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1 Corso di Laurea in Scienze storiche La comunità di Scurelle e la sua carta di regola in età moderna Relatore Laureando Prof. Marco Bellabarba Diego Ropele Correlatore Prof. Emanuele Curzel Anno Accademico 2008-2009

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Corso di Laurea in Scienze storiche

La comunità di Scurelle e la sua carta di regola in età moderna

Relatore Laureando Prof. Marco Bellabarba Diego Ropele

Correlatore Prof. Emanuele Curzel

Anno Accademico 2008-2009

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INTRODUZIONE 3 CAPITOLO 1 5 1.1 Le carte di regola 5 1.2 L’organizzazione amministrativa della comunità 7 Premessa 7 1.2.1 L’assemblea 7 1.2.2 Il regolano 8 1.2.3 Il sindaco o massaro 9 1.2.4 Il saltaro 10 1.2.5 Altre figure: giurati, stimatori, soprastanti, cavalieri del comune 10 1.3 L’organizzazione territoriale della comunità 11 1.3.1 I poderi 11 1.3.2 Il bosco 11 1.3.3 Il pascolo 12 1.4 La geografia territoriale trentina tra XIV e XV secolo 13 1.5 Vicini e forestieri 15 1.6 La fine dell’attività regoliera 19 1.7 Gli studi in merito alle carte di regola 21 1.8 La situazione all’esterno del Trentino 24 1.8.1 Il caso della pianura bergamasca 25 CAPITOLO 2 28 2.1 Le origini dell’insurrezione contadina del 1525 28 2.2 Lo scoppio dell’insurrezione 30 2.3 La fine delle ostilità 31 2.4 Michael Gaysmair 32 2.5 I manifesti della rivolta 33 2.6 La guerra dei valsuganotti 34 2.6.1 L’uccisione di Giorgio Puchler a Castel Ivano 34 2.6.2 La rivolta di Castel Selva 37 2.7 Conclusioni 38 CAPITOLO 3 Le giurisdizioni in Valsugana ed il paese di Scurelle 40 3.1 Storia della giurisdizione di Ivano 40 3.2 Le altre giurisdizioni della Bassa Valsugana 48 3.2.1 Castellalto e San Pietro 48 3.2.2 Telvana 49 3.3 Il paese di Scurelle 51 3.4 La carta di regola 52 3.4.1 L’introduzione 53 3.4.2 Parte prima 54 3.4.3 Parte seconda 54 3.4.4 Parte terza 56 3.5 Una situazione di conflitto: la disputa tra le famiglia Ghirardello e Mengarda 56 APPENDICE

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BIBLIOGRAFIA 76

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INTRODUZIONE Questo lavoro sulle carte di regola e nello specifico su quella di Scurelle, scritta nel 1552, cerca,

almeno nelle intenzioni, di offrire a chi legge e si documenta per la prima volta sull’argomento una

visione generale di ciò che questi documenti, seppur in maniera limitata come vedremo in seguito,

hanno rappresentato sulla vita delle comunità, in particolare durante l’età moderna, mentre per chi è

già a conoscenza del tema la possibilità di scoprire dei nuovi dettagli, soprattutto per quanto

concerne il paese preso in esame.

Il soggetto della mia tesi è certamente uno fra più dibattuti ed approfonditi negli ultimi anni. Gli

studi e le pubblicazioni, specialmente a partire dagli anni ’60, sono aumentati in maniera

considerevole; importanti studiosi locali come Mauro Nequirito e Fabio Giacomoni, ma anche

storici di caratura nazionale come Giorgio Chittolini e Gian Maria Varanini, hanno operato una

profonda analisi delle fonti a disposizione scrivendo numerosi volumi, saggi e articoli sull’attività

regoliera e statutaria. Ecco perché, partendo dall’analisi di questa bibliografia, si è cercato

inizialmente di definire le carte di regola mettendo in luce le figure attivamente partecipi alla loro

stesura, alla loro approvazione e alla loro messa in pratica nella vita di tutti i giorni del singolo

paese. Accanto a questa descrizione dell’organizzazione amministrativa, resa comunque in maniera

generica vista la molteplicità e le differenze che si potevano incontrare tra comunità poste a pochi

chilometri di distanza l’una dall’altra, è stata proposta una descrizione territoriale trentina tra il XIV

e il XV secolo, divisa tra il principato vescovile di Trento e la dominazione dei conti del Tirolo.

Successivamente è stato posto l’accento sui conflitti che potevano sorgere all’interno della vita

comunitaria, soprattutto tra la categoria dei vicini e quella dei forestieri: infatti, sebbene questi

documenti si prefiggessero di acquietare tutti i dissapori ed i malcontenti della comunità, la realtà

era ben diversa: gli interessi personali il più delle volte si sostituivano alla pacifica convivenza,

generando frequenti discussioni che venivano esposte dinnanzi al regolano. Nel mio lavoro, al

termine del terzo capitolo, subito dopo aver affrontato la storia della carta di regola, ho riportato una

di queste liti che coinvolse due famiglie di Scurelle: i Ghirardello e i Mengarda. Il primo capitolo si

conclude con un paragrafo dedicato alle cause che avviarono il declino delle carte di regola nel

corso del Settecento, sebbene già verso la fine del Cinquecento il principato vescovile di Trento,

tramite l’emanazione della Moderatio Betta, avesse cercato di limitarne la loro portata e la loro

capacità di azione, con l’analisi degli studi in merito alle carte di regola, dall’inizio del

diciannovesimo secolo con Tommaso Gar fino ai giorni nostri, e ponendo lo sguardo al di fuori dei

confini della nostra regione con i già citati studi del Chittolini sulla legislazione statutaria della

pianura bergamasca. La seconda parte tratta esclusivamente dell’insurrezione contadina del 1525;

ciò è stato inserito per mostrare, attraverso un esempio pratico, come la situazione ormai creatasi in

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seguito alla crisi del sistema feudale fosse divenuta insostenibile per le comunità. Partendo con

l’analisi delle cause della rivolta si è giunti a descrivere come la popolazione valsuganotta partecipò

all’insurrezione e quali furono le conseguenze della loro mobilitazione. Il capitolo finale entra nel

cuore del lavoro; dall’analisi della giurisdizione di Ivano, nella quale si inseriva Scurelle, e delle

altre giurisdizioni valsuganotte, alla storia del paese di Scurelle, della sua carta di regola scritta sì

nel 1552 ma ormai conservatasi soltanto non nell’originale ma in tre copie dalla datazione

successiva .

L’appendice offre invece una breve descrizione fisica della carta di regola e la pubblicazione del

testo completo; per il terzo capitolo e per l’appendice, accanto alla normale bibliografia si è reso

necessario affrontare un lavoro di archivio non semplice vista la carenza di materiale.

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CAPITOLO 1

1.1 Le carte di regola

Entrare in contatto con il mondo delle carte di regola significa occuparsi di tutte quelle normative

prodotte dalle comunità rurali occupanti un’area individuabile grosso modo con l’arco alpino nord-

orientale ed in particolare con il Trentino. Le possiamo definire come norme e disposizioni di cui

ogni comunità si dotava per tutelare sia i beni collettivi (beni cioè appartenenti a tutta la comunità

che dovevano essere sfruttati secondo particolari criteri) che quelli privati (beni che appartengono

esclusivamente ad una singola famiglia); oltre a questo avevano la funzione di prescrivere modi e

termini del governo della comunità. In tutto ciò l’attività regoliera non riceve, salvo casi

eccezionali, l’opposizione delle autorità feudali o vescovili che esercitano il controllo su una

determinata zona. Infatti l’autorità vescovile o principesca considerava superfluo occuparsi delle

problematiche di gestione delle risorse locali, così lontane dagli interessi del potere centrale; l’unico

momento di intervento riguardava la riscossione dei tributi. E’ per questo che senza alcuna

esitazione possiamo affermare che le carte di regola sono la più antica testimonianza dell’autonomia

e di autogoverno. Scopo dell'amministrazione regoliera era provvedere all'organizzazione interna di

ogni comunità, secondo moduli improntati all'autogoverno, e inoltre disciplinare lo sfruttamento dei

beni comuni e tutelare gli ambiti di possesso familiari, nonché dirimere i relativi e frequenti

contenziosi che ne derivavano, punendo le altrettanto numerose infrazioni che venivano commesse.

La parola regola non designava soltanto questi documenti ma era anche il nome con cui venivano

definite le comunità rurali nel suo insieme e il termine con cui si identificava l’assemblea dei vicini.

Inizialmente la lingua utilizzata nelle prime carte di regola è esclusivamente il latino: è comunque

un latino grezzo, inframmezzato con l’aggiunta di parole tipiche del linguaggio dialettale. Soltanto

verso la metà del XV secolo fa la sua comparsa il volgare che in origine è complementare con il

latino per poi sostituirlo in maniera definitiva.

C’è da far presente subito che da un punto di vista prettamente normativo la materia regoliera si

situava al livello più basso di un contesto statutario assai variegato, al cui vertice erano posizionati

gli statuti per la materia civile e quella criminale emanata dai detentori della sovranità territoriale: il

principe vescovo, il conte del Tirolo o i loro delegati feudali. Vi erano poi statuti appartenenti ai più

popolosi centri delle vallate, i quali contenevano al loro interno articoli regolanti materie che

concernevano per lo più la realtà urbana (come le attività artigianali) e che intendevano regolare una

vita comunitaria complessa e nei suoi moduli partecipativi e organizzativi maggiormente vicina al

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modello cittadino, rispetto a quella dei minuscoli villaggi isolati dal resto del mondo, situati alle

quote più alte delle nostre montagne.

Non è poi caso raro ritrovare nei diversi archivi comunali normative aggiunte nel tempo che

riguardano gli ambiti economici più diversi (acque, incendi, vettovaglie), insieme ad altri atti di

carattere amministrativo. Proprio per questa complessità è decisamente improprio definire la carta

di regola con altre parole quali “Statuto”, “Regolamento”, “Carta Ordinamentorum” con i quali si

designano raccolte normative di carattere più ampio sia in senso territoriale che di contenuti

normativi. Nel caso di statuti riguardanti solo la materia regolanare in ambito civile e criminale le

comunità si attenevano infatti alle disposizioni dell’autorità superiore (Statuto della città di Trento

se sottoposte sotto il dominio del principe vescovo, Landesordnung se dipendenti dal Tirolo),

mentre nei casi di coesistenza fra statuti comprendenti sia la materia regolanare sia quella civile e

criminale dovevano essere validi non solo per una singola ma per diverse comunità tutte

appartenenti ad una stessa giurisdizione. 1

Il diritto cinquecentesco è composto in maniera preminente da consuetudini, differenziandosi così

dall’età contemporanea nella quale viene ridotto soltanto ad una dimensione della legge: essendo

basato su un sistema consuetudinario lo possiamo distinguere sulla base di un modello contenuto

nel Digesto giustinianeo: diritto comune (in gran parte dottrinale, poggia le sue fondamenta a partire

da una base sapienzale e normativa che risale e si ispira ai modelli della tradizione romanistica e del

diritto della Chiesa) e diritto proprio (fondamentalmente consuetudinario, racchiude al proprio

interno la grande categoria del diritto statutario ovvero quello prodotto da vari enti o categorie quali

comuni, corporazioni, collegi). 2

Vediamo comunque meglio come si possa suddividere tutto l’insieme statutario vigente fra

medioevo ed età moderna: al vertice era posta la “Landesordnung”, che possiamo definire come

fonte preminente per i pochi territori annessi alla contea del Tirolo. Nelle altre zone rimanevano o

lo Statuto di Trento oppure statuti propri.

Lo Statuto di Trento invece era la fonte di diritto preminente nel principato vescovile; ad un livello

ancora più basso troviamo gli Statuti locali, definibili anche “di valle” o “dinastiali”: questi avevano

una vigenza limitata e non dovevano essere in contrasto con lo Statuto di Trento.

1 M. Nequirito, Le carte di regola delle comunità trentine: introduzione storica e repertorio bibliografico, p. 10 2 C. Zendri, Volano e i suoi statuti. Dalla fioritura al rapido declino (secoli XV-XVIII) in Volano: storia di una comunità, a cura di Roberto Adami, Marcello Bonazza, Gianmaria Varanini, p. 227

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Lo statuto aveva la capacità di essere recepito oltre l’ambito della città per abbracciare le realtà

anche minori; ed è qui che entrano in gioco le carte di regola, che regolamentavano l'organizzazione

economica e civile delle comunità di villaggio.

Stese da un notaio, che alla fine, subito dopo l’approvazione dell’assemblea, vi apponeva i sigilli,

dovevano ottenere il consenso da parte dell'autorità superiore competente per il territorio in

questione: queste figure potevano essere il principe vescovo, i conti del Tirolo, il dinasta feudale, gli

organismi preposti all'amministrazione delle due preture cittadine di Trento e Rovereto,

quest’ultima di dipendenza tirolese. La carta di regola veniva sempre periodicamente confermata

dalla stessa autorità superiore, soprattutto quando veniva integrata con nuove disposizioni; così

facendo il potere centrale controllava che tutto si svolgesse nel pieno rispetto della sua autorità e se

vi era soltanto il sospetto che la comunità cercasse di ottenere un vantaggio di posizione rispetto

all’autorità, questa poneva il veto.

1.2 L’organizzazione amministrativa della comunità

PREMESSA

Difficile, a causa delle molteplici sfaccettature rappresentate, riassumere in maniera schematica

l’organizzazione sulla quale si reggevano le antiche comunità di villaggio trentine; infatti il loro

apparato di governo, scelto su votazione o col sistema della rotazione, era spesso complesso e

appesantito dall'obiettivo di permettere ad un grande numero di soggetti. di parteciparvi.

Nonostante ciò qualche caratteristica o figura era comune in tutti i villaggi trentini. Vediamo quali:

1.2.1 L’assemblea

L’assemblea era la sede del potere deliberativo e si riuniva annualmente in un giorno stabilito

definito “regola maggiore”3 o “assemblea generale” per rinnovare l'apparato amministrativo e per

prendere altre risoluzioni determinanti per la vita della comunità (rinnovo degli statuti, rendiconto

annuale degli amministratori, vendita di beni comuni). Essa era formata da tutti i capi famiglia o

capifuoco, detti vicini, residenti nel villaggio con dimora stabile e costituiva il momento

partecipativo sul quale si fondava l'essenza della vita della regola. Ogni capofamiglia aveva

3 Accanto a questa esisteva anche una “Regola piccola”, convocata per qualsiasi altra ragione nel corso dell’anno. La riunione si teneva sempre all’aperto in un luogo centrale del paese, generalmente la piazza pubblica. L’invito era affidato al suono della campana o per mezzo di invito personale di casa in casa (praeconia voce).

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l’obbligo di partecipare all’assemblea della regola e questa partecipazione era una sorta di diritto-

dovere; le votazioni erano decise a maggioranza.

Vi era esclusa qualsiasi forma di partecipazione femminile, fatta eccezione per le vedove.

Per quanto riguarda l'ordinaria amministrazione era solitamente affidata a una sorta di consiglio

costituito dagli ufficiali posti ai vertici del governo regoliero.

Le carte di regola, scarse di informazioni per quanto riguarda l’attività delle assemblee almeno fino

al XVI secolo, a partire dal secolo successivo si modificano: divengono più ampie, più dettagliate

per regolamentare nuovi aspetti della vita sociale: ecco che quindi veniamo a conoscenza della

sempre più crescente tendenza ad eliminare il sistema tradizionale della rotazione delle cariche tra

vicini, con una forte limitazione dello spazio decisionale tradizionalmente riservato alle assemblee

generali dei capifamiglia, delegando sempre più materie a degli organi più ristretti.4

Rimane comunque un dato di fatto: al tanto interesse per carte di regola si contrappone la scarsa

ricerca per i verbali delle assemblee che, come afferma Cecilia Nubola, potrebbero sopperire a

diverse problematiche: la prima consiste nel capire quali norme e pratiche consuetudinarie non

siano state inserite all’interno della carta di regola; la seconda di ridurre i problemi di

interpretazione delle carte di regola, ponendole a confronto con le altre realtà statutarie trentine

come ad esempio gli statuti cittadini. Come però riconosce la stessa studiosa la carenza di studi

approfonditi in questo campo è dovuta al fatto che il corpus che si presenta davanti a noi non è

omogeneo dato che è disperso negli archivi comunali senza adeguata catalogazione.5

1.2.2 Il regolano

La figura del regolano rappresentava il vertice della comunità: innanzitutto presiedeva l’assemblea

eppoi deteneva un potere di organizzazione e controllo; potere di organizzazione poiché era giudice

in prima istanza per le infrazioni previste nella carta di regola (al secondo grado di giudizio si

trovava la figura dell’autorità dinastiale mentre come ultimo grado troviamo l’autorità principesca);

potere di controllo in quanto doveva supervisionare l’operato degli altri funzionari comunali,

riscuotere le multe per eventuali trasgressioni alle norme della regola, controllare la riscossione di

steore o collette. Essendo la carica più alta rispondeva direttamente alla comunità per il rendiconto

di tutte le attività svolte. La sua nomina avveniva nella maggior parte dei casi all’interno della

4 C. Nubola, Comunità rurali del Principato vescovile di Trento. Carte di Regola e diritti di vicinia (secoli XVI - XVIII), in Archivio storico ticinese, n. 132, 2002, pp. 221-222. 5 Ibidem, p. 222

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comunità stessa in cui viveva, tranne nel caso della presenza di un regolano maggiore, era anticipata

da un giuramento nel quale affermava di adempiere il suo dovere senza parzialità e con lo sguardo

rivolto all’interesse esclusivo del comune. Il titolo di regolanato maggiore era rilasciato a titolo di

feudo sia dai principi vescovi che dai conti del Tirolo ed era detenuto da alcune famiglie di

prestigio, come nel caso di Mezzolombardo con i Conti Spaur.

Il diritto di regolanato maggiore, in origine detenuto dal vescovo e poi spesso ceduto in feudo alla

nobiltà, permetteva a coloro che ne erano investiti un controllo diretto anche nella sfera economica

delle comunità (presiedendo le riunioni di regola ed esercitando in appello la potestà giudiziaria

rispetto alle sentenze pronunciate dai regolani delle ville).

Questo diritto poteva esercitarsi sia su un piccolo territorio sia su una giurisdizione signorile più

ampia: i regolani maggiori potevano intervenire ed interferire nelle attività economiche esercitate

dalla comunità, imponendo proprie condizioni, decidendo in materia di giustizia, di salari, di danni

di campagna e raccogliendo almeno 1/3 del ricavato delle multe raccolte.6 I reati per i quali

venivano comminate queste sanzioni pecuniarie erano generalmente riferiti a furti o danneggiamenti

di fondi agricoli sia in valle sia sui monti, a testimonianza di una vita che all’epoca era tutt’altro che

semplice, sempre alla perenne ricerca di un piccolo benessere. Le sanzioni erano sempre e soltanto

pecuniarie e maggiorate se il crimine commesso veniva esercitato durante le ore notturne; di questa

consuetudine ignoriamo le cause, anche se è molto probabile come afferma Nequirito che tutto ciò

accada in quanto “ne veniva evidenziata l’intenzionalità ed in secondo luogo perché di notte era più

difficile esercitare un controllo efficiente”.7 Potevano inoltre presiedere le riunioni di regola ed

esercitare in appello la potestà giudiziaria rispetto alle sentenze pronunciate dai regolani delle ville.

1.2.3 Il sindaco o massaro

Il sindaco o massaro veniva eletto dai vicini ma doveva giurare direttamente al regolano presso il

quale lavorava coadiuvandolo nelle sue funzioni; restava in carica un anno, con la possibilità di

riconferma, e governava i beni della comunità, curandone gli interessi giuridici anche nei confronti

dei paesi vicini e dell’ autorità superiore. Al termine del suo mandato ne doveva rendere conto al

regolano.

I sindaci inoltre svolgevano funzioni di terminatori e confinadori, con il compito di delimitare i

possessi e i confini del territorio comunale.8 Per avere il diritto di esercitare questa carica era

richiesto un grado di istruzione elevato.

6 M. Nequirito, Le carte di regola delle comunità trentine: introduzione storica e repertorio bibliografico, p. 26. 7 Ibidem, cit., p. 21. 8 E. Capuzzo, Carta di regola e usi civici nel Trentino, cit., p. 384

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1.2.4 Il saltaro

Altra figura molto importante all’interno della comunità era quella del saltaro: infatti la carica di

saltaro era presente già dall’epoca romana, trovando riscontro anche nel diritto longobardo.

Avevano anch’essi carica annuale, giuravano al regolano e ai soprastanti e potevano dividersi in

saltari dei campi e saltari dei boschi.

Per la custodia dei vigneti, soprattutto nel periodo della vendemmia, veniva quasi sempre nominato

un saltaro supplementare che aveva appunto il compito di sorvegliarla.9 Sotto pena della

responsabilità personale dovevano segnalare agli amministratori della comunità i colpevoli ed i

danni arrecati. Forse però la funzione per la quale vengono ricordati maggiormente è quella di

comunicare ai vicini il giorno e l’ora delle riunioni dell’assemblea di regola: i saltari dovevano

passare di casa in casa (de fogo in fogo) per darne notizia. Ricevevano uno stipendio in natura

costituito da una misura di segala o di orzo regalato da ogni fuoco più un terzo dei ricavi delle

multe.10

1.2.5 Altre figure: giurati, stimatori, soprastanti, cavalieri del comune

I giurati erano nominati quasi sempre accanto al regolano con compiti di organizzazione e controllo

di ogni settore economico della comunità e di tutela dei diritti della stessa comunità. Troviamo poi

le figure degli stimadori, che generalmente lavoravano in coppia ed avevano il compito di

controllare che nei boschi ed in montagna non vi fossero danni; qualora ne riscontrassero dovevano

valutarne la gravità; infine venivano i soprastanti, i quali esercitavano una funzione di controllo su

alcuni aspetti specifici della vita e dell’amministrazione del villaggio come ad esempio per le acque,

gli incendi, e tutti i generi alimentari che dovevano servire per sfamare la popolazione.

Infine in qualche carta di regola, come nell’esempio di Isera, si fa menzione del cosiddetto

Cavaliere del comune, il quale esercita la funzione di controllo dei pesi e delle misure.

9 M. Nequirito, Le carte di regola delle comunità trentine: introduzione storica e repertorio bibliografico, p. 15 10 S. Avi, Le carte di regola del Trentino con speciale riguardo a quelle della Valsugana, p. 110

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1.3 L’organizzazione territoriale della comunità

1.3.1 I poderi

Il villaggio era la cellula insediativa fondamentale del mondo rurale. La popolazione contadina che

lo abitava disponeva di piccoli appezzamenti, i poderi, che costituivano il mezzo più adatto per

elevare la produttività di un territorio magari scarsamente fertile: erano formati da campi di

dimensioni alquanto modeste non molto distanti dal villaggio. Potevano contenere al loro interno

coltivazioni quali vigne, piante da frutto (meli, peri, ciliegi), campi arati seminati a cereali, come il

frumento, la segala, l’orzo, l’avena, prati da sfalcio che dovevano garantire il foraggio per la

stagione invernale.11

I cereali rimasero la coltivazione principale almeno fino al Settecento quando, con la

specializzazione della produzione agricola, si affermarono anche altre attività come la

gelsibachicoltura e la coltivazione della vite; tutto ciò accadde non soltanto perché queste due

ultime attività risentirono meno di vincoli feudali ma anche perchè aumentarono le richieste di vino

e si sviluppò una maggior attenzione per l’agronomia.

I poderi erano separati da siepi, staccionate, muretti che durante la stagione della semina, quasi

sempre dalla festività di S. Maria del 25 marzo, dovevano essere utilizzati ed attraversati dal solo

proprietario, mentre nella stagione improduttiva, nel quale i campi erano disregolati, rimanevano

aperti per permetterne altri usi da parte di tutta la comunità.

1.3.2 Il bosco

Il bosco, patrimonio comune nelle carte di regola, tradizionalmente per la nostra regione

rappresentava uno degli aspetti più importanti e al tempo stesso suggestivi. Non abbiamo dati certi

sulla percentuale di copertura boschiva durante l’età medievale e moderna, anche se possiamo

supporre che fosse una cifra piuttosto alta.12 Le carte di regola in merito al bosco ci aiutano a

definire con più precisione quale fosse la distribuzione dei vari tipi di piante: le conifere o

aghifoglie erano utilizzate per ricavarvi il legname e formavano quello che viene definito “bosco

nero”, situato nella fascia altimetrica superiore di una montagna. Su questo bosco nero si

concentrava il maggior interesse della comunità in quanto costituito dalle piante più pregiate.

11 M. Nequirito, A norma di regola: le comunità di villaggio trentine dal medioevo alla fine del ‘700, p. 16. 12 Secondo una statistica del 1900 effettuata dal Consilio provinciale d’agricoltura sezione di Trento l’area boschiva si espandeva per il 47% del territorio provinciale. F. Giacomoni, Comunia et divisa: l’organizzazione dei prati pascoli e l’ordinamento forestale della montagna trentina dal XIV al XVIII secolo, p. 118

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Più in basso, prossime al villaggio, si potevano trovare le latifoglie, utilizzate in particolare per il

riscaldamento della casa. E’ quello che si definisce “bosco di casa”.13

L’importanza della legna per un paese era tale che nessun forestiero poteva introdursi nel bosco del

paese per tagliarla senza l’autorizzazione dell’autorità competente, e questa era una regola che

valeva anche per gli abitanti del villaggio.14

La parte di bosco delimitata e vietata veniva chiamata gaggio o gazzo (dalla voce longobarda

Gahagium che significa “bosco bandito”), mentre l’operazione che provvede alla definizione del

territorio nel quale si volevano imporre dei divieti era chiamata regolar o ingazar.15

1.3.3 Il pascolo

I pascoli, come il bosco, rappresentavano gran parte del patrimonio comune; posti a varie altitudini,

il loro utilizzo variava in base alle stagioni. La loro funzione primaria, che si protraeva per tutto il

periodo estivo, rimaneva comunque quella di luogo adibito alla pasturazione degli animali. Le carte

di regola definiscono anche i compiti del pastore comunale che ricopriva un ruolo fondamentale per

la salvaguardia del bestiame e per la prevenzione dei danni che quest’ultimo può arrecare nei luoghi

in cui passa.

I pascoli venivano esercitati nei prati del fondovalle durante la stagione autunnale, che nella

maggior parte delle regole partiva dal giorno di San Michele Arcangelo ovvero il 29 settembre,

mentre nel periodo che coincideva con lo scioglimento delle nevi e l’inizio della bella stagione, che

tradizionalmente decorreva dalle festività in onore di San Giorgio il 23 aprile, gli armenti e le

greggi salivano all’alpeggio. Sempre durante il periodo estivo la comunità provvedeva ad allestire la

malga comune. Le malghe nelle regole venivano anche definite con il termine di monte e

consistevano in una distesa nei pascoli posizionati al di sopra dei prati e ai limiti del bosco, dove si

faceva pascolare il gregge per tutto il periodo estivo.

La malga era strutturata in diverse zone, ognuna con un compito ben preciso:

13 Così ci presenta la suddivisione del bosco il testo di Mauro Nequirito A norma di regola: le comunità di villaggio trentine dal medioevo alla fine del ‘700, p. 16. Per una suddivisione più approfondita è utile consultare il saggio di F. Giacomoni, Comunia et divisa: l’organizzazione dei prati pascoli e l’ordinamento forestale della montagna trentina dal XIV al XVIII secolo, p. 133. 14 Le pianta abbattute potevano essere usate solamente in paese e non era possibile la vendita ai forestieri: per chi accendeva un fuoco nel bosco era prevista una multa che ben superava l’equivalente del danno cagionato. Le sorti annuali per ogni fuoco, residente nel comune da almeno sei mesi, erano assegnate dal regolano; qualora una famiglia non aveva bisogno del legname ad essa assegnato poteva venderlo ai vicini che ne esercitavano un diritto di prelazione. Solamente se anche quest’ultimi non erano interessati alla parte allora il carico di legname poteva essere ceduto ai forestieri. S. Avi, Le carte di regola del Trentino con speciale riguardo a quelle della Valsugana, pp. 113-114 15 F. Giacomoni, Comunia et divisa: l’organizzazione dei prati pascoli e l’ordinamento forestale della montagna trentina dal XIV al XVIII secolo, pp. 125-126

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� “Casina”: offre il riparo agli uomini e funge anche da magazzino per la conservazione degli

attrezzi utili durante la lavorazione del latte

� “Casara”: luogo adibito alla lavorazione del latte.

� “Barco” o “tresso”: semplice recinto posto accanto alla casara che funge da riparo per gli

animali.

Veniva governata da una persona chiamata console di malga o regolano di malga, che doveva

affrontare un compito certamente non semplice: quello di provvedere alla piena funzionalità della

malga, anche grazia all’aiuto di vari collaboratori (pastore, casaro).16

1.4 La geografia territoriale trentina tra XIV e XV secolo

E’ opinione diffusa che la comunità rurale sia uno spazio chiuso, ma all’interno del panorama

storiografico italiano c’è chi dissente da questa idea: uno di questi, Pier Paolo Viazzo, si è sempre

discostato da tutto ciò affermando che sul piano demografico, economico, giuridico gli scambi e le

interazioni con l’esterno anche di comunità all’apparenza molto isolate erano piuttosto frequenti.17

Sempre negli stessi anni Peter Blickle ci parla di Kommunalismus per indicare il ruolo delle

comunità rurali ed urbane: con questo termine si può infatti definire un modello organizzativo,

politico e culturale vero e proprio che, seppur diverso e separato, è strettamente collegato sul piano

della realtà storico-sociale rispetto al feudalesimo e allo stato regionale. E’ insomma un modello

comune in tutta Europa, seppur con differenze provenienti dal basso.18 Queste tesi si sviluppano

dopo che approfonditi studi di natura etnografica sulle campagne europee hanno sancito

l’abbandono della teoria secondo cui la comunità contadina è l’organismo di base della società

rurale. Mancano infatti sia di unità giuridica che di compattezza territoriale; questo accade in quanto

si riscontrano in prevalenza degli “insediamenti di contrada” che, organizzati per lignaggi e

parentele, posseggono al loro interno delle differenze soprattutto quando esaminiamo la ricchezza e

di conseguenza il livello patrimoniale. Inoltre la comunità rurale non è omogenea e solidale da un

punto di vista culturale anche perché si assiste ad un continuo scontro al suo interno per il possesso

delle risorse e del potere.

Questo discorso ad un’interpretazione semplicistica può essere trasposto sulla realtà trentina

soprattutto se consideriamo sia l’ambiente povero di risorse sia il rapporto fra realtà periferiche e 16 F. Giacomoni, Comunia et divisa: l’ organizzazione dei prati pascoli e l’ ordinamento forestale della montagna trentina dal XIV al XVIII secolo, pp. 113-115. 17 M. Bonazza, Gli orizzonti di una comunità: spazi giurisdizionali e relazioni esterne di Volano in antico regime in Volano storia di una comunità / a cura di Roberto Adami, Marcello Bonazza, Gian Maria Varanini, p. 286 18 Ibidem, p. 287

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potere centrale ma nella realtà dei fatti non è così in quanto sono omogenee e solidali, accentrate dal

punto di vista residenziale e soggette ad un’economia signorile. Per Varanini la spiegazione di tutto

ciò risulta di facile interpretazione se si considera che tra XIII e XIV secolo vengono create le

parrocchie, cellule fondamentali che favoriscono questi processi.19

La nostra regione inoltre viveva in una situazione politico-territoriale piuttosto complessa: infatti

non tutti i territori appartenevano al vescovo di Trento, visto che ne erano ne escluse la Val di Fassa

(vescovo di Bressanone) e la Valsugana, con quest’ultima alle dipendenze della diocesi feltrina.20

Alcune zone del territorio trentino, nel corso del Trecento, erano passate al conte del Tirolo e poi

alla casa d'Austria (in Val d'Adige a nord di Trento, in Val di Non, in Val di Cembra, in Val di

Fiemme, in alta Valsugana, in Vallagarina, verso il lago di Garda), altre non appartennero mai al

vescovo di Trento (il Primiero, la bassa Valsugana e la Val di Fassa). Questo avvenne soprattutto

perché i conti del Tirolo, seppur in pari grado con i principi di Trento e Bressanone, seppero

approfittare della debolezza a livello militare dei due principati per arrogarsi nuovi diritti e

possedimenti. Ecco spiegato il motivo per cui gli Asburgo, famiglia subentrata alla vecchia linea

tirolese, che ebbe in Mainardo III l’ultimo esponente, riuscì tramite la stipulazione con il vescovo di

Trento Alberto di Ortenbrurg (1363-1390) delle “compattate”, ad arrogarsi il diritto di presidio delle

città e dei castelli di tutto il territorio trentino-tirolese; ottennero inoltre una revisione della politica

estera ed interna e la presenza di un capitano che svolgeva le funzioni di alto commissario ducale.

E’ a partire dalla firma di questo accordo che il principato di Trento divenne protettorato tirolese,

con il conte del Tirolo che assumeva un ruolo preminente sia da un punto di vista politico

(Landesfurst) sia da quello militare (Kriegsunternehmer) La situazione comunque rimase molto tesa

poiché i vescovi, in particolare quello di Bressanone, non volevano riconoscere l’accordo; solo nel

1455, con l’intervento papale di Callisto III si raggiunse un accordo fra le parti: Sigismondo

d’Asburgo restituì i diritti sul convento di Sonnenburg mentre il vescovo di Bressanone, Niccolò

Cusano riconosceva allo stesso Sigismondo il diritto di “avvocazia”. L’accordo però ben presto

risultò incompatibile con gli interessi di entrambe le parti e la questione proseguì fra continui

capovolgimenti fino al 1484 quando una dichiarazione comune di Georg Golser e Johannes

Hinderbach ribadì di non riconoscere nessun’altra dipendenza eccetto quella dell’impero, di cui

erano sudditi e della Santa Sede. Amministrativamente il territorio trentino era governato in parte

direttamente dal principe vescovo (in particolare le Valli Giudicarie e la gran parte delle Valli di

19 G. M. Varanini, Dinamiche sociali, politiche di villaggio. Volano nel tardo medioevo e nella prima età moderna in Volano storia di una comunità / a cura di Roberto Adami, Marcello Bonazza, Gian Maria Varanini, pp. 343-344 20 Soltanto il giorno di Pasqua del 1786 (16 aprile) le parrocchie di Borgo Valsugana, Castelnuovo, Grigno, Levico, Masi di Novaledo, Pieve Tesino, Primiero, Canal San Bovo, Roncegno, Strigno, Telve, Torcegno passano a tutti gli effetti dalla giurisdizione spirituale di Feltre a quella di Trento.

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Non e Sole); per un'altra parte da famiglie nobili vassalle dello stesso; la pretura di Trento

(vescovile) dal magistrato consolare; una parte da famiglie nobili vassalle del conte del Tirolo (è il

caso della bassa Valsugana); la pretura di Rovereto (tirolese) da provveditori; la Val di Fassa dal

principe vescovo di Bressanone.

I territori retti dal principe vescovo di Trento erano suddivisi in gastaldie, scarie e deganie, sotto la

supervisione di un vicedomino; tutto ciò rimase in vita senza particolari modifiche fino alla fine

dell'antico regime. Le figure più diffuse sul territorio, oltre ad assessori, commissari, massari, dotate

di competenze amministrative e giudiziarie erano i vicari (giudici in prima istanza) e i capitani (a

volte detti luogotenenti - giudici in seconda istanza). Le unità amministrative distribuite sul

territorio erano le giudicature o giurisdizioni, rette come già detto da capitani, vicari o altri ufficiali.

Si definivano inoltre patrimoniali quelle giurisdizioni che il vescovo concedeva in amministrazione

a terzi.

All’interno del principato vescovile l’organizzazione era molto chiara e definita: al vertice stava

ovviamente il principe vescovo che costituiva la massima autorità sia da un punto di vista politico

che religioso. Esistevano poi un capitolo della cattedrale, che aveva il compito di eleggere il

vescovo ma era in possesso anche di competenze in ambito civile21 ed un consiglio aulico che

svolgeva il ruolo di governo del principato ed aveva inoltre funzione di tribunale supremo in tutte le

cause civili e criminali. Esso era presieduto dal principe vescovo. Vi facevano parte: il decano del

Capitolo del Duomo di Trento, tre canonici consiglieri aulici, il capitano della città di Trento,

quattro consiglieri aulici laici, il cancelliere e il vice cancelliere aulico, alcuni segretari e un copista.

Oltre a questi esistevano nei luoghi del principato dipendenti direttamente dal vescovo organi

propri, preposti all'amministrazione economica, politica e giudiziaria del proprio ambito territoriale.

1.5 Vicini e forestieri

Tutto l’impianto delle carte di regola si fonda sul concetto giuridico di vicinia, ovvero di un

organismo istituzionale basato su vincoli di solidarietà e coesione che scaturiscono da condizioni ed

esigenze economiche comuni. Infatti, il cuore delle carte di regola esprime innanzitutto la

consapevolezza di avere dei beni che veramente appartengono a tutti e che per questo devono essere

difesi con delle norme. Questa uguaglianza e questo usufrutto dei beni collettivi hanno come finalità

la gestione del patrimonio comune e l’assicurazione di un buon andamento generale grazie alla

convivenza pacifica e disciplinata.

21 E. Curzel, I canonici e il Capitolo della cattedrale di Trento dal XII al XV secolo

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Quando affrontiamo il tema delle comunità e di conseguenza delle carte di regola che ne

disciplinavano la vita non possiamo non porre l’accento su un rapporto, il più delle volte

conflittuale, tra due categorie: quella dei vicini e quella dei forestieri. Se infatti i vicini, come poi

vedremo meglio in seguito, avevano voce in capitolo all’interno della comunità, determinandone la

linea politica ed amministrativa, i forestieri ne erano esclusi, considerato che tra l’altro non

potevano partecipare alle assemblee della regola ed assumere cariche amministrative.

Il termine “vicini”, dal latino vicus (villaggio) indicava tutti gli homines qui tenent focum et locum

in dicta villa cioè tutte quelle persone che in una determinata comunità erano possessori di una

dimora fissa e titolari del fuoco.22

Il fuoco, o nella forma dialettale foco, stava ad indicare come ben spiegato da Ivone Cacciavillani

“la cellula operativa di base della singola comunità, destinatario delle obbligazioni e avente titolo e

diritto al riparto dei proventi della gestione comune” e ancora “il complesso di persone legate da

vincoli di parentela e conviventi in comunione familiare”.23

Da ciò si evince come l’avere un’abitazione nella quale ogni qualvolta ve ne fosse stato bisogno si

accendeva un fuoco risultasse una condizione imprescindibile per poter essere definiti dei vicini.

Ma il termine “fuoco”, soprattutto a cavallo dei secoli XIII-XIV poteva avere anche un’altra

accezione che rientra in un ambito squisitamente amministrativo-fiscale: infatti indicava quella che

Giacomoni definisce “unità contributiva censita negli estimi ed urbari del dominus (signore

territoriale), titolare del diritto di colta”.24 Nel XV secolo inoltre si assiste ad un ulteriore passo in

avanti con l’introduzione di due definizioni specifiche per distinguere gli ormai due modi di

interpretazione della parola fuoco: “fuoco fumante”, che si riferisce all’ambito demografico, e

“fuoco descritto”, collegabile ad una valutazione di natura anagrafico-fiscale.

La vicinia aveva come peculiarità quella dell’autogoverno, dell’essere chiusa nei confronti delle

altre comunità limitrofe e di avere al suo interno una coesione forte soprattutto quando si doveva

provvedere all’amministrazione dei beni collettivi. A supporto di questa compattezza va ricordato

anche che il diritto di vicinia veniva tramandato soltanto all’interno della famiglia, di padre in

figlio, quindi solo dai legittimi discendenti maschi, senza la possibilità di una sua trasmissione in

linea femminile.

Ritornando all’esercizio e all’usufrutto dei beni della collettività è di fondamentale importanza

comprendere che nessuna famiglia poteva trarre i propri mezzi di sostentamento unicamente dai

22 F. Giacomoni – M. Stenico, Vicini et forenses: la figura del forestiero nelle comunità di antico regime, p. 29. 23 I. Cacciavillani, La proprietà collettiva nella montagna veneta sotto la Serenissima, cit., p. 64 ripresa da F. Giacomoni – M. Stenico, Vicini et forenses, p 19 24 F. Giacomoni – M. Stenico, Vicini et forenses, cit., p. 31

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beni che le appartenevano e per questo si ricercavano quelle che Giacomoni definisce “coesione del

gruppo” e “solidarietà sociale”.25

Ora dopo aver definito la figura del vicino ci concentriamo su quella del forestiero. Essere forestieri

significava rivestire all’interno di una comunità un ruolo di secondo piano, marginale: basti pensare

che nel caso di Caldonazzo ai vicini spettava una sorta di diritto di superiorità per quanto riguarda

l’acquisto di immobili edificati sul territorio della suddetta comunità.26

Ma la limitazione più importante consisteva nel non poter partecipare all’assemblea della regola,

cosa che veniva ribadita in molte carte di regola, come nel caso di quella di Strigno che alla

questione dedicava l’articolo 3:

“ Item vogliamo che niun forastiero habbi ardire di venir alla regula, et se venirà sii licito al

regolano scaciarlo dalla detta regola, et se sarà pertinace volendo esser presente, sii denuntiato al

vicario della violenza”.27

Dalla carta di regola di Samone (articolo 12) riportiamo invece un esempio che mostra come il

forestiero incontrasse molti limiti nell’esercizio delle attività economiche, in questo caso la raccolta

delle castagne sul territorio comunale:

“Item han statuido et ordenado che se si ritroverà alcuno forastiero et non vesino della communità

de Samon coglier, batter over scorlar castagne nella regola et Castegné de Samon, perdi de pegno

lire 5 per uno et per ogni volta, et perdi le castagne; volendo et ordinando ch’ogni vicino degno di

fede, ancor che non sia saltaro, possi far pegno a detti forastieri, denontiando però il pegno fatto al

regolan, con suo giuramento”.28

Questo astio nei confronti dei forestieri risulta comprensibile soltanto se lo poniamo nel contesto

storico dell’epoca: le condizioni di vita disagiate, la povertà imperante nella quasi totalità delle

famiglie, determinavano un atteggiamento definibile come discriminatorio verso queste persone

esterne. Esso era più che altro una forma di difesa per evitare uno sperpero e la conseguente

25 Ibidem, p. 22. Nell’Ottocento poi così lo storico Baldassare Pellizzaro spiegava la nascita ed il concetto di vicinia: “L’istituzione vicinale data dai tempi feudali nel medioevo. In quell’epoca, in cui la sicurezza pubblica era quasi nulla e le terre appartenevano per alta sovranità ai signorotti dei castelli, era naturale che le popolazioni cercassero stare unite per difesa comune e comperassero suolo e privilegi per campar la vita. L’unione delle famiglie formava la cosiddetta «università»: le famiglie stanziando propinque le une alle altre si dicevano reciprocamente vicine”; ma lo stare uniti per comune difesa è secondo la sua opinione una causa secondaria: fondamentale sarebbe stato invece il fatto che, essendo le singole famiglie troppo povere per acquistare i mezzi necessari al loro sostentamento, vi avevano provveduto collettivamente”. B. Pellizzaro, Pieve Tesino e la sua vicinia, cit., pp. 53-54. 26 M. Nequirito, Le carte di regola delle comunità trentine, p. 20. 27 R. Giampiccolo, Carta di regola del XVI secolo di Strigno, Bieno, Samone, 2001, p. 34. 28 Ibidem, pp. 79-80.

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dispersione delle poche risorse di cui poteva usufruire il villaggio. Va detto che non dobbiamo

considerare la parola forestiero come un’unica definizione generica, visto che al proprio interno il

termine contiene numerose sfaccettature che ora analizzeremo. Ad esempio il termine camerlengo,

soprattutto nelle fonti e nelle carte di regola della Val di Non e delle zone limitrofe alla città di

Trento come Pergine, Meano, Gardolo designava un individuo, non necessariamente forestiero,

abitante del villaggio ma privo di possessioni e quindi trattato come un forestiero soprattutto per

quanto riguarda l’ambito fiscale. Il casalino invece era un forestiero nel vero senso della parola,

anche se al contempo possedeva come unico bene un’abitazione acquistata o acquisita sul territorio

nel quale la regola esercitava il suo potere. Nel caso della carta di regola di Grigno i tempi che

correvano dall’arrivo sul nuovo territorio all’acquisizione della residenza erano davvero brevi (tre

giorni), come appunto specificava il capitolo 66 del testo:

“Che cadauno forestiero che habita nella regola di Grigno ogn’anno debba restar d’accordo col

regolano et huomini di detta communità; e non restando d’accordo, in termine di giorni tre debba

partirsi fuora di detta regola: sotto la pena soprascritta, d’esserli tolta et applicata come sopra”.29

Gli extranei invece erano il gruppo di forestieri più numeroso e quello maggiormente dissociato

dalla vita della comunità visto che non potevano vantare ed esercitare il minimo diritto ma

sottostare in maniera assoluta ai dettami delle leggi comunitarie.

Appartenevano ad altra categoria i cosiddetti forestieri di passaggio, cioè tutti quelli che durante la

stagione della transumanza delle mandrie o dei greggi si spostavano di villaggio in villaggio con i

loro animali. Questo poteva creare seri problemi in quanto gli animali, soprattutto se presenti in

numero massiccio, rischiavano di danneggiare le colture: ecco perché in numerose carte di regola si

limitava il passaggio in determinate zone per alcuni periodi dell’anno (generalmente tra l’inizio

della primavera e l’autunno inoltrato), come nel caso della regola di Bieno:

“Che la campagna, cioè li campi solamente, exceptuando li pradi, dalla via che va in Thesin et

seguitando drio el boscho et venire in sora, et descendendo per la strada che va a Strigno per fina

alle confine del maso di Barezoti, et seguitando drio el boscho da Riba Morta et seguitando fino

al’Albara et da lì descendendo fina al campo de Iacomo di Peni, sotto Nare, et venendo alla via che

va alla Gesia et seguita alli piedi dalli Pradi over Rigoni in suso per fina al campo delli heredi de

29 Carte di regola e statuti delle comunità rurali trentine, Volume II: dalla seconda metà del ‘500 alla fine dell’età dei Madruzzo, a cura di Fabio Giacomoni, p. 263

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Zanmaria Busarello, et seguitando li campi fina in cavo el muro de Batista dell’Orsola, siano

regoladi da santa Maria de marzo per fina a Ogni Santi”.30

Non è detto che i forestieri rimanessero tali per sempre: tramite una riunione straordinaria

dell’assemblea potevano accedere alla comunità purché rispondessero a determinate caratteristiche:

permanenza di svariati anni all’interno del villaggio, possessione di proprietà che ne attestassero

l’integrazione non soltanto sociale ma anche economica, trasparenza di fronte la legge. Se la

domanda veniva accolta il nuovo vicino per sentirsi effettivamente e a tutti gli effetti parte

integrante della comunità doveva compiere un ulteriore passo: chiedere la conferma al principe

vescovo o, in sostituzione di quest’ultimo, al delegato di valle che lo rappresentava. Accanto a tutto

ciò però esisteva un’altra possibilità: il forestiero inviava direttamente una supplica di richiesta al

principe vescovo e, nel caso di una sua risposta affermativa, era l’assemblea dei vicini che doveva

ratificare o annullare la decisione del principe vescovo.31 Certo è che assumere il titolo di vicino era

molto oneroso: in Valsugana ad esempio a Pergine nel 1693 si dovevano versare 10 ragnesi a troni

4.5, a Roncegno, nel 1631, 25 ragnesi, a Scurelle (1638) addirittura il pegno era di dieci volte

superiore, mentre a Telve di Sotto raggiungeva i 14 ducati ed i 20 ragnesi.

1.6 La fine dell’attività regoliera

Tutta la storiografia concorda nel affermare che durante il Settecento le carte di regola iniziano il

loro declino.

Già verso la fine del Cinquecento però il principato vescovile di Trento aveva cercato, tramite

l’emanazione e la promulgazione della Moderatio Betta,32 di limitare i poteri e le competenze delle

regole delle valli ad esso sottoposte.

E’ però nel Settecento che, grazie alla spinta propulsiva esercitata dalle riforme dei vari sovrani

illuminati (Maria Teresa ed il figlio Giuseppe in Austria e Federico in Prussia), si comprende la

totale arretratezza ed inadeguatezza del sistema regoliero. Le regole, così come sono sopravvissute

in tutti quei secoli, si rivelano un ostacolo per il sempre maggiore controllo esercitato dall’autorità

sovrana e così vengono svilite in molte parti, ad esempio imponendo la necessità di un permesso

superiore per la convocazione dell’assemblea e tutta l’amministrazione periferica viene

30 Giampiccolo, op. cit., pp. 56. 31 C. Nubola, Comunità rurali del Principato vescovile di Trento. Carte di Regola e diritti di vicinia (secoli XVI - XVIII), in Archivio storico ticinese, n. 132, 2002, p. 229 32 Scritta da Francesco Betta, commissario generale per le valli di Non e Sole del principe vescovo di Trento Ludovico Madruzzo, venne emanata il 14 agosto 1586. In numerose carte di regola trentine (Sanzeno 1586) viene ripresa, il più delle volte comunque in maniera parziale.

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gradualmente sottomessa all’autorità statale (riduzione degli uffici comunali, ricerca di

amministratori capaci, organizzazione più precisa).

Un esempio di tutto ciò lo troviamo quando nel 1754 Maria Teresa istituisce in Tirolo degli Uffici

circolari (Kreisämter) i quali fissavano un maggior controllo da parte del Capitano di Circolo anche

nei confronti delle comunità.33 Nel 1783 sempre il governo austriaco stabilì che gli ufficiali

impiegati in affari giudiziari, che fino a quel momento potevano essere eletti dai membri della

comunità solamente se questi dimostravano di poter assoldare dei giudici adatti al compito loro

assegnato, dovevano essere riconosciuti come capaci dal tribunale superiore del paese attraverso il

superamento di un esame.34 Inoltre, attraverso un’ordinanza del 10 maggio 1787 dell'imperatore

Giuseppe II, le adunanze regoliere collettive nei feudi trentino-tirolesi furono sottoposte ad

autorizzazione dell'autorità superiore. Ma è nei primi anni dell’Ottocento che le carte di regola

perdono qualsiasi importanza: infatti dopo una nuova proibizione dell’impero asburgico nel 1805 (5

gennaio), nel 1807 sono abolite anche dal governo bavarese, che per qualche anno aveva preso il

posto dell’Austria nella dominazione del Tirolo, anche se in realtà rimarranno in vigore fino alla

metà del diciannovesimo secolo. C’è però da ricordare che non soltanto a livello centrale ma anche

nelle stesse comunità ormai a fine Settecento si assiste ad una disaffezione per le attività regoliere: è

il caso di Cles che nel 1771 si dota di un Nuovo sistema concernente il governo della magnifica

comunità nel quale si afferma che Saranno perpetuamente introdotte e proibite tutte le regole e

solite strepitose unioni del popolo, a riserva di una nel giorno di San Giorgio.35

Welber ritiene che tutto ciò sia dovuto dal fatto che esse risultano essere insostituibili almeno fino a

quando le forme e gli interessi della vita delle singole comunità non vengono assorbiti e diretti da

uno stato moderno e centralizzato che è appunto quello che abbiamo visto nascere prima con i

sovrani illuminati.36

33 Le nuove disposizioni del governo austriaco prevedevano che la maggior parte degli atti pubblici doveva essere costituita in protocollo. Ciò colse impreparate le autorità di villaggio che demandarono tutto ai Wirtschaftsämter, gli uffici per gli affari economici, che stavano presso i dinasti. Questi ultimi pensavano in questo modo di essere riusciti a scardinare le norme che permettevano ad una comunità di dirigere i propri affari economici ma ben presto i Wirtschaftsämter furono sottoposti al controllo dei Kreisämter, gli uffici circolari, escludendo così il dinasta dall’esercizio di funzioni che fino a quel punto gli appartenevano. M. Nequirito, Tutela e sfruttamento dell’ambiente nelle antiche regole del Trentino, p. 76 34 M. Nequirito, Tutela e sfruttamento dell’ambiente nelle antiche regole del Trentino, p. 77 35 M. Welber, Riflessioni in margine allo studio delle carte di regola del territorio tridentino, p. 99 36 M. Welber, op. Cit. p. 96

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21

1.7 Gli studi in merito alle carte di regola

L’ interesse per le carte di regola comincia quasi subito dopo la loro scomparsa e quindi nei primi

anni dell’Ottocento attraverso i lavori di Tommaso Gar (1808-1871), bibliografo, storico e letterato

che si concentra soprattutto sulla storia degli statuti di Riva e Rovereto;37 tutto ciò accade molto

probabilmente poiché emerge la necessità di costruire un concetto identitario attorno a un territorio

che fino alla fine dell’antico regime appariva frastagliato in molteplici entità, facenti capo a

superiorità diverse. Le carte di regola, riesumate dagli archivi e pubblicate nell’ambito degli sforzi

condotti per portare alla luce le fonti per la storia regionale, divennero in tal modo da un lato

testimonianza di un plurisecolare uso della lingua italiana nella regione, dall’altro attestazione di

una vocazione autonomistica delle genti locali che ormai reclamavano sempre con maggior vigore

l’idea di doversi staccare dalla dominazione austriaca per giungere ad una completa indipendenza.

Passata l’età della difesa delle caratteristiche nazionali sotto la monarchia asburgica, tra gli anni

Venti e Cinquanta del Novecento lo studio e la pubblicazione delle carte di regola, pur non

cessando del tutto, subì qualche flessione dovuta soprattutto al clima sfavorevole instaurato dal

fascismo rispetto a tutto quanto richiamasse ad autonomie e peculiarità locali, mentre

parallelamente, con la legge sugli usi civici del 1927, subivano una forte depressione i residui

istituti regolieri esistenti in Trentino, rimasti in vigore sotto la dominazione austriaca.

Per avere meglio l’idea delle pubblicazioni di lavori sulle carte di regola ritengo sia quanto mai

doveroso pubblicare la tabella che segue, tratta dal testo di Mauro Nequirito Le carte di regola delle

comunità trentine: introduzione storica e repertorio bibliografico.38

37 In Statuti della città di Rovereto (1425-1610) ed in Statuti della città di Riva (1724-1790) il Gar si occupa dell’introduzione in particolare fornendo delle notizie sull’organizzazione delle due comunità e dei loro statuti. Un altro dei primi studi sulle carte di regola, relativo comunque alle redazioni più antiche delle carte di regola dei villaggi tedeschi, è quello effettuato da Inama Sterness e Giuseppe Egger ed inserito all’interno dell’opera Die Tirolischen Weisthümer, scritta in quattro volumi tra il 1872 e il 1891. 38 Tabella Frequenza delle pubblicazioni sulle carte di regola dal 1851 al 1986, p. 41.

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22

1851

1861

2

1871 1881

1

1891

2

1901

2

1911 1921 1931 1941

1

1951

1

1961 1971 1981

4

1882

1

1922

1

1962

1

1972

2

1982

3

1883

1

1903

3

1963

2

1973

3

1983

2

1904

2

1974

3

1984

2

1885

2

1895

1

1935

1

1945

1

1955

1

1965

2

1985

6

1886

2

1896

1

1906

4

1926

3

1966

2

1976

2

1986

6

1887

1

1907

3

1927

1

1967

1

1977

6

1858

1

1898

1

1908

3

1968

1

1978

2

1859

1

1899

1

1929

1

1939

1

1969

1

1979

5

1890

1

1900

1

1910

3

1970

1

1980

3

2 2 9 7 20 6 2 2 2 11 26 23

Questo lavoro ovviamente è parziale, in quanto la pubblicazione di Nequirito avviene nel 1988 e

quindi vi sono oltre vent’anni di vuoto; è comunque confermato il continuo interesse per le carte di

regola anche ai giorni nostri, soprattutto nei paesi con un numero piuttosto esiguo di abitanti. Le

carte di regola sono anche un modo per intravedere i modi di vita della popolazione durante l’epoca

medievale e moderna, quali erano i loro usi e costumi, e capire i rapporti tra le persone. Anche per

questo è positivo che dopo un periodo in cui le carte di regola sono finite nel dimenticatoio ora

ricomincino ad essere studiate ed analizzate.

Forse il lavoro più completo che abbiamo a disposizione su questo mondo è certamente quello del

1991 di Fabio Giacomoni, che in tre volumi raccoglie e pubblica moltissimi testi di carte di regola

ed in qualche caso anche le integrazioni successive. Come descritto molto bene dal curatore

nell’introduzione del testo di questo lavoro "Regole e statuti consacrano e codificano consuetudini

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radicate nei secoli, spesso tramandate oralmente ed intimamente vissute dalla gente, nelle quali si

rivela l'esperienza accumulata nel corso dei secoli ed emerge la saggezza della gente di montagna;

ordinamenti e regolamentazioni di carattere essenzialmente agronomico ed economico che hanno

condizionato con i loro tempi, con la loro logica interna, lo svolgimento della vita sociale delle

comunità rurali e hanno contribuito a dare un'impronta precisa all'ambiente ed all'identità della

comunità trentina". Sono contenuti 190 documenti in ordine cronologico. Vediamo brevemente

come l’autore ha suddiviso questo lavoro:

• 71 documenti nel primo volume

• 53 nel secondo

• 66 nel terzo

Per la maggior parte quelli utilizzati da Giacomoni sono documenti inediti, anche se si tratta di

copie ricavate su originali perduti. Uno degli esempi che possiamo fare è quello della carta di regola

di Ospedaletto. Infatti quello proposto dal Giacomoni è solo un documento in copia semplice della

fine del XIX secolo eseguita da padre Maurizio Morizzo e raccolta nella biblioteca comunale di

Trento. L’originale non è stato trovato e possiamo ritenere che esso si trovasse tra le pergamene di

castel Ivano, giurisdizione tirolese, oppure presso l’archivio del comune di Ospedaletto, andato

distrutto durante il primo conflitto mondiale.39

Per quanto riguarda l’arco cronologico coperto dalla raccolta troviamo:

• 3 documenti del XIII secolo (il primo è la Regula comunitatis Civecani del 1202)

• 10 documenti del XIV secolo (da Daone 1307 a Scanna e Cassino 1389)

• 31 documenti del XV secolo (da Pinzolo 1401 a Romarzolo 1498)

• 55 documenti del XVI secolo (da Bono 1502 a Tres 1599)

• 34 documenti del XVII secolo (da Arsio-Brez 1603 a Ronzone 1700)

• 57 documenti del XVIII secolo (da Montes 1703 a Marano 1796)

• 1 documento del XIX secolo (Cornè – Brentonico 1807).

A prima vista sembrerebbe che l’opera di Giacomoni, vista l’ingente quantità di documenti, sia

completa di tutte le regole presenti nel Trentino dell’epoca; in realtà, prendendo in esame solamente

le regole della Bassa Valsugana, la raccolta omette di considerare quella di Strigno del 1540, quella

39 Carta di regola di Ospedaletto (1506) in Carte di regola e statuti delle comunità rurali trentine volume primo dal ‘200 alla metà del ‘500 a cura di F. Giacomoni, p. 343.

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di Bieno del 1567, quella di Samone del 1584 e quella di Scurelle del 1552.40. Al lavoro di

Giacomoni sono state riservati sia degli apprezzamenti sia delle critiche; una delle più importanti è

certamente quella di Gian Maria Varanini, pubblicata sulla rivista Storia e Regione nel 1992.

Varanini critica in prima istanza la sommarietà, a fronte di un lavoro così corposo, della nota

introduttiva premessa all’inizio di ciascun documento: altre considerazioni vengono poste sulla

ripubblicazione di materiale edito, sul fatto che di alcune carte di regola viene pubblicato non il

primo testo disponibile ma una redazione, sulla mancanza di chiarezza per quanto riguarda la natura

diplomatistica del documento: ma la critica più importante per quanto riguarda anche questo mio

lavoro di ricerca in merito alle carte di regola trentine viene posta sull’immobilismo e sull’idea di

considerare le comunità rurali trentine come entità a sé stanti, isolabili in un contesto che nulla a che

vedere con la realtà italiana in quanto detentrici “di un equilibrio in parte imposto dal determinismo

geografico dell’ambiente alpino”.41 Per Varanini questo è un errore davvero grave in quanto i

numerosi studi a livello nazionale, come nel caso del volume curato da I. Tocci Le comunità negli

stati italiani d’antico regime, si sono fatti promotori di una riconsiderazione e rivalutazione della

tematica delle fonti statutarie che avrebbe permesso agli storici o agli studiosi locali di ampliare i

propri orizzonti al di là del microcosmo comunitario.

1.8 La situazione all’esterno del Trentino

Dopo aver parlato della situazione trentina è utile anche volgere lo sguardo al di là dei confini locali

e porre l’attenzione sui rapporti fra città e comunità in altre zone dell’Italia centro-settentrionale. Da

uno sguardo anche molto sommario su altre realtà limitrofe emerge la specificità trentina.

Studi approfonditi ed interessanti sono stati promossi in particolare da Giorgio Chittolini, il quale a

partire dagli anni ’70, per poi proseguire lungo tutti gli anni ’80 e ’90, si è impegnato nel mettere in

luce la complessità dei rapporti fra i vari signori con le comunità rurali. Partendo dai testi Il luogo di

Mercato, il comune di Parma e i marchesi Pallavicini di Pellegrino (1973) e da La “signoria” degli

Anguissola su Riva, Grazzano e Montesanto fra Tre e Quattrocento (1974) Chittolini dimostrò a

tutta la storiografia dell’epoca che si poteva uscire dallo schema città /contado fino ad allora

adottato e derivante dal modello fiorentino.42

40 Per quanto riguarda la carta di regola di Scurelle può essere utile consultare per conoscerne i contenuti i testi di A. Zieger, Vicende e carta di regola di Scurelle, di G Suster, La Regola di Scurelle (1552), mentre per le regole di Strigno, Bieno e Samone può rappresentare un buono strumento di lettura il testo di R. Giampiccolo, Carte di regola del XVI secolo di Strigno, Bieno e Samone, Scurelle 41 Geschichte und Region / Storia e regione – 1992 / n. 2, p. 155 42 Poteri signorili e feudali nelle campagne dell’Italia settentrionale fra Tre e Quattrocento: fondamenti di legittimità e forme di esercizio, a cura di F. Cenarle, G. Chittolini, G. M. Varanini, p. 250.

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Primo punto da mettere in luce è il fatto che nelle zone settentrionali d’Italia, in particolare in

Veneto (Vicenza, Treviso, Padova) troviamo uno scontro fra l’idea dei comuni di proseguire, anche

grazie alla ripresa urbana, nella definizione di un’autonomia maggiore rispetto all’autorità dei

principi territoriali; la richiesta di maggior autodeterminazione deriva dal fatto che questi signori,

non solo nelle città considerate sopra, ma anche in altri centri del Veneto, risultano incapaci di

detenere un potere così grande da riuscire ad estendere il loro controllo territoriale sulla totalità dei

loro distretti antichi, ecclesiastici e/o civili.43

Ma non è questo il solo ostacolo: possiamo dire che, partendo da un nucleo lombardo, caratterizzato

da contadi estesi e compatti, arriviamo a trovare nei territori del Veneto orientale una “periferia”

nella quale manca un territorio urbano forte e ben radicato. In Trentino questo stato di fatto viene

amplificato in modo esponenziale visto che le città, strette nella morsa di diverse forze signorili di

matrice sia laica che religiosa, non hanno grande capacità di organizzazione del territorio. Se a tutto

ciò aggiungiamo il fatto la presenza anche di forze signorili e comunitative minori, si capisce la

diversità dell’area trentina, che non è nemmeno comparabile alla situazione delle montagne

emiliano – romagnole, dove le comunità sono create dalle forze signorili allo scopo di frenare le

iniziative provenienti dal basso.44

1.8.1 Il caso della pianura bergamasca

Un caso di utile confronto può essere offerto da quattro comunità della pianura bergamasca,

analizzate in un lavoro da Giorgio Chittolini.

Una prima particolarità degli statuti di Treviglio, Martinengo, Romano e Mozzanica è che

rappresentano un caso abbastanza raro sia nell’ambito bergamasco sia in quello dell’Italia

settentrionale: sono infatti “statuti rurali di pianura”, i quali possono delinearsi come più ricchi ed

articolati rispetto a quelli delle comunità rurali di consistenza demografica ed economica minore,

ma non possono essere considerati né come statuti rurali, né come urbani: rappresentano una

tipologia normativa denominata Statuti burgensi o castrensi. Nonostante la differenziazione a

livello nominativo, come tanti altri tipi di statuti, anche questi avevano l’obiettivo di arginare le

rivendicazioni del comune urbano sulle materie giurisdizionali, fiscali ed annonarie e di farsi

considerare come terre completamente indipendenti ed in grado di autogestirsi sotto tutti gli aspetti

della vita comunitaria. Un caso emblematico riguarda Martinengo e il suo rapporto con Bergamo tra

43 G. Chittolini, Città, comunità e feudi negli stati dell'Italia centro-settentrionale : (XIV-XVI secolo), cit., p. 7. 44 Poteri signorili e feudali nelle campagne dell’Italia settentrionale fra Tre e Quattrocento: fondamenti di legittimità e forme di esercizio, a cura di F. Cenarle, G. Chittolini, G. M. Varanini, pp. 48-49.

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la fine del Trecento e l’inizio de secolo successivo: negli statuti di Bergamo si trovava una rubrica

particolare, la “Quod communia de Martinengo et de Rumano sint subdita communis Pergami”,

con la quale la città obbligava i suddetti paesi ad obbedire ai suoi magistrati, essere soggette ai suoi

tribunali sia in materia civile che in quella penale e pagare le tasse decretate dalla città.

Considerando tutto ciò inaccettabile lo statuto di Martinengo stabilisce che nessun ufficiale

bergamasco giunga nel paese per svolgervi il suo ruolo di ufficiale e magistrato, pena una multa

salata ed alcuni giorni di carcere.

Negli statuti si dichiara soltanto la diretta dipendenza dal principe, evitando ogni riferimento alla

città e allo statuto della stessa.

Argomenti più dibattuti risultano la giustizia (gravi pene per chi attenta ai diritti ed alla

giurisdizione del comune) e la difesa delle prerogative della comunità (con il podestà e gli altri

ufficiali che se ne devono impegnare con tutte le loro forze). Per quanto riguarda la figura del

podestà negli statuti di Bergamo del 1333 è del tutto assente la disciplina del suo istituto e della sua

familia. Sappiamo per certo che all’epoca della redazione di questi statuti podestà era Beccario

Beccaria, discendente di una famiglia che risultava essere tra le più antiche di Pavia. Dal secolo

XIII al XIV frequenti furono gli scontri fra questa famiglia e quella dei Langosco per il predominio

della città: ghibellina la prima, guelfa l’altra. Dagli inizi del Trecento i Beccaria si schierarono dalla

parte dei Visconti, ottenendo così ingenti privilegi. A partire dagli statuti del 1353 il podestà non

godeva più della titolarità di poteri arbitrari, soprattutto per quanto riguarda l’avere il diritto ad

essere titolare di un potere normativo, ed inoltre era nominato dal signore, sovvertendo così l’ordine

presente negli statuti duecenteschi con i quali si lasciava ai comuni di un determinato contado il

diritto di elezione per i propri ufficiali. Ogni comune ed ogni fortezza del contado doveva prestare

giuramento di fedeltà al podestà.

Questi quattro paesi inoltre appartenevano a diocesi diverse (Romano e Martinengo a Bergamo,

Mozzanica a quella di Cremona, Treviglio a quella di Milano), ed erano soggetti a rivendicazioni da

parte di quelle stesse città. Essendo in una zona dai confini non ben assestati, complice anche

l’attrito che si era venuto a creare fra lo stato di Milano e quello di Venezia, erano riuscite ad avere

da parte dei signori che controllavano la zona un certo grado di autonomia, che permetteva loro di

differenziarsi rispetto ad altre comunità rurali.

Un esempio ancora più illuminante è quello della città di Treviglio la quale già verso la metà del

tredicesimo secolo ottenne da Milano la condizione di “burgus communis Mediolani”. All’inizio del

quattordicesimo secolo poi, da Enrico VII e Ludovico il Bavaro riuscì ad avere il riconoscimento

dell’”immediata dipendenza” dall’impero; poi nel 1332, entrando definitivamente nella sfera di

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influenza viscontea, stabilì con i signori di Milano nuove norme che ne salvaguardassero la sua

condizione di autonomia.

Un altro aspetto interessante di questi statuti, e che si collega con quanto detto in precedenza sul

rapporto vicini – forestieri, è che annoverano al loro interno articoli con cui si vietava di vendere le

terre ai cosiddetti forenses per preservare le risorse della comunità e conservare le proprietà

fondiarie degli abitanti. Qualora una persona avesse voluto fare la richiesta per essere accolta come

membro effettivo della comunità doveva porvi la residenza, pagare le tasse, acquistare dei beni ed

aspettare un periodo di tempo molto lungo.

Ecco quindi che nello statuto di Mozzanica troviamo una sezione chiamata De forensibus nella

quale troviamo riportato che i forenses non possano habere officia in commune Mozanicae e che

Quod forasterii venientes ad habitandum in Mozzanica non appellentur terrigenae nisi elapso certo

tempore.

Alla fine di questo rapido excursus sulla situazione statutaria all’esterno della nostra regione

possiamo concludere citando le osservazioni dello stesso Chittolini: In questi centri, che hanno

avuto concessioni e privilegi, ecco che si riflettono subito nella legislazione locale, magari in modo

rozzo e confuso, con energia e rilievo; lo statuto è usato come una cassa di risonanza delle

rivendicazioni di autonomia, diventa il documento solenne che le ribadisce e le esplicita, e assume,

per questo, una fisionomia propria.45

45 G. Chittolini, Legislazione e autonomie nella pianura bergamasca, in Statuti rurali e statuti di valle: la provincia di Bergamo nei secoli XIII-XVIII. Atti del convegno, Bergamo 5 marzo 1983, a cura di Mariarosa Cortesi, p. 114. Per le altre notizie sulla situazione bergamasca le notizie sono state prese dall’opera stessa pp. 51-114 e da G. Chittolini, Città, comunità e feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale: (XIV-XVI secolo)

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CAPITOLO 2

2.1 Le origini dell’insurrezione contadina del 1525

Nel capitolo precedente abbiamo visto tra le altre cose l’importanza che assunsero per la vita di una

comunità quelli che possiamo definire beni collettivi. Pochi anni prima della stesura della carta di

regola di Scurelle un tragico fatto, la cosiddetta guerra rustica, investì il territorio trentino, dopo

essere partita dalla Germania. Questo episodio è indiscutibilmente importante anche all’interno del

nostro lavoro sulle carte di regola perché ci fa capire come la situazione all’interno delle comunità

rurali risultasse, nei primi anni del Cinquecento, insostenibile. La crescente crisi del sistema feudale

si manifestò attraverso un diffuso malcontento del mondo rurale, che ormai non poteva più tollerare

una situazione di crisi venutasi a creare in seguito alla mancanza di riforme strutturali che

garantissero un miglioramento delle condizioni economiche e sociali.

Le radici di questo malcontento popolare sono soprattutto da ricercarsi nel mancato sviluppo

dell’agricoltura quattrocentesca, con un conseguente peggioramento delle condizioni contadine.

Aldo Stella riporta nel libro La rivoluzione contadina del 1525 e l’utopia di Michael Gaysmair

esempi pratici di quanto appena affermato: a Mezzocorona, ad esempio, l’intervento dei castellani

tirolesi comportò per gli abitanti della comunità la perdita delle prerogative contenute nella carta di

regola, con i contadini che vennero costretti in una condizione di quasi servitù, che si manifestava

soprattutto nel lavoro gratuito, nel divieto assoluto di uscire dal circondario della giurisdizione a

lavorare per altri. Un altro esempio è quello relativo alla Val Pusteria e alla cittadina di San

Candido, dove i contadini erano soggetti al Freistift, ovvero l’obbligo di rinnovare ogni anno il

contratto di usufrutto46. A partire dal 1490 inoltre il futuro imperatore Massimiliano d’Asburgo

aveva imposto nella contea tirolese il passaggio dal diritto consuetudinario a quello romano; ciò

comportò una riduzione ed una limitazione delle autonomie locali.47

All’inizio del Cinquecento le continue guerre, in particolare fra conti del Tirolo e Venezia, con i

passaggi frequenti di truppe, provocarono devastazioni e saccheggi, carestie, richieste di nuove

imposte per rimpinguare le sempre vuote casse dello stato e un crollo del commercio

transcontinentale che rese più povero il ceto delle città. Nel 1511 venne emanato il Tiroler

46 A. Stella, La rivoluzione contadina del 1525 e l’utopia di Michael Gaysmair, pp. 22-23. 47 Umberto Corsini propone una tesi diversa e sicuramente più completa rispetto ad altri autori ottocenteschi. Secondo lo storico infatti la guerra rustica non va letta solamente come un’insofferenza contro le condizioni socio-economiche, fattore questo già presente anche in epoca classica e medievale, ma dev’essere vista ed interpretata nel complesso e frammentato quadro politco-istituzionale in cui si trovava all’epoca il territorio trentino. Tra tutto ciò ricordiamo la sovrapposizione del potere locale con quello esercitato dalle figure nobiliari e da quelle vescovili. Inoltre all’interno di quest’ultima categoria non rare erano ulteriori contrapposizioni, in particolare tra il principe vescovo di Trento ed i conti del Tirolo. U. Corsini, La guerra rustica nel Trentino e Michael Gaismair, in “Studi trentini di scienze storiche”, a. 59, 1980, pp. 149-183

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Landlibell, che obbligava ogni distretto del territorio trentino-tirolese a fornire un determinato

numero di fanti e cavalieri oppure, nel caso dei principi-vescovi di Trento e Bressanone, a pagare

una quota per la chiamata di mercenari48.

In questa situazione, fatta di decime, steore, affitti, tributi, pioveghi e leve militari, i contadini

spesso finivano in prigione, incapaci di saldare i debiti accumulati dopo l’aver accettato, per tentare

di risollevare le loro sorti, condizioni creditizie svantaggiose. Questo fenomeno nei primi anni del

‘500 si amplificò in maniera ancora maggiore: i documenti che ci fanno capire e comprendere in

maniera chiara questo malcontento sono i gravamina (o “documenti di doglianza”), che tra il 1504

ed il 1524 conobbero un sensibile aumento. I sindaci, all’interno dei gravamina, manifestavano tutta

la loro insoddisfazione e preoccupazione per la sorte delle comunità da loro rette, gravate sempre

più da contributi maggiori per far fronte alle numerose guerre. E proprio alla fine di questi

gravamina si faceva sempre riferimento alla condizione dei sudditi, mostrando rincrescimento per

la situazione creatasi con la prolungata chiusura delle antiche vie di transito, con l’introduzione

fraudolenta di nuovi obblighi daziari estesi anche ai beni considerati di prima necessità, con

l’ineguale ripartizione delle spese di manutenzione di ponti, per finire con le contese per lo

sfruttamento dei cosiddetti usi civici (pascoli e boschi) 49.

L’accezione di “guerra contadina” in relazione a questi avvenimenti è stata sviluppata dalla

storiografia ottocentesca.50 Negli ultimi anni del secolo scorso, uno studioso tedesco, Peter Blickle,

ha introdotto il concetto di “rivoluzione dell’uomo comune”, cioè di un’insurrezione che coinvolse

non un unico ceto ma più categorie: il contadino, l’abitante delle città territoriali, l’insieme delle

persone che non rientrano nei distretti imperiali, ed il minatore. Secondo Blickle infatti è troppo

generico parlare soltanto di guerra contadina poiché le categorie coinvolte, come abbiamo appena

visto erano più di una e tutte maturarono gli stessi ideali51. Basti pensare che i minatori

parteciparono in maniera attiva alla rivolta: uno dei primi centri di protesta si concentrò nella

miniera di Schwaz tra il gennaio ed il febbraio 1525, ma anche a sud del passo del Brennero nella

città di Vipiteno i minatori risultarono essere perfettamente integrati con gli altri partecipanti alla

rivolta52.

48 Ibidem, p. 33. 49 F. Chiarotti, L’insurrezione contadina del 1525, in Storia del Trentino vol. IV: L’età moderna, a cura di M. Bellabarba, G. Olmi, pp. 167-170 50 Anche nella nostra regione l’interessamento degli storici locali per la questione nasce e si sviluppa nell’Ottocento con i lavori di Tommaso Bottea La sollevazione dei rustici nelle valli di Non e di Sole nel 1525, di Carlo de Giuliani Documenti per la storia della guerra rustica in Trentino, Giovan Battista Sardagna, La guerra rustica in Trentino (1525) e Luigi Grandi La guerra rustica nel Trentino. 51 P. Blickle, La riforma luterana e la guerra dei contadini. La rivoluzione del 1525, pp. 224-225 52 Ibidem, p. 221.

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2.2. Lo scoppio dell’insurrezione

Il Bauernkrieg tedesco partì dalla Foresta Nera nell’autunno 1524 seguendo due filoni; uno di

matrice più religiosa, nel quale i contadini vennero guidati dal teologo Thomas Müntzer ed uno più

politico, nel quale Hans Müller, un ex lanzichenecco, mosse i contadini contro il signore della zona,

colpevole di aver esteso il suo giogo feudale sulle terre comuni e sui boschi, dove la popolazione

esercitava il diritto di pascolo e di raccolta della legna. Rispetto alla rivolta che si sviluppò nella

nostra regione, la rivolta tedesca ebbe un carattere più marcatamente religioso, favorito sia dalla

nuova dottrina predicata da Lutero, sia dalle idee dello stesso Thomas Müntzer che si basavano

sulla promozione del bene comune e sull’adesione obbligatoria dei signori alle Unioni Cristiane.

L’uomo, secondo il teologo tedesco, doveva ritornare a Cristo attraverso l’esperienza della croce;

solo la sofferenza avrebbe permesso all’essere umano di liberarsi da tutti gli idoli che la mondanità

poneva davanti a lui. E solo il credente aveva la fortuna di conoscere la volontà di Dio, mentre la

nobiltà, vista come organismo composto da non credenti, doveva essere cacciata con la forza

assieme al clero.

In Trentino e in Tirolo la rivolta scoppiò tra il 10 ed il 15 maggio 1525. Ai primi di maggio il

principe vescovo di Trento Bernardo Clesio si trovava in Germania alla dieta di Ratisbona, ma

appena ebbe sentore della rivolta tirolese, temendo per il suo Principato, ritornò in fretta a Trento53.

Anche nei territori sudtirolesi la guerra scoppiò negli stessi giorni: qui il collante fra le diverse

anime dei rivoltosi della protesta nonché simbolo carismatico fu Michael Gaysmair, del quale

parleremo in seguito.

Nel marzo 1525 l’imperatore convocò la dieta di Innsbruck nella quale si decretò la pena di morte

per chiunque avesse promosso o soltanto istigato azioni di conflitto contro l’autorità imperiale. Alla

fine di maggio venne convocata una nuova dieta a Merano nella quale furono promossi i cosiddetti

Beschwerdeartikel; si trattava di 64 articoli che riguardavano postulati di carattere religioso e

morale (critica a chi avesse distolto il proprio sguardo dal messaggio originale del Vangelo, a tutti

gli uomini di chiesa che avessero abbandonato il messaggio evangelico, richiesta che ogni città,

giurisdizione o comunità potesse ottenere il diritto di eleggere il proprio pievano), questioni

giurisdizionali e amministrative, attraverso la trasformazione del territorio trentino-tirolese in un

unico stato temporale, l’abolizione del “capitano del paese” ed infine un unico diritto valido per

tutti. Nell’ultima parte degli articoli, dal numero 22 al 64, era trattata la materia del diritto privato e

53 Tradizionalmente il primo episodio narrato è quello di una settantina di uomini di Mezzocorona, i quali salgono armati fino alla rocca della Visione, con l’intenzione di costringere il capitano presente al suo interno ad una resa senza possibilità di mediazione.

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delle libertà locali: tra le altre cose si chiedeva il riconoscimento dello sconsiderato aumento dei

prezzi per i beni di prima necessità, la salvaguardia di figli illegittimi, l’abolizione completa della

servitù della gleba e si poneva una critica per il continuo decadimento dei costumi54.

Il 22 giugno 1525, alla presenza dell’arciduca Ferdinando, di sua moglie degli ambasciatori della

Baviera e della Lega sveva, dei delegati delle città, delle giurisdizioni arciducali, dei contadini e

cittadini dei principati vescovili di Trento e Bressanone venne convocata una nuova dieta a

Innsbruck. Il 27 giugno Ferdinando dichiarò di non poter accettare le richieste poi però, temendo il

precipitare della situazione, il 3 luglio diede il suo benestare, sottoscrivendo i novantasei articoli di

Innsbruck. Questo non significò una sconfitta del potere imperiale; al contrario, la firma degli

articoli risultò decisiva per la sconfitta in seguito dei contadini in quanto un’unica clausola stabiliva

un Ordnung zu verhueten kunftige Emporung (Ordinanza per la prevenzione di future ribellioni) con

il quale qualora vi fossero state delle sollevazioni o rivolte vere e proprie i partecipanti avrebbero

perso ogni diritto civile e costretti al pagamento di una considerevole ammenda. La dieta si

concluse il 21 luglio. Molti accettarono le disposizioni; eccezioni furono le comunità della val

d’Isarco, di Bressanone e lo stesso Gaysmair, che capì la necessità di passare da una fase passiva

della rivolta ad una attiva, nella quale le armi sostituissero la diplomazia55.

2.3. La fine delle ostilità

Nella seconda metà del 1525 la guerra in Trentino si può ritenere già conclusa: il 13 agosto 1525 a

Pergine Gaudenzio Madruzzo, consigliere del principe vescovo Bernardo Clesio, propose ai

rappresentanti delle giurisdizioni un accordo che comprendeva il giuramento di fedeltà all’Arciduca

e l’osservazione dei capitula promulgati durante la dieta di Innsbruck. Il fronte dei rivoltosi,

dimostrando una volta di più la mancanza di compattezza al suo interno, si divise in due fronde: gli

uomini della borgata prestarono giuramento, mentre i rustici delle gastaldie si riunirono in

un’assemblea separata e rifiutarono ogni possibile accordo.56 Per quanto riguarda la lotta armata

invece un ultimo tentativo degli insorti si ebbe il 29 agosto 1525: l'assalto alle mura di Trento. I

rivoltosi accampatisi in località Laste, spararono qualche colpo contro le mura del castello, mentre

altri provvedevano, con azioni da guerriglia, a distruggere le condutture dell’acqua, illudendosi di

costringere i difensori del castello alla resa, mentre attendevano l’arrivo dei rustici delle altre valli;

però i contadini della Val di Non e della Val di Sole, giunti alla chiusa della Rocchetta, fecero

54 A. Stella, op. cit., pp. 67 ss. 55 A. Stella, op. cit., pp. 76 ss. 56 U. Corsini, La guerra rustica nel Trentino e Michael Gaysmair, in Studi trentini di scienze storiche, A. 59, 1980, p. 176

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ritorno a casa poiché si era sparsa la voce di feroci repressioni perpetrate dalle milizie tirolesi e

nobiliari.

Il 2 settembre vennero nominati a Trento dei commissari straordinari con il compito di raggiungere

nei loro paesi i capi della rivolta e tradurli in catene a Trento per essere giudicati. Furono eletti

commissari Lodovico Lodron, Sigismondo Thun, Gaudenzio Madruzzo, Francesco Castellalto e

Carlo Trapp. Venne redatta inoltre una proposta di capitolazione che comprendeva al suo interno: la

consegna delle bandiere, delle armi e dei beni, la sottomissione all’autorità attraverso un

giuramento, la riconsegna di conventi, castelli e delle terre occupate, risarcendo i danni perpetrati, il

pagamento di una tassa per ogni villa o borgata che avesse preso parte all’insurrezione, e l’ordine di

cattura dei figli per chi non si fosse arreso.. Dieci giorni dopo verrà scritto un nuovo decalogo, molto

simile a queste disposizioni per scoraggiare gli ultimi focolai di resistenza.57

2.4 Michael Gaysmair

Nato a Ceves presso Vipiteno nel 1490, discendente di una famiglia borghese, molto probabilmente,

studiò alla Lateinische Schule di Bressanone, una delle più importanti istituzioni d’insegnamento

dell’epoca. Fu in questi anni che maturò un forte interesse per la figure di Sant’Agostino e Platone.

Dopo gli studi assunse i primi ruoli politici: s’impiegò come scrivano nella cancelleria di Leonard

von Völs, incaricò che poi lasciò per assumere la funzione di Zollmeister (capo dei doganieri e dei

dazieri, sovrintendente alla manutenzione delle strade ed alla salvaguardia delle vie di

comunicazione) per il principe vescovo di Bressanone Sebastiano Sprenz.

Quando i contadini in rivolta depredarono l’abbazia di Novacella, il cui saccheggio fruttò un bottino

di 25000 fiorini, Gaismayr fu eletto comandante supremo di tutti i ribelli (circa 5000) delle

giurisdizioni e delle città del territorio in riva all’Isarco (13 maggio). Appena ricevuta la nomina

Gaysmair cercò di coinvolgere nella sua battaglia il maggior numero di possibile di categorie

sociali, quali minatori, piccola media borghesia, ceti popolari cittadini. Verso metà agosto 1525 egli

ricevette l’ordine di convocazione presso la Reggenza del Tirolo, ma quando sopraggiunse venne

arrestato. L’arresto di Gaysmair isolò i contadini, dichiarati colpevoli di ribellione e lesa maestà: i

capi degli insorti furono sottoposti a processi sommari nel corso dei quali si utilizzarono torture e

pena di morte. Dopo sette settimane riuscì a fuggire dal carcere e riparare nel territorio grigionese,

da dove cercherà di proseguire il suo progetto rivoluzionari. Sconfitto fra il giugno e il luglio 1526

57 Caldonazzo ad esempio dovette prestare un giuramento di fedeltà al Vescovo e al Principe, un pagamento di una multa di 500 fiorini e l’imposizione di un diritto reale di garanzia sulle foreste in località Monterovere. L. Brida, Un condottiero alla guerra rustica del Trentino: Bartolomeo Salvadoris, in “Studi trentini di scienze storiche”, A. 55, n. 3, 1976, p. 288

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durante l’assedio alla cittadina di Radstadt, cercò di intrattenere rapporti amichevoli con la

Serenissima per ottenerne appoggio: per questo valicò le Alpi vagando tra varie città del Nord Italia

(San Candido, Agordo) prima di giungere a Venezia tra il 17 ed il 18 luglio 1526. Qui il Consiglio

dei Dieci decise di accogliere i rifugiati ed elargire una somma di denaro a Gaysmair ottenendo

dallo stesso di arruolare i duemila uomini circa al suo seguito nell’esercito veneziano. Ben presto il

doge negò del tutto qualsiasi aiuto a Gaysmair per tentare di dare nuova forza alla rivolta contadina

nei territori trentino-tirolesi e lo stesso condottiero si rese conto che ormai il suo progetto stava

perdendo ogni consistenza. Una nuova speranza spuntò il 15 gennaio 1528 quando i senatori

veneziani votarono un ordine del giorno nel quale Gaysmair assunse nuovamente servizio presso

Venezia con maggiore autonomia d’iniziativa, ma neppure in questa occasione il suo sogno di

libertà riuscì a realizzarsi. Nel 1530 il tentativo di organizzare un’ultima rivolta nel Tirolo venne

scoperto dal governo di Innsbruck, che ordinò a due sicari la sua uccisione, avvenuta il 15 aprile

1532 a Padova per mano di due sicari58.

2.5 I manifesti della rivolta

L’insurrezione del 1525 ci ha lasciato un ingente numero di manifesti programmatici che si

differenziano in alcuni punti tra una zona e l’altra. Accanto ai 64 articoli senza dubbio i più famosi

sono i cosiddetti Dodici articoli della Foresta Nera e la Tirolische Landesordnung di Gaysmair. I

Dodici articoli furono redatti dai contadini dell’Alta Svevia tra il febbraio ed il marzo 1525. In essi

si chiedeva tra le altre cose il diritto all’elezione e alla destituzione dei parroci (Articolo 1),

l’abolizione della piccola decima mentre quella grande invece di essere amministrata dai preposti

della chiesa dev’essere assegnata alla comunità (Articolo 2); norme più definite in merito alla

caccia, alla pesca, alle foreste e ai boschi erano contenute negli articoli 4 e 5, mentre agli articoli 8 e

11 erano chieste rispettivamente una riforma del livello dei censi per i beni soggetti a signoria

terriera e l’abolizione del “caso di morte”, che nel XV secolo produsse una forte riduzione del

patrimonio familiare dato che i contadini erano costretti a cedere un terzo se non la metà di un

possesso terriero.

I Dodici articoli ebbero una forte diffusione ed influenza nella Germania sud-occidentale (Selva

Nera, Alsazia), e nella zona di confine fra Svevia e Franconia, mentre scarsa fu la loro ricezione in

Svizzera e nel principato vescovile di Salisburgo, dove la popolazione riassunse le cause

dell’insurrezione in ventiquattro articoli nei quali si accusavano i nobili di soprusi ed angherie, la

chiesa di intemperanze ed ingerenze, i signori terrieri di sottrazione dei beni in proprietà, dei diritti

58 Per le notizie sulla vita di Gaysmair si rimanda a Stella, op. cit. pp. 1-4 e 51 ss.; Blickle, op. cit. pp. 261-264; Josef Macek. Michael Gaismayr : eroe dimenticato della guerra dei contadini nel Tirolo, Trento : UCT, 1991.

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ereditari e dell’aumento delle prestazioni. Anche nel Tirolo essi ebbero scarsa eco di fronte alla

fortuna della Tirolische Landesordnung di Michael Gaysmair. Questo manifesto permise a

Gaysmair di tradurre anche nella zona interessata dell’insurrezione i due obiettivi della rivolta

contadina: il bene comune e il puro Vangelo. Ciò poteva avvenire soltanto attraverso l’abolizione

dei privilegi e della suddivisione in classi, in una società che conoscesse solo suddivisioni fondate

sulle attività professionali. Il regime feudale doveva essere sostituito da una repubblica nella quale

la comunità fosse alla base di tutti gli ordinamenti politici e l’assegnazione delle cariche politiche

fatta in base a un principio elettivo59

Anche la Tirolische Landesordnung fu scritta per fondare una nuova società basata sul vangelo,

ispirata però non con i caratteri mistici o fanatici di Müntzer ma all’ecclesiologia di Zwingli.

Il programma di Gaysmair partendo da queste basi assumeva anche un’implicazione più politica, di

lotta e di liberazione: ecco perché al suo interno si parlava della necessità di costruire uno Stato nel

quale doveva essere il popolo ad eleggere i giudici delle proprie giurisdizioni e assistere i più

deboli, attraverso il bando di ogni forma di speculazione e sfruttamento economico60.

2.6 La guerra dei valsuganotti

Così come in quasi tutto il Trentino anche in Valsugana i contadini cercarono, attraverso forme di

protesta sfociate anche in scontro armato, di far valere le loro ragioni ed i loro diritti. Due esempi

particolarmente significativi di tutto ciò furono la rivolta degli abitanti della giurisdizione di Ivano

contro il loro signore Giorgio Puchler ed il caso di Castel Selva e Levico, che qualche studioso61 ha

citato come esempio significativo di aspra vessazione dei diritti contadini.

2.6.1 L’uccisione di Giorgio Puchler a Castel Ivano

La famiglia Puchler62 aveva ricevuto da Michele Wolkenstein-Rodenegg l’affitto di castel Ivano,

dietro il pagamento di ottocento ragnesi d’affitto63. Giorgio, a differenza del padre, contraddistinse

59 P. Blickle, op. cit. pp. 35 e ss. 60 P. Blickle, op. cit. pp. 7 e ss. 61 F. Chiarotti, L’insurrezione contadina del 1525, p. 164 62 Dubbi rimangono sull’effettivo nome esatto di questo tiranno: lo Stella nell’articolo La crisi generale dello Standstaat e la “guerra rustica” in Valsugana scrive Puchler; Romagna nel suo Ivano il castello e la sua giurisdizione Pucler) e il Suster (Del castello di Ivano e del borgo di Strigno) scrivono Pucler; il Montebello (Notizie storiche topografiche e religiose della Valsugana e di Primiero scrive Puhler, mentre il Sardagna ne La guerra rustica nel Trentino (1525) scrive Puler. E’ molto probabile che l’accezione corretta sia Puchler visto che è presente anche nella scritta di commemorazione posta sopra il monumento funebre del tiranno presso la chiesa di Pergine. 63 F. Romagna, Ivano: il castello e la sua giurisdizione, Ivano Fracena, comune di Ivano Fracena, 1988, p. 62. Ferruccio Romagna nasce ad Ivano Fracena nel 1930 ed è uno degli storici locali valsuganotti più conosciuti ed apprezzati. Tra le altre pubblicazioni ricordiamo Il pievado di Strigno, Villa Agnedo – notizie storiche

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la sua politica per prepotenza e crudeltà e proprio per questo l’ira degli abitanti della zona si

manifesterà così forte contro di lui. Di questa vicenda molti storici locali valsuganotti hanno cercato

di dare documentazione, seppur cadendo molte volte in un’interpretazione e in una narrazione che

ha molto di romanzato e poco di storico.

Tipici esempi di tutto ciò lo ritroviamo nell’opera di Guido Suster64 ed in quella di Ferruccio

Romagna.65

Le notizie storicamente accertate dell’episodio sono certamente inferiori a tutte le altre: si sa che il

capo della rivolta era Pietro Mengarda e che il 25 agosto 1525, alla guida dei contadini dei paesi

della giurisdizione, assaltò il castello. Pietro Mengarda doveva essere un capo rivolta

particolarmente attivo nella zona visto che lo troviamo citato in varie lettere: in una prima, datata 5

luglio 1525, l’Arciduca Ferdinando scrive a Cristoforo Thunn rimproverandolo per il fatto che allo

stesso Mengarda vennero sequestrate un consistente numero di pecore senza più restituirle,

nonostante gli svariati appelli in proposito.66 Le pecore dovevano essere davvero importanti se in

un’altra lettera del 21 luglio il capitano di Trento Cristoforo Thunn scrive a Sigismondo Thunn

raccontando i tumulti di Ivano dei contadini guidati dal Mengarda che pretendevano la restituzione

dei famigerati ovini, sequestrati all’inizio delle ostilità.67

Comunque non trovando il signore, che si trovava nei campi a falciare le biade e per fare razzia nei

paesi allo scopo di approvvigionare di beni il castello, lo rincorsero ed infine lo uccisero nei pressi

64 G. Suster, Del castello di Ivano e del Borgo di Strigno: con qualche aggiunta, p. 10 “Spento così il tiranno, ne misero a sacco il Castello e di là, seguiti dagli altri contadini oppressi della Valsugana, partirono tosto minacciosi alla volta di Trento. Del Pucler è noto altresì, che il cadavere di lui fu portato sotto l’olmo della piazza di Strigno accanto alla pietra, chiamata fin verso la fine del secolo XVIII del mal consiglio, e che tutti i capi di famiglia gli diedero uno schiaffo sul volto, tranne certo Niccoletti d’Ospedaletto, suo compadre, che, per essersi rifiutato, ottenne poscia e per se e per tutta la sua discendenza, che del 1790 si era già propagata in dodici famiglie, ampia facoltà di pescare, cacciare e portar armi”. Qui il Suster riprende una citazione ripresa dal testo di Ottone Brentari, Guida del Trentino, Bassano, 1890, p. 372 che a sua volta riprende il tutto dalle cronache di Giacomo Castelrotto. 65 F. Romagna, op. cit., p. 66 “I primi ad attaccare il Pucler furono Bortolo Tognati di Ivano armato di un lungo spontono e Simone de Gentili di Strigno armato di una giavarina; in loro aiuto sopravvennero subito Battista Chiabarin di Bieno armato di una balista, Nicola Grandi di Bieno armato di una ronca, Giacomo Molinaro di Bieno, Antonio Grandi di Strigno armato di uno spontono, Chemucio di Samone armato di uno spedo, Antonio Granelo di Tesino abitante a Strigno armato di uno spontono. Il capitano sembrava sicuro di sé; appiedato e armato di uno stocco, disse con disprezzo ai primi assalitori: ”villani scortegati, le vostre arme non ponze e non taja”. Detto ciò cominciò a difendersi coraggiosamente maneggiando lo stocco. Ma la sua arroganza e il suo coraggio non valsero a salvarlo. Ferito al petto e a una gamba dai primi assalitori, cadde per terra. Colpito nuovamente e visto che non poteva più resistere, si rivolse verso Giacomo Snaider e disse:”me rendo a ti”. Ma ormai la situazione era incontrollabile; Antonio Granello colpì il capitano con i suoi spontono gridandogli: “sega mò”! (cioè: ora va a falciare i nostri frumenti!). Un altro voleva colpirlo in faccia, ma Giacomo Snaider che, forse per pietà, stava per togliere l’elmo al ferito deviò il colpo”. In questa esposizione il Romagna ha ripreso l’episodio citato dal Sardagna (op. cit., p. 221) che a sua volta fa riferimento al verbale dell’interrogatorio reso da Simone de Gentili il 1 giugno 1526

66 G.B. di Sardagna, La guerra rustica nel Trentino, p. 145 67 G.B. di Sardagna, Op. cit., p. 147

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del torrente Chieppena.68

La notizia della cattura di Castel Ivano fece il giro dell’intera valle e provocò numerose

preoccupazioni negli altri signori, consapevoli del fatto che una simile protesta non era da

sottovalutare.

Occupato dunque il castello i rivoltosi, ormai convinti che la protesta potesse prendere una piega

positiva, decisero di unirsi con gli altri contadini della Valsugana per marciare verso Trento. A Cirè

si ritrovarono Francesco Cleser, comandante supremo, Bartolomeo Salvadoris69 e Pietro Ceola di

Caldonazzo, Vittore Libardi di Levico, Sebastiano Sbeta di Borgo e Pietro Mengarda di Ivano.70

Presso Cognola si aggregarono a loro i ribelli della Vallagarina, che già allo scoppio della rivolta

avevano avviato trattative con i valsuganotti per far sì che venisse deposto il loro dinasta Pietro

Busio71. Il loro tentativo, abbiamo già fatto notare, si risolverà in un nulla di fatto ed anzi ebbe

conseguenze peggiori di quello che ci si potesse attendere: i comuni di Ivano e Strigno dovettero

pagare ciascuno 1000 ducati come risarcimento per i danni arrecati, secondo una disposizione datata

10 settembre 1525, mentre Simone de Gentili, uno degli uomini partecipi all’agguato al Puchler fu

sottoposto a tortura per farlo confessare. Infatti la sua prima versione dei fatti (1 giugno 1526) non

era stata ritenuta veritiera dal tribunale che lo giudicava.72

Inevitabile la fine di Simone, decapitato il 20 giugno 1526. Inoltre si dovette risarcire la vedova

dell’ormai ex signore di Ivano, Caterina per le devastazioni correlate all’assalto al castello con il 68 Questa è la versione più probabile dato che non abbiamo la certezza su come sia stato ucciso il tiranno visto che le fonti a nostra disposizione sono molte ma contraddittorie: il Montebello nelle sue Notizie storiche topografiche e religiose della Valsugana e di Primiero (p. 227) ad esempio afferma che viene ucciso davanti al castello ma rimane il dubbio se sia stato lui il primo ad attaccare oppure siano stati i contadini, il Felicetti nel libro 120 leggende del Trentino (p.166) afferma che la morte del Puchler avviene sulla strada tra Bieno e Strigno mentre era di ritorno con un manipolo di uomini dal Tesino, mentre il Castelrotto, cronista cinquecentesco, afferma che viene ucciso presso il torrente Chieppena. Aldo Stella invece nell’articolo La crisi dello Standstaat e la “guerra rustica” in Valsugana, (p. 463 e ss.) contenuto nel testo I percorsi storici della Valsugana si limita ad affermare che fu colpito all’uscita dal castello mentre personalmente stava andando dal signore feudale per esigere il pagamento delle decime 69 Bartolomeo Salvadoris era stato eletto sindaco del paese di Caldonazzo il 25 aprile 1521. Fin da subito la sua amministrazione si era posta in contrapposizione con quella dell’allora vicario del paese Vigilio Scutellio, colpevole di non intraprendere delle riforme economiche adeguate. Salvadoris propose l’adozione di un nuovo piano economico che prevedesse l’istituzione di una commissione censuaria che elaborasse un nuovo estimo fondiario per il pagamento delle imposte alla famiglia Trapp. Partecipò attivamente alla guerra rustica ma ebbe anche lui una tragica fine: processato assieme agli altri capi rivolta venne decapitato il 2 ottobre 1525. G. Brida, Un condottiero alla guerra rustica nel Trentino: Bartolomeo Salvadoris, in “Studi trentini di scienze storiche”, A. 55, n. 3, 1976, pp. 276-292 70 A. Stella, La crisi dello Standstaat e la “guerra rustica” in Valsugana, in I percorsi storici della Valsugana, Castel Ivano, 2003, p. 470 71 Costui viene arso vivo dentro la torre del palazzo vecchio di Nomi. 72 G.B. Sardagna, La guerra rustica in Trentino (1525), cit., p. 22 “Simon de Gentilibus de Strigno, Iurisdictionis Ivani, qui captus fuerat in Ivano, interrogatus – si ipse aderat quum quondam Dominus Georgius Puler fuit interfectus, respondit quod non ; narrans quod a vicinis suis eo die quo fie interfectus ipse Georgius, missus fuit in Tesinum ad requirendum quatuor vel quinque homines de Tesino ut venirent ad pacificandum capitaneum cum hominibus, et vocavit Ser Matheum Rubini, Johanem Buso, Tognolum de Riba Morandum Busarelum juditio suo, qui homines sic vocati dixerunt ipsi: ben va che te vignaremo drè; et sic ispe pervenit; et quum applicuit a la Crosta apud pontem Ivani per tactum manus vidit Dominum Georgium mortuum, ed antequam ad dictum applicuisset sensit rumorem personarum, et ibidem vidit multitudinem personarum, cum armis, et quod Dominus Georgius erat in manibus Jacobi Snaider banniti, et adjuvavit ipsum Dominum Georgium deferire ad Ecclesiam”.

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pagamento annuale di 15 staia di segala. Oltre a questo la vedova venne investita anche del monte

Tizzon, un territorio sopra l’abitato di Samone.73

Il Puchler inoltre venne onorato con un monumento funebre, ancor’oggi presente nell’abside della

chiesa di Pergine.74

2.6.2 La rivolta di Castel Selva

Dopo aver volto il nostro sguardo alla situazione a Castel Ivano è ora utile porre l’attenzione su un

altro episodio avvenuto in Valsugana: quello di Levico e Castel Selva. Anche nel paese di Levico

la situazione era difficile nonostante l’autorità vescovile avesse provato a calmare le acque

attraverso l’introduzione di nuovi pesi e misure, l’abolizione dell’istituto del piovego, la

concessione del diritto di caccia e pesca ai sudditi che pagavano le imposte. Ecco perché sulla scia

delle notizie di insurrezione ai danni del Puchler ad Ivano anche i levicensi decisero di abbandonare

le vie legali per passare all’insurrezione armata e scacciare il comandante della giurisdizione di

allora: Graziadeo Galasso.

Discendente di una famiglia originaria di Castel Campo, era stato console di Trento nel 1501, dove

il vescovo della città, Uldarico III di Frundsberg gli aveva rinnovato “de gratia speciali”, come ad

un suo “familiaris”, una locazione enfiteutica di una casa “in contrata quae antiquitis dicta est

plateola operarum”75. Il Galasso probabilmente, dopo la sua elezione, giunge a Levico verso la

primavera del 1506, cercando subito di dare continuità all’opera del suo predecessore Corrado

Concini76.

Le sue pretese di lavori e pioveghi comunitari suscitarono la protesta della popolazione tramite una

lettera al principe vescovo, con la quale si chiedeva che costui richiamasse il capitano ad una

maggiore sensibilità. Giustificatosi senza troppi patemi, potè continuare la sua opera “riformatrice”

73 Archivio comunale di Strigno, Urbario delle Scritture della Magnifica comunità di Strigno, 1691, fl. 8. Il documento datato 24 gennaio 1526 afferma: “havendo investito la Signora Cattarina Pullera sopra il monte de Tizzon con pagarli d’affitto o sia livello ogni anno segalla stara quindeci.” 74 La chiesa della natività di Maria accolse numerose lapidi sepolcrali nel corso della storia: attualmente ne sono rimaste solamente due: quella del Puchler e quella del nobile Giorgio Firmian. Il monumento del Puchler, realizzato con marmi locali, ricalca i canoni stilistici rinascimentali come ad esempio l’edicola a nicchia chiusa da un timpano triangolare. Inserita all’interno della nicchia troviamo una statua di 193 cm. del capitano con un’armatura da guerra. Ci sono anche due iscrizioni: la prima, sopra la statua, è una dedica per il padre (“Georgio Puchler de Baidenech equiti et Ivanii XXIII an(nis) capit(aneo) pietiss(imi) filii posuere obiit X apri(lis) MDXXIII”), la seconda, sotto la statua, è riferita allo stesso figlio (“Georgius filius dux legionu(m) Rovereti et Ivani capit(aneus) obiit aug(usti) MDXXV relicta uxore gravido catarina ex hieremia familia que stati(m) nato posthumo maritu(m) secuta est VI maii MDXXVI). A causa del progressivo trascorrere del tempo il monumento è stato restaurato nel 1990 grazie all’intervento dell’ufficio Beni Monumentali ed Architettonici del Servizio Beni Culturali della Provincia Autonoma di Trento. A. Adamoli, Il restauro delle lapidi sepolcrali di Giorgio Puchler e Giorgio Firmian nella chiesa della Natività di Maria a Pergine, in “Studi trentini di scienze storiche, A. 66, n.. 2, 1987 pp. 379-380 75 A. Cetto, Castel Selva e Levico nella storia del principato vescovile di Trento, Ed. anast Levico Terme (TN), Comune di Levico Terme, 1979, pp. 212-213 76 Corrado Concini diviene capitano di Castel Selva tra la fine del 1494 e l’inizio del 1495

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attirando sempre più il malcontento della gente: aumentò le pretese sulle forniture di vino, obbligò

che, sotto pena della confisca di tutti i beni o della forca, nessuno potesse uscire dalla giurisdizione

senza il suo permesso, punì attraverso multe salate tutti quegli operai che giungevano in ritardo

durante i nuovi lavori di abbellimento del castello.

I lavori, dopo una prima fase di stallo, prendono vigore nel 1519 ma incontrano la resistenza della

popolazione, preoccupata che un restauro e rinnovamento di tali dimensioni avrebbe portato ad un

sostanziale aumento delle tasse da pagare. E’ forse per questo motivo che il Clesio, da uomo di

ascolto, diviene più intollerante nei confronti della popolazione, appoggiando, seppur con qualche

riserva, il capitano Galasso sia nella controversia sul colle San Biagio, sia sull’elezione del

cappellano e sulle sue funzioni religiose.

E’ facile capire dunque il perché anche i contadini levicensi decisero di cogliere la guerra rustica

come pretesto per liberarsi dal giogo del loro capitano. Dopo avere tentato invano di richiamare

l’attenzione del Cles per frenare l’opera del capitano, non avendo ricevuto risposta decisero allora

di inviare una rappresentanza per rimpinguare le fila dei ribelli stanziatisi presso Cognola. La

sconfitta ebbe conseguenze tragiche su chi aveva partecipato all’attacco su Trento. Venerdì 15

settembre venne proclamata la sentenza di condanna con l’accusa di aver osato “animo temerario

castramentari Civitatem Tridenti agrosque eius depopulari ac finitimos ad eorum coniurationes

illecitasque sectas contra ordines S.mi principis et R.mi Episcopi convocare et attraere” 77

La punizione fu davvero esemplare: i levicensi dovevano prestare giuramento di fedeltà al Vescovo

nelle mani dei Commissari, pagare 1000 scudi, suddivisi in due rate (500 entro la festa di Sangallo

del 16 ottobre, la restante metà entro la festa della Ceriola del 2 febbraio), risarcire Graziadeo

Galasso di tutti i danni e le spese a lui cagionati, a pagare al castello le decime d’affitto, tutti i danni

procurati ad altre persone, a denunciare e a consegnare entro il giorno seguente tutte le armi con il

divieto di portarne da quel momento in avanti delle altre con sé. Per ottenere l’assoluzione da ogni

condanna venne istituita una pena al tempo stesso singolare quanto crudele: l’uccisione di uno di

loro.78 Ma forse la condanna peggiore fu la riconferma del Galasso come capitano, almeno fino al

1528, anno della sua morte.

2.7 Conclusioni

Quali furono dunque le conseguenze della guerra rustica, che come abbiamo visto interessò da

vicino anche la Valsugana? Nonostante lo sforzo profuso dai rivoltosi la situazione cambiò molto

poco. Sia il principe vescovo sia i conti del Tirolo, nei territori di loro competenza, riuscirono, 77 Cetto, op. cit., p. 296 78 Ibidem, p. 297

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seppur con qualche difficoltà, a riportare la situazione in loro favore e per le comunità rurali la vita

proseguì tra le solite difficoltà. Ma nonostante ciò le comunità maturarono al loro interno la

consapevolezza di essere parti attive nella vita di un territorio. La Tirolische Landesordnung risultò

l’emblema di quanto appena affermato: per molti mesi “l’uomo comune” credette di poter ottenere

una riforma sostanziale della legislazione, trasformando lo Stato da organismo nelle mani di poche

persone ad una realtà nella quale si poteva assistere ad un’organizzazione della società su basi

collettive. La popolazione recepì e fece proprie queste idee che sostanzialmente le appartenevano.

La centralizzazione del potere ridusse sempre di più il margine di autonomia ed autogoverno della

comunità che furono così costrette a subire continue ingerenze da parte del potere centrale. Non a

caso in tutti i manifesti scritti durante la guerra rustica si nota un forte richiamo ai beni collettivi ed

alla loro regolamentazione, come già accadeva all’interno delle carte di regola: pur essendo il

mondo delle carte di regola trentine molto lontano dalla realtà tedesca e dei territori sudtirolesi non

possiamo non notare questa affinità programmatica: è così nei Dodici articoli della Selva Nera,

dove si affronta il tema della regolamentazione delle foreste e dei boschi che dovevano essere

restituiti alla comunità, qualora la loro cessione non fosse stata dimostrata, per consentire alla

popolazione lo sfruttamento del legname per il riscaldamento delle abitazioni e per le varie

costruzioni; ed è anche così nella Tirolische Landesordnung, laddove si criticava in maniera feroce

il sistema fiscale dell’epoca troppo spesso contrario agli interessi dei più poveri, affermando la

necessità di aumentare i terreni agricoli ed i pascoli per soddisfare le esigenze alimentari della

popolazione.

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CAPITOLO 3 Le giurisdizioni in Valsugana ed il paese di Scurelle

3.1 Storia della giurisdizione di Ivano

Il paese di Scurelle assieme a Strigno, capoluogo della giurisdizione79, Spera, Samone, Bieno,

Ivano, Fracena, Villa, Agendo, Ospedaletto, sede del priorato di Sant’Egidio, Grigno, Tezze, e dal

XIV secolo Castello Tesino, Pieve Tesino, Cinte Tesino si trovava sotto la giurisdizione di Ivano,

una delle più importanti di tutta la Valsugana.80

Con il termine giurisdizione si indicava quella funzione di esercizio ed amministrazione della sfera

giuridica che apparteneva al feudatario secondo il diritto medievale. Generalmente il signore

infeudante delegava al signore infeudato, che quindi entrava in possesso della piena giurisdizione,

ogni responsabilità sul territorio concessogli; il signore infeudante comunque era in grado di

intervenire in qualunque momento qualora vi fossero state situazioni che richiedevano particolari

attenzioni; a sua volta il signore infeudato aveva facoltà giurisdizionale nei confronti degli abitanti

di quel territorio, che erano obbligati ad una serie di oneri e prestazioni

Anche nella giurisdizione di Ivano i conti del Tirolo non si impegnavano in prima persona nel

governo delle comunità ma delegavano questa prerogativa ad un capitano, suo delegato e

rappresentante 81: questo a sua volta si faceva aiutare nel campo della giustizia da un vicario, un

giudice ordinario di prima istanza che risiedeva a Strigno82, mentre per quanto riguardava la

79 Dubbi pervadono gli storici sul perché fosse stato scelto il paese di Strigno come capoluogo vista la sua lontananza da Ivano con il torrente Chieppena sempre pronto al termine di ogni straripamento ad interrompere le vie di comunicazione. Il Romagna afferma che la ciò può essere dovuto al clima favorevole di cui godeva il paese e per la presenza dell’antica e nobile famiglia dei Castelrotto che nel 1330, grazie al matrimonio fra Giacomo di Strigno e Ginevra, figlia di Biagio di Castelnuovo, signore di Ivano (F. Romagna, Ivano: il castello e la sua giurisdizione, 1988, pp. 108-109). Certo è che nel manoscritto 813 pp. 398-402, scritto dal notaio Antonio Bareza e conservato presso la biblioteca comunale di Trento si legge: ”se la maggior parte dei sudditi sono contadini […] in Strigno risiede l’ill.mo Signor Commissario Cesareo o Provveditor dei confini, il Signor Cesareo Procurator Fiscale, persone nobili e di famiglie antiche, il Signor Vicario, alcune famiglie nobili, Dottori, Nodari…” 80 La Valsugana era suddivisa in sei giurisdizioni: Pergine, Caldonazzo e Levico erano sotto la tutela del principe vescovo di Trento mentre Ivano, Telvana e Castellalto erano tirolesi. Pergine e Levico, quest’ultima fino al 1779 quando l’Austria cedette al vescovo di Trento Pietro Vigilio Thunn il dominio sulla giurisdizione di Castello di Fiemme in cambio di Termeno, Grumes e Levico, erano amministrate da ufficiali vescovili mentre a Caldonazzo l’amministrazione feudale avveniva tramite investitura (concessa in feudo ai conti Trapp nel 1461). Ad Ivano, Castellalto e Telvana invece l’investitura era concessa dal conte del Tirolo che a sua volta l’aveva ricevuta dal vescovo di Feltre, visto che in principio la Valsugana ne era feudo. M. Nequirito, Principi, feudi e comunità nella Valsugana del Settecento, Università degli studi di Trento, Facoltà di sociologia, anno acc. 1983-1984, p. 12 81 Questa procedura, conservatasi in età moderna, ha origini nel Medioevo, quando il signore riceveva dalla signoria feudale delle prerogative, come ad esempio il potere di banno, che gli permettevano di controllare le attività di coloro che vivevano all’interno di quel territorio. Poteva inoltre in casi eccezionali sostituirsi al sovrano per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia e l’esercizio del merum et mixtum imperium. R- Ago, La feudalità in età moderna, Roma; Bari, Laterza, 1994, p. 10 82 “Statuiamo e ordiniamo che li vicari eletti dall’Illustri Signori delli Castelli di Thelvana, Ivano, Castell’Alto, e delle giurisdizioni di Thesino e Grigno rispettivamente al governo d’esse Giurisditioni siano e s’intendino essere Giudici ordinarij e abbiano la Giurisditione ordinario tanto nelle cause Civili, quanto nelle Criminali, eccettuate le cause de Beni Ecclesiastici, e de Livelli di detti Castelli, il Giuridico delle quali appartiene...al Magnifico Signor Capitanio, e

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fiscalità le figure più importanti erano il fattore, che amministrava le entrate, i decimali, addetti alla

raccolta delle decime, ed i daziali.

La vita della comunità era regolata da varie fonti di diritto come gli urbari83, gli statuti84 ed infine le

carte di regola.

Per quanto riguarda la fiscalità gli abitanti della giurisdizione pagavano al Tirolo solamente le

steure (da Steuer – “tassa”), come contributo per le spese militari due volte all’anno (steora di

Sant’Andrea in dicembre o gennaio, steora di San Giorgio in maggio o in giugno) ed un dazio sul

vino; non si conosce l’esatta datazione di introduzione anche se qualcuno, come il Castelrotto85

ipotizza la loro entrata in vigore verso il 1519, in conseguenza delle guerre combattute

dall’imperatore Massimiliano.

Tutto il resto confluiva ed era gestito direttamente all’interno del castello. Molte erano le imposte e

talvolta davvero gravose; tra queste ricordiamo la decima (consegna di un decimo di tutti i frutti

annuali che si raccolgono da tutti i campi arati e dai vigneti), la molta (tassa sulla mungitura), la

colta (tassa sul patrimonio), la guardia o custodia (tassa per la salvaguardia del castello), il livello

(canone di un contratto fondiario a lungo termine), l’onoranza (obbligo di portare al castello una

certa quantità di merce), la muda (dazio per l’entrata o l’uscita della merce), ed il piovego (lavoro

quasi gratuito a favore del castello).

eccentuatele cause appartenenti alli Regolani, delle quali appare ne Capitoli della loro Regola... B.C.T., ms. 4112, Statuto delle tre giurisdizioni di Thelvana, Ivano e Castellalto, libro primo, cap. 1. Il vicario prendeva decisioni sia per quanto riguarda le cause civili sia per quelle criminali. Non essendo un giudice speciale non poteva emanare sentenze per quanto riguarda le questioni inerenti i beni ecclesiastici. 83 Gli urbari consistevano in un inventario di beni, entrate, uscite, diritti e doveri che una comunità aveva nei confronti del castello. In quello del 1678, dopo l’esposizione delle varie ville facenti parte della giurisdizione ed i pagamenti alle quali erano sottoposte (dazi, molte, decime le più importanti), seguono delle note sui beni allodiali del castello (campi, prati, vigneti) sui beni lavorati a piovego ed infine si parla degli obblighi a cui è sotto posto il dinasta. M. Nequirito, Principi, feudi e comunità nella Valsugana del Settecento, p. 169 e ss. 84 Il primo statuto Ivano lo riceve nel 1267 dal vescovo di Feltre. Quello definitivo però risale al 1721 ed è conservato presso la biblioteca comunale di Trento, manoscritto 4112, sotto il titolo di Statuto delle tre giurisdizioni di Telvana, Ivano, Castellalto. Consiste in due libri: il primo denominato Delli statuti delle giurisdizioni di Thelvana, Ivano e Castellalto è composto da 138 capitoli che trattano della materia civile, mentre la seconda parte, Di quelli ch’haveranno fatta congiura, o conspiratione in pregiudicio della superiorità, di 58 capitoli tratta della materia criminale 85 Giacomo Castelrotto fu il più importante cronista del sedicesimo secolo. Nato nel 1520 nel castello di Mechel presso Cles, suo padre, Biagio III, era capitano dei Conti Firmian. Dopo gli studi di giurisprudenza presso l’università di Bologna nel 1543 divenne vicario supplente del principe vescovo Cristoforo Madruzzo presso Castel Selva e vicario titolare di Castel Telvana per Carlo Welsperg. Nel 1555 poi fu nominato vicario a Castellato al servizio degli omonimi signori. Tra il 1564 e il 1568 è al comando del castello della Preda in Primiero: qui nel 1565 procedette alla stesura di un urbario contenente importanti relazioni giuridiche ed amministrative riguardanti la valle del Primiero. Nel 1571 iniziò la sua opera più importante, la Cronaca, un grosso volume manoscritto terminato solamente nel 1585 nel quale erano contenute notizie riguardanti la storia della famiglia Castelrotto, la giurisdizione del Primiero e quelle della Valsugana ed elementi di storia più generale come ad esempio le lettere di papa Adriano IV a Federico I e relative risposte, la discussione sull’origine dei Guelfi e Ghibellini sugli ordini Francescani e Domenicani. L’opera, andata distrutta durante la prima guerra mondiale, è stata trascritta in parte verso la metà del ‘600 e inserita nel manoscritto 543 della biblioteca comunale di Trento; si trova citata inoltre negli articoli e nelle opere dello Suster. I nobili signori di Strigno ed il cronista Giacomo di Castelrotto, pp. 91-120, e in Lidia Bertagnolli, Su Giacomo Castelrotto, ufficiale nelle giurisdizioni tirolesi di Valsugana e Primiero: restauri bibliografici e nuovi dati

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L’esercizio del piovego consisteva in lavori come la pulizia del castello, delle stalle e delle prigioni,

l’arruolamento dei soldati, la conservazione e la manutenzione dei terreni. Gli abitanti di Scurelle,

per adempiere ai loro doveri verso il capitano, erano tenuti a lavorare a piovego un vigneto di 5562

pertiche posto nel paese; inoltre, in cooperazione con gli abitanti di Strigno e Spera, dovevano

lavorare il Campo da Piovego sito nei pressi del paese di Scurelle, ed il Pra de Motre e condurre il

fieno al castello. Chi lavorava a piovego non riceveva una retribuzione ma soltanto del cibo; quando

non specificato diversamente consisteva in otto pani, quattro tazze di vino, minestra di fave due

volte al giorno.

Ester Capuzzo ci descrive in maniera esauriente e precisa all’interno del suo saggio Carte di regola

ed usi civici del Trentino l’esercizio del piovego: “Dovere che i singoli appartenenti alla comunità

hanno nei confronti della collettività; dovere che si esercitava soprattutto nella difesa della proprietà

privata, nel vigilare attentamente sull’ apparato amministrativo della comunità”.86

In materia di tributi l’urbario del 1531 per quanto riguarda Scurelle, ad esempio, afferma che la

comunità doveva versare al castello di Ivano per la colta 93 lire durante la festa di San Michele, per

la custodia 24 lire (12 durante la festa di San Giorgio e 12 durante quella di San Michele); inoltre

doveva fornire 112 carri e mezzo di legna. Il 28 maggio 1664 venne stipulata a Telve una

convenzione tra l’Arcipretura di Strigno, tenuta allora da Gaspare Fachinelli, ed il Castello d’Ivano,

posseduto all’epoca dagli eredi del conte Haldringer; in questo accordo si affermava che le decime

di Ivano e Fracena, tolte quelle dei beni appartenenti al castello, dovevano passare da quel momento

all’arcipretura di Strigno, mentre quelle di Strigno, Spera, Scurelle, Agnedo, Samone e Bieno al

castello. Poiché questo scambio era molto più favorevole all’arcipretura che non al castello,

quest’ultimo obbligò il Fachinelli a suggellare un patto con lui. In tale incontro fu altresì composta

la questione delle 100 uova, che l’arcipretura doveva versare al castello il giorno di Pasqua e delle

cinque libbre di pesce che aveva in dritto di ricevere.87

E’ interessante notare il fatto che il versamento di molte delle imposte non era prerogativa unica del

signore d’Ivano, ma anche altre persone o enti avevano dei diritti d’investitura.88 La situazione

fiscale di Ivano per tutto il XVI e XVII era da considerare molto redditizia sia per le prestazioni dei

sudditi sia per l’utilizzo dei beni allodiali: infatti il castello possedeva sul territorio vigneti, campi,

prati, malghe, boschi, pascoli, con quest’ultimi che talvolta in caso di necessità venivano affittati a

Vicentini, Bassanesi e Trevigiani.

86 E. Capuzzo, op. cit., p. 387 87 G. Suster, Del castello di Ivano e del Borgo di Strigno: notizie storiche…con qualche aggiunta, p. 20. 88 E’ il caso dell’arciprete e della famiglia Castelrotto a Strigno, della famiglia Busarello a Bieno, mentre ad Ospedaletto si trovava il priore.

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La giurisdizione di Ivano confinava ad est con la giurisdizione di Primiero e con i territori veneti, ad

Ovest con Telvana e Castellalto, a Nord con i territori di Fiemme e infine a Sud con i territori

veneti.

Ivano, come le altre giurisdizioni della bassa Valsugana, risultava essere particolare in quanto la

giurisdizione civile, rappresentata in questo caso da vari poteri succedutisi nel corso dei secoli come

i Caldonazzo-Castelnuovo, i Carraresi, gli Scaligeri, i conti del Tirolo, collimava con quella

religiosa, personificata nella figura del vescovo di Feltre.89

Ivano divenne comunque giurisdizione autonoma attorno alla fine del XIII secolo grazie alla

famiglia dei Castelnuovo90 che negli anni successivi riuscirono ad assoggettare i territori di Grigno

(1333) e Tesino (1337), sottraendoli al dominio degli Scaligeri. Il Tesino venne occupato da

Siccone e Rambaldo di Castelnuovo che vi insediarono un vicario. Per tutti gli anni successivi la

situazione rimase molto complessa, con continui scambi e cessioni di territori fra le varie famiglie.

Un esempio famoso fu quello della lotta riceve tra Francesco da Carrara e Biagio delle Castellare.91

Al termine di quest’ultima Francesco governò assieme al vicario, Ottobono da Legnago, fino al

1374, quando, dopo la cessione al duca Leopoldo III d’Austria quest’ultimo cedette il giudizio a

Biagio di Strigno, appartenente alla famiglia degli Ivano.92

Con l’avvento di Giangaleazzo Visconti nel 1388 i signori di Ivano si sottomisero a lui, riuscendo

così ad essere investiti dei territori di Tesino e Grigno anche se ciò provocò una diatriba con la

famiglia Caldonazzo – Castelnuovo guidata da Siccone il giovane.93

L’investitura trovò l’opposizione del popolo tesino che in una lettera scritta direttamente al Visconti

chiedevano una sua marcia indietro sulla questione.94 Nonostante questo accorato appello

Giangaleazzo confermò nuovamente la decisione presa e quindi i Tesini, loro malgrado, accettarono

il provvedimento.

Alla morte di Gian Galeazzo Visconti Francesco Novello da Carrara rivendicò pretese sulla

Valsugana ed occupò Ivano, Grigno ed il Tesino. Nel 1406 Francesco Novello morì e la

89 Avvenne infatti che nel 1027 Corrado II detto il Salico (990-1039), eletto imperatore nel 1024 alla morte di Enrico II lo zoppo, donò la bassa Valsugana al vescovo di Feltre Richizzone, stabilendo inoltre come confini tra la contea di Feltre e quella di Trento la chiesa di San Desiderio a Novaledo 90 E’ questa l’opinione sia del Voltelini nel libro Le circoscrizioni giudiziarie del Trentino fino al 1803 sia del Suster nel testo Del castello di Ivano e del borgo di Strigno che segna la data di passaggio al 1296, mentre per il Montebello nel suo Notizie storiche topografiche e religiose della Valsugana e di Primiero ribadisce che questo passaggio avviene nel 1311. Non è da escludere comunque che nel periodo 1296-1311 il la giurisdizione fosse retta da entrambe le famiglie e solamente nel 1311 i Caldonazzo-Castelnuovo ne diventino beneficiari unici. 91 Biagio delle Castellare si era alleato con Francesco da Carrara nel 1356 ma verso la fine del 1364, quando Rodolfo IV d’Austria mosse guerra a Francesco da Carrara, Biagio tradì quest’ultimo reputando gli Austriaci più forti. Francesco con l’aiuto della popolazione, stanca delle vessazioni di Biagio, riuscì a sconfiggerlo nel 1365. Biagio venne condannato a morte ed impiccato. 92 H. Von Voltelini, Le circoscrizioni giudiziarie del Trentino fino al 1803, p. 222 93 Ibidem, p. 222 94 La lettera di protesta si trova in G. A. Montebello, Notizie storiche, topografiche e religiose della Valsugana e di Primiero, nella sezione Documenti per le notizie della Valsugana e di Primiero, p. 81-83

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giurisdizione di Ivano passò nelle mani dei Veneziani fino al 1412, anno della discesa di Federico

IV.

Una figura quella di Federico che riveste non solo un significato importante nella storia della

Valsugana, ma come afferma il Granello risulta essere di “grande significato e peso nella storia

tirolese-trentina”95 in quanto riuscì ad approfittare sia delle debolezze in seno al principato

vescovile di Trento, fomentando, seppur per un breve periodo la rivolta del Belenzani del 1407, sia

contro la Serenissima che stava attraversando tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento un

momento di grave crisi sia da un punto di vista politico che economico.96 E infatti nel 1412 scese

lungo la Valsugana, riuscendo nel mese di agosto a conquistare dapprima castel Telvana eppoi

Tesobo e S. Pietro, tutti appartenenti a Giacomo di Castelnuovo – Caldonazzo, e Ivano. Con un

incontro effettuato all’interno del castello di Merano il 2 agosto 1413 venne stipulato l’accordo tra

Federico ed Enrico Scarampi, vescovo di Feltre con quest’ultimo che infeudava al duca austriaco i

territori della Valsugana Feltrina.97

Se per la cessione di Telvana, Tesobo e S. Pietro abbiamo date certe non si può dire altrettanto per

quella di Ivano. Secondo il Montebello,98 poi ripreso anche dal Suster e dal Romagna99 già l’8

maggio 1413 si ha il primo capitano ducale di Ivano: Leone Zobel. Questo però non spiega il perché

l’anno successivo, come vedremo fra breve, Federico operò un nuovo assedio nei confronti del

castello. O le notizie del Montebello sono assolutamente fuorvianti oppure vi fu un’ulteriore

recupero da parte tirolese di cui però le fonti a nostra disposizione non parlano. Il Brandstatter

95 G. Granello, Intervento di apertura del convegno sul tema I percorsi storici della Valsugana: la valle infeudata, Castel Ivano 16 ottobre 1999, Castel Ivano incontri, 2003, p. 405 96 C’è da dire che tensioni tra Federico IV e la repubblica di Venezia, sebbene alleati grazie all’accordo tra Venezia e Leopoldo, fratello di Federico, erano frequenti ed aumentarono sensibilmente negli anni 1410-1411, quando prima il sovrano tirolese invitò i nobili che si erano alleati con la Serenissima a comparire davanti a lui per la suddivisione dei loro feudi principeschi e per il giuramento di fedeltà eppoi quando Venezia estese la sua influenza nella Vallagarina meridionale. K. Brandstatter, Federico d’Asburgo e la conquista della Valsugana, in Federico IV d’Asburgo e la contea vescovile di Feltre, a cura di Gianfranco Granello, Comune di Feltre, 2001, p. 78 97 “I castelli di Tesobo, san Pietro e Telvana [...] commessi alla nostra Chiesa di Feltre come cose di diretto dominio fin da antichi tempi, Noi, per molte cause e ragioni, ma principalmente per la negligenza e contumacia del fu Siccone [...] e per quella di Giacomo, suo figlio, i quali tenevano i detti castelli dipendenti per diritto di feudo da Noi e dalla Nostra Chiesa, non si curarono con sprezzo di riconoscerli come nostri e di rinnovare nel tempo debito [...] il diritto d’investitura: perciò, volendo Noi acquistare a vantaggio nostro e a quello della Nostra Chiesa il tesoro incomparabile dell’infrascritto Principe e la di lui benevolenza, sussidio e favore [...] abbiamo investito il Principe Federico d’Austria per sé e successori, mediante la consegna dell’anello [...] dei predetti castelli, con le loro ville e pertinenze, (salvo sempre il diritto della Chiesa di Feltre) e delle persone; [...] castelli e ville di diritto feudale della Chiesa di Feltre e che erano possedute dai Signori di Caldonazzo [...] Donde il prefato Principe fece per sé ed eredi il giuramento di fedeltà; cioè: ”Noi lo terremo come fedele vassallo, lo manterremo Signore ed egli ed eredi saranno obbligati come sono obbligati i vassalli dei feudi ai loro collatori”. Dato in Merano il 2 agosto 1413. Il documento originale è conservato all’archivio di Innsbruck; questa trascrizione parziale è stata ripresa da Giulio Perotto, La Valsugana e Federico Tasca vuota: la rinuncia politica di Feltre, in I percorsi storici della Valsugana, p. 409 98 G. A. Montebello, Notizie storiche, topografiche e religiose della Valsugana e di Primiero, p. 226 e ss. 99 G. Suster, Del Castello d’Ivano e del borgo di Strigno, p. 43. F. Romagna, Ivano il castello e la sua giurisdizione, p. 59

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ipotizza una terza via, cioè vi possa essere stato un dissenso tra Federico IV e lo stesso Leone Zobel

da quando quest’ultimo sposò Ziliola, vedova di Antonio d’Ivano e sorella di Giacomo.100

I signori di Ivano Antonio e Castruccio non rinunciarono all’idea di ritornare in possesso della

giurisdizione e per questo stipularono un’alleanza nel 1414 con Venezia e con Filippo Maria

Visconti di Milano. Tutto ciò si rivelerà comunque infruttuoso. Per Federico ed i suoi vicari la

gestione di Ivano si rivelerà più difficile del previsto in quanto molti ne pretendevano un controllo.

Oltre ad Antonio e Castruccio anche Pietro Spaur, che durante la rivolta di Trento del 1407 si era

accordato con il duca d’Austria contro Rodolfo Belenzani, reclamava i suoi diritti, anche se una

sentenza del 1420 sancì l’assoluta illegittimità delle pretese dello Spaur. Giudizio e castello vennero

poi continuamente ceduti: prima ad Erasmo Thun (1421) poi ad Enrico Morsberger (almeno fino al

1448), a Francesco di Castellalto (1448-1450) e quindi a Giacomo Trapp, signore di Caldonazzo

(1450). Quest’ultimo li affidò a Wiguleis Gradner, che ne eserciterà il potere fino al 1455, anno in

cui ritornò nelle mani di Giacomo Trapp. Dopo la morte di quest’ultimo divenne fino al 1487

capitano del castello Roberto Stamer, mentre la giurisdizione passò nelle mani prima di Enrico

Anich poi in quelle di Nicola Longo, che si trovò fra l’altro a dover dirimere un problema legato ai

pagamenti delle collette con i paesi di Strigno, Scurelle e Samone.

Il 1487 segnò un anno di svolta a causa della guerra tra i Veneziani e l’arciduca Sigismondo, figlio

di Federico IV e succeduto alla guida della contea del Tirolo dopo la morte del padre: i Veneziani

riuscirono ad avere la meglio e di conseguenza occuparono Ivano (molto probabilmente agli inizi

del mese di febbraio), stabilendovi un provveditore e capitano: prima Domenico Dolfin il 6

novembre 1487 poi Andrea Prioli il 10 marzo 1488. La figura di provveditore e capitano era

certamente molto importante in quanto doveva organizzare la vita del castello e difendere lo stesso

dai possibili attacchi perpetrati da simpatizzanti dell’arciduca d’Austria.

Il trattato di pace, stipulato il 13 novembre 1487 sottopose la questione della giurisdizione di Ivano

a papa Innocenzo VIII, che ne decise l’assegnazione a Massimiliano d’Austria conte del Tirolo101, il

quale le diede subito in pegno a Giorgio, Giacomo e Carlo Trapp; infine venne rilevato da Vito

Wolkenstein nel 1492.

Il passaggio fra Venezia e l’Austria non fu dei più semplici: nel dicembre 1487 Sigismondo inviò a

Roma Ulrico Freundsberg per esortare il papa a prendere una posizione vicina alle esigenze tirolesi.

100 K. Brandstatter, Federico d’Asburgo e la conquista della Valsugana, in Federico IV d’Asburgo e la contea vescovile di Feltre, a cura di Gianfranco Granello, p. 99 101 “Viam igitur pii pastoris et amicabilius litium sedatoris iuxta arbitrium nobis concessum iurium rigore circumscripto amplectens, decernimus et precipimus ac ordinamus, ut dicta castra Ivanii et Numii apud venerabilem fratrem Nicholaum, episcopum Tarvisinum, oratorem nostrum, in sequestrum existentia oratori bus prefati Maximiliani, archiducatus Austriae administratoris, sufficienti mandato suffultis libere et ex toto restituantur prout nos et ex nunc ad statum in quo antem notum bellum erat, restituimus”. G. Onestinghel, La guerra tra Sigismondo conte del Tirolo e la repubblica di Venezia nel 1487, Calliano, Ed. anast., 1989 pp. 240-244

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La missione non diede i risultati sperati, tanto che il 2 gennaio viene inviata da Innsbruck una lettera

per Innocenzo VIII ma l’invocazione rimase inascoltata; dovette trascorrere all’incirca un anno

prima che il papa scrivesse una lettera a Venezia con la quale consigliava espressamente di

accompagnare alcuni delegati del Nunzio pontificio Nicolò Franco sul luogo per assumerne la

sorveglianza. Il senato acconsentì ed inviò Francesco da Novello, ma anche questa volta la

questione non si risolse completamente. Un tentativo uguale al precedente viene effettuato nel 1490

con il legato Rico de Richis che fece pervenire al papa i suoi pareri: soltanto a questo punto il papa

prese la fatidica decisione di cedere il castello d’Ivano al Tirolo (20 febbraio 1491).102

Nel 1496 il giudizio di Ivano passò alla famiglia dei baroni Wolkenstein-Rodnegg, che ne

eserciteranno la giurisdizione fino al 1632 quando Ivano entrò nelle mani dell’arciduchessa Claudia,

vedova dell’arciduca Leopoldo, la quale elesse capitano prima Giorgio Battista Alberti (1632-1636)

poi Sigismondo Welsperg (1636-1644) ed infine ad Antonio Sbardellati di Adlerburg (1644-1650).

Alla morte dell’arciduchessa Claudia, avvenuta nel Natale 1648, il figlio Ferdinando Carlo prese il

suo posto; questi nel 1650 impegnò le signori di Egna, Caldaro e Ivano al conte Giovanni

Aldringen, che eserciterà il controllo del castello assieme ai suoi eredi fino al 1679, anno del suo

passaggio dietro il pagamento di 70.000 fiorini, al conte Gaudenzio Fortunato de Wolkenstein-

Trostburg in cambio della giurisdizione di Kitzbuhel. Nel 1750, su concessione proveniente

direttamente dall’imperatrice Maria Teresa, il feudo si trasformò da ipotecato a perpetuo,

acquisendo il merum et mixtum imperium, il grado di appello o giustizia superiore103: questo è

certamente un passaggio importante visto che assumendo il titolo di perpetuo poteva esercitare oltre

che la giurisdizione anche il diritto di nomina dei sacerdoti e del patronato sulle parrocchie in essa

esistenti.104

Nella lettera di infeudazione, redatta in presenza dei conti Gaudenzio Fortunato e Giuseppe

Wolkenstein, dei sindaci e di altri rappresentanti delle comunità, interessante è vedere lo stretto

rapporto diritti/doveri fra il potere centrale e quello periferico; infatti il dinasta di Ivano aveva

“l’obbligo di trattare bene i suoi sudditi, rispettare i loro privilegi, gli antichi diritti, le buone

usanze; non deve opprimere o affliggere alcuno senza giusto motivo; deve usare uguale giustizia

tanto per i poveri che per i ricchi; ha l’obbligo di esercitare un’accuratissima sorveglianza affinché

la giustizia vendicativa venga amministrata secondo le leggi e senza parzialità, senza riguardo ad

102 G. Onestinghel, op. cit., pp. 205-212 103 Al capitolo 4 della lettera di infeudazione si legge infatti che Maria Teresa concede il “mero, e misto Impero, ed alto jus Sanguinis e ciò senza l’obbligazione di trasmettere li Processi avanti l’esecuzione della sentenza, o pena Capitale ad Revidendum all’ Ecc.so Regimento dell’Austria Superiore [...] e con l’espressa riserva che a detto Regimento resti riservata la superiore inspezione, ed auttorità”. 104 Questo passaggio, pur nella sua importanza risulta particolarmente strano visto che siamo in un’epoca, quella di metà Settecento, nella quale, come abbiamo già visto al capitolo 1, il potere austriaco, attraverso tutta una serie di riforme tendeva a centralizzare il potere. Nessuna delle fonti a nostra disposizione è riuscita a capire e quindi spiegare i motivi di questa scelta da parte di Maria Teresa.

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amici e a nemici, a regali e a qualunque altra cosa che possa alterare un giusto giudizio; si ricordi

che deve rendere conto a Dio di come viene amministrata la giustizia. Il dinasta deve costituire

giudici uomini capaci, i quali dovranno obbligarsi con giuramento ad amministrare la giustizia

senza parzialità. […] Deve mantenere e difendere tutti i diritti e i privilegi della contea; deve

ospitare in castello Sua Maestà ed i suoi inviati, nessuno eccettuato, tutte le volte che la necessità lo

richiederà; non deve dichiarare guerra, né invadere un territorio, né fare la pace con i nemici del suo

sovrano, qualora ne avesse. Nel caso sorgesse qualche vertenza tra il dinasta e Casa d’Austria o tra

il dinasta e il suo popolo per cose che riguardano il castello di Ivano e la sua giurisdizione, le parti

contendenti dovranno attendere ed attenersi al giudizio della Reggenza dell’Austria Superiore.

Si ricordino i conti Wolkenstein di essere sempre fedeli e obbedienti al loro sovrano, pronti a

promuovere in ogni modo l’onore e il vantaggio dello stesso, disposti a far tutto quello che un buon

vassallo è tenuto e obbligato a fare al suo padrone feudale secondo le leggi feudali comuni ed

austriache.”105

Nel 1790 si verificò un nuovo passaggio di consegne: infatti Ivano passò nelle mani del conte Pio,

pronipote del conte Gaudenzio Fortunato Wolkenstein.

Nel 1830 la giurisdizione di Ivano venne soppressa e incamerata dal demanio austriaco.106 Era

ormai un processo inevitabile, preceduto due anni prima, nel 1828, da una missiva che i capi

comune dei paesi della giurisdizione scrissero a Leopoldo Wolkenstein-Trotsburg affinché

sollecitasse la rinuncia da parte del governo sulla giurisdizione di Ivano in quanto vi era il serio

pericolo che una parte, se non tutta la giurisdizione di Ivano venisse assoggettata a quella di Borgo.

Tra il 1839 e il 1852 circa iniziarono e furono portate a termine le trattative per la cessazione delle

decime e delle altre prestazioni feudali. Infatti già nel 1839 era stato emanato il cosiddetto Primo

abbozzo di accomodamento per le decime e livelli nel Feudo di Castello di Ivano nel quale si

affermava che i paesi della giurisdizione avrebbero dovuto provvedere a pagare entro vent’anni la

somma di 25000 fiorini in valuta di Vienna al signore. Questo pagamento doveva essere dilazionato

in parti uguali per tutti i paesi. Accanto a tutto ciò nel 1844 venne stabilito quanto vi fosse per ogni

paese da pagare per le decime, le colte e la guardia. Erano cifre non indifferenti per l’epoca ed

infatti cominciarono i mugugni e le proteste da parte della popolazione.107 Ecco perché nella

convenzione stipulata nel settembre 1847 tra Leopoldo Wolkenstein ed i paesi della giurisdizione i

toni cominciarono a cambiare: si legge infatti:

105 F. Romagna, Ivano: il castello e la sua giurisdizione, p. 90. La lettera originale è conservata in A.S.T., Archivio Wolkenstein di Castel Toblino, n. 33 106 Il governo austriaco acquistò la casa dinastiale e le carceri per 3900 fiorini. L’accordo viene firmato il 22 agosto 1829 nel giudizio distrettuale di Ivano. F. Romagna, op. cit, p. 149 107 Scurelle ad esempio era il paese che doveva versare la cifra maggiore quantificata in 12013 fiorini e 31 carantani. F. Romagna, op. cit., p. 151

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“Il signor Feudatario Conte Leopoldo de Wolkenstein-Trotsburg cede ed in assoluta proprietà

trasferisce al comune di…qui rappresentato dagli individui intestati, ogni e qualunque diritto di

decima spettante al Feudo del castello di Ivano; tutti i livelli; ogni e qualunque pretesa che il Feudo

di Ivano ha per titolo di colta, guardia, onoranze di legna, somministrazione di scandole, pioveghi

ecc.”108

Bisognerà però attendere il 1852 per la definitiva cessazione della disputa, quando i comuni di

Bieno, Ospedaletto, Villa Agendo, Spera, Scurelle stipularono un nuovo accordo con il feudatario di

Ivano che modificava i precedenti accordi.

Dopo la rinuncia, da parte del dinasta, al potere giudiziario e al complesso sistema tributario

costituito dalle decime e dalle altre prestazioni feudali, si concluse per i paesi della giurisdizione

un’epoca iniziata nel medioevo.109

3.2 Le altre giurisdizioni nella Bassa Valsugana

Abbiamo già visto come a sud-est la giurisdizione di Ivano confinasse con i territori veneti e quali

fossero i problemi con essi, soprattutto per quanto riguarda il problema dei confini; ora però

prenderemo a grandi linee in considerazione le altre giurisdizioni confinanti con Ivano (Castellalto e

Telvana).

3.2.1 Castellalto e San Pietro La giurisdizione di Castellalto, strettamente collegata a quella di San Pietro, comprendeva le

parrocchie di Telve e Torcegno con i paesi di Telve di Sopra, Telve di Sotto, Carzano, Torcegno,

Ronchi.

Sconosciuta è la data in cui cominci ad essere esercitata: sappiamo solo che nel 1272 il castello era

di proprietà di Guglielmo di Telve, con i suoi successori che presero il nome dal castello. L’altro

ramo della famiglia di Telve invece esercitava il controllo su San Pietro. Certo invece è che per

esercitarla i signori delle due famiglie si dividevano; i signori di san Pietro impegnati per due anni

mentre quelli di Castellalto un anno su tre.110 Nel 1331 San Pietro, assieme ad altri diritti (tra cui

ricordiamo il merum et mixtum imperium) venne ceduto da Ottolino di Telve ai Castelnuovo. Come

per Ivano la discesa di Federico IV mutò in maniera sensibile gli equilibri, con il duca austriaco che

fu investito dal vescovo di Feltre di San Pietro, mentre Castellalto riuscì ad essere governato

dall’omonima famiglia fino al 1555, quando alla morte di Francesco di Castellalto e con una

108 F. Romagna, op. cit., p. 152 109 Castel Ivano a questo punto divenne solamente abitazione privata del feudatario Leopoldo.

110 H. von Voltelini, Le circoscrizioni giudiziarie fino al 1803, pp. 217-218

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sentenza del vescovo di Feltre, il castello passò ai nipoti di Francesco: Nicolò Lodron, Nicolò di

Trautmansdorf e Giovanni di Greifensee. Ben presto però, nel 1563, sia i Lodron che i Greifensee

cedettero le loro parti ai Trautmansdorf che quindi divennero gli unici signori di Castellalto. Nel

1635 Francesco Trautmansdorf vendette Castellalto all’arciduchessa Claudia, con l’approvazione

del vescovo di Feltre Giampaolo Savio da Venezia. Nel 1652 avvenne un nuovo passaggio di

consegne: questa volta entrarono in gioco dapprima Giuseppe Cosmi da Rovereto poi Michele

Fedrigazzi ed infine Benedetto e Matteo Zambelli da Bassano. Ovviamente tutti questi continui

cambi generarono incomprensioni e litigi: non passò infatti molto tempo che una nuova famiglia,

capeggiata dal conte Antonio Bartoli da Venezia, rivendicasse dei diritti di giurisdizione su

Castellalto. Con l’intervento in prima persona dell’arciduca Sigismondo Francesco il castello venne

sequestrato, ma solo nel 1671 la questione di chi dovesse esercitare il controllo del maniero giunse

ad una conclusione: una sentenza del vescovo di Feltre Bartolomeo Gera da Candide Comelico ed

un diploma datato Innsbruck 16 luglio 1671 lo assegnarono ad Antonio Buffa, figlio di Arminio,

che aveva sposato una fanciulla di casa Zambelli.111

3.2.2 Telvana Si è soliti identificare il castello con quello di Alsuca, espugnato nel 590 dall’avanzata dei Franchi,

guidati da Childeberto II, secondo quanto ha tramandato lo storico dei Longobardi, Paolo

Diacono112; mancano notizie certe sulla costruzione del primo nucleo: molto probabilmente lo

possiamo far risalire al principio del ‘200. Nel 1385 anche questo castello risentì del passaggio dei

Vicentini e venne distrutto al pari di Castel San Pietro. Ricostruito pochi anni dopo, fu demolito alla

fine del XVIII secolo per volontà imperiale. La sua giurisdizione derivò dalla contea di Feltre subito

dopo la fusione di tre entità fino ad allora rimaste distinte: Telvana, Tesobo (unito a Telvana nel

1321) e Montebello, che esercitava fino al momento della fusione assieme a Tesobo la giurisdizione

sul paese di Roncegno: a partire dal 1314 venne controllato dalla famiglia Caldonazzo-Castelnuovo,

su cessione operata dal vescovo di Feltre Alessandro Novello. Il primo che ne esercitò la

giurisdizione fu Rambaldo; poi salì al potere il figlio Siccone, famoso per la già citata acquisizione

di Tesobo del 1321. Il controllo della famiglia Caldonazzo-Castelnuovo terminò nel 1384, anno

111 Questa sentenza non riuscì comunque a bloccare le dispute fra le diverse famiglie. Nel 1673 in una sentenza datata 25 agosto l’imperatore Leopoldo I dichiarava che la giurisdizione di Castellalto non era di competenza e proprietà del vescovo di Feltre ma del sovrano territoriale. I Lodron, famiglia che aveva già contestato la cessione nel 1652 da parte dell’arciduca Ferdinando a Giuseppe Cosmi, ricorsero comunque alla Rota Romana ma una sentenza del 1692 ribadì la legittimità dei Buffa. H. von Voltelini, op. cit., pp. 219-220 112 […] “Nomina autem castrorum quae diruerunt in Territorio Tridentino ista sunt: Tesana, Maletum, Sermiana, Appianum, Fagitana, Cimbra, Vitianum, Brentonicum, Volaenes, Ennemase, et duo in Alusca et unum in Verona. Haec omnia Castra cum diruta essent a Francis, cives universi ab eis ducti sunt captivi” P. Diacono, Historia Longobardorum, III, 31

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della rinuncia di Michele di Castelnuovo per il proseguo del controllo della giurisdizione che verrà

presa da Siccone di Telvana. La rivolta del Belenzani a Trento ed il sopraggiungere di Federico IV,

avranno conseguenze anche su Telvana, vista l’amicizia tra Rodolfo e Siccone: spettatrice di tutto

ciò è la Repubblica di Venezia che il 9 febbraio 1407, attraverso una delibera del Consiglio dei

Dieci, inviava il suo agente Paolo di Leone in Valsugana con il compito di tenerlo informato degli

sviluppi. In una lettera datata 15 febbraio, e scritta dal Consiglio dei Dieci a Siccone di Telvana, si

stabiliva che Venezia non avrebbe interferito in un’occupazione di Trento da parte del duca tirolese,

ed inoltre si sollecitava Siccone ad interporsi presso il Belenzani alla ricerca di una soluzione

concordata per superare il problema venutosi a creare.

Nel 1412 il duca Federico IV, assieme ai fidi consiglieri Ulrich Von Weisbrach, Johann

Wolkenstein, Joachin von Montani, Gregor Goldekger e Balthazar von Thunn, giunse anche nei

pressi del maniero e si apprestò ad assediarlo; nonostante l’impegno profuso da Lesina, moglie di

Giacomo, conquistò Telvana e l’anno successivo fu investito dal vescovo di Feltre del merum et

mixtum imperium e della giurisdizione criminale. Nei decenni successivi venne controllato da

famiglie molto influenti quali i Gradner (1451-1456), i Trapp (1459-1461), i Weinecker (11 agosto

1461-22 aprile 1462), ma soprattutto i Welsperg, signori del Primiero che ne esercitarono il

controllo fino al 24 gennaio 1632, giorno in cui viene riscattato dall’ arciduchessa Claudia, che lo

dotò di un nuovo statuto nel quale si proponevano nuove disposizioni in materia di cancelleria e di

giustizia. Nel 1653 poi il castello fu ceduto a Michele Fedrigazzi in cambio della giurisdizione di

Nomi, della Pietra di Calliano e di un pagamento di 98200 fiorini. Il controllo della famiglia

Fedrigazzi risultò piuttosto effimero in quanto già sei anni dopo, nel 1659, l’arciduca Ferdinando

Carlo se ne riappropriò restituendo Nomi e la pietra di Calliano al Fedrigazzi. Subito però lo

ricedette nel 1661 ai patrizi di Venezia Giacomo e Marino Natali eppoi l’anno successivo al barone

Giovanni Andrea Giovannelli da Venezia e a suo nipote Carlo Vincenzo. Il giudizio rimase nel

castello di Telvana fino al 1788, quando viene trasferito a Borgo. La giurisdizione di Telvana

comprendeva svariati paesi della Valsugana quali Roncegno, Novaledo, Borgo-Olle, Savaro e

Castelnuovo.113

113 H. von Voltelini, op. cit., pp. 214-216.

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3.3 Il paese di Scurelle

Scurelle è un piccolo paesino che attualmente conta all’incirca 1200 abitanti.

Molto scarse, come del resto in tutta la Bassa Valsugana, sono le notizie in merito alla storia del

paese, in particolare per quanto riguarda il periodo medievale. Le poche fonti a nostra

disposizione114 ci raccontano di un borgo molto vivace, conosciuto in Valsugana e non solo per la

festa patronale di santa Maria Maddalena (22 luglio) nella quale veniva organizzata la più grande

fiera della valle per i prodotti derivanti dalla pastorizia, dall’agricoltura e dall’allevamento.

Il dominio delle famiglie locali, tra cui ricordiamo l’omonima famiglia Scurelle115 ed i già citati

Caldonazzo – Castelnuovo, si interruppe bruscamente come abbiamo già visto nel 1412 con il

sopraggiungere di Federico IV che con la conquista di Castel Ivano assoggetta anche tutti i paesi

facenti parte della giurisdizione; il duca, nell’ottica politica che prevede la delega di alcune

mansioni, pone alla guida del maniero parecchi capitani tirolesi che in talune occasioni potevano

essere sostituiti da dei vicari: in un caso specifico, nel 1440, vicario diviene un rappresentante della

comunità di Scurelle: Giacomo Monaci. Oltre a questa rappresentanza politico-istituzionale l’arrivo

di Federico IV porta anche una notevole immigrazione di persone di influenza tedesca (i cosiddetti

roncadori), attratte dalla possibilità di lavorare: tra queste fila di persone per l’economia della zona

risultano essere molto importanti i minatori o canopi (dal tedesco Knappen), che trovarono lavoro

nelle montagne del perginese di Roncegno e delle zone confinanti con i paese di Scurelle.

Il paese, sulla scia di quanto accaduto a Borgo nel 1520, quando scoppiò una rivolta di popolo

contro il giurisdicente dell’epoca Sigismondo di Welsperg, accusato di negare alcun tipo di

miglioramento delle condizioni di vita, durante la guerra contadina del 1525 partecipò con i suoi

abitanti all’assalto di Castel Ivano. Ma dopo la morte del capitano Giorgio Puchler un corpo di 2000

soldati bloccò la rivolta, catturando numerose persone.

Nel corso del ‘700 infine Scurelle conobbe un nuovo sviluppo, favorito dalla creazione di

un’industria della seta e della carta.

114 Per quanto riguarda la storia del paese le uniche fonti su cui possiamo contare, ma che al contempo si rivelano abbastanza infruttuose per la ripetitività e la genericità con cui vengono trattati gli argomenti sono: Comunità di Scurelle: notizie storico-giuridiche e vicissitudini di un comune trentino, a cura di G. A. Gozzer , 1945, pp. 5-6, Antonio Zieger, Vicende e carta di regola della Comunità di Scurelle. 115 Questa famiglia già ai tempi della dominazione longobarda in Valsugana e fino all’arrivo dei signori di Ivano alla fine del X secolo esercitava il controllo sul paese.

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3.4 La carta di regola

E’ il 9 novembre 1552, quando nella villa di Scurelle si riunisce la comunità, presieduta da Battista

Macera, che doterà il paese della carta di regola. Abbiamo già visto come il Cinquecento fu il

secolo più fecondo per la loro redazione; non è da escludere una regola più antica, anche se non

possediamo notizie certe. E’ molto probabile che ne sia stata composta una in data antecedente al

1552 visto che nell’introduzione si afferma il bisogno di costituire un nuovo insieme di norme

statutarie per svariati motivi: la revoca di norme precedenti, dovuta all’incompetenza di funzionari

comunali che le compilarono, la crescita dell’economia locale, e l’ordine pubblico sempre più

minacciato.116 La versione originale è andata persa117 mentre esistono ancora tre copie, conservate

nell’archivio comunale di Scurelle: la prima del 1686 fu riconfermata da Carlo V duca di Lorena118

nel 1689. Si tratta di un codice composto da 18 fogli membranacei manoscritti, di cui due in fondo

asportati; mm. 356x266x13, con un sigillo in cera rossa mm. 53x56. Oltre ai capitoli in volgare

troviamo in fondo al documento la sanzione dell’arciduchessa Claudia datata 16 settembre 1639.

La seconda, controfirmata prima dal vicario d’Ivano Brizio Ropele il 19 agosto 1712 eppoi

riconfermata dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo il 23 dicembre 1713 è anch’essa composta da 18

fogli membranacei; l’ultima, la più recente a noi da un punto di vista cronologico dato che è stata

riconfermata dal governo di Maria Teresa nel 1750119, è composta da 30 fogli manoscritti, mm.

334x273x17, con un sigillo in cera rossa mm. 126x124. Tutte e tre le copie nel 2006 sono state

sottoposte ad un restauro operato dal servizio beni culturali della provincia autonoma di Trento.

116 […] “Ibique cum alias jam certis annis elapsis facta fuerint per nonnullos homines vicinos ipsius Communitatis uti electos et deputatos per ipsam Communitatem multa et diversa capitula, ac Ordinationes tam respectu gubernationibus Massariorum, Regulanorum, ac Saltuariorum, quam etiam pro conservatione et manutentione possessionum, Vinearum, tam hominum, et vicinorum ipsius Communitatis, quam forensium, ac etiam pro conservatione et manutentione Bonorum Communium ac Castanearum, nec non Nemorum et Montaneaurum ipsius Communitatis Scurellarum…” 117 Sconosciuta a noi rimane la data in cui questo avviene. Quel che sappiamo con certezza è che ciò avviene in una data antecedente al 1887. Infatti di quell’anno è la pubblicazione di Guido Suster, La regola di Scurelle (1552), dove lo storico valsuganotto si trova anch’egli come materiale archivistico a sua disposizione soltanto queste tre copie. G. Suster, op. cit., p.10 118 Carlo Leopoldo Nicola Sisto, passato alla storia come Carlo V, nasce il 3 aprile 1643 a Vienna; figlio dell’arciduchessa Claudia, diviene duca di Lorena alla morte di Carlo IV. 119“Avendo benignamente considerato l’umile preghiera dei sudditi cittadini della comunità di Scurelle, come pure i fedeli premurosi servigi e la devozione a tutta prova che essi in ogni tempo e fino ad oggi ininterrottamente e molto umilmente hanno dimostrato a Noi e alla Nostra Serenissima Dinastia, tenuto ancora conto del fatto che essi sono desiderosi di continuare ad offrire obbedientissimi i loro servigi abbiamo fatto loro altissima grazia, con ben ponderato animo, secondo saggezza e retta coscienza, confermando loro, con somma benevolenza, i “Privilegi” o “Regole” sopra scritti nel loro contenuto e significato: Con ciò confermiamo e approviamo loro detta Regola deliberatamente e per virtù di questa lettera con tutti i diritti che essi hanno finora e da tempo goduto ed esercitato in pacifico possesso e per tutto quanto Noi possiamo confermar loro in virtù del Nostro Potere Sovrano, secondo equità e giustizia [...]Tutto questo intendiamo Noi proclamare solennemente con l’instrumento di questa lettera, munita del nostro grande sigillo imperialregio e arciducale, appeso alla stessa e apposto in Vienna, Nostra capitale e città residenziale il 13 maggio dell’anno 1550 dalla nascita, feconda di grazie, di Cristo, Nostro amabile Signore e Redentore e nel decimo anno del Nostro Impero”. . .

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La parte introduttiva, come d’abitudine, è scritta in lingua latina e svolge una funzione molto

importante: quella dell’approvazione dell’autorità superiore, rappresentata in questo caso dall’

impero asburgico, e della presentazione della riunione in assemblea.

3.4.1 L’introduzione

L’introduzione, inserita all’inizio della carta di regola, delinea già alcuni aspetti interessanti: la

prima cosa che si nota è che il già citato Carlo, plenipotenziario dell’imperatore Leopoldo I, duca di

Lorena, è il delegato per l’approvazione e la conferma della carta di regola. Accanto a tutto ciò

troviamo quelle materie per le quali i paesi avevano diritto di legislazione: prati, vigneti, pascoli,

boschi. Subito dopo riscontriamo un riferimento anche a Gesù Cristo come protettore spirituale

della comunità e l’anno di convocazione, che in questo caso è mercoledì 9 novembre 1552; seguono

poi nell’ordine tutti gli uomini presenti e le loro rispettive funzioni: vediamo quindi che la comunità

era dotata di un massaro (Baptista), di saltari (Jacobum Zilii Cursi, Jacobum Maceram),

espressione della volontà popolare. Inoltre non poteva mancare il reverendo del paese: Ioseph de

Camil (Giuseppe di Camil).

Una particolarità che contrasta con quanto detto nei precedenti capitoli viene data dalla presenza di

alcune personalità che potremmo definire forestieri. Abbiamo già detto che quest’ultimi, a

differenza dei vicini, non potevano partecipare alle riunioni della Regola, mentre qui ne troviamo un

numero davvero consistente: Antonio Fracasso da Levico, Maurizio Cerdone, Matteo Fabbro da

Vicenza e Giovanni Barezotto da Strigno. Molto probabilmente si è ritenuto convocare anche queste

persone per avere dei pareri e dei consigli ulteriori da chi era già più esperto o aveva già assistito

nel proprio paese alle riunioni dell’assemblea. La parte finale dell’introduzione ci fa capire in

maniera pratica quanta importanza rivestisse la carica di massaro all’interno della comunità. Infatti

Battista Macera parlerà anche a nome del fratello Ganele, di Giovanni de Rippa120 e di altre

personalità illustri. Solo al termine del suo intervento possono esercitare il diritto di parola il

regolano e tutti gli altri.

120 Si tratta di una famiglia di notai di Pieve Tesino, esercitanti generalmente a Strigno, i cui componenti hanno avuto varie cariche giurisdizionali. Giovanni Rippa, rogatario della carta di regola di Strigno, figlio di Antonio Rippa che era stato anche cancelliere e vicario di castel Ivano, era stato a sua volta vicario di Ivano verso la metà del Cinquecento, così come suo fratello Giovanni Battista Rippa. Successivamente il figlio di Giovanni Battista, Antonio (il notaio che ha rogato la carta di regola di Samone e ha sottoscritto un’integrazione a quella di Bieno), aveva rivestito la carica di capitano di castel Ivano: secondo Guido Suster questo accade verso il 1598, ma probabilmente tutto ciò avviene anche in anni precedenti, dal momento che nella carta di regola di Samone, che risale all’ottobre del 1584, egli si qualifica appunto come capitano di Ivano. Infine, anche un fratello di Antonio, Orazio, era notaio; ha sottoscritto i capitoli della carta di regola di Bieno aggiunti nel 1587.

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3.4.2 Parte prima

Terminata la parte introduttiva la carta di regola prosegue con l’esposizione delle normative alle

quali gli abitanti di Scurelle dovevano sottostare; la suddivisione avviene in tre capitoli: nel primo,

composto da 48 articoli, si regolamenta l’economia delle zone pianeggianti, legate dunque al paese

vero e proprio. Nei primi paragrafi, ma la cosa verrà ripresa anche verso la fine, si affrontano le

figure tipiche della carta di regola, i loro compiti, ed i loro doveri sia fra essi sia nei confronti della

comunità: ecco perché chiunque venga scoperto a non adempiere in maniera soddisfacente al

proprio lavoro dev’essere punito, come nel caso del quarto paragrafo sulla pena dei saltari.

Quest’ultimi erano tenuti direttamente dalla regola a presentare in determinati momenti un

resoconto sulle multe comminate (paragrafo 41). In parallelo a tutto ciò si parla dei problemi che

possono nascere con il pascolo del bestiame in determinate zone: può sembrare una cosa da poco,

ma all’epoca questo risultava essere uno dei problemi principali; Le bestie infatti potevano

provocare gravi danni alle coltivazioni ed alle piante da frutto, soprattutto alle viti ed ai castagni, e

per questo le proprietà coltivate venivano obbligatoriamente recintate. Direttamente collegato a

questo punto esisteva la questione dei confini, i quali talvolta diventavano motivo di scontro non

soltanto fra le persone del paese, ma anche con i possedimenti dei paesi confinanti: ecco perché

Strigno, borgo situato a Nord di Scurelle, nella sua carta di regola, al paragrafo 8 ci parla del fatto di

punire chi, con i suoi animali, entrava nei prati all’interno dei propri confini. La stessa cosa viene

proposta a Scurelle e spiegata all’interno del paragrafo 35. Ricordiamo inoltre che non in tutti i

periodi dell’anno la campagna era disregolata: Gli unici animali di cui è generalmente ammessa la

presenza nella campagna regolada è la cosiddetta zontura, le bestie da tiro che servono nei lavori

dei campi per trainare carri ed aratri, e che, essendo legati, non possono dare più di tanto danno.

Scurelle inoltre era famoso al tempo per la presenza sul proprio territorio di numerosi alberi di

castagno: ecco perché vengono scelti a rodolo dei saltari che hanno lo specifico compito di offrire

protezione ai castagni della zona. La carta di regola tratta dell’argomento delle castagne in ben

cinque punti, dal 43° al 47°, elencando le sanzioni per chi, vicini e forestieri senza distinzioni

particolari, commetta qualsiasi tipo di “reato”

3.4.3 Parte seconda

Nel secondo capitolo, composto da 25 articoli, e denominato “Quanto veramente alli Ordinationi

delli boschi sequita come quivi drio”, si affrontano i problemi relativi all’economia montana,

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rappresentata in questo caso dalle distese di boschi di proprietà collettiva che al tempo risultavano

essere fondamentali per l’economia del paese di Scurelle. In questa parte si delinea in primis il

ruolo del saltaro del bosco, una figura eletta di anno in anno da due soprastanti, che aveva il

compito di custodire i boschi del paese indipendentemente dalle infrazioni dei vicini o dei forestieri.

I soprastanti, nominati annualmente dalla comunità, prestavano giuramento al loro diretto superiore,

il massaro, che era il responsabile non soltanto della comunità ma anche di tutte le attività inerenti

ai boschi del paese; egli controllava l’operato dei sottoposti, prendeva le decisioni su eventuali

licenze da concedere, era il primo responsabile della raccolta e della distribuzione delle multe

riscosse in caso di contraffazioni. Non poteva però, in quanto soggetto alla regola, cancellare o

modificare delle pene stabilite dalla legge salvo disposizioni ulteriori.121 Non era cosa poco

frequente che qualcuno si introducesse nei boschi del paese e tagliasse il legname senza chiedere

prima l’autorizzazione alle autorità competenti e infatti il capitolo 4, soprattutto nella sua seconda

parte, vieta l’accaparramento di qualsiasi specie di legname. Qualora la richiesta fosse stata

accettata al termine del lavoro tutto doveva essere dichiarato al massaro; se si scopriva l’omissione

di parte del legname questa doveva essere sequestrata. Il capitolo 16 risulta interessante perché al

suo interno si riscontra la pena pecuniaria più elevata all’interno di tutta la carta di regola: questa

sanzione, quantificata in 50 lire da devolvere a beneficio del Fisco e della comunità, si comminava

per il reato di esportazione “fuori dal Pievado” della legna da ardere. Anche nei rapporti vicini /

forestieri questa parte premia la prima categoria: infatti mentre i vicini potevano tagliare la legna

fissando come tetto massimo il loro fabbisogno, ai forestieri era negata qualsiasi azione di taglio e

trasporto nei boschi; inoltre non potevano utilizzare il legname per costruire dei mezzi di trasporto

utilizzabili per il trasporto del fieno fuori dalle montagne limitrofe al paese. Soltanto il Sindaco poi

poteva dare la sua autorizzazione affinché un vicino potesse cedere la legna nel bosco ad un

forestiero.122

All’interno di questa seconda parte c’è poi un importante riferimento al signore feudale, quello cioè

di castel Ivano, che possedeva terreni boschivi compresi tra la zona del monte Zenon e della

Brentana utilizzabili esclusivamente dallo stesso.123

121 Le pene predisposte all’interno della carta di regola erano numerose e variabili; le multe pecuniarie variavano da un minimo di un carantano ad un massimo di 50 lire; mancano le pene detentive anche se l’ammenda in denaro era molto spesso accompagnata con delle aggiunte patrimoniali, che servivano almeno in teoria a scoraggiare qualsiasi tentativo di contravvenzione: esse consistevano nel risarcimento del valore economico distrutto, nella restituzione delle cose danneggiate e nella confisca delle cose oggetto del reato, che risultava essere lo strumento più utilizzato 122 Vietato era l’esercizio dell’acquisto da parte di un vicino, simulandone un esercizio legittimo ma in realtà con l’intenzione di rivenderlo a qualcuno esterno al paese per aumentare il proprio ricavo. 123 “Sia bandito e reservato alla necessità del Comun e del Castello d’Ivano”. Neanche i vicini vi potevano entrare per quanto riguarda l’utilizzo commerciale mentre per un uso da fabbrica occorreva una licenza speciale emessa dalla regola e il controllo rigoroso da parte dei soprastanti

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3.4.4 Parte terza

In quest’ultima parte, denominata Tassa per li regolani, et altri Offitiali subordinati nelle cause,

che se gl’aspettano in vigore della Regola, si affronta lo spinoso problema della riscossione di tasse

e gabelle da parte del comune. L’elenco di tasse qui descritto era ciò che i vicini pagavano agli

ufficiali del comune per determinate consulenze o atti amministrativi compiuti su richiesta. Le

parcelle, variabili a seconda dell’importanza del lavoro svolto, del grado del funzionario comunale e

delle spese accessorie da lui sostenute erano molto probabilmente l’unica fonte di guadagno di

questi dipendenti che non ricevevano regolare stipendio.

3.5 Una situazione di conflitto: la disputa tra le famiglie Ghirardello e Mengarda

Nelle pagine precedenti abbiamo già visto in quali campi di azione poteva agire il regolano per

dirimere le questioni che potevano sorgere tra famiglie di vicini oppure tra famiglie di vicini con dei

forestieri. Ora prendiamo invece un esempio pratico: la lite tra la famiglia Ghirardello di Scurelle e

la famiglia Mengarda, originaria del paese di Samone ma residente a Scurelle. 124

I due contendenti si erano presentati di fronte al regolano in quanto era sorta una disputa per dei

confini su due campi contigui posti in località Masiere; infatti il Ghirardello rivendicava l’esercizio

del diritto di passaggio per se stesso, i suoi carri e i suoi animali sul campo del Mengarda, unica via

di accesso per arrivare fino al suo. A favore della sua tesi Ghirardello affermava di essere in

possesso di questo diritto di passaggio “da ogni tempo [...] e memoria”. Mengarda controbatteva

invece affermando che dovevano essere riviste le regole di passaggio per le vie consortili, poiché un

tempo il Ghirardello poteva anche esercitare questo diritto ma ora non più.

Vennero convocati dei periti e dei testimoni che prima furono sottoposti al rito del giuramento

eppoi ascoltati con profonda attenzione. Sentite quindi tutte le parti in causa e tutte le persone che

potevano collaborare in maniera proficua alla risoluzione della questione, il processo si concluse

con l’invocazione a Cristo e alla Madonna (“Repetito il nome di Christo et invocato quello della sua

gloriosa madre) e con il pronunciamento dei regolani che sentenziarono il legittimo diritto del

Ghirardello di raggiungere il suo campo sia con i carri che con gli animali in qualsiasi stagione e

giorno dell’anno.

124 Il documento del 1618 si trova all’archivio di stato a Trento, sottoscritto dal notaio di Strigno Bartolomeo Bareggia.

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APPENDICE

Testo della carta di regola di Scurelle

Descrizione fisica

• Segnatura archivistica: (67) Archivio del Comune di Scurelle

• Definizione diplomatica e tradizionale: carta di regola

• Bibliografia disponibile in merito ad essa: il testo della carta di regola di Scurelle è presente

in vari testi: G. SUSTER, La regola di Scurelle (1552), A. ZIEGER, Vicende e carta di

regola della Comunità di Scurelle. • Caratteri estrinseci: le carte di regola presenti all’archivio di Scurelle sono tre, tutte copie

dell’originale datata 1552. Quella presa in esame, è databile al 1689. Il registro è cartaceo, c.

18 membranacee manoscritte di cui 17 scritte su entrambi i lati e 1 bianca, due in fondo

asportate. Misura mm. 356x266x13. Ha un sigillo in cera rossa mm. 53x56 ed è contenuta in

una capsa di legno mm. 90x91. E’ stata restaurata, assieme alle altre due copie, nel 2006

dalla Soprintendenza per i beni librari e archivistici della provincia autonoma di Trento. Non

esiste alcuna informazione sul dorso. L’introduzione è registrata secondo uno schema

preciso e costante, che la porta ad avere un’ampiezza uniforme (ventuno righe) eccetto che

per la prima pagina con diciannove. Lo stato della suddetta carta di regola è buona: sono

pressoché inesistenti danni che ne potrebbero limitare la lettura. E’ suddivisibile in quattro

parti (introduzione, Parte prima (48 articoli), Quanto veramente alle ordinationi delli Boschi

sequita come quivi drio (25 articoli), Tassa per li Regolani, et altri Offitiali subordinati nelle

cause, che se gl’aspettano in vigore della Regola (17 disposizioni). Tra la parte denominata

Quanto veramente alle ordinationi delli Boschi sequita come quivi drio e quella Tassa per li

Regolani, et altri Offitiali subordinati nelle cause, che se gl’aspettano in vigore della Regola

sono presenti le attestazioni dei notai Giovanni Maria Dorigatto, Carlo Francesco Valandro,

e Camillo Ropele, quest’ultimo figlio del vicario di Strigno Giorgio Augustino Ropele. Al

termine di ogni attestazione è presente uno spazio con la scritta “Loco signi” all’interno di

un cerchio ma manca una qualsiasi attestazione del reale sigillo. Seguono nell’ordine

l’attestazione della conferma dell’arciduchessa d’Austria Claudia del 16 settembre 1639 di

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Carlo Francesco Valandro e quella di Giorgio Augustino Ropele del 1686. Infine troviamo

un’ultima approvazione del 12 dicembre 1689.

Criteri di edizione del testo

Nel compilare l’edizione della carta di regola di Scurelle del 1552 si è deciso di mantenere quasi in

maniera totale l’impostazione e l’ortografia, criterio che permette l’individuazione dei tratti

originali del testo. Le poche modifiche apportate riguardano l’etc. che nel testo originale è presente

come &c e l’abbandono di talune abbreviazioni.

La punteggiatura è stata mantenuta.

Non si segnalano espunzioni.

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INTRODUZIONE

“ NOS CAROLUS DEI gratia Dux Lotharingiae et Barri ec: Sacrae Caesareae Maiestatis

Romanorum Imperatoris Leopoldi Primi ec: Plenipotentiarius Gubernator Superioris et Anterioris

Austriae Provinciarum etc Universis et singulis, cuiuscumque sint status, gradus aut conditionis,

hasce litteras sive libellum inspecturis, lecturis, seu legi audituris, notum facimus, quod Nobis

Syndicus et Communitas Villae Scurellarum Iurisdictionis Ivani huius Provinciae Tyrolensis

humiliter supplicaverint, ut eorum Regulam, Ordinationes, Capitula et consuetudines, pro

custodiendis agris, pratis, vineis, pascuis, nemoribus, et quibuscumque Bonis stabilibus approbare

et confirmare dignaremur, quorum statutorum et Regulae tenor sequens.

In Christi nomine amen: anno eiusdem nativitatis millesimo quingentesimo secundo, Indictione

decima, die vero Mercurii nono mensis Novembris, in Villa Scurellarum, in plena et generali

Regula ordinata per Dominum Baptistam quondam Sallomonis Macerae Massarium hominum et

Communitatis Scurellarum, et convocata de domo in domum per Jacobum Zilii Cursi, et Jacobum

Maceram Saltuarios ipsius Communitatis, praesentibus Adm. Reverendo Domino Presbytero Ioseph

de Camil Venetiarum Cappellano ipsorum hominum et Communitatis Scurellarum, Magistro

Antonio Fracasso de Levico, Magistro Mauritio Cerdone, et Magistro Matthaeo Fabro Vincentino

habitante Scurellarum, et Magistro Joanne Barezotto de Strigno, omnibus ad infrascripta omnia et

singula testibus adhibitis, vocatis, specialiterque rogatis.

Ibique cum alias iam certis annis elapsis facta fuerint per nonnullos homines vicinos ipsius

Communitatis uti electos et deputatos per ipsam Communitatem multa et diversa capitula, ac

Ordinationes tam respectu gubernationis Massariorum, Regulanorum, ac Saltuariorum, quam etiam

pro conservazione, et manutentione possesionum, Vinearum, tam hominum, et vicino rum

Comunitatis, quam forensium, ac etiam pro conservatione et manutentione Bonorum Communium

ac Castanearum, nec non nemorum et montanearum ipsius Communitatis Scurellarum: quae

Capitula, et Ordinationes ut supra facta et facta fuerint etiam per nonnullos homines ipsius

Communitatis asserentes habuisse licenzia, et auctoritatem a tota Communitate revocata et

annullata, itaque hucusque non fuerunt nec sunt servata, ideo videntes, et considerantes homines

ipsius Communitatis quod multa et multa damna sunt in possessionibus, Bladis, Arvis, Castaneis

Montaneis ac nemoribus toto tempore Anni tam per Vicinos ipsius Communitatis quam etiam per

forenses ex eo, quod nullus ordo, nullusque modus est in dicta Communitate, et ubi non est ordo, ibi

est confusio; ideo volentes homines et Communitas predicta Scurellarum omnimo ponere et facere

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statutum, modum, et ordinem, ut Massarii, Regulani et Saltuarii, qui pro tempore fuerint, sciant et

valeant se regere et gubernare, et ut etiam bona propria, ac communalia, nec non Nemora et

Montanea hominum et Communitatis Scurellarum custodiantur et manuteneantur; fecerunt,

reformaverunt, et statuerunt, faciunt et reformant, et statuunt, omnia et singola infrascripta Capitula,

Statuta et Ordinationes, quae omnes et omnia voluerunt, decreverunt, deliberarunt, volunt,

decernunt, et deliberant homines, et Communitas praedicta, ut omnimo observentur, et

manuteneantur sub poena in dictis Capitulis contenta, et nominata, quae ordinationes et Capitula

omnia, et singula de uno in unum fuerunt semel, bis, ter lecta et declarata in plena et generali

Regula ut supra ordinata et convocata, ac proclamata omnibus Vicinis inscriptis audientibus

intelligenti bus, et sicut infra volentibus et affirmantibus, cui quidem Regulae ordinationi et

deliberationi fuerunt praesentes infrascripti, qui sunt plures, quam duae partes ex tribus dictae

Communitatis, qui soliti sunt in huiusmodi Regulis, et ordinationibus convocari et interesse.

Et primo Baptista Salamonis Macerae Masssarius ipsius Communitatis nomine suo proprio ac

nomine Ganelis eius fratris, nec non nomine Spectalibilis Domini Ioannis de Rippa Vicarii

Jurisdictionis Ivani, ac Jacobi quondam Simonis Rigi, et Bartholomaei Fabri, pro quibus omnibus et

singulis promisit de rato et ratihabitione, Ioannes Donatus a Castro Regulanus nomine suo et

omnium fratrum suorum, pro quibus similiter promisit de rato, Joannes Antonius Blasiolus, nomine

suo, et fratrum suorum, pro quibus etiam promisit de rato, Antonius à Costa nomine suo, et fratrum

suorum, Jacobus à Puelis, Paulus Nepos Massari Francisci Silani nomine dicti Domini Francisci,

Jacobus, quondam Simonis Rigi, Lucas Marci, Antonius à Puelis, Michael Marci dictus della

Gnesota, Maximilianus Boxius, Paulus Boxius nomine suo et fratrum suorum, Antonius della

Bosina, Baptista Cursi, Pellegrinus Aldae, Baptista Zilii Cursi, Bernardinus Girardellus, Thomas

Vallandri, Nicolaus Romanae, Dominus Melchior Marci, Fabianus Coalena, Dominicus della

Martara, Simon à Pallude, Baptista Salo dictus della Marca, Johannes Antonius Faber quondam

Balthessaris Fabri, Lucas filius Domini Simonis Romanae, Gulielmus Carletinus, Hyeronimus

Romanae, Martinus Benger, Nicolaus quondam Domini Gregorii Boxii, Victor à Pallude,

Bernardinus Lucae, Jacobus Macera, Antonius Romanae, Gregorius Albertinus, Bartholomaeus

ilius Domini Francisci Brotti ins.e nomine dicti eius Patris, Gregorius Bosii, omnes, et singuli

vicini, et incolae dictae Communtitatis Scurellarum etc. et facientes nominibus suis propriis, ac

nomine coeterorum Vicinorum absentium, pro quibus absentibus promiserunt de rato et

ratihabitione, sub obligatione omnium Bonorum ispius Communitatis Scurellarum praesentium et

futurorum pro observatione, et manutentione infrascriptorum Capitulorum, Statutorum et

Ordinationum, quae sequuntur ut infra

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61

PARTE PRIMA

1.°

Quanto sia della Regula, che ogn’anno se debba far in detta Communità uno Sindico, ovvero

Massaro, quale habbia a governare detta Communità secondo che perfin’adesso è statto servato, et

che ogn’anno detto Massaro sia obligato a render conto della administratione sua al subsequente

Massaro infra termine de giorni otto doppo, che sarà uscito de Sindico, overo Massaro et al detto

subsequente Massaro possia dar il Iuramento sotto penna de lire dieci d’esser applicata in beneficio

del Commun, et niente di meno sia obligato a render conto a detta Communità.

2.°

Item che tutte le cose saranno principiate sotto la Sindicaria de ciascheduno Sindico overo Massaro,

siano obligati quelle finire, e de quelle render buon conto all’altro Massaro.

3.°

Item che similmente ogn’anno sia fatto in detta Regula uno Regulano con li suoi saltari, a qual

Regulano gli sia dato il giuramento per il detto Massaro de ben governare il detto Commun, et per il

Regolano alli Saltari e Stimatori.

4.°

Item che il detto Regolano per vinculo del suo giuramento sia obligato a servare e far servare per li

suoi Saltari l’infrascritti Capitoli sotto penna de lire tre per chadauna volta, che contrafarà, d’essere

applicada al Commun, et oltra di questo sia castigado per l’officio del periurio, et che detto Regolan

possia fa resone di cose della regola perfina lire cinque.

5.°

Item che le Vigne et Campagna siano regolade per le piegore per fina ad ogni Santi sotto penna de

lire trei per chadauna volta se trovarà, a contrafare, et chi contrafarà.

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6.°

Item che in tempo alchuno dell’anno persona alchuna non olse pascolare con Capre in le Vigne et

Campagna sotto detta penna de lire tre d’essere tuolta per chadauno, e chadauna volta, che

contrafarà, et reffare il danno facendone al Patron.

7.°

Item che li pradi dell’Enseua siano banditi et resservati a tutti per il pascolare perfina alla Vendema

commune con le zenture, quali possiam poi pascolare, et all’altro Bestiame sia sempre bandito,

eccetto che alli tempi delle frue, et non dagando danno sotto penna de lire tre per cadauno, et

ciascheduna volta romperà la regola.

8.°

Item che l’armento non possia ne debba andare ne a pascolare in li Pradi, et Campagna inanzi Santo

Michele, ma debba andare perfina a detto tempo dellà della Brenta, et alle Pianezze sotto penna de

lire tre.

9.°

Item che li Saltari, quali fanno un pegno, debbano cridare tre volte.

10.°

Item se si trovasse uno, che portasse via palli, schalloni, et altri legname, et stroppe casche in penna

d’una lira, et paghe il danno al Patrone al quale sarà fatto il detto danno.

11.°

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63

Item che nessuna persona olse portare, overo tuor via in possession d’altri fuora de segno sotto

penna d’una lira de moneta de Marano, et emandare il danno al Patrone, et similmente frutti

d’ogn’altra sorte.

12.°

Item s’uno tagliasse uno frutaro, overo discarnasse per portarlo via senza licentia del Patrone, paga

lire tre per cadaun fruttaro.

13.°

Item se si trovasse uno che portasse via uno sieve, paga tre lire per cadauna volta, et sia obligado far

li sieve da nuovo a colui, quale sarà suo.

14.°

Item se si trovasse alchuno, che tagliasse uno caltegnaro, casche in penna de lire tre, e perda il

legname, quale sia del Commun.

15.°

Item se uno tagliasse uno ramo de Castagnaro page 1 libra.

16.°

Item se si trovasse uno, che fichassasse fuocho negli Gastegnari, page lire diese per chadauna volta.

17.°

Item se uno brassasse una Ciesa d’un’altro overamente la tagliasse, page lire tre per chadauna volta,

et refacia il danno del Patron, del quale sarà detta Ciesa.

18.°

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64

Item se uno carezasse una possession d’un’altro dove che non habbia la via, page de penna una lira

per ogni volta, et sia obligato a reffare il danno.

19.°

Item se si trovasse una bestia boina in danno de giorno senza guardia, overo persa, se page caratano

uno, et sia obligato quello, del quale sarà detta bestia emendare il danno, et se con guardia sarà

trovata a de soccura pascolare page una lira.

20.°

Item se si trovasse bestie boine de notte in campi e pradi, overo vigne, page una lira per cadauna

volta, et sia obligato emendare il danno per cadauno cavo.

21.°

Item se si regolerà qualche luogo, et che alchuno volendo rompere detta regola andasse con le bestie

Bovine, et altre bestie grosse per pascolare, page una lira per cadauna volta.

22.°

Item se si trovasse Cavalli, overo Cavalle et Asini in danno de dì, page un carantano, et de notte una

lira senza guardia, et con guardia de dì page una lira, et de notte lire due per cadaun, et reffare il

danno.

23.°

Item se si trovasse uno, che schavezasse una roza d’un prà d’un altro page una lira per cadauna

volta, et emendar il danno.

24.°

Item se si trovasse uno, che mettesse l’aque su il suo prà che desse danno alle vie communi page

una lira, et conze le vie.

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25.°

Item se si trovasse uno, che tagliasse lattole de salgari, page carentani sei, et emendi il danno.

26.°

Item se si debbia dar obedientia al Regolan alle cose della Regola sotto penna de carantani sei per

cadauna volta.

27.°

Item che cadauno, rompesse la regola con le piegore et capre, page lire trei per cadaun schiapo, et

sia obligato ad emendare il danno dato.

28.°

Item uno che portasse bazane, overo rave fuori delle possession d’un altro page una lira per cadauna

volta, et emenda il danno.

29.°

Item se si trovasse qualcheduno che facesse danno nelli megii, Panizi, et altre biave, overo anco

infenni d’altri sia punito per cadauna volta in lire tre, et però il Saltaro sia obligato a denuntiare il

dannatore al Patron trovandolo.

30.°

Item se si trovasse uno, che pascolasse uno casalire d’un altro page una lira per cadauna volta, et

emenda il danno al patron.

31.°

Item se si trovasse porchi in possession d’altri page carantani sei per cadauno, et cadauna volta, et

sia obligato il patron delli porchi a reffare il danno.

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66

32.°

Item se il Regolan commandarà alla Regola, quello, che non venirà alla Regola page carantani sei

per cadauna volta.

33.°

Item se il Regolan comandarà a piovego quello, che non venirà a piovego, page la pena secondo il

Regolan, et però sia obligato a fare il piovego.

34.°

Item per cadauno, che si trovasse, che facesse herba, o fogia in possession d’altri, page carantani sei

per cadauna volta, et emenda il danno al Patron del loco, dove saranno fatte queste cose.

35.°

Item che nissuno di detta Communità presuma tenire bestiame forestiero per pascolare sul

commune sia de che sorte se voglia, et chi contrafarà, per cadauna volta perda lire tre senza

espresso consentimento della Regola.

36.°

Item che tutte le bestie, che non piovega, debbiano andare all’armento, et quelli, che non curano

mandarli all’armento,si debbia mandare alle Pianezze degli Castagnari in suso, overamente dellà

dalla Brenta, et chi contrafarà, perda de pegno carantani trei per cadauna bestia et volta.

37.°

Item tutte le piegore debbiano andare a pascolare da Santo Zorzi in drio per sino a Santo Michele

dellà dalla Brenta, overo su alle Pianezze, et chi contrafarà, page lire tre per cadauna volta, et in li

altri tempi stagi in arbitrio della Regola.

38.°

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67

Item s’alcuna persona avesse qualche bestia zotta, vedelli overo d’altra sorte, se cognosse per

Regola, et altri huomini da ben, non potesse andare all’armento, quella possia mandar senza pena su

le Masserie.

39.°

Item che tutti quelli, che hanno Vaoni, siano obligati a stroparli, acciò non dagga danno al Vicino

sotto pena d’una lira, et se per deffetto del Vaon non stropado fosse dato danno al suo Vicino, sia

obligato quello, del quale è suo il Vaone de pagar, et sodisfare il danno de quello sarà fatto.

40.°

Item che cadauno Saltaro de detta Communità sia obligato per il suo giuramento scriver, overo far

scrivere tutti li pegni che farà sotto il suo anno, oltre di quello, far intender al Patrone delle

possessioni, dove serà statto fatto il danno, et similmente avisare il Patrone del bestiame overo

guarda.

41.°

Item che li detti saltari siano obligati ogni Dominica a denonciare li pegni fatti per loro al suo

Regolano, et detto Regolano sia obligato a tenir il conto.

42.°

Item che di detti pegni tutti et singoli siano fatte doi parte, cioè la mittà sia posta alla guardia, et

quello sarà di più alla colta della Communità, et l’altra mittà al Regolan, et Saltari sia partida.

43.°

Item che niuna persona terriera sia di che condition si voglia ardisca al tempo, che li castegnari sono

regoladi, batter castegnaro alcuno, scorlare, overo stramncagiare, sino a che non saranno de Iure

regoladi sotto pena di lire tre per cadauna persona et cadauno castegnaro.

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44.°

Item che nissuna persona terriera non olse andare, ne mandare a binnar castagne sotto li castegnari

sotto pena de carantani sei per cadauno, et cadauna volta, oltre un giorno per settimana, quale sarà

statuito per il Regolano.

45.°

Item se si troverà persona forestiera a binnare castagne, overo battere sia a che tempo se voglia,

perda de pegno lire tre, et perda le Castagne, et sacho overo carnieri.

46.°

Item che nel tempo, che sarà sotto la Regola delle castagne niuna persona vicina di detta

Communità olse ne debbia tuor opere a battere overo binnare sotto pena di lire tre per cadauno, et

che li pegni siano partidi come di sopra eccetto quelli delle castagne et sacchi, quali siano delli

Saltari.

47.°

Item che li Saltari, quali haveranno a custodire li Castegnari, siano messi a rodolo, et non

altrimente.

48.°

Item che nessuno debba pigliare commune sotto pena di lire diese, et però sia obligato de subito a

rellassare detti luoghi communi, quelli pigliarà, et quelli che hanno pigliato commune et che non se

hanno pigliato commune, et che non se hanno livellato, debbino quelli relassare, et più non si

possiano livellare sotto quella medema pena.

PARTE SECONDA

Quanto veramente alle ordinationi delli Boschi sequita come quividrio.

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1.°

Primo che ogni anno si debba far et elegere per detta Communità doi Soprastanti alli Boschi, et a

quelli dar il giuramento per il Massaro, ovvero Sindico, che habbiano a provedere che in li Boschi,

et Montagne de detta Communità non sia fatto danno per li Forestieri, et che gli infrascritti Capitoli

tutti siano osservati senza rispetto de persona alcuna, sotto la pena del pergiurio, et portandosi bene

possino essere confirmati secondo l’apparere della Regola.

2.°

Item che li detti doi soprastanti, quali d’anno in anno saranno, debbiano eleggere doi Saltari per li

Boschi, et a quelli dare il giuramento de custodire detti Boschi secondo l’ordinatione delli

infrascritti Capitoli senza rispetto de persona alcuna sotto la medema pena del pergiurio.

3.°

Item che li Saltari debbano andare in detti Boschi ogni volta saranno richiesti per detti soprastanti a

spese però delli Soprastanti, dalli quali debbiano et esser sotisfatti del suo viazo, et trovando

contrafacienti alli Capitoli infrascritti quelli denonciare, et dar in notta alli Soprastanti sotto pena

del pergiurio.

4.°

Item che persona alcuna sia de qual condition esser si voglia tanto vicini del Commun di Scurelle,

quanto forestieri, non ardisca introdurre, over mandar alcuno Boschiero nelli Boschi de detto

Commun a far legname de sorte alcuna tanto per uso, quanto per mercantia se prima non se presenta

al Massaro del detto Commun, che per tempo si troverà in pena de lire diese per cadauno, et

cadauna volta d’esser applicada la mittà dal Commun, et altra mittà alli soprastanti, et de quelli che

accuseranno non essendo Saltari, et che cadauno possia pegnorare.

5.°

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70

Item che li Forestieri non possiano ne vagliano lavorare ne far lavorar in detti Boschi in far legname

de sorte alcuna over condurre fuori dal Bosco senza licentia della Regola sotto pena de lire vinti per

cadaun legno, et cadaun volta sarà contrafatto, et perder il legname, quale la mittà sia del Commun,

et l’altra mittà delli Soprastanti.

6.°

Item che nissuno terriero debbia e possia vendere legname de sorte alcuna a forestieri nel Boscho,

sotto pena di lire diese per cadauno, et cadauna volta, et perda il legname, la qual pena sia divisa

come sopra.

7.°

Item che quelli che faranno legname, immediate che li hanno fatti, siano obligadi venir dal Massaro,

et dar notitia a quelli della sorte, et qualità, et quantità delli legnami fatti in pena di perder li

legnami, et lire diese de denari d’essere applicati come sopra.

8.°

Item che nessuna persona debbia menare fuora del boscho legname de sorte de alcuna Mercantia, se

prima non lo denoncia, et da in notta al Massaro per suo giuramento, et quello habbia a segnar con

il suo segno buono e vivo, et non morto sotto pena di lire diese, et perder il legname, qual sia diviso

come sopra, et se saranno trovati haver di più di quello haveranno denontiato, debbano essere

castigati sotto pena di lire diese, et perder il legname, quale non sarà denontiato, qual pena, e

legname sia diviso come sopra.

9.°

Item che persona forestiera mercadante, overo Boaro, sia di qual condition essersi voglia, non

ardisca mandare, over andare in detti Boschi a levar, ne condurre fuora legnami de sorta alcuna sia

per uso suo, overo per mercantia salvo li bovi, quelli saranno mandati dalli Vicini del Commune

predetto, overo per licentia del predetto Massaro, et da quelli tuor le mercedi de ditte condotte, et

non d’altro Mercadante forestiero, et che non sia vicino in pena di perder il legname, et lire diese

d’esser applicade come sopra.

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71

10.°

Item che vicino alcuno del detto Commun non ardisca, ne presuma far fare legname de sorte alcuna

nelli detti Boschi con intendimento poi di renontiarli a forestiero alcuno, et che nissuno sotto tal

specie de volerli renontiare non ardisca far scritti alcuni, ne renontia senza espressa saputa del

Massaro de detta Communità, et chi contrafarà il patto suo, overo scritto non vaglia, et a quello non

si debba credere, et sia punito cadauno per cadauna volta in lire diese d’esser applicata come sopra,

et li legnami siano del Commun, et siano tagliati secondo al Commun parerà, et questo perche gli

sono persone molto vicine, che per ogni miseria consentono lasciar tali forestieri lavorare, overo far

lavorare in detti Boschi in danno et detrimento, et rovina di detta Communità, et puoca sua utilità.

11.°

Item che tutti quelli, che faranno legnami da Mercantia debba pagar per ogni quarello, piana, e

Sandoni uno carantano, et per ogni turlo soldo uno da Maran, et tal dinari il Massaro sia obbligato a

schoder in pena di pagar lui in suoi benni, et tali dinari vadano in beneficio del Commun preditto,

dove apparerà essere più espediente.

12.°

Item che nissuna persona sia de qual condition esser si voglia vicina da qui inanzi non possia ne

voglia fare, overo far fare più che legni cinquanta NB. 50 de Mercantia computato piane, quarelli,

taglie, Sandoni, et altri legni sotto pena de lire diese s’esser tuolta a ciascheduno, che contrafarà,

tante volte, quante volte contrafarà.

13.°

Item se fosse alcuna persona, che fesse legname sotto ombra di fabricare per suo uso, et poi li

vendesse, che quelli legnami siano persi, et dati in Commun, et chi contrafarà, sia punito in lire

diese d’esser applicade come sopra.

14.°

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72

Item che persona alcuna forestiera non debbia metter il suo segno, overo nuoda suso il legname in

detti Boschi sotto pena di perder lo legname, la qual sia del Commun; et sia tagliato come di sopra,

et niente di meno sia punito in lire diese d’esser applicate come sopra.

15.°

Item che cadauno, che farà legne da fuoco, debbia pagar per cadaun passo de legna, che darà via

NB. oltre quella, che ha bisogno per casa sua un carantano de Maran.

16.°

Item che nissuna persona sia de qual condition si voglia non possa far legne da fuogo per conto di

Mercantia per condurle, et vendere fuora del Pionado sotto pena de lire cinquanta, et perder le

legne, quale la mittà al fisco sia applicada et l’altra mittà al Commun.

17.°

Item che persona alcuna, overo Massaria non facia per suo uso più che passi vinticinque de legne

all’anno sotto pena de lire diese, et perder la legna, che sarà oltra li detti passi vinti cinque.

18.°

Item che nissuna persona, che non sia vicina, possia far legne da fuoco nella Regola, et pertinentie

di Scurelle sotto penna d’una lira per cadauna volta, che contrafarà, et perder la legna, et similiter

nelle Montagne non possia far legne de sorta alcuna sotto pena de lire diese, et perder le legne ogni

volta, che sarà contrafatto, la qual pena sia del Commun.

19.°

Item che nissuna persona sia terriera overo forestiera possia, ne vaglia tagliar legne de sorte alcuna

da Marcantia in nel Boscho, et monte de Zenon, cioè dalla Val Brugia in fuora, et dalla via in suso

fina alla Cimma, et fina fuora la Brentana sotto pena de lire diese per pecha, et per il legname, il

terriero, et il forestiero sia punido in doppio de ditta pena il qual Boscho voleno a tutti e cadauno

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tanto terriero, quanto forestiero sia bandito et resservado alla necessità del Commun, et del Castello

d’Ivano per legname da fabbriche, qual pena sia divisa tra li Soprastanti et Commun come sopra.

20.°

Item che nissuna persona in nel ditto Boscho resservado possia far legname de sorte alcuna da

fabrica senza saputa et licentia della Regola, et visto et conosciuto per detti soprastanti il bisogno, et

la quantità, quale farà bisogno alla detta fabrica, et facendone de più di quello farà bisogno per la

fabrica, et vendendoli sia punito in doppio della ditta pena, qual sia divisa come sopra.

21.°

Item che persona alcuna forestiera, non possia ne vaglia in tempo alcuno dell’anno con bestiame de

sorta alcuna pascolar et permetter nel monte et pascolo di Cenon, quale voleno sia pascolo del

Commun, et bandito a tutti li forestieri senza però pregiudicio di poterlo fittare ad ogni tempo

secondo al Commun apparerà, et farà bisogno sotto pena di lire cinque per cadauno, et cadauna

volta sarà contrafatto, resservando però il transito di passare secondo fa bisogno a quelli, che

passano per andare alle loro montagne.

22.°

Item che persona alcuna forestiera non debbia tagliare nelli boschi et Montagne de ditta Communità

legname de sorte alcuna per fare viegri, overo cani per causa di condurne fieno fuori delle montagne

di ditta Communità sotto pena de lire tre per cadaun legno, et chepa et perder li bovi qual pena la

mittà del Commun, et l’altra mittà delli Soprastanti sia applicada come sopra.

23.°

Item che le pene, che veniranno nel commun siano del Massaro, ma siano poste ad utilità commune

dove apparerà esser più espediente et ogni anno siano scosse per il Massaro.

24.°

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Item che nissuno de detta Communità possia ne vaglia donare, ne remetter pena alcuna delle

predette senza espresso acconsentimento della Regola, et chi contrafarà, sia punido in quella

medema pena.

25.°

Item che nissuno overo Sindaco possia ne vaglia per modo, et tempo alcuno alienare, obligare overo

affittare montagne, pascoli, boschi, overo peche, et de quelle far scritti overo instromenti tanto

publici, quanto privati sotto pena de lire diese d’essere tuolta infalantemente senza espressa licentia

de tutta la Regola, quale se debbia fare, et commandare de casa in casa secondo il solito, et se sarà

fatta locatione overo alienatione per alcuno modo senza licenza della Regola generale, et de quelle

siano fatti scritti overo instrumenti, tanto publici quanto privati che ditte locationi, alienationi,

scritti, et instrumenti siano cassi, nulli, et di niuno valore, et niente di meno la Regola et Communità

possia, e vaglia disponere, et far delle cose, quale fussero locade et alienade tanto quanto se non

fossero alienade, et locade nonostante alcuno instrumento, et scritti, li quali voleno siano nulli, et de

nessun valore come di sopra.

PARTE TERZA

Tassa per li Regolani, et altri Offitiali subordinati nelle cause, che se gl’aspettano in vigore

della Regola.

Per ogni sentenza, che farà il Regolano habbia carantani dieci.

Et occorendo chiamar altri huomini della Communità, come quelli del giuramento, habbia ogn’uno

di quelli carantani sei.

Andando sopra un luogo di differenza, e consumandovi il Regolano mezzo il giorno habbia con la

sentenza carantani ottodeci.

Se tutto il giorno pure con la sentenza carantani tenta oltre le spese cibarie. Se occorresse, che

sopra tali luoghi di differenza, ne quali si consuma il giorno intiero dovessero andarvi con il

Regolano altri huomini, cioè Sindici, e del Giuramento, habbino per cadauno oltre le spese cibarie

carantani otto, in modo però, che tra il Regolano, e tali huomini non si possa eccedere un fiorino e

carantani 54; e dove si consuma mezzo il giorno habbino la mettà.

Per l’essame di un testimonio, habbia il Regolano carantani due.

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Occorrendo far altri Decreti fuori della sentenza diffinitiva non habbia il medesimo Regolano

mercede alcuna in modo, che non possa conseguire cosa alcuna, se non facendo la sudetta sentenza

diffinitiva, tanto per condanne, come pegni ed altro.

Il scrittore habbia per la sentenza carantani sei.

Per l’essame d’un testimonio, assistendo però lui carantani due.

Occorrendo far viaggi habbia la mettà quanto hà il Regolano.

Al Saltaro per una citatione carantani 1.

Per un pegno nella Villa carantani 3.

E fuori della villa in qualunque luogo non possa conseguire più di carantani 10.

Per una intimatione nella Villa carantani due.

Et occorrendo viaggi tanto per la intimatione, come per la citatione in qualunque luogo habbia solo

carantani dieci e non più.

Per ogni termine carantani due.

Per una pignora carantan uno.

Et andando con il Compagno habbino in tutti e due carantani tre.

Per le stime delle pegni habbino un quatrino per lira non potendo però eccedere carantani vinti.

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