoltre, ammettendo la tesi secondo cui le due concezioni, inconciliabili, rifletterebbero convinzioni nutrite da Polibio in momenti diversi della sua vita, bisognerebbe spiegare come Polibio possa aver pensato di affiancarle, senza intervenire per eliminare, o almeno attenuare quella superata; la già riferita ipotesi di K. SVOBODA, Die Abfassungszeit, cit., p. 48, secondo cui ne sarebbe stato impedito dalla morte, sembra una soluzione disperata (tanto più ora che P. VEYNE, Décrets latins de consolation et date de l’édition de Polybe, in Splendidissima civitas. Études d’histoire romaine en hommage à François Jacques, réunies par A. CHASTAGNOL, S. DEMOUGIN, C. LEPELLEY, Paris, Publications de la Sorbonne, 1996, pp. 273-280, in particolare 273-274, ha sgombrato il campo dall’ipotesi di un’edizione postuma delle Storie; sulla questione cf. già H. ERBSE, Polybios-Interpretationen, «Philologus», 101 [1957], pp. 269-297, in particolare p. 287 n. 1). Un primo bilancio del dibattito in F.W. WALBANK, Polybius on the Roman Constitution, «CQ», 37 (1943), pp. 73-89, in particolare 73-76; per parte sua, Walbank riteneva che Polibio avrebbe cambiato prospettiva non solo dopo il 133, ma già a partire dal 150 circa, e che avrebbe scritto i nuovi capitoli «at some date subsequent to 146» (p. 88); per il passaggio di Walbank alla tesi ‘unitaria’, già sostenuta con vigore da E. MIONI, Polibio, Padova, Cedam, 1949, pp. 49-78, vd. invece C.O. BRINK and F.W. WALBANK, The Construction of the Sixth Book of Polybius, «CQ», n.s., 4 (1954), pp. 97-122 («The book is indeed a whole, but it remains a muddled

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2. Il ciclo delle costituzioni Polibio parte dalla constatazione della difficoltà che la complessità della politeia romana comportava per una sua esatta rappresentazione, per una precisa definizione del suo carattere. Altrettanto difficile risultava poi prevederne gli sviluppi futuri: a ostacolare questo compito era «l’ignoranza delle particolarità della loro condizione passata, nella vita pubblica come in quella privata»27. Si rendevano necessarie dunque «un’attenzione e una capacità di osservazione non comuni, se si vo[levano] cogliere con chiarezza i suoi aspetti distintivi» (VI 3, 3-4). Fin dall’inizio, così, in questa sorta di esaltazione della difficoltà dell’impresa intellettuale cui si accingeva, a fini di captatio benevolentiae, Polibio rilevava la poikilia, appunto complessità, varietà dell’ordinamento istituzionale romano28. Quindi, passava direttamente alla critica di quegli autori che si erano limitati ad indicare tre generi di politeia, vale a dire basileia, aristokratia e demokratia29. Questa tripartizione dell’universo costituzionale appariva a Polibio inaccettabile, sia che le tre forme di regalità, aristocrazia e democrazia venissero presentate come le uniche, sia che le si indicasse invece come le migliori. «È chiaro, infatti, che si deve considerare come la migliore costituzione quella che consiste dell’unione di tutte le forme particolari prima ricordate» (VI 3, 7):

whole»: p. 97), in particolare 108 sgg.; a questo saggio si possono far risalire le linee interpretative che si sono affermate a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Sulla «inconciliabilità ‘logica’» delle due (o tre, tenendo conto anche della «legge per la quale tutte le cose, storiche e naturali, nascono, crescono, raggiungono l’acme, decadono e muoiono») dottrine ha insistito G. SASSO, La teoria dell’anacyclosis (1958), in ID., Studi su Machiavelli, cit., pp. 161-222 (riedito con il titolo Machiavelli e la teoria dell’«anacyclosis», in ID., Machiavelli e gli antichi, I, cit., pp. 3-60, con una Postilla, pp. 61-65), in particolare pp. 173, nota 20; 174; ma soprattutto pp. 177-199, distinguendo però «il problema della cronologia e il problema della coerenza concettuale». TH. COLE, The Sources and Composition of Polybius VI, «Historia», 13 (1964), pp. 440-486, ha tentato di individuare due tradizioni confluite e sovrapposte nel VI libro. Ampia informazione sul dibattito naturalmente in D. MUSTI, Polibio negli studi dell’ultimo ventennio (1950-1970), in ANRW I, 2, Berlin-New York, De Gruyter, 1972, pp. 1114-1181, in particolare 1117-1122. Fra i sostenitori della tesi unitaria, vd. almeno F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, Stuttgart, Verlag von W. Kohlhammer, 1922, pp. 108-115; V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., pp. 57-61; K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 75; 84-95; F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., pp. 643-648; P. PÉDECH, La méthode, cit., pp. 308-317; A. ROVERI, Studi su Polibio, cit., pp. 163-199; 241-245; F.W. WALBANK, Polybius and the Roman State, cit., pp. 252 ss.; K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen, cit., pp. 24-97; G.J.D. AALDERS, Die Theorie, cit., pp. 101-106; F.W. WALBANK, Polybius, cit., pp. 134; 144-146; C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, cit., pp. 214-215 n. 2; 258; R. WEIL, Notice, cit., pp. 48 ss.; G.W. TROMPF, The Idea of Historical Recurrence, cit., pp. 4-59; W. NIPPEL, Mischverfassungstheorie, cit., p. 144; F.W. WALBANK, The idea of decline, cit., pp. 203-208; D. MUSTI, Polibio, cit., pp. 612-618; H. EISENBERGER, Die Natur, cit.; J.-L. FERRARY, L’archéologie du de re publica (2, 2, 4 - 37, 63): Cicéron entre Polybe et Platon, «JRS», 74 (1984), pp. 87-98, in particolare 90; L. PERELLI, Il pensiero politico di Cicerone. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1990, pp. 98-99; C. CARSANA, La teoria della «costituzione mista» nell’età imperiale romana, Como, Edizioni New Press, 1990, pp. 17-21; S. PODES, Polybios’ Anakyklosis-Lehre, diskrete Zustandssysteme und das Problem der Mischverfassung, «Klio», 73 (1991), pp. 382-390; J.M. BLYTHE, Ideal Government and the Mixed Constitution in the Middle Ages, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1992, pp. 25-29. C.B. CHAMPION, Cultural Politics, cit., pp. 69-70; 96-99 interpreta l’ambiguità creata dalla compresenza della tesi della stabilità della costituzione mista romana e di quella della necessità biologica della decadenza degli Stati con la forza ineluttabile dell’anaciclosi in funzione del tormentato rapporto di Polibio con il suo pubblico eterogeneo: nella complessa trama delle Storie, Greci e Romani avrebbero apprezzato fili diversi (cf. già H. RYFFEL, ΜΕΤΑΒΟΛΗ ΠΟΛΙΤΕΙΩΝ, cit., p. 211 n. 370). Per un recente bilancio del dibattito cf. D.E. HAHM, Polybius’ applied political theory, cit., pp. 9-12; B. MCGING, Polybius’ Histories, cit., pp. 176-177. 27 L’ignoranza sulla storia romana che Polibio attribuisce al suo pubblico greco doveva essere colmata da una specifica sezione del VI libro, la cosiddetta archaeologia, di cui non ci sono pervenuti che i brevi frammenti raccolti nel capitolo 11 (vd. K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 123-154; F.W. WALBANK, Polybius, cit., pp. 147-149, e naturalmente già ID., Commentary, I, cit., pp. 638, 663-673; D. MUSTI, Polibio, cit., p. 615); cf. infra, § 3. 28 Cf. K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen, cit., pp. 39-40, 46, 60; e K.-E. PETZOLD, Studien, cit., pp. 66, 67 nota 1, per la connessione fra la poikilia e il concetto di costituzione mista. 29 Sul problema dell’identificazione delle fonti discusse qui da Polibio, cf. F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., pp. 638-639; sul carattere polemico di questo passo cf. R. WEIL, Notice, cit., p. 18.

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una verità questa che a Polibio appariva provata oltre ogni ragionevole dubbio non solo per via teorica, di ragionamento, ma nei fatti, dall’esempio di Licurgo, che aveva istituito in questo modo la costituzione spartana. A impedire poi di considerare le tre forme costituzionali indicate nelle trattazioni, con le quali Polibio polemizzava, le uniche possibili, costringeva l’osservazione che accanto alle forme veramente regali, accanto alla basileia, coesistevano forme di potere personale monarchico o tirannico solo apparentemente analoghe ad essa – benché tutti coloro che ne godevano, tutti i monarchoi, aspirassero a presentarsi come investiti di una basileia30. Analogamente, la somiglianza apparente e superficiale non faceva di ogni oligarchia un’aristocrazia; e lo stesso valeva per la democrazia. A dimostrazione della verità delle sue puntualizzazioni, Polibio passava ad esaminare i criteri distintivi fra le tre forme politiche citate nelle trattazioni didascaliche e le forme corrispondenti tralasciate dagli analisti. Fra i poteri monarchici, la vera basileia era solo quella accettata spontaneamente dai sudditi, che non poggiava sul terrore e la violenza, ma sulla gnome, la proposta ragionevole che incontra l’approvazione generale. A distinguere l’aristocrazia da ogni oligarchia era la scelta degli uomini più giusti e assennati. Con particolare attenzione e prudenza poi Polibio stabiliva le condizioni per dispensare il titolo di democrazia: esso andava negato a «quel sistema nel quale la massa è padrona di fare tutto quel che vuole e ha in animo di fare» (VI 4, 4), per riservarlo esclusivamente a quelli in cui il prevalere dell’opinione dei più era temperato dalla venerazione per gli dèi, la cura dei genitori, il rispetto per gli anziani, l’obbedienza alle leggi. Nel libro teorico come in quelli narrativi, Polibio non era disposto a concedere «il più bello dei nomi» (VI 57, 9)31 ai regimi che minacciavano gli interessi economici e il predominio politico delle classi proprietarie alle quali apparteneva: le democrazie ellenistiche dalla politica sociale più vigorosa gli apparivano in termini di kachexia, «cattive condizioni» (XX 4, 1 – 7, 4, a proposito della politica della classe dirigente della Beozia fra Antigono III e Perseo)32, o di kakopoliteia (tale è il giudizio su Molpagora di Cio, un leader politico locale di cui Polibio presenta il potere in termini quasi tirannici, ma la cui monarchikè exousia sembra in realtà derivare dal consenso popolare rinnovato a più riprese in un contesto genuinamente democratico: XV 21, 1-2)33. In conclusione, Polibio ribadiva la necessità di affiancare alle tre forme costituzionali di cui tutti parlavano le corrispondenti forme di segno negativo: monarchia, oligarchia e ochlokratia. Per l’aborrito dominio delle masse popolari, in questo composto, attestato per la prima volta nelle Storie, Polibio impiega il termine ochlos, al quale una lunga tradizione aveva assegnato caratteristiche spiccatamente negative34. A questo punto, stabilita l’esistenza delle sei forme costituzionali, Polibio ne passa brevemente in rassegna la necessaria successione. Per prima, nasce naturalmente una forma di monarchia, da cui poi, attraverso un processo di affinamento che Polibio descriverà meglio più avanti, scaturisce la vera e propria basileia. La degenerazione della basileia nella forma negativa che le è naturalmente connessa origina quindi la tirannide, destinata ad essere abbattuta e sostituita dall’aristokratia. In questo primo, rapido sommario della dottrina del ciclo costituzionale (anaciclosi), Polibio si limita ad indicare la successione da una forma all’altra, senza soffermarsi troppo su cause e modalità del passaggio fra le diverse forme politiche. È impossibile non rilevare, tuttavia, come 30 POLYB. VI 3, 9-10. 31 Vd. D. MUSTI, Polibio e la democrazia, «ASNP» s. 2a, 36 (1967), pp. 155-207, in particolare 161-162; 193; ID., Polibio, cit., p. 633; ID., Demokratía. Origini di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 298-299. 32 Cf. J. THORNTON, Lo storico il grammatico il bandito. Momenti della resistenza greca all’imperium Romanum, Catania, 2001, pp. 39-99, e già D. MUSTI, Polibio, cit., p. 637. 33 Vd. D. MUSTI, Polibio e la democrazia, cit., p. 203, e J. THORNTON, Leader e masse: aspirazioni e timori nei primi libri delle Storie di Polibio, in U. ROBERTO - L. MECELLA (a cura di), Dalla storiografia ellenistica alla storiografia tardoantica: aspetti, problemi, prospettive. Atti del Convegno Internazionale di Studi. Roma, 23-25 ottobre 2008, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pp. 25-58, in particolare pp. 31-32. 34 Vd. però per esempio R. WEIL, Notice, cit., pp. 16-17, per l’ipotesi che ad Ario Didimo, citato da STOBEO II 7, 26, il termine pervenga da una fonte peripatetica; in ogni caso, esso «trouve sa célébrité en apparaissant chez Polybe».

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l’inserimento nello schema di un punto di partenza ad esso esterno, la monarchia naturale, premessa alla basileia, porti a sette il numero delle forme costituzionali indicate da Polibio, provocando qualche incoerenza terminologica35. Qui, la successione nell’ambito delle forme di potere personale è dalla monarchia originaria e naturale alla basileia alla tyrannis, forma corrotta corrispondente alla basileia; in precedenza, il termine monarchia aveva definito tanto la forma corrotta corrispondente alla basileia (VI 4, 6, e cf. già 3, 9, dove le politeiai monarchiche e tiranniche erano accomunate nella contrapposizione alla basileia, e più avanti ancora 8, 1 e 10, 4) quanto in generale tutte le forme di potere personale, fra le quali solo alcune avrebbero meritato il titolo di basileia (VI 4, 2)36. L’aristokratia che ha preso il posto della tirannide si trasforma anch’essa naturalmente (katà physin) in oligarchia, la corrispondente forma negativa, destinata a essere a sua volta sostituita dalla democrazia. In questo caso, Polibio accenna almeno alle modalità della trasformazione, identificandone il promotore nel plethos, la maggioranza, il popolo, indotto all’azione dall’ira per le ingiustizie (adikiai) dei capi. Col tempo, poi, inevitabilmente, anche il demos si lascia andare a comportamenti tracotanti e illegali (βρεως α παρανομίας): di essi si sostanzia la trasformazione della democrazia nella sua forma corrotta, l’ochlokratia. A questo punto, condotta a termine la prima, rapida esposizione del ciclo costituzionale, Polibio introduce un nodo problematico che molto ha dato da pensare:

Si potrà comprendere con la massima chiarezza che quanto ho ora detto a questo proposito è vero se ci si sofferma sugli inizi, la genesi e i mutamenti connaturati a ciascun tipo. Solo chi ha compreso, infatti, come ciascuno di essi nasce, potrà comprendere anche quando, come e dove ciascuno di nuovo si svilupperà, conoscerà il culmine, muterà e finirà. Ho ritenuto che questo metodo espositivo sarebbe stato particolarmente adatto alla costituzione dei Romani, perché essa sin dall’inizio si è formata e sviluppata secondo natura (POLYB. VI 4, 11-13). La conoscenza del ciclo costituzionale preliminarmente delineato in VI 4, 6-10, con la nascita, la crescita, l’acme, la trasformazione e la fine di ciascuna delle forme politiche considerate, viene ritenuta strumento sufficiente a poter prevedere tempi, modalità ed esito dello sviluppo di ogni politeia sottoposta ad esame. Ma questo metodo, in particolare, potrebbe applicarsi proprio alla politeia dei Romani, «perché essa sin dall’inizio si è formata e sviluppata secondo natura». Polibio dunque affianca allo schema dell’anaciclosi il ritmo naturale della parabola degli organismi viventi, dalla nascita all’acme alla fine; e, inoltre, afferma il carattere naturale, katà physin, della formazione della politeia romana – di cui aveva già rilevato la poikilia37 –, dall’origine alla fase di sviluppo. Così, sembra di intendere, una volta sanata l’ignoranza intorno all’evoluzione costituzionale romana, diverrà possibile prevedere i successivi sviluppi della politeia romana38. Con il capitolo 5, Polibio riprende a illustrare la sua teoria della successione delle forme costituzionali. A questa analisi premette alcune parole di giustificazione, in cui riconosce il carattere abbreviato e semplificato della propria presentazione del «discorso sul naturale mutarsi delle costituzioni l’una nell’altra» rispetto alle più complesse e articolate trattazioni che si potevano rinvenire «in Platone e in alcuni altri filosofi»39. Per parte sua, Polibio intendeva limitarsi ad una

35 Cf. già F.W. WALBANK, Polybius on the Roman Constitution, cit., pp. 78-79; H. RYFFEL, ΜΕΤΑΒΟΛΗ ΠΟΛΙΤΕΙΩΝ, cit., pp. 188-189, e fra gli altri per esempio J.M. BLYTHE, Ideal Government, cit., p. 26 n. 52. F.W. WALBANK, The idea of decline, cit., p. 202 leggerebbe in questa incoerenza fra l’impiego dei termini monarchos e tyrannos nell’anaciclosi e nel resto dell’opera la prova della dipendenza della teoria dell’anaciclosi da una fonte di cui Polibio avrebbe adottato il lessico. 36 Cf. F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., pp. 642; 648-649; 656; 660. Per l’uso del termine monarchos e simili nei libri narrativi di Polibio, cf. già F.W. WALBANK, Polybius on the Roman Constitution, cit., pp. 76-77 (che sosteneva, in base al confronto con il § successivo, che anche in VI 4, 2 monarchia sarebbe impiegato «as the equivalent of tiranny»); W. NIPPEL, Mischverfassungstheorie, cit., p. 144 n. 12; H. EISENBERGER, Die Natur, cit., pp. 46-47, nota 7. 37 Cf. VI 3, 3, con F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., p. 638, e vd. già supra, nota 28. 38 Cf. F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., pp. 649-650. 39 Vd. K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., p. 68, e F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., p. 650. Sull’influenza del libro III delle Leggi e del libro VIII della Repubblica sulla teoria polibiana dell’anaciclosi molto ha insistito G.W. TROMPF, The Idea of Historical Recurrence, cit., passim, e in particolare pp. 37-42.

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esposizione per sommi capi, che non trascendesse i limiti propri al contesto della pragmatikè historia, e fosse accessibile a tutti, anziché solo a pochi40; in ogni caso, si sentiva autorizzato a garantire che nel seguito della trattazione41 tutte le aporie e i dubbi eventualmente suscitati dalla sua intenzionale superficialità avrebbero trovato risposta. Da 5, 4 a 9, 9, il ciclo costituzionale viene presentato con maggior ricchezza di dettagli. Polibio parte da un azzeramento della civiltà, in conseguenza di un’inondazione, un’epidemia, una carestia o disastri simili; quando infine, con il passare del tempo, i pochi, sparsi nuclei di superstiti, cresciuti numericamente, si raccolgono insieme, esseri della stessa specie, spinti dalla loro naturale debolezza, allora necessariamente assume la guida e il comando il più forte ed audace: un fatto naturale, che si verifica anche fra gli altri animali42. Questo potere, fondato sulla forza, Polibio lo definirebbe monarchia. Col tempo, e con lo sviluppo delle consuetudini civili e della vita in comune, la prima percezione del bene e della giustizia, colti in contrapposizione al manifestarsi dei loro opposti, contribuisce all’origine della regalità. L’istinto naturale all’accoppiamento porta alla nascita dei figli; quando uno dei figli allevati, divenuto adulto, non mostri riconoscenza né difenda i genitori, ma al contrario li offenda e maltratti, il suo comportamento suscita un naturale sentimento di sdegno in quanti abbiano consapevolezza della cura dispensata e dei disagi affrontati dai genitori. L’irriconoscenza genera infatti la viva preoccupazione di chi, razionalmente, non può fare a meno di temere che un simile comportamento potrebbe ferire anche lui, in futuro. Analoghi sentimenti, e simili preoccupazioni, suscitano anche i casi di irriconoscenza nei confronti dei propri benefattori o salvatori. Nasce così la percezione dell’importanza del dovere, il kathekon, che è in primo luogo obbligo di riconoscenza, e «che è principio e fine della giustizia» (VI 6, 7). Parallelamente, acclamazioni benevole e sinceri riconoscimenti vengono tributati a quanti affrontano i pericoli in difesa di tutti, fronteggiando gli animali più forti; quanti invece vi si sottraggono incontrano solo biasimo e rancore. Anche da qui si sviluppa la percezione del bene e del male, dei comportamenti nobili e di quelli turpi, e della loro differenza: gli uni sono da ammirare e imitare, gli altri da evitare. In queste condizioni, quando il capo mostri di condividere le opinioni della massa, e appaia ai suoi sudditi «capace di dare a ciascuno secondo il merito», il rapporto di sottomissione, originariamente basato sul rispetto e il timore del più forte, si trasforma; d’ora in avanti, esso appare caratterizzato piuttosto dall’approvazione per la gnome del sovrano, da una spontanea adesione che fa sì che i sudditi ne difendano il potere anche quando egli si faccia vecchio, e anche in caso di attacchi alla sua supremazia. In questo modo, il monarca si trasforma insensibilmente in basileùs; alla base del riconoscimento e dell’attribuzione del potere, il raziocinio prende il posto della forza e del coraggio. La vera regalità nasce dunque per Polibio con l’origine del senso del bene e della giustizia, e dei loro opposti. Ammirando la giustizia dei loro re, le masse si fanno garanti non solo del mantenimento del potere da parte loro, ma anche della sua trasmissione ai figli: il principio dinastico sorgerebbe dalla convinzione che, generati ed allevati da simili genitori, i loro figli dovessero condividerne i principi. Alternativamente, in caso l’insoddisfazione per il carattere dei discendenti dei primi basileis non consenta lo stabilirsi del principio dinastico, la scelta dei sovrani

40 A questi pochi, secondo K. ZIEGLER, Polybios 1), cit., col. 1498, Polibio stesso non apparterrebbe (analoga valutazione già in L. ZANCAN, Dottrina delle costituzioni, cit., p. 509, e quindi in A. ROVERI, Studi su Polibio, cit., p. 197; cf. però H. ERBSE, Polybios-Interpretationen, cit., p. 275, nota 1). Cf. D. MUSTI, Polibio, cit., p. 626. Sull’interpretazione di questo passo, che va riferito non alla anticipazione del ciclo in VI 4, 7-10, funzionale a completare la classificazione delle sei forme costituzionali attraverso la presentazione delle tre forme corrotte come degenerazioni dei tre tipi di base, ma alla sua più ampia esposizione in VI 5, 4 - 9, 9, cf. D.E. HAHM, Polybius’ applied political theory, cit., pp. 12-15. Da ultimo, vd. anche B. MCGING, Polybius’ Histories, cit., pp. 171-172. 41 Cioè, almeno secondo F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., p. 650, appunto nella sezione immediatamente seguente, VI 5, 4 - 9, 14; diversamente F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 6-7, secondo cui il riferimento sarebbe invece all’’archaeologia’ (con la critica di V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., pp. 49-50 con la nota 17, secondo cui il riferimento sarebbe invece al capitolo 57, e a dover essere chiarita sarebbe «die Wendung zum Schlechteren»; p. 70); e K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 74-75. Cf. anche la discussione di K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen, cit., pp. 51-52. 42 Vd. D.E. HAHM, Polybius’ applied political theory, cit., pp. 17-18.

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non avviene più in base ai criteri primitivi della forza fisica e del coraggio, «ma dell’eccellenza del giudizio e del ragionamento». L’introduzione dell’opzione della regalità elettiva anziché dinastica, un elemento che indebolisce il ragionamento che segue sulla degenerazione del potere nel passaggio da una generazione alla successiva43, non si deve tanto forse alla volontà astratta di includere la più ampia casistica possibile, ma alla considerazione concreta della tradizione sulla monarchia a Roma, dove, almeno fino ai Tarquini, il potere regale era stato elettivo, e non si era conosciuta la successione dinastica. In antico, dunque, prosegue Polibio, quanti avevano ottenuto il potere regale lo conservavano fino alla vecchiaia: essi procuravano ai loro sudditi la sicurezza, fortificando e cingendo di mura luoghi naturalmente difesi, e l’abbondanza delle risorse, conquistando terre da coltivare. Impegnati in questi compiti, non si attiravano l’invidia e le calunnie delle masse, perché né nel modo di vestire né negli usi alimentari si distinguevano dallo stile di vita dei concittadini. Tuttavia, con la trasmissione del potere da una generazione all’altra, all’interno dello stesso genos, una volta assicurata la sicurezza e i mezzi di sostentamento, i discendenti dei re, privi di obblighi stringenti, iniziano ad indulgere ai propri desideri: la ricchezza li induce a volersi distinguere dai sudditi nel modo di vestire e nell’alimentazione, e – quel che è peggio – a pretendere la soddisfazione dei propri appetiti amorosi anche da parte di chi non sarebbe tenuto a piegarvisi44. Dall’ostentazione del lusso e della propria superiorità derivano invidia e irritazione, dagli abusi sessuali un odio bruciante e un’ira ostile nei confronti dei detentori del potere45. La perdita del consenso dei sudditi segna dunque la degenerazione della basileia in tyrannìs e l’inizio della fine del potere personale; subito, infatti, i più nobili, magnanimi e coraggiosi dei cittadini, ai quali la tracotanza e le prevaricazioni (hybreis) dei capi risultano intollerabili, danno vita a complotti per abbattere la tirannide. La collaborazione del popolo, assicurata dall’invidia e dall’odio che i monarchi si erano attirati con l’ostentazione del lusso e gli abusi sessuali, porta così alla fine della forma di governo regale e monarchica, sostituita dall’aristokratia. Le masse (hoi polloì), riconoscenti, affidano infatti il potere ai capi del movimento antitirannico – che erano appunto, come si ricorderà, i più nobili, virtuosi e coraggiosi, gli aristoi46. In una prima fase costoro, orgogliosi dell’incarico ottenuto, antepongono il bene comune a ogni altra considerazione, gestendo gli interessi pubblici e privati del popolo (plethos) con attenta sollecitudine. Quando però il potere passa alla generazione successiva, ignari di ogni male, e

43 Significativo che nella sua analisi del ciclo polibiano K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 52-53, 60, passi sotto silenzio la possibilità della regalità elettiva, che risulta in effetti esterna, se non estranea al flusso principale della teoria polibiana. Sull’importanza del motivo del passaggio da una generazione alla successiva nel quadro dell’anaciclosi, vd. anche K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen, cit., pp. 53-54. La diversa interpretazione di F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 43-44, secondo cui in 7, 3 sarebbe rappresentata una fase successiva dello sviluppo della basileia, e non una forma diversa, sembra meno convincente; cf. anche TH. COLE, The Sources, cit., p. 459. Da ultimo, D.E. HAHM, Polybius’ applied political theory, cit., pp. 22-24, in un primo momento sembra voler identificare la basileia ereditaria con quella elettiva, per connettere poi la degenerazione al passaggio «from popular election to hereditary succession» (così, a quanto pare, anche B. MCGING, Polybius’ Histories, cit., p. 172, che distingue la presunta seconda fase definendola «automatic hereditary succession»; cf. anche ibidem, p. 190) – un «change in procedure» che poi rimprovera a Polibio di non aver tentato di spiegare, con la conseguenza di sollevare una serie di ulteriori difficoltà (ibidem, pp. 25-27). In realtà, però, Polibio motiva l’adozione del principio dinastico già in VI 7, 2, e solo per assicurare la possibilità di far corrispondere gli sviluppi istituzionali romani con il modello teorico introduce al § 3 la possibilità di una monarchia non dinastica ma elettiva, che rimane poi estranea alle fasi successive del ciclo, che presuppongono la successione dinastica (per la connessione fra anaciclosi e storia di Roma nel pensiero di Polibio cf. già E. MIONI, Polibio, cit., p. 68). Diversamente R. Weil, Notice, cit., p. 22 sembrerebbe intendere il passo nel senso che occasionalmente, attraverso le generazioni, un re insoddisfacente potesse essere rimpiazzato da un altro, scelto in funzione dei suoi veri meriti. 44 B. MCGING, Polybius’ Histories, cit., pp. 190-191 osserva la corrispondenza fra questo aspetto della degenerazione del re in tiranno e il comportamento attribuito a Filippo V ad Argo nel 209: vd. Polyb. X 26, 1-6. 45 Polyb. VI 7, 8 (diversa interpretazione in D.E. HAHM, Polybius’ applied political theory, cit., pp. 28-29; ma φ’ ος μέν ed φ’ ος δέ sembrano doversi necessariamente riferire ai diversi comportamenti elencati nel § precedente). 46 Su questa trasformazione cf. K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 73-74, che nella costruzione polibiana legge l’applicazione di «a stereotyped formula concerning power relations and the corrupting influence of absolute power».

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analogamente ignari dell’uguaglianza politica e della libertà di parola, i figli degli aristoi, allevati sin dalla nascita nelle posizioni di autorità e predominio dei padri, si danno chi all’avidità, chi a bevute e banchetti, chi a violenze (hybreis) sulle donne e a ratti di giovinetti, trasformando così l’aristocrazia in oligarchia. In questo modo, suscitano nelle masse sentimenti analoghi a quelli ricordati a proposito della tirannide; e anche la loro fine è analoga a quella dei tiranni. Non appena infatti qualcuno, considerando l’invidia e l’odio dei cittadini nei loro confronti, osi dire o fare qualcosa contro di loro, subito trova la collaborazione del popolo (plethos). Così, con condanne a morte e all’esilio ci si libera dei capi corrotti; ma le esperienze della degenerazione del re in tiranno, e dell’aristocrazia in oligarchia impediscono di ricorrere di nuovo a tali forme istituzionali. L’unica speranza rimasta intatta è quella del governo diretto del popolo, e a questa ci si rivolge. La forma istituzionale oligarchica viene sostituita così dalla democrazia: le masse assumono in prima persona la cura e la responsabilità degli affari pubblici. Finché dunque sopravvivono ancora alcuni di quelli che avevano fatto esperienza degli abusi di potere, costoro, soddisfatti delle condizioni vigenti, nulla antepongono ai valori democratici dell’uguaglianza e della libertà di parola; ma quando subentrano le nuove generazioni, e la democrazia si trasmette ai figli dei figli, allora, incapaci per assuefazione di apprezzare uguaglianza e libertà di parola, desiderano avere più del popolo; a incorrere in questo atteggiamento, precisa Polibio, sono soprattutto i cittadini più ricchi47. Non potendo conseguire le posizioni di potere che bramano da sé soli, grazie alla propria virtù, costoro prendono a sperperare i patrimoni, «facendo di tutto per attirare e corrompere le masse». Così, quando con la loro folle avidità di gloria hanno reso le masse venali e avide di doni, la democrazia viene meno, mutandosi in violenza e dominio della forza (bia e cheirokratia). Le masse, infatti, abituatesi a vivere dei beni altrui, e a riporre in essi tutte le loro speranze, quando trovino un capo ambizioso e audace, ma escluso dagli onori politici per povertà, istituiscono la cheirokratia, con stragi, esili, redistribuzioni delle terre48; alla fine, ridottesi in uno stato ferino, trovano di nuovo un padrone e un monarca49. A questo punto, conclusa l’esposizione del ciclo costituzionale, Polibio ribadisce l’utilità prognostica della sua conoscenza, in particolare a proposito della politeia dei Romani:

Questa è l’evoluzione ciclica delle costituzioni, questa è la direzione data alle cose dalla natura, seguendo la quale lo stato delle costituzioni si trasforma, muta e torna di nuovo uguale a se stesso. Chi ha ben compreso ciò forse sbaglierà nei tempi, parlando del futuro di una costituzione, ma raramente potrà commettere errori nel dire a che punto della crescita o della dissoluzione ciascuna si trovi, o in che modo si muterà, se parla senza ira né invidia. E soprattutto

47 Su questo processo cf. TH. COLE, The Sources, cit., pp. 461-463. 48 Per il senso del termine cheirokratia vd. D. MUSTI, Demokratía, cit., p. 297: «dominio ‘delle mani’: da cheír, o magari persino ‘dei peggiori’, da cheíron?». 49 F. MILLAR, Politics, Persuasion, and the People before the Social War (150-90 B.C.), «JRS», 76 (1986), pp. 1-11, ora in ID., Rome, the Greek World, and the East, I. The Roman Republic and the Augustan revolution, ed. by H.M. COTTON and G.M. ROGERS, Chapel Hill and London, The University of North Carolina Press, 2002, pp. 143-161, in particolare p. 150, su suggerimento di John North (cf. p. 143 nota 12) aveva affermato la possibilità di leggere questo passo «as an implicit prediction of the course of events in the last century of the republic»; cf. anche p. 158, e ID., The Roman Republic, cit., pp. 29; 36; 181. Vd. già P. PÉDECH, La méthode, cit., p. 316; e J.G.A. POCOCK, Il momento machiavelliano, cit., I, p. 198. Diversamente, F.W. WALBANK, A Greek looks at Rome, cit., pp. 289-291 ha sostenuto che questo brano «draws on Polybius’ own experience of similar seizures of power in the Greek political life of the third and second centuries. It bears no relation to Rome» (cf. G.W. TROMPF, The Idea of Historical Recurrence, cit., p. 109, che ne aveva rilevato l’analogia lessicale con la rappresentazione della lotta politica a Cineta in IV 17, 4); a Roma si riferirebbe invece il quadro del declino di uno Stato che avesse conseguito un dominio incontrastato in VI 57 (che E. KORNEMANN, Zum Staatsrecht des Polybios, cit., p. 177 considerava una sorta di profezia del movimento graccano), confrontabile con la rappresentazione del declino morale sopravvenuto con la vittoria sulla Macedonia in XXXI 25, 4-7. Ora B. MCGING, Polybius’ Histories, cit., pp. 192-193 ha rilevato l’analogia fra lo schema della degenerazione della democrazia e la rappresentazione della vita politica della Beozia fra la seconda e la terza guerra di Macedonia in Polyb. XX 6, 2-5 (su cui cf. supra, nota 32); in entrambi i casi, Polibio applica tradizionali motivi della polemica antidemocratica; ibidem, p. 194, la crisi della repubblica e l’emergere di Ottaviano vengono presentati come una sorta di completamento del ciclo, da «the degeneration of the state into complete savagery» delle guerre civili all’affermazione con la forza di un monarca originario che poi si trasforma in re.

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riguardo alla costituzione dei Romani, in realtà, considerando le cose in questo modo potremo arrivare a conoscere la sua formazione, il suo sviluppo e il suo culmine, e allo stesso modo anche il mutamento in senso opposto che seguirà a queste fasi: questa costituzione, infatti, come ho detto poco fa, avendo avuto sin dall’inizio, più di qualsiasi altra, una formazione e uno sviluppo secondo natura, si troverà a subire secondo natura anche il mutamento in senso contrario. Sarà possibile constatarlo attraverso quanto verrà detto in seguito (VI 9, 10-14). Così, Polibio torna una seconda volta sul nodo del rapporto fra la successione naturale delle forme istituzionali semplici e il processo di formazione, sviluppo e culmine, e analogamente del futuro mutamento in senso inverso della politeia romana50, ribadendo che essa, formatasi e sviluppatasi fin dall’inizio katà physin, era destinata a vivere katà physin anche la trasformazione in senso contrario. Anche questa volta, tuttavia, una più ampia dimostrazione viene rinviata a un momento successivo. Il capitolo seguente presenta la legislazione di Licurgo, argomento che Polibio si affretta a dichiarare non estraneo al proprio obiettivo51. A Licurgo infatti Polibio attribuisce il merito di aver considerato razionalmente la necessità di natura del processo di trasformazione delle forme istituzionali, e l’instabilità delle tre forme semplici, destinate a degenerare rapidamente nella forma corrotta connaturata e propria a ciascuna di esse. Il rapporto fra basileia e potere monarchico, aristocrazia e oligarchia, democrazia e la forma «brutale e dominata dalla forza» (theriodes kaì cheirokratikòs) che nasce dalla sua degenerazione viene assimilato a quello fra il ferro e la ruggine, il legno e i tarli. Consapevole di ciò, Licurgo non istituì una politeia semplice e uniforme, ma raccolse assieme tutte le virtù e le particolarità dei migliori sistemi politici (politeumata); il suo obiettivo era impedire che qualche elemento, sviluppandosi oltre il dovuto, degenerasse nella forma corrotta connaturata. A questo fine, creò un sistema equilibrato, in cui la dinamica propria di ognuno degli elementi istituzionali fosse ostacolata e bilanciata dalla forza degli altri. Il linguaggio che esprime questi rapporti è quello del timore reciproco, che contiene le spinte alla superbia: il timore del demos, cui pure era stata assegnata una parte sufficiente nella politeia, impediva al potere regale di darsi alla hyperephania; allo stesso tempo, però, il demos non osava disprezzare i re a causa del timore dei gerontes, l’elemento aristocratico nella composita politeia licurghea. Proprio alla gerousia Polibio sembra voler attribuire un ruolo essenziale nel mantenimento dell’equilibrio istituzionale a Sparta: i gerontes infatti sarebbero stati sempre dalla parte del giusto, e in caso di conflitto istituzionale si sarebbero schierati immancabilmente con quanti per la fedeltà ai costumi tradizionali rischiavano di risultare sconfitti, assicurandone così la preponderanza e garantendo con il loro peso il permanere in equilibrio della compagine istituzionale. Così, a Licurgo e al suo ordinamento Polibio riconosce il merito di aver assicurato agli Spartani la libertà «per il più lungo periodo di cui siamo a conoscenza» (VI 10, 11) – ma non in eterno52. Attraverso il confronto con la Sparta licurghea, Polibio arrivava finalmente alla politeia di Roma: Licurgo, avendo previsto razionalmente la possibilità della degenerazione delle forme istituzionali semplici, istituì la politeia composita di Sparta βλαβώς, «senza dover subire danni». Questa osservazione rimanda a un tema ricorrente nella riflessione polibiana sulla storia, e più in generale nei topoi relativi all’elogio della storiografia, quali confluiscono come in un bacino collettore nel proemio diodoreo53: Polibio, che nel proemio delle Storie aveva rinunciato a dilungarsi sull’epainos della historia, in quanto tutti i suoi predecessori, all’inizio e alla fine delle loro opere, avevano già insistito sul valore didattico della memoria delle altrui vicissitudini (των λλοτρίων περιπετειν, I 1, 2), poco più avanti, a proposito della vicenda di Attilio Regolo, non si

50 Cf. F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., pp. 658-659. 51 Cf. F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 16: l’analisi della costituzione licurghea sarebbe stata inserita «zur stärkeren Herausarbeitung der römischen Eigenart». Cf. anche K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 83-84; 100-114; e K.-E. PETZOLD, Studien, cit., p. 69. 52 Cf. L. ZANCAN, Dottrina delle costituzioni, cit., p. 506; H. EISENBERGER, Die Natur, cit., pp. 52-53. 53 Vd. almeno DIOD. I 1, 1-2, che sembra talora riecheggiare direttamente le espressioni impiegate da Polibio in I 35, e citate più avanti nel testo (cf. per esempio μετ πολλών πνων α νδνων in DIOD. I 1, 2 con μετ μεγλων πνων α ινδνων in POLYB. I 35, 8); cf. in ogni caso anche DIOD. I 2, 7-8.

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era saputo trattenere dal distinguere didascalicamente, a beneficio dei suoi lettori, i due possibili modi di migliorarsi accessibili agli uomini (I 35, 7-10). Di questi, l’uno, quello che passava attraverso l’esperienza diretta (δι των δίων συμπτωμάτων, o δι των οείων περιπετειν, I 1, 2), aveva l’indubbio merito di essere più evidente (ναργστερον), ma dispensava i suoi insegnamenti solo «a costo di grandi dolori e pericoli» (μετ μεγλων πνων α ινδνων); l’altro, quello che derivava dai rovesci altrui (δι των λλοτρίων), era invece «più innocuo» (βλαβστερον), e dunque da preferire, «poiché in esso è possibile individuare il meglio senza subire danni» (πε χωρίς βλβης στι συνιδεν ν ατ τ βέλτιον). Questa forma di insegnamento poteva trarsi dall’esperienza della lettura di una pragmatikè historia come appunto quella di Polibio (I 35). La saggezza di Licurgo, il suo logos, grazie al quale aveva saputo prevedere le naturali dinamiche interne delle politeiai semplici, per istituire fin dall’inizio un sistema composito ed equilibrato, aveva risparmiato agli Spartani i rischi e le sofferenze del passaggio attraverso il ciclo delle costituzioni. I Romani, invece, avevano conseguito lo stesso fine nell’ordinamento istituzionale, pervenendo «al sistema migliore tra le costituzioni dei nostri tempi» «non in forza di un ragionamento, ma attraverso molte lotte e vicissitudini, scegliendo il meglio sempre e solo sulla base della conoscenza maturata nei rovesci della fortuna» (VI 10, 12-14: non dià logou, δι δ πολλν γνων α πραγμτων, ξ ατης ε της ν τας περιπετεαις πιγνώσεως αρούμενοι τ βέλτιον). Il riferimento al lungo travaglio attraverso il quale i Romani erano pervenuti all’eccellenza costituzionale doveva rappresentare una sorta di introduzione all’archaeologia54, la sezione del VI libro in cui Polibio intendeva esaminare il processo di formazione della costituzione mista della repubblica. 3. L’archaeologia Allo stesso modo, nel II libro del de re publica ciceroniano, la concreta ricostruzione storica dell’evoluzione istituzionale di Roma55 è preceduta dalle parole attribuite a Catone, convinto che «la nostra città superava nella costituzione tutte le altre per questo, perché in quelle erano stati generalmente dei singoli individui che avevano ordinato ciascuno il proprio Stato con proprie leggi ed istituzioni […], mentre per contro il nostro Stato non fu ordinato dalla genialità di uno solo, ma di molti, e non nello spazio d’una sola vita umana, ma di alquanti secoli e generazioni»56. Un unico ingegno non avrebbe potuto conseguire un risultato altrettanto eccellente, né sarebbe stato possibile raggiungerlo in un solo momento, sine rerum usu ac vetustate («senza pratica delle cose e senza il soccorso del tempo»). Che l’opinione di Catone si copra perfettamente con la posizione di Polibio, come aveva affermato Fritz Taeger57, è stato contestato58; non sembra potersi negare tuttavia

54 Vd. F.W. WALBANK, A Greek looks at Rome, cit., p. 284 per l’impiego di questo termine per primo da parte di Johannes Schweighaeuser alla fine del XVIII secolo, in base a Dionisio di Alicarnasso I 6, che menzionava Polibio fra gli storici che si erano occupati della storia arcaica di Roma. 55 Su cui vd. T.J. CORNELL, Cicero on the Origins of Rome, in J.G.F. POWELL & J.A. NORTH (ed. by), Cicero’s Republic, «BICS», Suppl. 76, London, Institute of Classical Studies, 2001, pp. 41-56. 56 CIC. re p. II 2: ob hanc causam praestare nostrae civitatis statum ceteris civitatibus, quod in illis singuli fuissent fere quorum suam quisque rem publicam constituissent legibus atque institutis suis […], nostra autem res publica non unius esset ingenio sed multorum, nec una hominis vita sed aliquot constituta saeculis et aetatibus. La traduzione italiana del de re publica è quella di L. FERRERO, in CICERONE, Opere politiche e filosofiche, I. Lo Stato, Le leggi, I doveri, a cura di L. FERRERO, Torino, Utet, 1953. 57 F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 13-14, e prima di lui già R. LAQUEUR, Polybius, cit., pp. 248-249, che ipotizzava una dipendenza di Polibio da Catone attraverso la mediazione di Scipione Emiliano; cf. anche E. KORNEMANN, Zum Staatsrecht des Polybios, cit., p. 171 (e cf. 172 n. 15a). Più di recente, in favore della parentela fra i due passi, pur ammettendo la presenza di alcune differenze, cf. anche C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, cit., pp. 248-249; R. WEIL, Notice, cit., p. 26; W. NIPPEL, Mischverfassungstheorie, cit., p. 146 nota 22a. In generale, sui rapporti fra Polibio e Catone, vd. già E. CIACERI, Il trattato di Cicerone, cit., pp. 273-274; C. CARSANA, La teoria, cit., p. 17 n. 35; A. LINTOTT, The Theory of the Mixed Constitution at Rome, in J. BARNES - M. GRIFFIN (ed. by),

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almeno una forte analogia59; e se Catone affermava la superiorità del processo che aveva dato forma alla politeia romana rispetto all’ideazione da parte di un unico legislatore, Polibio aveva riconosciuto, in via generale, la maggior evidenza degli insegnamenti tratti da esperienze e sofferenze vissute in prima persona. In entrambi gli autori, dunque, il riferimento al processo di formazione della costituzione romana serve da introduzione al suo concreto esame storico; tuttavia, molto si è discusso della possibilità di ricostruire il contenuto dell’archaeologia di Polibio, di cui non si conoscono che pochi frammenti, raccolti nel capitolo 11a del VI libro delle Storie, dai corrispondenti passi di Cicerone (re p. II 1-63)60. Certamente, Polibio doveva aver tentato di leggere la storia ‘costituzionale’ di Roma attraverso lo schema dell’anaciclosi, di assemblare il materiale raccolto dalle fonti romane nella cornice della teoria sulla successione delle forme costituzionali: un ulteriore elemento in questo senso, nella direzione cioè dello stretto rapporto fra la teoria dell’anaciclosi e l’archaeologia, sempre più accettato negli studi recenti61, lo fornisce fra l’altro,

Philosophia togata II. Plato and Aristotle at Rome, Oxford, Oxford University Press, 1997, pp. 70-85, in particolare p. 73; e A.M. ECKSTEIN, Physis and Nomos, cit., pp. 192-198. 58 Cf. in primo luogo V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., pp. 73 e 73-75 nota 53, e quindi soprattutto l’ampia discussione di K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen, cit., pp. 63-74. Per un riassunto della questione, vd. F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., pp. 662-663. Sulla differenza fra la prospettiva di Polibio e quella ciceroniana insiste molto anche L. PERELLI, Il pensiero politico di Cicerone, cit., pp. 105-106, secondo cui, mentre Cicerone «attribuisce alla ratio una funzione attiva e determinante sul corso degli eventi», in Polibio la ratio avrebbe «ben minore importanza nella formazione dello Stato romano». Per quanto detto sopra, tuttavia, non sembra potersi affermare che in VI 10, 14 Polibio intendesse negare la razionalità delle scelte operate nel tempo a Roma (la scelta del meglio non può non essere un processo razionale); piuttosto, voleva contrapporre un risultato, quello di Licurgo, conseguito per via puramente logica, a un processo di apprendimento passato attraverso l’esperienza di «molte lotte e vicissitudini». Cf. già la replica di F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 49, a F. LEO, Miscella ciceroniana, Göttingen, 1892, pp. 13-14 (ora in F. LEO, Ausgewählte kleine Schriften, herausgegeben und eingeleitet von E. FRAENKEL, I. Zur römischen Literatur des Zeitalters der Republik, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1960, pp. 301-325, in particolare pp. 316-317), la cui posizione sembra riprendere L. Perelli; V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., pp. 71-72, 73-75 nota 53 («Die richtige Entscheidung von Fall zu Fall ( ν τας περιπετείαις πιγνωσις βελτίονος αρεσις) setzt gewiß auch für Polybius ratio voraus»); H. RYFFEL, ΜΕΤΑΒΟΛΗ ΠΟΛΙΤΕΙΩΝ, cit., p. 182 n. 342; K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., p. 351: «The enlightened statesmen of Sparta and Rome interrupted the mechanism»; P. PÉDECH, La méthode, cit., p. 324; e G. SASSO, La teoria, cit., pp. 186-187 (che contrappone acutamente «il razionalismo ‘umano’ che presiede alla ‘libera’ creazione di Licurgo e il razionalismo storico che condusse alla perfetta costituzione di Roma»); cf. anche ID., Polibio e Machiavelli, cit., pp. 226-229 (cf. soprattutto p. 227 nota 7 sul rapporto fra l’impostazione di Polibio e quella ciceroniana); K.-E. PETZOLD, Studien, cit., 65; e da ultimo B. MCGING, Polybius’ Histories, cit., p. 174 («Obviously, in making the right decisions, they must have used reason»). C.B. CHAMPION, Cultural Politics, cit., p. 91 ha insistito invece sulla contrapposizione fra la razionalità di Licurgo e il processo seguito dai Romani, che, «in contradistinction, do not here exercise reason» (ma cf. anche p. 92 nota 70, dove si riconosce la presenza di «an element of rational choice in the evolution of the Roman state in this passage»). 59 Vd. già E. CIACERI, Il trattato di Cicerone, cit., p. 273 n. 1 («Catone è sicuramente fonte comune dei due scrittori»); K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 123 ss.; G.J.D. AALDERS, Die Theorie, cit., pp. 107-108. 60 Sulla questione, e più in generale sul problema delle fonti del de re publica, vd. fra gli altri E. CIACERI, Il trattato di Cicerone, cit., pp. 268-269; quindi, fondamentale, F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., passim, e in particolare pp. 101-108; con la critica di V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., pp. 47-70 (e passim, per es. p. 97), e l’adesione di E. MIONI, Polibio, cit., p. 53 n. 5 (Cicerone avrebbe imitato «certamente Polibio»; cf. anche pp. 73-74), K. ZIEGLER, Polybios 1), cit., col. 1492 e TH. COLE, The Sources, cit., pp. 479-480; C.O. BRINK and F.W. WALBANK, The Construction, cit., pp. 113-115; K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen, cit., pp. 78-79; 85, che insiste sulla distinzione fra la prospettiva di Polibio e quella ciceroniana; G.J.D. AALDERS, Die Theorie, cit., pp. 109-112; R. WEIL, Notice, cit., pp. 29-30 (il de re publica non potrebbe considerarsi «comme un témoin sûr du texte de Polybe, mais seulement comme une source d’indices»); G.W. TROMPF, The Idea of Historical Recurrence, cit., pp. 49-59 («Despite a certain persuasive symmetry, however, Taeger’s argument has obvious weaknesses»); J.-L. FERRARY, L’archéologie du de re publica, cit., pp. 88-92; L. PERELLI, Il pensiero politico di Cicerone, cit., pp. 97-98; F.W. WALBANK, A Greek looks at Rome, cit., pp. 284-288; T.J. CORNELL, Cicero on the Origins of Rome, cit., p. 47; F. MILLAR, The Roman Republic, cit., p. 30; C.B. CHAMPION, Cultural Politics, cit., p. 85, nota 58; B. MCGING, Polybius’ Histories, cit., pp. 178-180. 61 Vd. ancora J.-L. FERRARY, L’archéologie du de re publica, cit., p. 90, secondo cui «l’archéologie polybienne devait illustrer la théorie de l’anacyclosis» – una formulazione sulla quale sembrano però condivisibili le riserve di F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., p. 664, espresse a proposito dell’analoga tesi di F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 40 (cf. anche p. 44; su Taeger vd. già la critica di V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., p. 83, nota 72),

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come si è anticipato, l’imbarazzata menzione, nel quadro della trasformazione dalla monarchia originaria alla basileia alla tirannide, della possibilità che al principio dinastico in alcuni casi si sostituisse una procedura elettiva, in cui sembra doversi leggere proprio il tentativo di far combaciare il modello teorico con la storia dell’evoluzione costituzionale romana fino alla caduta dei decemviri. Come il discorso di Scipione nel II libro del de re publica ciceroniano, infatti, anche l’archaeologia di Polibio si concludeva con l’abolizione del decemvirato e le leggi Valeriae Horatiae del 449 (VI 11, 1)62; in questo modo, Scipione riteneva di aver mostrato ai suoi interlocutori lo Stato «nel suo nascere, crescere ed essere adulto ed ormai saldo e robusto»63; prima di lui, o piuttosto prima di Cicerone, che gli dà la parola, già Polibio doveva aver ritenuto di aver tracciato le tappe principali dell’evoluzione istituzionale che aveva portato all’origine della costituzione mista romana. Benché dunque si debba riconoscere la pluralità delle fonti del discorso di Scipione nel II libro del de re publica64, e naturalmente il contributo autonomo di Cicerone65, non sembra illegittimo né inutile cercarvi gli snodi concettuali che appaiono più coerenti con la rappresentazione polibiana dell’anaciclosi; la loro individuazione può contribuire all’intendimento della funzione e della struttura dell’archaeologia polibiana probabilmente più che l’esame dei frammenti raccolti nel capitolo 11a del VI libro delle Storie. A questo fine, non appare indispensabile dimostrare che Cicerone in qualche passo debba aver seguito pedissequamente Polibio, ma sembra sufficiente indicare gli elementi del discorso di Scipione che rimandano alla teoria polibiana dell’anaciclosi; se si ammette poi che Polibio intendeva mettere in relazione le tappe dell’evoluzione costituzionale romana con l’anaciclosi, come emerge chiaramente da VI 4, 11-13 e VI 9, 10-14, risulterà probabile che essi, in qualche forma, dovessero aver trovato posto già nella archaeologia polibiana66. Alla monarchia originaria, riconosciuta naturalmente al più forte dai compagni aggregatisi intorno a lui, sembra lecito accostare il ruolo di Romolo67. Più complesso appare il problema del

secondo cui Polibio avrebbe rappresentato lo sviluppo della politeia romana come esempio a sostegno di una teoria storico-filosofica: «This is to reverse the emphasis»; per la posizione di Walbank cf. ibidem, p. 647, e già ID., Polybius on the Roman Constitution, cit., p. 88, nota 1, dove aveva rilevato «the ease with which the early history of Rome […] fit into the scheme of the anacyclosis»; cf. anche C.O. BRINK and F.W. WALBANK, The Construction, cit., p. 113; P. PÉDECH, La méthode, cit., p. 329; R. WEIL, Notice, cit., p. 22, che parla, correttamente, di «un cycle imaginé en fonction de l’histoire de Rome», e G.W. TROMPF, The Idea of Historical Recurrence, cit., p. 7. In ogni caso, appare innegabile che Polibio ritenesse di aver individuato, nel concreto sviluppo costituzionale romano, tappe corrispondenti alle diverse fasi dello schema dell’anaciclosi. 62 POLYB. VI 11, 1, da vedere con la nota di R. WEIL, in POLYBE, Histoires. Livre VI, cit., ad l. Cf. F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 100-101; K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 135-136: «[…] Cicero stopped with the Valerio-Horatian laws, because he believed that through them a perfect balance of monarchy, oligarchy, and democracy had been achieved»; per l’interpretazione del passo polibiano, ibidem, pp. 467-469 n. 5; F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., p. 674; ID., Polybius and the Roman State, cit., p. 248. Sul 449 a.C. come cesura storica, anche in Catone, che potrebbe aver condotto fino a questa data il primo libro delle Origines, e DIODORO SICULO XII 25, vd. T.J. CORNELL, Cicero on the Origins of Rome, cit., pp. 46-47. 63 CIC. re p. II 3: rem publicam […] et nascentem et crescentem et adultam et iam firmam atque robustam. Cf. la stessa immagine in II 21, con F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 39. 64 Vd., oltre a J.-L. FERRARY, L’archéologie du de re publica, cit., e a T.J. CORNELL, Cicero on the Origins of Rome, cit., pp. 47-48, anche il saggio di U. ROBERTO sul governo misto in Cicerone, «www.montesquieu.it», 2 (2010), pp. 43-78. 65 Enfatizzato per altro già da E. CIACERI, Il trattato di Cicerone, cit., pp. 237; 310-315, e da F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 1-2; 119 (e passim, per es. p. 36, per un’ipotesi sull’eco contemporanea di un singolo punto, l’accresciuto ruolo del senato per volontà di Romolo dopo la morte di Tito Tazio in CIC. re p. II 14-15, su cui vd. anche K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., p. 127). Cf. anche V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., pp. 76-82, che rispetto a Taeger, pur ammettendo la possibilità di «gewisse Anregungen von seiten des Polybios», aumenterebbe radicalmente la misura dell’apporto autonomo di Cicerone, fino a concludere «daß Polybios “Exkurse”, die mit den ciceronischen Betrachtungen zu vergleichen wären, überhaupt nicht gehabt hat» (pp. 89-92; 95). 66 Cf. già K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., p. 126: «it appears safe to assume that those observations in Cicero’s work which belong to this scheme are generally derived from Polybius». 67 Così già F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 17-18, forse con un eccesso d’entusiasmo nell’affermare, a proposito di POLYB. VI 5, 4 sgg., sull’origine della monarchia naturale, che «bis in alle Einzelheiten

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passaggio alla regalità vera e propria, la basileia; Taeger lo riportava allo stesso Romolo, in base all’affermazione secondo cui «tutti gli abitanti di quelle campagne ove oggi sorge questa città gli obbedivano di buon grado e volentieri» (aequo animo illi libenterque parerent, CIC. re p. II 2, 4)68. Tuttavia, la volontaria sottomissione al dominio di Romolo in questo passo nasceva solo dalla sua superiorità per forza fisica e fierezza d’animo, e sembra dunque potersi accostare piuttosto ancora al naturale riconoscimento della leadership del più forte da parte dei primi gruppi umani come degli animali che vivono in branco; sembra cioè che in questa fase non si vada oltre la monarchia naturale originaria, anteriore all’origine della percezione della giustizia69. Non è impossibile tuttavia che nel corso della sua vita la monarchia di Romolo si fosse trasformata in basileia: lo lascerebbe pensare un elemento che richiama da presso le riflessioni di Polibio in VI 6, 10 – 7, 270, il desiderium Romuli per cui il popolo romano, alla sua morte, pretese la continuazione della monarchia71. Una ripresa, o piuttosto un’elaborazione di quest’ultimo passo polibiano si riscontra anche nella orgogliosa rivendicazione, da parte di Cicerone, della superiorità del conferimento del regno a chi sembrasse meritarlo per virtus e sapientia rispetto al principio dinastico stabilito da Licurgo a Sparta72: come si è visto, Polibio aveva persino forzato un po’ lo schema dell’anaciclosi pur di farvi rientrare questa particolarità della basileia romana73. Con i successori di Romolo, dunque, siamo saldamente nella basileia74. La res publica si sviluppa attraverso un processo di accumulazione, in cui a ciascuno dei re si deve qualche progresso75, non solo sul piano istituzionale, ma anche più concretamente nello sviluppo urbano e nel dominio sui popoli vicini. Di pari passo con gli sviluppi

finden wir diese Theorie bei Cicero angewandt», con rinvio a de re p. II 4 (spontanea sottomissione a Romolo per la sua superiorità et corporis viribus et animi ferocitate), giudicato inseparabile da POLYB. VI 5, 7. Contra, vd. V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., pp. 66-67. 68 F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 29-30, in base ad un confronto con POLYB. VI 4, 2 e alla fondamentale distinzione della regalità dalla tirannide in base al consenso dei sudditi; cf. pp. 88-89: gli echi ciceroniani dimostrerebbero la derivazione da Polibio anche di DIOD. VIII 4. Così anche K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 137-138. Anche nel passo di Diodoro, tuttavia, benché si lodi la moderazione di Romolo – e Remo, che in Cicerone viene appena menzionato –, è ancora in ragione della loro forza, da cui dipende la sicurezza comune, che i vicini si sottomettono ai gemelli. Più condivisibile sembra il successivo riconoscimento della gradualità della trasformazione di Romolo in basileùs: F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 37. 69 L’affermazione di D.E. HAHM, Kings and constitutions, cit., p. 468, secondo cui i sudditi del primo monarca «had been obeying out of fear» trova fondamento in Polyb. VI 6, 11 (τήν βίαν δεδιότες); tuttavia, benché Polibio ponga esplicitamente la forza fisica all’origine della sottomissione a un monarca dei primi gruppi umani (VI 5, 9: cf. già G.J.D. AALDERS, Die Theorie, cit., p. 100), sembra anche volerne sottolineare la spontaneità (cf. anche VI 6, 8 per la riconoscenza per il più coraggioso e le sue manifestazioni); complessivamente, la sua rappresentazione non appare inconciliabile con la frase ciceroniana citata sopra nel testo. Cf. anche G.W. TROMPF, The Idea of Historical Recurrence, cit., p. 15 («they placed their trust in the strongest and bravest of their number»; ma a p. 17 parla della monarchia originiaria come di «a rule of ferocity»). 70 Cf. già F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 42-43. 71 CIC. re p. II 23, con F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 42-43; cf. già I 64, con l’accentuazione del ruolo della iustitia nell’accettazione della monarchia, proprio in rapporto alla figura di Romolo, e II 52, dove il rimpianto di Romolo viene contrapposto all’odio per il nome stesso di re maturato nel popolo romano dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo. Così, F.W. WALBANK, Polybius and the Roman State, cit., p. 249 riteneva che Romolo e i suoi successori equivalessero alla basileia, e si dichiarava incerto «whether or not Romulus began as the primitive monarch». 72 CIC. re p. II 23: nostri illi etiam tum agrestes viderunt virtutem et sapientiam regalem, non progeniem quaeri oportere («fin da allora quei nostri contadini si erano accorti che occorreva cercare virtù e saggezza degne di re, e non progenie»); cf. già I 50, e vd. F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 43-44 (su cui però cf. supra, n. 43). 73 POLYB. VI 7, 3, di cui non sembra tenere conto V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., p. 67, quando afferma, in relazione a VI 7, 2 e alla successione a Romolo in CIC. re. p. II 23, «es spricht auch hier nichts dafür, daß Polybios sich so ängstlich an ein Schema gehalten hätte». Piuttosto, sembrerebbe potersi affermare che l’inserimento forzato nello schema dell’anaciclosi della basileia elettiva dimostri la preoccupazione di Polibio di adattare lo schema alle forme dello sviluppo costituzionale romano. 74 P. PÉDECH, La méthode, cit., p. 314 individua solo in Numa il primo basileùs del ciclo nella storia di Roma. 75 CIC. re p. II 37: perspicuum est enim, quanta in singulos reges rerum bonarum et utilium fiat accessio («è chiaro infatti qual progresso di elementi buoni ed utili si sia verificato con ciascun re»).

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quantitativi, si introducono anche innovazioni qualitativamente significative76: a Romolo si attribuisce, in particolare dopo la morte di Tito Tazio, l’istituzione di un senato, per poter associare alla potestas regia l’auctoritas degli optimi (CIC. re p. II 14-15)77. Sul piano dei comportamenti, con le sue vittorie militari Romolo arricchisce i cittadini, e non si appropria del bottino; il confronto con POLIBIO VI 7, 4-5 conferma che siamo nell’ambito di una regalità benefica78. In questo contesto si muovono anche i re successivi, dei cui apporti Cicerone sembra apprezzare in modo particolare l’ordinamento centuriato istituito da Servio Tullio79: un sistema di ripartizione della cittadinanza in unità di voto che, pur non escludendo nessuno dal diritto di voto, assicurava «che i voti venissero a trovarsi non in potere di tutti, ma dei soli ricchi», ut suffragia non in multitudinis sed in locupletium potestate essent (CIC. re p. II 39: il re avrebbe provveduto a una «precauzione che sempre occorre tener presente in una costituzione, che i più non avessero peso preponderante», quod semper in re publica tenendum est, ne plurimum valeant plurimi)80. Così, alla fine dell’età monarchica Roma avrebbe raggiunto un assetto istituzionale simile a quello di Cartagine e della Sparta licurghea, che Cicerone definiva mixta, ma non temperata81: la potestas perpetua di un re improntava di sé il sistema in modo decisivo, nonostante la compresenza di un senato e di qualche diritto del popolo (aliquod etiam populi ius). Ancora monarchico, il sistema risultava instabile, perché dipendente dalla iustitia e dalla sapientia di un unico individuo (CIC. re p. II 42-43; 50). Con queste riflessioni, Cicerone introduceva al regno di Tarquinio il Superbo, e al passaggio allo Stato repubblicano, che viene rappresentato in termini che ricordano da presso la rappresentazione polibiana della degenerazione della basileia in tirannide e della conseguente instaurazione dell’aristocrazia nel quadro dell’anaciclosi82. Dall’esaltazione per le vittorie riportate e le ricchezze conseguite era maturata l’insolentia del re, che ormai «non era in grado di frenare il proprio costume e le passioni dei suoi»83. Come nello schema teorico polibiano, all’ostentazione della superiorità in termini di potere e ricchezza84 si accompagnano gli abusi sessuali; l’oltraggio recato a Lucrezia suscita dunque la reazione degli aristoi – Bruto viene presentato come «un uomo eminente per ingegno e virtù», vir ingenio et virtute praestans –, che si pongono a capo dei concittadini e mettono fine alla tirannide. Anche la rappresentazione ciceroniana del periodo aristocratico romano, dalla cacciata dei Tarquini alla fine del decemvirato, sembra coerente con il quadro tracciato da Polibio sul piano teorico. Tutto è demandato all’auctoritas dei principes, ma con il consenso popolare, cedente

76 Vd. V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., pp. 74-76; K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 125-126. 77 Cf. F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 36; K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 138-139. 78 Cf. già F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 37, e, per il senso dell’elogio di Romolo da parte di Cicerone, V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., p. 94. 79 Cf. F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 61, sul regno di Servio Tullio come l’acme della basileia, preparata dall’evoluzione continua sotto i re precedenti. 80 Sul sistema centuriato e la sua origine, vd. ora almeno T.J. CORNELL, The Beginnings of Rome. Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars (c. 1000-264 BC), London and New York, Routledge, 1995, pp. 173-197; K.A. RAAFLAUB, Between Myth and History: Rome’s Rise from Village to Empire (the Eighth Century to 264), in N. ROSENSTEIN - R. MORSTEIN-MARX (ed. by), A Companion to the Roman Republic, Malden, MA - Oxford, Wiley-Blackwell, 2007, pp. 125-146, in particolare p. 137. 81 Cf. V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., pp. 80-82; K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 130-131; C.O. BRINK and F.W. WALBANK, The Construction, cit., pp. 114; 144-146; F.W. WALBANK, Polybius and the Roman State, cit., p. 249; L. PERELLI, Il pensiero politico di Cicerone, cit., pp. 100-101; CORNELL, Cicero on the Origins of Rome, cit., p. 55. 82 Come ha riconosciuto F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 68-73, e ammettono anche fra gli altri E. CIACERI, Il trattato di Cicerone, cit., 271; P. PÉDECH, La méthode, cit., p. 314; e L. PERELLI, Il pensiero politico di Cicerone, cit., p. 101. 83 CIC. re p. II 45: neque suos mores regere poterat neque suorum libidines. 84 Su questo punto, cf. già F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 52; e fra gli altri per es. TH. COLE, The Sources, cit., pp. 452; 470.

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populo85, o, come Cicerone si esprime poco più avanti, populo patiente atque parente86. Nella personalità di Valerio Publicola, promotore della prima legge presentata ai comizi centuriati, che stabiliva «che nessun magistrato potesse far eseguire la condanna capitale o la fustigazione di un cittadino romano contro il diritto d’appello»87, Cicerone sembra voler impersonare la fase del dominio aristocratico ancora sollecito del bene dei cittadini e rispettoso della sensibilità popolare. Anche dopo la secessione della plebe e l’istituzione del tribunato, potentia e auctoritas del senato restava ancora importante e grande fino a che custodivano la città degli [uomini] molto saggi e forti nell’armi e nella direzione politica, e la cui autorità era in grandissima auge, perché mentre erano superiori a tutti gli altri in considerazione, erano dominati da minori passioni e generalmente non superiori per ricchezza; onde tanto più gradita era la capacità di ciascuno nelle faccende politiche, poiché adibivano grandissima diligenza nel proteggere con l’opera, il consiglio, l’aiuto materiale i singoli cittadini nei loro interessi privati88. L’ordine di abbassare i fasci di fronte al popolo romano dato per primo da Publicola ai littori, la disposizione per cui solo uno dei consoli, a turno, sarebbe stato preceduto dai littori, «affinché le insegne del potere non fossero più numerose in un popolo libero di quanto non erano state sotto la monarchia» (ne plura insignia essent inperii in libero populo quam in regno fuissent), la disponibilità a rinunciare al palazzo sulla Velia per non alimentare i sospetti del popolo89, sono tutti gesti in armonia con la convinzione polibiana secondo cui le tre forme istituzionali rette potevano conservarsi fin quando si fossero date cura del bene comune e non avessero ostentato in modo offensivo la propria posizione privilegiata90. Anche il processo che portò alla trasformazione dell’aristocrazia in oligarchia e alla rivolta che ne seguì, al tempo del decemvirato, appare perfettamente conciliabile con la teoria polibiana91: l’inhumanissima lex con cui si proibì il conubium fra patrizi e plebei rappresenta la più aperta smentita del principio dell’eguaglianza, o almeno dell’ideologia della non ostentazione della propria superiorità, per non offendere i ceti inferiori. Significativamente, ad essa si accompagna il tentato oltraggio a Virginia, e Cicerone può accusare i decemviri di aver esercitato il proprio dominio libidinose, oltre che acerbe et avare92. Come nella teoria dell’anaciclosi in Polibio, ancora una volta ad alimentare la rivolta è lo sdegno per la superbia di un ceto dominante corrotto dal potere, e la goccia che fa traboccare il vaso è un abuso a sfondo sessuale. Il minimo che si possa dire è che la concreta ricostruzione ciceroniana appare qui riecheggiare l’analisi teorica di Polibio; l’ipotesi di una derivazione diretta sembra autorizzata, almeno per quanto riguarda le dinamiche del mutamento costituzionale. 4. La costituzione mista romana

85 CIC. re p. II 56 («mentre il popolo non faceva opposizione»). 86 CIC. re p. II 61 («il popolo sopportava e obbediva»). 87 CIC. re p. II 53: ne quis magistratus civem Romanum adversus provocationem necaret neve verberaret. Vd. F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., pp. 78-80; K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 132-133. 88 CIC. re p. II 59: gravis et magna remanebat, sapientissimis et fortissimis et armis et consilio civitatem tuentibus, quorum auctoritas maxime florebat, quod cum honore longe antecellerent ceteris, voluptatibus erant inferiores nec pecuniis ferme superiores; eoque erat cuiusque gratior in re publica virtus, quod in rebus privatis diligentissime singulos cives opera consilio re tuebantur. 89 CIC. re p. II 53-55; sulla vicenda della domus di Publicola cf. LIV. II 7, 5-12. 90 Non sembra dunque del tutto convincente la tesi di K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 147-148 (cf. p. 435 n. 47), che nega l’origine polibiana di «what Cicero says about the simple life of the senators of that period»; cf. piuttosto F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 83, e più di recente, sul senso dell’austerità di costumi dell’aristocrazia romana, vd. E. FLAIG, Ritualisierte Politik, cit., 26. 91 Cf. K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 142-143. 92 CIC. re p. II 63 («con ogni sorta di arbitri, di durezze e di avidità»), con F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 86.

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Con il capitolo 11, Polibio, compiuta per i lettori l’analisi della formazione del sistema istituzionale romano, e riaffermatone il progressivo affinamento negli anni trascorsi dalla fine del Decemvirato alla seconda guerra punica, passa a presentarne la struttura in questo periodo, in cui esso era «magnifico e perfetto». Il riferimento alla sconfitta di Canne e al suo significato è un cenno ulteriore alla convinzione secondo cui proprio l’eccellenza della forma istituzionale – intesa però nel senso ampio in cui Polibio la presentava, comprensiva cioè dei costumi sociali – permise ai Romani di riprendersi dopo la tremenda disfatta. Come in 5, 1-3 aveva giustificato la sommarietà della sua discussione intorno al mutamento costituzionale rispetto a Platone e altri filosofi, Polibio qui avverte l’esigenza di difendere il carattere della sua trattazione dalle critiche che avrebbero potuto muovergli i lettori romani. Ingenerosamente, per mostrarsi più competenti dell’autore, essi avrebbero potuto attribuire un’importanza fondamentale ai dettagli e alle più minute particolarità – ben note a loro, nati e cresciuti nella cultura politica romana –, imputandone l’omissione ad ignoranza, e facendo poco conto di quanto era stato riferito. A propria difesa, Polibio invoca l’applicazione di un diverso criterio di giudizio: non sulle omissioni si doveva valutare il suo operato, ma sulla verità della sua descrizione del sistema politico romano. Solo se fosse stato possibile rilevarvi qualche falsità o inesattezza, si sarebbero potute riportare ad ignoranza anche le singole omissioni; altrimenti, se ne sarebbe dovuto riconoscere il carattere intenzionale. Evidentemente, come a proposito dei mutamenti costituzionali, Polibio non riteneva opportuna una rappresentazione troppo dettagliata ed approfondita93. Gli ulteriori frammenti attribuibili a questa apologia indicano l’ansia con cui Polibio si esponeva al giudizio dei lettori, nel clima di accesa competizione della storiografia ellenistica, e l’esigenza di screditare preventivamente le critiche riportandole a un eccesso di faziosità. In particolare, Polibio sembra temere che alla sua rappresentazione, valida per l’epoca della seconda guerra punica, i lettori imputassero la mancata corrispondenza alla realtà della loro epoca94. Dopo aver messo le mani avanti in questo modo, Polibio passa finalmente alla descrizione del sistema istituzionale romano, presentato in termini di costituzione mista – benché l’etichetta miktè politeia non figuri neppure qui:

Erano dunque tre gli elementi dominanti nella costituzione, che ho tutti citati in precedenza; ogni cosa in particolare era stata disposta e veniva regolata per mezzo loro in modo così equo e opportuno che nessuno, nemmeno tra i nativi, avrebbe potuto dire con sicurezza se il sistema politico nel suo insieme fosse aristocratico, democratico o monarchico. Ed era naturale che la pensassero così. A fissare lo sguardo sull’autorità dei consoli, infatti, esso ci sarebbe apparso senz’altro monarchico e regale; a fissarlo su quella del senato, invece, aristocratico; se invece uno avesse considerato l’autorità del popolo, sarebbe sembrato chiaramente democratico (VI 11, 11-12)95. Dopo aver affermato la difficoltà di definire il politeuma romano secondo la tipologia delle tre forme di costituzioni rette, Polibio passa a esaminare, in tre capitoli successivi (capp. 12-14), i poteri e le competenze dei consoli, del senato e del popolo – rispettivamente, l’elemento monarchico, aristocratico e democratico. Le prerogative dei consoli vengono presentate nelle due sfere distinte della pace e della guerra, domi e militiae96. Prima di guidare gli eserciti nelle province assegnate loro dal senato, durante il periodo che intercorreva fra l’entrata in carica e la partenza97, a 93 Cf. A. LINTOTT, The Constitution, cit., p. 16. 94 Cf. già C.O. BRINK and F.W. WALBANK, The Construction, cit., p. 107. 95 R. WEIL, Notice, cit., p. 36 avanza l’ipotesi che l’insistenza di Polibio sulla difficoltà di definire il carattere della politeia romana possa riflettere la memoria delle prime impressioni del suo soggiorno a Roma. Per la possibilità di definire una costituzione tanto oligarchica quanto democratica come segno della buona riuscita della commistione fra i diversi elementi, cf. già Aristotele, Politica IV 1294b 13-34 (con l’esempio della costituzione degli Spartani), su cui vd. fra gli altri H. RYFFEL, ΜΕΤΑΒΟΛΗ ΠΟΛΙΤΕΙΩΝ, cit., p. 185, nota 346; K.F. EISEN, Polybiosinterpretationen, cit., pp. 87; C. CARSANA, La teoria, cit., p. 14; J.M. BLYTHE, Ideal Government, cit., p. 27; e il contributo di S. VIDA sul governo misto in Aristotele, < «www.montesquieu.it», 2 (2010). 96 Sulla distinizione vd. K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 210-212. 97 Sul carattere prevalentemente militare del consolato, e le sue conseguenze, vd. F. MILLAR, The Roman Republic, cit., p. 28.

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Polibio i consoli apparivano sovrani su tutti gli affari pubblici. Quindi, Polibio afferma la subordinazione ai consoli di tutti i restanti magistrati, esclusi i tribuni della plebe, e fra le loro competenze enumera al primo posto l’introduzione delle ambascerie straniere in senato: un elemento che doveva colpire i suoi connazionali inviati in missione a Roma dalle loro città. Per quanto riguarda il rapporto con gli altri magistrati, si è rimproverato a Polibio di non aver messo adeguatamente in evidenza l’autonomia dai consoli delle altre magistrature, nello svolgimento delle specifiche competenze di ciascuna98; ma la superiorità del consolato, maximus honos, rispetto alle altre cariche è un principio fondamentale della cultura politica romana. Più interessante è forse il problema del rapporto fra i consoli e i tribuni della plebe, magistratura rivoluzionaria, nata dalla secessione della plebe e istituita proprio contra consulare imperium (CIC. re p. II 58)99, di cui Polibio indica la mancata subordinazione ai consoli. In effetti, il potere di coercitio proprio dei tribuni poteva essere impiegato anche nei confronti dei consoli. Più avanti, in 16, 4-5, esaminandone il potere di bloccare l’attività del senato, Polibio considererà i tribuni espressione della volontà del popolo. Dunque, l’indicazione della loro peculiare indipendenza dai consoli può intendersi anche come un cenno precoce a un elemento di equilibrio, volto a mitigare il potere di stampo monarchico dei sommi magistrati100. Ai consoli, spettava anche la presidenza del senato e la cura dell’esecuzione dei senatus consulta. Allo stesso modo, riunivano le assemblee popolari, in particolare quelle elettive o deliberanti, i comizi, e presentavano loro le misure da approvare, alla cui esecuzione dovevano poi provvedere. Quindi, Polibio passa alla sfera militare, rilevando come in questo campo i poteri dei consoli fossero quasi assoluti, non solo nella fase del comando effettivo dell’esercito, ma anche in rapporto alle misure preliminari. I consoli potevano nominare parte dei tribuni militari, gli ufficiali delle legioni, e curavano l’arruolamento dei cittadini romani – attraverso una procedura che Polibio riterrà opportuno presentare ai suoi lettori nella parte centrale del VI libro – e degli alleati italici. L’imposizione ai socii d’Italia non di un tributo, ma della fornitura di contingenti militari è una caratteristica peculiare dell’imperium Romanum, e rientra in quell’apertura all’assimilazione nella quale recentemente si è voluta leggere, se non la causa fondamentale del successo imperiale della città, almeno una delle sfide poste dalla storia di Roma101. A Polibio in verità si era potuto rimproverare, nonostante questa indicazione, di non averla messa nella giusta evidenza102. Una volta al comando dell’esercito, poi, il console poteva punire liberamente tutti i suoi uomini103; nella sfera militare, neppure i cittadini romani godevano della provocatio. Più avanti, nel corso del libro, come si è visto, Polibio tornerà sulle misure che assicuravano il rispetto della disciplina nell’esercito romano, lodando l’effetto deterrente di pratiche punitive feroci (37-38). In guerra,

98 Vd. A. LINTOTT, The Constitution, cit., p. 18, che osserva come «The only true subordinate of a consul in civil administration was his own quaestor»; F. MILLAR, The Roman Republic, cit., p. 31, e già, fra gli altri, G.J.D. AALDERS, Die Theorie, cit., p. 93. 99 Cf. anche CIC. leg. III 16, con W. NIPPEL, Ancient and modern republicanism: ‘mixed constitution’ and ‘ephors’, in B. FONTANA (ed. by), The Invention of the Modern Republic, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 6-26, in particolare pp. 10-11 sul ruolo del tribunato e i suoi rapporti non solo con i consoli, ma anche con la plebe. 100 Sulla rappresentazione polibiana del tribunato, cf. W. NIPPEL, Mischverfassungtheorie, cit., pp. 150-151, nota 42. 101 Vd. per esempio A. GIARDINA, A Roman Historian Reflects, in A. ERSKINE (ed. by), A Companion to Ancient History, Malden, MA-Oxford, Wiley-Blackwell, 2009, pp. 5-7; C.B. CHAMPION, Imperial Ideologies, Citizenship Myths, and Legal Disputes in Classical Athens and Republican Rome, in R.K. BALOT (ed. by), A Companion to Greek and Roman Political Thought, cit., pp. 85-99. Già F. TAEGER, Die Archaeologie des Polybios, cit., p. 35 indicava nel foedus fra Romolo e i Sabini di Tito Tazio in CIC. re p. II 13 i prodromi della politica romana nei confronti dei nemici vinti, che avrebbe assicurato alla repubblica la superiorità sulle città greche e su Cartagine; cf. anche ibidem, p. 45. 102 A. MOMIGLIANO, Saggezza straniera, cit., pp. 45-50; cf. però C. NICOLET, Polybe et la «constitution» de Rome: aristocratie et démocratie, in ID. (sous la direction de), Demokratia et Aristokratia. A propos de Caius Gracchus: mots grecs et réalités romaines, Paris, Publications de la Sorbonne, 1983, pp. 15-35, in particolare 16-17 n. 10. Vd. anche F. MILLAR, The Roman Republic, cit., p. 25. 103 Per un esempio della durezza con cui il generale (in questo caso non si tratta di un console) poteva punire i propri uomini, vd. POLYB. XI 25-30 e il parallelo resoconto di LIV. XXVIII 24-29 (repressione di una rivolta militare in Spagna da parte di Publio Cornelio Scipione, il futuro Africano, nel 206).

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inoltre, i consoli avrebbero avuto piena disponibilità di impiegare i fondi pubblici, attraverso il questore che li accompagnava104. A questo punto, Polibio può ritornare su un aspetto già rilevato della difficoltà di definire il sistema politico romano: «Così, si potrebbe dire a buon diritto, se si guardasse a questa parte, che il sistema politico è semplicemente monarchico e regale» (VI 12, 9; cf. già 11, 12). Dopo aver prudentemente ribadito che eventuali future innovazioni non avrebbero inficiato la validità della sua analisi per l’epoca in cui scriveva, nel capitolo successivo Polibio passava a esaminare il ruolo del senato, al quale attribuiva innanzi tutto il controllo sulle finanze pubbliche. A eccezione delle spese destinate ai consoli, infatti, i questori non potevano prendere provvedimenti senza istruzioni del senato. In particolare, era il senato a stabilire, ogni cinque anni, la somma da attribuire ai censori per la costruzione e il restauro delle opere pubbliche, attraverso il sistema degli appalti – a giudizio di Polibio, il capitolo di spesa principale del bilancio della repubblica105. Al senato spettava inoltre la supervisione dei rapporti con gli alleati italici: doveva intervenire sia in caso di tradimenti o congiure106, sia in caso di ondate di avvelenamenti e omicidi (da intendersi forse come un riferimento a episodi di banditismo)107. Il caso più noto ed eclatante di simili interventi del senato in Italia è certamente quello della repressione dei Bacchanalia nel 186, per il quale al racconto liviano (XXXIX, 8 sgg.) si affianca la conoscenza diretta del relativo senatus consultum108. I rapporti del senato con i socii d’Italia non si limitavano però agli atti di carattere inquisitorio; alle comunità alleate, oltre che censure (si ricordi il senatus consultum de Tiburtibus, ILLRP 512), potevano essere inviati anche soccorsi. Queste incombenze sembrerebbero derivare dalla competenza riconosciuta al senato in campo di politica estera: era il senato infatti a ricevere le ambascerie straniere, a decidere le risposte da dare a ciascuna di esse e, quando necessario, a inviare all’estero legazioni i cui membri erano inevitabilmente tutti senatori. A beneficio dei suoi lettori greci, avvezzi alla ricezione degli ambasciatori stranieri in assemblea, Polibio rilevava che in questo campo il popolo non aveva autorità alcuna. Ne derivava dunque che «a uno che si fermi in città mentre non sono presenti i consoli la costituzione appare compiutamente aristocratica»; ne erano convinti, a detta di Polibio, molti dei Greci e dei re contemporanei, i cui affari venivano sbrigati appunto in senato109. Nonostante le tante competenze divise fra i consoli e il senato, prosegue Polibio, anche il popolo (il demos) aveva una parte, e anzi la parte più rilevante, nell’ordinamento politico romano.

Solo il popolo, infatti, in questa costituzione, ha il controllo degli onori e delle pene, le sole cose dalle quali sono tenuti insieme gli imperi, gli Stati e, in una parola, tutta la vita degli uomini. Dove tale distinzione o non è conosciuta o, pur essendo conosciuta, è praticata male, infatti, nessuna questione può essere regolata con criterio: e come potrebbe, visto che i buoni sono valutati allo stesso modo dei cattivi? (VI 14, 4-5). Sull’importanza nella riflessione politica polibiana delle pubbliche ricompense del valore e della virtù, e delle punizioni per gli atti di segno contrario si è già avuto occasione di soffermarsi, prendendo spunto da brani successivi del VI libro, nei quali è stato possibile rilevare, come depositati, elementi centrali nella cultura politica romana (la meritocrazia, l’aspirazione al pubblico riconoscimento della propria virtù, l’ideologia del bene della repubblica da anteporre anche ai legami familiari…). Si ricordi anche, su un piano ancor più generale, come Polibio facesse

104 Per i dubbi che suscita questa affermazione, cf. A. LINTOTT, The Constitution, cit., p. 17, e già K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 161-164. 105 Cf. per es. LIV. XLIV 16, 9, già cit. da F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., pp. 678-679. 106 Si pensi in particolare alla defezione ad Annibale degli alleati dell’Italia meridionale dopo Canne (vd. supra, n. 4). La preoccupazione che casi simili potessero ripetersi è presente e viva ancora nel discorso di P. Sulpicio Galba in favore della seconda guerra di Macedonia: vd. LIV. XXXI 7, 11-12. 107 Cf. K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 172-174. 108 ILLRP 511, proveniente da Tiriolo, in Calabria. 109 Sulle competenze attribuite al senato, cf. A. LINTOTT, The Constitution, cit., pp. 18-20; F. MILLAR, The Roman Republic, cit., p. 32.

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coincidere la trasformazione in vera e propria basileia della monarchia originaria, quella riconosciuta spontaneamente all’individuo più forte e coraggioso del gruppo, come nei branchi animali, con l’origine del senso della giustizia e il conferimento da parte del capo di premi e punizioni secondo i meriti di ciascuno (6, 10-12). A Roma, il popolo è il depositario dell’autorità giudiziaria: giudica gli ex magistrati, ai quali può comminare multe pesanti, e ha la competenza esclusiva sulle cause capitali110. A questo punto, Polibio illustra ai suoi lettori una peculiarità del sistema giudiziario romano, la possibilità per l’imputato di sottrarsi alla condanna e andare in volontario esilio in una città – Polibio cita la greca Neapolis o le latine Tibur e Praeneste – il cui rapporto con Roma prevedesse questo diritto111. Quindi, dalle punizioni si passa ai premi: è il popolo a conferire le cariche pubbliche, presentate significativamente anch’esse come premio della virtù (kalokagathia), a quanti ne appaiano degni. Inoltre, spettavano al popolo l’approvazione delle leggi e le decisioni in materia di pace e di guerra; e la ratifica di un voto popolare era necessaria per ogni trattato internazionale, di qualsiasi genere. Anche a proposito dei poteri riservati al popolo, così, Polibio può esprimersi in modo analogo ai capitoli sui consoli e sul senato: «[…] da ciò si potrebbe a buon diritto concludere che il popolo ha una parte importantissima e che il sistema politico è democratico» (14, 12). Nella riflessione costituzionale di Polibio, l’assuefazione al potere, con il passaggio delle generazioni, portava agli abusi, che a loro volta suscitavano lo sdegno che faceva rovesciare la forma costituzionale corrotta e sostituirla con la successiva fase del ciclo. La maggiore stabilità della costituzione mista romana, nella visione di Polibio, dipendeva dal sistema di controlli e bilanciamenti reciproci fra il potere monarchico dei consoli, l’aristocrazia del senato e la democrazia del popolo: un equilibrio che impediva a ognuno dei tre fattori costituzionali di prendere il sopravvento e approfittare oltre misura del proprio potere. A questo sistema sono dedicati i capitoli 15-17. Procedendo con ordine, Polibio, nel passare in rassegna le forme in cui ciascuno dei tre elementi poteva ostacolare o collaborare con gli altri due, parte ancora una volta dal console, e in particolare dal comando militare, la sfera in cui appariva detenere poteri assoluti; anche in questo ambito, afferma Polibio, il console non poteva portare a compimento i propri progetti senza la collaborazione degli altri due elementi del terzetto, il demos e la synkletos, popolo e senato. Come ha osservato finemente Claude Nicolet, in questa sezione Polibio continua a insistere sulla contrapposizione fra apparenza e realtà, già almeno implicita alla fine di ciascuno dei tre capitoli in cui aveva esaminato i poteri dei consoli, del senato e del popolo, concludendo ogni volta che, considerati isolatamente, avrebbero suscitato l’impressione del carattere monarchico, aristocratico o democratico della politeia; impressione erronea, dal momento che si trattava di una costituzione mista. A proposito dei consoli, Polibio dunque vuole indicare come anche nel comando degli eserciti essi non disponessero di un’autorità realmente assoluta, ma avessero bisogno del popolo e del senato. Nel lessico di questa sezione, ha osservato ancora Nicolet, ricorrono continuamente parole «che esprimono il bisogno, il timore, la deferenza»112: tutti antidoti rispetto al veleno della superbia che generava l’invidia e l’odio dai quali poi scaturiva la rivolta, nel passaggio da una coppia di forme costituzionali alla successiva. La collaborazione del senato era necessaria al console, perché dal senato dipendeva l’invio all’esercito dei rifornimenti necessari, in termini di cibo, vesti e denaro, senza i quali il comandante si sarebbe dovuto rassegnare all’inazione. Inoltre, spettava al senato la decisione di concedere o

110 Sul problema della procedura cui fa riferimento Polibio, cf. F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., p. 682; C. NICOLET, Polybe et la «constitution» de Rome, cit., p. 29; A. LINTOTT, The Constitution, cit., pp. 20-21. 111 POLYB. VI 14, 7. Per i problemi che pone la menzione in questo passo delle tribù come unità di voto, e più in generale sul silenzio di Polibio intorno alle peculiarità e alla distinzione di comitia tributa e comitia centuriata, vd. F. MILLAR, The Roman Republic, cit., pp. 27-28; 32. 112 C. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, cit., pp. 229-230; cf. anche le considerazioni di R. WEIL, Notice, cit., pp. 55-56.

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meno al console la proroga del comando113. Il caso di Tito Quinzio Flaminino, il console del 198, cui era stata affidata la guerra contro Filippo V, mostra quanto importante potesse essere la concessione della proroga per il prestigio di un magistrato. Flaminino, a detta dello stesso Polibio, sarebbe stato disposto a concedere la pace al re macedone senza averlo sconfitto in una battaglia decisiva, se il senato non gli avesse prorogato il comando; ottenuta la certezza della proroga, fece fallire le trattative di pace (cf. POLIBIO XVIII 10-12; LIVIO XXXII 32, 7), certo di poter perseguire la gloria maggiore che sarebbe derivata dalla vittoria114. Il successo militare poi andava sfruttato debitamente: sollecito della sua immagine pubblica, e desideroso di poter ricavare prestigio per sé e per i suoi discendenti dalla spettacolarizzazione della propria vittoria nell’impressionante cerimonia del trionfo, il console doveva ottenere l’assenso del senato, che ne autorizzava la celebrazione. Dell’importanza del trionfo per un generale vittorioso, e dell’asprezza degli scontri politici che potevano accendersi in senato intorno all’opportunità o meno di concederglielo, basti a testimoniare il rinvio al dibattito tenutosi, nel 187 a.C., al ritorno di Gneo Manlio Vulsone dalla campagna condotta contro i Galati in Asia minore; in quell’occasione, alla fine, Vulsone la spuntò (Liv. XXXVIII 44, 9 – 50, 3)115. Quindi, Polibio passava ai motivi per i quali i consoli dovevano prestare attenzione anche al popolo, e non offenderlo, nonostante i poteri assoluti di cui godevano sulle legioni: spettava al popolo infatti ratificare o meno trattati di pace e patti. Usciti di carica, inoltre, i consoli potevano essere chiamati a rendere conto del loro operato proprio di fronte al popolo. «Così – conclude Polibio –, non è mai prudente per i consoli tenere in scarsa considerazione il favore del senato e quello del popolo» (15, 11). Nel capitolo successivo, Polibio passava in rassegna le ragioni che impedivano al senato di approfittare oltre misura della propria autorità. Senza autorizzazione popolare, infatti, il senato non avrebbe potuto compiere indagini né applicare la pena di morte116; inoltre, su proposta di un magistrato, in caso di conflitto il popolo avrebbe potuto approvare leggi contrarie agli interessi del senato, leggi che ne limitassero l’autorità riducendone le competenze tradizionalmente riconosciutegli, o che si spingessero persino ad intaccare i patrimoni dei membri del consiglio117. Ma il punto più importante, agli occhi stupefatti di Polibio, era il potere di veto dei tribuni della plebe (ius intercessionis), che potenzialmente poteva impedire al senato persino di riunirsi; e i tribuni, osservava Polibio, «sono sempre tenuti a eseguire le decisioni del popolo e a uniformarsi soprattutto alla sua volontà». Per queste ragioni, conclude Polibio, il senato temeva le masse e doveva tener conto della volontà del popolo. L’assenza di ogni esplicita indicazione dei motivi per cui il senato avrebbe dovuto rispettare prudentemente le prerogative dei consoli suscita

113 Vd. K. VON FRITZ, The Theory of the Mixed Constitution, cit., pp. 166-167; F. MILLAR, The Roman Republic, cit., p. 33. 114 Vd. innanzi tutto M. HOLLEAUX, Les Conférences de Lokride et la politique de T. Quinctius Flamininus (198 av. J.-C.), (1923), in ID., Rome et la conquête de l’Orient. Philippe V et Antiochos le Grand. Études d’épigraphie et d’histoire grecques, V. Rome, la Macédoine et l’Orient grec, 2, Paris, Librairie d’Amérique et d’Orient Adrien-Maisonneuve, 1957, pp. 29-79; fra gli studi successivi, cf. almeno E. BADIAN, Titus Quinctius Flamininus. Philhellenism and Realpolitik, The University of Cincinnati, 1970, pp. 40-48; J.-L. FERRARY, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, de la seconde guerre de Macédoine à la guerre contre Mithridate, Rome, École Française de Rome, 1988, pp. 65-67; R. PFEILSCHIFTER, Titus Quinctius Flamininus. Untersuchungen zur römischen Griechenlandpolitik, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2005, pp. 100-103, 326-335. 115 Intorno al dibattito sulla concessione o meno del trionfo a Manlio Vulsone, vd. T. ITGENSHORST, Tota illa pompa. Der Triumph in der römischen Republik, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2005, pp. 170-173; non ho potuto vedere ancora M.R. PELIKAN PITTINGER, Contested Triumphs: Politics, Pageantry, and Performance in Livy’s Republican Rome, Berkeley, University of California Press, 2008. 116 Sulla questione della necessaria autorizzazione popolare all’azione del senato in casi di emergenza – come quello già citato della repressione dei Bacchanalia –, vd. F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., p. 690. 117 Già C.O. BRINK e F.W. WALBANK, The Construction, cit., pp. 106-107, nota 10, avevano ricondotto questa osservazione all’epoca di Gaio Flaminio (cf. II 21, 8 per il giudizio di Polibio sulla distribuzione viritim dell’ager Picenus Gallicus per volontà di Flaminio nel 232).

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un’impressione di asimmetria; ma anche nel capitolo successivo, fra gli elementi che limitavano il potere del popolo, il ruolo dei consoli è relegato in un solo paragrafo, aggiunto alla fine, si direbbe, quasi solo per ragioni di completezza118. Evidentemente, l’equilibrio più significativo, per Polibio, era quello fra il senato e le istituzioni ‘democratiche’; oltre il piano puramente istituzionale, dunque, Polibio sembra volerci presentare l’analisi di un equilibrio fra ceti diversi. In questo quadro, i consoli, membri del senato, e di regola strumento della sua volontà, non hanno una reale autonomia, e possono essere trascurati. Neppure il demos poteva prendere il sopravvento sugli altri elementi del sistema politico romano; anch’esso, a sua volta, doveva tener conto della volontà del senato. Polibio individua lo strumento di pressione del senato nei confronti del demos nel controllo sugli appalti per i lavori pubblici in Italia, e sugli appalti relativi all’esazione delle imposte o allo sfruttamento delle risorse naturali di proprietà dello Stato, miniere in testa. Tutti questi affari avrebbero visto impegnato il plethos; negli appalti, infatti, sarebbero stati coinvolti, a diverso titolo, tutti – o quasi tutti. Il senato, afferma Polibio, controllava tutte queste attività: «può, infatti, concedere del tempo, alleviare le condizioni dopo un incidente e, in caso di impossibilità, rescindere del tutto il contratto d’appalto». Inoltre, dal senato si traevano i giudici dei processi civili, per tutte le cause di una certa entità119. Di conseguenza, il popolo, per prudenza, evitava di ostacolare il senato. A trattenerlo dall’opporsi alle iniziative dei consoli, sarebbe bastata invece la considerazione della loro autorità assoluta nel comando militare. La rappresentazione polibiana della dipendenza di carattere economico del popolo dal senato, in rapporto alla concessione degli appalti pubblici, ha fatto molto discutere120. Polibio in effetti sembrerebbe equiparare il demos al ceto dei publicani e agli ambienti ad essi più vicini; solo a costoro sembra potersi applicare il quadro dell’interesse per gli appalti e della dipendenza dalla decisione del senato riguardo l’alleviamento delle condizioni di appalto. Il caso che potrebbe avere in mente Polibio è quello del 184 a.C., al tempo della rigorosa censura di Catone e Valerio Flacco, quando il senato, vinto dalle preghiere e dalle lacrime dei publicani, annullò i contratti assegnati dai censori a condizioni favorevoli allo Stato (LIV. XXXIX 44, 7-8)121. Il riferimento anche agli appalti per le opere pubbliche, oltre che a quelli relativi allo sfruttamento delle risorse statali, potrebbe far includere nel quadro anche i lavoratori del settore edilizio; ma comunque, il passo lascia perplessi – anche se appare legittimo annoverarlo, con Musti, fra le testimonianze dell’interesse di Polibio per gli aspetti economici del dominio romano122. Con il capitolo successivo si passa dalla fase dell’analisi a quella della valutazione del sistema. Rappresentate le prerogative dei singoli elementi e il complesso gioco della loro interdipendenza e del loro reciproco contenimento, Polibio passa a considerarne l’azione combinata, distinguendo i periodi in cui incombe qualche minaccia dall’esterno da quelli in cui il sicuro 118 Cf. già R. WEIL, Notice, cit., pp. 36-37. 119 Cf. C. NICOLET, Polybe et la «constitution» de Rome, cit., pp. 29-30. 120 Cf. per esempio A.J. TOYNBEE, Hannibal’s Legacy. The Hannibalic War’s Effects on Roman Life, II. Rome and her Neighbours after Hannibal’s Exit, London, Oxford University Press, 1965, pp. 342-344 («‘The masses’ would have been surprised and annoyed if it had come to their ears that Polybius imagined them to be participants in this profitable business»); E. BADIAN, Publicans and Sinners. Private Enterprise in the Service of the Roman Republic, Ithaca, New York, Cornell University Press, 1972, pp. 45-47, 129 nota 61, che ammette che «Polybius’ chief interest is in men wealthy enough to invest in the companies of public contractors», ma afferma pure che «ownership of shares in these companies was indeed widely distributed», e ritiene che Polibio intendesse alludere anche all’indotto dell’aumento delle opere pubbliche a Roma e in Italia, i cui benefici effetti economici sarebbero stati largamente diffusi – un punto su cui concorda W. NIPPEL, Mischverfassungstheorie, cit., p. 151 nota 44; D. MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli, Liguori, 1978, pp. 138-139 nota 65, che rettifica l’interpretazione di Badian di VI 17, 3, concludendone che Polibio «ha effettivamente esteso un po’ a tutto il popolo quel che riguardava propriamente gli uomini d’affari»; C. NICOLET, Polybe et la «constitution» de Rome, cit., pp. 238-239; L. PERELLI, Il pensiero politico di Cicerone, cit., pp. 94-95; e da ultimo B. MCGING, Polybius’ Histories, cit., pp. 182-183. 121 Per il ruolo giocato nella questione da Tito Quinzio Flaminino, cf. PLUTARCO Cat. m. 19, 2; Flamin. 19, 6-7. Sulla conoscenza della vicenda del 184 da parte di Polibio, vd. C. NICOLET, Polybe et la «constitution» de Rome, cit., p. 20. 122 D. MUSTI, Polibio e l’imperialismo, cit., p. 110.

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godimento della pace e del benessere in seguito ai successi riportati potrebbe indurre alla tracotanza e alla superbia123. L’eccellenza della struttura istituzionale romana si rivelava in entrambe le situazioni. Il pericolo ingenerava necessariamente unità d’intenti e d’azione124: il politeuma romano dispiegava la sua efficacia reagendo opportunamente a ogni minaccia e facendo fronte a ogni esigenza con l’indispensabile prontezza. Tutte le parti che lo componevano si sforzavano a gara di individuare la soluzione migliore, e concorrevano alla sua realizzazione. Polibio ne traeva la conclusione del carattere irresistibile del sistema politico romano, e della sua capacità di «conseguire tutti gli scopi che si prefigge». Paradossalmente, tuttavia, la situazione più rischiosa per la stabilità del sistema era l’altra, quella della pace. Nella rappresentazione del ciclo costituzionale, Polibio aveva riportato la degenerazione delle tre forme semplici di politeia proprio al venir meno del compito di dover assicurare alla comunità sicurezza e benessere, della cura dell’utile comune e degli interessi del plethos125; il tranquillo godimento della pace, della ricchezza e del potere – o, nel caso della democrazia, almeno dell’uguaglianza e della libertà di parola126 – avviava un processo di inesorabile inclinazione alla tracotanza e alla superbia. A conclusione dell’analisi dell’ordinamento istituzionale romano all’epoca di Canne, Polibio rileva come soprattutto in circostanze simili fosse possibile constatare la capacità di autorigenerazione del politeuma romano127:

Per il caso in cui una delle parti, crescendo oltremisura, possa entrare in conflitto con le altre e prevalere più del dovuto, infatti, è chiaro da quanto ho detto poc’anzi che, poiché nessuna delle tre parti è autosufficiente e poiché i propositi di ciascuna possono venire respinti e intralciati dalle altre, nessuna cresce oltremisura né eccede in superbia. Tutte, infatti, restano nell’ambito loro riservato, sia perché ostacolate nei loro impulsi, sia perché temono in partenza il controllo altrui (POLYB. VI 18, 7-8). La descrizione dell’ordinamento istituzionale che permise ai Romani di uscire vittoriosi dalla guerra annibalica per procedere immediatamente alla rapida conquista di quasi l’intera oikoumene si chiude dunque con una nota di ottimismo sulla stabilità del sistema, che appare possedere gli anticorpi necessari a combattere l’impulso naturale alla degenerazione. A questo punto, Polibio, dopo un approfondito esame degli usi militari romani, sul quale in questa sede non è possibile né forse sarebbe opportuno soffermarsi, ma che pure ha contribuito alla sua fortuna in età moderna (VI 19-42)128, passava alla comparazione fra la politeia romana e gli altri politeumata che avevano fama di virtù. Fra questi, tuttavia, operava una selezione personale, 123 POLYB. VI 18, 5: «Quando, invece, liberi dalle minacce esterne, essi vivono nel benessere e nell’abbondanza che seguono ai successi, godendo della prosperità, e, insidiati dall’adulazione e dall’ozio, diventano prepotenti e tracotanti, come di solito avviene […]». Per la ferma convinzione della pericolosità dell’indolenza e dell’ozio, soprattutto «quando il corso degli eventi è favorevole e le risorse abbondanti», cf. POLYB. XI 25, 6-7, che indica appunto nel non abbandonarsi al αυμείν e allo σχολάζειν una sorta di precetto salvifico, valido per gli eserciti, le città e i corpi. Già in I 66, 10-11, a proposito dei mercenari cartaginesi dopo la prima guerra punica, Polibio aveva posto scholè e rhathymia all’origine della stasis (ribellione). 124 Vd. F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., p. 697, per le diverse attestazioni del luogo comune greco secondo cui la presenza di un pericolo esterno contribuiva a mantenere la concordia interna. 125 Cf. POLYB. VI 7, 4-9, per la trasformazione della basileia in tirannide; VI 8, 3-6, per la degenerazione dell’aristocrazia in oligarchia 126 POLYB. VI 9, 4-9. 127 POLYB. VI 18, 5-6 («[…] soprattutto allora è possibile constatare come il sistema politico trovi soccorso in se stesso»). 128 Cf. A. MOMIGLIANO, Saggezza straniera, cit., p. 50, e soprattutto ID., Polybius’ Reappearance in Western Europe, in Polybe, cit., pp. 347-372, in particolare pp. 354, 361, 362-363, 365, 367-370. Sull’importanza della scelta di Polibio di dedicare tanto spazio all’organizzazione militare romana, «dalla quale dipese in larga parte il successo dell’espansione», cf. (oltre a E. KORNEMANN, Zum Staatsrecht des Polybios, cit., p. 173) T.A. SINCLAIR, Il pensiero politico classico, tr. it. a cura di L. FIRPO, Bari, Laterza, 1961, p. 362; A. ROVERI, Studi su Polibio, cit., p. 165, e più di recente vd. anche F.W. WALBANK, A Greek looks at Rome, cit., p. 280; F. MILLAR, Author’s Prologue, in ID., Rome, the Greek World, and the East, cit., pp. 1-22, in particolare p. 10 («all ancient political communities were in fact by their nature military organizations»); e soprattutto ID., The Roman Republic, cit., pp. 25-26; 34. Da ultimo, B. MCGING, Polybius’ Histories, cit., p. 183 ha rilevato come questi capitoli polibiani rappresentino «the single most important source of information on the Roman Republican army we have» (cf. già K. ZIEGLER, Polybios 1), cit., col. 1479).

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affrettandosi a rimuovere Tebe e Atene dal novero delle politeiai ammirevoli129. Il breve predominio tebano, infatti, non sarebbe stato causato dall’eccellenza della politeia, ma dal valore dei capi; non a caso, infatti, «le fortune dei Tebani crebbero, fiorirono e cessarono di pari passo con le vite di Epaminonda e di Pelopida»130. Qualcosa di analogo si sarebbe potuto dire anche per Atene. Benché Polibio sia costretto ad ammettere la maggior frequenza delle sue fasi di fioritura, le riporta tutte al valore dei singoli leaders politici, fra i quali menziona innanzi tutto Temistocle. Diversamente da Roma, Atene a Polibio appariva capace di far fronte solo alle fasi politiche più tempestose, e destinata invece al naufragio nelle acque tranquille del porto. Come l’equipaggio di una nave senza comandante, gli Ateniesi si lasciavano indurre alla concordia e a fare il necessario solo nelle situazioni di pericolo; ripreso coraggio, una volta passata la tempesta, offrivano un turpe spettacolo di contrasti e conflitti civili, che li portava alla rovina «nei periodi di sicura tranquillità»131. Liberatosi di Atene e Tebe, Polibio passava alla costituzione di Creta, di cui, in polemica con «i più dotti degli scrittori antichi – Eforo, Senofonte132, Callistene, Platone –», contestava sia che fosse analoga alla costituzione spartana, sia che fosse degna di lode. A caratterizzare la costituzione degli Spartani erano l’uguaglianza della proprietà terriera fra i cittadini e il «totale disprezzo» in cui era tenuto il possesso di denaro; inoltre, sul piano più strettamente istituzionale, le cariche dei re e dei membri della gerousia erano vitalizie133. A Creta, invece, tutto il contrario: le magistrature erano annuali, di carattere democratico; di terra se ne poteva acquistare all’infinito; e per quanto riguarda il denaro, tanta era l’avidità che «presso i soli Cretesi, tra tutti gli uomini, nessuna forma di guadagno è ritenuta vergognosa»134. Ostilità e pregiudizi nei confronti dei Cretesi inducono Polibio a insistere ancora sulla contrapposizione fra Sparta e Creta, polemizzando in particolare con Eforo135: mentre Licurgo, rimuovendo l’avidità, aveva assicurato la concordia, a Creta l’avidità innata degli abitanti aveva moltiplicato conflitti, stragi e guerre civili. Provata così la profonda differenza fra la costituzione degli Spartani e quella dei Cretesi, Polibio passava alle «ragioni per le quali riteniamo che la costituzione dei Cretesi non sia degna di lode né di emulazione»136. Questa volta, la dimostrazione passava per l’affermazione di un criterio generale, da applicare a tutte le diverse forme istituzionali: Polibio individuava i due principi in base ai quali valutare ogni politeia nei costumi e nelle leggi (η α νόμοι). Poiché «tra questi, quelli che sono da preferire rendono la vita privata degli uomini onesta e temperata e il carattere generale della città civile e giusto, quelli da evitare, invece, hanno effetti contrari»137, era possibile giudicare la qualità dei cittadini da quella dei costumi e delle leggi, e questa a sua volta dal comportamento dei cittadini. Così, la tendenza alla frode e all’ingiustizia caratteristica della vita privata e pubblica dei Cretesi doveva necessariamente portare alla condanna della loro politeia.

129 Per l’ostilità di Polibio nei confronti di Atene e Tebe, cf. già F.W. WALBANK, Polybius on the Roman Constitution, cit., p. 82, e A. ROVERI, Studi su Polibio, cit., pp. 190-191. Anche della costituzione dei Mantineesi, menzionata in VI 43, 1, fra quelle la cui fama di eccellenza sarebbe stata tramandata da «quasi tutti gli scrittori», non appare più menzione nei capitoli successivi, senza però che Polibio ne motivi l’esclusione. Vd. F.W. WALBANK, Commentary, I, cit., p. 724; D. MUSTI, Polibio e la democrazia, cit., pp. 167-168; G.J.D. AALDERS, Die Theorie, cit., p. 89, che ipotizza che Polibio «der ja selbst Arkadier war, habe über die Verfassung Mantineas mehr gesagt». 130 POLYB. VI 43, 6. 131 POLYB. VI 44. Nella formula conclusiva, al § 9, motivando l’esclusione delle costituzioni di Atene e Tebe dalla discussione che segue, Polibio affermava che in esse era l’ochlos a gestire «tutto secondo i propri impulsi, in un caso distinguendosi per veemenza ed asprezza, nell’altro per violenza e passionalità». 132 Sulla menzione di Senofonte vd. K. ZIEGLER, Polybios 1), cit., col. 1494 n. 2, che proporrebbe di intenderla come frutto della corruzione del nome di un meno noto Xenion, autore di Kretikà. 133 POLYB. VI 45. 134 POLYB. VI 46, 3. Più avanti, in realtà, un analogo giudizio colpisce i Cartaginesi (VI 56, 2). 135 Colpevole di aver «usato le stesse parole nel presentare le due costituzioni, sicché, se non si prestasse attenzione ai nomi propri, in nessun modo si potrebbe capire di quale delle due stia trattando»: POLYB. VI 46, 10. 136 POLYB. VI 46, 11. 137 POLYB. VI 47, 2.

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Esclusa rapidamente dalla competizione per il primato anche la costituzione immaginata da Platone, costruzione puramente teorica che non meritava di essere posta a confronto con quante avevano dato prova di sé nella prassi più di quanto una statua potesse confrontarsi con gli uomini viventi138, Polibio restringe l’analisi alle costituzioni di Sparta, Cartagine e Roma. L’esame procede a coppie: con la politeia romana vengono messe a confronto prima la costituzione degli Spartani, poi quella cartaginese. Polibio ha parole di ammirazione per l’operato di Licurgo: stabilendo tutto il necessario per assicurare la concordia fra i cittadini, il dominio sulla Laconia e la libertà, il legislatore spartano aveva mostrato una previdenza sovrumana. «L’uguaglianza nelle proprietà e lo stile di vita semplice e comunitario, infatti, miravano ad assicurare moderazione alla vita privata e a mettere la vita pubblica al riparo da contrasti interni […]»139: anche a proposito di Sparta, Polibio ribadisce il principio, già affermato a più riprese nella trattazione sulla successione ciclica delle forme istituzionali, secondo cui l’ostentazione di uno stile di vita più ricco e lussuoso rispetto al resto della popolazione suscita invidia e contribuisce all’origine dei conflitti civili. Inoltre, la famosa agogè spartana rendeva i cittadini «uomini forti e valorosi», facendo sì che potessero resistere, o persino scoraggiare ogni tentativo di aggressione140. Tuttavia, per la conquista, l’egemonia e la contesa sul piano internazionale, la costituzione spartana risultava del tutto inadeguata; Licurgo aveva reso gli Spartani ambiziosi e avidi di dominio nei confronti degli altri Greci, senza dar loro gli strumenti per procurarselo e gestirlo141. Il megalopolitano Polibio si lascia andare a una condanna dell’imperialismo degli Spartani, «primi tra i Greci a desiderare per avidità la terra dei loro vicini», e ne rievoca il giuramento, al tempo della prima guerra messenica, di «non sciogliere l’assedio prima di aver espugnato Messene»142; quindi, rimprovera agli Spartani di aver consegnato le città greche d’Asia ai Persiani, con la pace di Antalcida, in cambio del sostegno finanziario necessario a imporre il proprio dominio sui Greci. L’economia agraria della Sparta licurghea, con la sua moneta di ferro, non poteva sorreggere le aspirazioni egemoniche di Sparta nel V e IV secolo a.C.143. In conclusione, Polibio ribadisce l’eccellenza della costituzione di Licurgo per la difesa del territorio e il mantenimento della libertà, e la sua inadeguatezza alla conquista e alla gestione dell’egemonia. A questo fine, si doveva ammettere «che il sistema politico laconico è difettoso, e che quello dei Romani è superiore e dotato di una struttura più efficace»144. A dimostrarlo, erano i fatti: gli Spartani avevano pagato l’effimera conquista dell’egemonia sui Greci correndo seri rischi anche per la propria libertà, mentre ai Romani la stabile conquista del dominio sull’Italia aveva fatto da trampolino di lancio per la rapida sottomissione di tutta l’ecumene145. Concluso il confronto fra la costituzione licurghea e il sistema politico romano, Polibio passa finalmente all’esame del politeuma dei Cartaginesi, affermandone il carattere di costituzione mista, analoga a quella degli Spartani e dei Romani: «c’erano, infatti, presso di loro dei re, il senato esercitava un’autorità di tipo aristocratico e la massa aveva il controllo nell’ambito che le competeva»146. Tuttavia, si affretta a precisare,

138 POLYB. VI 47, 7-10. 139 POLYB. VI 48, 3. 140 POLYB. VI 48, 3-5 («[…] l’addestramento alle fatiche e alle imprese pericolose mirava a forgiare uomini forti e valorosi», § 3). 141 POLYB. VI 48, 6-8. 142 POLYB. VI 49, 1-3. 143 POLYB. VI 49, 3-10, da vedere con le osservazioni di MUSTI, Polibio, cit., p. 622. 144 POLYB. VI 50, 1-4 (la citazione dal § 4). 145 POLYB. VI 50, 5-6. Sulla conclusione del brano, in cui Polibio rileva come alla conquista romana «concorsero non poco l’abbondanza e la facile reperibilità delle risorse», cf. D. MUSTI, Polibio, cit., p. 641; ID., Aspetti economici ed aspetti politici dell’espansione romana nella storiografia polibiana, in W.V. HARRIS (ed. by), The Imperialism of Mid-Republican Rome, PMAAR 29, 1984, pp. 35-54, in particolare pp. 46-47. 146 POLYB. VI 51, 1-2.

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ai tempi in cui intrapresero la guerra annibalica, il sistema politico dei Cartaginesi era peggiore, migliore, invece, quello dei Romani. Poiché in ogni corpo, in ogni costituzione, in ogni azione ci sono, secondo natura, una crescita, poi un momento culminante e infine un declino, ed è nel momento culminante che essi danno il meglio di sé sotto tutti i punti di vista, ecco la ragione per cui allora i due sistemi politici erano in condizioni diverse tra loro. Come lo Stato dei Cartaginesi divenne potente e prospero prima di quello dei Romani, infatti, così Cartagine già allora era in declino, mentre Roma proprio allora conosceva la sua massima fioritura, almeno nella struttura costituzionale. Perciò a Cartagine il popolo aveva già rilevato il potere maggiore nelle deliberazioni, mentre a Roma lo esercitava ancora il senato. Quindi, poiché presso gli uni deliberavano i più (i polloì), presso gli altri i migliori (gli aristoi), le decisioni dei Romani in materia di affari pubblici erano più efficaci. Così, dopo aver subito disastri su tutta la linea, alla fine prevalsero sui Cartaginesi nella guerra grazie alla bontà delle loro decisioni (VI 51, 3-8)147. Si tratta di un passo centrale nella struttura del VI libro148, in cui sembrano confluire e trovare finalmente un tentativo di armonizzazione i diversi fili che lo percorrono. Innanzi tutto, Polibio vi riprende il tema della connessione fra la natura della politeia, la qualità delle decisioni politiche che ne scaturiscono e il successo internazionale, e afferma esplicitamente la superiorità del sistema politico romano, all’epoca della guerra annibalica, su quello cartaginese; si spiega così la ripresa romana dopo i disastri del Trasimeno e di Canne. Trova finalmente risposta la domanda posta già nel proemio sulla natura del sistema politico cui Roma doveva la rapida conquista di quasi l’intera ecumene. Quindi, l’affermazione secondo cui la superiorità istituzionale romana dipendeva dal fatto che a Roma il processo decisionale era saldamente controllato dagli aristoi, che si esprimevano attraverso il senato, mentre a Cartagine se ne erano ormai appropriati i polloì non rivela soltanto le preferenze politiche di Polibio149; accompagnata com’è dal rinvio alla parabola naturale di auxesis, akmè e phthisis, essa indica un tentativo di conciliazione fra la teoria dell’anaciclosi, la convinzione nella superiore stabilità della costituzione mista e il ritmo naturale di sviluppo, culmine e decadenza. Le due potenze che si erano contese l’egemonia nel Mediterraneo occidentale godevano entrambe di una costituzione mista; ma una, quella di Cartagine, era già nella fase di declino, mentre quella romana era all’acme; al punto più alto della parabola corrispondeva il dominio dell’elemento aristocratico, la fase di declino si caratterizzava per la preponderanza delle masse. In questa prospettiva, che sembra ammettere la possibilità di un’evoluzione da un predominio aristocratico alla prevalenza delle masse anche all’interno di una costituzione mista, si deve collocare, e può trovare spiegazione, l’affermazione di Polibio in XXIII 14, 1 secondo cui Scipione Africano dispiegò la sua philodoxia in un politeuma aristokratikòn: la carriera di Scipione si pone appunto nella fase in cui il predominio del senato caratterizzava in senso aristocratico l’equilibrio interno alla miktè politieia romana. Polibio dunque doveva ritenere che anche una costituzione mista fosse soggetta ai processi di trasformazione di tutti gli esseri viventi, e che le tappe della sua evoluzione fossero parallele a quelle del ciclo costituzionale; in questo senso sembra doversi intendere l’insistenza sul carattere naturale, katà physin, del processo di formazione della politeia romana. Soltanto, evidentemente, la costituzione mista repubblicana era il frutto di uno sviluppo progressivo, in cui il passaggio da una fase all’altra del ciclo non comportava l’eliminazione della forma politica sostituita, ma ne prevedeva la permanenza in un organismo fattosi più complesso per l’affiancarsi di nuove forme istituzionali alle vecchie che si

147 Su questo passo, e sul suo significato, cf. C. NICOLET, Polybe et la «constitution» de Rome, cit., pp. 20-22; 31-32, che acutamente vi accosta POLYB. XXIII 14, 1, dove la Roma in cui primeggiò Scipione Africano viene presentata come un aristokratikòn politeuma (vd. oltre nel testo). Contro la sua conclusione secondo cui, agli occhi di Polibio, la costituzione di Roma prima dei Gracchi «pouvait sans trop de risque être qualifiée d’aristocratie» (cf. già H. RYFFEL, ΜΕΤΑΒΟΛΗ ΠΟΛΙΤΕΙΩΝ, cit., pp. 183-185 con le nn. relative), vd. comunque F.W. WALBANK, A Greek looks at Rome, cit., pp. 281-283. 148 Come rilevato già da H. EISENBERGER, Die Natur, cit., pp. 55-56. Sulla struttura complessiva del libro basti qui rinviare a O. CUNTZ, Polybius und sein Werk, cit., pp. 37-38; V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., pp. 47-48; P. PÉDECH, La méthode, cit., p. 306 nota 13; C. NICOLET, Polybe et la «constitution» de Rome, cit., pp. 16-17; R WEIL, Notice, cit., pp. 10-11; C.B. CHAMPION, Cultural Politics, cit., pp. 85-88. 149 Cf. G.J.D. AALDERS, Die Theorie, cit., pp. 97-98, che legge anche in VI 14, 9, un indizio del favore di Polibio per l’elemento aristocratico.

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trasformavano. Così, con la cacciata di Tarquinio il Superbo, che segna la fine della tirannide, si instaura un’aristocrazia, ma l’istituzione del consolato consente contemporaneamente la sopravvivenza di una forma di potere monarchico – sia pure limitato dalla durata annuale della carica e dalla collegialità. Con la fine del decemvirato, equivalente alla fase oligarchica, e le leggi Valeriae Horatiae non scompare il ruolo del senato – l’elemento aristocratico –, ma gli si impone la convivenza con un elemento popolare accresciuto nel suo potere150. A Roma si procedeva dunque non per sostituzione, ma per accumulazione; nelle diverse fasi di transizione, l’elemento istituzionale dominante nella fase precedente non si perdeva, ma si trasformava, rientrando nei limiti; e soprattutto, gli si affiancava la forma successiva nel ciclo, con l’effetto di renderne assai più difficile una nuova degenerazione. La compresenza di poteri di natura diversa creava infatti un complesso equilibrio, in cui ognuna delle parti risultava trattenuta nei suoi impulsi alla prevaricazione e alla superbia dal contrappeso esercitato dagli altri elementi. L’equilibrio istituzionale tuttavia non era sufficiente a sottrarre la costituzione mista della repubblica dalla legge naturale per cui ogni essere vivente, e ogni assetto istituzionale, è destinato alla lunga alla degenerazione; in questo quadro si spiega l’insistenza, negli ultimi capitoli del libro, sul sistema educativo romano. Polibio vi arriva ancora attraverso il confronto fra le politeiai delle due potenze che si erano affrontate nella guerra annibalica: ai Cartaginesi riconosce la superiorità nelle operazioni di guerra per mare, per la loro tradizionale esperienza in questo campo; ma si affretta a rilevare che «nelle operazioni di terra, invece, i Romani sono assai meglio esercitati dei Cartaginesi». La ragione della negligenza punica in questo settore viene individuata nell’impiego di milizie straniere e mercenarie, cui Polibio contrappone le truppe «indigene e cittadine» dei Romani.

Così anche in quest’ambito questo Stato merita maggiore approvazione di quello: mentre l’uno, infatti, ripone sempre le speranze di libertà nel coraggio dei mercenari, l’altro – quello dei Romani – le ripone nel valore dei propri uomini e nel soccorso degli alleati. Perciò, anche quando all’inizio hanno la peggio, i Romani riescono a riscattarsi completamente, al contrario dei Cartaginesi. Essi, infatti, poiché si battono per difendere la patria e i figli, non possono mai arrestare il loro impeto, ma continuano a lottare all’ultimo respiro finché non hanno il sopravvento sui nemici (VI 52, 5-7). Al carattere indomabile delle milizie cittadine romane e al coraggio degli uomini a bordo, elemento determinante per la vittoria, Polibio riporta anche lo straordinario recupero per cui i Romani arrivarono a contendere alla città rivale anche la superiorità nella guerra navale151; e dopo aver affermato la naturale superiorità degli Italici rispetto «ai Fenici e ai Libici nella forza fisica come nell’audacia dell’animo» – un omaggio a pregiudizi etnici tradizionali, e molto diffusi152 –, apporta un contributo più originale e interessante, osservando come «d’altra parte, con le loro usanze incoraggiano notevolmente i giovani su questa strada»153. Assai più che il topos della pretesa superiorità militare dei popoli d’Occidente sugli Orientali, Polibio enfatizza i costumi grazie ai quali a Roma si era diffusa capillarmente la tenacia militare che alla lunga permise di avere la meglio sui Cartaginesi. È in questo contesto che si collocano i capitoli già esaminati sulle cerimonie funebri dei membri della nobilitas (VI 53-54), sull’exemplum di Orazio Coclite (VI 55), sulla maggior correttezza romana nella gestione del denaro pubblico rispetto non solo ai Cartaginesi, ma anche ai Greci, e sulla deisidaimonia che permeava la società romana (VI 56). Infine, prima di ristabilire la connessione con il tessuto narrativo in cui aveva incastonato l’analisi del VI libro attraverso l’aneddoto sul rifiuto di riscattare i prigionieri di Canne (VI 58)154, Polibio riprende le fila del discorso già svolto e arriva a una conclusione.

150 Cf. TH. COLE, The Sources, cit., p. 479. 151 Un punto sul quale aveva già espresso al sua ammirazione in I 20, 11-16. 152 Cf. C.B. CHAMPION, Cultural Politics, cit., pp. 77-78; 82 su questo passo, e più in generale la discussione alle pp. 76-78, con la conclusione che «for the most part, Polybius does not employ the argument of nature as an exhaustive casual explanation for collective societal characteristics». 153 POLYB. VI 52, 10. 154 Cf. già A. ROVERI, Studi su Polibio, cit., p. 165.

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Partendo dalla necessità naturale della trasformazione e della morte per tutte le cose, Polibio distingue i due possibili modi della corruzione di ogni genere di costituzione, dall’esterno e dall’interno. Solo quest’ultimo, prosegue, può essere soggetto a un’ordinata considerazione teorica, per cui Polibio rinvia alla propria analisi del ciclo costituzionale, ribadendo la possibilità di applicarlo alla previsione del futuro già affermata in 4, 11-13 e 9, 10-14155.

Quando uno Stato, dopo aver respinto molti e gravi pericoli, ottiene una supremazia e un dominio incontrastati è evidente che, poiché la prosperità diventa a lungo di casa, la vita si fa più lussuosa, e maggiore del dovuto, fra gli uomini, la competizione per le cariche pubbliche e gli altri obiettivi ambiziosi. Via via che questa tendenza aumenta, l’avidità di potere, il senso di vergogna legato all’assenza di fama e, ancora, lo stile di vita improntato alla sfrontatezza e al lusso cominceranno a modificare in peggio lo Stato, e il popolo si assumerà il merito del mutamento, quando si riterrà offeso dalla eccessiva avidità di guadagno di alcuni o sarà gonfiato da altri, che lo aduleranno per desiderio di potere. Allora, preda dell’ira, prendendo tutte le decisioni sotto la spinta della passione, non vorrà più obbedire, né avere gli stessi diritti dei capi: vorrà avere per sé tutto, o il più possibile. Una volta che ciò sarà avvenuto la costituzione assumerà il più bello dei nomi – libertà e democrazia –, ma la peggiore delle realtà, l’oclocrazia156 (VI 57, 5-9). Nella conclusione del libro, dunque, risuonano note già familiari. Polibio sembra riecheggiare la rappresentazione della degenerazione della democrazia già presentata in VI 9, 5-9157; il contesto, tuttavia, e il riferimento a una politeia che dopo aver superato «molti e gravi pericoli» abbia acquistato «una supremazia e un dominio incontrastati» (ες περοχν α δυναστείαν δριτον φίηται, § 5158), inducono a pensare che questa volta intenda riferirsi esplicitamente a Roma159. In precedenza, d’altra parte, come si è visto, Polibio aveva già mostrato chiaramente di non considerare la costituzione mista esente dal naturale processo di trasformazione160. Il libro sembra concludersi dunque con una visione pessimistica, con la previsione delle forme dell’inevitabile degenerazione della costituzione di Roma; dei meccanismi che avrebbero dovuto rallentarla, se non impedirla, non si fa più menzione. Alla fine, si potrebbe dire, la forza del ritmo naturale, che dopo la fase di ascesa e l’acme prevede inevitabilmente la degenerazione e la fine, ha la meglio, agli occhi di Polibio, sui fragili argini posti dall’ingegno umano. Ma la consapevolezza dell’instabilità delle forme politiche non fa che aumentare l’ammirazione per il sistema di equilibri e contrappesi che aveva saputo ostacolare la corsa delle forze della natura, e contribuisce a spiegare l’insistenza di Polibio sulle forme della trasmissione dei

155 Sul carattere della previsione del futuro costituzionale immaginata da Polibio, vd. le stimolanti considerazioni di D.E. HAHM, Polybius’ applied political theory, cit.; ID., Kings and constitutions, cit., pp. 466-473. 156 C. NICOLET, Polybe et la «constitution» de Rome, cit., pp. 34-35, rileva la consapevolezza polibiana «du caractère polémique, ambivalent, non-objectif» dei termini del linguaggio politico. 157 Cf. già fra gli altri F.W. WALBANK, Polybius on the Roman Constitution, cit., p. 86, che nella condanna della democrazia in questo passo leggeva «the authentic voice of prejudice, of the Achaean leader and friend of Scipio»; C. NICOLET, Polybe et la «constitution» de Rome, cit., p. 33. 158 Di conquista da parte dei Romani di una aderitos … exousia generale dopo la fine della monarchia macedone, e degli effetti che ciò produsse sulla vita pubblica e privata, Polibio parlerà in XXXI 25, 6-7 (i due brani sono accostati già da V. PÖSCHL, Römischer Staat, cit., p. 64 nota 43; C.O. BRINK and F.W. WALBANK, The Construction, cit., pp. 104-105; F.W. WALBANK, Commentary, cit., p. 648; K.-E. PETZOLD, Studien, cit., pp. 89-90). Cf. anche X 36, 3, dove osservava significativamente come i Cartaginesi, convinti di godere del dominio incontrastato (aderitos) dell’Iberia, avrebbero preso a comportarsi con superba tracotanza (hyperephania) nei confronti degli indigeni. In XV 10, 2, nel discorso di esortazione alle truppe prima della battaglia di Zama, Publio Cornelio Scipione avrebbe affermato che la vittoria sui Cartaginesi avrebbe procurato ai Romani l’hegemonia e la dynasteia aderitos non solo sull’Africa, ma anche sul resto dell’ecumene. Per il legame fra una supremazia incontrastata e la hyperephania nella riflessione di Polibio, vd. anche W. THEILER, Schichten im 6. Buch, cit., p. 297. 159 Vd. Già, fra gli altri, C.O.BRINK and F.W. WALBANK, The Construction, cit., 119; ID., Polybius and the Roman State, cit., pp. 251-252; D. MUSTI, Polibio, cit., pp. 617-618. Cf. però l’impostazione diversa di C. NICOLET, Polybe et la «constitution» de Rome, cit., pp. 33-34. 160 Cf. ancora D. MUSTI, Polibio, cit., p. 623.

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valori nella repubblica: solo l’adesione a un simile sistema di valori, che a tutto anteponeva il bene pubblico, poteva arrestare la decadenza politica161.

161 Per la centralità nella visione polibiana degli «shared moral values that conduce to a good constitution», cf. D.E. HAHM, Kings and constitutions, cit., p. 476, e già ID., Polybius’ applied political theory, cit., p. 8 e passim, e B. MEISSNER, ΠΡΑΓΜΑΤΙΚΗ ΙΣΤΟΡΙΑ, cit., p. 336.