La Città della Porta

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L'Autore parla degli ormai famosi Megaliti di Nardodipace, inquietanti presenze attraverso cui si tenta di ricucire il labile filo che collega la leggenda, la protostoria e la realtà etnografica delle aree interessate.

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Decodifiche

Dott.ssa Genoveffa Gullì

Redazione

Prof. Santo RaveNDa

Reperti

Raccolta privata avv. Mario ToloNe (Girifalco, Cz)

Videoimpaginazione e grafica

KaleiDoN

© 2004 KaLeiDon

di Roberto arillotta

via Mili - Sant’anna, 2189128 Reggio Calabria, italiaTel/Fax 0965 32 42 [email protected]

Codice iSBN 88-88867-00-7

Nessuna parte di questo libro puòessere riprodotta o trasmessa inqualsiasi forma o con qualsiasi mezzoelettronico, meccanico o altro senzal’autorizzazione scritta dell’editore.

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Ai miei nipotini

Federica e Domenico

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CaPiTolo i

nel regno del sole

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cap. i - Nel Regno del Sole

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a questa incredibile storia ci siamo arrivati per gradi. l’evento culturale

dei megaliti di Sambuco e di ladi è stato soltanto lo spunto propizio che

ci ha consentito di avere certezza piena di quanto eravamo venuti appu-

rando da sei anni almeno dai ritrovamenti di antichità delle Serre da par-

te dell’avv. Mario Tolone di Girifalco (CZ), nostro carissimo amico.

Questi reperti, ordinatamente custoditi nella sua bella casa, ri-

guardavano, per la verità, tutte le Serre Joniche, ma una quarantina al-

meno toccavano espressamente il territorio montano, collinare e marino

tra Nardodipace e Focà, dandogli un riscontro tanto mirato da lasciarci

a tutta prima perplessi. essi raccontavano una antichissima storia sepol-

ta, ignota persino ai padri magrogreci che dal iX sec. a.C. cominciarono

a sciamare in modo deciso dal Mediterraneo orientale verso i lidi occi-

dentali, intesi a fondare nuove colonie.

eravamo incappati in quei reperti una decina di anni orsono e fu

proprio la loro indecifrabilità a stimolarci alla ricerca.

Passammo i primi cinque anni di studio e di confronti intuendo e

appurando che si trattava di reperti preistorici; lo stesso Tolone, forse a

seguito di una felice interpretazione di qualche visitatore documentato,

li aveva definiti “enotri”. Di conseguenza, provenendo da studi classici e

filologici, pur preziosi ma non specifici, ci siamo dovuti rifare le ossa con

altro corso di studi e di approfondimenti, per lo più interdisciplinari, poi,

lentamente incominciammo a capire, pervenendo alla lettura di moltissi-

mi segni, che costituivano la prescrittura di quella civiltà sconosciuta, e

che invadevano le piccole sculture, gli idoletti, le grandi tavole di creta;

avevamo, così, la ventura di entrare in un rapporto ravvicinato con un

popolo del mare, vissuto alle Serre Joniche, dalla costa sino alla monta-

gna tra il v e il ii millennio a.C.: nei nostri studi e nella nostra forma-

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a.C.) il regno del Popolo del Mare pare annoverasse quattro città, due di

mare (Squillace e Focà) e due interne (Girifalco e Nardodipace, ovvero la

Città della Porta) collegate soltanto da una via interna di risalita e di dor-

sale. Non vi furono (e forse non servivano o erano pericolose) vere e pro-

prie vie costiere. un corto sentiero risaliva sino ad un certo punto il crina-

le posto accanto alla fiumara assi o quello accanto all’ancinale. Non sa-

premmo dove portassero, salvo che per l’assi interessato a metà del suo

corso da una immensa struttura ancora visibile, forse di tipo funerario.

i ceti sociali produttivi erano rappresentati da pastori (caprai e so-

prattutto bovari) che occupavano tutte le zone montane e in particolare

le montagne più meridionali; vi erano poi i contadini, dediti alle colture

cerealicole soprattutto attorno a Monte Covello e verso il mare; lungo tut-

ta la costa si praticava intensamente la pesca sia quella primaverile che

quella autunnale con una interruzione sicuramente forzata durante il pe-

riodo estivo; nella raccolta Tolone compaiono pesci in creta assomiglianti

a tonnetti e il totano al quale è addirittura dedicata una preghiera-inno.

Siccome gli inni al Sole accennano più volte alla navigazione com-

merciale saremmo curiosi di appurare quali merci arrivassero a Squillace

e quali invece partissero.

le donne e gli uomini del regno appaiono abbondantemente ve-

stiti e adeguatamente calzati: veli, tuniche, scialli e mantelli erano pre-

senti ed il vestimento invernale doveva certamente essere adeguato ai cli-

mi freddi e piovosi della brutta stagione delle Serre. Può darsi che le stof-

fe provenissero dall’oriente.

Fin quando il rame e i suoi lingotti ad uncino furono merce pre-

ziosa, il porto di Focà, alle foci dell’allaro, dovette essere un porto so-

prattutto minerario; quelle miniere dovettero però essere abbandonate già

cap. i - Nel Regno del Sole

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“il nemico“

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al cominciare del ii millennio a.C.. Può darsi anche che si esportassero

da quello stesso porto carni minute, bestie vaccine e formaggi stagiona-

ti; abbiamo avuto tuttavia l’impressione che la sopravvivenza di quel re-

gno, che non disponeva di amplissimi territori di colture, dipendesse dal-

le importazioni e dalle razzie, il che spiegherebbe la sua vocazione alla

pirateria, praticata nel Mediterraneo durante il neolitico e non soltanto

dai Popoli del Mare delle Serre.

la maggior parte dei sudditi che non esercitavano attività pro-

duttiva era impegnata nella dura fatica del trasporto delle merci e delle

provviste, dal mare alla montagna o viceversa o da villaggio a villaggio.

Non crediamo che ci fossero vie carrabili sicché il trasporto doveva av-

venire o a dorso di mulo o a spalla e sempre a piedi, con un ritmo e una

frenesia che si acceleravano e regredivano a seconda delle stagioni; non-

ostante figurino nel “censimento” i commercianti (“i kappa”) non sa-

premmo come interpretare la loro funzione non avendo trovato traccia di

qual cosa che assomigli al denaro; d’altra parte se la compravendita era

basata sul baratto e sullo scambio di merci, salvo che per i pastori, che

dovevano essere tra i fortunati, o per i contadini, non sapremmo cosa do-

vessero barattare i sudditi comuni, gli anziani, le donne sole a meno che

in quel regno, come si tramandava per gli itali, non vigesse una qualche

forma di economia di sussistenza raccogliendo tutto quanto si potesse

trovare in natura, compresi i funghi in montagna e sicuramente anche la

frutta e tutti gli altri prodotti spontanei della terra; non è escluso, sem-

pre sulla traccia del costume voluto dal re italo, che vi fosse una distri-

buzione gratuita di cibo almeno per i meno abbienti. Crediamo anche che

i Signori (i “Tau”) non si accontentassero di fare la guerra e di preleva-

re la maggior parte delle prede di pirateria: “un regno ben ripartito in

cap. i - Nel Regno del Sole

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quote”, come narra il copricapo del “Re dei vent’anni”, che ci pare che

accenni, e neppure velatamente, ad una spartizione del territorio tra i po-

tenti e i privilegiati.

Quel che sembra comunque emergere in questo appena abbozza-

to regno dei Popoli del Mare è una sorta di posizione a parte del popo-

lo dei pastori e della montagna, forse dotati di una qualche autonomia e

comunque meno esposti alle incertezze degli eventi, praticamente per

quei tempi autosufficienti e in grado di dare più che di ricevere.

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pesca nel Golfo di squillace

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Sarà anche per questo che la “Città della Porta” acquistò quel ri-

scontro che i reperti Tolone dimostrano così chiaramente.

Non potremmo chiudere questo resoconto senza accennare all’ipo-

tesi molto avvincente avanzata dal prof. Franco Mosino a proposito del-

la lestrigonia ossia della terra dei lestrigoni o dei giganti.

Nella prima parte del libro X dell’odissea, omero resocontando il

viaggio di ulisse nell’occidente, ad un certo punto va a nominare, con ri-

ferimento alle Serre, la città di Telepilo (“la Porta lontana”) sede della

fortezza di lamu che pare fosse uno dei re dei lestrigoni. il prof. Mosino

è dell’opinione che, nominando quella fortezza e quella città, lo sguardo

corresse dall’alto del Tirreno verso le lontane ed inaccessibili montagne

delle Serre e soprattutto verso Monte Pecoraro. Si potrebbe intuire, at-

traverso il velo della leggenda incamerata in ambito calcidese reggino,

l’esistenza e la consistenza nelle Serre vibonesi di quella che noi andia-

mo presentando come la Città della Porta.

cap. i - Nel Regno del Sole

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CaPiTolo ii

La città della porta

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cap. ii - La Città della Porta

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il reperto del “Re seduto”, che in forma sintetica racconta mediante se-

gnature in pittogrammi ed ideogrammi la circostanza delle sepolture dei

Re dei Popoli del Mare e del Piano di Cianu, apre la narrazione con ri-

ferimento al punto d’approdo accanto alle foci dell’allaro indicandolo co-

me “terra della Città della Porta”. Nonostante la presenza sulla sculturi-

na e a lato di questa indicazione, del pittogramma di una città di mare

in posizione elevata e dotata di una fortificazione interna, che pare deb-

ba corrispondere al piano di Focà ed al sito di Castelvetere e che ci po-

trebbe far pensare che era quella la Città della Porta, tutta la documen-

tazione esaminata ci induce a situare la Città della Porta, come distinta

dalla città costiera di Focà, al Piano di Cianu.

È del resto lo stesso toponimo residuo di quel piano “Cianu”, tra-

sformato da un precedente “Gianu”, a confermarci che la Città della Porta

doveva trovarsi proprio su quel posto pianeggiante e sotto Monte

Pecoraro. Sia “Cianu” che “Gianu” contengono infatti il termine che fu

anche latino oltre che osco “Janua” che significa “Porta”.

Se ciò non bastasse, ci aiuterebbe moltissimo il toponimo della vi-

cina Mongiana traducibile agevolmente dal latino “mons janua” come

“monte della Porta”.

la tradizione degli itinerari romani, come quello di antonino dal

iii-iv sec. d.C., conferma questa stessa denominazione: la stazione viaria

posta nei pressi di Marina di Caulonia, forse davanti a Focà, si chiama-

va in effetti “sub Ceiano” ossia “sotto il Piano della Porta” con specifico

riferimento al Colle della Monaca (mt. 1390 s.l.m.) e alle sue adiacenze.

Bisogna comunque andare ancora più indietro nel tempo per ri-

trovare in omero e nel X libro della odissea, come abbiamo in parte chia-

rito, l’accenno alla città dei lestrigoni e alla fortezza di lamu, indicante,

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come “Telepilo”, “la porta lontana” che il prof. Franco Mosino è pro-

penso ad identificare con la “Città della Porta”.

Ma cosa vuol significare il termine “Porta” in questo caso specifico?

in un nostro precedente studio sulle Serre occidentali, traendo spun-

to da Mongiana “Monte Porta”, avevamo pensato che i Romani, prove-

nendo dal sud lungo la carrabile di dorsale tabulare, avessero voluto iden-

tificare la “Porta” nella doppia catena delle Serre, “Porta” di un nuovo e

più complesso territorio montano, tanto è vero che chiamarono “limina”

(confine-soglia) la zona pianeggiante che precede l’ingresso delle Serre dal

bivio d’arena e da Mongiana. È possibile che, di fronte a questa contin-

genza territoriale, essi siano stati indotti ad interpretare in un modo plau-

sibile la più antica denominazione “Porta”-“Janua” di cui ignoravano il

preciso significato antropico; per la verità una siffatta spiegazione, pur

compatibile col dominio romano della montagna calabrese, ci convinceva

assai poco. Doveva essere altro il motivo per il quale tutta quella zona

montana era stata denominata “Porta”. eravamo indotti a credere che era

la montagna stessa e non un luogo o una contrada ad essere chiamata

“Porta”; nella fattispecie pareva trattarsi esplicitamente di Monte Pecoraro;

nonostante tutto non ne individuammo per lungo tempo il motivo.

alcune piccole sculture del fondo “le Cerze” dell’avv. Tolone ri-

ferentesi alle Serre vibonesi recavano al centro del campo raffigurativo

un grande triangolo riverso ossia con il vertice in basso e la base in al-

to. il ricorrere di questo ideogramma geometrico che doveva indicare un

luogo sacro ci indusse a chiedere ad alfonso Caré se vi fosse attorno a

Nardodipace una località a forma di triangolo o addirittura denominata

“triangolo”; la sua risposta fu immediata: quella località c’era e la chia-

mavano “u triangulu”, ma essa non si trovava a Nardodipace quanto

cap. ii - La Città della Porta

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alla città della porta

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CaPiTolo iii

L’esodo estivo delle donne

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cap. iii - L’esodo estivo delle donne

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Passata la cattiva stagione, durante la quale il Re del Popolo del Mare

aveva soggiornato con la sua corte nel quartiere d’inverno della Città del

Sole (Girifalco), l’avvento della primavera si festeggiava al Tempio del

Sole per un mese intero, nel corso del quale da tutto il regno pellegrini,

visitatori, mercanti e pastori si radunavano a Girifalco nella immensa

piazza circolare del tempio, attorno alla quale, in due tornate di due mil-

lenni, era sorta la città, costruita a quartieri radiali.

Si combinavano affari, si convenivano società di fatto, veniva eser-

citata la giustizia ed aveva luogo anche il mercato.

Tra il 21 e il 24 di marzo, tempo dell’equinozio di primavera, il so-

le sorgeva, sotto la costellazione dei Gemelli, proprio nel bel mezzo del

sacro golfo di Squillace, andando a colpire con i suoi primi raggi lo alto

gnomone ombelicale, e la sua lunga ombra andava a parare sul quadra-

tino sacro scolpito su una grande semiruota di granito graduata con di-

ciotto tacche alla semicirconferenza: era quello il segnale magico dal qua-

le si avviava e ricominciava la vita frenetica, pedonale e faticosa, mari-

nara e rischiosa dell’énclave delle Serre joniche.

i pescatori di Sciléo (Squillace) sciamavano con le loro barche lun-

go tutte le coste, dalle foci del Corace-Crotalo a quello del Precariti e

dell’allaro intesi alla pesca fruttuosa dei polpi o delle seppie che i por-

tatori distribuivano poi in tutti i villaggi del Regno. la pesca durava si-

no a quando la calendula, ovvero un fiore simile al girasole, non rag-

giungeva, al cominciare dell’estate, la sua massima espansione.

Già con aprile, bovari e caprai, lasciati i luoghi di bufurtà e sver-

namento, erano ai pascoli montani e pedemontani o collinari: per due in-

teri mesi, grazie alle piogge invernali, le bestie si potevano rimpinzare di

foraggio tenero e fresco dall’alba al tramonto.

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Durante lo stesso mese, le pinete d’altura e di mezza costa vedeva-

no il sottobosco coprirsi di “sponze”, le spugnole buone che tutte le don-

ne andavano a raccogliere per integrare la dieta delle loro famiglie con un

piatto succulento; saremmo curiosi di appurare come le cucinassero.

verso la metà di maggio usciva dal letargo, assieme ai ramarri e

alle lucertole, il Colubro leopardino, il “Dio-Serpente” o “Dio sotterra-

neo”, quasi sempre allevato in cattività quale nume tutelare della casa,

dei bambini, degli anziani, dei camminatori, dei pastori ecc.. Facendo ca-

polino dall’orlatura del vaso di creta nel quale aveva passato l’inverno,

indicava alle madri, alle donne incinte e alle nutrici che era venuto il mo-

mento di fare i preparativi del lungo viaggio verso la Città della Porta.

il solstizio d’estate era alle porte e una vera e propria frenesia co-

glieva le città del mare: si riparavano i lunghi remi, si rivedeva il sartiame,

si turavano le falle e le screpolature delle navi, le si impeciava più volte, si

ricucivano gli strappi alle vele ma si rafforzavano anche gli arpioni, le lun-

ghe e pesanti lance ad uncino per l’arrembaggio. e mentre i primi mercan-

tili scaricavano al porto le merci orientali, ci si preparava alla grande av-

ventura di mare, carica di imprevisti e di pericoli. essa durava quaranta

giorni come minimo, dal solstizio d’estate ai primi giorni di settembre e si-

no a che la costellazione del Cane poneva sotto tutela il sorgere del sole.

Quando questo s’alzava al di là di Tiriolo ed alle terre del Crati e la cani-

cola s’attardava sugli arenili e sulle spianate costiere, i Popoli del Mare, la-

sciati le mogli e i figli, erano già spariti all’orizzonte, neppure salutati dal-

la spiaggia deserta perché donne e bambini, a dorso d’asino o a piedi, era-

no già in cammino in lunghe comitive da tutta la costa verso la montagna

dei pastori, diretti alla Città della Porta, dove avrebbero aspettato per tre

mesi il ritorno delle ciurme e dei mariti o la notizia della loro morte.

cap. iii - L’esodo estivo delle donne

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racconto della migrazione estiva sul dorso de “la “portatrice”

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CaPiTolo viii

il benefico cervo

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inno al cervo - 1

cap. Viii - Il benefico cervo

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inno al cervo - 2

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Ringraziamo per questa notizia e per la documentazione acclusa

la dott.ssa Femia di Marina di Caulonia.

Di recente e con straordinario intuito la Forestale, come abbiamo

già riferito, ha pensato di reimmettere sui boschi nardopacesi e delle Serre

joniche vibonesi cervi e cerbiatti.

Per chiudere, non vorremmo trascurare il toccante reperto che ab-

biamo voluto denominare “la comare del latte” e che, per indicare il mo-

mento della risalita delle madri e delle gestanti verso il Piano di Cianu,

regge sulla sinistra un cerbiatto e sulla spalla destra una lucertola come

a voler significare che la stessa risalita avveniva tra la primavera (il mo-

mento della nascita dei cerbiatti) e l’estate (la stagione delle lucertole).

avevamo appena completato la stesura di questo capitolo quando

il dr. Pozzi ci rimandava da Como le foto dei reperti Tolone sottoposti,

su nostro incarico, a perizia. Tra quei reperti figura una tavoletta qua-

drata di creta con ambedue le facce invase da prescritture e persino dal-

la rappresentazione di un cervo col suo palco di corna e con accanto una

figura schematica di quel che sembra un cacciatore.

il testo in prescrittura riferisce che il cervo era considerato protet-

tore dei neonati e degli anziani (ne ignoriamo onestamente il motivo) e

come la zona di elezione dei branchi di cervi, con riferimento alla punta

meridionale del Golfo di Squillace fosse il territorio delle grandi sepol-

ture di Cianu e, per conseguenza, le montagne circostanti. ignoriamo an-

che perché, come riferito dal testo della tavoletta, il cervo venisse consi-

derato “il signore” delle greggi del sud-ovest del Regno del Sole. Si trat-

tava, ancora in questo caso, di una sottodivinità o semidivinità?

cap. Viii - Il benefico cervo

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CaPiTolo iX

Venivano da molto lontano

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Nonostante la difficoltà oggettiva di utilizzare con frutto queste scar-

ne notizie, si ha l’impressione che il dissolvimento definitivo dei Pelasgi o

Popoli del Mare si sia verificato in coincidenza di questi fatti ed abbia avu-

to come scenario proprio la Sicilia, per quel che possiamo capirne.

Quest’ultimo capitolo, se dobbiamo credere ai reperti Tolone, na-

sconde una storia drammatica dal lunghissimo svolgimento, la storia di

un popolo assai evoluto in fuga da almeno settemila anni, guardingo, vis-

suto sempre all’insegna dell’incertezza, ossessionato dal bisogno di far fi-

gli, che cavalcava con perizia il mare che mai divinizzò ritenendolo for-

se un Dio crudele e che, pur marinaro, si aggrappò, sentendosi tutelato,

alle montagne, alle Serre.

la storia della sua diaspora ebbe inizio attorno alla metà del iX

millennio a.C. in un punto preciso del lontano occidente posto, come

sembra, oltre il continente europeo. Nel raccontare queste incredibili vi-

cende non abbiamo bisogno di servirci del mito di atlantide che pure ci

conforta moltissimo: lo leggiamo più semplicemente nelle pietre e nelle

crete oggetto della nostra decennale ricerca.

la prima è una grossa e tonda pietra simile alla saponaria, un me-

solite grigiastro pazientemente sbalzato e cesellato sì da dare l’impres-

sione complessiva di un volto umano, assai brutto per la verità, con oc-

chi stralunati, con diverse abrasioni, con un grande naso rincagnato. essa

non rappresenta tuttavia un volto umano. Chi lo ha inciso ha soltanto

approfittato dei tratti umani (guance, occhi, sopracciglia, labbra ecc.) per

raccontare una storia sulla pietra da non dimenticare, come si volesse far-

la durare quale messaggio sino a che durava la pietra stessa. Questa sto-

ria remotissima è in effetti casualmente venuta tra le mani dell’avv. Tolone

ed è questo il primo dei ritrovamenti degli anni ’50.

cap. iX - Venivano da molto lontano

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mappa su piramidina

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la pietra racconta:

“Siamo passati dalla nostra compianta terra sprofondata nel mare

con tutti i nostri morti e con l’isola che le stava accanto. Siamo passati

da quel mare, attraverso uno stretto, in questo mare; siamo tuttavia ri-

masti sempre nel nostro emisfero (quello boreale). Nel mare lontano vi-

vevamo esattamente entro i 180° del nostro emisfero; in questo abbiamo

abitato anche terre che sconfinavano di 20 gradi nell’emisfero opposto

(australe). abbiamo risieduto per tremila anni nel sud di questo mare poi

ci siamo rimessi in navigazione ed una parte di noi è andata ad occupa-

re tre punti nord-ovest di questo mare e tutti gli altri si sono stabiliti ol-

tre la grande penisola del mare di nord-est e lungo le coste orientali del-

la penisola”.

Forse Platone, nel raccontarci di atlantide, era stato più preciso di

quanto andiamo raccontando. Se accettiamo in ipotesi la sua versione, il

passaggio dal continente sparito sarebbe dunque avvenuto attorno a 8500

anni a.C..

la nuova dimora, forse in libia o in egitto, sarebbe cessata per

motivi che ignoriamo attorno al 5500 a.C.. le nuove terre dell’alto Tirreno

sicuramente la Toscana ma forse anche il lazio e la Sardegna e quelle

dello Jonio e dell’adriatico li avrebbero ospitati per altri 4500 anni, do-

po di che sarebbe iniziato il loro declino.

un altro reperto di creta (“la colombina sulla piramide”) confer-

ma pienamente questa narrazione ed entra anche nei particolari del se-

condo esodo e delle circostanze che lo accompagnarono.

Su una delle facce della piccola piramide, delle microsegnature ri-

feriscono:

“Dopo tremila anni di pacifica residenza nella terra del sicomoro

cap. iX - Venivano da molto lontano

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il primo esodo sullo “stralunato”

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e del grano ci siamo dovuti allontanare tutti e siamo andati a risiedere

nel seno marino protetto e nel porto della Città fortificata posta su un

promontorio tra due seni marini; una parte di noi ha posto sulla monta-

gna di quella terra tre grandi sepolture dei Re e dei Signori del Mare”.

Riconosciamo di aver resocontato una storia imbarazzante e scon-

certante per molti aspetti, che lascerà perplesso più d’uno. avremmo pre-

ferito forse occultarla e non esternarla almeno per il momento; il dovere

della testimonianza ci ha indotto al rischio, che ci assumiamo totalmente.

a quei reperti noi crediamo con mente lucida, abituati per anni a

sacrificare ed a non tenere conto delle facili tentazioni della fantasia che,

d’altra parte, non giova alla buona causa della ricerca.

cap. iX - Venivano da molto lontano

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CaPiTolo X

Dal piano di cianu

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il seno marino protetto da dune costiere che si addentrava sino a

toccare le prime colline e che, attorno al vi millennio a.C., faceva da por-

to minerario, venne lentamente e inesorabilmente inghiottito dalle col-

mature alluvionali e già sul finire del ii millennio non esisteva pratica-

mente più.

Ci colpiva poi la fedeltà alla montagna delle molte vite del gatto

selvatico e del Colubro leopardino, venerati pure alle Serre come deità e

importati dai Popoli del Mare, il primo dalla libia e dallo egitto e il se-

condo dalle isole Cicladi e dall’egeo; sapemmo dai locali che la Forestale

stava progettando la reimmissione di cervi e daini sui boschi d’altura, in-

tuizione straordinaria poiché quei timidi e mansueti quadrupedi, come ci

risultava dai reperti che andavamo studiando, erano presenti sulle Serre

fin dalla più remota preistoria e sopravvissero massicciamente sino al-

l’arrivo dei Normanni, cacciatori incalliti, i cui signori morivano di got-

ta per l’eccessivo uso alimentare della selvaggina.

Ci tornarono davanti le Madonne montane, le loro grotte-santua-

rio, tanto simili nei culti, nei pellegrinaggi, negli attributi alla Madre luna,

la divinità tutelare delle donne, delle madri, dei bambini del Popolo del

Mare e dei pastori che avevano scelto il territorio di Monte Pecoraro co-

me luogo privilegiato o uno dei più importanti per venerarla. avremmo

scambiato per medioevali e mariane certe sculturine in pietra saponaria,

se non fosse stato per le segnature in prescrittura di tutt’altra età e reli-

giosità.

Ripensammo ai lunghissimi e intatti silenzi delle camere sepolcra-

li dei Signori del Mare dormienti ancora nel ventre della montagna, for-

se non profanati da alcuno e in attesa della rinascita.

Nel tentativo necessitato di spingere indietro nel tempo il punto di

cap. X - Dal Piano di Cianu

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inizio di questa storia sepolta, avvertiamo l’inesprimibile emozione che

ti coglie nelle notti d’agosto se, alzando lo sguardo agli universi stellati,

che incombono dal cielo notturno, ti poni delle domande.

a Cianu, i tempi della storia, quella che abbiamo studiato sui libri

di scuola, ci sono apparsi contratti, ripiegati su se stessi, quasi asfittici, so-

lo parzialmente attendibili, come se un Dio bizzarro si fosse divertito a dis-

seminare il Mediterraneo di mezzodì di civiltà e di sapienza non precedu-

ti dall’alba e dal mattino e di fitte zone penombrate rimaste tali e inspie-

gabilmente sino al primo millennio a.C.; in qualche modo si dovrà chiarire

il perché di questa frattura, e talune preziose indicazioni pare possano pro-

venire dalla Città della Porta e dall’énclave pelasgica delle Serre joniche.

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Veduta di nardodipace Vecchio

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Reperti

Fig. 6

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Fig. 7

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Reperti

Fig. 8

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Fig. 9

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Reperti

Fig. 12

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Fig. 13

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Finito di stampare nel luglio 2004

presso la Poligrafica Sud in Reggio Calabria

per conto della casa editrice

Kaleidon di Roberto arillotta