La Camera Chiara 2/2014

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CAMERA CHIARA la 2/2014 bimonthly newsletter

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Newsletter del circolo culturale La Bottega dell'Immagine

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2/2014

bimonthly newsletter

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editoriale “una tantum” Anacronisticamente ingessati alle astrazioni ideali (ideologiche?) quali dignità, onore, parola data e tutta quella melassa in cui molti di noi sono stati allevati, quando “componemmo” il passato Editoriale, sfontatamente e con grande convinzione avevamo assicurato chi ci leggeva che non ci sarebbero stati più preamboli. Ma, anche consul-tandoci con gli amici più vicini, abbiamo deciso di soprassedere all’im-pegno preso. Soprattutto alla luce di mirabili esempi che ci vengono dall’Alto e ci sconsigliano una decisa e corretta coerenza e correttez-za. Che attualmente potrebbe essere letta come mancanza di carat-tere. Oltre che di totale incapacità creativa di...cambiare idea. Ogni qualvolta si ritenga utile, interessante. Per La Gente, non per noi. Una “corrente” de La Bottega mi ha anche invitato a “gigistaisereno” (???!!!?) . Oggi, dicono, nessuno legge a fondo quello che è scritto. E se lo fa, subito dopo comunque, sembra non ricordare minimamente alcunché. Quindi inutile, anzi dannoso/pericoloso, mantenere. Non promettere. E con la prassi attuale, che ormai usa la luna per sottoli-neare il dito che indica, se qualcuno ci accuserà di poca corretteza ed esplicito disprezzo per il lettori, lo aggrediremo verbalmente, quanto unilateralmente. Lo accuseremo di voler minare per scopi personali, e indicibili, l’onorabilità e l’immagine del Circolo. Dei Circoli, in genera-le. In Italia e nel mondo. “..certo che poi i Circoli vanno male...eh eh”. Tutto questo per dire semplicemente che il successo del primo numero non cartaceo, anche grazie alla riduzione per i social che ne hanno fatto il “Duo Maragni”, è stato superiore alle giuste aspettative. E che noi, memori che La Bottega, anche se a vocazione “immaginifica” rimane un CIRCOLO CULTURALE, cercheremo, grazie al contributo di tutti quelli che vorranno, veramente di portarlo da piacevole giornali-no interno a qualcosa di più aperto, maturo ed efficace. Vedi a lato....

Q COME CULTURA

Vorrei sfatare un mito.Non me ne vogliano gli entusiasti dello scatto in modalità Serendipity, ma la Street Photography come categoria, non esiste. O meglio, non esiste come categoria storica, indagata e sedimentata nelle sue peculiarità.Esiste oggi, per ragioni assolutamente democratiche (democrazia del web), come attestazione e legittimazione di un vagare casuale, in cerca di fortuna, muniti di fotocamera. Che di per sé, come esercizio e ricerca di spunti, ha il suo innegabile valore , ma è niente senza un progetto dietro o un filo conduttore, che inevitabilmente farebbe migrare la nostra serie all’interno di una definizione più canonica e meno falsamente underground come Reportage.Wikipedia ne da una definizione tanto ampia e versatile da lasciare abbastanza perplessi sul senso effettivo di dare un nome univoco a qualcosa che, stando alle caratteristiche decantate dall’enciclopedia democratica

miti da sfatare e strade da asfaltaredi Alessandro Pagni

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“...conferire dignitàad un atto di sopravvivenza elementareper trasformarloin un atto di comunicazione...” Manuel Vàzquez Montàlban

(...Lui parlava del cibo, ma insomma...NdR)

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della rete, potrebbe tranquillamente coprire tutto quello che è stato prodotto dalla fine dell’Ottocento a oggi, con apparecchi fotografici che ci permettono “comodamente” di deambulare.Ma nei libri di Storia della Fotografia, non c’è traccia di questa classificazione.Forse una cattiva pronuncia ha determinato qualche equivoco, confondendola con la Straight Photography, la fotografia diretta, fotografia pura fondata sulla nitidezza e la descrizione realista, quella dello Stieglitz di Camera Work o del primo Paul Strand; ma

il vate del “momento decisivo” Henri Cartier-Bresson.Se il comune denominatore è la strada, o ancor più l’ambiente urbano o addirittura le situazioni “reali” e “spontanee”, lo spazio davanti ai nostri occhi è così sconfinato da perdersi nei possibili esempi di autori che, in qualche modo, racchiudono anche questi elementi nella loro concezione della fotografia, ma sarebbe come condannarli ad essere dei bignami di loro stessi se realmente questi fossero i criteri per fondare un genere, un movimento, una corrente. Tanto varrebbe partorire assurdità a caso, come la Gattografia, la Fotografia sanitaria (non in senso medico), la fotografia Sensoriale, la Fotografia Arrabbiata e in questo delirio ho l’orrendo sospetto che almeno una di queste ipotesi, venga veramente considerata come disciplina fotografica a tutti gli effetti.Se prendiamo la Parigi notturna, gotica e

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954la pratica di cui stiamo discutendo, non si

avvicina né per intenti, né per riflessioni, alla prima avanguardia fotografica americana.Potremmo guardare a Eugène Atget, al suo battere ostinatamente le strade di Parigi, come a un precursore di questo modo di indagare il mondo. Ma significherebbe ridurre a mera caccia fotografica (o ad appostamenti da cecchino) il lavoro costante e certosino del più grande, e purtroppo sconosciuto, documentatore e catalogatore urbano, che la storia del medium abbia portato alla nostra attenzione. Ma non è questa la Francia che credo interessi agli Street Photographers (ho trovato adesso un sito web con questo nome, dove vengono caricate le immagini più disparate, prese nei caffè, nella metro parigina, attraverso le vetrine dei negozi di Baltimora, durante le uscite notturne all’Havana e chi più ne ha più ne metta...una sorta di fotografia delle vacanze evoluta): penso che la loro ambizione punti con più convinzione a maestri del reportage e del fotogiornalismo come Robert Doisneau o

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del passato) se pensiamo al modus operandi e non alla sconvolgente profondità dei risultati: Garry Winogrand. Riporto le parole di Carl Chiarenza nel suo esaustivo approfondimento della figura di questo fotografo, “Restando all’angolo. Riflessioni sullo sguardo fotografico di Winogrand: specchio di sé o del mondo”? (1991).«Si potrebbe addirittura dire che Winogrand abbia inventato una nuova “fotografia di strada”, una forma che ha cambiato la nostra opinione della nostra identità pubblica, o, almeno, ci ha resi più consapevoli della nostra opinione, della nostra identità pubblica [...]. Nel volgere enfaticamente l’idea documentaria verso l’interno su se stesso,

nebulosa, di Brassaï e la confrontiamo con le sporche e violente notti newyorkesi di Weegee, i significati affiorano immediatamente, gli intenti sono palpabili e sappiamo di avere davanti due mondi agli antipodi.E mai ci sentiremmo assolti nel liquidare come fotografia di strada, sebbene sulla strada abbiano macinato miglia e miglia di asfalto, personaggi come Robert Frank o William Klein, specchio scomodo di un’America carica di contraddizioni. Pensate a “The Americans” del primo, a “New York” del secondo, entrambi libri fotografici di autori fatalisti e selvaggi nel loro pericoloso (perchè ci riguarda tutti) “fare fotografie incomprensibili quanto lo è la vita”, ma ciascuno con il suo bravo demone a guidarlo: per Frank lo scardinamento della forma, per Klein al contrario il virtuosismo visuale. E parlo dell’America solo come tappa di un guardare profondo che li accomuna, ma è solo la punta dell’icerbeg, come la strada che non è mai solo una, fortunatamente nella vita di un artista. Anche Lee Friedlander, che

pure non disdegna l’ostentazione di continui richiami al suo essere presente nella città, al suo viverla, si colloca agli antipodi di quella che viene chiamata Street Photography, con una meditazione attenta e illuminante sull’autoritratto e l’importanza di “essere” all’interno delle proprie fotografie, anche quando la macchina fotografica non è rivolta in direzione del fotografo (pensiamo al volume “In the picture: Self-Portraits 1958-2011” pieno di “fotografia di strada” che in realtà dice ben altro).Friedlander comprendeva come fotografare, significasse isolare quella porzione di spazio e tempo che riteniamo importante, che rientra nei nostri interessi e quindi che ci rappresenta; e che quelle finestre sul mondo non sono altro che interpretazioni estremamente soggettive, finestre su noi stessi in cui ogni scatto non fa altro che continuare a parlare di noi. Tutto questo non si avvicina in nessun modo all’idea opposta di sparire con il nostro obbiettivo, di saccheggiare immagini casuali (nel senso di qualcosa che ci accade improvvisamente senza che avessimo fatto prima, una previsione al riguardo), realistiche e spontanee, cercando di diventare invisibili. La differenza sta nel partire dalla testa e non dall’occhio: l’occhio è sempre il secondo passo nella fotografia, in qualsiasi genere di fotografia e il dito che preme il bottone forse il ventesimo dei passi successivi. L’occhio ci da una casistica di possibili conferme del nostro pensiero e noi scegliamo di registrare l’immagine che meglio riesce a raccontare queste nostre convinzioni.Un fotografo c’è, effettivamente, che rispecchia più di altri le caratteristiche di questa “nuova classe” di immagini (immemore

mentre ancora rivolge la macchina fotografica documentaria all’esterno del mondo, Winogrand faceva venire alla superficie una nuova conoscenza della realtà di entrambi».E scatti incredibili come New Mexico, 1957 o Los Angeles, California, 1969 sono la riprova di questa parole: riescono, in modo quasi sovrannaturale, a bloccare in sospensione il mondo, congelandolo in un istante (e vi assicuro che, nonostante tutto quel sole, il freddo si sente in queste fotografie), come se d’un tratto scegliesse di lasciarsi guardare, per quello che è realmente, e affiorassero come presagi significati inquietanti.Vogliamo ridurre davvero questo splendore alla fotografia for dummies?

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SOUL AND LIFE OF THE ROADDoveva essere una “specie” di intervista, quella con Giancarlo. Lo ammetto, avevo portato con me anche un gioiellino di registratore, stato solido, ultima generazione, una chicca col volume zoom. Certamente dopo aver chiesto il

permesso, volevo registrare l’incontro per compensare alcune “perditedimemoria” eventuali dovute alla…maturità. I neuroni col tempo si assottigliano a vista d’occhio. Invece ho subìto una grave eccitazione dei neuroni, si, ma a specchio, lasciandomi guidare in una amichevole (complice?) evocativa discussione. Molto simile a quella di due coetanei che molti anni prima, al tempo della scuola, si sono innamorati della stessa Bella Ragazza. Trasportato dalla serena, affascinante eloquenza di Giancarlo. Elegante. Non solo in Fotografia. Giancarlo Pigino. Fotografo da sempre, si può dire. Percorso “classico per la “nostra età” (vedete, parlo già col “noi”): Fanetti (babbo) -Betti-Rabatti-“Brunetto” (un mito!)…”…ogni tanto lo sento ancora...” E poi logicamente, inesorabilmente, “Il Fanetti” GabrielONE. Comet II Bencini, Voiglander (perché ha l’obiettivo meraviglioso, era il suo claim, ndr) Zenit E col mitico Helios 58/2 al lantalio (come i Leitz!!) Poi corredo Asahi Spotmatic con SMC Takumar 135/2,5 (!) e il favoloso 50/1,4 (anche io..anche io ndr). Poi, finalmente: Nikon F3. By Giugiaro. Per molti un traguardo. E certo poi anche Leica, HBL….Tutto questo non per catalogare un “corredo” storico,

giancarlo pigino a la bottegadi Pico de Paperis

INDOVINA CHI VIENE?

ma per introdurre l’argomento dalla partre giusta. Non di uno con la macchinetta che fa le foto al mare. Giancarlo Pigino ha fotografato con TUTTO. Ma almeno 30 anni con pellicola, sviluppi, fissaggi, camera oscura, formule, ingranditori, cibachome e BN con annessi e connessi. Contornato sempre da figlie (e generi) amanti della Fotografia. E con una sinergia, sodalizio artistico oltre che sentimentale, con la moglie Rosalba. Fotografa anch’essa. Oltre che fine poetessa e spettacolare Pittrice . Il Palio del prossimo luglio lo dipingerà

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Lei con il surrealismo dei suoi colori squillanti e personalissimi…”Partendo dal suo natìo vercellese “piatto e monotono” a Siena Giancarlo trova una tridimensionalità a Lui sconosciuta, giochi di luce intriganti e un colore, “IL COLORE…” ed una vitalità nuova.E inoltre, da Siena, gira l’Italia e il mondo, ricercando…la Vita.Filtrando quel mondo attraverso la Luce, ma soprattutto guardando le Persone, la Vita appunto, con un occhio soggettivo,

implicato. Complice. Intrigato dal Soggetto come dall’emozione diversa che ogni volta “scatta” per ogni soggetto diverso. Un aneddoto, per tutti: durante un palio di Piancastagnaio , Giancarlo riesce ad “isolare” (foto) in una bella comparsa, uno sguardo che farebbe invidia a McCurry “...bravo ma esasperatamente commerciale…”. L’anno dopo, sempre a Piancastagnaio, ritrova quello sguardo. E invece di documentare il palio come corsa lo fa riprendendo i gesti e le espressioni di

quella bella comparsa.E’ instancabile, quando “va a giro”. Aiutato dall’attrezzatura che ama “..al meglio…” come molti della sua generazione (che pensano che una bella donna vada anche sapientemente amata, non solo mostrata, ndr) E’ innamorato naturale delle ottiche luminose, che danno il massimo a diaframmi aperti, (bokeh) staccando i soggetti dallo sfondo con una sapiente e giusta sfocatura che però non mortifichi l’ambientazione (foto vetturina).

E mentre parla Giancarlo armeggia velocemente con l’inseparabile iPhone e mi fa vedere via via degli scatti. Quasi ad illustrazione sincronizzata del discorso. Io che per mettere una foto nel telefono impiego due giorni, lo confesso, mi sento lievemente a disagio….E quelle immagini che escono quasi in 3D dallo schermo nitidissimo non fanno che sottolineare quello che già conoscevo di lui: un rigore, nella scelta dei soggetti, della luce, delle ambientazioni, che oggi

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è veramente rara. E una pulizia. Una nitidezza…oh signore….che “andrà “ solo vista quando verrà a trovarci. Infatti quello che colpisce di più, nelle foto di Giancarlo Pigino, aldilà delle sue provate qualità di interprete della “Realtà della Strada” è la perfetta, cinematografica interpretazione della Luce Ambiente. Si, lavora preferibilmente con 135/2 e 85/1,4 nikon e quello straordinario giocattolo della Fuji, la XPro1 con il 23/1,4 (35mm come resa) ma dovunque vada, riesce a portare con una tecnica semplice (tutto è semplice quando sai quello che vuoi e come fare per “averlo”) e sofisticata nello stesso tempo, l’Anima dei posti che fotografa. Con immagini vere, vibranti, spesso rubate in iperfocale con la macchina non all’altezza dell’occhio “..dopo croppo un po’, magari…”Ma più si parla, si vedono foto belle e nitidissime sull’iPhone, più si parla di soggetti, tecniche di ripresa, luce, dominanti, contrasti, più una domanda affiora alle mie labbra. Facendosi largo piano piano e vincendo una innaturale titubanza per non apparire..”irriverente”. Premesso che siamo praticamente coetanei, ma come ti sei trovato al passaggio dalla pellicola al digitale. Tanti della nostra età hanno subito un trauma irreversibile che si può facilmente cogliere dai risultati digitali spesso mostrati…incoscientemente. Molte persone non “native digitali” hanno avuto problemi spesso insormontabili con la post-produzione. Te come sei riuscito ad arrivare a questi risultati dopo una

lunga e positiva esperienza nell’analogico (brrrr)? Lui sorridendo mi spiega che la Sua confidenza con la tecnologia della post-produzione gli deriva dalla tipologia del Suo lavoro, da cui ora è in pensione, in cui ha dovuto sempre “avere a che fare” dal loro arrivo con i computer, sistemi operativi e programmi continuamente nuovi da “affrontare” sempre con entusiasmo e rinnovata energia e motivazione. E che anzi ora la “camera chiara” con il Suo Mac gli ha risolto alcune debolezze (figurati!) che sentiva di avere in camera oscura tradizionale. “…mai stato uno stampatore straordinario…”

Gli argomenti si susseguono infiniti. E la sintesi, lo so già, non sarà facile e non Gli renderà merito.Ma Giancarlo integrerà di persona il Suo pensiero molto più felicemente quando verrà a trovarci, accompagnato dalle Sue Creature. Non voglio abusare oltre della Sua cortese disponibilità. Accordandoci idealmente che …non finisce qui…e di rivederci ancora per parlare della Nostra Signora Preferita, ci salutiamo. Per ora.

E Lui, guardando l’orologio, con un sorriso aggiunge: “…mah, è presto, quasi quasi faccio un salto dal pusher…” E chi è di Siena, come fa a non sapere chi è?

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Annie Leibovitz è una fotografa americana che da più di quarant’ anni testimonia il nostro tempo con uno stile divenuto universalmente riconoscibile, spaziando, dal reportage al ritratto, fino ad approdare negli ultimi anni a una stage photography maestosa e complessa.Il documentario che proponiamo in questa sede racconta, attraverso l’eccellente lavoro della sorella Barbara, il percorso personale, professionale e artistico della Leibovitz; la sua infanzia, la lunga e prolifica parentesi di San Francisco per la rivista Rolling Stone, la duratura collaborazione con Vanity Fair e Vogue e il suo intimo rapporto con Susan Sontag, durato per quasi vent’anni. Un’indagine a tutto tondo che si snoda attraverso filmati e foto di famiglia, immagini di repertorio, interviste, scene dai set e spaccati di vita familiare, ma soprattutto attraverso le sue immagini ormai diventate simbolo di una generazione, il tutto con un tocco leggero,

discreto e intimo, che ci dà modo di comprendere le caratteristiche di questo personaggio al di là della sua fama.Una vita passata dietro l’obiettivo: non c’è distinzione tra fotografia privata e fotografia lavorativa, i due mondi si fondono in un gioco senza confini, dove tutto quello che la sua mente desidera si trasforma in immagine. Come lei stessa afferma “Per realizzare il miglior scatto possibile devo

leibovitz, un idolo e un simbolodi Costanza Maremmi

CINEMA & FOTOGRAFIA

alla Bottega il 7 febbraio 2014

calarmi nel contesto, nella situazione. La fotografia perfetta immortala ciò che ti circonda, un mondo di cui finisci col divenire parte.”Dopo una lunga ascesa fatta di esperienze che coprono buona parte della pratica fotografica e riconoscimenti di ogni sorta, come un cerchio che si chiude, l’introduzione

del documentario, dove le persone più in spicco dell’arte e della cultura pop pronunciano il suo nome come fosse una cascata di applausi, somiglia tanto ad un’attestazione di stima fra pari, legittimandola a considerarsi parte di quella costellazione di fenomeni, anche lei finalmente unica, anche lei un idolo e un simbolo.

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NONSOLOFACEBOOK

foto di Paolo GIUDICI

il fotografo del...lato oscurodi Gigi Lusini

Sono in molti a sostenere (non è detto che ab-biano tutti ragione) che le fotografie non han-no bisogno di didascalie o di testo a corredo. Le foto di “Paolino”, di cui si potrebbe dire fiumi di parole sono allo stesso tempo fortemente “parlanti”. In silenzio. Lui ha anticipato da tem-po la tendenza oggi imperante che dietro ogni foto si nasconda un Autoritratto. E dal bene-detto giorno che gli dissi : “Te fregatene della gente, fotografa solo quello che senti tuo...” la Sua Vita Fotografica è cambiata. E chissà che la Sua tenebrosa/gioiosa poesia non riesca a parla-re anche silenziosamente al vostro cuore......

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le dignitose signore di montemercedesdi Daniela Cappelli

FOTOGRAFIA & SOLIDARIETA’

alla Bottega il 7 marzow 2014

Sono andata in Guatemala ad aprile 2013 per un viaggio di lavoro con alcuni colleghi. Dobbiamo visionare l’avanzamento dei progetti di solidarietà che come SPI CGIL Toscana abbiamo finanziato. Parto, ma devo confessare che conosco solo marginalmente il paese che mi attende. Le classiche ricerche effettuate via internet e Wikipedia prima di partire parlano di un paese difficile, con un grande patrimonio storico. Una storia antica. Mentre in Europa il mondo antico entrava in crisi e si viveva l’Alto Medioevo, in Guatemala la civiltà Maya visse la sua fase classica e raggiunse il suo culmine. Civiltà che crollò afflitta tra l’altro da siccità e invasioni barbariche. I Maya del Guatemala vennero soggiogati dal violento Pedro de Alvarado che “impiccava o bruciava vivo qualunque capo locale che osasse opporsi a lui”. Pare fosse sua abitudine anche dare gli indigeni in

pasto ai suoi cani. Dopo il suo passaggio la popolazione indigena chiamò quella terra Xoaticol, la terra “sotto il sangue”, il nome con cui il Guatemala è ancora oggi chiamato dalla popolazione autoctona.

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Un paese marcato dalla guerra fredda tra Stati Uniti e URSS, da regimi e dittatori, vittime del terrore di stato furono principalmente studenti, lavoratori, professionisti e personalità dell’opposizione di qualsivoglia tendenza politica, ma anche migliaia di vittime fra i maya contadini e non-combattenti. Più di 450 villaggi maya distrutti e oltre un milione di persone rifugiati. Uno dei più tremendi casi di pulizia etnica nell’America Latina moderna e sostenuto direttamente dal governo Americano con addestramenti, armi e finanziamenti. Una guerra sanguinosa durata 36 anni che terminò nel 1996. Il Guatemala è uno dei paesi latinoamericani dove le differenze e sperequazioni sociali e culturali sono più accentuate. Le donne e i popoli indigeni (che rappresentano più del 50% della popolazione) restano largamente emarginati dalla politica e dal controllo sociale ed economico del paese ad opera delle élite locali e di grandi interessi economici. Nonostante si fosse sperato in un cambio di rotta con la consegna del premio Nobel alla attivista indigena Rigoberta Menchù nel 1992.

Le scuole, benché gratuite, sono di fatto poco frequentate soprattutto dalla popolazione indigena residente in zone rurali. Da un lato vi è il problema dei costi di trasporti, libri e materiali, dall’altro gli esigui fondi statali non sono in grado di garantire l’insegnamento delle lingue nazionali diverse dallo spagnolo, anche per queste ragioni il tasso di abbandono nel ciclo primario è molto elevato.Il sistema scolastico, per questioni di scarsi fondi, soffre per la scarsa qualifica degli insegnanti e tutto contribuisce a definire uno

dei tassi di analfabetismo più elevati dell’America Centrale. Il sistema sanitario pubblico, poi, non è funzionale a causa del sistema politico e delle condizioni ambientali (la mancanza di acqua potabile e le dure condizioni di vita) e questo determina, tra l’altro, un alto tasso di mortalità infantile e la diffusione di malattie a trasmissione sessuali e HIV.Parto con questo piccolo bagaglio nozionistico, la mia macchina fotografica e….,su consiglio di Gigi, IL CAVALLETTO! (perché senza non è possibile, dice lui. So che ha ragione, ma proprio il Gitzo mi doveva dare? Che pesa come il marmo?)

Arriviamo in Guatemala e……ci rendiamo conto che spesso la realtà va oltre quello che possiamo leggere sui libri o su internet.

L’alto tasso di criminalità delle grandi città, la corruzione del sistema politico, l’evidente disagio della popolazione sono niente rispetto a quello che riusciamo a percepire e vedere nei villaggi. L’allegria dei colori tipici del Guatemala non riesce a nascondere la tristezza di un livello di povertà che qualche

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volta ti fa dire: “…così è troppo…!”

Mi rendo conto immediatamente che grazie alla serietà del progetto di cui facciamo parte e anche al rispetto con cui avviciniamo le varie realtà, riesco a fare fotografie che forse ad altri sarebbero negate. La povertà non ha scalfito la dignità di queste persone che accettano me e la mia macchina fotografica solo perché hanno capito che siamo qui per aiutare e non per giudicare. È sicuramente per questo che aprono le porte delle loro case. A volte anche per mostrare “orgogliosamente” che LORO hanno una casa.Conosciamo le dignitose Signore di Monte Mercedes, destinatarie dei pacchi alimentari che grazie ai contributi dei Coordinamenti Donne SPI della Toscana oltre ai contributi da destinare alla scolarizzazione dei bambini, riescono ad assicurare mensilmente a queste donne i generi alimentari di base (olio, riso, farina….) sostenendo 11 famiglie Maya Cakchiquel, in prevalenza anziane sole e bambini. Ma contemporaneamente, noi abituati all’acqua potabile, alle docce calde alle comodità delle nostre abitazioni, scopriamo che qui i bimbi rischiano la vita per l’acqua non potabile e che un semplice filtro da poco più di 100 euro potrebbe risolvere la situazione. Ma loro, da soli, non potranno mai permetterselo. Conosciamo don Pablo, leader di Canton Chujulimul II dove grazie ad un progetto di una ONG canadese si era trovato il materiale necessario per portare l’acqua a tutte le abitazioni, ma non le risorse per gli scavi. Ed in questo meraviglioso villaggio tutti gli abitanti, uomini, donne e bambini hanno scavato in 2 giorni i 2,5 chilometri di fossato per l’alloggiamento delle tubazioni. Da soli e con i pochi strumenti a disposizione.Don Pablo, timidamente, quasi sottovoce, con il

piglio del leader, ma l’umiltà delle persone semplici ci dice che gli sforzi fatti per la scolarizzazione dei bambini dei villaggi circostanti, si scontra con le difficoltà create dal fatto che non ci sono a disposizione banchi e sedie sufficienti per tutti i bimbi e ci

chiede se possiamo provare ad aiutarli.Canton Chujulimul è anche il villaggio dove, sempre grazie all’impegno ed al contributo delle nostre meravigliose donne, l’Associazione Flores de Guatemala è riuscita ad aprire un piccolo

ambulatorio medico. Un risultato importante, quasi un miracolo per un territorio così difficile. Peccato che non ci sono le medicine! Qui una scatola di antibiotici costa un capitale! Siamo in un villaggio di montagna, l’inverno è freddissimo e le

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abitazioni, piccole, dignitose, ma poco più che capanne, non sono dotate di stufe. Quella che per noi può essere una risolvibile bronchite, per loro può diventare una malattia incurabile…..

Vorremmo fare…. non sappiamo nemmeno noi cosa. Siamo consapevoli che non possiamo da soli risolvere tutti i problemi di un paese così difficile, ma siamo anche convinti che se troviamo altri aiuti, molto possiamo fare per migliorare le condizioni delle persone che abbiamo conosciuto.

E’ per questo che al nostro ritorno grazie alla disponibilità economica offerta dal Sindacato Nazionale dei Pensionati CGIL e della rivista Liberetà, ma anche alla nostra caparbietà, riusciamo in quello che per noi è un grande risultato: l’acquisto dei filtri per l’acqua per le abitazioni di Monte Mercedes, le stufe per le 80 famiglie di Canton Chujulimul II e 150 banchi e sedie per i bambini della scuola. Stiamo anche tentando, grazie alla generosità di tante persone (a partire dalla nostra piccola, ma grande Iesenia), di inviare

medicine nonostante le difficoltà doganali.

Qualcuno potrebbe pensare che non è un compito che ci compete, noi pensiamo che sia un nostro dovere civile, sociale e umano. Se essere di sinistra in questo tempo tormentato ha ancora un senso, questi sono i valori a cui dobbiamo continuare a fare riferimento. (Ad uso e consumo dell’amico Moffa, che non ha mai fatto mistero di non essere di sinistra, credo basti dire che sarebbe un dovere di tutte le persone buone e oneste. A prescindere da come la pensano. Proprio come lui!)Abbiamo visto e toccato con mano tanti altri problemi, avremmo voluto portare a casa tanti di quei bambini che abbiamo conosciuto, non per toglierli alle loro famiglie, ma per sottrarli ad un destino difficile. Mi rendo conto, però, che è un pensiero che rassicurerebbe me, ma non è detto che sia utile a loro. Quella è la loro terra e dobbiamo, allora, aiutarli a migliorarla. O almeno a migliorare le loro condizioni, lì.Ripartiamo con una ferita

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nel cuore, ma con la determinazione di poter fare ancora molto. Sappiamo di avere un alleato in Guatemala. Massimo, una persona …… per la quale io non so trovare un aggettivo, penso di rendere l’idea dicendo di aver conosciuto mio fratello. Un toscano trapiantato in Guatemala, che senza chiedere niente per sè, attraverso l’Associazione Flores de Guatemala, propone e segue i progetti e le iniziative destinate ai finanziamenti. Controlla gli avanzamenti nell’istruzione dei bambini, tiene i contatti con i villaggi e con quelle meravigliose persone.

Massimo è come loro. Non chiedono, ma danno molto valore a ciò che ricevono.

Gli amici che abbiamo avuto la fortuna di conoscere in Guatemala sanno, sentono, che la nostra non è carità, ma un regalo che viene dal cuore e ci hanno ripagato con ciò che hanno. Il loro sorriso.

Il viaggio in Guatemala è stato bellissimo, ma pesante sia dal punto di vista fisico che morale. In certi momenti la macchina fotografica è stata un mezzo per fissare situazioni al limite della realtà accettabile, il cavalletto un peso, ma anche un grande alleato per quello che intendevo fare.

Attraverso le immagini di questo libro porto a casa, insieme a un bel ricordo, anche una grande emozione che credo, spero, ognuno possa ritrovare negli sguardi del popolo di Xoaticol. DC

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“...Lo scorso 16 maggio Benedetto XVI ha invitato i credenti a navigare e impadronirsi delle rotte di Internet. Subito hanno risposto all’appello le diocesi. Ad esempio il vicario episcopale di Bologna, monsignor Ernesto Vecchi, ha studiato, meditato e poi pubblicato una “riflessione teologico-pastorale” tutta dedicata al “passaggio dall’analogico al digitale”, della quale mi ha colpito un passaggio che incrocia dalle nostre parti di fotocrati e fotologi. Vado subito al punto: monsignor Vecchi, pur rassegnandosi a combattere al meglio sul campo di battaglia digitale, ci suggerisce come e perché Dio sia ancora decisamente affezionato all’analogico.Naturalmente si tratta di una spiegazione di tipo teologico. Ma con precise ricadute, diciamo così, mediatiche.Spiega il monsignore che ogni creatura porta l’uomo dalla terra al cielo: questa è l’analogia, cioè la capacità di parlare dello spirito senza negare la carne. Per questo l’analogia non è semplice concetto, ma è comunione, una risonanza, un coinvolgimento. E’ processo cognitivo in sé.Il mondo dell’analogia (corrispondenza senza mediazione tra segno e realtà), per la Chiesa, è l’unico in grado di garantire la possibilità di parlare del trascendente a mezzo di segni appartenenti al mondo terreno: in questo senso l’analogia è condizione dell’anagogia (la conoscenza ultima del mistero divino). Mentre il segno digitale sarebbe il campo delle relazioni ambigue tra visibile e invisibile, della

mediazione e della distorsione, dunque un ambiente in cui è perfino possibile imbattersi (cito sempre dal libro) nell’ “assordante manifestazione dell’ Anticristo nei panni di un abilissimo ingegnere elettronico-digitale”. Su un piano un po’ originale, sono le stesse posizioni del dibattito contemporaneo sullo statuto dell’immagine.Dio dunque preferisce fotografare su pellicola? No, non è una riflessione da liquidare con ironie di questo genere. Chiaro che c’è un sospetto di confusione fra il concetto teologico e quello tecnologico di analogia, ma il pensiero che ci sta dietro non è banale: la Chiesa intuisce che la smaterializzazione dell’immagine e la sua autonomizzazione dal reale è rischiosa per la propria antropologia, tutta fondata sulla solida esistenza e conoscibilità del Creato come condizione dell’esistenza del divino; dunque non può che schierarsi apertamente contro le teorie post-moderniste che ipotizzano la riduzione della realtà a simulacro e spezzano “il legame tra segno e referente”, identificando queste teorie (c’ era da aspettarselo) con la “dittatura del relativismo culturale”.Per chi, come me, non ha in simpatia le semplificazioni dei nipotini di Baudrillard* sulla fine della referenzialità** in fotografia, ritrovarsi con alleati di questo piglio che svirgola verso l’integralismo, lo ammetto, è imbarazzante. Sempre più difficile, per quelli che la pensano come me, navigare tra gli opposti estremismi: il dogma assolutista del reale e l’agnosticismo deresponsabilizzante del simulacro...”

* Jean Baudrillard, sociologo e filosofo, (1029-2007)

(La società di massa, pur essendo costituita da individui insofferenti di legami sociali, non è incompatibile col pluralismo:

anzi ne ha bisogno proprio per articolarsi e funzionare. E questo contraddice la tesi proclamata da Baudrillard, per il quale la

società di massa rappresenta l’implosione del sociale e sfugge a ogni analisi sociologica. Massimo Corsale)

** Con il codice binario e la sua decodifica, la dimensione simbolica del linguaggio è andata perduta.

SPUNTI PER RIFLESSIONI

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“...dio preferisce la pellicola...”

da FOTOCRAZIA (DI MICHELE SMARGIASSI) 20 OTT 2010

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CERINI DI TECNICA

pellicola? chi era costei...?di Chenz II

Approfittando del momento di temporanea ap-parente implosione del mezzo digitale “venduto” come facile e risparmioso dalle solite tecniche di “over promising” e poi risultato completamente, o quasi, computer dipendente e quindi “complesso” per almeno una buona parte di utenti “basici”, e del ritorno a tecniche alternative (?) quali Lomo-grafia, FujiPola, Stenopeico e altre diavolerie, mi è venuta la voglia di fare un’operazione di “archeolo-gia”. Mi sono messo un cappello all’ Indiana Jones e armato di frusta mi sono tuffato a testa bassa a rovistare nel mio polveroso e ponderoso archivio. Alla fine degli anni ‘80, ignaro del destino della

“...non ti dolga di tua poca dimorain questa piaggia trista e non ti cagliach’ancor del quarto lustro non sè fora...” G. Leopardi, Appressamento della morte

Signora, avevo iniziato con l’energia lumacoide che mi contraddistingue, sollecitato da più parti devo dire, a buttare giù degli appunti per un libro, anzi un manualetto pratico di fotografia/fotologia. Niente di faraonico o pretenzioso. Anzi. Quasi un bignami da portare sempre dietro, magari tascabile, con tutto quello che serviva o poteva servire, a quel tempo, al fotografo coscienzioso. Dalle tabelle di non reciprocità alle formule dell’iperfocale. Dall’uso consapevole del “misterioso” flash (la luce che non si vede, SuperGiulia dixit) alla prevelatura delle om-bre in stampa. E così via. Ma la mia adorata pigrizia, e i tempi, non si sono, al solito, trovati d’accordo. E molti dei miei appunti, tutti rigorosamente vergati a mano (con la stilografica, come faccio tutt’ora del resto) con tanto di illustrazioni e tabelle, giacevano sotto la polvere in una voluminosa cartella. I vari venti verso l’analogico (brrr e ancora brrr) più moda che altro penso, mi hanno fatto comunque decidere di ri-pescarli. Se non altro si vedono in giro tante offerte di Corsi di Fotografia Analogica (?!?) Questi appunti Ve li presenterò quindi periodicamente, tenendo presente che non sono scritti ora, ma gli originali dell’anni 80. Forse per la generazione dila-gante (ormai 3 lustri sulle spalle, quindi quasi tutti quelli da 35 anni in giù) dei Nativi Digitali, questi appunti “novecenteschi”potranno apparirebanali, inutili e pretenziosi. Ma potrebbero avere anche il loro potenziale di Curiosità. Non a caso la virtù che contraddistingue gli umani dagli animali. Curiosità assoluta, non finalizzata a nutrimento o riproduzione. Stiamo a vedere. Attendo commenti. Provate a collaborare? [email protected]

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...OH QUANTA BELLA GENTE IL PROGRAMMA

marzo - aprile 2014

7 MARZO

15 MARZO

21 MARZO

4 APRILE

18 APRILE

PROIEZIONE del Film Documentario su Annie Leibovitza cura di Costanza Maremmi

Incontro con l’Autore: GIANLUCA PIGINO. FotoAutore e STREET & SOUL Photographer.

Incontro con gli Allievi del Corsodi Giulia Brogi e Gigi Lusini e degli amici del CIRCOLO DI CONFUSIONE GB

DANIELA CAPPELLI e i suoi reportages dalle parti più povere del mondo: Guatemala 2013

la CAMERA CHIARA - NewsLetter del Circolo Culturale La Bot-tega dell’Immagine di Siena. Redatto in proprio - Marzo 2014

I più calorosi Auguri de La Bottega dell’Immagine ai “cugini” del nuovoCIRCOLO di CONFUSIONE GBnato in data 10 febbraio 2014...a tante cose belle insieme... BdI

GITA/VISITA ASERAVEZZAFOTOGRAFIA 2014(vedi a lato)

fare mostra di sé (autoritratto?)

“...Passare ovinamente senza vedere (o senza guardare), davanti a un’installazione, un’ingerenza cromatica e materiale per cui solo un cane sembra davvero incuriosirsi. (!)Ecco il media freddo (Mc Luhan). Coinvolgente ma con cui dialogare. Intellettualmente almeno. Non la calda, bollente televisione a senso unico, che non accetta repliche o critiche dirette. Con l’ipnotismo dell’imperante e dilagante “over promising”. Distruttore della nostra cultura e delle nostre anime. Solo un contributo in più per aiutare a riflettere. E una scusa in meno per dire “…mah, io non mi ero accorto di niente, ….sembrava una brava persona…come noi…uno di noi”. Già. UNO DI NOI. Fotografia nel 2014. Sempre meno rappresentazione e sempre più Autoritratto?..” Gigi Lusini

13-14 Marzo 2014ViareggioCENTRO CONGRESSI PRINCIPE DI PIEMONTECongresso SPI-CGIL TOSCANA

SCARPEROSSE O SPECCHIO DELLE MIE BRAME?