"LA COSCIENZA COINCIDE CON IL CERVELLO?"

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LA COSCIENZA COINCIDE CON IL CERVELLO? CITTÀ DI LERICI Assessorato alla Cultura ASSOCIAZIONE CULTURALE ARTHENA Atti dell’Eranos tenuto nel giardino dell’Associazione Culturale Arthena di Lerici il 29 Giugno 2013

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in un incontro interdisciplinare, sei interventi che tentano di rispondere alla domanda che più appassiona la scienza e la filosofia contemporanee.

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LA COSCIENZA

COINCIDE CON IL CERVELLO?

         

CITTÀ  DI  LERICI  Assessorato alla Cultura

     

 ASSOCIAZIONE  CULTURALE  ARTHENA  

   

Atti dell’Eranos tenuto nel giardino dell’Associazione Culturale Arthena di Lerici

il 29 Giugno 2013

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INDICE

Pagina Patrizia Biaggini La coscienza-testimone. Suggestioni letterarie fra Svevo e Cioran 1 Stefano Bianco La Coscienza, lo Sguardo e il Segreto 4 Nello Castaldo Ancora qualche appunto sulla Coscienza e il Tempo 7 Andrea Costa Coltivazione dell'attenzione e trasformazioni fisiologiche 12 Francesco Pelillo Come la coscienza è prodotta dal nostro cervello 24 Angelo Tonelli La coscienza coincide con il cervello? 27

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Patrizia Biaggini, Insegnante e consulente filosofico di Phronesis (Associazione Italiana Consulenza Filosofica).

La coscienza-testimone. Suggestioni letterarie fra Svevo e Cioran

           La mente è soltanto il cervello? Già l’uso di questo avverbio, nella domanda che si pone a pre-testo della nostra conversazione, potrebbe condizionare in senso retorico, come se in realtà l’interrogativo fosse una vera e propria affermazione travestita… Forse la mente non è soltanto il cervello, verrebbe infatti da pensare. Ce lo suggerisce, fra gli altri, Maurizio Ferraris in uno di questi piccoli testi divulgativi apparsi da poco per la Biblioteca di Repubblica. Se infatti la mente, dice Ferraris, è solo il risultato di complesse funzioni neuronali, allora poco si spiega quell’emozione di unicità, il sentimento di titolarità che ognuno di noi certamente prova rispetto alla propria cosiddetta interiorità. E tuttavia, anche se questo sentimento dell’unicità è conturbante, ci fa riflettere sulla parola coscienza e ci spinge a pronunciare – con le dovute cautele – anche l’altra parola, quella di persona…, tuttavia sembrerebbe davvero consigliabile mantenersi in una certa attitudine di dubbio, di sospensione. Parlando di coscienza “brancoliamo nel buio” dice Alva Noë, filosofo e scrittore americano (Perché non siamo il nostro cervello, 2010). Per Alva Noë la mente è una danza; è lo spazio dinamico dell’intera persona. È il corpo mondano ad avere ed essere coscienza. Recentemente ho letto un testo di Fabrizio Desideri, filosofo italiano molto attento alla ricerca di Noë, intitolato L’ascolto della coscienza (1998). L’autore sottolinea la vocazione alla dimensione pubblica, plurale, del termine. La coscienza è un’attività che sta dentro a una relazione. Desideri parla di un “continuo commercio percettivo con l’esterno”. Ma l’attenzione è anche ulteriormente focalizzata su certi scenari interiori; il rimando è a Nietzsche, che definiva la coscienza come “la formazione più nuova e debole della vita organica”. Desideri è interessato a questa debolezza dell’Io un po’ conteso. Concepisce infatti la coscienza come una sorta di “soglia critica” che continuamente cerca di operare una sintesi fra esterno e interno. Però è un’attività complicata, che per l’appunto nasce nel segno di una costitutiva fragilità. Questa labilità strutturale della coscienza è stata per me argomento particolarmente interessante dal punto di vista letterario. Dieci anni fa, ne Lo sguardo su di sé. Zeno e l’umorismo della Coscienza, cercai di approfondire un particolare tema che mi sta ancora molto a cuore e che è il rapporto fra umorismo e consapevolezza. Umorismo della coscienza significa che in questo romanzo, il capolavoro sveviano, Zeno, è letteralmente sopraffatto dalla sua stessa voce interiore. Il resoconto è rispetto: Ø Alla propria interiorità (come mi sento in questo momento?) Ø Al farsi avanti del mondo e degli altri Non c’è armonia, non c’è adesione alle cose e al mondo. Al contrario prevale la differenza, lo scarto. L’azione ne risulta quindi infiacchita; perde di freschezza e

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non ha più dietro di sé la forza piena e vitale di una credenza ben riposta. Ecco un brano della Coscienza in questo senso particolarmente esemplificativo: “Mi ricordo che una sera, a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo ad ogni tratto interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s’apre. Augusta, come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava (…). Io invece, nell’oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso (…)”. Viene in mente anche Cioran con uno dei suoi folgoranti aforismi sulla coscienza intesa come disturbo, malanno, inappartenenza: “ “La coscienza è molto più della scheggia, è il pugnale nella carne” Ritorniamo alla costitutiva fragilità dell’Io, colto nella sua goffaggine di zelante e sconfitto accomodatore… Il personaggio giocato, in letteratura (e nella vita!) può diventare umoristico. Perché è passivo. Ed è doppiamente umoristico, questo personaggio così nevrotico e attuale, perché oltre ad essere passivo lo sa e fa delle glosse, commentando certo suo stato di inadempienza e penosa subalternità. Le glosse, tanto dotte, razionali e convincenti, quanto perfettamente inefficaci e amplificatrici, anziché redimerlo, lo avvincono ancor di più alla sua paralisi iniziale. Dialettica, differenza, dissidio, non coincidenza con ciò che si è. In letteratura questo continuo scarto ci regala molto spesso la sensazione che la mente, fatta di persona-mondo (con tutto l’implicito-inconscio che potremmo ben accettare, fenomenologicamente parlando, nella sua ipotetica “collocazione non interna, ma fuori, nelle strutture esterne) sia davvero presenza sfuggente, molteplice differente, ma… presenza comunque e sempre irriducibile a qualcosa di organico (oppure replicabile secondo un algoritmo). Come a dire che solo l’arte, solo la letteratura può restituire alla nostra identità, alla nostra cosiddetta coscienza l’onore della presenza. E se la coscienza, la coscienza di sé, si può a volte trasformare in umorismo, come dice Musatti parlando di Svevo, l’umorismo sarà solo pronunciabile, sommariamente descrivibile non già da un linguaggio tecno/scientifico, ma attraverso una parola parallela e profondamente allusiva, una parola ambivalente, come per esempio può e sa essere quella della poesia.

Breve  bibliografia  di  riferimento   Svevo  I.,  La  coscienza  di  Zeno,  Opera  Omnia,  Dall’Oglio,  1966-­‐‑69  Cioran  E.,  La  tentazione  di  esistere,  Adelphi,  1995  Cioran  E.,  L’inconveniente  di  essere  nati,  Adelphi,  1991  

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Musatti  C.,  Svevo  e  la  psicanalisi  in  Riflessioni  sul  pensiero  psicoanalitico  e  incursioni  nel  mondo  delle  immagini,  Boringhieri,  1976  Desideri  F.,  L’ascolto  della  coscienza,  Feltrinelli,  1998  Biaggini  P.,  Lo  sguardo  su  di  sé.  Zeno  e  l’umorismo  della  coscienza,  ETS,  2003  Ferraris  M.,  La  mente  è  soltanto  il  cervello?  La  biblioteca  di  Repubblica,  2012  Noë  A.,  Perché  non  siamo  il  nostro  cervello,  Cortina  editore,  2010    

                                                     

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Stefano Bianco, psicologo psicanalitico

La Coscienza, lo Sguardo e il Segreto Vorrei prendere in esame la relazione tra lo sguardo ed il segreto perché la concezione della coscienza non è una copia della realtà ma il risultato del tipo di sguardo che useremo. Oggi in psicanalisi stiamo assistendo all’inaugurazione di un nuovo paradigma. Quello del rapporto tra sensato ed insensato nella relazione terapeutica. Lacan lo aveva già introdotto. Non esiste solo l’inconscio del rimosso ma anche l’inconscio del reale. Dove per reale si intende quello che non è rappresentabile dalle parole. Il reale sarebbe quindi un buco nella catena dei significanti,che esprime il vuoto che sfugge alla coscienza e che produce angoscia mano a mano che ci avviciniamo ad esso. Vorrei darvi alcune immagini sul ruolo dell’insensato per evidenziare cosa significhi questo cambiamento di paradigma. Studi recenti hanno dimostrato che il sogno non è solo un appagamento del desiderio ma un luogo durante il quale, autonomamente, si producono nuovi nessi. Riordiniamo la nostra conoscenza come potrebbe fare un bibliotecario con i libri. Ovviamente con una logica che non è quella del principio di non contraddizione. Valorizzare il ruolo dell’insensato nella seduta analitica vuol dire che l’interpretazione non è più lo scopo principale. E ancora, l’analista, non identificando più il proprio ruolo con l’interpretazione dovrà usare soprattutto l’attenzione fluttuante, navigando nell’insensato, usando il silenzio e facendo degli interventi volti a produrre dei tagli nel detto dell’analizzante, apparentemente insensati, che genereranno senso solo successivamente , se avverrà. Certo questo dovrebbe avvenire solo ad un punto avanzato dell’analisi, perché la nostra servitù al significante è inevitabile. Noi siamo giocati dal linguaggio e il linguaggio produce un’alienazione sul parlante.“Ciò che è” non è ciò che diciamo. Ho voluto fare questa introduzione per sottolineare l’importanza dell’insensato. Che fine fa la coscienza razionale, quella che comunemente s’intende come tale, con il peso che viene ad avere l’insensato? Se decidiamo di assumerci questo peso, questa responsabilità come parlanti, quale sguardo useremo? Quando parliamo di coscienza, comunemente, ce la raffiguriamo come una macchinetta nel cervello, un prodotto dell’io che opera un certo ordine nei dati tramite la razionalità. Ma l’io non è padrone in casa propria. A mio avviso, invece, noi prendiamo un momento transitorio di un processo ininterrotto e sempre in evoluzione e lo assolutizziamo. Prendiamo l’immagine e la trattiamo come idolo. La generalizziamo al Tutto.

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Questa razionalità è una struttura sillogistica che accetta solo ciò che si adegua alle premesse. Potrà passare solo ciò che si adegua alla razionalità espressa dal campo delimitato dalle premesse dettate dal significante. Inoltre questa coscienza funzionerebbe secondo il principio di non contraddizione. Allora che tipo di intelligenza vogliamo usare quando guardiamo alla coscienza? L’intelligenza del sì e del no, come un computer, quella del principio di non contraddizione. Sarebbe questa l’intelligenza del caso particolare o l’intelligenza che conosce separando gli opposti. Donando al multiforme un’unica forma tramite un’ atteggiamento tutto basato sulla prensione dell’oggetto in esame che esprime una volontà di potenza come risposta al desiderio di immortalità. Oppure usiamo l’intelligenza dell’anima che è determinata dalla tensione tra gli opposti che genera complementarietà ed antagonismi tra essi. Qualche tempo fa è uscito un articolo su un quotidiano dedicato alle neuroscienze dove si presentava un libro. Nell’articolo si sosteneva che noi siamo dei “bugiardi sinceri”. La coscienza sarebbe un atto di oblio. Nell’ essere presenti a noi stessi, mentre viviamo, di fatto non navighiamo su una sicura imbarcazione ma siamo immersi dentro ad una costante precarietà frammentata. Siamo nel caos . Immersi in una follia. L’io, ricordo, non è padrone in casa propria. Di fronte a questo, la coscienza, chiude il processo intervenendo, raccontando delle storielle che propagandano una parvenza di unitarietà, di organizzazione razionale. Questo lo facciamo del tutto inconsciamente. Dimentichiamo il caos del nostro reale e ci gettiamo sull’isola del campo della coscienza. Siamo bugiardi e sinceri. Questo caos, o l’inconscio del reale predilige l’ordine della notte. Capita che nella tensione degli opposti, come uno scontro tra onde in un mare agitato, la cresta sfoci nell’ordine del giorno. Dall’insensato al sensato,ma a nulla servirebbe seguire un principio di causalità se volessimo ripercorrere la storia di quella cresta. Quindi, a mio avviso, dovremmo guardare la coscienza con l’intelligenza dell’anima nel tentativo di coniugare gli opposti. E l’anima ha due occhi: l’amore e l’intelligenza. Perché il fine di questo sguardo sarà quello di arrivare non al particolare ma ai principi universali. Ci siamo dimenticati degli universali. Eppure l’insensato parla musicalmente e la musica ci ricorda sempre la loro esistenza. Facendo un salto logico, per esplorare la relazione tra sensato ed insensato Lacan ha analizzato il godimento femminile in relazione alla mistica. In ultimo vengo al Segreto. Se decidiamo di valorizzare il ruolo dell’insensato dovremmo dotarci di alcuni strumenti uno di questi è il segreto. Segreto inteso non come contenuti, importanti anch’essi, ma come luogo, c’è una stanza del Segreto nella nostra anima. In questo senso il segreto opera, e contribuisce a creare la forma dell’ordine del giorno.

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C’è un limite che va custodito. Non bisogna oltrepassarlo animati da una volontà conoscitiva. Nel luogo del segreto la conoscenza opera e produce risultati. Alcuni continueranno a rimanere segreti producendo altri frutti. Altri invece sfoceranno nell’ordine del giorno. Il limite che l’esistenza del segreto detta è rappresentabile come un velo che rende possibile la forma dello sguardo. La sottolinea, l’acuisce.Si badi bene a non confondere il velo non è l’ inconscio rimosso. Anche l’immagine del velo parla di come ciò che si conosce sia legato all’insensato. Senza il velo si rimarrebbe accecati dalla luce, presi dal panico, in totale confusione, scomparirebbe l’immaginazione. Persi nel labirinto senza poter incontrare la grazia di Arianna. Senza poter riuscire ad ascoltare la forma musicale che quel filo detta. Anche ciò che emerge nella coscienza è frutto della messa in opera di questo velo. Dal quale siamo agiti. Ma il velo richiede un atto di riconoscenza nell’ordine del giorno. Dobbiamo cioè compiere la scelta di custodirlo per la formulazione di un patto. Quindi il pudore è necessario. Senza questo, non è possibile il circuito delle anime dei gentili.

 

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Nello Castaldo, Medico psichiatra

Ancora qualche appunto sulla Coscienza e il Tempo

Riassunto

Si delinea in questo articolo la peculiare natura processuale della coscienza che nel Tempo individuale di ciascuno di noi si connota come prerogativa dell’essere umano così come della vita della Terra, e dei suoi abitanti. Quindi dalla coscienza intesa come consapevolezza e presenza dell’esser vivi a coscienza diffusa, nel duplice significato di coscienza apparsa con l’origine della Vita e come spalmata in ogni cellula, incostante nella sua costanza a vari livelli di vigilanza: un accenno al Sé visto come Coscienza universale (Plotino) nella dialettica continua con il non-Sé. (il concetto di Vuoto buddista). Appunti che possono sviluppare nel lettore ulteriori approfondimenti che vanno dalla Fenomenologia heideggeriana alle Neuroscienze alla Dottrina buddista del non attaccamento, argomenti qui solo accennati ma che comunque “vogliono” essere tenuti insieme da una visione oriente-occidente globalizzata dell’esistenza in tutte le sue forme, dalle meno evolute a quelle più complesse.

Summary

This study suggests that the conscience has a processual nature and this requires the development across the Time-interior and chronological; this process is a property of Human but also a lot living species of the Globe (psychism at different levels of evolutive organization). Another way of understand the conscience is defined as consciousness, awareness, in-constant in yours constancy. Then we propose a comparison with concept of Self as Conscience universal-il Tutto di Plotino-and as concept of buddist Empty (Vuoto), Self and not-Self. These notes drive the readers at greater investigation of the Fenomenology and Neuroscience in a cultural vision that “comprendre” a perspective from organic-Nature to Spirit, from Onthology at Epistemology like wants a actual speculative positive realism going beyong the lesson of german Idealism and meeting with darvinist Evolutionism.

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Considerando la Coscienza, ciò di cui sono a conoscenza ora, la Vita in presa diretta – così la intendiamo in questa prima formulazione – è nel Tempo e al Tempo, constatiamo che siamo vivi e questo non significa (altro) che ci relazioniamo con la presenza (essere) a Noi stessi, agli Altri e alle Cose del Mondo. Grazie alla scrittura e alla trasmissione orale ci è consentito di dircelo fra umani che parlano le stesse lingue, ma è evidente che ciò accade anche per gli animali non umani che (ci) comunicano per altri versi. Noi “parliamo” agli animali nel senso stretto del termine nella misura in cui essi ci parlano, con gli occhi (le emozioni) e le posture del corpo, le azioni e i comportamenti complessi, grazie all’empatia, dai tanti significati; noi, comunque, la intendiamo come riconoscimento degli altri ed è un processo sensoriale/cognitivo mediato dai neuroni specchio nella corteccia pre-frontale del cervello, come è stato osservato per alcuni esponenti della Classe dei Mammiferi (1); così come ci insegnano anche gli studi di Etologia e Psicologia comparata (2)(3). Questa leggibilità della Natura, questa leggibilità per esteso del Mondo (4) è criterio fondativo del raccontare le cose semplicemente e/o di interpretarle secondo Scienza e Coscienza, come consapevolezza (seconda formulazione del concetto di coscienza che ci immergerà poi fugacemente anche nella Filosofia buddhista) che esistono in quanto noi percipienti. La Coscienza è mettere in ordine le cose dello Spirito e della Natura, come hanno tentato e tentano le Filosofie e le Scienze in ogni epoca e luogo, attribuendo a esse significati che riverberano sull’Uomo; operazione che presuppone una temporalità (spazialità) che è un carattere costitutivo dell’esistenza umana, oltre naturalmente una capacità analitica e di sintesi che trovano le loro sedi anatomiche nell’encefalo; i criteri spaziali (memoria) e temporali (di orientamento) di collocare le cose servono a non farci perdere di vista il solco che la ragione – il pensiero logico-costruttivista – deve sempre tenere aperto onde evitare il delirare come uscita dal solco, dal percorso che “dobbiamo” imporci perché non possiamo fare altrimenti “vittime” della Coscienza ordinaria giornaliera (terzo modo di intendere la funzione della coscienza). Dall’altro canto impazzire “bene” non è tanto facile: forse un ruolo importante gioca il fattore ereditario e i meccanismi di repressione degli istinti e della libertà. Non possiamo non riconoscere che anche l’animale si muove (vive) entro coordinate spazio-temporali e ci lascia perplessi il fatto che questi movimenti siano solo tropismi e automatismi e non anche capacità pauci-riflessive di inferenza sulla realtà. Sfogliando un’opera minore di M. Heidegger del 1924 – Il Concetto di tempo (5) – una conferenza tenuta ai teologi di Marburgo sul tempo inteso come carattere costitutivo dell’esistenza umana (nel ‘27 scriverà Essere e Tempo) si legge la citazione riportata da le Confessioni di S. Agostino che suona così: “In te, anime meus, tempora metior” che parafrasando è: “In te animo mio, misuro i tempi; quando misuro te, misuro il tempo … le cose transeunti ti mettono in un “sentirti” che rimane, mentre esse si dileguano … è il mio sentirmi che misuro quando misuro il tempo”.

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Esiste forse una coscienza che non sia nel qui ed ora, mutevole nel qui ed ora mutevoli ma sempre, anche di volta in volta, sempre se stessa (me stesso), ego- sintonica e unica e continua? Questo tempo interiore è la mia coscienza – l’esserci, essere dentro di me, la coscienza che io mi attribuisco come diventa la meità, che entra ed esce da me – la chiamiamo intenzionalità (Brentano) come un dirigersi verso le cose. So che è mia prima perché io me la attribuisco, poi perché mi viene riconosciuta dagli altri, ma questo è un processo temporale unico, senza prima e senza dopo. Me la attribuisco come so che queste mani e questi piedi sono miei, me li riconosco a meno che non abbia gravi lesioni corticali e neurologiche. “… e la coscienza?” Come suona il titolo del libro a cura di Ales Bello e Manganaro, (6) … me la ri-conosco sempre, cioè quando sono sveglio, oppure è come vuole essere il titolo un po’ provocatorio di questo libro denso, ha significato anche di “essere coscienziosi”, di agire con spirito equo, etico, veritiero e consapevole, questa coscienza è comunque spazialmente concepibile secondo le Neuroscienze? E’ esatta questa visione della cosa o è meglio mettere tra parentesi la questione? Aspettando ulteriori studi di neurofisiologia cognitiva. Ma basteranno? Ma quanti livelli di coscienza ci sono? Oltre alle principali c. in stato di veglia e c. in stato di sonno (con le due fasi principali di esso REM e non-REM), e le coscienze danneggiate dai vari stati di coma, ricordiamo la coscienza superiore nel satori buddhista e quella semplicemente in condizione di rilassamento (questi livelli di vigilanza-coscienza sono naturalmente registrati dall’elettroencefalogramma, con onde di significato diverso). Insomma flussi di coscienza di cui spesso non siamo davvero consapevoli, come negli effetti di certe droghe che alterano la percezione spazio-temporale (7), oppure stati crepuscolari (Ganser) propri dei disturbi isterici apparentati con meccanismi inconsci automatici (8). Ma anche senza assunzione di droghe psicodislettiche, non sempre abbiamo consapevolezza di ciò che accade nel nostro corpo, nella mente-motore del nostro corpo: i processi fisiologici agiscono per conto proprio tramite l’interazione tra sistema nervoso centrale e periferico, simpatico e parasimpatico. Una cefalea può derivare da un’intossicazione alimentare (gastrica-intestinale) e il nostro Io ha l’illusione che ciò avvenga nella testa-Io, ma è solo questione di “coscienze periferiche” trasferite. Sul piano filosofico, azzardando verrebbe da dire: ontologie regionali husserliane. Insomma l’Io in testa è un’illusione e in questo hanno ragione le dottrine buddhiste di meditazione che invogliano a eliminare la centralità dell’Io per spalmarlo nel Sé universale che è antipredicativo, fenomenologico, preriflessivo: preesiste all’Io, ai molteplici Io ed è composto dalle coscienze diffuse nell’Universo. Quindi non si tratta di un salto solo quantitativo in relazione a chi ha più coscienza, bensì anche implicitamente qualitativo se viene negata l’esistenza di un Sé costante, come riferisce il Buddha. Ma è intuitivo che il Sé è autentico se è un Non Sé, perché solo in questo modo non c’è dualismo, non c’è forma né contenuto, né bene né male, perché il positivo ha dentro di sé il negativo e viceversa; tutto l’Universo è senza genere, è neutro perché/perciò è a disposizione di tutti. Il concetto di Vuoto non è

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nichilista, l’antimateria dei fisici nucleare ne è un corrispettivo noto a fronte di altri concetti di Vuoto che non conosciamo (ancora) (9). Bisogna abbassare la vigilanza per entrare in stati di coscienza che inducono esperienze di apertura verso il Sé composto anche di falsi Sé e desideri che una volta riconosciuti come possibilmente dannosi vanno estinti con la consapevolezza che si ha durante la meditazione o la psicoterapia, percorrendo strade anche all’inizio non comuni come la preghiera cristiana e musulmana e la meditazione buddhista, che poi convergono sul chi sono Io. Il principio di non attaccamento all’Io, ai suoi derivati (pulsioni, affetti, idee errate, desideri, paure) è sostanziale alla stabilità del Io/Sé come sanno maggiormente gli psicoterapeuti che praticano la meditazione (10). In definitiva, per non disperderci ammettiamo scolasticamente una Coscienza personale (Io) e una Coscienza collettiva (Famiglia e Società), una Coscienza individuale (animale) e una societaria – vedi il concetto di superorganismo, in zoologia, e una Cosmica (universale), un Tutto come lo ntende Plotino, e una Coscienza Cristica come vuole padre T. de Chardin. Ma al di là delle classificazioni si può concludere dicendo che l’esperienza della coscienza è paradossalmente irriferibile perché non attiene né al “fisico” né allo “psichico”, né tanto meno alla ragione illuminista ma, fermo restando il valore euristico delle entelechie (aristoteliche) sostenute da Conrad Martius, allieva di Husserl, essa si imparenta alla Fenomenologia (i vissuti) della Realtà, coscienza legata, oltre ai sistemi percettivi-emozionali auto ed etero-referenziali come avviene anche per gli animali non umani, a un quid indefinito, con la differenza, se proprio dobbiamo trovare differenze – ma la Cultura si sviluppa additando differenze se non producendole – che all’Uomo è donata la facoltà di aprirsi al Mondo (Scheler) mentre l’Animale si muove solo entro azioni istintive con “schema innato” (K. Lorenz). Ne deriva che l’”Uomo è posto dinnanzi a un profluvio di stimoli, a una ricchezza del percepibile comprensibile” (11) (Gehelen) che l’animale non ha, e che se male amministrati possono portare l’Uomo alla dissociazione psichica, disturbi sensoriali o concettuali, quando appunto manca un filtro agli input interni/esterni che fanno eccessiva ridondanza e alone semantico e comunicazionale distorto. Forse nella coscienza malata c’è una presa di conoscenza del Mondo, una rivelazione, un’apofania, che ci immaginiamo come una grande luce abbacinante che non può lasciar intravedere – quella che chiamiamo la Realtà condivisa-concordata – ma non c’è dato di saperne di più perché essa è intraducibile, non-trasmissibile, muta e forse attiene alle forme del Sacro e dell’Arte. Eugenio Borgna ha trattato il tema della coscienza creativa nell’Arte e nella Follia in opere (ne citiamo solo due) che svettano nel panorama opaco della Psichiatria italiana: “Come in uno specchio oscuramente” e “Il volto senza fine”. Terminiamo con le parole del neuroscienziato Michael Gazzaniga che dice (12) a proposito dell’approccio al problema (mente-cervello): “Ho provato a fornire una diversa prospettiva nell’approccio al problema. Alla fine ho concluso che tutte le esperienze di vita, personali e sociali, hanno un’influenza sul nostro sistema mentale emergente. Tali esperienze sono forze che modulano la mente: non soltanto vincolano i nostri cervelli, ma rivelano anche che è l’interazione dei due strati di cervello e

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mente a consentire la nostra realtà cosciente e il nostro viverla in tempo reale. Il compito delle neuroscienze moderne è la demistificazione del cervello; tuttavia, per portare a termine tale compito, le neuroscienze devono trovare come le leggi e gli algoritmi che governano tutti i moduli separati e distribuiti operino insieme per dare origine alla condizione umana. Capire che il cervello funziona in modo automatico, e che segue le leggi del mondo naturale, è una cosa confortante e rivelatrice: confortante, perché possiamo avere fiducia nel fatto che il nostro strumento decisionale, il cervello, ha una struttura affidabile nell’esecuzione delle scelte riguardo all’azione; e rivelatrice, perché è chiaro che tutta la misteriosa questione del libero arbitrio è un concetto mal congegnato, basato su delle convinzioni sociali e psicologiche formate in periodi particolari della storia dell’umanità, che non hanno origine dalla conoscenza scientifica moderna sulla natura del nostro universo, e che sono in disaccordo con essa. Come mi suggerisce John Doyle: “Siamo in qualche modo abituati all’idea che quando un sistema sembra mostrare funzioni e comportamenti coerenti e integrati, deve esservi qualche elemento “essenziale” – e, soprattutto, centrale, o comunque capace di controllo centralizzato – responsabile di ciò. Siamo profondamente essenzialisti, e il nostro cervello sinistro troverà quell’essenza. E se non riusciamo a trovarla, ce la costruiamo. La chiamiamo omuncolo, mente, anima, gene e cosi via (…) Ma di rado è nel consueto senso riduzionistico (…) Ciò non significa che non esista qualche “essenza” responsabile; solo che è distribuita. Si trova nei protocolli, nelle leggi, negli algoritmi, nei programmi. È così che funzionano i formicai, Internet, gli eserciti, i cervelli. La cosa ci risulta difficile da afferrare perché non è contenuta in una qualche scatola, da qualche parte. Se così fosse si tratterebbe infatti di un errore di progettazione, perché quella scatola costituirebbe un singolo punto di vulnerabilità. In effetti, è importante che non stia nei moduli, ma nelle regole di funzionamento che devono seguire”. (1) AA.VV., Neurofenomenologia, a cura di M. Cappuccio, Milano 2006. (2) A. Tartabini, Fondamenti di Psicologia evoluzionistica, Napoli 2012. (3) E. O. Wilson, La conquista sociale della Terra, Milano 2013. (4) H. Blumemberg, La leggibilità del Mondo, Bologna 1984. (5) M. Heidegger, Il concetto di Tempo, Milano 1998. (6) AA.VV., … è la coscienza?, a cura di A. A. Bello e P. Manganaro, Bari 2012. (7) A. Huxley, Le porte della percezione, Milano 1990. (8) C. G. Jung, Simulazione di malattia mentale, Torino 1978. (9) A. W. Watts, Il Tao, Roma 1977. (10) M. Epstein, Pensieri senza un pensatore, Roma 1996. (11) A. Gehelen, Prospettive antropologiche, Bologna 2005. (12) M. Gazzaniga, Chi comanda?, Scienza Mente e Libero Arbitrio, Milano 2013.

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Andrea Costa, appassionato di meditazione Vipassana e Buddhismo Tibetano; istruttore nella tecnica di Relaxation Response di Herbert Benson.

Coltivazione dell'attenzione e trasformazioni fisiologiche

“Mente e cervello”: una dialettica vicendevole ?

Negli annali della medicina occidentale sono riportati casi, anche eclatanti, di

persone che hanno manifestato imponenti mutamenti 'di carattere' a séguito di considerevoli traumi cerebrali: la loro 'mente' era cambiata. Inoltre, sono ben note le potenzialità di alcune classi di sostanze, significativamente definite come 'psicotrope', di modificare considerevolmente la fruibilità di specifiche funzioni mentali nei loro utilizzatori, se non altro per la durata della loro disponibilità fisiologica; del resto, anche i 'banali' alcool, caffè e nicotina possono esercitare degli effetti evidenti.

Che gli 'accadimenti fisiologici' relativi al cervello possano influenzare inclinazioni e potenzialità pertinenti alla 'sfera della mente' è quindi del tutto pacifico, tanto che un neurofisiologo contemporaneo, Michael Gazzaniga, è giunto ad intitolare un proprio libro “Stati della mente, stati del cervello”.

Come tutto ciò abbia occasione di accadere costituisce un campo di indagine profondamente affascinante, ma per quanto ci riguarda consideriamo non meno significative le eventuali prospettive conseguenti dal considerare seriamente l'ipotesi di una 'bidirezionalità funzionale', vale a dire: “può un 'utilizzo intenzionalmente mirato' delle 'risorse mentali' giungere a determinare il verificarsi di modificazioni funzionali, e/o strutturali, nel cervello ?”.

Alcuni anni addietro ad una domanda di questo genere un esponente tibetano della Tradizione Meditativa Buddhista, Ghesce Jampel Senghe – successivamente fondatore dell'Istituto Samantabhadra di Roma – rispose che certamente se fossero stati condotti degli studi sulla funzionalità cerebrale di meditatori esperti si sarebbero potute constatare delle differenze evidenti, rispetto a un 'campione di controllo' di persone non–meditanti. Era l'estate del 1978, e se all'epoca bisognava sostanzialmente fidarsi della parola di persone come lui, esperte nel settore meditativo, e di rari studi clinici come quelli di Herbert Benson – che però all'epoca non erano specificamente mirati alla funzionalità cerebrale – nei decenni seguenti sono state condotte varie ricerche, 'scientificamente accreditate'.

Con quali risultati ? Vediamo … Nell'esplorare l'eventualità di una 'direzione influenzativa', di un 'potenziale di

feedback plasmativo' dalla coscienza al cervello, partiamo dalla constatazione che in quanto esseri umani disponiamo di una qualche misura di capacità orientativa nei riguardi di quella che Charles Tart, per esempio in “Stati di coscienza”, ha proposto di indicare, di designare come 'energia di attenzione–consapevolezza': possiamo

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scegliere, cioè, di rivolgere la nostra attenzione – ed eventualmente di focalizzare, più o meno stabilmente, la nostra attenzione – nei confronti di 'oggetti' appositamente prescelti.

In tale contesto, quello che intendiamo come 'oggetto' può sia consistere in una qualche entità fisicamente percepibile – come ad esempio la fiamma di una candela nell'esercizio yogico detto 'trataka' – sia consistere in un argomento cognitivamente astratto – come negli esercizi descritti da Jeffrey Hopkins in “Meditazione sulla vacuità”– o in una specifica attitudine mentale, in una disposizione relazionale – come in quelle forme di 'addestramento mentale' di Tradizione Buddhista descritte dal Dalai Lama in “La via della Liberazione” o da Alan Wallace in “I quattro incommensurabili: un cuore senza confini”.

L'ipotesi è dunque che in relazione ad una certa varietà di attività mentali, coscientemente, consapevolmente e deliberatamente intraprese, abbiano occasione di determinarsi delle modificazioni fisiologiche nei tessuti cerebrali.

A questo riguardo Sharon Salzberg in “Il respiro della felicità” – che è uscito nel 2011 – ci offre le seguenti considerazioni:

“Quando ero al liceo, il fatto che dimensioni e circùiti del cervello fossero

immutabili già prima dell'età adulta era considerata una verità inoppugnabile e come tale veniva insegnata. Negli ultimi dieci–quindici anni, però, neuroscienzati e psicologi hanno più volte dimostrato che il cervello di un adulto possiede neuroplasticità, cioè capacità di creare nuove cellule e circùiti. Nel corso della vita il cervello si riconfigura e riforma in risposta all'ambiente, all'esperienza, all'esercizio; e meditare è una di quelle esperienze che lo modificano. Molti studi recenti confermano che la meditazione può apportare al cervello cambiamenti significativi che influiscono in modo benefico sulla salute, l'umore e il comportamento.

I progressi nel campo del monitoraggio cerebrale e della diagnostica per immagini, come la risonanza magnetica funzionale, ci hanno fornito la possibilità di osservare come si attiva il cervello durante la meditazione. La notizia sorprendente diffusa dai ricercatori di tutto il mondo è che la pratica meditativa sembra istruire le cellule cerebrali così che scarichino insieme, secondo uno schema che rafforza i meccanismi principali del cervello, per esempio quelli deputati a prendere decisioni, quelli della memoria e dell'adattabilità emotiva. Inoltre, la meditazione sembra migliorare la comunicazione tra differenti aree in modi che, a loro volta, migliorano la salute psichica ed emozionale.”

(S. Salzberg, Il respiro della felicità, Novara 2011, pp. 35, 36) Dopo questa promettente introduzione dell'argomento, la Salzberg prosegue infatti: “Nel 2005, uno studio pionieristico condotto dalla neuroscienziata Sara Lazar

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della Harvard University e del Massachussetts General Hospital ha dimostrato che il tessuto della corteccia prefrontale sinistra – un'area del cervello importante per il processo cognitivo e il benessere emotivo – è sensibilmente più denso in chi pratica la meditazione di visione profonda.”

(S. Salzberg, Il respiro della felicità, Novara 2011, p. 36) Con la locuzione 'meditazione di visione profonda' Salzberg intende fare

riferimento all'attività meditativa sinteticamente conosciuta anche come Vipassana. Per di più, inoltre “i soggetti studiati non erano monaci tibetani con alle spalle anni e anni di vita

contemplativa nelle grotte, ma normali professionisti di Boston, la maggior parte dei quali meditava per quaranta minuti al giorno.”

(S. Salzberg, Il respiro della felicità, Novara 2011, p. 36) Nel prosieguo apprendiamo che: “Dalle scintigrafie cerebrali dei partecipanti più anziani sembra che la

meditazione abbia l'effetto di contrapporsi all'assottigliamento della corteccia che interviene con l'età, e che quindi prevenga la perdita di memoria e il decadimento cognitivo.

Ulteriori studi sulle scintigrafie cerebrali hanno sviluppato il lavoro di Lazar, dimostrando che la meditazione rafforza aree del cervello implicate nella memoria, nell'apprendimento e nella flessibilità emotiva. Nel 2009, per esempio, la neuroscienziata Eileen Luders, del Laboratory of Neuro Imaging della UCLA, insieme al suo team, ha confrontato i cervelli di praticanti esperti nella meditazione di visione profonda con quelli di un gruppo di controllo che non meditava, e ha scoperto che i primi avevano più materia grigia – tessuto cerebrale responsabile dell'elaborazione ad alto livello delle informazioni – rispetto ai secondi, soprattutto nelle aree del cervello associate all'attenzione, alla consapevolezza del corpo e alla capacità di adattamento alle risposte emozionali”.

(S. Salzberg, Il respiro della felicità, Novara 2011, p. 37) In una citazione ulteriormente offertaci da Salzberg, Eileen Luders afferma anche

che: “Sappiamo che le persone che meditano con costanza hanno una capacità

singolare di coltivare emozioni positive, mantenere una stabilità emotiva ed

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assumere un comportamento consapevole. Le differenze riscontrate nell'anatomia cerebrale forniscono alcuni indizi sul perché chi medita possiede queste capacità eccezionali”.

(S. Salzberg, Il respiro della felicità, Novara 2011, p. 37) Magari, a prima vista, potrebbero sembrare pretese eccessive; tuttavia c'è chi, per

così dire, è andato anche molto oltre: il gruppo di ricerca che fa capo a Herbert Benson, attivo sia nel Massachusetts General Hospital che al Beth Israel Deaconess Medical Center – entrambe cliniche universitarie della Harvard Medical School0 – ha reso disponibili i risultati di indagini condotte con sofisticate apparecchiature capaci di rilevare lo stato di 'attivazione espressiva', o viceversa di 'quiescenza espressiva', di ciascun singolo gene umano in vista di un controllo da effettuarsi alla distanza di (sole) otto settimane di allenamento nella focalizzazione dell'attenzione – dunque, dal nostro punto di vista otto settimane di utilizzo mirato della mente.

A proposito delle apparecchiature utilizzate, Benson presenta la situazione nei seguenti termini:

“Specificamente, abbiamo usato la più recente tecnologia di 'analisi di micro-

array' per esaminare l'attività di tutti i geni di Adam e degli altri partecipanti all'esperimento. Questa tecnologia rappresenta un metodo consolidato e affidabile per determinare 'le differenze globali di espressione genica'. […]

In séguito scongelavamo il materiale genetico, lo mettevamo su dei gene chips e poi inserivamo questi ultimi in un macchinario […] scanner e analizzatore di microarray.

Questo scanner, utilizzando un software sofisticato, era in grado di isolare tutti i geni di Adam e anche di identificare quali geni erano attivi, ovvero 'espressi'.”

(H. Benson – W. Proctor, Rilàssati e guarirai, Cesena (FC) 2011, p. 33) Queste sono alcune frasi riassuntive relativamente ai risultati di una ricerca del

2008 sul potere epigenetico – ossia di influenzamento modulativo nei confronti dell'attività dei geni – usufruibile grazie a uno specifico addestramento meditativo:

“Dopo che Adam e il suo gruppo ebbero concluso le loro otto settimane di training

e pratica, tornarono al nostro laboratorio per il test finale: fu loro prelevato del sangue e la loro espressione genica fu misurata di nuovo.

In effetti, alla fine i gruppi che vennero valutati e comparati erano tre: 1. Il gruppo con più esperienza mente–corpo, con una media di oltre nove anni di

esperienza con la guarigione mente–corpo,

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2. Il gruppo di Adam prima del training di risposta di rilassamento (cioè un gruppo di controllo che non aveva nessuna conoscenza di tecniche mente–corpo):

3. Il gruppo di Adam dopo otto settimane di training di risposta di rilassamento (cioè un gruppo con una pratica mente–corpo relativamente breve, ma comunque significativa).

I risultati e i confronti della parte finale della ricerca furono sorprendenti e significativi. Prima di tutto, quando confrontammo l'attività genica nel gruppo di Adam prima e dopo il loro training di risposta di rilassamento scoprimmo che 1561 geni avevano cambiato espressione, dal primo test al secondo. […] Ancora più straordinario, quando confrontammo il gruppo di Adam dopo l'addestramento col gruppo che aveva maggiore esperienza mente–corpo (media di 9,4 anni di pratica) scoprimmo che […] le otto settimane di training avevano fatto sì che le segnature di espressione genica nel gruppo di Adam diventassero simili alle segnature di espressione genica del gruppo con più di nove anni di pratica mente–corpo.

L'importanza di questi risultati ci apparve in maniera eclatante quando considerammo quanto probabile (o improbabile) sarebbe stato che quei cambiamenti fossero avvenuti per caso […]. Determinammo che la probabilità che le stesse segnature geniche fossero implicate accidentalmente […] erano meno di una su 10 miliardi. Era virtualmente impossibile che le analogie nell'attività genica del gruppo dei meditanti esperti e nel gruppo di Adam si fossero prodotte per caso.”

(H. Benson – W. Proctor, Rilàssati e guarirai, Cesena (FC) 2011, pp. 37–38) Riguardo alla metodica utilizzata, Benson e Proctor la presentano nei seguenti

termini: “Adam e i suoi compagni furono introdotti a varie tecniche mente–corpo che sono

note per suscitare una risposta di rilassamento antistress. Queste includevano la respirazione profonda […]; 'scansioni' mentali, cioè una concentrazione sul rilassamento di varie parti del corpo; l'uso di frasi di concentrazione […]; la 'meditazione di consapevolezza', che consiste in una considerazione gentile e meditativa di qualunque pensiero che si infiltri nella mente. Adam, come la maggior parte degli altri partecipanti, non ci trovò niente di complicato. […]

Ripasso con l'esperto: durante le sessioni settimanali che si svolgevano dopo che Adam e gli altri partecipanti avevano cominciato a praticare le tecniche quotidianamente a casa, un esperto della nostra clinica esaminava una tabella […] che gli allievi compilavano a casa per descrivere la propria esperienza quotidiana con gli esercizi mente–corpo. […] Durante queste sedute di ripasso, il ricercatore rispondeva alle domande dei partecipanti, incluse quelle che vertevano sulle tabelle da compilare a casa.”

(H. Benson – W. Proctor, Rilàssati e guarirai, Cesena (FC) 2011, pp. 36–37)

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Venendo alla possibile rilevanza pratica del profondere tempo ed energia allo scopo di impegnarsi in un simile allenamento, Benson chiarisce che:

“Ulteriori analisi sui geni hanno rivelato qualcosa di ancora più importante per il

gruppo di Adam (che ora sapeva come sollecitare la risposta di rilassamento) e per il gruppo composto dai praticanti mente–corpo di lungo corso: le attività funzionali geniche che erano state accese o spente dalla risposta di rilassamento, in entrambi i gruppi, erano da ritenersi associate – grazie a ricerche precedenti – con chiari benefìci di salute.

Come indicato prima, questi benefìci comprendevano una più sana regolazione del sistema immunitario, livelli più bassi di stress psicosociale, uno stress ossidativo meno distruttivo e una tendenza ridotta all'invecchiamento prematuro. Inoltre, l'attività genica che abbiamo osservato […] è l'opposto di quella riscontrata in molte malattie cardiovascolari.”

(H. Benson – W. Proctor, Rilàssati e guarirai, Cesena (FC) 2011, pp. 38–39) E da un punto di vista, per così dire, temporalmente prospettico ? “Infine, dopo aver analizzato e confrontato l'espressione genica del gruppo di

Adam, che aveva un'esperienza di pratica mente–corpo minima, con quella del gruppo che possedeva una lunga esperienza (con una media di 9,4 anni di pratica della risposta di rilassamento) vedemmo che il gruppo più esperto godeva di un ancor più alto livello di attività genica sana e antistress di quanto avesse il gruppo di Adam con le sue 8 settimane di training.

Chiaramente, il training mente–corpo aveva funzionato bene […], ma Adam e i suoi colleghi potevano aspettarsi un miglioramento significativamente ancora maggiore nel continuare a praticare la guarigione mente–corpo in futuro [in quanto] il gruppo più esperto, che aveva oltre nove anni di pratica, godeva di un ancor più alto livello di attività genica sana e antistress.”

(H. Benson – W. Proctor, Rilàssati e guarirai, Cesena (FC) 2011, p. 39)

Accordare lo 'strumento vissutivo' In qualche modo analogamente a quanto avviene per gli strumenti musicali, anche

le effusioni riverberative provenienti dagli 'strumenti vissutivi' umani possono rivelarsi, di tempo in tempo, bisognose di 'attività di accordatura' così da risultarne efficacemente armonizzate. Abbiamo visto alcune buone notizie che ci giungono da assai recenti ricerche scientifiche, relative ai considerevoli effetti ottenibili in virtù di esercizi relativamente semplici, purché impostati con cura e coltivati

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sistematicamente. Notiamo esplicitamente che quando Benson e Proctor utilizzano le locuzioni

risposta di rilassamento e guarigione mente–corpo i contesti mostrano con chiarezza che la risposta di rilassamento – che costituisce una tecnica specifica individuata estrapolativamente da Benson sulla base dei riscontri di laboratorio evidenziati nella fisiologia di alcune classi di meditatori di varie Tradizioni grazie a una ricerca svolta nella prima metà degli anni '70 – viene utilizzata come riferimento esemplare, sostanzialmente intercambiabile a fini pratici con l'altra espressione (che viene comunque intesa come abbracciare un campo ben più vasto, che contempla la risposta di rilassamento quale caso specifico nei termini di una tecnica determinata).

Cui bono ?

Per quanto teoricamente considerevoli, e potentemente efficaci nel lungo periodo,

possiamo domandarci quale eventuale rilevanza possano assumere scoperte del genere di quelle fin qui menzionate ai fini della 'qualità della vita quotidiana', dal punto di vista di persone più o meno intensamente coinvolte nell'impostazione occidentale attualmente in voga di privilegiare prospettive di benessere a breve scadenza; un recente libro di Matthieu Ricard, “Plaidoyer pour le bonheur” – ossia letteralmente “Elogio della felicità”, anche se l'editore italiano lo ha reso come “Il gusto di essere felici” – già dal titolo indica chiaramente la direzione e il succo dello scopo di cui intraprendere il conseguimento.

Senza bisogno di dover aspettare di giungere alla senescenza avendo ridimensionato le probabilità di incorrere nell'Alzheimer – prospettiva, comunque, già di per sé considerevole ed esplicitamente riportata come statisticamente realistica da Robertson – Matthieu Ricard indica una serie di 'vantaggi a breve termine' fruibili di pari passo col procedere di una sistematica coltivazione di attività a carattere neuroplastico – ancora una volta, esercitabili nell'àmbito di forme di addestramento della mente 'a carattere meditativo'

In sostanza, la felicità – intesa come qualità specifica di vissuti peculiarmente appaganti – viene presentata come una possibile competenza personale esercitabile deliberatamente: evocabile, coltivabile, addestrabile, potenziabile.

Qualche risorsa 'di tutto riposo' ?

Veniamo adesso ad una testimonianza relativa ai benèfici effetti di una

coltivazione esperienziale solo apparentemente 'passiva': ascoltare della buona musica classica.

Il dottor Daniel Amen ci informa del fatto che:

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“La musica ha proprietà terapeutiche e ascoltarla può attivare e stimolare i lobi temporali, suscitando in voi sentimenti di pace o entusiasmo.

La musicoterapia ha fatto parte del trattamento psichiatrico per decenni. […] Alcuni studi di grande risonanza condotti dall'Università della California di Irvine

(UCI) hanno dimostrato che l'ascolto della Sonata per due pianoforti (K 448) di Mozart migliora le capacità di apprendimento visuo–spaziali. […]

Gordon Shaw, uno dei ricercatori, suggerì che la musica di Mozart potrebbe 'scaldare' il cervello: ''riteniamo che la musica complessa faciliti certi modelli neuronali complessi legati alle attività cerebrali superiori''”

(D. Amen, Cambia il tuo cervello, cambia la tua vita, Vicenza 2011, p. 221) Può risultare interessante anche sottolineare il fatto che il dottor Amen durante le

precedenti 200 pagine del libro in questione (come del resto anche per le 100 successive) non ha fatto quasi altro se non enfatizzare sistematicamente le potenti risorse, tecnologicamente raffinatissime, sia delle scansioni cerebrali con mezzi di contrasto che della moderna farmacopea a base di molecole di sintesi: uno 'psichiatra all'americana' in piena regola – diciamo pure 'allo stato puro' – dal quale potrebbe risultare in qualche modo ingenuamente sorprendente sentirsi proporre come strumento beneficamente efficace l'ascolto di musica classica.

Riassumendo

In conclusione, per quanto complesse e talvolta problematiche possano apparire

alcune delle elaborazioni concettuali che si prefiggono di offrire dei quadri di riferimento discorsivamente esplicativi a proposito dei fenomeni che abbiamo preso in considerazione – come per esempio nel caso di “Spazio, tempo e medicina” di Larry Dossey, di “Timeless Healing” di Herbert Benson, o de “La mente non localizzata” di Gioacchino Pagliaro ed Elisa Martino – tuttavia disponiamo allo stato attuale delle ricerche scientifiche di una 'massa critica' di dati bruti che univocamente testimoniano della realtà, ancorché per taluni controintuitiva, della possibilità di giungere ad influenzare concretamente non solo alcuni paradigmi funzionali, ma la consistenza neuronale stessa di alcune strutture cerebrali – al di là dell'architettura delle coordinazioni meramente esecutive, direttamente modulabili in sede di impegno meditativo deliberatamente esprimibile.

Inoltre, dal momento che alcune delle modalità di modulazione attivante che abbiamo considerato – a séguito di una sistematica coltivazione delle quali hanno modo di dispiegarsi i benèfici effetti di corroborazione dei tessuti cerebrali funzionalmente corrispondenti – si presentano assai agevolmente approcciabili – per esempio nei termini di un accurato ascolto di brani scelti di musica classica, o dell'intrapresa di attività di sollecitazione funzionale accuratamente codificate (cfr.

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Daniel Amen e Herbert Benson, rispettivamente) – una prospettiva sostanzialmente ottimistica sembra realisticamente condivisibile.

Disponiamo di informazioni che ci consentono di comprendere la possibilità e le modalità tecniche di realizzazione di attività a carattere squisitamente intenzionale suscettibili, attraverso l'esercizio, di contribuire al realizzarsi di quella che Ian Robertson propone di designare come 'scultura cerebrale' – “Il cervello plastico”, passim.

In definitiva, al giorno d'oggi anche qui in Occidente disponiamo di risorse di accesso relativamente agevole nei riguardi di istruzioni – a ben cercare anche dettagliatissime – provenienti da Tradizioni meditative convalidate da secoli di esperienza ed esplorabili nei loro effetti fisiologici tramite sofisticate metodiche scientifiche.

Come inquadramento riassuntivo di livello divulgativo possiamo attingere, come ulteriore esempio, alle seguenti informazioni e considerazioni, offerte nel sito www.asia.it in data 03/05/2013 nell'àmbito di una ammirevole 'rubrica filosofica' denominata “Phi.mind” curata da Roberto Ferrari:

“Certamente negli ultimi vent'anni la meditazione è stata al centro dell'interesse di

molti neuroscienziati. Si sono indagati gli effetti che sperimentano i meditanti delle Tradizioni più codificate e con percorsi formativi precisi, quali il Buddhismo Tibetano, il Vipassana, lo Zen, ma anche la preghiera cristiana e forme moderne come la Mindfullness. La meditazione è studiata per i suoi effetti nel brevissimo termine (attenzione focalizzata, controllo ed esame di micro-istanti di esperienza) o nel medio-lungo termine (gestione delle emozioni, modificazione degli stati mentali, neuroplasticità).

[...] Solo a livello esemplificativo, alcuni autori che hanno lavorato su 'momenti di esperienza' specifici sono Benjamin Libet1, Francisco Varela2 e di recente Joydeep Bhattacharya e Bhavin Seth3. Anche se non sempre utilizzata in queste ricerche, la meditazione può donare estrema precisione perché addestra il soggetto sperimentale a generare e stabilizzare campi di attenzione dettagliati. Una specifica scuola di studi sulla coscienza denominata Neurofenomenologia si dedica a coltivare questi spazi, esaminati per indagare fenomeni mentali altrimenti troppo rapidi, o nascosti ed elusivi. Come vedremo, questa scuola evidenzia che i soggetti addestrati sono in grado di fornire ai neuroscienziati descrizioni in prima persona molto più attendibili e replicabili, di riconoscere stati specifici e di accoppiarli con precisione ai dati del brain imaging che in parallelo vengono registrati. [...] In particolare l'approccio in prima persona con strumenti meditativi ha permesso a diversi studiosi di indagare il sentire sorgivo, non mediato e non determinato che deve ancora fissarsi in specifici qualia. [Nell'accezione precedentemente specificata da Ferrari, ''I qualia sono stati fenomenici in prima persona che hanno caratteristiche qualitative proprie e immediate: ciò che si prova a

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vedere rosso, a soffrire, a sperare.'' n.d.A] [...] Ma è l'altro indirizzo di ricerca – quello sugli stati di benessere – che rappresenta il main stream delle ricerche sugli effetti della meditazione, ben più diffuse e divulgate. Sono studi che non si occupano della coscienza in atto che sente, ma delle sensazioni 'già sentite' che essa può accogliere. Indubbiamente si tratta di sensazioni e modificazioni preziose per la terapia, ben rilevabili a livello fisiologico: si è dimostrato che l'addestramento meditativo è capace di indurre fenomeni di neuroplasticità (rimodellamento di aree cerebrali) neurogenesi (produzione di nuove cellule neurali) ed riattivazione della modulazione neuroendocrina (che governa i meccanismi dello stress e del controllo emotivo). Richard Davidson4 in campo sperimentale e Daniel Siegel5 in campo teorico e applicativo, hanno portato una grande quantità di dati su questo tipo di effetti. In particolare, quando si medita: - A livello metabolico, diminuisce il consumo di ossigeno e la produzione di acido lattico (che è alto negli stati di ansia). - A livello cerebrale, si riduce l'attività perché si spengono i circuiti irrilevanti e si riorganizzano le funzioni; aumentano le onde alfa, gamma e theta (queste ultime particolarmente importanti perché mettono 'in fase' le aree lontane – anche su diversi emisferi – e le sincronizzano). - A livello neuroendocrino, aumenta la serotonina, la melatonina, la DHEA (regolatore del sistema immunitario e dell'umore) e la produzione di peptidi oppioidi come le endorfine. Vi sono studi6 che hanno mostrato come un addestramento meditativo anche breve porti effetti duraturi modificando temperamento e umore di base, portando a maggiore benessere, vigore ed equilibrio emotivo: e come questi effetti siano legati a una potente attivazione della corteccia frontale sinistra, che modula e controlla le intense emozioni scatenate dalla amigdala (parte del più antico cervello limbico). E contemporaneamente, negli stessi soggetti, l'addestramento meditativo (in questo caso era quello denominato Mindfulness [...]) ha la capacità di incrementare la risposta immunitaria.

A livello psicologico l'effetto della pratica meditativa è quello di portare a un rapporto semplificato e distaccato con i fatti […].”

(R. Ferrari, www.asia.it, Phi.mind 15, 03/05/2013)

Conclusione Sembra quindi ragionevole presumere che tra 'mente' e 'utilizzo mirato della mente'

– intenzionalità di performances mentali – da un lato, e plasmabilità cerebrale – eventualmente suscettibile, a sua volta di poter ulteriormente contribuire al realizzarsi

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di una 'disponibilità hardware' funzionalmente più efficace – da un altro lato, si possa provvedere a istituire una ricorsività di raffinamento e potenziamento funzionale vicendevolmente sinergica.

Se da un certo punto di vista, come sintetizzato da Herbert Benson, fondatore tra l'altro del Mind Body Medical Institute di Harvard, “ora abbiamo prove scientifiche del fatto che la mente può guarire il corpo” (“Rilàssati e guarirai”, passim), da un punto di vista più ampio il 'significato esistenziale' della coltivabilità mirata della plasticità cerebrale e della addestrabilità dell'attenzione potrebbe venire còlto in relazione a dichiarazioni come quella seguente, della cui fruibilità siamo grati debitori al Centro ASIA di Modena:

“Domanda: Come mai è così facile ingannarsi e così difficile capire come stanno

le cose in realtà ? Qual è il senso, il significato della mente ? Geshe Lobsang Tenkyong: Questa difficoltà si presenta per una questione di

abitudine, una questione di tempo. Siccome da sempre, da tempo senza inizio, abbiamo coltivato una abitudine negativa, una familiarità con atteggiamenti e pensieri negativi, questi diventano automatici – e ci inganniamo. I pensieri negativi, a causa dell'abitudine, sono i più frequenti e potenti.

Non c'è stata altrettanta coltivazione di ciò che è liberatorio, di ciò che ci permette di capire come le cose stanno in realtà – e che ci placa, ci rende felici.

Quindi è una questione di coltivazione, di abitudine. Non è una questione di chiedersi il significato della mente illusa, ma di coltivarsi, di meditare su ciò che è liberatorio. Per questo nel Buddhismo si dice che occorre fare molta meditazione su ciò che è positivo.”7

Dialogo con Lama Geshe Lobsang Tenkyong (14 dicembre 2006, presso Asia Modena)

Note:

0. Benson H., Proctor W., “PLoS ONE”, rivista on line della Public Library of Science, luglio 2008. 1. Libet B. “Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza”, Ed. Cortina 2007 2. Rodriguez E., George N., Lachaux JP., Martinerie J., Renault B., Varela F.J. “Perception's shadow: long distance synchronization of human barin activity Nature”. 1999 Feb 4; 397(6718):391, 393. 3. Sheth B.R., Sandkühler S., and Bhattacharya J. “Posterior Beta and Anterior Gamma Oscillations Predict Cognitive Insight”, Journal of Cognitive Neurosciences, July 2009, Vol. 21, No. 7, Pages 1269-1279. 4. Davidson R.J., Kabat-Zinn J., Schumacher J., Rosenkranz M. et al. “Alterations in

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Brain and Immune Function Produced by Mindfulness Meditation”, Psychosomatic Medicine 65:564-570 5. Siegel D.J., “Mindfulness e cervello”, Ed. Cortina 2009. 6. Dalai Lama, Goleman D., “Emozioni distruttive”, Mondadori, 2003, pp.407-411 7. Traduzione di Anna Maria de Pretis; editing a cura di Roberto Ferrari e Sandra Buraschi.

Riferimenti bibliografici: Amen, Daniel: “Cambia il tuo cervello, cambia la tua vita”, Vicenza 2011. Benson, Herbert: “La risposta rilassante”, Milano, 1976. Benson, Herbert: “Timeless Healing”, New York, 1996. Benson, Herbert e Proctor William: “Rilàssati e guarirai”, Cesena (FC), 2011. Dalai Lama: “La via della Liberazione”, Milano, 2005. Dossey, Larry: “Spazio, tempo e medicina”, Roma, 2006. Gazzaniga, Michael: “Stati della mente, stati del cervello”, Firenze, 1989. Gazzaniga, Michael: “Who's in charge ?”; traduzione: “Chi comanda ?”, Torino 2013. Hopkins, Jeffrey: “Meditazione sulla vacuità”, Pisa 2008. Pagliaro, Gioacchino e Martino Elisa: “La mente non localizzata”, Padova 2010. Ricard, Matthieu: “Il gusto di essere felici”, Milano 2008. Robertson, Ian H.: “Il cervello plastico”, 1999, Milano. Salzberg, Sharon: “Il respiro della felicità”, Novara 2011. Seligman, Martin: “La costruzione della felicità”, Milano 2003. Tart, Charles: “Stati di coscienza”, Roma 1977. Wallace, Alan: “I quattro incommensurabili: un cuore senza confini”, Roma 2000. www.asia.it: Phi.mind 15.

www.asiamodena.it

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Francesco Pelillo, Umanesimo scientifico

Come la coscienza è prodotta dal nostro cervello Per la definizione dello spazio concettuale da cui ritengo che emerga la Coscienza devo fare una premessa "cosmologica", così da poter tentare di dare plausibilità e coerenza a quello che dirò in seguito. Per questa premessa mi rifaccio allo stato dell'arte nella ricerca delle origini della dimensione in cui esistiamo, e perciò parto dal cosiddetto Big Bang, che vede nella successiva Nucleosintesi e nella Ricombinazione l'inizio di tutti i processi evolutivi che a cominciare da quark, elettroni, protoni, atomi, molecole... hanno portato alla formazione degli stati chimici, minerali, biologici e, infine, grazie alla formazione delle strutture biologiche cerebrali, a quelli psichici. In questo processo, che ha avuto inizio circa 14 miliardi di anni fa, io vedo il percorso "filogenetico" che dall'energia primeva ha portato senza soluzione di continuità all'esistenza degli esseri viventi, e infine dell'uomo con la sua mente, ma è importante sottolineare che questo non lo considero un approdo a una condizione stabile e localizzata dell'energia universale, poiché nell'uomo — pena la nostra decadenza dalla condizione di Homo sapiens — devono essere continuamente in attuazione, in modo dinamico e interdipendente, tutti gli stati che precedono la formazione del suo stato psichico e che si sono formati a partire dalla nucleosintesi. Quindi, in una visione olistico-sistemica, vedo la nostra coscienza come il massimo risultato raggiunto dalla complessità con cui si sono aggregate — per quel che ne sappiamo e su questo pianeta — le forze universali le cui diverse interazioni sono alla base di tutti i "fatti" che siamo in grado di rilevare nella nostra dimensione attraverso i nostri sensi e le nostre protesi tecnologiche. A questo punto, se accettiamo che la coscienza sia frutto di questo processo evolutivo che è in corso da miliardi di anni (io ritengo senza alcun finalismo e tralasciando ipotesi teologiche), non vedo come si possa pensare a essa come a un ente indipendente da tutti i fenomeni che ne precedono l'emergenza e collocato in un apparato sostanzialmente a lei estraneo. Per questo penso che, anche se come individui siamo in grado di riconoscere noi stessi e perseguire la difesa dei confini che ci definiscono nel nostro stato biologico e psicologico locale, non possiamo non tenere conto della nostra interdipendenza con i processi attuativi di tutti gli stati evolutivi che in noi sono presenti contemporaneamente. Stati che, retrocedendo in complessità, divengono sempre meno identificabili e gestibili nel perimetro esclusivo della nostra individualità a causa della loro sempre più diretta connessione con il livello universale dell'energia che si manifesta nei legami atomici, o come raggi cosmici, radiazioni, magnetismo, e quant'altro… che non possono non influenzare già a livello quantistico le nostre strutture biologiche cerebrali e quindi la nostra mente. Date queste premesse, capisco che sostenere che la coscienza sia il prodotto della complessità di tutte queste interazioni che sono riconducibili alla Fisica possa indurre gli umanisti-spiritualisti ad accusare questa visione di essere meccanicista e scientista, ma oggi questa accusa cade proprio per mano degli stessi scienziati che,

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dopo la discesa agli inferi del riduzionismo positivista, proprio grazie ai dati raccolti nei loro esperimenti sono approdati ai principi di "indeterminazione" e "non località" del livello quantistico della realtà, e ora sono costretti a dedurre i comportamenti della cosiddetta materia esclusivamente dalle tracce lasciate sui loro monitor dall'energia. Essi stessi hanno demolito — penso definitivamente — l'apparente determinismo del mondo macroscopico dove sembravano valere solo le leggi galileiane e newtoniane. Parimenti, da parte degli scientisti più ortodossi ancora legati al pensiero lineare e alle leggi di causa-effetto che si riscontrano solo nei sistemi isolati che essi indagano, la tesi che giustifica l'emergenza della nostra mente in un quadro olistico-sistemico viene interpretata come "spiritualista" poiché, presupponendo il ruolo fondamentale e pervasivo dell'energia in tutti i processi evolutivi, sembra accreditare una tesi teleologica e finalistica che invece non è affatto necessaria se si estende la valenza dei principi darwiniani di "mutazione" e "selezione" alla filogenesi di tutta la realtà. Assistiamo così al paradosso che neurobiologi che studiano il comportamento delle piante e degli animali, finiscano per addebitare loro un mentalismo umano anziché dedurre dall'indagine della biochimica che sta a monte dei loro comportamenti la genesi dei nostri. Questa impostazione ci dice quanto siano lontani da una visione della natura dove solo il grado di complessità delle loro relazioni interne e esterne determina negli esseri biologici i vari livelli di coscienza di sé e del mondo. Oggi, grazie alle scoperte delle neuroscienze e al contributo fondamentale delle tecniche di brain imaging, è ormai accertato che l'attività psichica è in stretta relazione con l'attività elettrica e biochimica neuronale che è stata consentita dai processi evolutivi che ho descritto sopra. Partendo da questa posizione, quindi, una volta entrata in funzione la "macchina" psichica che è in grado di interpretare e memorizzare i dati provenienti dagli apparati sensoriali, con questo esempio cerco di dimostrare come la coscienza sia un suo prodotto: PUNTURA DI SPILLO LA PRIMA VOLTA IN UN NEONATO • Visione di una entità sconosciuta (una lineetta lucente) > Parte l’impulso neuronale dalla retina • Tatto dalla parte appuntita > Parte l’impulso neuronale dall’epidermide > Arrivo degli impulsi nelle aree del cervello dedicate > Sensazione negativa per lo squilibrio biochimico che gli impulsi procurano allo stato di equilibrio dell’area cerebrale dedicata > Associazione dello squilibrio biochimico con l'esperienza tattile e visiva acquisita > Conseguente attribuzione di caratteristiche visive e tattili all'oggetto spillo, associate alle sue potenzialità > Stabilizzazione di percorsi sinaptici dedicati > In memoria lo spillo diventa un’entità essente di una data dimensione, forma, durezza, colore, lucentezza..., ed è pungente > Aggiunta di questi dati ad altri che verranno acquisiti, per la costruzione di una rete di percorsi sinaptici che, confermando la CAUSALITÀ dei rapporti tra sé e ciò che

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esiste fuori di sé, definiscono in modo sempre più ampio e articolato i propri confini esistenziali e la collocazione di quel sé nel mondo. Con i meccanismi di azione e retroazione tra i circuiti neuronali coinvolti nell’acquisizione e nel deposito di nuovi dati, nel corso dell'esistenza avviene la costruzione di sempre nuove associazioni che richiedono la costituzione di ulteriori percorsi neuronali, da dove potranno poi essere utilizzate come dati in grado di interagire con quelli nuovi in entrata. Si delinea così la formazione della “coscienza di sé” come risultato continuamente attuato dalla continua ricerca dell'equilibrio biochimico tra gli effetti mentali che derivano dall'annessione di significato alle connessioni sinaptiche stimolate dai dati in ingresso tramite i sensi e gli effetti (sempre attualizzati biochimicamente) dei dati registrati nei circuiti neuronali della memoria. Dalle infinite possibilità di interpolazione — attuata sempre in funzione della definizione e della difesa dei propri confini esistenziali — dei molteplici dati che sono frutto di questo continuo feedback deriverà quello che chiamiamo pensiero con il corollario di quella che chiamiamo coscienza.

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Angelo Tonelli

La coscienza coincide con il cervello?

Questa è la domanda cardine della filosofia contemporanea: la Sapienza, rispetto alla quale essa è ancella, dimora inconcussa nella pura contemplazione della domanda stessa, che investe la dimensione doxastica-relativa, non l’Assoluto in cui la Sapienza ha radice. Per Cartesio la coscienza, in quanto res cogitans, era immortale, a differenza della res extensa soggetta a disfacimento, ma restava il problema di come congiungere le due sostanze, e la soluzione di collocare la loro unione nella ghiandola pineale non ha goduto di grande successo. Per Spinoza mente e corpo sono forme di una sostanza unica, che è il trans-immanente Deus sive Natura: in ogni caso la mente non viene riduzionisticamente ricondotta alla materia cerebrale. Più a ritroso nel tempo, già lo sciamanesimo originario di tutte le latitudini postulava l’esistenza di un principio disincarnato, sia esso spirito o anima, e in questa direzione muoveva, in Grecia, l’Orfismo (si pensi alle Lamine d’oro orfiche), a sua volta collegato alla tradizione reincarnazionistica orientale; in Egitto troviamo la credenza in Ba, Ka e Akh, la parte spirituale della personalità, che sopravvive dopo la morte, trasformandosi in divinità. Emblematico, nella tradizione cristiana, il tragitto post mortem dell’anima nella Commedia di Dante. La scienza come si è affermata a partire da Galileo, Bacone e poi nel Novecento, è riduzionistica: la mente-coscienza è frutto del cervello; morto il cervello, morta la mente-coscienza. Per L. Smolin, che pure non è il più ottuso degli scientisti, “Dodici particelle e quattro forze sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno per spiegare ogni cosa del mondo conosciuto”   (L. Smolin, L'universo senza stringhe, Einaudi, Torino, 2007, p. 26) R. Sheldrake, delle cui riflessioni ci siamo avvalsi sopra, biologo sperimentale con aperture junghiane e critico della scienza riduzionistica rilancia la questione della autonomia della mente-coscienza dal cervello, citando gli studi di Benjamin Libet e della sua equipe di San Francisco, secondo il quale esiste un Conscious Mental Field, “emergente dalle attività cerebrali ma non determinato fisicamente da esse. Il CMF agirebbe sulle attività del cervello, forse influenzando eventi altrimenti casuali o indeterminati nelle cellule nervose. Questo campo contribuirebbe anche a integrare le attività di parti diverse del cervello e avrebbe la proprietà di “riportare indietro” le esperienze soggettive e perciò opererebbe a ritroso nel tempo” (R. Sheldrake, Le illusioni della scienza, p. 98)

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“Un esempio sperimentale di questa sfasatura temporale significativa in direzione dell’esistenza di una coscienza extracerebrale, consiste nel misurare l’attività elettrica del cervello “mediante un elettroencefalogramma (EEG), con piccoli elettrodi collocati sulla superficie del cranio. I soggetti stavano tranquillamente seduti e dovevano piegare un dito oppure premere un pulsante ogni volta che ne avevano voglia. Dovevano anche notare quando avevano deciso o sentito la voglia di farlo. La decisone cosciente si verificava circa 200 millisecondi prima del movimento del dito, il che sembra del tutto scontato: la scelta precede l’azione. La cosa notevole però era che i i cambiamenti elettrici cominciavano nel cervello circa 300 millisecondi prima che venisse presa una qualsiasi decisione conscia. Questi cambiamenti erano definiti ‘potenziale di prontezza’ [Bereitschaftspotential]” (Ibidem, 97) “Il CMF unificherebbe l’esperienza generata dalle molte unità neurali. Sarebbe anche in grado di influenzare certe attività neurali e di costituire una base per la volontà cosciente. Il CMF sarebbe un nuovo campo ‘naturale’. Sarebbe un campo non fisico, nel senso che non potrebbe essere osservato direttamente con strumenti fisici esterni. Questa proprietà, ovviamente, è la ben nota caratteristica dell’esperienza soggettiva cosciente, che è accessibile solo all’individuo che ha quell’esperienza”

(A. Libet, Can Conscious Experienece Affect Brain Activity?, in “Journal of Consciousness Studies” 10, 2003, p. 27)

“La mente è strettamente connessa a campi che si estendono al di fuori del cervello nello spazio e anche al di là del cervello nel tempo, collegati al passato dalla risonanza morfica e ai futuri virtuali dagli attrattori” (R. Sheldrake, Le illusioni della scienza, p. 205) “La mente estesa è implicita nel nostro linguaggio. Le parole ‘attenzione’ e ‘intenzione’ vengono dal latino tendere: ad + tendere, ‘tendere verso’, e in + tendere, ‘tendere dentro’ (Ibidem, p. 189) Anche il fenomeno della vista implica l’esistenza di campi percettivi estesi, che sono nel cervello e si estendono al suo esterno: “quando guardo una persona o un animale, il mio campo percettivo interagisce con il campo della persona o dell’animale che guardo, consentendogli di rilevare il mio sguardo” (Ibidem, p. 197) “Altrettanto significativo in relazione alla esistenza di una coscienza o campo di coscienza extracerebrale, è il fatto che non esistono in nessuna parte del cervello le tracce mnestiche, ovvero un magazzino dei ricordi, come dimostrano gli esperimenti

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di Lashey, che verificò la sopravvivenza di engrammi mnestici in animali anche dopo l’asportazione (gli dei lo perdonino! n.d.A) di grandi quantità di tessuto cerebrale. Il neurologo John Lorber, osservando che forme di idrocefalia estrema (cervello quasi totalmente riempito di liquido cefalorachidiano) si è chiesto se il cervello sia davvero necessario: “Un ragazzo con un QI di 126 e una laurea in matematica a pieni voti, studente della Sheffield University, ‘praticamente non aveva cervello’.“   (R. Sheldrake, Le illusioni della scienza, p.26) La mente-coscienza degli individui non coincide con il cervello chiuso nella scatola cranica: è un campo dentro-fuori, e il cervello rappresenta il visibile fisico-materiale di un invisibile metasomatopsichico. Quantistico? Subquantistico? Spirituale? Informativo? Metamateriale? Questo il punto di vista della scienza non meccanicistica né riduzionistica contemporanea. Da un punto di vista esperienziale, posso aggiungere un evento significativo: una trentina di anni fa, mentre correvo lungo la spiaggia e mi tuffavo di testa nelle onde alte, inghiottii una grande quantità d’acqua, e persi i sensi per un tot di tempo. Ma non la coscienza: vidi me stesso, e chi mi soccorreva, dall’alto, da almeno quaranta metri di altezza dal suolo. Scherzi del cervello? In un’altra occasione, a Micene, feci un’esperienza di viaggio astrale, e nel ritornare al corpo vidi una presenza vestita di viola dietro di me; lo dissi a chi mi assisteva in quel momento. Quando ritornai allo stato di coscienza ordinario, ebbi conferma che ciò che avevo visto con occhi non fisici corrispondeva alla mia descrizione. Esiste inoltre una vastissima letteratura sull’ OBE (Out Body Experience), a partire dagli studi di Moody, che ha raccolto numerosissime testimonianze di persone in coma o sottoposte a intervento chirurgico con anestesia totale che hanno raccontato, una volta ripresa coscienza, di avere visto cose (per esempio l’esterno dell’ospedale, o scene e discorsi pronunciati durante l’intervento chirurgico) che non avrebbero mai potuto vedere con gli occhi fisici. I settori più preclusivi dell’apparato scientistico tendono a ridurre anche questo genere di esperienze a processi neurali e sinaptici: per esempio, alle stimolazioni artificiali del giro angolare destro, oppure a lesioni della giunzione temporo-parietale1. È evidente che, in presenza di OBE oggettive, vale a dire fondate sulla percezione di elementi di realtà fuori portata sensoriale, siamo obbligati, per amore di scienza, a ipotizzare una estensione extracranica del cervello: o si nega la realtà dei dati, o si

                                                                                                                1 Cfr. D. Mobbs- C. Watt, There is nothing paranormal about near-death experiences: how neuroscience can explain

seeing bright lights, meeting the dead, or being convinced you are one of them, in “Trends in Cognitive Scoences”, vol. 15, pp. 447-449, 2011. Cfr. S. De Vito-S. Della Sala, Ai confini della morte, in “Mente & Cervello”, N. 105 (XI), settembre 2013, pp. 56-63.

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deve ammettere che il cervello è magico, metaspaziale e, nel caso di fenomeni di preveggenza, meta temporale: dunque, in qualche modo, “extracerebrale”. Per chi sia aperto a percepirlo il cosi detto ‘paranormale’ è ‘normale’, e così le esperienze di coscienza separata dal corpo. La coscienza è-e-non-è nel cervello, e dunque muore-e-non muore; il cervello, a sua volta è ordine esplicito materiale di un ordine implicito non materiale: in termini colliani, esso come ogni cosa, è insieme di serie espressive agglutinate in un organismo funzionale che, come ogni organismo, appare e dispare nella dimensione Visibile dell’Assoluto invisibile. Muore come visibile, ma la radice invisibile in cui si riassorbe è immortale: muore-e-non-muore. Vediamolo un organismo, per esempio umano: parte come relazione di ovulo e spermatozoo, diventa embrione – a sua volta costituito, come l’ovulo e lo spermatozoo, di energia-informazione (surrettiziamente configurata in particella quantica: in realtà alla radice c’è solo flusso implicito, se si scandaglia a dovere la materia subatomica) –poi cresce, diventa bambino, giovane, adulto, vecchio; e poi muore e torna polvere, e poi polvere di polvere, e si riassorbe nell’invisibile da cui è sorto. L’Invisibile (Dio, immediatezza, Vuoto, Cosa in sé, Assoluto) è la vera sostanza del mondo, e noi siamo fatti di Invisibile. A cui torniamo.

Mente estesa

La visione della mente-coscienza come campo che investe simultaneamente l’ esterno e l’interno, con la scienza contemporanea che riformula l’equazione parmenidea noeîn=eînai, conferma l’insussistenza della polarità soggetto-oggetto, e vanifica la vexata quaestio della falsa alternativa realismo-dualismo: per dirla con Putnam e Dewey, che parla di “natura transazionale dell’esperienza”, le qualità fenomeniche che esperiamo non dipendono solo dal mondo esterno, ma anche da qualità dell’osservatore: “Le qualità fenomeniche che esperiamo non sono semplicemente una funzione delle proprietà delle scene che osserviamo, ma dipendono tanto dalle proprietà dell’osservatore quanto da quelle della scena osservata” (M. De Caro-M. Ferraris, Bentornata realtà, Torino 2012, p. 12) “La mia ipotesi è che la proiezione esterna delle immagini visive sia psicologica e fisica, che avvenga attraverso campi percettivi. Questi sono psicologici, nel senso che sono alla base delle nostre percezioni coscienti, e anche fisici e naturali, in quanto esistono al di fuori del cervello e hanno effetti rilevabili” (R. Sheldrake, Le illusioni della scienza, p. 195) “Quasi tutti hanno avuto la sensazione che qualcuno li guardasse alle spalle e, girandosi, hanno incontrato il suo sguardo. Quasi tutti hanno sperimentato anche il contrario: qualche volta hanno fatto voltare una persona semplicemente

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guardandola. In ampie ricerche condotte in Europa e Nord America, risulta che fra il 70 ei 97 per cento di adulti e bambini abbia avuto esperienze di questo genere” (ibidem, p. 197) Oltre che nello spazio, la mente si estende nel tempo, in un futuro e in un passato che non sono contenuti nel cervello: “La mente si estende al di fuori del cervello nel tempo così come nello spazio. Siamo connessi al passato dalla memoria e dall’abitudine, e al futuro da desideri, piani e intenzioni. Questi ricordi e questi futuri virtuali sono contenuti materialmente nel cervello nel presente o la mente è connessa al passato e al futuro da collegamenti non materiali?” (ibidem, p. 202) “La ricerca all’avanguardia nello studio della coscienza, in particolare il campo emergente della teoria quantistica sul cervello, sta riscoprendo un fatto che era noto grazie all’esperienza personale per migliaia di anni: la coscienza si estende al di là del corpo e interagisce con il mondo nel suo insieme” (E. Laszlo, Olos, Milano 2002, p. 112) “Secondo l’ipotesi della risonanza morfica (ovvero la legge per cui schemi di attività simili entrano in risonanza, al di là di tempo e spazio, n. d. r.), tutti i sistemi ad autorganizzazione, fra cui le molecole proteiche, le cellule di Acetabularia, le piante di carota, gli embrioni umani e gli stormi di uccelli, sono plasmati dal ricordo di sistemi simili precedenti, trasmesso per risonanza morfica, e sono attirati verso attrattori attraverso creodi (dal greco chré, ‘è necessario’, e hodós, ‘via’, sono cammini canalizzati di cambiamento, nd.r.). La loro stessa esistenza comporta una presenza invisibile sia di passato, sia di futuro. La mente è estesa nel tempo non perché sia miracolosamente diversa dalla materia comune, ma perché è un sistema ad auto-organizzazione. Tutti i sistemi ad auto-organizzazione sono estesi nel tempo, plasmati dalla risonanza morfica dal passato e attratti verso attrattori (schemi finalistici degli organismi, n. d.r.) nel futuro” (R. Sheldrake, Le illusioni della scienza, p. 204)

Vuoto mistico e vuoto quantistico

Così Laszlo sintetizza la struttura dell’universo: “Sappiamo che l’universo consiste di non oltre un 5 per cento di comune materia (atomica), il 95 per cento è costituito di particelle esoteriche note collettivamente come materia scura, e di un tipo di energia ancora più strana chiamata energia scura. Alla base di tutte le cose, ivi compresa la comune materia, esiste un vasto mare energetico che, seppur non osservabile, è fisicamente reale. Noto come il vuoto quantistico, questo mare energetico è il locus delle energie virtuali del Campo di

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Punto Zero o CZP. Questo campo non è semplicemente un campo elettromagnetico: è un campo più complesso e fondamentale. Ė il ventre del CZP elettromagnetico come anche di un campo non elettromagnetico scalare e di sottile collegamento: il campo psi” (Ibidem, p. 117). “La nuova fisica considera il vuoto come mezzo universale, la sorgente di tutti i campi e di tutte le forze in natura, includendo gravitazione, inerzia, elettromagnetismo e interazione nucleare” (Ibidem, p. 124) Come avevano già intuito i meditanti buddhisti, la sostanza di base della realtà è il Vuoto. Aggiunge Laszlo: “Il vuoto quantistico non è una caratteristica solo del nostro universo, esisteva prima che il nostro universo fosse nato e senza dubbio esisterà dopo che il nostro universo svanirà. Questo mezzo duraturo porta con sé la traccia di tutte le particelle e di tutti gli oggetti che sorsero in precedenti universi e trasmise questa informazione dalla trama assai ricca al Big Bang che creò il nostro universo. Alla sua nascita il nostro universo era in-formato dalla traccia di universi precedenti, in maniera molto simile a come durante la concezione il nostro zigote era in-formato dal codice genetico dei nostri genitori. Come le particelle sono correlate dall’ologramma del loro insieme, come molecole e cellule dall’ologramma dell’organismo, come i cervelli e le menti umane sono correlate dall’ologramma della specie, così pianeti, stelle, sistemi stellari e galassie sono correlate dall’ologramma dell’universo. E queste correlazioni sono portate avanti dallo stesso identico campo cosmico: il campo psi” (ibidem, 138-139)

Mens super omnia et insita omnibus

Coscienza e materia sono manifestazioni del campo psi, sono “aspetti complementari della stessa realtà che si evolve” (ibidem, p. 13), e che può essere collegata al campo akashico di cui parla la tradizione mistico-sapienziale orientale. Nel campo psi-Akasha tutto si conserva, e in esso “codifichiamo anche le nostre vite…le informazioni che forniamo al campo psi continuano a esistere dopo la nostra vita…il nostro corpo degenera, ma il suo ologramma continua a vivere” (ibidem, 13-14) Esiste dunque, secondo la scienza, un campo metaspaziotemporale, sia esso denominato psi o matrix o akasha o, con Empedocle

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“una mente sacra e indicibile (phrèn hierè kai athésphatos), che con rapidi pensieri si slancia attraverso il cosmo” (31B 134 DK) da confrontare con la “legge che governa tutte le cose si estende senza tregua per l’etere che vastamente domina e per l’infinita luce” (Idem 31B 135 DK). Come non pensare anche al tao, e alla mens super omnia e insita omnibus di Giordano Bruno? O a alaya vijňana dei buddhisti, la coscienza cosmica che contiene i semi di tutti gli elementi possibili di realtà al di là dei cinque sensi, della coscienza mentale e della coscienza relativa all’entità egoica? A questa realtà non si accede con gli stati ordinari della mente (che al massimo possono dedurne l’esistenza, nel caso di un uso raffinato di essi), bensì in stati alternativi di coscienza: “La coscienza in ordinario stato di veglia tende a reprimere le informazioni che non rientrano nella nostra concezione del mondo. … Il risultato è che la maggior parte delle persone crescono e diventano individui dotati di senso comune per i quali ogni cosa che non va d’accordo con il concetto corrente sulla natura del mondo e della mente viene repressa e ignorata. Ma quando una persona entra in uno stato alterato di coscienza – per esempio, durante la meditazione profonda, durante la preghiera, sotto l’influenza della musica e della danza (e, ahimè, anche di droghe psichedeliche) – questi ‘censori’ non funzionano. Strani elementi d’informazione entrano nella coscienza di una persona,, e non tutto ciò che entra può essere puramente immaginario… L’abilità degli stati alterati di fornire informazioni sul mondo era nota ai popoli tradizionali che apprezzavano e coltivavano questi stati per il potere che conferivano. Le culture semitiche facevano uso degli stati (alterati, n.d.r.) di coscienza nella Cabala, gli antichi Egiziani nelle iniziazioni al culto di Isis e Osiride, e i Greci classici nei Baccanali e nei riti di Attis e Adonis, come anche nei Misteri Eleusini. Le culture indigene dell’America precolombiana e dell’Africa impiegavano gli stati alterati nelle procedure sciamaniche, nelle cerimonie di guarigione e nei riti di passaggio, e le altre culture dell’Asia le applicavano nei vari sitemi di yoga, Vipassana o Buddhismo Zen, Vajrayana tibetano, Taoismo e Sufismo. In Africa, membri della stessa tribù, come i boscimani Kung nel deserto del Kalahari, potevano – e tuttora possono – entrare in stati alterati tutti allo stesso tempo” . (Ibidem, 104-105)

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Di cosa è fatto il mondo?

Esiste una sorgente invisibile, Origine permanente di tutte le cose (“Origine ama nascondersi”, diceva Eraclito), certamente non cosituita di materia ordinaria o grossolana, bensì di vuoto-energia-informazione, oceano virtuale da cui scaturiscono, non diversi da esso per sostanza, gli elementi base della realtà. Di cosa sono fatti? Chiediamo soccorso a Colli, maestro di peregrinazioni sapienziali intorno al rapporto tra visibile e invisibile: “Il riferimento al passato, connaturato alla conoscenza, nel meccanismo della rappresentazione si oblitera. Qui l’oggetto della conoscenza sembra esaurirsi entro i limiti della singola rappresentazione. Ma in se stessa la rappresentazione è evanescente, pur nella sua natura conoscitiva: quest’ultima viene recuperata, approfondita, con un riferimento a qualcos’altro fuori dalla rappresentazione determinata. Inclusa nella singola rappresentazione, la conoscenza è dunque un’illusione nell’illusione; sganciata invece dalla prospettiva di un soggetto particolare, cioè considerata non dall’interno, ma anzitutto secondo il complesso delle prospettive, come rappresentabilità, e poi dall’esterno, come accenno, manifestazione di qulcos’altro, in un contesto metafisico, è più giusto che la conoscenza, anziché rappresentazione, venga chiamata espressione” (G. Colli, Filosofia dell’espressione, Milano 1969, p. 19) ”Sotto il profilo espressivo, l’oggetto della rappresentazione viene interpretato come un segno, un geroglifico che indica qualcos’altro” (Ibidem, p. 20) “Se si pone mente invece al carattere manifestante dell’espressione, considerata come uno spettacolo che prescinde dagli spettatori, ossia da un lato al contributo, all’incremento di chiarezza, luminosità, esteriorità, conoscibilità, in breve all’ingrediente apollineo, e d’altro lato alla conservazione di qualcos’altro, che mediante essa appunto si dice venir espresso, con un vincolo che non è solo di produzione, ma segna un passaggio da una natura a un’altra di forma differente, dove pure persiste qualcosa della prima, si vedrà allora che tale concetto di espressione non può essere circoscritto nella sua applicazione a una sfera per così dire estetica, cioè antropomorfica, nel senso di una peculiare significazione umana, le cui forme sono anzitutto la parola, immediatamente data come suono della voce o mediatamente significata mediante la scrittura, e inoltre il gesto, il movimento del corpo, il suono musicale, i segni riproduttivi trasferiti dall’uomo nella materia inerte” (Ibidem)

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Il mondo visibile è espressione dell’immediatezza nascosta, e è conoscenza senza spettatore: immediatezza (vuoto?) e conoscenza (informazione?) sono gli ingredienti base del cosmo. Come anche nella fisica contemporanea, di cui Colli, attraverso noûs e lógos, anticipava, per altra via, le acquisizioni fondamentali. Per Colli l’ espressione è la sostanza del mondo: “Ciò che rimanda a qualcos’altro, senza essere un accidente o un termine relativo, è tradizione che alluda a questo come alla sua sostanza. La significazione, la manifestazione, traggono il loro nome da qualcosa che sta sotto. Ma questo star sotto, se viene introdotto nel contesto discorsivo, non sta più sotto. Ciò che sta veramente sotto non si può dire sostanza, poiché a esso non spetta nessun nome, poiché appunto è nascosto e può soltanto venir espresso. ‘Sostanza’ è invece anch’esso un termine discorsivo; in quanto una rappresentazione si dice espressione di qualcosa, in tanto essa può considerarsi come sostanza. … Così, se per avere un senso la sostanza va ancora inclusa nella rappresentazione, il suo stare sotto dovrà essere riportato più in alto, e sarà proprio questo strumento di conservazione che chiamiamo ‘espressione’ a costituire la sostanza, in quanto allusione a qualcosa di nascosto. Il mondo quale si presenta ai nostri occhi, in generale e in ogni configurazione particolare, è dunque, come sostanza, un’espressione di qualcosa di ignoto”. (Ibidem, 20-21) Ricapitolando: sia Colli che la più avanzata scienza contemporanea fanno riferimento a un invisibile costantemente soggiacente alle cose visibili, da cui queste sorgono, sia al livello quantistico delle microparticelle (dotate talora di natura corpuscolare-ondulatoria), sia a livello di organismi che, nella prospettiva scientifica, derivano da esse e prendono consistenza-forma materiale. Ma poiché la materialità della materia è già stata messa in discussione, vale la pena approfondire, con Colli, la costituzione del mondo come insieme di serie espressive, né materiali né spirituali: “Ripetiamolo: per espressione si intende qui una rappresentazione, cui venga sottratta la natura prospettica di un oggetto secondo un soggetto, e che sia quindi considerata come qualcosa di semplice; precisamente, che sia lo svelarsi di un’altra rappresentazione o di un’altra natura. Si è detto prima che l’espressione accenna a un ignoto, ma questo ignoto a sua volta può svelarsi come espressione di un ignoto ulteriore. Viene a stabilirsi così un nesso tra le rappresentazioni, i nostri dati sid dipongono in una rete interpretativa. Scandagliando la natura delle cose percorriamo il cammino dell’espressione, in caccia ogni volta di qualcosa che sta dietro, che viene espresso. Ma in questa strada verso il profondo si arriva sempre a un punto in cui non è più possibile andar oltre, a un ignoto definitivo.“ (Ibidem, 22) Approfondiamo:

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“L’espressione è un’oggettivazione” (La ragione errabonda, Milano 2012, p. 228 [174 c]) “L’ipotesi dell’espressione giunge a configurare il mondo dell’apparenza, nella sua totalità, come costituito da una rete di cammini convergenti, che partendo da una molteplicità definita di punti d’immediatezza extrarappresentativa tendono, per mezzo di altrettante serie espressive, verso una sola rappresentazione, il loro vertice concreto, oggettivato, visibile dell’apparenza, e di cammini divergenti, che da un unico punto di immediatezza si irradiano in un numero indeterminabile di rappresentazioni, ciascuna delle quali può propagarsi in un ulteriore serie espressiva definita” (Filosofia dell’espressione, 24) L’espressione è una oggettivazione dell’immediatezza extrarappresentativa, e quest’ultima, nella divinazione di Colli, è costituita da una pluralità di punti di irradiamento: l’Uno è fatto di Molti. A partire da punti di immediatezza extrarappresentativa si costituisce l’organismo individuato, che non è fatto di immediatezza, bensì di rappresentazione: “Per spiegare il fenomeno dell’organismo non è necessaria una concezione finalistica. Un insieme di punti di immediatezza, attraverso altrettante serie espressive, si raccoglie infine in un fuoco, che è la rappresentazione di un organismo. In tal modo l’unità organica non viene presupposta nella sfera dell’immediatezza, ma appartiene totalmente alla rappresentazione ed è costituita mediante la convergenza di un gran numero di serie in una sola espressione finale, che è appunto l’organismo in quanto composto unificato di espressioni. L’uomo come organismo è un esempio di siffatta convergenza espressiva. E in generale il principium individuationis non entra nella natura extrarappresentattiva né proviene da essa, bensì è soltanto un aspetto della struttura della rappresentazione o, con maggior determinatezza, un aspetto della struttura convergente delle serie espressive” (Ibidem, p. 26) Colli dice il giusto, ma confonde un po’ le carte, quando fa colludere, con la sola specificazione della ‘maggior determinatezza”, rappresentazione e espressione: l’espressione è pura oggettivazione dell’immediatezza, ‘spettacolo senza spettatore’, mentre la rappresentazione implica un soggetto. Sorvoliamo, perché l’intuizione di Colli è potente: gli organismi, come nella tradizione buddhista (si pensi a Nagarjuna), sono rappresentazione, o meglio ancora, per dirla con gli Orientali, maya: apparenza di una immediatezza che è uno-molti. Vale la pena ricordare che la transeunte personalità umana nel buddhismo è costituita dall’associazione dei cinque skandha o aggregati: rūpa, forma; vedanā,

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sensazione; sañña, ideazione o appercezione; sankhārā, costruzioni psichiche; vijñāna, coscienza.

A ritroso

Proviamo adesso a procedere a ritroso, dal mondo visibile all’immediatezza: troviamo innumerevoli organismi, che sono agglomerati espressivi di pluralità di serie espressive che si agglutinano in un centro di autocoscienza rappresentativa. Affondando lo sguardo, per esempio, nell’organismo umano, troviamo organi, a loro volta composti da molecole, scomponibili in atomi, a loro volta scomponibili in particelle ulteriori, fino ai quanti, e oltre ancora: materia costituita di energia, o comunque di non materia. E ancora, in direzione dell’Assoluto, a ritroso dietro le particelle, che sono già espressione, è la sorgente-vuoto, che potrebbe essere associato al vuoto quantico, se volessimo adattarci al linguaggio scientifico. La scienza contemporanea più avanzata riprende la terza via parmenidea, collegando il mondo relativo a quello assoluto, la dóxa (opinione) alla alétheia (verità).

Vacua plenitudo

La materia è fatta di non materia: vuoto che si esprime come energia-informazione. In quanto rimando a una immediatezza, l’espressione è relazione, come ha detto chiaramente Colli. Dunque il cosmo è costituito di espressione, che è relazione, conoscenza senza soggetto, e di una immediatezza che è vuoto. Eccoci di nuovo vicini al Buddha. Ma questo vuoto è il massimo della pienezza, perché è la matrice di tutte le cose: Dio cosmico. Non c’è morte in senso ordinario: il disfacimento dell’aggregato psicocorporeo è tragitto simbolico di ritorno all’invisibile-immediatezza da cui non ci siamo mai allontanati, perché è la nostra autentica realtà-sostanza.

Oltrepassamenti

A conclusione, vale la pena riportare alcuni stralci dal resoconto della morte di maestri Dzong-chen, nella narrazione di Sogyal Rinpoche: “Al momento della morte, un praticante realizzato rimane nel riconoscimento della natura della mente e si risveglia al manifestarsi della Luminosità fondamentale. Può rimanere in questo stato per più giorni. Ci sono maestri e praticanti che muoiono seduti in posizione di meditazione, e altri nella posizione del 'leone dormiente'. Oltre a queste posture e la padronanza perfetta, altri segni possono rivelare che sono nello stato della Luminosità fondamentale: il volto conserva un po’ di colore e di brillantezza, il naso non si infossa, la pelle rimane morbida e elastica, il corpo non si irrigidisce, si dice che lo sguardo conservi una luce dolce e compassionevole e che ci sia ancora calore nel cuore. Allora il corpo non viene

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assolutamente toccato, e si mantiene il silenzio finché la persona emerge dallo stato meditativo. Il Gyalwang Karmapa, grande maestro e capo di una delle quattro principali tradizioni buddhiste tibetane, morì in un ospedale negli Stati Uniti nel 1981. La sua allegria e compassione furono di straordinaria ispirazione per quanti gli erano vicini. Un chirurgo, il dottor Ranulfo Sanchez disse: “Sono convinto che Sua Santità non era una persona ordinaria”. …Non volle nessun trattamento contro il dolore…Ormai i segni di vita erano debolissimi. Gli feci un’iniezione…perché potesse comunicare nei suoi ultimi momenti. Uscii per pochi minuti dalla stanza mentre parlava con i tulku assicurandoli che per quel giorno non sarebbe ancora morto. Cinque minuti dopo ero di ritorno. Sua Santità sedeva con la schiena eretta e gli occhi aperti. “Salve, come va?”, mi chiese. Le sue condizioni si erano ribaltate e per mezz’ora sedette nel letto parlando e ridendo. Clinicamente era inspiegabile, e le infermiere erano impallidite. Una si arrotolò la manica per mostrarmi il braccio: aveva la pelle d’oca”. Il personale dell’ospedale notò che il corpo di Karmapa non seguiva le fasi del rigor mortis, ma rimaneva com’era al momento della morte. Poi si accorsero che l’area del cuore conservava ancora il calore. Dice il dottor Sanchez: “Mi chiamarono nella stanza circa trentasei ore dopo il decesso. Tastai l’area intorno al cuore e la rivelai più calda delle zone circostanti. Anche per questo la medicina non ha spiegazioni”. Alcuni maestri muoiono in posizione seduta di meditazione, con il corpo eretto. Alla morte di Kalu Rinpoche, avvenuta nel 1989 nel suo monastero nell’Himalaya alla presenza di maestri, del medico e di un’infermiera, il suo discepolo più vicino scrisse: “Rinpoche volle mettersi seduto, ma non ci riusciva. Lama Gyaltsen, sentendo che forse era giunto il momento e che non essere seduto avrebbe creato un ostacolo per Rinpoche, gli sorresse la schiena e lo aiutò a sedere. Stese la mano verso di me, e lo aiutai anch’io. Desiderava sedere perfettamente eretto, e lo esprimeva a voce e a gesti. Il medico e l’infermiera erano preoccupati, e Rinpoche rilassò un po’ la posizione, che era comunque una postura meditativa…Poi posò le mani in postura meditativa, con gli occhi aperti nello sguardo di meditazione, mentre le labbra si muovevano leggermente. Fummo invasi da un profondo senso di pace e di felicità che impregnava la nostra mente. Tutti i presenti sentirono che l’indescrivibile felicità che ci colmava non era che un debole riflesso di quella che pervadeva la mente di Rinpoche…infine, chiuse lentamente le palpebre e il respiro si allentò”. Jamyang Khyentse Chokyi Lodrö, maestro di grandissima levatura, “morì nella posizione del 'leone dormiente'. Tutti i segni indicavano che era ancora in stato meditativo, e per tre giorni nessuno toccò il corpo. Non mi abbandonerà mai il ricordo del momento in cui uscì dalla meditazione: il naso s’infossò di colpo, la pelle perse il colore e la testa gli cadde di lato. Ma, fino a quel momento, il suo corpo aveva conservato un certo equilibrio, forza e vita. Era sera quando lavammo il corpo. Lo rivestimmo e lo trasferimmo dalla sua stanza al tempio principale del

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palazzo, traboccante di folla venuta a porgere l’ultimo omaggio circumambulando il tempio. Allora accadde qualcosa di straordinario: a poco a poco si manifestò e si propagò ovunque una luce lattea incandescente, come una fine nebbia luminosa. All’esterno del tempio e del palazzo c’erano quattro grandi lampade elettriche che a quell’ora splendevano intensamente, perché alle sette era già buio. Ma il loro chiarore era offuscato dalla luce misteriosa…un maestro disse che, secondo i tantra, manifestazioni luminose come quella sono il segno dell’ottenimento della buddhità…L’estate indiana è caldissima, ma le settimane passavano e il corpo non dava segni di disfacimento. Rimase esposto per sei mesi”2. Nella tradizione tibetana (Tantra e Dzong-chen) si crede fermamente che i meditanti di altissimo livello al momento della morte siano in grado di riassorbire nella base luminosa della natura primordiale della mente anche la materia che costituisce il corpo (la mente è base del corpo, che è costituito dall’elemento spazio, e che è appunto la quinta base mentale generativa degli aggregati materiali), cioè i quattro elementi, cosicché il corpo fisico si dissolve in Luce, o in arcobaleno. Questo riassorbimento si attua in maniera inconsapevole: o meglio, in esso, per gli illuminati, si dà tout court coincidenza di Rigpa – che è la luminosa vacuità senza centro né circonferenza, base primordiale della mente liberata dai condizionamenti dei sensi e dell’ego, ben distinta dalla mente Sem, che è la mente ordinaria dominata dai summenzionati ‘tre veleni’ – con la “luce incolore da cui tutte le cose traggono nascimento e che, senza che ne siamo consapevoli, brilla in noi stessì”: Luce di base della mente e del cosmo coincidono. La vita si configura come un lungo addestramento a raggiungere il momento della morte in uno stato di coscienza emancipato dai tre veleni della mente Sem, limitata dall’ego, e stabilmente centrato nel Rigpa, in cui luce di base “individuale” e cosmica coincidono. Questa concentrazione meditativa, a detta dei maestri tibetani, consente di disserrare le maglie dense della materia corporea, dando spazio a fenomeni “paranormali” di preservazione del corpo dopo la morte clinica, e all’emanazione di luce e arcobaleni. Altre tradizioni di matrice taoista o yogica sostengono che sia possibile raggiungere una eccezionale longevità fisica, superiore ai due secoli (si additano alcuni esempi di “immortali” tuttora viventi), in quanto il meditante, saldamente radicato nel samadhi, può governare la matrice mentale del corpo, e impedirne la decadenza. Altrettanto si dica degli straordinari oltrepassamenti dei limiti funzionali del corpo a opera dei fachiri e degli yogin indiani. Tutto ciò, sebbene passibile di dubbio, e soprattutto a rischio di hýbris, apre un varco di grande portata teoretica e operativa, perché sposta l’orizzonte delle possibilità umane oltre il limite sancito dai sensi e dalla communis opinio, aprendo all’inferenza dell’invisibile sul visibile, ovvero, in termini bohmiani, dell’ordine implicito sull’ordine esplicito della materia.

                                                                                                               2 Ibidem, pp. 249 ss.

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Non tutto ciò che accade è spiegabile attraverso la scienza meccanicistica, e non tutto ciò che non è spiegabile attraverso la scienza meccanicistica è falso o illusorio. La nuova sensibilità scientifica che si è affermata a partire dalle scoperte della quantistica, e in particolare con la Gnosi di Princeton, il gruppo di scienziati operativo a partire dalla fine degli anni Sessanta, fornisce, nella sua declinazione più recente, da Sheldrake a Laszlo e altri, la possibilità di un approccio anche scientifico al così detto “paranormale”. Ciò che conta, è che il così detto “paranormale” è un insieme di fenomeni “normali” a certe condizioni. Quelli che, insieme a altri, nella tradizione tibetana vengono detti “siddhi” (“poteri”), ma che compaiono in Occidente anche nello sciamano orfico Empedocle, in Abaris, in Pitagora e in Cristo, non vanno coltivati e acquisiti per potenziare l’ego iniziatico: da questo si deve ben guardare chi si ponga sulla via della ricerca interiore. Essi si manifestano a chi coltivi la Sapienza e il misticismo sia perché evocati dalla sua interiorità e in risonanza con essa, sia perché si trova sempre quello che si cerca: si pensi, su versante diverso, a come la Natura abbia risposto sempre alle domande che la scienza le ha rivolto, e si può essere certi che se cercherà il Sottobosone di Higgs, la Natura risponderà mostrandolo. Questi poteri, che è meglio definire doni, sono un segnale di un certo livello di superamento della condizione ordinaria della vita, che lungi da esaltare l’ego consente di vedere la vita infinitamente più ricca di possibilità, e dunque apre un varco alla sperimentazione di vie nuove, nella ferma consapevolezza dell’ umiltà necessaria per raggiungere l’illuminazione. Così B. A. Wallace, a proposito dei poteri nella tradizione buddhista: “Le fonti buddhiste elencano di norma cinque tipi mondani di percezione extrasensoriale:

1) La visione a distanza, o chiaroveggenza 2) La chiaroudienza 3) La capacità di leggere nelle menti altrui 4) Le facoltà paranormali come il controllo mentale sui quattro elementi (terra,

acqua, fuoco, aria). Gli esempi includono la capcità di passare attraverso oggetti solidi, di camminare sull’acqua, di dominare il fuoco con la mente, di volare e di moltiplicare o trasformare a piacere, a livello mentale, gli oggetti fisici;

5) Il ricordo delle vite precedenti. 6) Le asserzioni buddhiste circa la possibilità di raggiungere livelli straordinari

di concentrazione intenzionale e continuativa sfidano i limiti dell’attuale comprensione scientifica e della mente. Le capcità paranormali citate appaiono pura magia a noi che siamo ormai assuefatti ai preconcetti materialisti della scienza moderna; ma è bene ricordare che i portati della tecnologia contemporanea sembrano appunto stregonerie a chi proviene da società tradizionali in cui non è insegnata la scienza. I buddhisti assennati non pretenderebbero mai che gli scienziati accettino le loro affermazioni su basi

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puramente fideistiche (il Buddha stesso dissuadeva i seguaci dall’accogliere le sue parole sulla sola base della sua autorevolezza); sarebbe però altrettanto dogmatico respingerle semplicemente perché violano la nostra fiducia nel materialismo scientifico… Illegittimo è anche scartare senza ripensamenti una teoria solo perché non se ne è ancora trovata una convincente dimostrazione empirica. Tale dimostrazione può essere temporaneamente inaccessibile, in quanto per il momento non sono stati creati gli strumenti adatti per scoprirla”.

Tutto è possibile

Nell’universo perpetuamente creativo in cui siamo immersi, dominato dalla categoria della probabilità, frutto della mescolanza modale di caso e necessità, necessario e contingente, tutto è possibile. “L’universo evolve e è il campo di azione di una creatività continua. La creatività non è confinata all’origine dell’universo, come nel deismo, ma è parte costante del processo di evoluzione, che si esprime in tutti i regni della natura, anche nelle società umane, nelle culture e nelle menti. Anche se la creatività espressa in tutti questi regni può avere una fonte divina ultima, non c’è bisogno di concepire Dio come una mente progettuale esterna. Nella tradizione giudaico-cristiana, Dio ha dotato di creatività anche il mondo, come nel primo capitolo della Genesi, dove genera la vita dalla terra e dai mari (Genesi 1, 11; 20; 24): un’immagine ben diversa da quella di un Dio ingegnere di un universo meccanicistico. E in un universo creativo in evoluzione non c’è ragione per cui la comparsa di materia e energia debba essere confinata al primissimo istante, come nella teoria standard del Big Bang. In effetti, alcuni cosmologi suppongono che la continua espansione dell’universo sia alimentata dalla costante creazione di “energia oscura” dal campo gravitazionale universale o “campo quintessenziale”. (R. Sheldrake, Le illusioni della scienza, p. 318) “Secondo Whitehead, ogni occasione effettiva, perciò, è determinata sia dalle cause fisiche del passato, sia dal soggetto creativo e autorinnovantesi che sceglie sia il proprio passato, sia i futuri potenziali. Attraverso le sue prensioni seleziona quali aspetti del passato portare nel proprio essere fisico nel presente e sceglie anche tra le possibilità che determinano il suo futuro. Ė connesso al suo passato attraverso ricordi selettivi e si connette al suo futuro potenziale attraverso le sue scelte. Anche i più piccoli processi possibili, come gli eventi quantistici, sono sia fisici, sia mentali; sono orientati nel tempo. La direzione della causalità fisica va dal passato al presente, ma la direzione dell’attività mentale va in senso inverso, dal presente verso il passato attraverso le prensioni e dai futuri potenziali al presente. C’è perciò una polarità temporale tra i poli mentale e fisico di un evento: causalità fisica dal passato al presente e causalità mentale dal presente al passato”. (Ibidem, 95)

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Se tutto è possibile, in base all’alchimia probabilistica di caso e necessità, e alla possibilità di continua ri-creazione, attraverso la prensione, ovvero la capacità del soggetto di selezionare il passato già vissuto su cui orientare i futuri potenziali, occorre sapere inserire nella propria “intenzione” elementi di limite e di eticità, per non incorrere nella hýbris che è la caratteristica fondamentale della civiltà contemporanea, ben visibile all’opera nell’economia che vede l’arricchimento esponenziale di una ristrettissima élite a livello mondiale, a danno della maggioranza delle persone, ma soprattutto nella tecnologia, che deborda dai limiti dell’armonia con la Natura assai più di quanto fece il povero Serse che nei Persiani di Eschilo fu castigato dagli dei per avere unito ciò che il mare divideva, ovvero le due sponde dell’Ellespono, e comincia a prefigurare, per esempio nel transumanismo, la possibilità di trasferire la psiche umana nella macchina-computer, per conseguire una forma di immortalità candita e illusiva. La magia da un punto di vista iniziatico e spirituale assume la funzione di liberare il senso del reale dai limiti della appercezione razionalistica di esso, far vibrare la presenza di un Oltre nel cuore stesso dell’attuale, corroborare le forme extrarazionali e extramaterialistiche di approccio alla vita e alla conoscenza, segnare la differenza tra il Sapiente e il filosofo-intellettuale, ricomponendo, al di fuori di ogni ormai superata moda newage, l’unità originaria dell’uomo di spirito, che era insieme scienziato e sciamano, teoreta e maestro di etica, poeta e politico: si pensi a Empedocle, e a Parmenide. Tutto ciò è possibile all’uomo insieme antico e contemporaneo che si muove sulla via della Sapienza, addestrato dalla costante pratica contemplativa a considerare anche le facoltà paranormali come fenomeni impermanenti e non fondamentali nella prospettiva della illuminazione, ma comunque doni da da mettere al servizio degli altri e utilizzare a fin di bene, qualora ci si imbatta in essi nel corso della vita. D. Bohm, Universo, Mente, Materia, Milano 1996. Idem, Wholeness and the Implicate Order, London 1980. Canone Buddhista, Discorsi brevi, a cura di P. Filippani Ronconi, Torino 1968. G. Colli, Filosofia dell’espressione, Milano 1969. Idem, La nascita della filosofia, Milano 1975. Idem, La sapienza greca, Milano 1977-1980. Idem, Physis kryptesthai phileei, Milano 1988. Dhammapada, in Canone buddhista, discorsi brevi, a cura di P. Filippani Ronconi, Torino 1968. R. De Caro-M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà, Torino 2012. S. Hawking, Il grande disegno, Milano 2011. J. Hillmann, Psicologia alchemica, Milano 2013. C. G. Jung, Opere, Torino 1969 ss. E. Laszlo, La scienza e il campo akashico, Milano 2009. Idem, Olos, Milano 2002. R. A. Jr. Moody, La vita oltre la vita, Milano 1997. Sogyal Rinpoche, Il libro tibetano del vivere e morire, Roma 1994.

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