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La classe II C della Scuola Media Statale “Ranzoni” presenta “Si fa per dire…” …Ovvero diciannove etimologie più una rigorosamente inventate di alcuni dei modi di dire più comuni. Anno Scolastico 2009-10

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La classe II C della Scuola Media Statale “Ranzoni”

presenta  

 

“Si fa per dire…”

…Ovvero diciannove etimologie più una rigorosamente inventate di alcuni dei modi di dire più comuni.

Anno Scolastico 2009-10

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Presentazione dell’opera

Leggendo sul testo di antologia un racconto della scrittrice italiana Bianca Pitzorno, tratto dalla sua opera “Parlare a vanvera”, gli alunni sono rimasti piacevolmente sorpresi dallo sviluppo delle vicende narrate ed hanno accolto con entusiasmo la successiva richiesta, suggerita da un esercizio del manuale e caldeggiata dalla sottoscritta, di comporre essi stessi analoghe storie partendo da modi di dire quotidianamente in uso nella lingua italiana. Il risultato della fatica letteraria di questi scrittori esordienti si è rivelato assai promettente e, forse, l’iniziativa merita di essere ulteriormente coltivata. In attesa di nuove produzioni creative, i ragazzi della II C augurano buona lettura con l’avvertenza di non credere ad alcuna delle parole con cui sono stati inventati questi racconti, ma con la speranza che gli stessi regalino momenti di piacevole divertimento.

L’insegnante, Roberta Fattalini

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Indice

Introduzione 1. Il gatto ha mangiato la lingua 2. Parlare a vanvera 3. A caval donato… 4. Scendere a patti 5. Fare le cose alla carlona 6. In bocca al lupo! 7. L’amore è cieco 8. Parlare a vanvera 9. Cantare a squarciagola 10. Avere un tesoro di ragazza 11. Fare le cose alla carlona 12. Fare promesse al vento 13. Inghiottire il rospo 14. Cercare un ago nel pagliaio 15. Urlare a squarciagola 16. Lo zio d’America 17. Vedere con gli occhi del cuore 18. Senza cuore 19. Menare il can per l’aia 20. Parlare come un libro stampato

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“Il ha mangiato la lingua” di Irina Bernicu

C’era una volta una ragazza che, al solito, parlava tanto, ma tanto e non stava mai  zitta  né  a  scuola  né  a  casa;  quando  era  a  casa  sua  parlava  in continuazione e sua madre le diceva spesso che era una zecca, perché parlava troppo e quel giorno lei se la prese. Da allora la ragazza non disse più una parola né a casa né a scuola, ma una volta una sua compagna era a scuola con  lei e  le chiese perché non parlasse da un po’ di tempo e se, per caso, il gatto le avesse mangiato la lingua. La  ragazza  allora,  dopo  aver  riso  per  la  battuta  ed  essersi  rasserenata,  le spiegò  tutto quello  che  era  successo,  cioè  che aveva  litigato  con  sua madre perché, secondo  il suo parere, parlava  troppo. La compagna  le spiegò a sua volta  che,  quando  i  genitori  sono  nervosi  e  non  vogliono  sentire  niente, dicono  a  volte  delle  cose  che  neanche  pensano,  come  per  esempio  che vorrebbero che i figli non sapessero  neppure parlare. La ragazza, visto che aveva parlato con la sua compagna e aveva capito tutto, andò a casa a parlare con sua madre e a chiedere se  le volesse ancora bene; riferì anche che aveva parlato con una sua compagna, che  le aveva spiegato tutto. La mamma le chiese scusa per come si era espressa, perché quel giorno era un po’ troppo nervosa. Da quando ebbe chiarito  la questione con sua mamma,  la giovane cominciò di nuovo  a parlare…  come una  zecca noiosa  e  la vita  tornò  alla normalità, cioè esattamente come prima. Così finisce il mio racconto e non parlo più, perchè…”Il gatto mi ha mangiato la lingua!” Da quell’episodio della ragazza chiacchierona che, offesa dalla madre, decise di  rimanere  zitta  e  che  fu  riportata  alla  parola  dalla  simpatica  battuta dell’amica, è nato infatti questo modo di dire ormai in uso ovunque.    

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“Parlare a vanvera” di Raffaele Capobianco

In origine, ai tempi degli Egizi, le persone venivano vendute per poter guadagnare qualcosa. I ricchi le acquistavano e le rendevano schiave. Un giorno un  ragazzo,  Isalia,  fu  trovato da due mercanti nel deserto;  essi  lo portarono lungo  le rive del Nilo, dove  i ricchi potevano comprare oggetti, pietre preziose, vestiti o esseri umani.  Isalia  fu venduto al  figlio del  faraone, Maomet, che subito  lo portò  in una stanza,  lo  ripulì  e bruciò  i  suoi vestiti  cambiandoli  con quelli da  schiavo.  Isalia  si  sentì perso in un mondo non suo. Prima  di  essere  preso,  infatti,  studiava  i  papiri  egiziani, mentre  adesso  era  costretto  a servire solo materialmente il suo signore. Passarono  intere  settimane, quando un giorno Maomet decise di andare a vedere  come Isalia stesse svolgendo il lavoro assegnato. Dopo qualche ora gli disse: “Tu sei uno schiavo molto dotato: qual è il tuo nome?” Il servo, molto stupito, rispose: “Isalia.” Maomet restò tutto  il giorno a guardarlo, rimase affascinato dalla sua tecnica di  lavare  il pavimento e, quando il giovane ebbe finito di lucidare ogni piastrella, gli disse: “Isalia, hai pulito  questa  terrazza  talmente  bene,  che  nessuno  prima  d’ora  ha mai  fatto  un  lavoro simile; se anche domani la luciderai così, come premio mangerai con il faraone.” La mattina seguente Isalia si recò in terrazza e ci rimase tutto il giorno: decise di pulire il pavimento meglio  del  giorno  precedente,  perché  voleva  cenare  con  il  faraone.  La  sera, ogni piastrella brillava  come  le  stelle nella notte,  erano  talmente  lucide  che  ci  si poteva specchiare. Isalia era così eccitato di mangiare con il faraone, che corse subito da Maomet e gli disse: “Quando c’è la cena?” Egli,  voltandosi  dalla  parte  opposta,  gli  rispose:  “Mai!”  Non  mantenne  dunque  la promessa e non lo fece mangiare con lui; allora Isalia, colmo di rabbia, gli disse: “Signore, voi siete baravo in una sola cosa: a parlare a vanvera!” Maomet, con aria turbata, rispose: “Servo! Che significato ha il termine da te usato?” Lo schiavo con arroganza gli spiegò: “Vanvera era  il nome di un  famoso  re del deserto; costui prometteva  tanto oro alla  sua gente, più di quanto ne possedesse  lui  stesso: ogni volta però non manteneva mai la parola data e tutti i sudditi alla fine organizzarono una rivolta contro di lui.” Maomet  urlò:  “Come  osi  dirmi  una  cosa  del  genere?!”  e  dopo  quella  frase  lo  fece rinchiudere nelle segrete. Passarono i mesi, quando un giorno quella porta si aprì… Apparve Maomet, che si scusò con Isalia, lo implorò di perdonarlo, tanto si sentiva in colpa e lo nominò “Safna Panea”; aveva cioè il potere su tutto l’Egitto: solo il faraone era più grande. Da quel momento, quando una persona promette una determinata  cosa ad un’altra, ma poi non mantiene la promessa fatta, si usa dire “parlare a vanvera”. 

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“A  donato…” di Mirko Castellana   

C’era  una  volta  un  bambino  di  sette  anni,  che  viveva  in  aperta campagna con i suoi genitori ed essi avevano un maneggio. Una domenica lui e la sua famiglia andarono a visitare una fiera di cavalli che si  svolgeva  regolarmente  ogni  anno,  e  c’erano  tantissime  razze  di  cavalli; girando,  il  bambino  ne  vide  uno  bellissimo  molto  particolare:  era  tutto marrone con una candida striscia bianca sul muso. Dopo  un  paio  di  giorni  cadeva  il  suo  compleanno  ed  egli  chiese  ai  suoi genitori proprio quel cavallo, che lo aveva colpito molto, come regalo. La mattina del suo compleanno si alzò convinto di trovare lo stallone, però si trovò davanti agli occhi un pony  e  così  rimase deluso.  Il bambino  era anzi molto arrabbiato con i suoi genitori, perché aveva chiesto un altro cavallo. La mamma, per farlo felice, organizzò una gara, perché lei sapeva che il pony avrebbe vinto. Arrivò dunque  il giorno della gara e  il bambino era convinto che il pony avrebbe perso. Quando la gara iniziò, il cavallo del bambino era in svantaggio, ma verso gli ultimi giri della pista  riuscì a  rimontare, vincendo così quella competizione che il bambino pensava persa. Il padre  allora  si  avvicinò  al  figlio  e  gli disse  che:  “A  caval donato  non  si guarda  in  bocca”,  nel  senso  che  i  regali  devono  essere  accettati  senza brontolare e che bisogna apprezzare sempre il pensiero. Da  quel  giorno  il  detto  si  diffuse  ovunque  rapidamente,  forse  perché  le persone mai contente abbondano in ogni luogo della Terra…         

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“Scendere a patti”  di Davide Chiesa

  

Nella metà del Settecento viveva nella cittadina di Patti un mercante di nome Settimio. Il paesello sorgeva a metà di una collina alle porte di Roma. Sulla cima della stessa collina si  trovava un altro paese, di nome Cisterna. Anche qui  viveva  un  mercante,  chiamato  Leonardo  il  Saggio  per  la  sua  saggezza nell’intraprendere gli affari con il resto dell’Italia. Le  due  città,  seppure  vicine  geograficamente,  non  avevano  mai  instaurato  dei commerci  tra  loro,  perché  smerciavano  gli  stessi  oggetti.  Entrambe  infatti vendevano oro. La prima, Patti, commerciava con la parte ovest dell’Italia, mentre Cisterna aveva in pugno la parte est: per questo motivo non erano rivali. Agli inizi dell’Ottocento per la cittadina di Patti iniziò una decadenza economica e sociale. Infatti il dominio della parte ovest venne conquistato da Firenze, che con i suoi  artisti  aveva  creato  una  città  magnifica.  Questo  fu  possibile  solo  con  la rivendita ai mercati esteri dell’oro di Patti e con la scoperta di altri giacimenti d’oro. Firenze era anche il crocevia di numerosi traffici commerciali: quelli dal nord al sud Italia  e viceversa  e quelli  tra  le odierne  città della Germania, dell’Austria  e della Svizzera  con  Patti  e  Cisterna.  Comunque  parte  delle  ricchezze  erano  illegali, ottenute mediante dei saccheggiamenti ai carri commerciali. Settimio, molto furioso a causa di ciò, vedeva nel frattempo sempre di più la fame che attanagliava  la città. La gente  infatti, che di norma  si cibava di carne e pesce tutti  i  giorni,  con  il  passare  del  tempo  doveva  accontentarsi  di  prodotti ortofrutticoli e uova. Settimio veniva sempre più odiato dalla popolazione, siccome lo riteneva responsabile della mancata riuscita dei commerci. A  questo  punto  egli  chiese  al  saggio  Leonardo  di  Cisterna  di  aiutarlo  con  i finanziamenti per un nuovo giacimento d’oro allo  scopo di  ritornare a dominare l’Italia  occidentale.  Per  trovare  un  compromesso,  Leonardo  il  Saggio  scese  nella cittadina di Patti. Il compromesso fu  l’aiuto di Cisterna a Patti e  la restituzione di un quarto del profitto annuale dalla seconda alla prima. Dopo questo evento il detto si diffuse dapprima in tutto il Lazio, in seguito in tutta Italia e poi  in Europa e da allora con  il modo di dire “scendere a patti” s’intende trovare dei compromessi, proprio come Settimio fece con Leonardo. 

 

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 “Fare le cose alla carlona” di Sharon De Pasquale

In una cittadina del Lazio viveva un signore di nome Carlo, che aveva sempre mille  cose da  fare, perché  svolgeva un  lavoro  che  richiedeva molto impegno:  infatti  possedeva  una  grande  fattoria. Quasi  ogni  giorno  doveva mungere,  tosare, pulire, vendere e comprare…insomma, più di una  fattoria, era un grande allevamento! Carlo aveva una moglie di nome Elisabetta e un  figlio di nome Fiorello. La moglie era molto esigente e ogni cosa che chiedeva,  la voleva avere a  tutti  i costi. Carlo, essendo buono e alla buona, la voleva accontentare ma, corri di qui e corri di  là, a volte si dimenticava addirittura di avere una  famiglia. E sua moglie gli diceva:  “Vendi, vendi gli  animali.” Carlo dal  canto  suo non ascoltava: e pensare che all’inizio era molto prudente e aveva cura nel fare il suo lavoro in ogni minimo particolare! Con il passare del tempo però, per il troppo lavoro appunto, cominciò a non tosare più le pecore e poi a non mungere più le mucche, oppure lo faceva, ma di  malavoglia  e  con  la  testa  altrove.  Per  esempio  tosava  le  pecore  male oppure solo a metà. E poi faceva cadere il latte. Un giorno si mise perfino una scarpa  per  qualità,  la  giacca  alla  rovescia  e  andò  al mercato  a  vendere  il bestiame e tutti ridevano. E così tutte le persone del villaggio vennero a conoscenza del fatto che Carlo era  un  pasticcione.  E  anche  sua  moglie  Elisabetta  ed  il  figlio  Fiorello dicevano: “Papà fa le cose alla carlona!” Da allora una persona, se fa  le cose non fatte bene, si dice che  le abbia fatte “alla carlona”.      

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“In bocca al   !”   di Giada Gunella    

C’era una volta in una piccola foresta un giovane lupo affamato e assai magro,  che  correva  alla  ricerca  della  sua  preda.  Il  suo  desiderio  era  di catturare una bella lepre grassa. Dopo  numerose  ricerche  la  trovò,  quindi  incominciò  a  rincorrerla  e,  con grande fatica, a raggiungerla. Quando la ebbe nelle sue fauci e stava già per divorarla, la lepre, per salvarsi, disse al lupo con gli occhi tristi e pieni di paura: “Per favore, non mangiarmi, sono molto piccola; se vuoi posso darti mia madre, che è molto più grossa di me. Guarda: si trova laggiù nell’erba da sola e, se sei d’accordo, posso aiutarti a farla uscire allo scoperto.” Il  lupo  si  convinse  e,  dopo  aver  lasciato  con  delicatezza  la  piccola  lepre  a terra,  la  osservò  per  bene  e  vide  che  in  effetti  era  piccola  e magra. Allora disse. “Vai pure, un cacciatore come me non ha bisogno di aiuto!” La  lepre  scappò  come un  fulmine  e gridò:  “In bocca  a  te, o  lupo,  ci  andrà un’altra preda, che non sono io e non è neppure mia madre, che non vive più qui da molto  tempo!” E  così detto  si  rifugiò nella  tana e  il  lupo  solo allora capì di essere stato ingannato. Da allora, dire ad una persona: “In bocca al lupo!”significa in realtà augurarle di riuscire ad evitarlo e di portare a termine felicemente la sua impresa, come la lepre è riuscita nella propria.           

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“L’amore è cieco” di Lucrezia Lanza

C’era  una  volta  in  America  una  principessa  di  nome Marta. Questa ragazza  aveva  gli  occhi  azzurri  ed  i  capelli  lievemente mossi  e  castani. Le piaceva molto  ballare  e  le piaceva  anche un  ragazzo di nome Matteo. Egli aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri ed era molto alto e muscoloso. Marta, quando  lo vedeva, diventava “matta”. Il ragazzo, quando vedeva che Marta faceva  così,  era  molto  lusingato.  Matteo  era  attratto  da  Marta,  ma  non riusciva a dirglielo e neppure la ragazza riusciva a farlo… Matteo  era molto dolce,  tenero,  simpatico, altruista,  intelligente, ma  le  cose che piacevano di più a Marta erano la bellezza e l’intelligenza. A Matteo  piaceva molto  andare  a  cavallo,  suonare  la  chitarra  e  il  piano, giocare alla play… Invece alla ragazza piaceva ballare e cantare e lui adorava vederla ballare e sentirla cantare. Lei adorava vederlo correre sul campo da calcio con la maglietta con il numero ottanta, vederlo cavalcare. Una sera Marta, seduta alla scrivania a disegnare, sentì chiamare il suo nome: era Matteo  che  le  faceva una  serenata! Lei,  con  le  lacrime  agli occhi per  la felicità, si affacciò e ascoltò le belle parole che le disse Matteo… Un giorno però Matteo dovette partire. Marta, dispiaciutissima, decise quindi di seguirlo. Lui diceva di dover partire per faccende di famiglia e lei, stolta, ci credette.  Così  salì  sull’aereo  e  lo  seguì.  In  verità  egli  in  Italia,  più precisamente a Volterra, in Toscana, aveva l’altra ragazza. Quando lo venne a sapere, infuriatissima, lo lasciò, ma lui continuò a chiamarla “amore”. Marta, a sentire questa parola, scoppiava in un bagno di lacrime e la reazione era dovuta al pensiero dei momenti felici. Da lì cominciò ad odiarlo con tutto il cuore e decise di ritornare immediatamente in America. Dopo un po’ anche Matteo ritornò dall’Italia, andò da Marta e la scongiurò di uscire con lui per scusarsi. Lei non seppe resistere ed accettò. Dopo nemmeno un’ora da quando erano  in giro  insieme  squillò  il cellulare del  ragazzo:  era  l’altra  ragazza! Matteo, assai arrabbiato  ed  imbarazzato,  le fece  una  scenata  intimandole  di  non  chiamarlo  più. Marta  si  intenerì  e  lo perdonò. E così adesso sono felicemente sposati con una bimba che fra poco compirà due anni. Quando si dice che “L’amore è cieco”… 

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“Parlare a vanvera” di Stefano Losio   

  La vera  storia di questo detto deriva da quella di un paese  chiamato 

“Vanvera”, dove un giorno arrivò un mercante che diceva di vendere merci preziosissime a prezzi bassissimi e questo mercante parlava, parlava… La  gente,  ovviamente,  accettò  le  offerte  del  mercante  chiacchierone;  ma solamente  quando  egli  se  ne  fu  andato,  si  accorse  che  le  merci  erano contraffatte. Da quel fatto la gente non si fidò più di nessuno: soprattutto dei mercanti chiacchieroni… Un giorno, un re propose al suo più fidato cavaliere di andare a Vanvera e di riuscire  a  farsi  ascoltare,  anche  solo  da  una  persona.  Egli  partì  e  dopo numerosi giorni arrivò in questo paese: l’atmosfera era tenebrosa… Nell’aria non  si  sentiva  una  parola,  nelle  osterie  le  persone  non  dialogavano  e,  per ordinare, non parlavano all’oste, ma indicavano i cibi o le bevande sul menu; nemmeno nelle scuole gli insegnanti parlavano… Il cavaliere rimase colpito da questa atmosfera, tanto che ritornò dal suo re a riferire la situazione di Vanvera, ma egli non diede alcuna risposta. A quel punto il cavaliere tornò al paesello taciturno per tentare di compiere la sua missione, ma di un dialogo nessuna traccia… fino a quando, ad un certo punto,  un  abitante  lanciò  dalla  finestra  un  biglietto  con  scritto:  “Non parliamo più con nessuno da quando un furbo mercante ci ha raggirati.” Il cavaliere lesse quel messaggio e accorse di nuovo dal re, il quale, anch’egli, lo lesse ed infine si rassegnò… Dopo molti anni un altro cavaliere propose al  re un’impresa  impossibile ed egli rispose: “E’ come parlare a Vanvera.”        

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“Cantare a squarciagola” di Riccardo Murriero Una  gallina  era  seduta  sulla  mangiatoia  aspettando  con  ansia  il momento di esibirsi ancora cantando con  la sua voce e con  i suoi  fortissimi acuti. Questa gallina si chiamava Elisabetta ed era molto conosciuta nella sua zona per la straordinaria voce che aveva quando cantava. Quel  giorno  Elisabetta  avrebbe  dovuto  cantare  su  un  palcoscenico  molto speciale  con  luci  e  pubblico  in  ogni  angolo  del  palco.  Quando  arrivò  il momento, la gallina notò un bellissimo microfono nero al centro del palco; il canto iniziò ed essa cantò come non aveva mai fatto prima d’ora ed esibì un acuto straordinario: il pubblico andò in delirio e fece talmente tanti applausi che  la gallina si commosse, ringraziò  il microfono e gli promise che sarebbe tornata a prenderlo per cantare ancora con lui, che rendeva i suoi acuti ancora più forti. Quando tornò a casa, Elisabetta fu ricompensata dal proprio padrone con una bella  scatolona  di  mangime;  dopo  l’abbuffata  la  gallina  si  avviò  verso  il palcoscenico,  perché  si  era  ricordata  della  promessa  fatta  al  microfono. Arrivata sul luogo, si accorse delle guardie che stavano davanti al microfono per curare che nessuno lo rubasse, ma Elisabetta era molto più furba di loro, infatti  si  travestì  da  agente,  prese  il microfono  e  lo  portò  via  attraverso  il palco…  Nell’attraversarlo, però, premette accidentalmente il pulsante dell’accensione luci  e  tutti  riconobbero  la  gallina  in  fuga:  essa  si  aspettava  una  reazione rabbiosa da parte degli umani,  invece vollero  che  cantasse  il miglior brano del suo repertorio, e così fece. Cantò dunque il suo miglior brano a gran voce, come se la gola le dovesse scoppiare da un momento all’altro. Il microfono faceva il suo lavoro e l’acuto di Elisabetta fece persino scoppiare i  vetri  del  palco;  tutti  scappavano  e  correvano  via  per  la  paura,  quando improvvisamente il microfono implorò la gallina di smettere con il suo acuto, perché il merito  era solo suo. Elisabetta però non mollava, cantava e cantava, sempre di più, perché voleva dimostrare al microfono che  il merito di quei forti acuti era anche suo; così continuò a cantare forte, tanto forte che la gola le cominciò a fare male, a tal punto che le scoppiò in un fragoroso rumore: da qui nasce il detto “cantare a squarciagola”. 

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“Avere un di ragazza” di Marta Napolitano     

In  una  cittadina  del  Piemonte  viveva  una  famiglia  di  contadini  che aveva due  figlie e un  figlio. Questa  famiglia era molto povera e, per vivere, tutti dovevano lavorare la loro terra sia per mangiare che per vendere i frutti che produceva. Un giorno, mentre stava pulendo i pomodori, la figlia più piccola, Bella, vide una  carta  che volava e  che  si posò  sul  terreno;  si alzò di  scatto e  corse per vedere cos’era: era una mappa che portava ad un tesoro e, per raggiungerlo, si doveva fare molta strada. Bella la portò subito dalla mamma Geltrude e le chiese se lei e sua sorella Isabella potevano andare alla ricerca di quel tesoro, ma  Geltrude  non  voleva  che  le  sue  bambine  andassero  da  sole  in  luoghi sconosciuti e pericolosi, quindi chiese ad Osvaldo, suo marito, se autorizzava le  loro figlie. L’uomo però non voleva che due bambine, una di dieci anni e l’altra di otto, andassero  in  luoghi  così pericolosi, allora  lo  chiese a Max,  il fratello  di  Bella  ed  Isabella,  che  aveva  ventitré  anni  e  lui  accettò  di accompagnarle. Il mattino seguente  i  tre  fratelli con zaino sulle spalle si avventurarono alla ricerca del tesoro. Entrarono in una foresta molto intricata e misteriosa. Max guidava, dietro di lui stava Isabella e, accanto a questa, Bella.  Mentre camminavano, erano frequenti dei rumorini, come se qualcuno stesse parlando. Ad  un  certo  punto  Bella  vide  un  omino  piccolo  piccolo:  subito chiamò i fratelli e l’omino, per la paura, si nascose dietro un filo d’erba; Bella cercò di prenderlo dicendo: “Vieni, piccolo, non ti farò del male, voglio solo vederti!”  Quindi  allungò  la mano  e  l’omino  saltò  su  di  essa.  “Cosa  sei?” chiese Bella. “Sono come te, solo che sono piccolissimo” rispose l’omino con gentilezza.  Bella gli mostrò la mappa e gli domandò: “Sai dove si trova questo tesoro?” “Sì, ma ascoltami bene, fai quello che ti dico io o altrimenti non tornerai più a casa  tua!”  “Va  bene”  gli  rispose  la  ragazza,  dopodiché  i  tre  fratelli  si guardarono con sguardo impaurito. L’omino  proseguì:  “Più  avanti  c’è  un  ruscello:  cammina  sui  sassi  e  non cadere, altrimenti i pesci ti mangeranno; ancora più avanti c’è una montagna, ma per arrivarci in cima devi trovare un filo d’erba a forma di chiave e devi  

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infilarlo nella sua fessura: a quel punto la montagna diventerà scala. Ricordati di  non calpestare i fiori, altrimenti la scala si chiuderà e tu cadrai giù! Se farai tutto quello che  ti ho detto, arriverai viva al  tesoro che, una volta aperto,  ti permetterà di tornare subito a casa.” “Grazie,  piccolo  amico!”  Poi  Bella  lo  posò  a  terra  ed  i  fratelli  si incamminarono. Arrivarono al ruscello e Max disse: “Mi raccomando, calma e sangue freddo: andrà tutto bene, se manterrete  l’equilibrio!” E  infatti  lo superarono, ma ora dovevano  trovare  il  filo  d’erba  a  forma  di  chiave. Dopo  quasi  due  ore  lo trovarono, lo inserirono nella sua fessura e la montagna si trasformò. Dopo altre due ore trovarono il tesoro, ma mancava la chiave e l’omino non aveva detto niente riguardo a ciò. I tre fratelli, esausti, si stesero sull’erba, ma Max sentiva qualcosa sotto di sé: era il pezzo iniziale di una chiave! Anche ad Isabella e Bella capitò la stessa cosa: infatti sotto Bella c’era il pezzo centrale e sotto  Isabella  quello  finale;  li  misero  vicini  uno  all’altro  e  per  magia  si unirono  e  il  forziere  si  aprì, ma non uscì un  tesoro, bensì una  ragazza  che possedeva tantissimo oro e così i tre fratelli tornarono a casa sia con il tesoro sia con un’amica. Con  il tesoro si costruirono una villa e diventarono ricchi ed ora  la famiglia Carlain non era più di cinque, ma di sei componenti e la frase, che era incisa sulla loro villa e che fece il giro del mondo, era: “Avere un tesoro di ragazza”. In effetti per loro valeva più la ragazza del tesoro, perché essa nel frattempo era diventata più di una  figlia per  i genitori  ed un’amica  importante per  i figli.              

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“Fare le cose alla carlona” di Giada Orecchia    

Un giorno alle scuole medie,  in una certa classe, c’era una ragazza di nome Carla: era un po’  grassottella,  alta,  con un  taglio di  capelli  adeguato, dei  begli  occhioni  quasi commoventi di  color verde  intenso ed un bel naso a patata;  indossava  sempre una  tuta color rosa, perché il rosa era il suo colore preferito. Ella faceva arrabbiare sempre i professori per i suoi modi di fare: non ne faceva mai una giusta, faceva sempre cose sbagliate; per esempio, se le veniva detto di comporre un tema per il giorno successivo, lei lo faceva per il martedì venturo. Era anche successo che in un compito fosse stato detto di colorare di giallo i cerchi e di blu i quadrati e lei aveva fatto il contrario,  facendo  così  arrabbiare  la  professoressa.  Quando  c’era  palestra  poi,  lei  non voleva farla, perché non le piaceva e poi anche perché andava male. L’insegnante quindi si era arrabbiata più volte e l’aveva costretta a farla, altrimenti, diceva, le avrebbe messo una nota. I suoi compagni la prendevano sempre in giro, perché era grassottella e, quando facevano palestra,  la  sua  grandezza  si  notava  di  più  ed  allora  uno  del  gruppo  dei  maschi  la chiamava “Carlona”, perché appunto era grossa. Quel giorno  la professoressa aveva detto di saltare  la corda e  lei si rifiutava, perché non riusciva; a quel punto  la donna si arrabbiò per  la  terza volta con  l’allieva dicendole con tono alto di provarci subito! La ragazza  lo  fece da arrabbiata, perché era stata sgridata e l’insegnante le ordinò di far bene l’esercizio, altrimenti le avrebbe messo subito la nota, e di portare educazione. La professoressa se ne andò… Carla sbatté la corda per terra e se ne andò a sua volta nello spogliatoio. La  sua migliore amica,  che era un po’  come  lei,  cioè  faceva  le  cose male, accorse  subito convincendola ad uscire… Intanto  arrivò  di  nuovo  l’insegnante  ordinando  all’amica  di  Carla  di  andare  a  fare l’esercizio  interrotto;  la  ragazza dichiarò  che non  riusciva, ma  la donna  rispose di  farlo immediatamente,  altrimenti  le  avrebbe  dato  dieci  fogli  di  teoria  da  compilare  per l’indomani.  Essa  si  mise  subito  a  provare,  ma  lo  faceva  male,  non  secondo  quanto spiegato, bensì al contrario! L’insegnante vide quello che stava combinando e le domandò: “Ma come fai le cose? Alla Carlona?!” Tutti  i ragazzi si misero a ridere; nel mentre suonò  la campanella e così  tutti fecero  la  cartella  e  s’incamminarono  verso  casa  dicendo  a  Carla,  soprannominata “Carlona”: “Fai le cose alla Carlona, cioè male!” E continuarono in quel modo per un po’. Infine andarono a casa, ma “Carlona” non riuscì a cambiare mai e d’allora in poi il detto rimase per sempre!   

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“Fare promesse al ” di Giulia Petrillo    

Questo  è un vecchio detto,  che  sta  a  significare  che  chi ha  il vizio di mentire, non lo perde facilmente… Tutto nasce da una vecchia storia: ci troviamo in un bosco, esattamente in una fattoria  circondata  da  un  bosco  e  lì  viveva  una  famiglia  di  contadini,  che coltivavano cibo e allevavano animali. Una mattina come tante  i contadini si alzarono alla solita ora, cioè all’alba e iniziarono  la  loro giornata. Si  cominciava  con  il dare  il  cibo  agli  animali  e, come  ogni mattina,  anche  quel  giorno  essi  si  recarono  al  recinto  dove  si trovavano  i  loro  agnelli, ma  ebbero  una  grossa  sorpresa,  trovarono  cioè  il recinto aperto e alcuni agnelli azzannati. I  contadini  a  quel  punto  si  disperarono,  perché  non  capivano  come  tutto quello  fosse potuto accadere e non riuscirono a capire neppure come mai  il recinto fosse aperto e quale animale avesse potuto uccidere i poveri agnelli. La mattina successiva trovarono lo stesso spettacolo; allora, preoccupati per il fatto, decisero di mettere una trappola e di acciuffare il colpevole. Aspettarono  con  ansia  la mattina  seguente  e,  al  loro  risveglio,  trovarono  il responsabile: era un vecchio lupo, che li supplicava di essere liberato da quel dolore  atroce  che  gli procurava  la  trappola;  non  solo, ma  giurava  che  non avrebbe mai più azzannato un agnello in vita sua. Considerato  che  quel  giorno  soffiava  un  vento  mai  visto  prima,  le “sincere”parole del  lupo (che ai contadini sembravano veramente sincere)… quella grandissima bufera le portò via con sé! Dopo il giuramento comunque i contadini lo liberarono, convinti che avrebbe mantenuto la promessa. Trascorsero  i giorni e  il  lupo passava e ripassava davanti al recinto, avendo una forte tentazione, ma ricordandosi anche della promessa fatta ai contadini. Una sera il lupo ripassò di nuovo davanti al recinto, si fermò a guardare gli agnelli e pensava a quanto fossero appetitosi e non resistette dimenticandosi della promessa. Questo detto sta a significare che un uomo che ha il vizio di mentire, anche se ha una grande forza di volontà, prima o poi ci ricade e da allora le “promesse al vento” appartengono a coloro dei quali non ci si può fidare!  

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“Inghiottire il “ di Maroua Rafik

    In  una  città  della  Francia meridionale,  nel  tredicesimo  secolo,  si  era diffusa l’abitudine da parte di molti cittadini di parlare del prossimo in modo offensivo e non sempre dicendo cose belle e buone. C’era  nelle  campagne  attorno  alla  città  un  contadino  che  nei  suoi  campi allevava anche  rane da vendere nei mercati  e aveva  sempre  il problema di liberarsi dai rospi che andavano a stare in mezzo alle rane. Un giorno venne a trovarlo una signora che gli chiese di dare a lei tutti i rospi che  riusciva a  raccogliere e di portarglieli  in una casetta appena  fuori dalla città. Qualche giorno dopo si verificò in città un fatto nuovo: una donna, nota per essere  pettegola,  cioè  una  persona  che  parlava  male  della  gente,  venne aggredita, immobilizzata e costretta a ingoiare un rospo. Nei  giorni  seguenti  la  cosa  si  ripeté:  tante  persone,  famose  per  essere chiacchierone, pettegole e bugiarde,  furono anche  loro costrette ad  ingoiare altrettanti rospi. Poiché  i rospi sono animaletti che dalla pelle emettono  liquidi disgustosi,  le vittime,  costretti  ad  ingoiarli, per un po’ di giorni  stavano male  e  in breve tempo  la  gente  cominciò  a  collegare  le  chiacchiere  cattive  alle  persone aggredite  e  in  quella  città  l’abitudine  di  parlare  male  del  prossimo praticamente scomparve, proprio per evitare di dover “ingoiare il rospo”…          

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“Un ago nel ” di Vittorio Ruschetta

   Tanto  tempo  fa,  in un villaggio, viveva un povero contadino di nome 

Romualdo. Era molto magro,  con  capelli  rossi  e pelle  scura. Viveva  in una casetta in sasso al margine di un campo. Un giorno, mentre si recava alla sua bottega, vide passare una carrozza tutta bianca. Sulla porta vi era lo stemma dei conti proprietari di quelle terre. Dalla finestrella si affacciò una giovane donna. Aveva una pelle chiarissima e fra i suoi capelli castani spuntava una spilla a forma d’ago. Al vedere la fanciulla il giovane se ne innamorò e, senza pensarci, prese Bino, il suo mulo, lo legò al suo carretto e partì per seguire quella carrozza. Dopo ore ed ore di viaggio vide in lontananza un palazzo marmoreo tinteggiato di bianco e di verde. Proprio davanti al suo cancello vi era la carrozza. Ad un  cenno della nobile  esso  si  aprì. Dalla  gioia  il  contadino  iniziò  a  far correre all’impazzata il suo Bino. Arrivato davanti all’ingresso, una guardia lo fermò chiedendogli: “ Chi siete? E  cosa  volete?”  “Sono  un  contadino  innamorato  della  contessa  e  la  voglio sposare.” Con una  risata acuta  il soldato  rispose: “Voi sposare  la contessa?! Ma è già sposata!” Col  cuore  a  pezzi  il  ragazzo  saltò  sul  suo  carretto.  Stava  per  ripartire quando…  “Aspettate!” Una voce  femminile  aveva parlato  alle  sue  spalle… era la contessa. “Voi  siete un  contadino?”  gli  chiese  la donna.  “Sì,  e  vi  voglio  sposare per giunta!” “Beh” continuò  lei “Questo è  impossibile, però potrete avere  i miei favori, se troverete  la spilla a forma d’ago che ho perso nel pagliaio quando sono andata nella scuderia del mio cavallo bianco.” Contento  per  la  chance  concessa  dalla  contessa,  andò  nelle  scuderie  alla ricerca dell’oggetto. Lo  cercò  in ogni angolo,ma non  lo  trovò mai. Così nel paese si iniziò a dire alle persone che cercavano cose piccole in luoghi grandi: “è come cercare un ago nel pagliaio!” Pian piano questo detto prese piede anche nelle città vicine  fino a superare addirittura i confini dell’Italia.  

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”Urlare a squarciagola” di Christian Santina

Tanti anni fa viveva in un piccolo paese una famiglia, che amava molto cantare. I membri di questa famiglia cantavano sempre nelle fiere e nelle feste del paese, dove a loro piaceva molto esibirsi, perché si rilassavano. Passarono molti  anni  e  il  re  di  quello  stato  venne  a  sapere  che  c’era  una famiglia a cui piaceva molto cantare; allora mandò dei cavalieri a chiamarla. Passarono altri due o  tre giorni ed  i cavalieri capitarono  in un paese molto povero, dove gli abitanti stavano facendo una festa. Proprio in quel momento stava  cantando  una  famiglia  ed  i  cavalieri  pensarono  che  fosse  quella  che stavano  cercando:  si  avvicinarono  dunque  ad  essa  e  dissero  ai  suoi componenti che li voleva re Antonio II di Savoia; loro accettarono la proposta di andare dal re e allora incominciarono ad incamminarsi verso il castello. Arrivati,  andarono  dal  sovrano,  che  disse  loro:  “Voi  siete  la  famiglia Garzoni?”  ed  essi  risposero: “Sì,  sì.”  Il  re disse  loro  che  era al  corrente del fatto  che  erano molto  bravi  a  cantare  e  la  famiglia  rispose  ringraziando di cuore;  allora  il  re  chiese  loro  se volevano  cantare nella  festa  che  si  sarebbe tenuta la sera stessa ed essi acconsentirono. Il re li ringraziò. Arrivò  l’ora dell’esibizione canora e  la  famiglia cominciò;  il  re dopo un po’ disse  ai  cantori  che  dovevano  urlare  per  poter  essere  uditi  e  quelli cominciarono a cantare molto forte e poco dopo la loro gola si squarciò per lo sforzo eccessivo ed essi caddero tutti a terra morti con il sangue dappertutto. Così nacque il detto “urlare a squarciagola”.          

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“Lo zio d’America”  di Roberta Tascone    

  Tanto  tempo  fa  in  una  cittadina molto  piccola  viveva  un  ragazzo  di nome  Teodoro  di  anni  diciotto.  Egli  fin  da  piccolo  aveva  un  sogno  nel cassetto,  cioè  costruire una  fattoria  con  tanti animali,  come aveva  fatto  suo padre; la realizzazione di questo sogno però gli fu impedita dai soldi: infatti la sua famiglia era molto povera, ma la speranza rimaneva sempre. Un anno dopo completò gli studi e si diplomò elettricista, ma purtroppo  in quel periodo c’era crisi e non trovò nessun lavoro da elettricista. Così cambiò mestiere  e  fece  il pasticciere per guadagnare  soldi  e  farsi una  fattoria  tutta sua. Teodoro però non era molto portato per fare il pasticciere, comunque ci provò  lo stesso, seppure con scarsi risultati:  infatti faceva tantissimi disastri, finché il suo capo, esasperato, lo cacciò ed egli si ritrovò in mezzo alla strada. Tutto  ad un  tratto gli venne  in mente di  fare  il  falegname:  fortunatamente quel lavoro gli andò bene e dopo un po’ di anni si sposò con una contadina e insieme generarono due figli. Il  lavoro  da  falegname  sei  anni  dopo  purtroppo  finì,  ma contemporaneamente quello di elettricista ritornò in auge e lui svolse questa professione per cui si era diplomato per trent’anni e, passati i trent’anni, andò in pensione. Giunto  al  traguardo  si  godette  la  vita, ma  sfortunatamente  un pomeriggio egli andò a fare la spesa e lasciò per sbaglio la porta di casa aperta con dentro tutti  i  suoi  averi:  i  ladri  gli  rubarono  tutto  quello  che  aveva.  Teodoro  era disperato… Una mattina però arrivò il postino e gli consegnò una busta con una lettera e quella  lettera  gli  salvò  la  vita,  perché,  siccome  un  suo  zio  d’America  era venuto a mancare e gli aveva lasciato tutti i soldi, Teodoro finalmente coronò il suo sogno, cioè mettere su una fattoria con molto bestiame. Questa  storia  spiega  il  significato  del  modo  di  dire  “avere  uno  zio d’America”, per indicare la fortuna di chi si ritrova tra le mani delle ricchezze insperate.  

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”Vedere con gli occhi del cuore” di Valentina Witri     Era una  giornata  stupenda,  eppure  accadde un  fatto  spiacevole: una  bambina di nome Emy perse  improvvisamente  la vista mentre giocava  con alcuni amici,  così venne portata  in ospedale, dove  i medici scoprirono che aveva un tumore al cuore. Per fortuna questo tumore era molto piccolo, perciò poteva essere ancora salvata. Il caso non risultava grave né urgente e dunque il giorno dell’intervento era molto lontano. Intanto  Emy  continuava  a  coltivare  la  sua  passione:  il  canto;  era  infatti  una  bambina amante della musica, continuava ad esibirsi  in piccoli concerti nel paesino dove abitava, però, man mano andava avanti con questi concerti, si sentiva sempre più affaticata. Allora sua mamma Marisa si sentì in dovere di aiutare la propria figlia, perciò si recò in ospedale per parlare  con  i dottori, ma  loro non  le diedero  ascolto, perché  c’erano  casi molto più gravi da risolvere. Un giorno  il papà di Emy, dopo aver saputo che  la figlia stava male, tornò subito a casa dal lavoro; con sé portò un ragazzo con cui Emy avrebbe potuto giocare senza che nessuno potesse prenderla  in giro. Con questo ragazzo, Mat, si divertiva molto, perché anche  lui era cieco da quando aveva perso la vista in un brutto incidente in cui era morta la madre; ora era rimasto da solo con il padre e questo padre conosceva delle cure molto efficaci per diverse malattie. Il giovane però non sapeva che la piccola Emy avesse un tumore e allora non parlava mai di suo papà, altrimenti si sarebbe ricordato della madre… Un giorno Mat venne a sapere del male che affliggeva la sua amichetta, perché, origliando alla porta della cucina, sentì i genitori di Emy che stavano parlando del tumore al cuore e del  fatto che  i dottori non potevano curarla subito, ma solo più avanti… Mat disse  loro: “Mio  padre  è  una  specie  di  dottore,  sa  molte  cose  sulla  medicina.”  “Allora  cosa aspettiamo? Prendiamo la macchina e andiamo da tuo padre!” intervenne Marisa. Dopo qualche minuto di viaggio arrivarono alla casa di Mat… “Ciao, papà, ti ho portato una bambina con un tumore al cuore: la puoi curare?” chiese il ragazzo. “Non so, però ci provo.” rispose il padre. Emy intanto si era sdraiata su un lettino e il padre di Mat formulava delle strane parole… Poi disse:  “Ma questa bambina non ha niente…”  “Come non ha niente? Hanno detto  i dottori che ha un tumore.” disse la mamma di Emy. “Invece non ha niente e, se aveva un tumore, ora è sparito!” “Come ha fatto a sparire?” “Credo che sia per la vista: quando una persona non vede, concentra la forza nelle altre parti del corpo ed Emy evidentemente ha riposto  tutti  i  suoi  interessi  ed  i  suoi  sentimenti  sul problema al  cuore,  risolvendolo da sola.” Sembra incredibile, ma da qui nacque il detto: “Vedere con gli occhi del cuore”.  

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“Senza cuore” di Ivana Xia   

Questa  vicenda  è  accaduta molti, molti  anni  fa,  persino  prima  della scoperta dell’America! In una piccola cittadella inca infatti viveva un ragazzo di  tredici  anni,  che  si  chiamava  Yachimo.  Aveva  tantissimi  amici,  ma purtroppo  aveva  un  difetto:  l’egoismo;  era  così  egoista  che,  se  qualcuno aveva  qualcosa  che  lui  non  possedeva,  faceva  di  tutto  per  ottenerlo  e,  se aveva qualcosa lui, lo teneva soltanto e unicamente per sé. E fu per questo motivo che man mano perse quasi tutti i suoi amici e soltanto uno di loro restò al suo fianco: si chiamava Naiki ed aveva i suoi stessi anni; questo  ragazzo  era  di  buon  cuore  e,  qualsiasi  cosa  facesse Yachimo,  stava sempre accanto a lui. Gli anni intanto passavano e quando finalmente Yachimo e Naiki compirono i  sedici anni,  furono  scelti per andare  in guerra,  in una battaglia  contro un villaggio azteco. Dopo  ore  di  cammino,  i  soldati  inca  decisero  di  accamparsi  vicino  ad  un piccolo lago. I due ragazzi erano nella stessa tenda. Dopo qualche minuto, Yachimo chiese con voce sprezzante al suo compagno di andargli a prendere dell’acqua e, nonostante questo  suo  comportamento poco amichevole, Naiki senza ribattere andò al lago. Mentre  il  ragazzo  prendeva  l’acqua,  gli  si  avvicinò  un  pastore;  non  si  sa perché, ma a Naiki sembrava simpatico e dopo avergli parlato per un po’ di quello  che gli  stava  succedendo,  familiarizzarono,  così  il pastore gli  regalò una foglia e gli disse che, se per caso fosse stato catturato dai suoi avversari e gli fosse stato tolto il cuore per essere donato al dio azteco (come succedeva a tutti i prigionieri catturati da quel popolo, per motivi religiosi), mangiando la foglia prima dell’espianto, sarebbe vissuto anche senza di esso, ma soltanto se lui  fosse  stato  veramente  una  persona  senza  pensieri  malvagi.  Infine  gli raccomandò  di  non  darla  a  nessuno,  soprattutto  a  chi  avesse  una mente cattiva, perché quella persona sarebbe potuta diventare persino un mostro! Arrivato alla tenda, Naiki raccontò subito tutto quello che gli era successo al suo amico. Dopo  il  racconto,  nei  pensieri  di  Yachimo  c’era  come  un  flusso  negativo, come un dovere, il dovere di ottenere quella foglia ad ogni costo! E così nella notte di quello stesso giorno Yachimo decise di rubare la foglia, quindi litigò 

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  con Naiki  e  alla  fine,  senza pietà, buttò  il  suo  amico nel  lago,  il  suo unico amico… Come previsto, gli Inca persero la battaglia e furono imprigionati e presto fu tolto  loro  il cuore; allora Yachimo, prima dell’espianto, mangiò  la  foglia. Le parole del pastore  risultarono  veritiere  e  lui non morì. Purtroppo però  era malvagio  e  così,  senza  il  cuore,  nella mente  aveva  solo  pensieri  cattivi  e crudeli  e,  come  un mostro  assetato  di  sangue,  cercò  di  uccidere  chiunque incontrasse;  allora  gli  abitanti,  sapendo  che  era  un  pericolo  per  tutti catturarono quel mostro e lo uccisero Da quel giorno venne diffuso man mano  in  tutto  il mondo  il modo di dire “senza  cuore”;  così,  se  c’erano  delle  persone  che  sembravano  senza sentimenti,  con  in  testa  soltanto  crudeltà,  fu  loro  attribuita  l’espressione “senza cuore” e si disse: “ Sei una persona senza cuore!” Attenzione  però,  in  tutto  questo  racconto  non  c’è  soltanto  una  fine  atroce, infatti Naiki è ancora vivo, perché al lago fu salvato dal pastore e pochi mesi dopo si sposò con sua  figlia, Liviana,  la donna più bella del mondo ai suoi occhi. Eh, già, era proprio un ragazzo fortunato! A proposito, sapete chi sono io? Sono io quel ragazzo fortunato…                 

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“Menare il can per l’aia” di Riccardo Zito    Un giorno, nella bella  campagna di Way, un  signore  con  appresso  la moglie (entrambi erano sui quarant’anni), portava a passeggio un cagnolino. Sulla  schiena  la moglie aveva un piccolo zainetto  e un  cestello nella mano: essendo gracile, non portava oggetti pesanti, che toccavano al marito, molto alto e dotato di una buona forza. I due si fermarono come per fare un pic‐nic, ma la donna ordinò di andare a togliere tutti i sassi, mentre lei si riposava all’ombra. L’uomo,  sempre costretto a  lavorare, era esausto, ma continuava a  lavorare senza mai smettere, senza perdere tempo. Ad un certo punto il cane si avvicinò a lui e incominciò a tirargli i calzoni per portarlo via dal sole cocente, ma lui continuava a togliere i sassi. Quando  ebbe  finito,  la moglie  esclamò:  “Finalmente!”,  con  aria  scocciata. L’uomo  non  disse  nulla, ma,  con  tono  da  dittatore,  riprese  lei:  “Monta  il gazebo!” E aggiunse: “In fretta!” In silenzio l’uomo si mise a sgobbare. Una volta finito, mangiarono; quando l’uomo volle andare a farsi un bagno, lei lo fermò: “Devi sparecchiare.” “Ma  se  ho  lavorato  solo  io…”  disse  lui  con  aria  quasi  seccata.  “Non mi interessa!”  rispose  lei  e  si  giustificò:  “Io  ho  apparecchiato.”  Egli  ribatté: “Questo ruscello aspetta me e  il cane:  lavora  tu adesso.” “Se non sparecchi, stasera niente cena…” L’uomo  sparecchiò,  smontò  il  gazebo  e  poi  andarono  via.  Il  poveretto  era molto arrabbiato, ma si tranquillizzò il giorno dopo al lavoro. Lui sapeva che si sarebbe dovuto sorbire la moglie per due ore, prima che anche lei andasse finalmente a lavorare. Fece, allora, mezzora di straordinari, percorse la strada più scoscesa e lunga, ma mancava ancora un’ora. Arrivato a casa ebbe un’idea: dietro vi era un’aia, che  la moglie odiava e di certo  non  si  sarebbe  neanche  lontanamente  sognata  di  andarci.  Decise  di sciogliere  il cane e di menarlo per  l’aia. Fece girare  il cane  fino a quando  la moglie non se ne fu andata a lavorare e lui rientrò in casa. Facendolo tutti i giorni e raccontandolo agli amici,si diffuse il detto “menare il  can per  l’aia”, usato quando  si vuole  indicare  il  tentativo di qualcuno di perdere tempo.  

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“Parlare come un stampato” di Roberta Fattalini

Non  lontano  dalle  ridenti  sponde  del  Lago  Maggiore,  in  località  Trobaso, 

sorgeva (e ancora sorge) un istituto intitolato al famoso pittore locale Daniele Ranzoni, la “Scuola Media Statale Ranzoni”, per l’appunto. L’edificio, lungo e non particolarmente elevato, di una monotona tonalità grigio‐avorio all’esterno,  ma  coloratissimo  negli  spazi  comuni  interni,  era  frequentato  da  una popolazione scolastica assai folta. Tra i numerosi giovani, si recavano quotidianamente a svolgere il proprio dovere di studenti anche gli alunni della seconda C, una classe di diciannove cervelli ben assortiti… Un  giorno,  apparentemente  non  diverso  dagli  altri,  entrò  in  aula  l’insegnante  di Lettere,  una  donna  tanto  imprevedibile  quanto  metodica:  non  si  sapeva  mai  cosa aspettarsi da lei, che dal cilindro dell’esperienza scolastica, ormai vecchio di vent’anni, riusciva a  tirar  fuori consegne  scaturite  senza ombra di dubbio da qualche…pensata notturna. L’unica certezza, tuttavia, consisteva nel fatto che non mancavano mai! In quell’occasione la professoressa propose ai ragazzi la lettura comune di un racconto, che rappresentava un caso esemplare di origine fantastica di un noto modo di dire. La lettura procedette in tutta serenità nel silenzio generale e, alla fine, il racconto risultò di notevole gradimento. Come sempre,  furono somministrati agli allievi esercizi domestici di comprensione e analisi, ma neppure  in quella circostanza  la docente si dimenticò di  regalare  loro un bell’ “invito alla scrittura”, solo che…questa volta la proposta era davvero stuzzicante: ogni  alunno  avrebbe  scelto  un  modo  di  dire  e,  secondo  il  modello  di  racconto precedentemente  esaminato,  avrebbe  inventato  un  testo  etimologico  rigorosamente fantasioso! Gli elaborati sarebbero stati letti successivamente in classe per condividere la comune fatica  della  stesura  e  la  piacevolezza  che  certamente  sarebbe  scaturita  dal  loro reciproco ascolto. Per questo la donna si raccomandò di curare molto la forma, cioè di non  “parlare”  come  in  genere  avviene  in  contesti  orali  quotidiani  alla  presenza  di coetanei ovvero di  famigliari, ma di esprimersi al  contrario “come un  libro”, meglio ancora, aggiunse in tono scherzoso, se “stampato”. I ragazzi presero sul serio la proposta e non si risparmiarono, al punto da creare tutti, nessuno escluso, piccoli gioielli letterari molto apprezzati innanzitutto dall’insegnante, che,  ritenendoli meritevoli  di  attenzione,  decise  di  valorizzarli  conferendo  loro  una veste informatica in grado di farli “parlare come un libro (forse in futuro) stampato”. Da allora,  il modo di dire “parlare  come un  libro  stampato”  sta ad  indicare  l’abilità espressiva  di  chi,  come  gli  alunni  di  quella  famosa  seconda  C,  sa  trasmettere  con particolare efficacia il proprio pensiero creativo.