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LA CALABRIA DALL’UNITÀ AL SECONDO DOPOGUERRA DEPUTAZIONE DI STORIA  PATRIA PER LA CALABRIA a cura di Pantaleone Sergi presentazione di Giuseppe Caridi Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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LA CALABRIA DALL’UNITÀAL SECONDO DOPOGUERRA

DEPUTAZIONEDI STORIA 

PATRIA PERLA CALABRIA978-88-941045-4-7

a cura diPantaleone Sergi

presentazione diGiuseppe Caridi

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra

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DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA CALABRIA

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La Calabria dall’Unitàal secondo dopoguerraLiber amicorum

in ricordo di Pietro Borzomati

a cura diPantaleone Sergipresentazione diGiuseppe Caridi

DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA CALABRIA

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Copyright © 2015 Deputazione di Storia Patria per la Calabria –Reggio CalabriaPiazza Giuseppe De Nava, 26 – 89123 Reggio CalabriaCon la collaborazione diICSAIC – Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporaneaUniversità della Calabria – Biblioteca TarantelliVia Pietro Bucci – 87036 Arcavacata di Rende (CS)

ISBN 978-88-941045-4-7 00.Prime 1-8_icsaic 08/11/15 10:26 Pagina 4

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Sommario

7. Presentazione di Giuseppe CaridiDALL’UNITÀ AL PRIMO NOVECENTO11. Enzo D’AgostinoLa nomina dei vescovi delle diocesi meridionali nell’Italia unita. Il casodi monsignor Francesco Saverio Mangeruva vescovo di Gerace (1872-1905)27. Francesco Fabbricatore La Stampa politica degli arbëreshe di Calabria per l’Albania (ottobre1895-marzo 1913)53. Antonino ZumboReggio Calabria 1911-1912. Augusto Monti meridionalista sul campo65. Rocco LibertiUn filo di luce sulla fine di Rocco de Zerbi travolto dallo scandalo dellaBanca romana

TRA GUERRE E DOPOGUERRE81. Antonio OrlandoUn deputato in trincea. Francesco Arcà, dal Sindacalismo rivoluzionarioall’interventismo combattente (1913-1916)109. Giuseppe Ferraro Patria celeste e patrie terrene: l’arcivescovo Orazio Mazzella e il suo ca-techismo per la Grande guerra 121. Domenico SorrentiIl partito comunista nella provincia di Reggio Calabria dal 1921 al 1943141. Domenico Romeo«L’Azione Popolare», giornale del Partito Popolare Italiano in Provinciadi Reggio Calabria151. Giovanna D’Amico I calabresi in Germania e altrove. Un tassello nella storia dell’emigra-zione durante il fascismo

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173. Franco Liguori, Romano Liguori

Mons. Eugenio Raffaele Faggiano, un vescovo della Calabria tra fascismoe democrazia (Cariati, 1936-1956)

195. Carlo Spartaco Capogreco

Tra rimozioni, mitizzazioni e didattica. Brevi considerazioni sulla me-moria di Ferramonti e sull’internamento civile fascista

207. Giuseppe Masi

Cara sposa: una finestra sulla seconda guerra mondiale attraverso le let-tere di militari calabresi

227. Pantaleone Sergi

Stampa politica e democrazia nel secondo dopoguerra in Calabria

247. Margherita Corrado

La quadreria del barone Giulio Berlingieri e la dispersione dei “più beiPalizzi della terra”

CHIESA E SOCIETÀ

271. Luigi Intrieri

Il pensiero e l’azione di don Carlo De Cardona per lo sviluppo della Ca-labria e dei lavoratori calabresi. Ieri e oggi

285. Vincenzo Antonio Tucci

Clero e società nelle Relationes ad Limina Apostolorum degli Arcivescovicosentini tra riforma di Pio X (1909) e Codice di Diritto Canonico (1917)

305. Mirella Marra

Chiesa ed emigrazione italiana in Germania. Uno studio inedito di Gio-vanni Musolino

309 Giovanni Musolino, Emigrazione italiana in Germania e assistenza religiosa

323. Saverio Napolitano

La Calabria paradigma della religiosità meridionale in un inedito di Giu-seppe Isnardi

336 Giuseppe Isnardi, Religiosità meridionale

BIO-BIBLIOGRAFIA

345. Elida Sergi

Note bio-bibliografiche su Pietro Borzomati

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Presentazionedi Giuseppe CaridiNel corso della riunione del maggio 2014 del Consiglio Direttivodella Deputazione di Storia Patria per la Calabria, su proposta diPantaleone Sergi, accolta all’unanimità, si è deciso di sottoporre al-l’Assemblea straordinaria il progetto della pubblicazione di un vo-lume miscellaneo in memoria del vicepresidente Pietro Borzomatiscomparso nel settembre dell’anno precedente. I deputati e i socipresenti hanno aderito con entusiasmo a tale iniziativa le cui moda-lità di realizzazione sono state affidate allo stesso Sergi, che, insiemecon i componenti del Direttivo, ha provveduto a informarne oltre aimembri della Deputazione assenti all’Assemblea anche gli studiosidella Calabria in Età contemporanea che si riteneva potessero essereinteressati a concorrere con i loro saggi alla stesura del volume. Nu-merosi autori hanno preannunciato ben presto – come stabilito – laloro partecipazione al libro collettaneo e hanno quindi inviato neitempi previsti i loro lavori, la quasi totalità dei quali, dopo esserestati vagliati dai referee – secondo la prassi comunemente seguitadalle riviste scientifiche e dalla stessa «Rivista Storica Calabrese» –sono stati ritenuti meritevoli di essere pubblicati. La definizione Liber amicorum del presente volume in cui sonoinseriti questi contributi rispecchia la volontà del Consiglio Direttivodi rivolgersi in particolare a coloro che erano legati a Pietro Borzo-mati da rapporti di amicizia, un sentimento che l’insigne professoreha coltivato durante tutta la sua vita e che gli è valso la stima e il ri-spetto di tantissime persone di diversa estrazione sociale e culturale.Nella presentazione del volume pubblicato nel 2003 in omaggio aBorzomati in occasione del suo 70° compleanno, mons. VincenzoPaglia arcivescovo di Terni – città di origine della moglie signora Da-niela dove aveva fissato la sua residenza – oltre a elogiare lo spessoredello studioso ha voluto infatti sottolineare l’affabilità che ne carat-terizzava le relazioni umane. Questo comportamento estremamenteaffettuoso e disponibile nei confronti delle persone con cui entravain sintonia era un tratto peculiare della personalità del nostro vice-presidente, come non mancava di evidenziare spesso il compiantoSalvatore Tramontana, a lui unito da vincoli affettivi risalenti aitempi della Laurea all’Università di Messina dove, insieme con Gae-

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tano Cingari, si erano formati a contatto con Maestri del calibro diRosario Romeo e Giorgio Spini e avevano costituito un sodalizio cul-turale che avrebbe poi rappresentato la componente accademica delConsiglio Direttivo della Deputazione. Durante la sua pluridecennale presenza nella Deputazione di StoriaPatria per la Calabria, Borzomati ha dato sempre un notevole contri-buto a livello scientifico e organizzativo. Al suo impegno si deve infattila programmazione di numerosi Convegni di studio svoltisi in diversiluoghi della regione. A tali incontri culturali, insieme con soci e depu-tati, hanno partecipato in qualità di relatori alcuni tra i maggiori stu-diosi nazionali delle tematiche trattate. Sono state perciò, quelle,occasioni importanti per un proficuo confronto tra esperti di storiacalabrese e docenti universitari, colleghi di Borzomati, che, legati a luida reciproca stima, accoglievano volentieri il suo invito e ai quali sichiedeva solitamente di fornire un quadro generale in cui trovavanopoi adeguata collocazione le ricerche di ambito regionale. Sotto la guida iniziale di Maestri come Massimo Petrocchi e Ga-briele De Rosa, le problematiche affrontate da Borzomati nella sualunga e proficua attività scientifica svoltasi parallelamente alla bril-lante carriera accademica – che lo ha portato a insegnare in presti-giose Università italiane (dalla Sapienza di Roma all’Ateneo diSalerno, dalla Cà Foscari di Venezia all’Universtità per Stranieri diPerugia) – hanno riguardato in prevalenza i rapporti tra Chiesa esocietà nel Mezzogiorno contemporaneo sullo sfondo della storiagenerale dello stesso periodo. Si è pertanto ritenuto opportuno, neltitolo del libro sulla Calabria a lui dedicato, indicare come ambitotemporale tale periodizzazione (dall’Unità d’Italia al secondo dopo-guerra). I diciotto saggi che lo compongono sono stati distribuiti intre sezioni secondo un criterio di carattere cronologico per quantoriguarda le prime due (Dall’Unità al primo Novecento, Tra Guerre edopoguerre) e che riflette nella terza (Chiesa e società) il tema daPietro Borzomati più ampiamente approfondito nelle sue ricerche. Nel concludere la commemorazione di Borzomati, pubblicata nel-l’ultimo numero della Rivista Storica Calabrese, mons. Antonino De-nisi sottolineava che «chi ha avuto il privilegio di conoscerlo e averloamico, e siamo in tanti, sente che con la sua scomparsa si è apertoun vuoto che solo Dio può colmare». Se il vuoto da lui lasciato è cer-tamente incolmabile, la Deputazione di Storia Patria per la Calabriacon la pubblicazione del presente volume vuole almeno contribuirea tenerne vivo il ricordo.

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Quando Garibaldi, alla testa dei mille, oltrepassò lo Stretto di messinae sbarcò in Calabria (nella notte tra il 19 e il 20 agosto 1860), la sede ve-scovile di Gerace era vacante, poiché un paio di mesi prima, l’11 giugno,era morto il legittimo titolare pasquale lucia (1852-1860)1, e non si eraancora provveduto a nominare il successore, atto che avrebbe dovuto pro-muovere il re di Napoli, il quale, prima che della facoltà di concedere ilRegio exequatur sulle provvisioni ecclesiastiche interessanti il regno2, eratitolare del diritto di presentazione dei candidati alle cattedre vescovilidelle Chiese di Regio patronato, quale era allora anche la Chiesa di Gerace3.Sbarcato Garibaldi in Sicilia, il re di Napoli – era Francesco II – avevaperò ben altri problemi cui far fronte, e si sa quale fu poi la sua sorte: la-sciata per sempre Napoli, si rinchiuse nella fortezza di Gaeta perun’estrema resistenza e dovette assistere – impotente – all’avvento di vit-torio emanuele II con il titolo di re d’Italia, il quale abolì i Borbone, ma noni privilegi da essi detenuti, tenendosi ben stretto il Regio patronato sulleChiese meridionali e lasciandolo in eredità anche ai suoi successori finoalla firma dei Patti lateranensi.ora, come si sa, pio IX non riconobbe mai a vittorio emanuele la legit-timità del titolo di re d’Italia né riconobbe il nuovo Stato. Come conse-guenza, nessuno dei suoi ecclesiastici poté mai proporsi per la nomina

La nomina dei vescovi delle diocesi meridionalinell'Italia unita. Il caso di monsignor Francesco Saverio

Mangeruva vescovo di Gerace (1872-1905)

Enzo D'Agostino

1 Su questo vescovo, cfr. il mio I Vescovi di Gerace-Locri, Frama Sud, Chiaravalle Centrale1981, pp. 200-204.2 Sull’Exequatur, cfr. la relativa voce di Arturo CArlo Jemolo in «enciclopedia Italiana»,roma 1932 (e la bibliografia ivi segnalata).3 ultima, in Calabria, Gerace era stata dichiarata di Regio patronato il 1° giugno 1803,dopo un iter istruttorio iniziato nel 1791: ArChIvIo dI StAto dI NApolI, Archivio del CappellanoMaggiore, Processi di Regio patronato e diversi, v. 1061, f. 45. una copia del decreto origi-nale, autenticata dal vescovo Giuseppe maria pellicano (1818-1833), è in ArChIvIo StorICodIoCeSANo “moNSIGNor vINCeNzo NAdIle” - loCrI [d’ora in poi ASdl], Vescovi, Bollario Pelli-cano, f. 47rv.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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regia a una sede di Regio patronato; pertanto, dopo il 1860, tutte le Chiesemeridionali, a mano a mano che morivano i titolari, rimasero vacanti. Que-sta condizione, in Calabria, oltreché a Santa Severina4, toccò a Gerace, edè appunto delle vicende della collazione della sua cattedra che si occupaquesto saggio, attraverso l’utilizzazione della documentazione specificaconservata nel fondo culto dell’Archivio Centrale dello Stato, volendo inqualche modo accogliere una pressante sollecitazione di Pietro Borzomatisulla necessità di avviare – su «temi così suggestivi e fondamentali» qualile vicende degli exequatur ai vescovi del Sud e la soppressione dei beni ec-clesiastici dopo la legge del 1867 – «opportune ricerche, diocesi per dio-cesi, al fine di avere un quadro veramente obiettivo di situazioni cosìdelicate che potrebbero chiarire definitivamente molti punti oscuri anchedella cosiddetta questione romana»5.* * *le modalità della formazione e la proclamazione del Regno d’italia por-tarono con sé la questione molto seria dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa,con quest’ultima per nulla tranquillizzata della formulazione liberal-ca-vouriana “libera Chiesa in libero Stato” né rassicurata dell’adozione di fi-renze come capitale. tuttavia, malgrado le tensioni ufficiali e pubbliche,ufficiosamente, prima e dopo il 1865, non mancarono tentativi per addi-venire a una regolamentazione, istituzionale e patrimoniale, dei rapportitra la Chiesa e l’italia.nella primavera del 1866, il presidente del Consiglio dell’epoca, BettinoRicasoli, inviò a Roma il senatore Saverio francesco Vegezzi per cercaredi risolvere in qualche modo il problema della copertura delle sedi vesco-vili vacanti, che nel frattempo avevano toccato la cifra di 108 su 277. lamissione di Vegezzi fallì, ma nel mese di dicembre dello stesso anno l’im-presa fu affidata, con esito relativamente felice, a Michelangelo tonello esi raggiunse un accordo che consentì la nomina o il trasferimento di 37 ve-scovi, tra i quali alcuni sicuramente legati alla monarchia, come monsignorAlessandro Riccardi di netro a torino e monsignor luigi nazari di Cala-biana a Milano6. non contemplando l’accordo le Chiese di Regio patronato,

enzo d'Agostino12

4 Rimase vacante il 23 novembre 1861 per la morte di monsignor Annibale Montalcini.5 PietRo BoRzoMAti, Il problema del R. Exequatur per i vescovi delle diocesi del Sud. Nons.Curcio vescovo di Oppido mamertina, in id., La Calabria nell’Età contemporanea (ed altriscritti), editori Meridionali Riuniti, Reggio Calabria 1977, pp. 193-206, qui 193.6 Cf. AlfRedo CAPone, Destra e Sinistra da Cavour a Crispi, Utet, torino 1981 (Storia

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la nostra Gerace continuò a rimanere vacante e la sua mensa amministratadal demanio.mentre si svolgevano le missioni vegezzi e tonello, «ricasoli sollecitò i ministri della giustizia e delle finanze Borgatti e Scialoja a preparareun progetto di legge sulla “libertà della Chiesa e la liquidazione dell’asse ecclesiastico” cheaffrontasse la questione patrimoniale nell’ambito di un orientamento separatista. tale pro-getto, presentato alla Camera il 17 gennaio 1867, pur risentendo delle oscillazioni teorichedel ricasoli, fu tra i migliori e fra i più liberali elaborati dalla destra, fondato com’era sullarinunzia da parte dello Stato ad ogni ingerenza nella vita della Chiesa. lo Staro rinunciavaad intervenire nella nomina dei vescovi e così pure al placet e all’exequatur; d’altra partela Chiesa doveva rinunciare alla pretesa di attribuire efficacia normativa, nello Stato, allesue costituzioni e al suo diritto»7.malgrado tante buone intenzioni, però, sopravvennero le leggi sullasoppressione dei luoghi pii, con incameramento dei relativi patrimoni8,l’avventura garibaldina di mentana (1867), il “20 settembre del 1870”: irapporti tra il regno e la Chiesa non solo non si rappacificarono, ma di-vennero sempre più tesi e, con il papa dichiaratosi prigioniero dello Statoitaliano, ufficialmente si interruppero. l’unilaterale legge delle guarentigie (13 maggio 1871), per quel che ciriguarda qui, abolì, sì, «l’ exequatur e il placet regio ed ogni altra forma diassenso governativo per la pubblicazione ed esecuzione degli atti delle Au-torità ecclesiastiche» (art. 16), ma, sancendo (art. 15, ultimo comma) che«nella collazione dei benefici di patronato regio nulla è innovato», continuòa rendere praticamente impossibile la copertura delle cattedre vacanti, dalmomento che, come abbiamo già visto, non riconoscendo la legittimità delregno, il papa non consentiva che alcun ecclesiastico chiedesse la nominaa una cattedra di Regio patronato; né lo Stato, da parte sua, accettava di

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d’Italia, diretta da GIuSeppe GAlASSo, XX), p. 97; mArIo CArAvAle, AlBerto CArACCIolo, Lo Statopontificio da Martino V a Pio IX, utet, torino 1978 (Storia d’Italia, diretta da G. Galasso,XIv), p. 726 (e la bibliografia ivi segnalata, cominciando da Arturo CArlo Jemolo, Chiesa eStato in Italia dalla unificazione a Giovanni XXIII, ein audi, torino 1965).7 A. CApoNe, Destra e Sinistra, p. 97.8 Furono allora soppressi, cioè privati del riconoscimento giuridico 25.000 enti eccle-siastici, tutti forniti di un proprio patrimonio, ma privi di cura di anime. In precedenza,estendendo al resto del paese la legislazione piemontese, erano stati soppressi, tra l’altro,anche gli ordini religiosi: cf., in proposito, romeo AStorrI, Leggi eversive, soppressione dellecorporazioni religiose e beni culturali, in La memoria silenziosa. Formazione, tutela e statusgiuridico egli archivi monastici nei monumenti nazionali. Atti del Convegno di Studio, ve-roli-Ferentino 6-8 novembre 1998, ministero per i Beni e le Attività Culturali, roma 2000,pp. 42-69; loreNzo FurGIele, La Sinistra e i cattolici. Pasquale Stanislao Mancini giurisdizio-nalista anticlericale, vita e pensiero, milano 1985.

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concedere l’exequatur a un atto di nomina che considerava di propria com-petenza. e siccome Gerace era una Chiesa tenuta di Regio patronato, la suacattedra, vacante dall’11 giugno 1860, continuò a essere tale e continuò aessere governata da un vicario capitolare (michele Sirgiovanni fino ai primigiorni del mese di marzo del 1869, Gaetano Scaglione dall’8 marzo dellostesso anno)9.tutto ciò fino al 6 maggio 1872, giorno in cui pio IX, rompendo ogni in-dugio e ignorando il diritto di presentazione rivendicato da vittorio ema-nuele II, decise di provvedere direttamente alla copertura di tutte lecattedre da tempo vacanti, facendo cadere le proprie scelte su ecclesiasticiche offrivano assoluta garanzia di esclusiva fedeltà al papa e della pienaaccettazione del concilio vaticano I, vale a dire dell’infallibilità e del pri-mato del pontefice nella fede e nel governo della Chiesa, incluso – ovvia-mente – il diritto all’esercizio del potere temporale, conculcato dal nuovoStato, che, pertanto, bisognava evitare di riconoscere10.Nella scelta dei vescovi, oltre – naturalmente – alle capacità pastorali, «altro essenziale criterio – scrive Alberto monticone - fu la sicura preparazione dottrinale,verificata e attestata in una università pontificia o in analoga istituzione riconosciuta dallaS. Sede. un buon licenziato o meglio addottorato in teologia, proveniente da una scuolacontrollata, offriva garanzie di fedeltà al magistero, necessarie in tempi tanto difficili, maa lui si richiedeva anche di saper adoperare il suo bagaglio dottrinale in senso controver-sistico, al fine di affrontare agguerritamente tutte le possibili battaglie con gli avversaridella Chiesa e della fede»11. Corrispondendo a tale profilo di vescovo, a Gerace fu nominato Fran-cesco Saverio mangeruva12, arcidiacono della collegiata della vicina Sino-poli, che aveva già l’età matura di quasi cinquant’anni, solidi studi pressoi Gesuiti, laurea in teologia e in diritto canonico, un’ottima fama di predi-

enzo d'Agostino14

9 Cf. il mio La Cattedra sulla Rupe. Storia della Diocesi di Gerace (Calabria) dalla soppres-sione del rito greco al trasferimento della sede (1480-1954), rubbettino, Soveria mannelli2015, pp. 263-273.10 Cf. AlBerto moNtICoNe, L’episcopato italiano dall’Unità al Concilio Vaticano II, in mArIoroSA, Clero e società nell’Italia contemporanea, laterza, roma-Bari 1972, pp. 257-330, qui266.11 IvI, p. 267.12 F. S. mangeruva nacque a Sinopoli (diocesi di mileto) il 7 gennaio 1823; ebbe i primiordini sacri e un benefìcio a 13 anni; a 14 fu nominato canonico della Collegiata di Sinopoli;a 22 (il 20 settembre 1845) fu ordinato sacerdote e successivamente conseguì la laurea inteologia e in diritto canonico. preconizzato vescovo di Gerace nel mese di febbraio del 1872,fu nominato il 6 e consacrato il 9 maggio successivi. Su di lui, cfr. i miei I Vescovi cit., pp.209-215, e La Cattedra sulla Rupe cit., pp. 273-293.

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catore; quanto alle idee politiche, i rapporti delle autorità statali asserivanoche «non costa[va] che avesse commesso alcun atto appuntabile e contra-rio all’attuale governo, sebbene lo si dicesse propenso alla caduta dinastiaborbonica»13.Certamente non a causa di tale supposta propensione, ma per non ri-conoscere implicitamente la legittimità del nuovo Stato, il neo vescovo diGerace si guardò bene dal presentare al Governo italiano la bolla di nominaperché fosse munita del Regio exequatur14; tuttavia, ancor prima di averein mano la bolla pontificia, senza minimamente menzionarla, un tentativointeso a ottenere il vitale exequatur egli l’aveva fatto, attraverso la seguenteaccorta e generica – ma anche ingenua – partecipazione al ministro guar-dasigilli dell’epoca15:«eccellenza, Avendo voluto la Santità di Nostro Signore sovvenire ai gravissimi bisognidelle Chiese vacanti d’Italia nel Concistoro in forma privata, tenuto nel giorno 6 del volgentemaggio, si è degnato elegermi vescovo della diocesi di Gerace. Nel dare pertanto a v.e. no-tizia della seguita elezione, confido che il Governo darà gli opportuni provvedimenti a ri-muovere qualunque ostacolo che possa impedirmi il pieno esercizio del mio pastoraleministero. – Francesco Saverio vescovo di Gerace»16.Non è facile capire attraverso quale ragionamento monsignor mange-ruva – ma, successivamente, anche la diplomazia pontificia – potesse rite-nere che scrivere a un ministro non comportasse l’implicito riconoscimentodella legittimità dello Stato del cui governo quel ministro era rappresen-tante; questa dovendo essere anche la sua opinione, il guardasigilli chia-mato in causa aveva già fatto approntare una risposta al mangeruva,ancorché dilatoria, rassicurante, come attesta la seguente minuta di lettera:«ho ricevuto la lettera di v.S. nella quale, partecipando di essere stato eletto vescovo

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13 ArChIvIo CeNtrAle dello StAto (d’ora in poi ACS), Min. Interno, Affari di Culto, b. 88,fasc. 113, Il procuratore del re di palmi al procuratore Generale di Catanzaro, palmi12.6.1872; IvI, Il procuratore Generale del re al ministro guardasigilli, Catanzaro 6 agosto1872. In effetti, nel 1861, mangeruva era stato processato con l’accusa «di clandestine riu-nioni allo scopo di cospirare contro il Governo», ma era stato completamente assolto, e nel1865 gli era stato chiuso dal prefetto di reggio Calabria il collegio per gli studi superioriche aveva fondato qualche anno prima nel paese natio.14 la Santa Sede proibiva espressamente di presentare la bolla di nomina alle autoritàgovernative. la stessa doveva essere «esposta nella sacrestia della Cattedrale alla visionedei fedeli che a loro volta avrebbero potuto sollecitare dal ministro di grazia e giustizia ilriconoscimento per il loro pastore»: p. BorzomAtI, Il problema dell’exequatur cit., 196.15 era l’on. Giovanni de Falco.16 ACS, Min. Interno, Affari di Culto, b. 88, fasc. 113, mons. mangeruva al ministro guar-dasigilli, Sinopoli 23 maggio 1872

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della chiesa di Gerace, dichiara di confidare che il Governo darà gli opportuni provvedi-menti a rimuovere qualunque ostacolo che possa impedirle il pieno esercizio del suo pa-storale ufficio.mi è grato assicurare v.S. che nessun ostacolo sarà frapposto all’esercizio del suo altoministero, e che il Governo veglierà perché le leggi le quali guarentiscono la libertà che aquella si appartiene siano scrupolosamente osservate. e la S.v.I. può esser certa che, appenami sarà data comunicazione dell’atto della nomina che mi accenna, curerò che ne sia ordi-nata l’esecuzione, e fatta la consegna delle temporalità della Sede alla quale è stata elevata.Accolga i sensi della mia distinta considerazione. – Il ministro17,la lettera – priva soltanto della data e della firma è conservata nel fondoculto dell’Archivio Centrale dello Stato, ma che non fu mai spedita, perché– si legge in un appunto di un funzionario – «trattandosi di un vescovatodi r. patronato, S.e. credé per non recare pregiudizio alla corona di nonrispondere alla lettera di partecipazione del vescovo»18.È dunque evidente, come si evince dall’appunto e dal testo della man-cata risposta al mangeruva, che il vero problema non consisteva tanto nellaconcessione del R. exequatur, quanto nel riconoscimento da parte dellaChiesa del R. patronato sulla cattedra di Gerace, comportando ciò, tra l’al-tro, il diritto del re di presentare un proprio candidato per la nomina a ve-scovo.Fallito quell’ingenuo tentativo, e non potendo percorrere altre vie perottenere il riconoscimento governativo, Francesco Saverio mangeruva siadattò a fare il suo ingresso in diocesi e a prendere possesso della cattedra,il 24 giugno 1872, in forma quasi privata, ufficialmente ignorato dalle au-torità civili, tranne verosimilmente da quelle comunali19.Così facendo, il neo vescovo dava una ulteriore prova di fedeltà alle di-rettive pontificie, ma accettava un onere veramente pesante, poiché lamancanza del riconoscimento governativo comportava, con l’invisibilitàcivile, l’indisponibilità delle temporalità della sede, cioè del patrimonio edelle rendite della mensa – che continuavano ad essere amministrati perconto dello Stato dal R. Economato Generale de’ Benefizi vacanti per le Pro-

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17 IvI, Il ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti a monsignor Francesco Saverio man-geruva, roma, maggio 1872.18 IvI, l’appunto è siglato in maniera illeggibile.19 In verità, vINCeNzo FrAGomeNI (Vitae Episcoporum Ecclesiae prius Locrensis inde Hie-racensis, in Constitutiones et acta Synodi Hieracensis ab Ill.mo et R.mo Francisco XaverioMangeruva Episcopo diebus 22, 23 et 24 Maii I.D. MDCCCLXXIX celebratae, ex typographiahospitii mendiculorum, Neapoli 1880, pp. 312-334, qui 334) scrive che mangeruva entròa Gerace «solemniter», ma evidentemente si riferisce all’accoglienza tributatagli dal cleroe dal popolo e, forse, dalle autorità comunali, non certo dalle autorità statali, verosimil-mente assenti perché egli non aveva ricevuto l’exequatur.

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vince napoletane – e persino del seminario e dell’episcopio, occupati sindal 1860 dal regio esercito e dai reali Carabinieri.Quanto all’episcopio, tuttavia, grazie alla disponibilità degli ammini-stratori comunali e col parere favorevole dell’economato Generale e delguardasigilli, nel 1874 fu accolta la domanda inoltrata dal vicario generale– non dal vescovo, si badi bene – per avere la disponibilità di una parte deilocali – un “quartino” – «per allogarvi la curia»20, che il mangeruva avevapotuto tentare di ottenere soltanto dopo essere stato debitamente auto-rizzato dalla Congregazione del Concilio, che gli aveva raccomandato di vi-gilare «ne milites, dum aedem illam vacuam relinquunt, alicujusmonasterii aedes occupatum eant»21. Nello stesso anno, a maggio, poté es-sere riaperto anche il seminario, sia pure con la disponibilità soltanto dellaterza parte dei suoi antichi locali e superando anche l’avversione degli an-ticlericali locali, intervenuti con lettere anonime al ministero dell’Interno22.Niente, invece, si riuscì a ottenere per consentire al vescovo una resi-denza dignitosa. Il mangeruva, infatti, oltreché privo di rendite per il so-stentamento personale, si ritrovò senza casa e dovette adattarsi a viverein un piccolo appartamento nella marina di Gerace, facendo il pendolareun paio di volte la settimana per raggiungere la sua cattedrale nel centrostorico23.

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20 la pratica per la concessione fu completata nel mese di dicembre dl 1874: cfr. ACS,Min. Interno, Affari di Culto, b. 88, fasc. 113, Il vicario generale di Gerace al ministro guar-dasigilli, Gerace 21.6.1874; IvI, Il r. economo Generale al ministro guardasigilli, Napoli 15settembre 1874; IvI, Il ministro guardasigilli al r. economo Generale, roma 30 settembre1874; IvI, Il r. economo Generale al ministro guardasigilli, Napoli 9.12.1874.21 ASdl, Vescovi, Mangeruva, la Congregazione del Concilio al vescovo di Gerace, roma20 settembre 1872.22 ACS, Min. Istruzione, Direzione Scuole Medie, b. 157, fasc. 60, Il ministro dell’Internoal ministro della p.I., roma 19 dicembre 1874. della riapertura del seminario il mangeruvainformò la Congregazione del Concilio nella relazione ad limina del 1874; «primo meo inhanc sedem episcopalem adventu clausum reperi seminarium. duas partes aedificii militesoccupant. tertiam maximis impensis instauravi, et proximo elapso maio seminarium ape-rui. optimum ei rectorem praefeci, doctisque illud instruxi praeceptoribus. Alumnos conti-net 29, qui amplius tredecim annos nati non admittuntur, et triginta singulis in mensibuslibellas persolvunt. reditus Seminarii sunt valde imminuti ; eos enim, sic dictum, regio de-manio pluribus annis confiscavit. remisit inde bonorum partem, quae singulis annis 2000referunt libellas, et quorum vel 4300 libellas adhuc postulat. hosce reditus mala habitatempore vacantis sedis administratio immminuit. Seminarii mobiles dispersi omnino fue-runt. Bibliotheca adhuc apud sic nuncupatum regio economato manet»: ArChIvIo SeGretovAtICANo (d’ora in poi ASv), Congr. Concist., Relat. Dioec., Relationes 390B, Hieacen 1874, f.355v (cfr. anche il mio La Cattedra sulla Rupe cit., p. 278).23 ACS, Min. Interno, Affari di Culto, b. 88, fasc. 113. la circostanza emerge da una co-municazione della prefettura di reggio Calabria del 25 febbraio 1879 al procuratore ge-nerale di Catanzaro: «dalle informazioni assunte sul conto di monsignor Francesco

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I primi anni di episcopato furono pertanto vissuti dal vescovo mange-ruva in una condizione di avvilente precarietà e soltanto dopo il 1876,morto il cardinale segretario di Stato Giacomo Antonelli24, fu possibile ri-prendere i tentativi sia pure con prudenza per ottenere il R. exequatur.verosimilmente furono operati dei tentativi privati, che appaiono atte-stati da appunti qua e là conservati nella busta ripetutamente menzionatadell’Archivio Centrale dello Stato25, ma senza apprezzabili risultati. poi, fi-nalmente, arrivò da roma l’autorizzazione a richiedere l’exequatur uffi-cialmente26, e monsignor mangeruva, il 15 marzo 1877, corredandola dellacopia autentica delle bolle di nomina pontificia, inoltrò al guardasigilli laseguente istanza:«Il vescovo di Gerace Calabria Francesco Saverio mangeruva, promosso nel Concistorodel 6 maggio 1872, prega vostra eccellenza che sia accordato il regio exequatur alle bolleprovvisionali, affine di poter provvedere senza ostacoli al bene dei fedeli, ed evitare ogniostacolo all’esercizio del suo Apostolico ministero»27.ma la richiesta non fu accolta, perché, come si evince dalla seguente let-tera, che comunica al procuratore generale delle Calabrie le istruzioni mi-nisteriali sul caso:«monsignor Francesco Saverio mangeruva ha chiesto il r. exequatur alla Bolla pontifi-cia con la quale fu eletto vescovo di Gerace.resultando dagli atti di questo ministero che quella sede vescovile è di regio patronato,alla richiesta del prelato surriferito, ne’ modi in cui è stata concepita, non può esser datoalcun corso.epperò priego la S.v. di fare allo stesso mons. mangeruva le identiche dichiarazioni ne-gative ed avvertenze che le furono indicate in occasione della congenere dimanda fattadall’arcivescovo di Cosenza. – Il ministro»28,

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Saverio mangeruva, vescovo di Gerace, risulta che il medesimo dimora abitualmente aNeolocri...». 24 Fu segretario di Stato di pio IX dal 29 novembre 1848 al 6 novembre 1876. Su di lui,cf. roGer AuBert, Antonelli, Giacomo, «dizionario Biografico degli Italiani» (d’ora in poi dBI),3, 1961.25 un appunto rivela l’interessamento del senatore conte di pontallo nel mese di marzodel 1877.26 Al vescovo di oppido, Antonio maria Curcio, tale autorizzazione fu concessa il 6marzo 1877: cf. p. BorzomAtI, Il problema dell’exequatur cit., p. 201.27 ACS, Min. Interno, Affari di Culto, b. 88, fasc. 113, Il vescovo di Gerace al ministro diGrazia e Giustizia e dei Culti, Gerace 15 marzo 1877.28 IvI, Il ministro di Grazia e Giustizia al procuratore Generale di Catanzaro, roma 26marzo 1877. l’arcivescovo di Cosenza ivi menzionato era monsignor Camillo Sorgente, cheera stato nominato dal papa il 5 maggio 1874.

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non era in discussione la concessione del R. exequatur, ma l’accettazioneda parte della Chiesa del R. Patronato sulla sede di Gerace, che veniva con-testato e negato risolutamente da parte della Santa Sede e, conseguente-mente, anche dal vescovo di Gerace, sempre ligio alle direttive romane.la controversia sull’argomento, invece di concludersi entro brevetempo con una soluzione soddisfacente per le parti in causa, si protrasseper oltre due anni, durante i quali si formò un dossier che non è inutile leg-gere almeno nelle sue carte essenziali, perché consente di conoscerequanto, a volte, siano sottili i giochi, i metodi, i diritti e le esigenze delladiplomazia e come questi pesino quando diventano burocrazia.Informato dal procuratore Generale dell’esito della sua richiesta del 15marzo, il vescovo mangeruva replicò esibendo dei documenti che dimo-stravano che - secondo lui - «la nomina al vescovato di Gerace spetti allaS. Sede». del che il procuratore informò immediatamente il ministro diGrazia e Giustizia:«monsignor Francesco Saverio mangeruva, al quale ho fatto le dichiarazioni contenutenella riverita nota indicata al margine, mi ha ora inviato l’annesso foglio, corredato da talunidocumenti, col quale intenderebbe dimostrare che la nomina al vescovato di Gerace spettialla Santa Sede, manifestando il desiderio di sottomettere all’e.v. le di lui osservazioni.Nel rassegnare a v. e. il foglio suddetto ed alligati documenti, unisco una nota dell’eco-nomato Generale di Napoli da me invitato a dare chiarimenti in proposito, ed al pareredello stesso mi uniformo»29.la replica del ministro fu abbastanza precisa:«trovando bene apposte le ragioni svolte dall’economato Geranerale di Napoli per di-mostrare che la sede vescovile di Gerace è di assoluto regio patronato per fondazione edotazione, prego la S.v. di voler fare conforme dichiarazione a mons. Francesco Saveriomangeruva in replica al ricorso da lui fatto in senso contrario, aggiungendogli che questoministero tiene fermo alle dichiarazioni fatte con la nota del 26 marzo ultimo, n. 6203»30.dopo questa risposta, come sembra attestare l’assenza nel dossier didocumentazione per qualche mese, tra le parti in causa dovette esserciuna lunga pausa di rapporti, dilatata - sembra evidente - dalla morte primadi vittorio emanuele II (9 gennaio 1878), poi di pio IX (7 febbraio 1878),attendendo eventuali nuovi atteggiamenti.

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29 IvI, Il procuratore Generale del re nelle Calabrie al ministro di Grazia e Giustizia, Ca-tanzaro 4 settembre 1877.30 IvI, Il ministro di Grazia e Giustizia al procuratore Generale di Catanzaro, roma 19settembre 1877

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Con l’elezione di leone XIII al soglio pontificio (28 febbraio 1878), sem-brò effettivamente che le relazioni tra la S. Sede e il Governo italiano di-ventassero meno tese, ma quanto alla questione del R. patronato, nientecambiò.Il 23 luglio 1878 monsignor mangeruva decise di riproporre il pro-blema che l’angustiava e scrisse a roma; ma – sopraggiunta la morte delsegretario di stato, cardinale Alessandro Franchi (31 luglio 1878), fine di-plomatico considerato molto favorevole all’avvio di un processo di conci-liazione con l’Italia – la sua lettera rimase inevasa fino a quando non furitrovata dal nuovo segretario di stato, il cardinale lorenzo Nina (8 agosto1878 - 7 novwmbre 1881), che rispose così alla richiesta del vescovo diGerace:«Ill.mo e r.mo Signore. Non prima di oggi mi riesce dar riscontro alla pregiata letteradella S.v. Ill.na e r.ma in data del 23 luglio diretta al compianto e.mo Franchi e fra le moltecarte del medesimo or son pochi giorni ritrovata. Il S. padre vivamente compenetrandosidella difficile ed anomala posizione in cui ella si trova per non essere legalmente ricono-sciuta dal Governo, mi ha ordinato di inviarle copia di una formula, che la S.v. potrebbe esi-bire a coteste Autorità governative per ottenere il bramato intento, e che troverà qui nellapresente compiegata»31.Senza frapporre indugi, mangeruva accolse il suggerimento e inviò alguardasigilli la seguente istanza in carta bollata:«eccellenza, Francesco Saverio mangeruva, vescovo di Gerace, rinnova le istanze all’ec-cellenza vostra per avere colle temporalità il palazzo vescovile di Gerace, per la cui priva-zione trovasi al presente quasi inabilitato a dare soddisfazione allo sterminato concorsodi tutte le varie classi del popolo, che a lui continuamente ricorre per bisogni spirituali ecorporali; e trovandosi egli stesso posto fuori casa e privato di ogni mezzo, non può, congran dolore dell’animo suo, e con gravissimo danno della popolazione accorrere a solle-varne gli urgenti e gravi e moltissimi bisogni. Il sottoscritto, quindi, prega l’eccellenza vo-stra, la quale nella sua qualifica di Guardasigilli ritiene che la suddetta sede sia di regiopatronato, a dare quei provvedimenti pei quali senza indugio ed ostacolo possa esercitarecon libertà il suo pastorale ministero e soccorrere ai bisogni del suo popolo»32,che, però, ebbe nuovamente esito negativo. Il fatto era che il Governo ita-liano pretendeva dal vescovo mangeruva la dichiarazione che accettassein maniera più o meno esplicita la legittimità del R. patronato sulla Chiesa

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31 ASdl, Vescovi, Mangeruva, Il cardinale lorenzo Nina al vescovo mangeruva, roma 25settembre 187832 ACS, Min. Interno, Affari di Culto, b. 88, fasc. 113, Il vescovo di Gerace al ministro diGrazia e Giustizia e dei Culti, Gerace 28 settembre 1878.

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di Gerace, in mancanza della quale nessun riconoscimento governativo allabolla di nomina a tale vescovato sarebbe stato mai emanato.Seguirono nuove consultazioni del vescovo geracese con la segretariadi Stato e finalmente una nuova domanda redatta il 28 dicembre 1878nella forma seguente:«eccellenza, il vescovo di Gerace, Calabria, Francesco Saverio mangeruva, preconizzatodal Sommo pontefice pio IX di s.m. alla Sede vescovile suddetta, avendo già presentato damolto tempo a Sua eccellenza il Signor ministro dei Culti la Bolla pontificia, torna a pregarel’eccellenza vostra di farvi apporre per le temporalità il regio exequatur.e perché il medesimo conosce che dal real Governo la precennata sede si ritiene diregio padronato, prega eziandio l’eccellenza vostra a prender quei provvedimenti che lomettano in grado di poter senza ritardo ed ostacoli esercitare il suo pastorale ministero almaggior bene delle anime»33,sembrò aprire finalmente una breccia nelle solide determinazioni del go-verno italiano. In questa istanza, nel cui ultimo capoverso si legge la di-chiarazione «e perché il medesimo conosce...», interpretabile comeaccettazione da parte della Chiesa dell’esistenza del r. patronato sulla sededi Gerace - una specie di “formula magica”, cioè - sembrò che finalmentela strada per risolvere la spinosa questione di un vescovo insediato cano-nicamente ma non riconosciuto dallo Stato fosse spianata.Come si evince dalla seguente lettera al procuratore Generale del renelle Calabrie:«mons. Francesco Saverio mangeruva, nel rinnovare la dimanda per ottenere il r. exe-quatur alla Bolla pontificia della di lui elezione a vescovo di Gerace, ha aggiunto: «e perchéconosce che dal real Governo la precennata sede si ritiene di regio padronato, prega ezian-dio l’eccellenza vostra a prender quei provvedimenti che lo mettano in grado di poter senzaritardo ed ostacoli esercitare il suo pastorale ministero al maggior bene delle anime».Si comunica tale istanza con l’unita bolla alla S.v. perché voglia al più presto possibilesomministrare le informazioni di regola sulla condotta politica e morale e sul contegnosinora tenuto dal detto prelato, referendo col suo parere sul merito della dimandastessa»34,non ebbe più obiezioni da sollevare il guardasigilli – era l’on. diego tajani,ministro dal 19 dicembre 1878 al 14 luglio 1879 –, anzi sembrò finalmentetirare un sospiro di sollievo, né ne ebbero il r. procuratore presso il tribu-

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33 IvI, Gerace 28.12. 1878. tra alcune lettere (minute) conservate nell’ACS e altre con-servate nell’ASdl si nota in questo periodo una evidente incongruenza di date, ma non ap-parendo la cosa di importanza sostanziale, non sembra necessario soffermarsi a discuterne.34 IvI, Il ministro di Grazia e Giustizia al procuratore Generale di Catanzaro, roma 5 feb-braio 1879.

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nale di Gerace, che inviò a Catanzaro il seguente rapporto:«Questa Sede episcopale della cui esistenza in locri, poscia Santa Ciriaca trovansi im-periture memorie nei concilii e nelle prime Storie del Cristianesimo, venne traslata in Ge-race, allorché i popoli della regione locrese epizefiria si ridussero sulla erta montana aschermo e riparo delle incursioni agarene. poco dopo il mille il magnanimo conte ruggierofondatore della monarchia normanna eretta in mileto dalle everse di vibona e di mesianouna cattedra ricchissima locupletò di dovizie, abbadie e cinoblei in Calabria e Sicilia e dotòla Geracese di pingui possessi. Ciò fece credere che l’episcopato di Gerace fosse beneficiomaggiore di regio patronato, avvegnacché nel Concordato Carolino e nell’ultimo del 1818la Corona di Napoli non riserbasse verun dritto di presentazione, e nel luttuoso periododella dominazione borbonica si fosse costumata la terna di candidati alla Curia romanacome per tutte le sedi indipendenti dal real patronato.Checché fosse di cotesto dubbio, per la cui soluzione non difettano certo gli elementi,posso render sicura la S.v. che monsignor Francesco Saverio mangeruva attuale vescovodi Gerace sia uomo di evangeliche virtù fornito, che attende al suo apostolico ministerocon zelo benefico e saviezza generosa e che tiene aperta alla gioventù vogliosa di studi unfrequentato seminario. riguardo alla politica, dimorando egli nella sottostante marina, ne’pochi istanti di quasi ogni settimana che qui sale per compiere religiose funzioni, si è mo-strato sempre ossequiente alle autorità e benevolo verso il regio Governo, anzi è univer-salmente tenuto per amico alle libere istituzioni.Anche a me pare che il Governo del re, impartendo l’exequatur alle bolle che restituiscofarebbe opera giusta e molto plaudita dal pubblico di questo Circondario, che ama e venerail proprio prelato»35,o il prefetto di reggio Calabria, anch’egli d’avviso che il R. exequatur po-tesse senz’altro essere concesso36; invece, trasmettendo al ministro le pre-dette informative, non riuscì a reprimere il proprio zelo burocratico ilprocuratore generale, secondo il quale, «essendo la sede vescovile di Ge-race di regia nomina, per ottenerla a mio parere occorrerebbe che mon-signor mangeruva inoltrasse più formale dimanda, mentre quella orainoltrata non racchiude una esplicita dichiarazione»37.ma questa volta il guardasigilli seppe assumersi la responsabilità dichiudere la pratica. per lui la dichiarazione inserita nell’ultimo capoverso dell’istanza del28 dicembre conteneva sufficientemente l’implicita ammissione del ve-scovo di accettare la legittimità del R. patronato e la richiesta conseguentedi essere presentato dal re per la cattedra di Gerace, e non c’era bisogno

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35 IvI, Il r. procuratore presso il tribunale di Gerace al procuratore presso la Corte d’Ap-pello di Catanzaro, Gerace 13 febbraio 1879.36 IvI, Il prefetto di reggio C. al procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Ca-tanzaro, reggio C. 26 febbraio 1879.37 IvI, Il procuratore Generale del re nelle Calabrie al ministro di Grazia e Giustizia, Ca-tanzaro 23 marzo1879.

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di altro. Si rivolse quindi al presidente del Consiglio di Stato: «monsignor Francesco Saverio mangeruva indebitamente nominato dal papa al vesco-vado di Gerace di regio patronato, al pari di altri vescovi che si trovano nella identica dilui condizione, ha fatto dimanda con la quale accennando al r. parronato su quella Sedevescovile, chiede implicitamente la nomina regia al vescovado stesso.essendo resultati favorevoli le informazioni ricevute sul conto del detto prelato, mi pre-gio di comunicare tutti gli atti all’e.v. perché si compiaccia di provocare sull’affare il pareredel Consiglio di Stato»38,ottenendo il seguente parere:«la Sezione,vista la nota del ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti in data 31 marzo 1879, div.3. Sez. 1. n. 5444, con cui si chiede il parere del Consiglio di Stato sull’istanza di monsignorFrancesco Saverio mangeruva per ottenere il r. exequatur alla provvisione pontificia chelo ha canonicamente investito della sede vescovile di Gerace, tenuta di regio patronato;visto il rapporto del procuratore Generale di Catanzaro con le carte annesse;Sentito il relatore;Considerato che monsignor Francesco Saverio mangeruva deliberatosi ad adempierele prescrizioni del regolamento approvato col r. decreto 23 Giugno 1871 in eseguimentodelle disposizioni contenute nell’art. 16 della legge dei 13 maggio stesso anno, detta delleguarentigie, ha presentato in copia autentica la provvisione pontificia del 6 maggio 1872,che lo ha canonicamente investito della sede vescovile di Gerace, con lettera dei 15 marzo1877, indirizzata al ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti, ha chiesto di essa provvisioneil r. exequatur per essere immesso nel possesso della mensa, ossia delle temporalità delvescovado di Gerace;Che con altra lettera indirizzata allo stesso ministro in data 28 dicembre 1878 ha rin-novato la detta richiesta soggiungendo che “poiché il medesimo conosce che dal r. Governola precennata sede (di Gerace) si ritiene di regio padronato, prega eziandio l’eccellenzavostra a prender quei provvedimenti che lo mettano in grado di poter senza ritardo edostacoli esercitare il suo pastorale ministero al maggior bene delle anime;Che il prelato con le surriferite espressioni non solo riconosce la sovranità del regno,ma nel fatto speciale del r. patronato, a cui si ritiene sottoposta la sede di Gerace, mentrelascia impregiudicata la relativa quistione, ravvisa che allo stato attuale delle cose occor-rono de’ provvedimenti da parte del Governo del re, da promuoversi dal ministro di Graziae Giustizia e dei Culti, provvedimenti che non possono consistere se non nel decreto diregia presentazione o nomina, che avrebbe dovuto precedere la instituzione pontificia edi cui le surriferite espressioni contengono implicitamente la domanda;Che, posto ciò, non è da richiedere, come presumerebbe il procuratore Generale pressola Corte d’Appello di Catanzaro, che da monsignor mangeruvva se ne faccia formale do-manda, bensì nel caso di lui è da operare in forza degli argomenti e secondo i modi ches’ebbero presenti e si seguirono nel caso di parecchi altri prelati investiti canonicamentedi sedi arcivescovili e vescovili tenute di regio patronato senza che precedesse la regiapresentazione o nomina, argomenti e modi esposti in parecchi pareri di questa Sezione erecentemente in quelli emessi nell’adunanza del 21 marzo p.p. per l’Arcivescovo di Amalfie pel vescovo di policastro, ai quali si conformarono i posteriori dati nella successiva adu-

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38 IvI, Il ministro di Grazia e Giustizia al presidente del Consiglio di Stato, roma 31 marzo1879.

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nanza del 28 marzo per l’Arcivescovo di otranto, il vescovo di Bovino ed altri;Che resulta dai ragguagli raccolti dal procuratore Generale di Catanzaro sulla condottamorale e politica di monsignor Francesco Saverio mangeruva «ch’egli è fornito di evange-liche virtù ed attende al suo apostolico ministero con zelo benefico, e che si è mostratosempre ossequiente alle autorità e benevolo verso il regio Governo, anzi è universalmentetenuto per amico delle libere instituzioni»:per queste considerazioni è stata d’avviso che il r. exequatur chiesto da monsignorFrancesco Saverio mangeruva alla provvisione pontificia che lo ha canonicamente investitodella sede vescovile di Gerace, tenuta di r. patronato, possa essere concesso fatta menzionenell’apposito decreto di quello della r. presentazione o nomina ottenuta dal prelato permezzo del ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti con aggiunta alle consuete la clausolasenza tratto di conseguenza39.Con tale parere, la spinosa questione di un vescovo che nella cattedraledi Gerace (ma anche in giro per la diocesi) operava con il pieno consensodel diritto canonico, ma, fuori, nelle strade e negli uffici, era civilmente invi-sibile, era finalmente risolta; anzi, mancavano i due decreti indicati dal Con-siglio di Stato ed essi, evidentemente dopo l’espletamento di altre formalità(delle quali non abbiamo documentazione, ma che verosimilmente consi-stettero nella raccolta di ulteriori informazioni sul prelato nella sua terra diorigine ed in Gerace40), che comportarono altri tre mesi di attesa41, furonoemessi entrambi nello stesso giorno, il 24 luglio 1879, prima quello della«presentazione e nomina regia di monsignor mangeruva alla sede di Ge-race», che, sfiorando il ridicolo, dato che monsignor mangeruva era vescovoormai da sette anni, ma salvando la forma (ma, a dire il vero, anche la so-stanza della salvaguardia di un diritto pur ormai anacronistico), recitavaquanto segue:«umberto. Sulla proposta del nostro Guardasigilli, abbiamo decretato e decretiamo:Art. unico.In virtù del nostro regio patronato, nominiamo monsignor Francesco Saverio mange-ruva, dietro sua domanda, vescovo di Gerace.Copia autentica del presente decreto sarà rilasciata dato a roma addì 24 luglio 1879.umberto»42.

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39 IvI, Consiglio di Stato, Sezione di Grazia e Giustizia e dei Culti, Adunanza del 9 aprile1879.40 Ciò era richiesto normalmente per la presentazione regia e la concessione del r. exe-quatur, come documentano, nella ripetutamente citata busta dell’ACS le pratiche relativealle nomine dei successori del mangeruva, i vescovi Giorgio delrio (1906-1921) e GiovanBattista Chiappe (1922-1951).41 durante i quali, tra le carte della nostra busta sono attestati parecchi interventi, sol-lecitazioni e raccomandazioni, specialmente attraverso il comm. Semola, direttore Supe-riore presso il ministero di Grazia e Giustizia e buon amico di un fratello del mangeruva,Antonio.

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dopo tale decreto, di seguito poté essere emesso l’altro, del tenore se-guente:«umberto. vista l’istanza di monsignor Francesco Saverio mangeruva diretta ad ottenere il r. exe-quatur alla bolla pontificia con la quale è instituito canonicamente nel vescovado di Ge-race;visto il nostro decreto di questo medesimo giorno col quale il predetto monsignorFrancesco Saverio mangeruva è nominato al vescovado suddetto in virtù del nostro regiopadronato;visto l’art. 16 della legge 13 maggio 1871 n. 216;visto il r.d. 25 giugno 1871 n. 320;Sentito il parere del Consiglio di Stato,Sulla proposta del nostro Guardasigilli abbiamo decretato e decretiamo:Art. unicoÈ concesso il r. exequatur alla bolla pontificia con la quale monsignor Francesco Save-rio mangeruva, nominato col menzionato nostro decreto vescovo di Gerace, è instituito ca-nonicamente nel vescovato stesso, salve le leggi dello Stato e le ragioni dei terzi e senzatratto di conseguenze.Copia autentica del presente decreto sarà rilasciata al suddetto prelato per gli effettidi legge.dato a roma, addì 24 luglio 1879. umberto»43,alla luce del quale monsignor mangeruva poté finalmente tirare anche luiun sospiro di sollievo e proseguire l’esercizio del suo ministero vescovilecon la piena approvazione anche del potere civile.* * *A riprova della volontà governativa di porre la parola fine sulla que-stione, i due decreti furono trasmessi agli uffici periferici e a monsignormangeruva con sorprendente celerità, appena due giorni dopo44, mettendoil vescovo di Gerace nella condizione di chiedere finalmente la disponibilitàdelle temporalità – cioè dei beni e delle rendite della mensa vescovile45 –e la restituzione dell’episcopio.

la nomina dei vescovi delle diocesi meridionali nell'Italia unita. Il caso di monsignor...

42 ACS, Min. Interno, Affari di Culto, b. 88, fasc. 113, decreto di umberto I, roma 24 luglio1879.43 IBIDEM.44 I due decreti furono trasmessi il 26 luglio 1879 al procuratore Generale presso laCorte d’Appello a Catanzaro, al r. economo Generale de’ Benefizi vacanti per le provinceNapoletane a Napoli, al prefetto di reggio Calabria e a monsignor mangeruva.45 la mensa vescovile, durante la ventennale amministrazione del r. demanio, era stata“convenientemente” alleggerita di beni «per valore di oltre 280 mila lire», che erano stativenduti verosimilmente con gli stessi criteri adottati dalla famosa Cassa Sacra dopo il 1783.Questa informazione è fornita da una relazione non firmata né datata, ma posteriore almese di giugno del 1880, conservata in ACS, Min. Interno, Affari di culto, b. 88, fasc. 113.

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Questo fu restituito nel mese di marzo del 1880, non appena furono re-periti locali idonei a trasferirvi i r. Carabinieri che l’occupavano, ma è facileimmaginare in che condizioni fosse ridotto dopo venti anni di utilizzazionecome caserma!46. Fu così che monsignor mangeruva dovette intraprendereun lungo contenzioso per ottenere il risarcimento dei danni subiti dall’edi-ficio. Anche questa faccenda è documentata nelle carte ormai ben note del-l’ACS, ma potrà eventualmente essere oggetto di qualche altro saggio.

enzo d'Agostino26

46 Nella relazione citata nella nota precedente è scritto: «Non esistono che mura sdru-cite, senz’alcun mobile, col soffitto fradicio per le acque grondanti, in qualche parte caduto,il tetto pericolante».

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PremessaGli arbëresh della calabria nel movimento di rinascita nazionale alba-nese, sulla scia dell’esperienza risorgimentale italiana, rivelarono una pre-gevole maturità politica pronta non solo a recepire le idee e i modellipropri dei movimenti nazionali europei dell’ottocento ma altresì ad anti-cipare quegli stessi ideali e modelli provenienti dalle società più avanzateeuropee lasciando «a testimonianza un risultato cumulativo significativo, che valse ad anticipare il processodi autodeterminazione interno albanese e, di conseguenza, a risvegliare per primi la co-scienza nazionale degli skjipëtari, un effetto esterno di Nation-Building che si tradussenell’ambito dei movimenti risorgimentali balcanici nientemeno come un unicum (nota aeccezione dei valacchi della romania)»1.Se questi arbëresh possono pertanto annoverarsi tra gli iniziatori del mo-vimento risorgimentale skjipëtaro, Girolamo De rada fu di certo il loro pre-cursore, il quale, nel quadro del movimento risvegliante coscienzial-politico,con «l’albanese d’Italia», edito a Napoli nel 1848, si fece di fatto portavocedella questione albanese divenendo un personaggio centrale nel campo dellastampa filo albanese in europa2. Poste queste premesse, per una maggiore

La Stampa politicadegli arbëreshe di Calabria per l’Albania

(ottobre 1895-marzo 1913)

Francesco Fabbricatore

1 FraNceSco FaBBrIcatore, I calabro-arbëresh tra il Risorgimento italiano e la RilindjaKombëtare Skjipëtare (Rinascita Nazionale Albanese), in «rivista calabrese di Storia del'900, 1, 2012, p. 8.2 In unione agli intellettuali della diaspora albanese in romania e costantinopoli, a ini-ziare da Naum Veqilharxhi (1797-1854). a significare l’importanza di Girolamo De rada edegli intellettuali arberesh tra il XVII e XIX secoli cfr. Gli Arbëreshë d’Italia per la rinascitadell’Albania tra XVII e XIX secolo: parallelismi con altre diaspore di area balcanica, in FraN-ceSco altImarI (a cura di), Studia Albanica, akademia e Shkencave e Shqiperise, tirana 2012,pp. 129-143; Id., Napoli, vatër rëndësishme e Rilindjes arbëreshe dje shqiptare (shek. XVIII-XIX), in lIljaNa reçka et al. (a cura di), Një Rilindje para Rilindje, Gjrokastër Universiteti:«eqrem cabej», Gjrokastër 2014. Sull’origine dell’albanismo arbëreshë si veda matteo maN-Dalà, Mundus vult decipi. I miti della storiografia arbëreshe, a.c. mirror, Palermo 2007.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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determinazione ideologica e politica degli italo-albanesi per la questione al-banese invece occorre attendere l’ultimo decennio del XIX secolo, quandoquegli uomini facenti parte della generazione post risorgimentale italianamaturarono il problema-riscatto albanese con la questione d’ oriente, daltrattato di Berlino (1878) in poi, facendo leva essenzialmente sulla stampae sulla pubblicistica. Quanto alla stampa arbëreshë pro albania, assieme allapubblicistica, dichiaratasi da un lato, per una linea politica indipendentistao azionista, dall’altro, autonomista o moderata ebbe piena coscienza del pro-blema skjipëtaro: dal carattere generale della crisi che viveva il Grande Am-malato (l’impero turco), alla questione del principio di autodeterminazionedella etno-nazionalità albanese, dalla soggezione di una struttura di predo-minio a sostituzione di quello ottomana alla richiesta di una latinità adriaticaitalo-albanese. dall’orientamento politico delle Potenze al potenziamento diuna solida voce albanese nell’opinione pubblica europea, dalla discussionesu varie alleanze attraverso «colloqui federativi» o confederali al fermentodi un riscatto storico di una compagine nazionalitaria considerata nel con-testo balcanico ancora del tutto “res nullius”3. all’interno del processo d’iden-tificazione arbëreshë in rapporto alla Rilindja kombëtare skjipëtare,(Rinascita nazionale albanese), tra l’altro, si sviluppò una sorta di storicismoe di giuspublicistica italo-albanese, che nel corso dei quali tentarono dalpunto di vista concettuale di avvalorare dinamiche d’appartenenza connessea coefficienti comuni quali, la storia, la lingua, la razza, il suolo (o suoli). circala Çestja e Shqiperisë (questione d’albania), a scandire invece gli obiettiviprecipui nella stampa arbëreshë dell’epoca ritroviamo anselmo lorecchiodi Pallagorio, terenzio tocci di San cosmo albanese, orazio Irianni di lun-gro, michele marchianò di macchia albanese, agostino ribecco di Spezzanoalbanese e così via discorrendo, i quali perseguirono un’idea di nazionalità,o per meglio dire, difesero a oltranza l’esistenza dell’albania e il suo legittimocorollario, l’indipendenza dello stato albanese e, in pari tempo, rivendica-rono territori verso la Grecia, la Serbia, la Bulgaria il montenegro e la na-scente macedonia sulla base di un nuovo e naturale assetto politico-territoriale balcanico. Se il processo storico denominato Rilindja kombëtareskjipëtare si concluse in un certo qual modo con la formazione del GovernoProvvisorio a Valona il 28 novembre 1912, nel corso dei mesi successivi sul

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3 Non si può non rilevare che a differenza dell’arbëria letteraria, nella stampa politicaarbëreshë dell’epoca non si argomentò di albanesità utopica come «luogo mentale e deter-ritorializzato, senza confini, senza limiti», quanto di shqiptaria corporea, nel senso di pro-gettualità e di configurazione «nazionalitaria» anche su base geo-confinaria. cfr. FatoSDINGo, Identità albanesi: un approccio psico-antropologico, Bonanno, arcireale 2007, p. 163.

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piano politico-istituzionale emerse una incompiutezza, intesa a identificarsinei requisiti di un failed State prima della sua effettiva nascita.Sulla scia di tali avvenimenti, a cavaliere tra il congresso albanese ditrieste (1-4 marzo 1913) e la conferenza degli ambasciatori a londra (29luglio1913), ritroviamo in prima linea ancora una volta i calabro-arbëresh,che in un forte clima d’attesa ripresero, a colpi di articoli giornalistici enon solo, a confrontarsi con l’opinione pubblica europea su conformazioneistituzionale, territoriale, politica e ideologica, naturalmente, a favore del-l’integrità e unitarietà dello Stato nazionale albanese4.In ultima esamina, nella Bildung nazionalitaria albanese, i rilindasit(esponenti) arbëresh della seconda generazione ottocentesca acquisirono piùmarcatamente la coscienza di «doppia nazionalità», nel considerarsi sia «figli del-l’Italia», sia «shkjpetari d’Italia» appartenenti a una “Kombësi” (etno-nazionalità)integrante e naturale dell’albania-Nazione, manifestando sul piano ideologico lapropria identità comunitaria entro la shqiptaria (albanesità) attraverso tre ele-menti fondamentali comuni l’origine, il sangue e la lingua.In Calabria e a Napoli tra il 1895 e il 1898Negli anni Novanta del XIX secolo, sul terreno dell’associazionismo siveniva strutturando una nuova forma di movimento italo-albanese conpremesse culturali e politiche che si intrecciarono viepiù con la questionealbanese. Nasceva così presso il liceo Garopoli, in corigliano calabro (1-3ottobre 1895), per iniziativa di un comitato provvisorio sotto la presidenzadi G. De rada, la Società nazionale albanese5, che seppur accompagnò il

la Stampa politica degli arbëreshe di calabria per l’albania (ottobre 1895- marzo 1913)

4 È bene precisare però che questi intellettuali della seconda generazione ottocentesca ocosiddetta seconda fase della Rilindja arbëreshë (1895-1913), espressero uno storicismo so-stanzialmente pubblicistico-giornalistico e non storicistico di mestiere, poiché non presen-tarono né un vero metodo storico, né tantomeno una critica storica come la concepiamo oggi.5 Sul congresso organizzativo e sugli iniziali orientamenti della Società nazionale alba-nese cfr. aNSelmo lorecchIo, La Società Nazionale Albanese, in «la Nazione albanese», 15gennaio 1897, I, 1; ID., , IVI, IX, 1, 1906; [ID.], Congresso linguistico albanese, in «Il calabro»,8 ottobre, XXVII, 97, 1895; ID., La Questione Albanese, tipografia economica, catanzaro1898, pp. 1-12; GerarDo coNFortI, L’Albania e gli Stati Balcanici (scritti vari), Stab. tip. S. am-mirato, lecce 1901, pp. 20-21. Sempre sull’associazionismo arbëresh, a Palermo nel 1893sorse e si protrasse per alcuni anni la Società nazionale albanese, con sezioni in tutti i co-muni arbëresh della Sicilia. ricostituitasi il 13 luglio 1902 cambiò nome in Lega nazionalealbanese e in seguito Lega nazionale albanese di Skanderbeg nel 1912. GaetaNo Petrotta,Popolo, lingua e letteratura albanese, tip. Pontificia, Palermo, 1932, p. 496; roSolINo Pe-trotta, Gli albanesi di Sicilia. Discorso tenuto a Palermo nel Seminario Italo-Albanese il 25ottobre 1939, s.d., s.l. [ma Palermo], pp. 37-40.

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movimento ad allargarsi e di non identificarsi solo col suo maggior espo-nente, De rada, non trovò nell’immediato una libera e aperta espressionesul problema albanese a causa dell’indirizzo intrapreso dalla consulta (mi-nistero degli affari esteri) per l’albania e, in senso più largo, per la penisolabalcanica, favorevole al mantenimento dello status quo geo-politco6. Nelquadro di questo movimento teso a uno sviluppo organizzativo troviamoquale esponente trainante nonché infaticabile, anselmo lorecchio di Pal-lagorio, che prese seriamente l’incarico di preparare una rete divulgativafilo-albanese e si mise in corrispondenza con giornali italiani ed europei7. risolutamente contrario alle pretese dell’austria-Ungheria sulla futuribilealbania, posizione alla quale si attenne fin dall’estate del 1895 attraverso e,anzi tutto, la «Giostra» e «Il calabro», lorecchio scese in polemica o quasi condiverse testate italiane ed estere dell’epoca. Il 16 novembre 1895, si era se-gnalato a causa di alcune illazioni che discendevano da un «dispaccio daroma» e riportate il 13 novembre nel «corriere di Napoli», in cui si riferivache la turchia temesse l’Italia, e valutasse che questa avrebbe accampato di-ritti sulla tripolitania e sull’albania, nello stesso tempo forniva un parere ri-guardo alle reali intenzioni del governox italiano sull’albania, assegnandoleun minor interesse rispetto alla tripolitania, terra in cui si inviavano truppee non frati francescani, dando così per imminente lo smembramento dell’im-pero turco e un ufficioso passaggio dell’albania all’austria. lorecchio in risposta all’articolo sopraindicato, partì da un postulatoimprescindibile, che i principi di nazionalità erano garantiti dal diritto pub-blico internazionale e che sarebbero stati prima o poi riconosciuti all’ l’al-bania, laddove come sostenitore del principio di nazionalità. aveva perfermo che i 200.000 italo-albanesi residenti nelle varie colonie dell’Italiaavrebbero costituito una sia un valido aiuto per l’applicazione di quel prin-cipio che un naturale trait-d’union all’Italia8. Davanti alla crisi africana e

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6 Per le analogie e i contrasti tra l’Italia e l’austria in relazione all’albania lungo il pe-riodo 1895-1913, cfr. aleSSaNDro DUce, L’Albania nei rapporti italo-austriaci (1897-1913),Giuffrè, milano 1983; GIamPaolo FerraIolI, Politica e Diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo.Vita di Antonino San Giuliano (1852-1914), Soveria mannelli, rubbettino, 2007; eNNIo ma-SeratI, Momenti della questione adriatica (1896-1914). Albania e Montenegro tra Austria eItalia, Del Bianco, Udine 1981.7 Nella sua interminabile propaganda pro albania, prese contatti con esponenti dellecolonie albanesi di romania, egitto, Grecia, macedonia, Bulgaria, costantinopoli e delleameriche e per quanto in maniera non sistematica e organica, in si incaricò di fare lo spo-glio dei giornali austriaci, rumeni, tedeschi, greci, francesi, inglesi e italiani, che argomen-tassero direttamente o indirettamente degli albanesi.8 Sulle posizioni di lorecchio nei confronti dell’austria e dell’Italia cfr. aNtoNIo D’aleSSaN-DrI, Gli albanesi, l’Adriatico e l’Italia tra fine Ottocento e primo Novecento. L’opera di Anselmo

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circa gli spazi di manovra espansionistica da sfruttare per l’Italia, negli «ar-ticoli calabresi» di lorecchio veniva dato, nei mesi che vanno da novembre1896 all’inizio del 1897, sempre più rilievo all’austria-Ungheria, la quale siera apertamente proposta come protettrice dell’albania. tra gli articoli piùindicativi che esprimevano le sue posizione sull’austria vi è quello apparsosu «la Giostra» di catanzaro il 20 novembre 1896, con cui entrò in polemicacon il redattore del «Fremden Blatt» B. molden. Questi, con uno scritto ap-parso sul giornale tedesco «Preussische Iarhbücher», sosteneva che l’au-stria-Ungheria, dopo l’imminente confinamento della turchia in un piccolostato asiatico, avrebbe desiderato «una specie di protettorato sopra una re-pubblica federativa albanese [...] una specie di protettorato lieve»9.che l’austria non nutrisse mire sull’albania dopo la caduta della turchia,l’arbëresh di Pallagorio non ne era affatto convinto, e ribadì che le parolescritte dallo «herr molden» avrebbero avuto tutti i motivi di presentarsiall’opinione pubblica germanica ed europea.Secondo il giudizio di lorecchio, l’impostazione dello scritto di moldenesprimeva chiaramente le idee del Ballplatz (ministero degli affari esteri)e dava a intendere che l’albania fosse destinata «a completamento dell’Im-pero austriaco»...una posizione che poggiava sul presupposto che esistessegià un piano di estensione dell’impero d’asburgo nei Balcani e che contem-plasse altresì l’annessione della Bosnia erzegovina e del vilâyet di Saloniccocome una copertura dell’imperialismo asburgico, la cui condizione di vesteprotettrice d’albania non sarebbe stato altro che cercare di «indorare la pil-lola» a chi fosse stato contrario a tale velleità annessionistica, a iniziare pro-prio dagli italiani che conobbero bene la dominazione austriaca10. Per lorecchio «tutte le quistioni connesse al problema orientale» avreb-bero dovuto essere dibattute e chiarite», e a una più attenta valutazione dellecose skjipëtare sarebbe dovuto restare l’Italia, che per mezzo di «una politicaveramente italiana nell’adriatico», poteva saldare intorno a sé anche l’ im-plementazione di un complesso nazionale unitario albanese11. Quel che era

la Stampa politica degli arbëreshe di calabria per l’albania (ottobre 1895- marzo 1913)

Lorecchio, in aNtoNIo D’aleSSaNDrI e monica Genesin (a cura di), Romània Orientale, XXII, Ba-gatto libri, roma, 2009, pp. 79-92; aNSelmo lorecchIo, Il pensiero politico albanese in rapportoagli interessi italiani, Tipografia operai romana, roma, 1904; FraNceSco FaBBrIcatore, Il con-tributo arbresh alla questione albano-balcanica, Grafica Pollino, castrovillari, pp. 58-68.9 lorecchio apprese il contenuto dell’articolo tedesco, com’era di consuetudine all’epoca,attraverso il «Patris» di Bucarest,giornale edito in greco, e trasse il sunto delle parole delredattore austriaco quale voce del governo di Vienna. cfr. «la Giostra», 20 novembre 1896,a. II, n. 83 e aNSelmo lorecchIo, La Questione Albanese, tipografia economica, catanzaro1898, pp. 151-155. l’insieme di questi articoli composero La Questione Albanese (1898).10 cfr. a. lorecchio, La Questione Albanese cit,. p. 16511 cfr. «la riforma» 29 luglio 1896, XXX, 213 (cit. in La Questione Albanese, pp. 83-90).

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più attinente all’Italia, a suo modo di vedere, era che questa rivolgesse le sueattenzioni su quadri territoriali più propri e puntasse a una maggiore poli-tica di inorientamento, verso la regione balcanica e adriatica, e riprendevacome motivi i tanti destini che si andavano maturando nella penisola balca-nica a iniziare da quello dell’albania. Davanti a questa prospettiva, tra gli ele-menti dominanti delle sue prese di posizione diventò pertanto la questionealbanese in rapporto all’adriaticizzazione dell’Italia, la quale dal punto divista storico, geografico e politico, costituiva il nucleo attorno al quale crearecondizioni adatte per il conseguimento del principio di nazionalità, che erail «sostrato e fondamento dello Stato moderno»12. a seguire da presso le vicende albanesi troviamo anche Francesco chi-nigò, il quale diverrà tra luglio del 1899 e gennaio del 1901, un inviato spe-ciale in albania e nel montenengro de «la Nazione albanese»13. chinigò in alcuni articoli inviati a «Il resto del carlino» e a «la Nazione

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12 a. lorecchio, Albania, avanti!, «Il Popolano», 27 agosto 1896, a. XIV, n. 13.13 Nato a San Giorgio albanese o Mbuzati (cS) il 9 aprile 1866, da angelo, di professionebettoliere, e da Scavello maria Giuseppa. Nel 1894 si laureò a Bologna in scienze matema-tiche, fisiche e naturali (?). Dal 1899 al 1901 poté esercitare le sue qualità di naturalista inalbania mentre nell’aprile 1903 (giorni 1-9) partecipò al congresso internazionale dellescienze storiche tenutosi a roma come socio aderente. Nel prosieguo degli anni collaboròcon varie organizzazioni culturali tra cui l’istituto idrografico di Genova, divenne ispettoregenerale delle FF. SS. e si affiliò alla massoneria scozzese di rito antico e accettato in qualitàdi Gran segretario. entrò a far parte della rete informativa del Governo italiano, conobbepersonalmente il Gospodar Danilo II del montenegro (questi probabilmente gli consegnòuna discussa onorificenza), il principe Wied e il re Zog. Il 6 giugno 1914 fu arrestato in al-bania con il colonnello Vincenzo muricchio (altro arbëresh di Portocannone inventore delfucile “91“), ma subito furono scagionati. Sull’interesse alla questione albanese, entrò nelconsiglio direttivo della Società nazionale albanese e prese parte ai congressi, II linguisticoalbanese tenutosi a lungro (20-21 febbraio 1897, come rappresentante del comitato “Procivitate” di Bologna, III congresso linguistico di Napoli (21-24 aprile 1901) e di trieste (1-4 marzo 1913). come cultore dell’albania pubblicò I Mirditi (in «Bollettino della SocietàGeografica italiana», fasc. III, roma, 1909) e Relazione sulle condizioni attuali dell’Albania,Usi e costumi d’Albania. La Legge d Montagna. Il Codice del Sangue (milano, 1926). morì aroma il 1952. cfr. registro delle nascite del comune di San Giorgio albanese, a. 1866, attonr. 11; Francesco chinigò, Impressioni di viaggio, in «la Nazione albanese», 31 luglio 1899,a. III, n. 14; ID., Impressioni di viaggi, IVI, 15 e 31 agosto, 15 e 30 settembre 1899, a. III, nn.15,16, 17,18; ID., I pericoli dell’Albania, IVI, 30 novembre, a III n. 22; ID.,Da Cetinje ad Antivari,IVI, 15 agosto 1900 a. IV n. 15; ID., [lettera ad anselmo lorecchio], IVI, 15 ottobre 1900 a.IV n. 19; atti del congresso internazionale di scienze storiche (roma 1-9 aprile 1903), vol.1, tipografia della r. accademia dei lincei, roma, 1907, p. 39; a. lorecchIo, in «la Nazionealbanese», 31 marzo 1897, suppl. al n. 6, anno I; GIoVaNNI laVIola, Dizionario bibliografico,Brenner, cosenza 2006, pp. 83-84; tereNZIo toccI, Diftime e vrime mi Kongres Shqyptaart’Triestës (Resoconto e note sul Congresso Albanese di Trieste), s.l., Scutari 1913, p. 24.; VIN-ceNZo mUrIcchIo, Ricordi d’Albania, Industria Grafica Puteolana, Pozzuoli 1935; «la città diBrindisi», 8 marzo 1914, a. XV, n. 8.

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albanese» (dal 1895 al 1897), si soffermò sul movimento arbëresh perl’albania in Italia e sulla politica montenegrina in rapporto agli albanesi.Per quanto concerne il primo scritto, il giovane arbëresh rispose al gior-nale bolognese sulla propaganda pro albania che stava svolgendo all’epocail comitato di Pallagorio, che era da considerarsi come un’attività naturalee spontanea presso gli albanesi delle colonie d’Italia, tra l’altro sempre sus-sistita seppur non si formò alcun comitato con «sede fissa», ed esprimeval’idea di quanti affermavano che l’Italia avrebbe potuto aiutare gli albanesia liberarsi dal dominio turco, prendendo a titolo esemplificativo «il me-moriale coperto da 60 mila firme» presentato all’arbëresh crispi (all’epocaal potere), nel quale si invocava l’intervento italiano in albania e «si man-dasse un principe del sangue a costituirvi un Principato»14.Sui restanti interventi sopraindicati, relativi alle tendenze nazionali mon-tenegrine che si svilupparono ai confini con i territori a maggioranza alba-nese, svolse i motivi sul conflitto scoppiato fra «albanesi e vasojevici» deldistretto di Berana, che ebbero come cause centrali da un lato, il trattato diBerlino e il tentativo di ricomporre la «vecchia crnagora», dall’altro, gli aiutidella russia sempre più intenta a voler «spianare lo slavismo» nei Balcani,anche se pur tuttavia arrivava a considerare più pericolosa per gli albanesil’austria, la quale con la sua la politica sulla penisola balcanica e i suoi mo-vimenti militari presso il vilâyet di kossovo, rivolgeva minacce serie, e neicui confronti non tralasciava di menzionare la potente rete di emissariasburgici, alcuni dei quali, furono inviati anche a Napoli per confondere leconvinzioni degli esponenti delle colonie albanesi d’Italia15. Sul nascere del1897, in calabria e nella città di Napoli si provò a dare nuovi impulsi all’as-sociazionismo e alla stampa arbëreshë per l’albania. Dopo alcune settimanedi fase preparatoria, a lungro ebbe luogo il secondo Congresso linguisticoAlbanese (20-21 febbraio 1897), nel quale vennero modificati alcuni conte-nuti del programma stabilito a corigliano calabro. Durante lo svolgimentodei dibattiti tenutisi nella sala De marchis del municipio, si decise di spostarela Società nella stessa lungro e di dotarsi di una rivista, che prese il nomede «la Nazione albanese», che di fatto si sostituì a «Il calabro», divenendoil suo organo informativo16. Procedeva al tempo stesso su proposta di ca-

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14 cfr. [s. a], L’Italia e l’Albania, in «Il resto del carlino», 16 dicembre 1895, n. 350; F.chinigò, L’Italia e l’Albania, in «Il resto del carlino», 23 dicembre 1895, n. 357.15 F. chinigò, Albanesi e Montenegrini, «Il resto del carlino», 12 settembre 1896, n. 256;ID., Conflitto albanese montenegrino, in «la Nazione albanese», 30 giugno 1898, a. II, n. 12.16 lorecchio diresse e rimase proprietario de «la Nazione albanese» dal 15 gennaio1897 al 22 marzo 1924 (data della sua morte), dando alle stampe interrottamente quasitutti i numeri. Il quindicinale venne stampato a catanzaro presso l’officina operaia G. caliò

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millo Vaccaro, con il sostegno di raffaele De marco e angelo Dramis, la so-spensione dell’art. 10, senza il quale venivano così a mancare le restrizionidi organismo politico, mentre sulle cariche si avanzarono la candidature dilorecchio a presidente e di Vaccaro quale segretario, entrambi (assieme alconsiglio direttivo) eletti «per acclamazione»17.Di lì a qualche mese, nella primavera del 1897, circa un’ottantina diitalo-albanesi residenti a Napoli, desiderosi di porsi su un terreno più de-cisionista, si fecero promotori della formazione di un «comitato assoluta-mente politico», attraverso il quale chiedevano di «rispecchiare esecondare l’azione» degli albanesi al di là dell’adriatrico e di far leva suun’azione continua e perseverante, e lo «sviluppo delle relazioni politichetra la madre patria e le popolazioni albanesi d’ Italia, al fine di concorrerealla ricostruzione autonoma della nazione albanese nei suoi confini natu-rali (art. 1)», e il realizzare una Lega fra gli albanesi d’Italia anche il comi-tato politico di Napoli si dotò di un organo d’informazione diretto daGennaro lusi, ‹la Nuova albania», in cui presero a scrivere articoli, Ferdi-nando cassiani, agostino ribecco, Francesco mauro e altri18.Politica arbëreshë per l’Albania tra Roma, Calabria e Argentina (1889-1910)Nel corso del tempo che va dal 1899 al 1905, l’opera del movimento filoalbanese e in particolar modo dei rilindasit arbëresh assunse una forma piùallargata, che ebbe nella città di roma il centro di azione culturale e politicafilo-albanese più dinamico. Nella città capitolina, ad aprile del 1900, nascevaa opera di lorecchio il comitato nazionale albanese che si modellò come co-mitatomoderato o autonomista, portando avanti il programma della Società

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sino al 31 dicembre 1903 e di lì a qualche settimana (gennaio 1904) in roma nella tipo-grafia operaia romana, la cooperativa tip. laziale e altre ancora.17 Sullo statuto della Società e sui convenuti al congresso lungrese cfr. [a. lorecchIo], IlCongresso linguistico Albanese, in «la Nazione albanese», 28 febbraio 1897, a. I, n. 4; ID., 2°Congresso linguistico Albanese in Lungro, in «la Nazione albanese», 31 marzo 1897, a. I,suppl. al n. 6; IVI, 31 gennaio 1897, a. I, n. 2.18 alla composizione del consiglio direttivo, sorto il 6 maggio, del 1897 presero parte iseguenti calabro-arbëresh: attanasio Dramis di San Giorgio abanese, gli avvocati GennaroPlacco, Francesco mauro, luigi masci e Giuseppe marchianò rispettivamente di civita, SanDemetrio corone, Santa Sofia d’epiro e Spezzano albanese, in qualità di consigliere, l’avv.Vincenzo Strigari di Santa Sofia d’epiro, quale tesoriere. tra gli scopi precipui del comitatoarbëresh di Napoli..provvedere allo sviluppo delle relazioni politiche tra la madre-Patriae le popolazioni albanesi d’Italia, al fine concorrere alla ricostituzione autonoma della Na-zione albanese nei suoi confini naturali». cfr. GerarDo coNFortI, L’Albania e gli Stati balcanici.Scritti vari, Stab. tip. Scipione ammirato, lecce 1901, p. 7.

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per l’unità politica e amministrativa dello stato albanese, avente come «pa-rola d’ordine preparazione, non provocazione»19. Di lì a qualche mese (mag-gio 1900), una parte degli aderenti al neo comitato romano col rifiutare lacaratterizzazione politica moderata fondò La lega albanese Pro Patria, dici-tura che si abbreviò qualche tempo dopo in Pro Patria20. Strutturatosi su unalinea politica indipendentista o d’azione, il comitato Pro Patria di roma sitravasò nelConsiglio Nazionale Albanese (marzo 1904), che divenne il centrocoordinatore e propulsore degli ideali indipendentisti italo-albanesi. In que-sto quadro capitolino, nello stesso torno di tempo, a dare indirettamente te-stimonianze indicative nel campo giornalistico e non solo, a favoredell’albania sarà terenzio tocci di San cosmo albanese21.In questo quadro capitolino, nello stesso torno di tempo, a dare indi-rettamente testimonianze indicative nel campo giornalistico repubblicanoe non solo, a favore dell’albania sarà terenzio tocci (1880-1945) di Sancosmo albanese. Questi a differenza di lorecchio, che nel mondo giorna-listico filo albanese si espresse come giornalista-moderato, si manifestònelle funzioni di giornalista-agitatore, spinto dalla sua matrice mazzinianaradicale prestò particolare attenzione alla politica degli albanesi, ai doveridell’Italia e al principio di nazionalità attivandosi per la costruzione dellaTerza Italia e la rinascita della Seconda Albania secondo una visione “col-lettivista” rivoluzionaria. accompagnato dalla convinzione che i congressi

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19 a. lorecchio, Il Comitato nazionale in Roma, «la Nazione albanese», 15 aprile 1900,a. IV, n. 7.20 Il comitato Pro Patria ebbe nella «Gazzetta albanese» la sua voce politica e ideologica.Fondata e diretta nell’ottobre 1900 da manlio Bennici in roma, produsse pochi numeri: 1(1900), 2 (1901). Prese, con la collaborazione di terenzio tocci, a essere nuovamente pub-blicata il 25 ottobre 1904 divenendo organo del Consiglio nazionale albanese. cfr. «Gazzettaalbanese», 1 0ttobre, a. I, n. 1, 1900; [a.lorecchio], Giornali nuovi, «la Nazione albanese»31 ottobre 1904, a. VIII, n. 20.21 tocci trova l’esordio giornalistico fuori dalla calabria nell’estate del 1900, pubbli-cando nella rivista quindicinale di roma «la terza Italia», organo del partito mazzinianoitaliano fondato e diretto dal repubblicano e massone Felice albani. Nella sua ricostruzionedella Terza Italia, scrisse anche un articolo sulla questione sociale calabrese Il Contadinocalabrese. Com’esso viva all’alba nel nuovo secolo! «la terza Italia», 18 novembre 1900, a.I, n. 16. cfr. tereNZIo toccI, La Politica degli Albanesi e i doveri degli italiani, «la terza Italia»,19 agosto 1900, I, n. 3, Id., Per il principio di nazionalità., 20 febbraio e 20 marzo 1901, II,nn. 20 e 22. Sulla figura di tocci si veda FraNceSco caccamo, Odissea arbëreshe. Terenzio Toccitra Italia e Albania, rubbettino, Soveria mannelli 2012; FraNceSco FaBBrIcatore, TerenzioTocci: un esempio di mazzinianesimo rivoluzionario arbëresh per l’Albania, in «centenariodell’indipendenza dell’albania 1912-2012. l’influenza delle relazioni con l’Italia sulla na-scita della coscienza nazionale albanese», in «Il Veltro», lVI, 3-6, 2012, pp. 159-160; ID., Te-renzio Tocci. Un calabro-arbëreshe per il Risorgimento nazionale albanese (1900-1911), in«rivista calabrese di storia del ’900», 1, 2012, pp. 55-64.

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a sé stanti avrebbero portato a nulla di che, il giovane di Strigari sostenevae indicava formule pragmatiche e di azione precedute da una fase di orga-nizzazione e di impostazioni del lavoro di propaganda, un orientamentodi intransigenza che derivava dagli indirizzi ideali dettati da Giuseppe maz-zini. esaminando la linea della condotta arbëreshë per l’albania, tocci rim-proverò la scelta della «divisa letteraria» adottata dalla Società Nazionalealbanese e le formulazioni programmatiche autonomiste del comitato diNapoli e dell’annesso III congresso partenopeo, che continuavano a rima-nere alieni al «senso della realtà». a suo giudizio, a questa imperfetta con-sapevolezza di profondità nell’agire a favore della questione albanese, gli«Skjipetari delle colonie d’Italia» avrebbero dovuto agire assieme ai rap-presentanti dei fratelli d’albania, unirsi e convocare frequenti congressistrettamente politici, dai quali sarebbe scaturita una «politica rivoluzio-naria», la sola che poteva esprimere un’azione concreta per la nazionalitàalbanese. Dal canto suo in albania il varco del sentimento nazionale eragià aperto, anzi lo era sempre stato, semmai occorreva aiutare lo sviluppodella coscienza nazionale skjipëtara e, in pari tempo, persuadere l’opinionepubblica europea a scuotersi e agitarsi a favore dell’albania, soprattuttoattraverso quegli «elementi giovani», i quali sarebbero in maggior misurastati attratti da una pratica d’azione. Stando al criterio del giovane striga-rioto, in questa «politica rivoluzionaria» gli albanesi avrebbero dovuto ren-dersi più aggressivi contro l’austria nonché aggregarsi all’agitazione deirepubblicani, che si poggiava su posizioni avverse alla politica della tri-plice Intesa e alla pretesa dell’Italia per una conquista di suo conto.al percorso rivoluzionario includeva altresì l’adozione conveniente dirimanere «sulla difensiva», quella sulla quale, non si doveva fomentareodio in terre come la macedonia e la tessaglia, altrimenti a rimetterci sa-rebbe stato soltanto il «povero popolo» incolpevole e non i governi degliStati contermini. Nel frattempo sempre in calabria, a rendere la sua con-vinzione di indipendentista radicale nello stesso periodo trova posto unaltro strigarioto di estrazione mazziniana, cosmo Serembe, il quale, as-sieme a un gruppo di intellettuali di Strigari, stendeva lo statuto della Gio-vine Albania, in cui espose gli intenti del programma politico che si ispiravaal «principio necessario dell’impostazione politica di mazzini» e che po-teva tradursi nella rivoluzione armata, condizione essenziale per liberarela nazionalità skjipëtara e permetterle di assurgere a Stato-nazione22. Nello

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22 cosmo Serembe (San cosmo albanese 1879 – milano 1938), avvocato e pubblicista. Intema albanistico scrisse nel 1898 Kënka Lirie (Canti di Libertà) pubblicato a Bucarest e LaSocietà Dituria e l’alfabeto nazionale (1902). cfr. F. FaBBrIcatore, Terenzio Tocci cit., p. 160.

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stesso senso di tocci, Serembe il 25 gennaio 1901, sulla «Gazzetta alba-nese», sosteneva l’esigenza di una maggiore concretezza sulla questionedei metodi e dei mezzi, giudicati inadeguati se non addirittura anacroni-stici, tacciando i moderati o legalitari di imperfetta consapevolezza dellaprofondità della problematica albanese23.a ogni buon conto, alla graduale politicizzazione della questione alba-nese nel primo lustro del Novecento, si accompagnò altresì la necessità discegliere un erede al trono d’albania «per l‘unità politica dello Stato alba-nese». Nella formazione dell’orientamento moderato arbëreshë, l’hidalgodi origine albanese juan de aladro castriota, venne considerato il preten-dente ideale, il quale, secondo le convinzioni di lorecchio, avrebbe riunitonumerosi capi skjipëtari nonché diversi comitati di provenienza albanese,laddove gli epigoni del comitato partenopeo si fecero invece sostenitori diun altro Giovanni kastriota, il marchese d’auletta «purissimo seme delleone» residente a Napoli24.Per il Consiglio Albanese d’Italia25, sorto nella primavera del 1904, le

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23 Si vedano lo Statuto della Giovane Albania (a cura dell’esecutivo Giovine Albania diSan cosmo albanese), Stabilimento tipografico del Popolano, corigliano calabro 1900;cosmo SeremBe, A proposito del nostro programma, in «Gazzetta albanese», 25 gennaio1901, a. II, n. 1.24 GIUSePPe SchIrò, Gli Albanesi e la Questione Balcanica, editori Bideri, Napoli 1904, pp.342, 377. Sulla propaganda di lorecchio per aladro (1901-1905) cfr. aNSelmo lorecchIo,S.A. Don Giovanni de Aladro Kastriota, in «la Nazione albanese», 15 dicembre 1901, a V, n.23; GIoVaNNI De alaDro, Il Proclama al Popolo di Albania, IVI, a. VI, n. 231, gennaio 1902; Ber-NarDo BIlotta, Joonit D’Aladro Kastriotit [poesia], Ibid., 30 aprile 1902, a. VI, n. 8; G. de ala-dro, Il proclama di S.A. Principe Giovanni Aladro Kastriota, IVI,31 marzo 1903, a. VII, n. 6; a.lorecchIo, S.A. il Principe Giovanni Aladro Kastriota e la stampa francese, IVI,30 aprile 1903,a. VII, n. 8; [FraNceSco lorecchIo], S.A. il Principe Giovanni Aladro Kastriota cittadino onorariodi Pallagorio, IVI,31 dicembre 1903, a. VII, n. 24; a. lorecchIo, Intervista col Principe Giovannid’Aladro Kastriota. Un discendente di Skanderbeg. Diplomatico e uomo d’azione. Un preten-dente?, IVI, 15 marzo 1905, a. IX, n. 5; ID., L’indipendenza albanese L’insurrezione prossima.Il principe Don Giovanni d’Aladro Kastriota, IVI, 31 maggio 1905, a. IX, n. 10; ID., Il pensieropolitico albanese in rapporto agli interessi italiani, tipografia operaia, roma, 1904,25 circa l’organizzazione nazionale albanese, manlio Bennici di Piana dei Greci (Pa) as-sieme a oreste Buono di acquaformosa, erano determinati a costituire comitati Pro Albanianelle maggiori città d’Italia. Si veda, [m. BeNNIcI], Comitati “Pro Albania”, in «la Nazione al-banese», 31 gennaio 1904, a. VIII, n. 2. al Consiglio nazionale albanese che ebbe in ricciottiGaribaldi l’uomo-cardine, aderirono tutte le maggiori personalità arbëreshë dell’epoca, adeccezione di Giuseppe Schirò e di anselmo lorecchio, quest’ultimo sempre più convintoche la maturità dei tempi per un’azione militare in albania non potesse sussistere ancorae che l’ambiente italiano, sebbene generoso nell’affrettare gli eventi, rimanesse diverso daquello in cui viveva il popolo albanese. Su ricciotti Garibaldi attraverso «la Nazione alba-nese», si leggano, oraZIo IrIaNNI, Il generale Ricciotti Garibaldi e gli Albanesi, in «la Nazionealbanese», 30 settembre 1899, a. III, n.. 18. [mIcelI], Ricciotti Garibaldi e la Questione Alba-

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preoccupazione dominanti si addensavano attorno al muoversi in spazipiù politici allo scopo di ottenere una maggiore sensibilità governativa e,parimenti, in quelli economici nel riscattare beni immobiliari con le rela-tive «rendite vistose» al fine di organizzare un corpo di spedizione di 30-50.000 uomini da inviare in albania26. all’esigenza che si desse opera auna condotta politicamente più attiva, ricciotti Garibaldi nel 1904 lanciavaun proclama agli elettori di cassano allo jonio per eleggere il deputatoitalo-albanese carlo Basta in modo «di far sentire la loro voce autorevol-mente nelle aule legislativa italiana per mezzo di deputati, politici», maquando la candidatura non guadagnò l’elezione tanto desiderata, dap-prima minò il movimento azionista in una situazione di messa in forse, equalche tempo indusse il Consiglio nazionale a sciogliersi nella primaveradel 190527. È interessante purtuttavia notare che in considerazione dellalatinità nell’adriatico, a dare un’occasione più ampiamente italianeggianteagli arbëresh sarà il Consiglio nazionale, che nacque e agì come emana-zione della Federazione Nazionale per l’Italia Irredenta sulle premesseideologiche di mazzini e di Garibaldi. Il Consiglio albanese sviluppò unasorta di italianizzazione della questione albanese che si articolò nell’inter-connessione tra la questione albanese e l’irredentismo italiano. Di questaconvergenza, che ebbe come carattere ideologico e militare una linea an-tiaustriaca, ne troviamo tracce arbëreshë attraverso Ferdinando cassianidi Spezzano albanese (e di altri di cui dirò più avanti), che sollecitato nel1904 da ricciotti Garibaldi a muoversi in Spezzano albanese e nell’interaprovincia di cosenza su un «doppio senso», vale a dire «organizzare se-zioni, gruppi e centri aderenti alla […] Federazione Nazionale per l’Italia

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nese, IVI, 30 aprile 1900, a IV, n. 8; a. lorecchIo, La “Camicia Rossa,, in Albania, IVI, 31 maggio1902, a VI, n. 10. ricciotti Garibaldi, Ricciotti Garibali e gli albanesi [lettera al ex deputatoG. tocci], IVI, 30 aprile 1904, a. VIII, n. 8.26 tali beni immobili concernevano il collegio italo-greco di San Basilio in roma e lachiesa dei SS. Pietro e Paolo in Napoli sottratti al patronato ecclesiastico arbëresh dal nuovoregno d’Italia, sforzi che si univano alla antecedente richiesta di acquisto della casa di Gior-gio kastriota in roma (nelle vicinanza della Fontana di trevi) per «fare un centro di rap-presentanza degli albanesi». cfr. GerarDo coNFortI, Questione Macedone o Albanese?,Stabilimento tipografico Pansini, Napoli 1904, p. 74, n. 1; GIoVaNNI laVIola, Pietro Camodecade’Coronei, tip. F. Fabozzi, aversa 1969, pp. 86,123.27 Sulla candidatura di c. Basta cfr. eNNIo maSeratI, I Comitati «Pro Patria» e il Consiglionazionale albanese d’Italia nelle carte albanesi di Ricciotti Garibaldi, in «rassegna storicadel risorgimento», lXVI, 4, 1979, p. 468; FraNceSco GUIDa, Ricciotti Garibaldi e il movimentonazionale albanese, in «archivio storico italiano», cXXXIX, 1981, pp. 104-105; «la lotta»,,a. XVI, nr. 18, 5 maggio 1904. critiche a distanza scaturirono con l’ambiente arbëresh dellacalabria, in particolare modo con il filosofo e pedagogo camillo Vaccaro. OrganizzazioneAlbanese, in «la lotta», a. XVI, nr. 27, 7 luglio 1904.

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irredenta […] e trovare fautori e aderenti al consiglio albanese d’Italia»28.Sempre nel considerare la crescente forza propagandistica filo-skjipëtara,a prendere posizione per la «Quistione albanese», divenendo portavocedella rilindja arbëreshë in america latina e successivamente negli StatiUniti d’america troviamo il lungrese orazio Irianni, il quale visse l’espe-rienza politica argentina su piani incrociati e giustapposti, rivolgendo isuoi impegni alla questione sociale argentina, nelle sue diverse inclina-zioni, e all’autodeterminazione dell’albania, avvertite ambedue col nessoinformazione-libertà29. I suoi impegni in direzione dell’albania si manifestarono nel settembre1889 con la costituzione a Buenos aires della prima Società di mutuo soc-corso fra gli albanesi d’Italia all’estero, che assunse il nome di “Skanderbeg”e attraverso cui tentò la prima unificazione della coscienza politica e cul-turale americano-arbëreshe a favore della questione albanese. le caratte-rizzazioni di fondo della associazione argentino-arbëreshe coincisero conaltre tipicamente territoriali, le quali si battevano contro il programma ra-dicale sociale che si stava sviluppando in argentina, aggravatosi dopo lacrisi economica del 189030. (12) la società Skanderbeg, a quasi cinque annidalla sua fondazione, venne affiancata dal Comitato Albanese istituito indata 14 giugno 1904, entrambi raccolsero le voci filo-albanesi in americalatina sostenenti un allargamento delle collaborazioni come azione politicae ideologica più completa e per un impegno di sintesi patriottica italiana ealbanese che possiamo definirla di collimazione irredentistica, che ebbecome scopo precipuo «la reintegrazione nazionale e civile dell’albania»31.Il comitato argentino-arberesh poco tempo dopo si incorporava alla So-cietà superstiti garibaldini, e deliberava pari tempo, con telegramma in-

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28 Si veda GIoVaNNI laVIola, Ferdinando Cassiani, avvocato, scrittore e oratore, agis, Bari1971, p. 29-30, nota 3.29 ad attirare i primi interessi di Irianni sulla questione politica e sociale argentina, in-torno gli anni ottanta del XIX, furono i programmi politici regionali argentini e, dal punto divista dei diritti della cittadinanza, il «gran movimento per la naturalizzazione degli stranieriin argentina», quest’ultimo esplicatosi col nacionalicmo agresivo (con forti connotazioni ispa-nista-cattoliche), ed estesosi nel paese sudamerucano per mezzo della sua classe dirigente.Nelle vesti di osservatore politico invece, scrisse per il settimanale d’ispirazione socialista«l’Indicatore», che si stampava a rio cuarto nella provincia di cordoba (argentina).30 cfr. o. IrIaNNI, Risveglio Albanese, s.e., New York, 1911, pp. 125-129; PaNtaleoNe SerGI,L’immagine dei calabresi in Argentina tra discriminazione e difesa identitaria, in «Palinsesti»,3, 2015, p. 171.31 la società Skanderbeg, di cui Irianni fu presidente e fondatore, si esplicò come orga-nismo sociale, culturale e politico, orientando e aiutando i suoi iscritti a dotarsi «di unapersonalità mediante l’istruzione, l’educazione e la mutua cooperazione economica», cfr.o. IrIaNNI, Il Risveglio Albanese cit., p. 125.

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viato a ricciotti Garibaldi, l’intento di sostenere il Pro Patria diroma e ilsuo programma garibaldino per la liberazione dei popoli balcanici32 così adar voce a tali propositi il 14 gennaio 1905 si unì il mensile «la Questionealbanese» – il primo numero in realtà apparse a febbraio – che divennel’organo informativo delle esigenze albanesi in terra argentina con orien-tamenti che poggiavano su una linea programmatica dell’autonomia am-ministrava o della «Home Rule nei vilâyet»33. Nell’adoperarsi per unacampagna propagandistica da coinvolgere anzi tutto la stampa periodicadella capitale Buenos aires, il comitato tenne diverse conferenze sulle que-stioni albanese e dell’irredentismo34. a ogni modo, le premesse di que-st’unione si resero già esplicite nel viaggio in america latina del generalericciotti Garibaldi (1899), il quale nel rilasciare una conversazione gior-nalistica all’arbëresh, si rese interprete dei «sentimenti fraterni» verso glialbanesi», ed espose secondo le sue convinzioni, quali fossero i problemimaggiori che rendevano difficile la questione albanese su più versanti, ainiziare dall’attaccamento degli albanesi all’impero ottomano, che impe-

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32 Il legame con la suddetta associazione di osservanza repubblicana portò il 3 lugliosuccessivo, a indire nella capitale argentina «una imponente riunione” presso la SocietàPatria e lavoro, alla quale, vennero invitati tutti gli albanesi residenti a Buenos aires, conlo scopo di far assumere allo stesso comitato un indirizzo più definitivo. tra le finalità delComitato Albanese vi erano altresì più strettamente cultural-politiche, quali fondare unabiblioteca circolante con lo scopo di divulgare maggiormente la giovane letteratura shkji-petara, oppure «abbonarsi alle riviste e ai giornali” che sostenevano la causa albanese, eancora «organizzare un corso di conferenze sull’albania, illustrandone la attualità politica,la sua vita intellettuale e le vicende del passato». Del comitato presero parte o. Irianni (pre-sidente), Nicola manzo (vice presidente), Giuseppe Di candia (segretario), Severo lotito(tesoriere), andrea mazzeo, teodoro e Vincenzo Vaccaro, Nicola martino, alfonso Frega,Salvatore Scaravaglione, Beniamino Spata, Nicola Greco, Francesco Saverio Domestico (con-siglieri). cfr. [o. Irianni], Gli Italo-Albanesi in Buenos Aires, «la Nazione albanese» 15 no-vembre 1904, a. VIII, n. 21; Sul programma de «la Questione albanese» cfr. Id., Un periodicoalbanese in Buenos Aires, ibid., 15 febbraio 1905, a. IX, n. 3.33 Si confronti, «la Questione albanese», mensile di 16 pagine «elegantemente stam-pata», si distribuiva in calle chile 2080, Buenos aires. cfr. «la Nazione albanese», 15 marzo1905, a. IX, n. 7. 34 tra le conferenze, venne indicata quella svoltasi il 20 ottobre del 1904 presso la Societàtipografica Bonaerense, in cui assistette anche un superstite dei Mille, raffaele G. Gianfranchi,e che ebbe come relatori principali, orazio Irianni, lo studente N. Irianni e andrea mazzeo.Quest’ultimo si evidenziò così bene che il giornale «la Patria degli Italiani» (sul il più grandequotidiano italiano stampato in argentina si veda: PaNtaleoNe SerGI, Patria di carta. Storia diun quotidiano coloniale e del giornalismo italiano in Argentina, Pellegrini, cosenza 2012), ri-portò di aver offerto una «pagina dottissima e documentata sulle origini del popolo albanese»,consigliando al comitato di pubblicare la relazione in opuscolo e utilizzarlo non solo a titolodi propaganda ma come contributo scientifico. Il Comitato Albanese in Buenos Aires. I lavoridel Comitato locale, «la Nazione albanese», 30 novembre 1904, a. VIII, n. 22.

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diva all’Italia e all’Inghilterra una serie di azioni a favore degli skjipëtari,senza però dimenticare di sottolineare che si realizzasse in breve tempo«un’intesa tra greci e albanesi»35. Più propriamente sull’attività giornali-stica attraverso la stampa argentina, il professore il lungro si fece notareper alcune querelles relative alle complicate faccende etno-nazionali bal-caniche, rivelandosi a ogni modo informato e su posizioni più avanzate dicoloro che sembravano mancare nel tatto e nel giudizio politico. tra le polemiche giornalistiche di ispirazione albanese si ricorda la let-tera del 28 agosto 1908 indirizzata al «Giornale d’Italia», con la qualeIrianni chiamava in causa il quotidiano «el Diario», e poneva fra le accuserivolte al giornale di manuel láinez quella di «indecenza giornalistica», in-dicando quanto fosse distante il contenuto dell’articolo albanese, apparsoqualche tempo prima, dalla realtà effettiva del movimento skjipëtaro diquei mesi, che, in seno all’impero non favorì il regime costituzionale deiGiovani Turchi ma fu costretto a ricorrere alle armi per non restaurare unassolutismo ormai morto «nella turchia europea». Per il calabro-arbëresh,in albania si lavorava esclusivamente a favore della “ricostituzione” dellanazionalità albanese. Irianni lamentava ancora al «Giornale d’Italia», chesebbene il direttore láinez avesse fornito garanzie certe, il suo contrad-dittorio continuava a non essere pubblicato nel quotidiano di Buenosaires, e nel contempo ribadiva stupore per l’atteggiamento assunto da que-sti, che sino a quel momento si era «fatto notare per la precisione e perl’esattezza delle notizie» ricevute dall’europa sull’albania36. Verso la metà di ottobre 1908, in terra argentina appare terenzio toccicome redattore della «Shpnesa e Shcypeniis», recatosi nelle americhe percercare fondi per una nuova rivista a favore della causa albanese37. tocci,

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35 tale intervista svoltasi a Buenos aires il 10 agosto 1899 uscì per esteso su «l’amicodel Popolo» con il titolo La questione albanese e i filelleni, mentre in Italia apparse con ladicitura Il generale Ricciotti Garibaldi e gli Albanesi, in «la Nazione albanese», 30 settembre1899, a. III, n. 18.36 o. IrIaNNI, Il Risveglio Albanese cit. p. 125.37 Il periodico «Shpnesa e Shcypeniis», venne fondato nel settembre 1905 da NikollëIvanay a ragusa (Dalmazia), poi da marzo 1907 venne pubblicato a trieste, infine nel 1908a roma con la collaborazione di tocci. Nel panorama giornalistico arbëresh intanto, il 20marzo 1906 era venuto alla luce «le courrier des Balkans» (rivista bilingue, in francese eitaliano), che trattava «indistinctement toutes les questions politiques, littéraires, militairesde l’Orient prochain». Sorto per iniziativa di manlio Bennici (direttore responsabile e ditocci (redattore capo), chiuse dopo pochi numeri. Sull’orientamento redazionale si veda,Programme, «le courrier des Balkans», 20 marzo 1906, a. I, n. 1. Sullo scopo del viaggioinvece, se l’intento fu quello di raccogliere i fondi per una nuova rivista a favore della causaalbanese, tra i volantini di propaganda pro albania e irredentista, si cita «la Bandiera del-l’albania, giornale quindicinale italo-albanese, che si pubblica a roma – si distribuisce gra-

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che rappresentò l’esempio arbëresh più completo di italianizzazione dellaquestione albanese di cui si è accennato poco prima, portava con sé unmanifesto firmato da ricciotti Garibaldi e sul terreno della propagandatrovò appoggio dalle unità massoniche di espressione repubblicana delsud america – da lì a poco si affiliava alla loggia Stella d’oriente nell’ar-gentina- 38. Nel suo giro di diffusione repubblicana (1908-1909) tenne nu-merosi comizi in diverse città (nel sud america e negli Stati Uniti)incentrati sul predominio della «latinità nell’adriatico», sulla necessariapolitica italofila e antiaustriacante, sul Martirio di due Popoli: Albanesi eItaliani redenti e cosi via, di cui ricordiamo il professore socialista orazioIrianni in Buenos aires e l’ing. Giuseppe Scutari, quest’ultimo presidentedel comitato albanese in São Paolo, quanto agli albanesi instaurando con-tatti sia con esponenti arbëresh e skjipëtari sia con circoli repubblicaniitaliani degli Stati Uniti, Fan Stylian Noli futuro primo vescovo della chiesaortodossa skjipëtara autocefala, Faik konica direttore del «Dielli» (Il Sole)e kristo Floqi, tutti e tre leader della federazione panalbanese Vatra39. asegnare gli anni 1910-1911 per il movimento filo albanese saranno l’or-ganizzazione di un corpo di spedizione in albania e il tentativo insurre-zionale nella mirdizia (alta albania) da parte di tocci40.ai fatti della primavera del 1911 in Italia seguì una reazione governativache mise in moto prefetture, questure, commissariati, capitanerie e tenenzeportuali e diversi uomini unito a una rete di sorveglianza. con accenti digrave preoccupazione per l’atteggiamento assunto dal Governo italiano difronte al movimento filo albanese, Francesco De rada da macchia albanesenon esitava a denunciare sulle pagine de «la terza Italia» il pericolo che nonvenisse più garantita la libertà di manifestazione e di simpatia per l’albaniacom’era avvenuto ai tempi di cuba (1898) e di Grecia (1897). Questa re-sponsabilità politica nei riguardi della causa albanese, intrecciatasi tra il pro-tocollo della diplomazia europea e il «rigorismo reazionario del Governo»

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tis», di cui però oggi non si ha traccia. cfr. arkIVI QëNDror I ShtetIt = archIVIo ceNtrale DIStato (aQSh), tirana (d’ora in poi aQSh), F. (fund = fondo) 77, v. (vit = anno)1908, d. d.(dokument = documento) 22, fl. (flete = foglio) 1, Lettera di Ricciotti Garibaldi «agli amicidell’America».38 aQSh, F. 77, v. 1910, d. 282, fl. 2. Il Gran maestro ettore Ferrari a enrico rebora, 6febbraio 1910, roma.39 IVI, F. 77, d. 23, fl.1. a titolo di esempio si veda: Il Martirio di due Popoli. Albania,Trento-Trieste.40 circa la fase organizzativa dei garibaldini e il tentativo insurrezionali di tocci in al-bania si rinvia a: tereNZIo toccI, Il Governo provvisorio, tip. operaia Forense, cosenza, 1911;F. caccamo, Odissea arbëreshe cit., pp. 31-45; F. GUIDa, Ricciotti Garibaldi cit,, pp. 126-134, F.FaBBrIcatore, Terenzio Tocci. Un calabro-arbëresh cit., pp. 58-62

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giolittiano, divenne così abnorme che pose con urgenza la decisione di agirein fretta lungo tutto il territorio italiano e a bloccare, conferenze, comizi equalsiasi iniziativa politica o culturale a favore dell’albania. a quest’ordinedi forzatura De rada unisce l’incomprensibile silenzio della «stampa cosidetta libera», la quale col «persistere nel suo cinico e mercantile contegno»,contribuiva a tenere all’oscuro l’opinione pubblica, favorendo gli indirizzi«della Porta, dell’hofsburg e della consulta» (18 giugno), aventi come unicocomun denominatore il mantenere l’albania sotto la veste dello status quobalcanico41. esattamente a un mese di distanza, nelle vesti di presidente delsotto-comitato Pro Albania di San Demetrio corone, De rada inviava alla«ragione» una lettera, nella quale ribadiva tre punti quasi speculari a quellipubblicati ne «la terza Italia», ma che ne completavano le sue vedute circail sistema organizzativo filo albanese, a iniziare dall’esigenza di maggiorechiarezza sull’azione del comitato di ricciotti Garibaldi e Felice albani, chedal canto suo, sussisteva in uno stato ancora informe, particolarista e orien-tato a condurre un indirizzo polemico; la seconda ragione addotta dal Derada, concerneva ancora una volta il «Parlamentarismo italiano e il suo Go-verno», entrambi colpevoli di svolgere un’azione dissacrante nei confrontidell’ albania, impedendole qualsiasi aiuto che provenisse dall’Italia e, in paritempo, prese a criticare la condotta del comitato di Podgoritza, all’internodel quale occorreva tenere in considerazione soltanto Nikollë Sokol Batzi, acausa di contorni poco chiari che diedero modo di sospettare sul lavoro delcomitato montenegrino; quanto all’ultimo punto prendeva a occuparsi nuo-

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41 cfr. FraNceSco De raDa, Lettera politica dalla Colonie Albanesi di Calabria, in «la terzaItalia», 18 giugno 1911, n. 243,; id., La voce delle Colonie Italo-Albanesi, «la terza Italia»,, 6agosto 1911 n. 250, scrittin che possono consultarsi nel suo scritto Il Movimento Albanesenel 1911(e sue vicende), Stabilimento tipografico moderno, roma, 1911, pp. 5-16.42 a ogni modo, qualche mese più tardi l’avvocato di macchia albanese non mancò dielogiare l’impegno della balcanologa mary e. Durham, la quale a sua volta invece rammen-terà l’impegno di tocci così: «who had pluckily organized the Mirdites, but who had failedfor lack of weapons». cfr. F. De rada, Il movimento albanese, cit., p. 44, n. 1. marY eDIth DUr-ham, The struggle for Scutari (Turk, Slav and Albanian), edward arnold, london, 1914, p.60. Sul comitato di Podgoritza si vedano, La circolare del Comitato di Soccorso di Torino peri rivoluzionari albanesi e le Lettere di Miss E. Dhuram al Comitato torinese di soccorso per irivoluzionari albanesi, in eUGeNIo VaINa De PaVa, La Nazione Albanese, F. Battiato editore, ca-tania 1917, pp. 188-191. De rada a un tempo espresse le sue gratitudini ai comitati arbë-resh di Spezzano albanese (sorto nel maggio 1903), lungro, Napoli e altri ancora «dei qualialcuni fecero capo a Garibaldi», senza dimenticare l’encomiabile operato del medico spez-zanese agostino ribecco. cfr. Conferenza sull’ultima rivoluzione Albanese letta il 10 dicembre1911 a S. Demetrio Corone e Il Comitato di Podgoritza in F. De raDa, Il movimento albanese,cit., pp. 31-50; a. lorecchIo, Manifestazioni patriottiche nelle Colonie Albanesi in Italia, in«la Nazione albanese», 30 maggio 1903, a VII, n. 10.

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vamente della «Grande Stampa» ribadendo le sue diffidenza e perplessitàin questa, adeguatasi oramai a falsare le notizie «secondo la coscienza di co-stantinopoli, di cettigne, di atene, di Vienna, di Sofia e della consulta», men-tre a suo parere sarebbe bastato inviare nei luoghi d’azione un semplicecorrispondente italiano, per ovviare alle suddette distorsioni informative42. a intervenire sulle vicende albanesi al cadere del 1911 troviamo l’in-gegnere e giornalista Pasquale Sabatini che si colloca nel giro delle ideedei socialisti italiani dell’epoca43. In considerazione dello scarso interesse della questione albanese sulpiano della diplomazia europea, e per mettere meglio in rilievo il peso dellaquestione albanese, Sabatini sostenne che il problema skjipëtaro non po-tendo risolversi nella questione interna della turchia, rappresentasse peril governo italiano un’opportunità per eliminare gli interessi austriaci inquei territori e, di conseguenza, un ipotetico intervento italiano avrebbeofferto all’albania quelle circostanze favorevoli per elevarsi a stato liberoe indipendente. D’altronde era facile comprendere come la prudenza chesi era imposta l’Italia nel redigere l’indirizzo politico a favore dello statusquo balcanico, se fosse rimasta inalterata, questa si sarebbe riflessa inmodo negativo sull’andamento e sull’interesse per la causa albanese, laquale con questi presupposti - per quel che concerne i possessi della tur-chia-, sarebbe scivolata in secondo piano rispetto alla linea di conquistadella tripolitania, che come contrappunto e cosa non priva interesse, ve-niva spinta fortemente dalla stampa austriaca, con lo scopo di giustificaremeglio i «legittimi interessi dell’Austria nell’Albania»44. Di riflesso, sul pianodei diritti del popolo albanese, le idee che prendeva a svolgere mostravanoil partito socialista italiano non proteso al «dovere di investigare e risol-vere i problemi che travagliano i popoli», ma pronto ad abbandonare ilpresupposto del movimento materiale e ideale. Se nel nuovo ordine dellecose balcaniche, i socialisti italiani non avessero fornito alcuna spinta aglialbanesi per combattere la politica imperialista, la stessa coscienza socia-lista avrebbe trascinato con sé molte ambiguità, e il venire meno alla causaalbanese sarebbe equivalso a tradire la causa proletaria, Per Sabatini, nella

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43 Pasquale Sabatini (lungro 1874- Bobbio Pellice 28 luglio 1921). Di osservanza so-cialista, prese parte al comitato skjipëtaro-arbëresh di milano, scrisse sul tema risorgimen-tale albanese: La Questione Albanese (1911) e Le due Triplici nella conflagrazione europea(1914).44 Nelle riflessioni del socialista arbëresh la causa albanese era a un tempo causa pro-letaria, un’identificazione consustanziale per diversi motivi: «sia che si consideri dal latoideale ed astratto, sia che si consideri nel concreto delle influenze che può esercitare suglieventi e sull’avvenir gravida di significati e della classe lavoratrice».

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sostanza il problema skjipëtaro si presentava come un complemento ne-cessario e naturale della causa proletaria, e l’identificazione della que-stione albanese con quella proletaria, intesa come scelta di valori, di scopie di mezzi per attuarli, rimaneva fondamentale45. Rivendicazioni geo-politiche e nazionalismo (1912-1913)con il raggiungimento dell’indipendenza albanese (28 novembre 1912)la condotta di una parte degli arbëreshe si ispirò alle vicende italiane e posecon urgenza il problema della forma di governo albanese. a formulare su undisegno di assetto politico monarchico - in controtendenza ai principi re-pubblicani e socialisti per i quali era sorta, ma purché nascesse una vera al-bania -, trova posto «la rivista dei Balcani», che nelle vesti di tocci, Sabatinie Francesco argondizza videro nel principe egiziano Fuad il pretendenteideale per l’albania. Il kedivè di origine albanese nell’esprimere ai lettori de«la rivista dei Balcani» i suoi intenti per l’albania, si dichiarò non un rivo-luzionario ma un semplice soldato o avvocato, e assunsea le difese della na-zionalità skjipëtara in seguito alle numerose sollecitazioni, al quale gli eranostate presentate da «ogni parte dell’albania e da migliaia di profughi sparsinel mondo»46. anche se il principe Fuad affermò di non essere un «preten-dente al trono d’albania», nell’intervista traspariva l’intento di una possibilecandidatura e metteva a disposizione il suo impegno per un’albania néGrande né piccola, ma indipendente e unita secondo i suoi confini naturali.

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45 con questo scritto Sabatini entrò in polemica con leonida Bissolati, il quale ammonìgli italiani a non intervenire nell’insurrezione albanese «perché avrebbe alterato la delicataposizione dell’Italia nei rapporti con l’estero». Nei giudizi di Sabatini, Bissolati «come So-cialista» si era dimostrato particolarmente insensibile e miope alla «concezione socialisticadegli umani diritti», quella stessa concezione di cui ha beneficiato la Grecia quando moltisocialisti indossarono con entusiasmo la camicia rossa «in difesa della memoria ellenica»,e che in quel momento veniva negata da questi all’albania.46 Il quindicinale «la rivista dei Balcani» vede la luce a milano 15 luglio 1912, ad operadi terenzio tocci e Francesco argondizza di San Giorgio albanese. Viene dato alle stampenel capoluogo lombardo sino a quando tocci, nell’estate 1913, si trasferisce a Scutari dandovita al primo quotidiano politico in albania, il «taraboshi». Sulla sopraindicata intervistainvece, rilasciata a Pasquale Sabatini nell’hotel Continental di Parigi, conteneva implicita-mente il programma del Memorandum Albanais presentato dallo stesso Fuad alle Potenzedell’epoca, cfr. a. Fuad, Memorandum Albanais in F. 77, d. 298, ffll. 1-5, p.v. (pa vit = senzadata. P.S. [Pasquale Sabatini], L’Apostolato di un Principe. Intervista di un nostro redattorecon S.A. il Principe Fuad, in «la rivista dei Balcani», a. II (supplemento al nr. IX), roma-mi-lano, 24 gennaio 1913. Su Fuad cfr. roBerto caNtalUPo, Fuad primo re d’Egitto, Garzanti, mi-lano 1940; [a. lorecchIo], I khédive d’Egitto Shkëpëtari, in «la Nazione albanese», 28febbraio 1899, a. III, n. 4.

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D’accordo con gli albanesi della Rivista (direttore, redattori e lettori), nelquadro delle sue preoccupazioni operava in primo luogo l’applicazione delprincipio della nazionalità alla realtà, improntato su un’Albania naturale,alla cui formazione erano irrinunciabili Scutari, Ipek, Dibra, Prizren, Uskubmonastir e janina. Quanto all’addentramento politico ed economico-com-merciale dell’Italia in albania, un dattiloscritto di Sabatini ci fornisce un qua-dro più chiaro sull’orientamento che si voleva seguire dall’Italia attraversouna piattaforma programmatica avanzata da tocci e Giovanni Vismara, prov-vedendo a differenziare le posizioni di tocci dal quelle di Vismara.Il programma di tocci, poggiava sull’affermazione della necessità di un«gran lavoro di orientazione» in tutta l’albania e aveva, secondo la sua con-vinzione, nel principe egiziano Fuad «l’asse direttiva della resurrezionealbanese». mentre Giovanni Vismara, «quale rappresentante degli inte-ressi Italiani in albania» riteneva fosse più utile agire con il lavoro di pe-netrazione solo nella mirdizia (alta albania) in cui «sono influenti il P.[Prenk = principe] Bib Doda, e per la supremazia morale sui Bairactar[capi] il capo del clero cattolico [Primo Dochi]»47. tra dicembre del 1912e marzo del ‘13, un gruppo di albanesi e arbëresh raccolti intorno al prin-cipe mirdita Bib Doda e finanziati dal Governo italiano diede vita nella cittàdi milano un nuovo comitato, che fondandosi sulla necessità precipua didifendere «l’integrità territoriale, politica ed economica dell’albania» sipropose da subito come filtro propagandistico tra le ragioni albanesi, de-finendo un programma di lavoro nel quale si chiedeva, lo sblocco dellecoste albanesi e il ripristino delle vie di comunicazione con Valona, te-nendo ben presente il desiderio «di fare opera utile» presso la diplomaziae i governi delle potenze d‘europa nel sostenere il nuovo stato albanese48.

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47 riguardo al “businessman” Giovanni Vismara, questi per mezzo del Sindacato delleForeste d’albania «sotto l’egida della Banca d’Italia e l’interessamento del Governo» italianosi era assicurato l’adesione di Prenk o Prink (principe) Bib Doda per lo sfruttamento «dellericchezze latenti, boschi, miniere, bonifiche, prodotti agricoli, strade, ferrovie, ecc.». cfr.Pasquale Sabatini, Due programmi [Dattiloscritto], milano 5 febbraio 1913, aQSh, F. 77 v.1913, d. 295, ff.ll. 1-3; richard j. Bosworth, The Albanian forests of signor Giacomo Vismara:A Case study of Italian economic imperialism during the Foreign ministry of Antonino Di SanGiuliano, in «the historical journal», XVIII, 3, 1975, pp. 575-576, 579-580, 584.48 Il comitato meneghino era composto da Prenk (principe) Bib Doda, presidente; ora-zio Irianni rappresentante degli albanesi e italo-albanesi di New York; Filippo craja, mazharbey, Bajram Doclanie, gli insegnati Giuseppe curti [kurti], luigi codelli [kodelli]; PaqualeSabatini (segretario). mentre ad accogliere la «costituzione, gli scopi e le direttive” del co-mitato troviamo anche Fan Stylian Noli, il «noto prete fondatore della liturgia in lingua al-banese” nonché futuro primo vescovo della chiesa ortodossa skjipëtara autocefala, assiemea kristo Floqi, direttore del «Dielli» (Il Sole) di Boston. È da rilevare inoltre, che kurti e ko-delli frequentarono il collegio di San Adriano in San Demetrio corone e presero parte alla

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Il comitato italo-albanese di milano manifestatosi nella metà di febbraiostese un proclama preparatorio, nel quale si condannava parte dellastampa italiana che appoggiava la linea geo-politica dei «cavalieri balca-nici», mentre agli arbëresh si indicava come mezzo pratico di opposizioneal governo di roma, la rinuncia intenzionale alla cittadinanza italiana qua-lora Scutari fosse stata ceduta al montenegro, in pari tempo, sollecitava difondare comitati permanenti di agitazione per promuovere comizi con-giunti da tenersi il 2 marzo in ogni colonia albanofona:«Questo comitato ha piena fiducia che gl’Italo-albanesi continueranno a far sentire altala voce – incessantemente - e mentre plaude ai fratelli delle colonie che hanno solenne-mente di voler con isdegno rinunziare alla cittadinanza italiana se Scutari e sarà data almontenegro, rivolge calda preghiera a quanti coprono cariche elettive onde si tenganopronti a rassegnare le proprie dimissioni in segno di protesta nel caso che - dando in pastol’albania agli affamati slavi e greci – tale immane misfatto e scempio del diritto e delle tra-dizioni storiche sarà perpetrato con la connivenza dell’Italia [...] Agitiamoci e agitate!»49. tra i primi a rispondere all’appello del comitato fu l’ex deputato Gu-glielmo tocci che da cosenza approvò con calore i quadri della protesta«sollevata dal comitato per parte del quale» era pronto a «dare comuni-cazione a questi nostri connazionali della calabria cosentina possibil-mente per mezzo dei giornali locali». a intrecciarsi con analoghisentimenti e posizioni del proclama fu il circolo democratico di San Giorgioalbanese che a firma del presidente F. Dramis deliberò quanto segue: «Saremo indegni delle tradizioni dei nostri avi che per la patria hanno dato la vita edaffrontato serenamente l’esilio, se non sorgessimo, in quest’ora tragica per l’albania, a gri-dare in faccia a tutti gli ambiziosi che accarezzano ambiziosi sogni: l’albania agli albanesi.In forza al principio di nazionalità: giustizia vuole che l’albania ritorni agli albanesi, dirittoincontestabile d’un popolo che dopo parecchi secoli di dominio turco conservi le sue ca-ratteristiche etniche. Gli albanesi d’Italia non approveranno mai che Scutari sia tolta allaloro madre patria»50.

la Stampa politica degli arbëreshe di calabria per l’albania (ottobre 1895- marzo 1913)

rete di collaboratori e informatori del «ministero degli affari esteri col fine precipuo didare alle scuole italiane della Penisola balcanica maestri indigeni educati italianamente».tale rete, di cui fece parte il comitato di milano, venne coordinata da Giovanni Vismara ediretta dal direttore generale delle scuole italiane all’estero angelo Scalabrini, (al quale, il9 maggio 1906, l’amministrazione comunale di S. Demetrio corone gli era stato conferitola cittadinanza onoraria). cfr. archIVIo StorIco mINIStero aFFarI eSterI, roma (d’ora in poiaSmae), legazione Durazzo-albania, b. 2. comitato Italo-albanese di milano (Promemo-ria), roma, 19 aprile 1913.49 aQSh Ft. 77, V. 1913, D. 295, fl. 4. comitato Italo-albanese di milano [a firma PasqualeSabatini], circolare del 17 febbraio 1913.50 aQSh, F. 98, V. 1912 [in realtà 1913], D. 38, fl. 2. copia della deliberazione presa il 2marzo 1913 dal circolo democratico di San Giorgio albanese.

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tuttavia per dare una giustificazione concreta della sua esistenza e perchiarire meglio lo scopo dei suoi componenti anzi tutto albanesi, quali, hilmosi, Filip kraja e hamid bey, ai punti programmatici sopradetti si dovet-tero unire ben presto priorità ben più corporee, come la richiesta di unacerta quantità di cartucce per fucili mauser, circa 50 casse di 1000 cartucceognuna, che in considerazione della psicologia e della natura albanese siaghegha sia toska valeva a dire proporre delle misure serie a vantaggio dellasoluzione albanese in chiave politica e territoriale, e che rimanevano nel-l’ambito di una rivoluzione51. tali misure vennero discusse altresì nell’evento di maggiore rilievo diquesto periodo, il congresso di trieste (1-4 marzo 1913), che si pose inessere per gli arbëresh come un grande occasione per argomentare e con-frontarsi sulla questione albanese sia in chiave di conformazione istitu-zionale e territoriale sia politico-ideologica. le convinzioni dei congressisticonvenuti nella città di trieste erano nutrite di preoccupazioni provenientida più parti a iniziare dalla delimitazione territoriale della neonata albaniae dal suo debole interregno istituzionale. Sul coinvolgimento delle comu-nità albanofone al congresso nella città giuliana, Giovanni castriota Skan-derbeg marchese d’auletta, nel riunire più esponenti italo-albanesi, rivolsealle giunte municipali arbëreshë inviti a stampa, nei quali si sollecitaronorappresentanze per ciascuna amministrazione, ma alla distanza geograficadella maggior parte dei centri arbëresh da trieste, fece riscontro la diffi-coltà nel porsi in viaggio dei membri dei consigli comunali52Dal canto loro, gli arbëresh non solo convennero con un folto gruppoproveniente soprattutto dalla calabria, Sicilia e campania ma diedero untono vivace alle sedute giornaliere, in particolare il prof. orazio Irianninelle vesti di rappresentante delegato di «15.000 italo-albanesi e dei millealbanesi di Nuova York», provocò un “incidentino” con il «corriere dellaSera», e terenzio tocci, nell’accusare con tale foga l’«Indipendente» di trie-ste - per aver pubblicato che il congresso fosse «al servizio dell’austria-Ungheria» -, da sospendere la seduta antimeridiana dell’ultimo giorno. ad

Francesco Fabbricatore48

51 aSmae, legazione Durazzo-albania, b. 2. comitato Italo-albanese di milano, [a firmaPasquale Sabatini], circolare del 17 febbraio 1913, cit.; tra le iniziative del comitato vi erala preparazione di un congresso albanese da tenersi a cosenza «come centro delle popo-lazioni albanesi d’Italia», si vedano Appunti sul comitato milanese, 19 aprile 1913 e Riunionedi Albanesi e Italo-Albanesi [s.d. ma probabilmente fine dicembre 1912].52 archIVIo comUNale DI SaNta SoFIa D’ePIro (cS), Rappresentanza del Comune presso ilcongresso Albanese in Trieste, 24 febbraio 1913, fasc. Delibere municipali, n. 1, a. 1913.traggo l’esempio della giunta comunale di Santa Sofia d’epiro, la quale fu indotta a delegarel’avvocato Paolo masci – offertosi tra l’altro volontariamente –- di rappresentare questocomune «nel congresso fra gli albanesi».

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attaccare con asperità la questione skjipëtara dalla redazione romana del«corriere della Sera» fu in particolare modo andrea torre (all’epoca ca-poredattore e deputato nel parlamento italiano), questi nutrendo scarsaconsiderazione nelle aspirazioni nazionali albanesi,si espresse più volte aloro sfavore. Su questa scarsa desiderabilità dell’autodeterminazione skji-pëtara esternata da torre fu proprio Irianni, con idee sostanzialmente con-trarie, a rimbeccare in data 11 febbraio 1913: «prima di tutto bisogna affermare che gli albanesi non costituiscono uno di quei popoliche non possono affermare la loro nazionalità- e imporla sui territori su cui si sono estesi-in nome di una loro civiltà, una civiltà albanese che non esiste. Gli albanesi [….] non hannouna coscienza nazionale. I due massimi titoli – la coscienza nazionale e la civiltà [….] nonpossono essere vantati dagli albanesi»53. a formulare sulle controversie territoriali e sulla debolezza della con-figurazione statuale d’albania e sulla delimitazione confinaria, a ridossodel congresso di trieste, fu michele marchianò. marchianò nel marzo del1913 intervenne con uno scritto su la «rivista d’Italia›, dal titolo I confinidel nuovo Stato albanese, in cui trovava sviluppo e fondamento l’assiomapolitico sancente l’inviolabilità dello Stato-nazione albanese:

«È noto, anche che, mentre i delegati della quadruplice e dell’Impero ottomano si riu-nivano in conferenza a londra, gli ambasciatori delle sei grandi potenze convenivano acongresso nella stessa città, per cooperare alla pace e avvisare al nuovo assetto balcanico.Uno de’ primi atti di questo congresso fu il riconoscimento dell’indipendenza albanese. Ilprincipio della libertà e dell’erezione a Stato di questa nazione era, dunque, per volontàdelle maggiori Potenze europee, ammesso e sancito [...] ma gli Stati balcanici coonestavanoil loro atteggiamento col pretesto che, se era stato riconosciuto uno Stato albanese, nonerano stati riconosciuti i loro confini»54. Partendo pertanto dal principio che nessun Stato avesse il diritto di oc-cupazione sull’albania, in circostanze e con motivi che si modificano daun’area territoriale a un’altra, espose a difesa della nazionalità skjipëtara

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53 oraZIo IrIaNNI, Il panslavismo russo e la civiltà europea, Stab. tip. l. Pierro e figlio, Na-poli 1913, pp. 47-48. circa i programmi del congresso e i suoi partecipanti dalle coloniealbanesi d’europa, africa e americhe si consulti, Kongresi shypëtar ne Trieshtë me 1 Marc1913, Dolene, trieste 1913; tereNZIo toccI, Diftime e vrime mi Kongres Shqyptaar t’Triestës(Resoconto e note sul Congresso Albanese di Trieste), s.n., Scutari 1913.54 a riscaldare gli animi durante le sedute congressuali fu altresì un opuscolo a firmaargus [pseud.]. l’anonimo scutarino, identificato in mehmed Pardo, nel dichiararsi né alba-nomano né albanofobo, lamentava l’inesistenza di un diritto di stato skjipëtaro tenendo a ri-cordare che non si poteva ostentare un nazionalismo politico anacronistico rimasto all’epocadi Skanderbeg. argus [pseud. di mehmeD hIDajet eFF ParDo], La questione albanese per un Cit-tadino di Scutari nel marzo 1913,Stabilimento tipografico l. herrmanstorfer, trieste 1913.

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un materiale teorico ed empirico ricavabile dalla storia generale di queiterritori, e mise a punto giustificazioni sul diritto dello Stato albanese neiconfronti delle nazioni reclamanti55. consapevole del grande stato di disagio che l’alta albania attraversavain quei mesi ( ottobre 1912-aprile 1913, assedio di Scutari) a causa dell’as-sedio del montenegro attorno a Scutari e del suoi propositi di annettere leregioni di Ipek ( Péc) e di Gjakova (Djakova), asseriva che sarebbe stato suf-ficiente seguire da vicino la geografia, la lingua, gli usi e i costumi di questiterritori, per comprendere che gli albanesi formassero una massa etno-na-zionale compatta. Non mancava di esprimersi altresì sulle città albanesi diantivari (oggi Bar), Dulcigno (Ulcinj) e Gussigne, le quali, durante il con-gresso di Berlino (1878), erano state cedute al montenegro senza tenerconto del criterio etnico. Quanto verso la Serbia, per motivare meglio le sueragioni sui diritti storici e sulle motivazioni sentimentali degli skjipëtari, sispingeva a spiegare che gli slavi della penisola balcanica, giunti in quei ter-ritori solo nel medioevo, avrebbero potuto poco vantare il dominio del pas-sato, e a una più realistica considerazione delle cose balcaniche, il ricorsoalla Storia, avrebbe condotto le ragioni albanesi ad avere la meglio su quelleserbe, a iniziare dal diritto del «veteres migrati coloni»56. Per marchianò,nell’appellarsi nuovamente al diritto di prescrizione, la striscia territorialetra leskovatz e Nissa palesava un assetto etnico unicamente albanese bendefinito... e di conseguenza le zone di Uskub (Üsküb, Skopje), cumanovo (ku-manovo oggi macedonia), Prishtina (Prishtinë capitale della repubblicadella kossova), Giakova (Gjakova oggi nella kosova occidentale) ritraevanoun ulteriore motivo a favore dell’elemento albanese. considerando il dirittopolitico invece, questi vedeva nella costituzione di uno Stato albanese solidodinamico, una barriera all’espan- sionismo slavo nell’adriatico e non solo, eper la sua realizzazione ne rivestiva il carattere d’urgenza: «Solo l’Ungheria, la rumenia e l’albania costituirebbero un contrappeso a questo vastoorganismo, che, per mezzo della futura ferrovia Smirne–Bagdad, tenderebbe a sfruttarel’asia anteriore e dominare sull’adriatico e sul mediterraneo orientale»57.

Francesco Fabbricatore50

55 mIchele marchIaNò, I confini del nuovo Stato albanese, in «rivista d’Italia», vol. I., fasc.III, a. XVI, marzo 1913, pp. 333- 334. michele marchianò (1860-1921) nativo di macchia al-banese, diede prova di possedere una penetrante analisi della questione albanese per laquale formulò posizioni interessanti sulle delimitazioni territoriali della Balcania albanese.Sulla vita cfr. reNato ISkaNDer marchIaNò, Vite ed opere di uomini illustre: Michele Marchianò,[presso l’autore], milano 1956; cfr. altresì F. FaBBrIcatore, Il contributo cit., p. 51n, pp. 52-53.56 m. marchIaNò, I confini del nuovo Stato albanese cit., p. 341.57 IBIDEM.

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Per quanto riguarda invece la Bulgaria, i cui diritti storici valevanoquanto quelli esposti per la Serbia, risultava essere «meno difficile o com-plessa» la rivendicazione delle frontiere.Nel prendere in considerazione monastir (Bitola o «Bitalia albanese»)e la geografia del territorio che le apparteneva, estendendosi sino al ba-cino superiore del fiume Ujizì [Uj i zì = Fiume nero] affluente del Vardar,marchianò sosteneva che il numero degli albanesi fosse superiore aquelle dei greci, al contempo, dal punto di vista delle caratteristiche et-niche, religiose e culturali portava attenzione alla questione dei grecofonidella Bitalia, vale a dire di albanesi che furono «convertiti all’ellenismoper lingua, usi e costumi dai patriarchi greci», quest’ultimi si rivelarono«pertinaci propagandisti e strumenti di panellenismo» e naturalmentedi ortodossia. a ogni buon conto, a caratterizzare meglio l’organico de-mografico e, di conseguenza, rendere comparabile i dati statistici dell’in-tero territorio di monastir occorreva fare una stima quantitativadell’elemento apparentemente più numeroso, quello bulgaro, la cui con-sistenza numerica, seppur considerevole, secondo marchianò non supe-rava quella albanese se fosse stata unita ai numerosi grecizzati. Infine, le ragioni addotte da marchianò sulla Grecia si indirizzaronoverso l’assegnazione finale dell’epiro all’albania, che risultò essere la que-stione territoriale più spinosa. al di là delle consuete argomentazioni sto-riche, avanzò a giustificazione della rivendicazione dell’intero epiro motivilinguistici, educativi, religiosi ed etnico-geografici, sostenendo anzi tuttoche il bilinguismo degli epiroti avesse nell’albanese una chiara prevalenzasul greco, perché fosse lingua materna e non letteraria, vale adire non «ar-tificiale e acquisita». mise in forte discussione le scuole primarie e secon-darie di educazione greca e i papassi (papadés = sacerdoti) sottoposti alpatriarcato ecumenico del Phanar, che si caratterizzarono come efficaci«armi politiche» e di propaganda per formare e intimidire quel popolo cheaveva «la velleità di pensare col proprio cervello». la conseguenza che sene ricavava, era che i metodi adottati dal Governo greco nelle scuole, unitia quelle del Patriarcato di costantinopoli, portarono a un processo di el-lenizzazione culturale e religiosa “forzata” degli albanesi epiroti. Queste considerazioni, sul piano della sistemazione confinaria, lo porta-rono a concludere che le frontiere albanesi fossero «contenute nei limiti, chea esse ha segnato la natura» vale a dire le medesime indicate dal Governoprovvisorio albanese al presidente della conferenza degli ambasciatori, ed-ward Grey, attraverso un memorandum, in cui veniva messo in evidenzal’estrema necessità di far corrispondere i confini politici con quelli etnici del-l’albania, e prevedeva la nascita di una nuova albania che avrebbe compreso

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gli eyâlehdi Scutari, kossovo, monastir, e janina, Uskub con i territori cha an-davano da Ipek, mitroviza, cumanovo, Prishtina, Giakova sino a Prevesa58. ConclusioniSe nel corso degli anni 1848-1912 la Rilindja arbëreshë offrì un validocontributo alla questione albanese, nel torno di tempo che va dalla fine del1895 ai primi di marzo del 1913, culminatosi con il congresso di trieste,si pose in essere per gli italo-albanesi come una significativa occasione perargomentare e confrontarsi in chiave di conformazione istituzionale, terri-toriale, politica e ideologica a favore dell’integrità e unitarietà dello Statonazionale albanese. In un clima d’attesa, l’incompiutezza della dimensioneterritoriale e del riconoscimento alla sovranità statale e indipendente, leallarmanti prese di posizioni di alcune Potenze europee che in combina-zione con le tensioni introdotte dagli Stati balcanici adiacenti o frontisti,preludevano a una scarnificazione del nuovo «Stato a sé» balcanico e dellequestioni concernenti questo, che si sarebbero risolte, almeno in parte, conla conferenza degli ambasciatori a londra (29 luglio1913), il Protocollo diFirenze (17 dicembre 1913) e lo Statuto approvato dalla commissione in-ternazionale a Valona il 10 aprile 1914. tuttavia, con la fine dell’anno 1912e l’inizio del nuovo fu evidente che l’albania nel suo cammino avrebbe tro-vato protagonisti sempre più interni, i quali avrebbero attivato i propri im-pegni su esigenze e tematiche, in parte differenti e in altra quasi identichea quelli pre-indipendentiste, a seconda dei contesti e dei tempi.In linea di principio occorre sforzarsi però, a dare una lettura più com-pleta della storia risorgimentale albanese e a iniziare un esame più equo epiù critico sugli avvenimenti di cui furono protagonisti gli arbëresh, i quali,collocatisi fra gli iniziatori e i prosecutori della Rilindja Kombëtare influirononon poco nella realizzazione dello State-Building albanese. Sulla scia di que-st’ultima considerazione, ancora grande rimane la distanza tra il pieno ri-conoscimento del loro ruolo e l’intenzione di inscriverli definitivamente nelpatrimonio storico dell’albania, a partire dai manuali didattici, in cui tut-t’oggi si ha una scarsa propensione a considerare il loro apporto quasi comeappendice o, peggio, secondario. Una responsabilità storiografica albaneseche non può continuare a rovesciarsi in una sanatoria della xStoria a favoredei soliti noti, ma deve sapere riassumere ed esporre con maggiore comple-tezza il quadro dei meriti nella Rilindja anche e, soprattutto, attraverso leRilindjet rivelatrici di un forte sentimento per l’albania.

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58 IVI, p. 375.

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Nel dicembre del 1911 il piemontese Augusto Monti1, da poco vincitoredi una cattedra di latino e greco nei licei, approda al liceo Classico ‘tom-maso Campanella’ di reggio Calabria2. Insegnante severo e appassionatonon limita il suo impegno pedagogico alle sole ore curricolari, ma coin-volge nel suo entusiasmo attivo gli alunni organizzando il sabato pome-riggio, nella baracca della biblioteca circolante, degli incontri duranti iquali uno di loro relazione su un tema preassegnato di attualità sociale opolitica. Non si tratta di mere esibizioni di sapere quanto piuttosto di ani-mate discussioni che registrano la presenza del Monti, di un ‘presidente’della riunione e di personaggi illustri del meridonalismo operanti in cittànel post-terremoto e all’indomani (1 marzo 1910) della fondazione inroma, nel palazzo del Senato, dell’Associazione nazionale per gli interessimorali ed economici del Mezzogiorno (ANIMI), giovanni Malvezzi, um-berto Zanotti Bianco, gaetano Salvemini, giuseppe lombardo radice, leo-poldo Franchetti. rievoca icasticamente il clima di tali discussioni lo stessoMonti, che, come ha sottolineato giovanni tesio3, arrivava a reggio Cala-

Reggio Calabria 1911-1912.Augusto Monti meridionalista sul campo

Antonino Zumbo

1 Per la figura di Augusto Monti si veda AlBerto CAvAglIoN, Monti Augusto, in DizionarioBiografico degli Italiani, 72, Istituto enciclopedia Italiana, roma 2012, pp. 230-233. Mo-menti significativi della biografia montiana traccia con dovizia di analisi gIovANNI teSIo, Au-gusto Monti. Attualità di un uomo all’antica, l’Arciere, Cuneo 1980.2 Sul breve periodo di permanenza a reggio Calabria e d’insegnamento al liceo Cam-panella, cfr. dello stesso AuguSto MoNtI, I miei conti con la scuola. Cronaca scolastica italianadel secolo XX, einaudi, torino 19653, pp. 84-112 (un intero capitolo significativamente in-titolato «reggio Calabria, 1911-1912 Questione Meridionale»); g. teSIo, Augusto Monti cit.,pp. 43-58 (il capitolo, dal titolo «Destino Meridionale», il medesimo dell’articolo pubblicatodal Monti in «Belfagor» 30 sett. 1966, è un’attenta disamina di quanto Monti testimoniasul suo soggiorno a reggio Calabria e sul suo impegno meridionalista); CArMelo turANo,Un preside dinamico e un professore innovatore: Oreste Dito e Augusto Monti, in ID., Calabriad’altri secoli, gangemi, roma 2013, pp. 257-272.3 g.teSIo, Augusto Monti cit., pp. 43-45.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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bria affatto digiuno di letture4 e di interessi per il disastrato estremo Me-ridione d’Italia. Ma più che elaborare teorie frutto di pur ammirevole espe-rienza in un contesto sociale ed economico di miserevole arretratezza,Monti, in piena sintonia con gli Spiriti Magni del meridonalismo a lui coevi,è per l’azione concreta e immediata sulla spinta della “smania di fare”,come sottolinea egli stesso:«e quella smania di fare per me, abbastanza compressa finchè ero rimasto al Nord,dove tutto era, e mi pareva già fatto, aveva trovato liberissimo sfogo, anzi invito a sfogarsial Sud, specie in quel Sud a cavallo di quello Stretto, a così poco tempo da quel po’ po’ diterremoto»5.le discussioni di quei sabati testimoniano quanta attenzione vi fosseper il dibattito che si svolgeva altrove sulle condizioni del Meridione e sulleloro cause, e come Monti, con maieutica socratica, inserisse i suoi studentiin tale dibattito. lo prova la loro risposta a un articolo sulla salveminiana«l’unità», I, n. 9 del 10 febbario 1912, p. 35, a firma di goffredo Alterisio,la cui biografia merita di essere ancora scritta6. Meridionale di Sant’Agatadei goti (Benevento), trapiantato in liguria, è impiegato alla SAIro (So-cietà Anonima Italiana raffinazione olii), la prima raffineria di olii mineraliin Italia (e forse al mondo) impiantata proprio nel 1912 a Imperia. In se-guito goffredo Alterisio fu partigiano e quindi, dopo la liberazione, sin-daco comunista di Imperia (marzo 1946 – maggio 1951). vale la penadunque riportare per intero il suo articolo, preziosa e misconosciuta te-stimonianza nella pur vasta bibliografia sulla questione meridionale: IN vIStA DellA rIForMA elettorAleun movimento di coltura nell’Italia meridionale può essere intrapreso solo dai giovani.Quando dico giovani, non voglio riferirmi ai figli dei piccoli signorotti locali, quelli chevanno a studiare, che nel proprio paese rifuggono dalla compagnia del modesto operaio, es’insuperbiscono della loro posizione: giovani di piccolo e misero animo, per lo più di col-tura deficiente e falsa, animati da miserabile ambizione di dominio, predominio e ricchezza.

Antonino Zumbo54

4 Cfr. A. MoNtI, I miei conti cit, p. 91-92.5 IvI., pp. 95-96.6 g.teSIo, Augusto Monti cit., p. 46, lo cita solo come “un certo Alterisio”, riportandopochi, ma significativi, passi del suo articolo. Il Monti non ne parla proprio. Probabilmentesi tratta di una rimozione del personaggio e del suo intervento, ideologicamente motivata,almeno al tempo della pubblicazione de I miei conti (1965). Materiale inedito per un profilocompleto di goffredo Alterisio è possibile rinvenire nell’Archivio storico della resistenzaligure e dell’età contemporanea, Sez. II, Serie: carte personali, fasc. 69, “Carte goffredo Al-terisio: biografia personale” (cc. 113), fasc. 73, ‘Carte sul padre Ilario’.

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Questi non potranno mai far niente, anzi rappresentano il maggiore e più grave male del-l’Italia meridionale, poiché saranno i futuri signorotti senza coscienza e senza conoscenza,futuri capi delle fazioni locali e i più veri candidati del più tipico camorrismo.Ma al di fuori di questi, vi sono dei giovani di buona volontà, studiosi del movimentopolitico ed economico d’Italia, che seguono con ansia e con invidia il progresso delle altriparti d’Italia e d’europa, che hanno viaggiato per il servizio militare o per altro nell’Italiadel nord, ed hanno con attenzione studiato come s’esplica la vita in queste regioni. ebbenequesti giovani, tornando nei loro paesi, vi portano alle volte dei gran buoni propositi, chepoi si spuntano contro l’inerzia generale e contro l’invidia e la contrarietà di coloro che te-mono ogni tentativo d’elevamento.Questi giovani son pochi; due o tre forse in ogni paese; ma potrebbero ottenere deigran benefici se trovassero qualcosa di veramente pratico ed utile da fare.È noto che in quasi tutti i paesi di questa regione esiste un Circolo dei Signori. Anchedove esiste qualche Società operaia, la sede di questa società – operaia per modo di dire,spadroneggiando in essa gli oziosi signorelli locali – non serve che per le assemblee, e maiper i trattenimenti pacifici degli operai, o per un’opera di elevamento e di miglioramento.Anzi questa abitudine è completamente sconosciuta agli operai del Mezzogiorno.ed è proprio a creare negli operai quest’abitudine di riunirsi e coltivare la loro mentee la loro coscienza, che dovrebbe esplicarsi tutta l’attività dei giovani di buona volontà. Cer-car di riunire questo popolo sbandato è il miglior mezzo per educarlo; fondare dei circolioperai, ove questi giovani vadano come amici e consiglieri, è una delle vie per miglioraregli operai stessi.Si potrebbe incominciare, abbonandosi a riviste e giornali ed acquistando qualche libro.Sarebbe già una buona occasione per gli iniziatori stessi del circolo per allargare la propriacoltura. Ma di questi giornali e riviste e libri, gli analfabeti non avrebbero alcun giovamento.e anche molti che san leggere e scrivere! In quelle regioni manca l’abitudine alla lettura.Mentre ho conosciuti paesi del nord d’Italia di 10.000 abitanti, ove si vendono mille edanche più giornali al giorno, in un paese del mezzogiorno di altrettanti abitanti non giun-gono mai più di 100 giornali, e raramente esiste una edicola per la rivendita.Quindi, quei tali giovani dovrebbero cercare di diffondere nella popolazione l’abitudinee il bisogno della lettura. ed a ciò i circoli operai potrebbero servire benissimo facendo let-ture e spiegazioni ad alta voce, organizzando conferenze amichevoli sui fatti del giorno, suqualche episodio che commuove l’Italia, su l’igiene, sulla storia nazionale, su una impor-tante legge che si presenta al parlamento, soprattutto sulla vita del proletariato in altreparti della nazione e d’ europa.Soprattutto la lettura ad alta voce e la spiegazione dei giornali di coltura e di propa-ganda sarebbe utilissima, e interesserebbe assai anche gli analfabeti.Questi circoli dovrebbero farsi iniziatori e sorveglianti delle scuole serali e festive.Poi man mano si potrebbe chiamare il Direttore della cattedra di Agricoltura e qualchebuon conferenziere forestiere: da cosa nasce cosa, e nessuno può disconoscere l’impor-tanza benefica di questi trattenimenti su argomenti validi ed utili, se si pensa che quellamisera gente non è abituata a sentir parlare in pubblico che il parroco, immaginiamo conquale utilità e praticità. Insomma bisognerebbe cercare di mettere al corrente queste po-polazioni del progresso delle altri parti del paese e delle altre nazioni e destare in esseun’utile invidia che sia d’incitamento a migliorare. In questi trattenimenti non si dovrebbeparlare mai di politica amministrativa locale.Così un piccolo movimento di un piccolo circolo operaio potrebbe realmente trasfor-marsi in un utilissimo organismo di coltura, da giovare a tutti, letterati e a analfabeti. e,per ottenere che questi Circoli si diffondano e si allarghino con un vantaggio maggiore edimmediato, ed anche più facile ad ottenersi, si potrebbe creare un organismo assolutamentemeridionale, che ottenesse facilitazioni ed aiuti da Case editrici, Amministrazioni di gior-

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nali, università Popolari ecc., e fosse quasi maestro e consigliere a coloro che vogliono de-dicarsi a questa opera coraggiosa e buona, ma paziente.Sulla possibilità che quanto ho modestamente detto si faccia, purchè si sia animati, inprincipio, soprattutto di potente resistenza contro le forze misoneiste dei luoghi e le diffi-denze naturali della popolazione, io non dubito. Ma bisogna anche essere animati di veroamore per quelle popolazioni, e non dal desiderio di mettersi in mostra per una falsa am-bizione: bisogna soprattutto che gli iniziatori di questo movimento trattino gli operai contutta la fraternità ed umanità possibile.Quando tutto fosse fatto senza secondi fini, l’utilità di questi circoli operai e del movi-mento intellettuale che intorno ad essi si verrebbe a creare, apparirebbe chiaro a tutti. edil popolo meridionale incomincerebbe a sveltirsi nelle forme, a capire l’importanza di certeleggi e di certi diritti, a rendersi più consapevole dei bisogni della propria vita e del propriopaese. e diventerebbe di certo in breve un abile e sicuro maneggiatore del Suffragio uni-versale … se a giolitti piacerà di darlo. goFFreDo AlterISIol’intervento di Alterisio si apre con una’apodittica affermazione di prin-cipio: nel Mezzogiorno solo i giovani possono essere protagonisti di unmovimento culturale foriero di cambiamento e di progresso. Prosegue conuna analisi socio-antropologica sulla gioventù del Sud d’Italia condotta se-condo una precisa distinzione dell’appartenenza di classe. Non si riferiscel’Alterisio ai «figli dei piccoli signorotti locali» (la borghesia), che «vannoa studiare», seguendo cioè un percorso di studi lontano dal paese (o piùsemplicemente: «vanno a scuola», nel senso che la frequentano), di sicuroper buone disponibilità economiche. Impietoso il suo giudizio: casta a sé,superba del suo status, ripetutamente bollata di miserbabilità d’animo, di«miserabile ambizione di dominio, predominio e ricchezza», deficitariaquanto a cultura. Male «maggiore e più grave» dell’Italia Meridionale, que-sti giovani in quanto figli della classe egemone ne perpetueranno, da si-gnorotti, il comando. Dialetticamente, al di fuori e diversamente dacostoro, sostiene l’Alterisio che esistono «giovani di buona volontà, studiosidel movimento politico ed economico d’Italia». Attenti al progresso di altreparti della penisola e dell’europa, non hanno una formazione scolastica,ma si avvalgono dell’esperienza acquisita viaggiando per il servizio mili-tare o per altro nel Nord d’Italia. ovviamente egli parla per vissuto perso-nale, da beneventano di Sant’Agata dei goti emigrato in liguria. e sa bene,come afferma, che questi giovani, sparuta minoranza, tornando nei paesid’origine, possono incidere ben poco su una realtà effettuale caratterizzatada generale inerzia, invidia, nessuna apertura mentale al cambiamento.Manca loro «qualcosa di veramente pratico e utile da fare», in una parolail metodo e il fine dell’azione. Fotografa, dunque, l’Alterisio le forme di ag-gregazione sociale dei paesi del Sud. In ognuno di essi da una parte il Cir-colo dei Signori, sulla cui attività ovviamente non spende una parola,

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dall’altra, ove esista, qualche Società operaia, nella quale spadroneggiano«gli oziosi signorelli locali», luogo per assemblee, mai per «trattenimentipacifici degli operai, o per un’opera di elevamento e miglioramento». evi-dente dunque è per l’Alterisio che l’azione dei giovani «volenterosi» deveessere volta all’elevamento e miglioramento della classe operaia. Dovreb-bero proprio abituare gli operai a riunirsi, a prendere coscienza di sé. Pre-ciso il percorso “educativo” indicato dall’Alterisio: «cercare di riunirequesto popolo sbandato è il migliore mezzo per educarlo; fondare dei cir-coli operai [omologhi dunque, ma opposti ai Circoli dei Signori], ove questigiovani vadano come amici e consiglieri». un percorso di pedagogia filan-tropica, i primi strumenti della quale sono abbonamenti a riviste e giornalie l’acquisto di qualche libro, che diffondano nella popolazione«l’abitudinee il bisogno della lettura» che colmi la differenza negativa rispetto al Nordd’Italia. Si constata che gli analfabeti da tale materiale non potrebberotrarre giovamento, ma non si suggerisce come alfabetizzare gli analfabeti,quanto le, piuttosto si consigliano «letture e spiegazioni ad alta voce» –una sorta di pedagogia orale! – nell’ambito di «conferenze amichevoli» sufatti quotidiani, su episodi di risonanza nazionale, sull’igiene, sulla storiad’Italia, sulla politica, ma «soprattutto sulla vita del proletariato in altreparti della nazione e d’europa». Si precisa meglio il fine educativo: «So-prattutto la lettura ad alta voce e la spiegazione dei giornali di coltura e dipropaganda, sarebbe utilissima e interesserebbe assai anche gli analfa-beti». Ancora nessun cenno all’educazione degli analfabeti alla scrittura ealla lettura, adombrata forse con l’ulteriore funzione “politica” indicata peri circoli: «farsi iniziatori e sorveglianti delle scuole serali e festive» la fasesuccessiva alla pubblica lettura contempla l’intervento di relatori quali ilDirettore della Cattedra di Agricoltura o qualche conferenziere «fore-stiere» al fine di creare l’abitudine all’ascolto di chi parla in pubblico «suargomenti validi ed utili», aprendo alla conoscenza di ciò che avviene nelmondo le misere plebi aduse soltanto ad ascoltare in pubblico il parrococon scarsa «utilità e praticità» (tirata anticlericale!). Prescrittivo è che nonsi debba mai parlare di fatti amministrativi locali. Se ne deduce che il finealto sarebbe l’aggregazione e la completa “sprovincializzazione” del pro-letariato meridionale. Ipotizza quindi la trasformazione progressiva delpiccolo circolo operaio in un «utilissimo organismo di coltura, da giovarea tutti, letterati e analfabeti». e, infine, coerentemente con l’assunto inizialeche il movimento e l’elevamento culturale del Mezzogiorno debba avveniread opera dei giovani di buona volontà autoctoni, auspica, per l’allarga-mento e diffusione dei circoli, la creazione di un «organismo assoluta-mente meridionale», volto a ottenere ausilio da enti culturali e a

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indirizzare i «volenterosi» nella loro opera coraggiosa, «ma paziente». Pro-babilmente è questa una tirata anti-ANIMI fondata due anni prima, ma aroma! Alterisio è fiducioso che quanto da lui analizzato e suggerito possarealizzarsi purchè si resista contro le «forze misoneiste e le diffidenze na-turali della popolazione», verso le quali bisogna porsi «con amore» senzafalse ambizioni di mettersi in mostra.viene pertanto ribadito il filantropico umanitarismo socialista: «biso-gna soprattutto che gli iniziatori di questo movimento trattino gli operaicon la massima fraternità e umanità possibile». Implicitamente senza di-stinzione di classe, detto esplicitamente: senza secondi fini; emergerebbecosì l’utilità unitaria dei circoli operai e degli intellettuali: il popolo meri-dionale incomincerebbe ad emanciparsi sul piano della conoscenza delleleggi e dei propri diritti, «a rendersi più consapevole dei bisogni della pro-pria vita propria e del proprio paese» In fondo si addita la grande prospet-tiva per esso: diventare presto «un abile e sicuro maneggiatore» ( quasioperaio/ manovale!) del Suffragio universale, auspicando che a giolittipiaccia di darlo.la chiusa dell’intervento di Alterisio rende ragione ultima del titolo,nel senso che il popolo meridionale, indagato nella sua componente gio-vanile di figli di signorotti (classe egemone) e giovani di buona volontà,protagonisti d’elevamento della classe operaia, attuato da questi ultimi se-condo il suo 1programma pedagogico’», «maneggerà» il suffragio univer-sale ove giolitti lo conceda, come se fosse… donazione e dall’alto! la leggeelettorale n. 666 del 30 giugno 1912, che entrerà in vigore per le elezionidella XXIv legislatura del regno d’Italia, a sostutizione della precedentedel 1882 (modificata nel 1891), ampliò sì il suffragio ma non in senso uni-versale e certo non a vantaggio dei giovani meridionali di buona volontà7su cui puntava Alterisio.Sull’articolo di Alterisio, a un mese di distanza della sua pubblicazione,su «l’unità», I, 13, del 9 marzo 1912, p. 52, nella sezione «la postadell’“unità”» sotto il titolo (evidentemente redazionale, ma non troppo)«la giovine Calabria», appaiono due significativi interventi, ambedue con-cepiti come lettera al giornale, il primo a firma di “Alcuni studenti del liceodi reggio Calabria”, il secondo di “A. Monti”:

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7 Premesso che le donne continuarono a non avere diritto di voto, il suffragio fu estesoai cittadini di più di trenta anni di età o anche meno di trenta purchè avessero un redditodi almeno 19,20 lire o la licenza si scuola elementare oppure avessero prestato serviziomilitare. Il corpo elettorale passò quindi dal 7% al 23%. tale legge fu impiegata solo peruna legislatura (fino al 1919).

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I.Ill.mo Sig. Direttore dell’ «unità»,la preghiamo a voler pubblicare nel suo giornale, queste due righe a proposito dell’ar-ticolo «In vista della riforma elettorale» pubblicato dal Sig. goffredo Alterisio, nel numero10 Febbraio dell’ Unità. Il Sig. Alterisio, dopo aver affermato giustamente, che un movimento di coltura qui nelMezzogiorno può essere intrapreso solo dai giovani, fa una distinzione tra i giovani, figlidei piccoli signorotti locali, giovani che vanno a studiare, che rifuggono dal modesto ope-raio, superbi, deficienti di coltura, futuri signorotti senza coscienza e senza conoscenza,futuri capi delle fazioni locali ecc., giovani insomma, disgraziatamente in maggioranza, daiquali nulla di disinteressato e fraterno si può ottenere; e giovani, che sono pochi, duo o treforse in ogni paese, di buona volontà, studiosi del movimento politico ed economico d’Italia,animati di buoni propositi per la resurrezione del loro paese.In quanto ai primi, ciò che il Sig. Alterisio dice, è giusto, poiché veramente essi sono lamaggioranza, esistono, hanno in cuore più o meno le qualità e le aspirazioni sopradette,quantunque alcuni di essi ( è questa oggi la moda generale e non crediamo dei soli giovanidel Mezzogiorno) ostentino, arrivando pure ad ingannare, principi democratici e filantro-pici che non nutrono per niente.Però non di tutti si deve avere codesto concetto: qualche buona eccezione anche franoi c’è. Per esempio: alcuni studenti del liceo di reggio Calabria, appartenenti quindi a fa-miglie borghesi, ma animati di sincero e giusto proponimento, sotto la guida e l’esperienzadi un loro professore, si sono riuniti già da molto, proponendosi, senza alcun colore politico,pel bene del loro paese, e per il bene proprio, i seguenti tre scopi:1°. Studiare che cosa è la questione meridionale per averne un’idea netta e precisa.2°. Istituire un segretariato del popolo, per avvicinare a qualche elementare principiodi coltura con letture ecc., e per aiutare gratis nel disbrigo della loro corrispondenza, lepersone ignoranti e analfabete.3. Proteggere con aiuti morali e materiali le scuole private, che qui nel Mezzogiornopullulano: scuole, che, data la insufficienza numerica delle scuole pubbliche, riescono assaibenefiche alla povera gente.Il primo intento che riguarda direttamente gli associati si è subito messo in pratica,coll’abbonamento a giornali, quale «l’unità», che tratta vitalissimi problemi della vita ita-liana, e con l’acquisto di libri e opere in proposito.Il secondo pare che vada fallendo per la indifferenza e la diffidenza della popolazione,che o non sa rendersi ragione di un’azione disinteressata e sincera, oppure dà retta alle in-sinuazioni di qualche solito misoneista.Il terzo sta per mettersi in pratica.È inutile dire la derisione e l’indifferenza che accolsero in generale le idee di tali giovani,i quali, come ben disse l’illustre Senatore Franchetti in una loro riunione, devono proprioda tali delusioni attingere nuova forza e sperare tenacemente.la volontà in tali giovani non manca, ma sarebbe cosa ottima, se fossero da personeautorevoli e intelligenti, agevolati, aiutati in ogni maniera, nei loro sinceri e disinteressatipropositi. AlCuNI StuDeNtI DI reggIo CAlABrIAIl gruppo di studenti del liceo Classico reggino concordano, da giovani,con l’Alteriso sul fatto che protagonisti del movimento del Mezzogiorno de-vono essere i giovani. Nella prima parte dello scritto condividono la sua

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spietata analisi relativa ai figli di “signori”, che sono maggioranza. Però glis-sano sulla presenza esclusiva e minoritaria proclamata dall’Alterisio, e op-posta dialetticamente, dei giovani volenterosi (pochi, in rapporto allamaggioranza dei primi), passando ad obiettare che «non di tutti si deveavere questo concetto: qualche buona eccezione anche fra noi c’è’. e si au-tocitano in terza persona come ‘alcuni studenti del liceo di reggio Calabria,appartenenti quindi a famiglie borghesi»: animati da buoni propositi, sottola guida di un loro professore si sono riuniti già da tempo, senza alcun co-lore politico (altro che vicinanza alla classe operaia!), per il bene proprioe del proprio paese con tre obiettivi, di cui diremo oltre. Deducono essi chein quanto studenti del liceo sono figli di borghesi da non ritenere signo-rotti8. essi dunque, figli di signori, non vanno a studiare, ma studiano nelprestigioso liceo della città e si presentano come volenterosi: già da temposi sono ‘riuniti’, hanno in un professore (non un conferenziere «forestiere»né un pur prestigioso Direttore della Cattedra di Agricoltura…) il mentoreadeguato, colmo di esperienza come auspicato da Alterisio, o e si propon-gono ad operare, per il bene proprio e del paese. Si condivide dunque l’ana-lisi dell’Alterisio e il suo monito alla gioventù, ma con il distinguo che loro,figli di borghesi non signorotti, non sono aspiranti tali né culturalmentedeficitari. Sottinteso anche che non hanno fatto il servizio militare né viag-giato nel Nord Italia, hanno tuttavia già messo in atto l’opera da lui sugge-rita, precisando meglio la definizione degli scopi, nel numero di tre9. Conciò gli studenti del liceo - senza polemica apparente - escono dal vago pro-gramma di acculturazione delle masse operaie come compito dei giovani«volenterosi», precisando primariamente di volere studiare in cosa consi-sta la questione meridionale «per averne un’idea netta e precisa». Circo-scrivono questo primo «intento» riservandolo «direttamente agli associa-ti». esso ha già comportato abbonamenti a giornali (prima di tutti«l’unità») e l’acquisto di libri. Non si prevedono dunque i ‘circoli’ di Alte-risio, ma la semplice adesione di studenti al triplice intento. Il secondoscopo, l’istituzione del segretariato del popolo, s’inquadrerebbe nell’attività

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8 g. teSIo, Augusto Monti cit, p. 47, giustamente nota che i giovani liceali che frequentanoi ‘sabati’ di Monti, in merito all’analisi di Alterisio sulla gioventù del Mezzogiorno «hannoqualcosa da dire in proposito, qualcosa forse da smentire». Si aggiunga che è palese l’in-tento, più che di smentire, di presentarsi, come essi fanno, quali studenti «volenterosi»,ancorchè rampolli di quella borghesia cittadina (non signorotti locali) che da sempre haavviato i propri figli al liceo Classico, scuola d’élite al contrario degli Istituti tecnici.9 Sui tre scopi proposti e sui momenti della loro realizzazione, si legga il resoconto informa di narrazione, condotta sul filo di vigile memoria, spesso costellata da aneddoti si-gnificativi, dello stesso Monti, I miei conti, pp. 91-107.

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di aggregazione e di creazione dell’abitudine alla lettura suggerita da Al-terisio. Ma gli studenti scendono ancor più nel concreto: si tratta di unmezzo per aiutare gratis gli analfabeti nel disbrigo della corrispondenza,che, com’è noto, soprattutto nei paesi ma anche in città, era prerogativaprezzolata di alfabetizzati attrezzati alla bisogna o addirittura del parroco.Purtroppo l’intento stenta a decollare proprio per quella indifferenza, dif-fidenza del popolo e il misoneismo, quali additati già dall’Alterisio. Il terzoproposito, aiutare moralmente e materialmente le numerose scuole privateche suppliscono alla ‘insufficienza numerica’ della scuola pubblica, si stamettendo in atto. era quest’ultimo una rimodulazione in senso concreto,per nulla ideologico e in altra direzione, del monito di Alterisio secondo ilquale ‘i circoli’ da lui suggeriti dovrebbero farsi iniziatori e sorvegliantidelle scuole serali e festive’. Affiancano gli studenti del liceo all’esortazionedell’Alterisio ai giovani a non scoraggiarsi di fronte a invidia, insofferenza,misoneismo del popolo, il similare incoraggiamento di leopoldo Fran-chetti. e non credo sia semplice accostamento di una grande personalità,quanto piuttosto un voler ribadire quale nume tutelare del loro impegnoessi abbiano, a sicura garanzia differenziante rispetto all’Alterisio che nelsuo intervento non cita nessun ‘maestro’ di meridionalismo. Anche essi co-munque concordano sul fatto che la volontà non manca nei giovani e chela guida di persone autorevoli e intelligenti agevolerebbe il loro disinteres-sato operare.Segue la postilla di Monti, che sicuramente, un po’ alla Don Milani, avrà

reggio Calabria 1911-1912. Augusto Monti meridionalista sul campo 61Una foto di AugustoMonti ancora giovane

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contribuito alla stesura collettiva della lettera degli studenti (i suoi): II.Cara Unità,I miei giovani han letto nel N. 9 del 10 Febbraio l’articoletto dell’ Alterisio e ne sonostati invogliati a scrivere le poche righe, che precedono sperando che possano trovare postoalmeno nella Corrispondenza coi lettori. Particolarmente notevoli mi paiono le ultime pa-role: «La volontà in tali giovani non manca, ma sarebbe cosa ottima se fossero da personeautorevoli e intelligenti agevolati, aiutati…»Davvero, buona volontà e ottime disposizioni non fan difetto nei giovani di queste re-gioni, o per lo meno molti di questi giovani: manca, io credo, a loro l’assistenza di personedi riguardo, che disciplinino le loro energie, le moderino, e specialmente, le dirigano ad unfine preciso, chiaro, pratico, immediato. Questa dovrebbe essere l’opera specialmente degliinsegnanti medi, di quanti sono insegnanti medi che non considerino le città di quaggiùcome residenze di domicilio coatto o come alberi di ripetizioni che si devono bacchiare apiù non posso, per poi alzar le suole quando… se ne abbiano piene le tasche. Questi giovani,molti di questi giovani non attendono che una parola, un cenno del loro maestro per met-tersi al lavoro: che quel cenno sia fatto, che questa parola sia detta: e poi li vedresti alacri,pronti ad andare dove tu li mandi, a far quello che loro imponi, a studiare, a far ricerche, apersuadere, a propagare idee, ad affrontare motteggi e derisioni … pur di agire … pur difare. Abbandonati a sè invece, i più non fanno nulla, non si muovono in nessun senso; imeno, i più ricchi d’energie fanno, agiscono, ma disordinatamente e spesso anche mala-mente.Io, capitato qui con queste idee, ho trovato subito un gruppetto di giovani che mi handato ascolto volenterosamente, si sono uniti con lo scopo di studiare e di lavorare anchefuori della scuola per il miglioramento proprio e del proprio paese: i nostri primi passicerto sono incerti, ma ci sorregge e ci guida una gran fede e nutriamo speranza di fare,prima di lasciarci, molto di bene.Invece di sciorinar programmi e di fare promesse, ora attendiamo a lavorare: a manoa mano che avremo fatto qualcosa di concreto, attuato un proposito, salito un gradino, nedaremo notizia, per mezzo dell’«unità» a quanti giovani «unitari » sono che abbian desi-derio e modo di imitarci e di accompagnarci.Saluti affezionatissimi e ringraziamenti per l’appoggio. A.MoNtI

Augusto Monti riprende, sottolineandolo, l’ultimo auspicio degli stu-denti, essendo egli l’esempio concreto della figura di mentore socratico daessi invocata. Ma lungi da retoriche proposte, nella fattispecie dalle gene-riche indicazioni pedagogiche espresse da Alterisio nel suo «articoletto»,indica e precisa la funzione che devono esercitare le 1persone di riguardo»sui volenterosi: disciplinare, moderare le loro energie e dirigerle ad un fine

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10 È indubbio che il soggiorno a reggio di Monti e il vivere in loco i problemi del Mez-zogiorno segna la sua maturazione politica, come afferma egli stesso (A. Monti, I miei conticit., p. 97): «Durava in me quel 1912 il travaglio per cui dal maccheronico e sentimentalesocialismo de’ miei vent’anni mi avviavo passo passo verso quel neoliberismo che dovevadiventarmi consapevole un dieci anni appresso per il incontro con Piero gobetti».

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preciso, chiaro, pratico, immediato10. e questo è compito degli insegnantimedi (della scuola dunque, non dei ‘circoli’), di quelli che vengono dal Nord(anche se non detto espressamente), che non devono considerare le «cittàdi quaggiù» come domicilio coatto e gli alunni bisognosi di ripetizionicome una ricca fonte di guadagno, soddisfatto il quale ci si affretta a ritor-nare nei luoghi di origine. Il suo giudizio sui giovani studenti, opportuna-mente guidati, è entusiastico e positivo, senza riserva alcuna di censo o diclasse sociale. egli stesso ha sperimentato la loro alacrità a largo raggio, il loro nonfermarsi di fronte alle difficoltà socio-ambientali, «pur di agire … pur difare» e, «capitato» a reggio Calabria «con queste idee», ha trovato ilgruppo di giovani che l’hanno ascoltato: li ha coinvolti nello studio e nel-l’attività in orari extrascolastici, nella speranza di fare e di fare bene primache anch’egli un giorno (come accadrà) vada via. Infine, in sottile polemicacon l’Alderisio e con quanti stilano programmi e fanno promesse, puntadirettamente all’attivismo, foriero di risultati passo dopo passo. Del chetiene a darne notizia a « l’unità», coinvolgendo nello spirito di emulazionei giovani «unitari», ricevendo nella nota redazionale del settimanale pienoappoggio11. letti in controluce, gli interventi di Alterisio, dei liceali e di Monti, purnella loro esiguità, documentano la diversità di volti del meridionalismogià nel primo decennio del secolo scorso. Alterisio, da meridionale emi-grato al Nord, dipendente di un grosso gruppo industriale, a contatto colmondo operaio, pur puntando sui giovani per il riscatto del Sud, indica unpercorso di elevamento con interventi culturali in linea col socialismo fi-lantropico e umanitario nel quale utopia e prospettiva messianica si inter-secano. Il fatto che Monti viva da uomo di scuola la realtà dell’estremo lembodel Meridione, della reggio devastata dal terremoto, carente di istruzionepubblica, con docenti spesso non del luogo e desiderosi quanto prima dirientrare nelle sedi di provenienza, pullulante di scuole private senza alcuncontrollo, è per lui motivo di sposare e di sperimentare sul campo il suoimpegno meridionalista col pieno coinvolgimento proprio dei giovani delsuo liceo. egli, piemontese come il tanto ammirato umberto ZanottiBianco, riporterà al Nord i frutti di questa sua esperienza, cercando tena-cemente di moltiplicarli, ma guardando al Sud con gli occhi del Sud, se-

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11 «L’Unità sarà felice e onorata ogni volta che potrà dare notizia di opere come quellatentata dai giovani di reggio Calabria, e appoggerà sempre con tutte le sue forze iniziativesimili. In uno dei prossimi numeri ritorneremo sull’argomento».

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condo un percorso inverso a quello di goffredo Alterisio, uomo del Sudche ormai, inserito nel Nord industriale, propone un programma di ri-scatto del Mezzogiorno condivisibile nelle nella premessa, nell’analisisocio-antropologica, e nell’individuazione della necessità primaria di ele-vamento culturale delle masse, mancando tuttavia di indicazione concretadelle modalità del fare e dell’agire.

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Malattia di cuore sì, malattia di cuore no! Questo il dilemma sulla mortedel geniale giornalista, scrittore e deputato calabrese Rocco De Zerbi av-venuta in circostanze del tutto arcane, tra innocentisti e colpevolisti, i qualine hanno dette tante pur di sostenere a oltranza il proprio credo. A ri-guardo in passato abbiamo scritto in parecchi, giornalisti, ricercatori e fi-nanco romanzieri1. Ma ora spunta un eccezionale documento che forsepotrà dire una parola in più sullo strano caso. Si tratta di un passo dellamemoria che il deputato Raffaele Colarusso2 ha inviato al senatore AntonioCefaly3 e che si trova depositata tra le carte di quest’ultimo al Senato dellaRepubblica4. Il Colarusso, deputato del collegio di Cittanova, ma originario di Palmi,dove aveva casa, nel rispondere al Cefaly, che gli aveva inviato una lettera,il 20 aprile 1913, quindi ormai fuori dall’agone politico, veniva a rimem-brare le battaglie trascorse, colleghi e competitori e soprattutto a ramma-ricarsi dell’oblìo, cui lo aveva condannato il suo antico protettore e capopartito, il presidente Giovanni Giolitti. Nelle more non poteva non riandareanche a un frangente tragico, cui si era involontariamente mischiato, al-l’episodio doloroso della morte dell’on. Rocco De Zerbi, incappato nelloscandalo della Banca Romana e deceduto conseguentemente. All’epoca

Un filo di luce sulla fine di Rocco de Zerbi travolto dallo scandalo della Banca romana

Rocco Liberti

1 A riguardo rimando ai miei: Attualità di Rocco De’ Zerbi, Pellegrini, Cosenza 1973; Ilcaso Rocco De Zerbi, «Quaderni Mamertini», n. 60, Tipolitografia Diaco, Bovalino 2005.2 Raffaele Colarusso detto anche Raffaello, avvocato, è nato a Palmi nel 1854 e vi è de-ceduto nel 1919. È stato a Montecitorio nel 1890 e 1895 a rappresentare il collegio di Cit-tanova. www.Camera dei Deputati. Dal sito della Camera sono tratte, se non diversamenteindicato, tutte le notizie biografiche dei vari parlamentari di cui si parla in questo lavoro.3 Antonio Cefaly (Cortale 1850-Roma 1928), agricoltore, sindaco del paese natale perparecchi anni, quindi consigliere e presidente del Consiglio Provinciale di Catanzaro, è statodeputato per 3 legislature per il collegio di Monteleone e per una in quello di Nicastro tra1882 e 1892. È stato poi nominato senatore del Regno nel 1898.4 Ne ho avuto in copia gradito dono dall’amico scultore e studioso Achille Cofano, cheringrazio sentitamente.

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giornali e politici, in gran parte alla ricerca dello scoop e poco badando adaltre cause, hanno addossato la colpa del luttuoso evento a un avvelena-mento. Ma il politico palmese, che fin quasi agli ultimi giorni ha parlatocon lo sfortunato parlamentare, non sembra essere di tale parere, anzitutt’altro.Ecco nelle sue stesse parole come ha delineato i rapporti con lo scom-parso e quanto avvenuto proprio nell’ultima fase della di lui vita. Alla lungaegli poteva vedere ormai le cose con molto distacco. Colarusso fa noto aCefaly:«Ricorderai i fatti della Banca Romana, e l’incriminazione dell’on.le Rocco De Zerbi, al-lora deputato di Palmi, e da me principalmente nelle precedenti elezioni sostenuto. E sapraiche viceversa in quella elezione appunto il De Zerbi scordando il debito di gratitudine versodi me che lo avevo nelle altre sostenuto, si spiegò contro di me in Cittanova per sostenereil De Blasio5, come lui di destra, salvo a telegrafarmi poi sulla mia vittoria ed il primo ditutti, così: Compiuto il mio dovere senza astio, mando al fratello ed amico vittorioso il mioabbraccio. R. De Zerbi.Venuta l’autorizzazione, che fu accordata giustamente dalla Camera, al De Zerbi nonrimase, di tanti suoi amici ed ammiratori, veruno a confortarlo; e trovò solo in me quel talefratello ed amico che aveva combattuto. E così da mane a sera, può dirsi, mi recavo al suovillino in via Castelfidardo, e con me usciva talvolta in vettura, ed in me trovava confortoalle sue angoscie pel procedimento grave e brutto che gli pesava sulle spalle. E poiché eglivedeva in S. E. Giolitti e nell’on.le Rosano6 i suoi persecutori, e d’altra parte sapeva quantoda costoro mi si volesse bene, da mane a sera mi chiedeva: se fosse sorvegliato o piantonato,se sarebbe stato presto arrestato ecc. Ed io a confortarlo ed a dirgli: ma cosa mai pensi, S.E. Giolitti e l’on.le Rosano mi hanno sinanco manifestato, che ove sarà provata la tua inno-cenza, in nuova elezione, non ti si combatterà in Palmi. Intanto il De Zerbi s’accasciava ognigiorno di più, e visibilmente era deperito; quando una sera verso le ore 22 e ½ recatomialle Varietà in via Due Macelli, appena entrato m’intesi chiamare forte. Mi voltai e vidi chequegli, che mi chiamava si era l’ex-deputato on.le Napodano7. Mi avvicinai allora, a questi,che io conoscevo solo di vista, mi disse scusandosi della chiama, che io soltanto ero in gradodi fare in quell’ora una buona opera, quella cioè di recarmi dall’amico De Zerbi e dirgli insuo nome, che avrebbe fatto bene senza aspettare il mandato di comparizione preludio diun arresto, si fosse spontaneamente nel mattino seguente recato dal Giudice istruttore

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5 Vincenzo De Blasio, barone di Palizzi (Reggio Cal. 1839-1906), è stato alla Camera per4 legislature, dal 1882 al 1897.6 Pietro Rosano (Aversa 1847-Roma 1903), avvocato, garibaldino, è stato deputato per7 legislature tra 1882 e 1903. Nei governi Giolitti ha ricoperto incarichi di sottosegretarioall’Interno (1892-1893) e ministro delle Finanze (1903, per soli sei giorni, essendosi sui-cidato). È stato coinvolto nello scandalo della Banca Romana: cfr. Enciclopedia ItalianaTreccani (d’ora in poi EIT). Il suicidio pare sia dovuto al fatto di essere stato indicato, atorto o a ragione, come amico della Camorra. In odore di favori alla Camorra sembra essersirivelato anche il De Zerbi, autore, come altri, di una lettera di raccomandazione in favoredel capo camorrista napoletano Pasquale Cafiero: cfr. JACQuES DE SAINT VICToR, Patti scelle-rati-Una storia politica delle mafie in Europa, uTET, Torino 2013.7 Luigi Napodano (Napoli 1842-Roma? 1906), avvocato e docente universitario di di-ritto, è stato deputato per 6 legislature tra 1876 e 1897.

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mettendosi a sua completa disposizione. Questa spontaneità, aggiunse, avrebbe predispo-sto benevolmente l’istruttore. E poiché il suggerimento mi veniva da un valoroso avvocato,qual era il Napodano, ed una buona azione mi pareva di compiere, malgrado l’ora inoltratanon indugiai oltre, ed infilando l’uscita presi una vettura, e di corsa, filai per il villino a Ca-stelfidardo - e vi giunsi quasi vicino la mezzanotte. Bussai, mi si aprì da un servo di casa,ed entrai. Entrato però in un semibuio mi si strinse il core, e quasi fui sul punto di tornarmeneindietro, ma il rumore della porta, i passi ed il chiedere di lui furono intesi dal De Zerbi,che era a letto, e chiese chi fosse. Io, gli risposi, e lui intesa la mia voce, mi chiamò forte, emi volle subito nella sua camera. Entrato, ed accostatomi da presso commosso mi disse:cosa c’è Raffaele a questa ora? Buone nuove gli risposi, e fè un sospiro di gran sollievo. Edopo senza perdere tempo gli dissi: l’on.le Napodano, che per caso vidi ora, ed è per questoche ora vengo, ti saluta tanto, e ti dice di stare di buon animo; però egli desidera che tusenza attendere un mandato di comparizione, che verrà, ti recassi spontaneamente dal-l’istruttore, e ti mettessi a sua disposizione. Questo tuo gesto farebbe tanto bene! ...8 Si sol-levò anco di più, e baciandomi e stringendomi le mani mi ringraziò con un esplosioneindicibile. Dopo di che augurandogli la buona notte andai via. Il De Zerbi però seguitò adandare male, non è accertato e non si sa se naturale, o procuratosi lentamente, come iopenso e pensano i più, e finì. E finito, sai un poco cosa vennero dicendo i suoi fratello, figlio,nipoti e parenti in oppido? Che Rocco De Zerbi morì per mia colpa, perché sapendo il po-vero morto essere io un fido dell’on. Giolitti, oltre che le mie visite, si avevano il fine di sor-vegliarlo ed indagare se per caso volesse allontanarsi per incarico di S. E. Giolitti e dell’on.leRosano (e quando mai costoro si sognarono, né lo si sarebbero permesso, e scusa le parole)in quella sola notte che vi andai, il De Zerbi, che soffriva di mal di cuore, ebbe una fierissimacrisi per la paura che si fosse andati per arrestarlo. Infamia senza nome! ...».In verità, appena il giorno dopo la scomparsa di De Zerbi, Colarussonon esitava a farsi avanti alla Camera tra quanti commemoravano il de-funto deputato prendendo la parola soprattutto per difenderne l’onorabi-lità. Era il suo primo discorso a Montecitorio e ci teneva a evidenziarlo.Questo il suo deciso e vibrante intervento:«Prendo a parlare per la prima volta in questa Camera e per ragioni di lutto; eppure seciò non facessi, se mi lasciassi vincere dall’accasciamento prodotto dalla morte rapida edinattesa del mio amico De Zerbi, tacendo oggi mi confesserei grandemente colpevole.Dirò dunque poche parole, quali me le detta il cuore, facendo assegnamento sulla be-nevolenza della Camera, la quale comprenderà dalla mia commozione la condizione dianimo in cui mi trovo.Dire dunque in mezzo a voi dei pregi che adornavano l’onorevole De Zerbi è un fuord’opera perché voi tutti avete potuto apprezzarlo.Ricordo ch’egli, il povero morto, all’apertura di questa Camera da quel banco nel com-memorare un altro valoroso, l’onorevole Saint-Bon9, disse che quella morte non doveva av-

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8 Il mandato di comparizione ci sarà il 3 febbraio 1893 e il De Zerbi sarà sottoposto alungo e penoso interrogatorio da parte del giudice istruttore Ferdinando Capriolo e la finearriverà il 20 successivo. R. LIBERTI, Attualità di Rocco De Zerbi, pp. 68-69.9 Simone Antonio Pacoret De Saint Bon (Chambery 1828-Roma 1892), militare, è statoalla Camera per 4 legislature tra 1870 e 1886. Ha ricoperto l’incarico di ministro della ma-rina nei governi Minghetti, Di Rudinì e Giolitti.

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venire, come avvenne, sibbene su di una nave e nel calore di una battaglia.Ebbene, consentite anche a me, onorevoli colleghi, che io, ricordando quelle sue parole,dica che questa morte non era quella che all’onorevole De Zerbi si conveniva; egli avrebbedovuto cadere fra le rovine di Casamicciola o fra i colerosi di Napoli10.E da stamane una sola cosa mi ferisce l’animo, ed è lo sconforto straziante dei suoi edel suo figliuolo specialmente, per l’accusa feroce che lo ha colpito, e perché non ha avutoil tempo di provare la sua innocenza.Ebbene, oggi, mentre io fo voti ardenti che da quell’accusa esca illeso il nome dell’ono-revole De Zerbi, prego la Camera di unirsi al cordoglio della povera famiglia, che in questogiorno non solamente lamenta la perdita dolorosa di un tenero padre e marito, ma soggiacead una accusa che colpisce il suo onore»11.Nonostante l’impegno svolto a ristabilire le cose nel giusto verso, al po-vero Colarusso, come si è detto, sono piombate addosso gli strali dei pa-renti del De Zerbi sia di quelli domiciliati a Roma che di quelli rimasti inoppido, dove erano tenuti in gran conto, strali che non ammettevano giu-stificazioni. Allorché è capitata l’occasione, non hanno mancato di ricor-darsene. Scrive ancora Colarusso a Cefaly:«E quando nelle elezioni generali ultime con la legislatura che ancora è in vita, l’on.leFacta avea disposto il favore del Governo per la mia candidatura in Palmi contro il Nun-ziante12, favore accordato pro-forma soltanto, il S. Prefetto del tempo Cav.re Falletti, cheera rimasto sconcertato per le disposizioni ricevute in mio favore, mentre si trovava tuttodisposto col Generale Tarditi13 e Vescovo Morabito14 pel Nunziante, avendo dovuto per ub-bidienza chiamare tra gli altri il Sindaco di oppido Sig.e Alfredo De Zerbi15, figlio di Gaetano,fratello al fu Rocco e che oggi dimettesi da Sindaco osa posare anche la sua candidatura

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10 Casamicciola e Napoli sono i centri nei quali il De Zerbi si è distinto per un’opera dicarattere umanitario. Nel 1883 si è recato nel primo centro in occasione del terremotomentre l’anno dopo, quale presidente della Croce Bianca, si è portato a Napoli. In entrambii luoghi è brillato il suo impegno a favore dei malcapitati.11 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, legislatura XVIII, 1a sessione, discussioni,tornata del 20 febbraio 1893, p. 1542.12 Ferdinando Nunziante di San Ferdinando (Napoli 1863-1941), marchese, possidente,laureato in giurisprudenza, è stato deputato per 4 legislature nei collegi di Palmi e di ReggioCalabria tra 1909 e 1929. Ha ricoperto l’incarico di sottosegretario agli approvvigionamentie ai consumi alimentari tra 1918 e 1929.13 Cesare Benigno Tarditi (Torino 1842-Roma 1913), militare di carriera finito tenentegenerale, variamente decorato per la partecipazione a diverse campagne, nel 1909, su re-lazione del presidente Fiorenzo Bava Beccaris, era nominato senatore. Ha ricoperto ancheil carico di sottosegretario. Commemorandolo il presidente Giuseppe Manfredi, se ne evi-denziavano i meriti calabresi: «E richiamato dalla posizione ausiliaria nel 1908, fu il com-missario regio, che in Palmi di Calabria, e nella devastata regione, dopo il terremoto del 28dicembre di quell’anno, adempì il dovere con energìa ed umanità ammirevoli». www.Senatodella repubblica (d’ora in poi SR).14 Mons. Giuseppe Morabito (Archi Reggio Cal. 1858-1923), vescovo di Mileto dal 1898al 1922. È ricordato per il grande impegno profuso a favore dei terremotati del 1905 e 1908.15 Alfredo De Zerbi (oppido 1874-1935), è stato sindaco della città natale dal 1905 al

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nel collegio di Palmi, certo per tentare qualche cosa monet…16 da qualche candidato, costuifra le altre esitazioni, fe sapere anco l’impossibilità sua e dei Suoi di appoggiare me, cioèquella del rancore de’ De Zerbi per me sul fatto accennatoti, roba che giunse gradita credoal Cav.re Falletti, che gli sembrava impedisse la sua azione. E così avvenne che sebbeneavessi ottenuto l’appoggio del Governo, neanco un qualunque commissario prefettizio po-tessi ottenere fino scrivendone e telegrafandone all’on. Facta che si chiuse in un silenzio».La notizia che De Zerbi si sia suicidato per paura dell’arresto è stata si-curamente propagandata dai giornali e fino ad oggi nessuno ha potuto do-cumentare alcunché. Invero, le fonti più responsabili hanno fattoriferimento diretto a una malattia di cuore, di cui quegli soffriva da tempo.Certamente, i timori per un possibile mandato di carcerazione erano piùche seri, questo proprio non si discute, e avranno fatto la loro parte. Precisi e normali particolari sulla fine del noto deputato sono stati al-lora subito forniti dalla Civiltà Cattolica:«Il De Zerbi è morto in Roma il 20 febbraio per malattia di cuore resa più fiera dopol’abbattimento morale cagionato dal processo che gli pendeva sul capo. Aveva scritto finoalle 3 di mattina; alle 3,45 s’alzò dalla poltrona, ebbe un sussulto angoscioso e poi cadderovescioni. Accorsi i parenti ed amici, fu mandato pel parroco della chiesa del S. Cuore;questi diè l’assoluzione all’infermo che morì poco dopo. un giornale parlò di morfina usatain gran dose dal de Zerbi e che avrebbe prodotta ipertrofia di cuore. Ma nec scire fas estomnia»17. L’ultima frase potrebbe suonare così: non è permesso sapere tutto.Certamente, De Zerbi alla Camera aveva dei nemici. Figuravano in tantiquanti non gradivano quel suo modo di fare e di comportarsi a volte istrio-nesco a volte provocante, ma talora anche seducente. Così il Cefaly, il de-stinatario della missiva di Colarusso, nei suoi ricordi inediti rammentavaun episodio accaduto nel 1892 all’atto della formazione del ministero Gio-litti, che lo aveva riguardato personalmente:«Tre o quattro giorni dopo io entravo alla Camera e nel corridoio verde trovai sdraiatosopra un divano l’on. Rocco De Zerbi che nel vedere me, cominciò a fare segni dispregiativiripetuti ed ostatati. Gli chiesi se l’aveva con me ed egli mi rispose che l’aveva con quei min-chioni di Calabresi che mandavano alla Camera gente scoglionata. Io allora avevo i coglionie gli chiesi di spiegarsi. Mi disse che io avevo rifiutato il Sottosegretariato all’Interno, cercaidi negare, ma mi accorsi che egli conosceva i fatti meglio di quel che li conoscevo io. Allora

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1914. Esponente del socialismo, in ultimo è entrato nelle file cattoliche, ricoprendo anchel’incarico di presidente diocesano.16 È così nell’originale. Probabilmente, lancia qualche sospetto di tresca a fine di rica-vare del denaro.17 «La Civiltà Cattolica», anno quarantesimoquarto, serie decimaquinta, presso Ales-sandro Befani, Roma 1893, p. 758. In precedenza (p. 500) lo stesso periodico aveva cosìcomunicato di un possibile imminente arresto: «il De Zerbi non è stato ancor catturato. Èstato però già arrestato il suo intermediario de’ loschi affari, l’Avvocato Bellucci-Sessa».

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spiegai a De Zerbi le difficoltà e le condizioni non accettate ed egli mi propose di chiederela nomina a S. Segr. dell’Agricoltura, perché Lacava18 mi avrebbe certamente nominato. Dissiche Lacava era deficiente in materia finanziaria, che aveva bisogno d’un sottosegretario chelo integrasse per le leggi e relazioni da fare e che quella competenza io non me la sentivo.Allora il De Zerbi mi si attaccò al braccio sinistro e con quella voce ed attitudine di Sirenami cominciò a parlare così: “qui ti volevo io. Tu hai a sapere che quella gente che veduta dalontano ti pare dotta e di grande competenza finanziaria, veduta da vicino non vale le suoledelle nostre scarpe. Ti sembrano giganti e sono pigmei. Se tu accetti ti farò io fare una figu-rona colossale da finanziere, perché le relazioni e le leggi di finanza non si preparano dalleeccellenze, ma da persone incaricate e tu avrai onori e posizione di governante.In allora io ero in feroce lotta coll’on. Nicotera19. Ero scapolo e giovane. Essere al governosignificava essere più forte elettoralmente ed avere una posizione politica, che assicuravala carriera. La riluttanza a farmi bello delle persone altrui e la conoscenza e poca stima cheavevo del De Zerbi mi salvarono. Se io avessi accettato la sua collaborazione ed il posto be-nevolmente offertomi da Lacava, il De Zerbi che senza poter provare nulla della corruzionedei suoi compagni di Commissione aveva creduto a Tanlongo20 e Maggiorino Ferraris21 - e

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18 Pietro Lacava (Corleto Perticara 1835-Roma 1912), avvocato, patriota, viceprefettoanche in Calabria, a Palmi e a Rossano. Eletto deputato nel 1868, lo è stato sino alla fine deisuoi giorni. È stato ministro delle poste e telegrafi, agricoltura e foreste e lavori pubblici evice-presidente della Camera. Coinvolto nello scandalo della Banca Romana, n’è uscito in-denne, ma a lungo è stato tenuto lontano dai ministeri (cfr. FuLVIo CoNTI, Dizionario Biograficodegli Italiani (d’ora in poi DBI), Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 2004, ad vocem). Inter-rogato il 9 giugno, mentre era ministro dell’agricoltura, industria e commercio, in meritoalla alla dichiarazione del Tanlongo avergli versato la somma di lire 20.000 da lui richiesta,ha risposto: «Io non ho mai chiesto né avuto somme dal Bernardo Tanlongo né per elezioni,né per altro motivo». BANCA RoMANA, Senato della Repubblica (d’ora in poi BR), vol. 9.19 Giovanni Nicotera (Sambiase 1828-Vico Equense 1894, patriota, è stato alla Cameradei Deputati ininterrottamente dal 1861 al 1892. Ha ricoperto incarichi di ministro del-l’interno con Depretis e Di Rudinì (MARCo DE NICoLò, DBI, ed. 2013, ad vocem); Interrogatoil 16 giugno, ha contestato le accuse mossegli da Tanlongo e Lazzaroni, soprattutto dalprimo: «Io non so spiegarmi o mi spiego troppo le ragioni che muovono il Tanlongo ad af-fermare che egli abbia dato a me danaro o come privato o come Ministro; ad ogni modosiccome egli stesso ritiene che il danaro datomi costituirebbe un mio debito così potrebbeo in via privata o adendo il Tribunale competente far valere i suoi titoli di credito e nonsarò certamente io, dato che questi titoli ci siano, che mi rifiuterò al pagamento». Riconosceperaltro come pertinenti a lui qualche particolare prima dello scandalo e dei biglietti diraccomandazione (BR, vol. 9).20 Bernardo Tanlongo è stato il personaggio chiave dello scandalo della Banca Romana.Pronto a ogni soluzione, ha saputo abilmente destreggiarsi tra monsignori e massoni. Al ver-tice dell’istituto nonostante fosse quasi semi-analfabeta, ha commesso molti illeciti e atti dicorruzione. Dopo un’inchiesta finita nel dimenticatoio e un forte intervento del deputato Na-poleone Colajanni, è stato alla fine arrestato. Ma un colpo di spugna nel 1894 mandava assoltitutti i politici coinvolti, compreso Giolitti, ch’era dovuto ricorrere alla fuga. A pagare era statoil solo De Zerbi morto naturale o probabile suicida, al dire di tanti giornalisti o cronisti.21 Maggiorino Ferraris (Acqui 1856-Roma 1929), avvocato, deputato dal 1886 al 1913,quando, non rieletto, è stato nominato senatore. Ha partecipato al governo inizialmentecome ministro delle poste e telegrafi e nel 1922 quale ministro per la ricostruzione delleterre liberate. Ha diretto per un trentennio la Nuova Antologìa. Coinvolto dalle carte Tan-longo nello scandalo della Banca, ne è uscito senza problemi (RoSANNA DE LoNGIS, Ferraris

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Giupa22 ec. ec. portando via alla Banca Romana 580.000 lire, se avesse fatto la legge e la re-lazione ed una fosse concertata col Tanlongo poteva dimostrare ch’era stata proposta neldisegno di legge di proroga sugl’istituti d’emissione, avrebbe svaliggiato la Banca Romana-ed io inconsapevolmente sarei stato diffamato, compromesso e sarei finito forse col suicidioe morendo ignominiosamente».Non che al Cefaly non solleticasse l’idea di far parte di una compaginegovernativa. Tutt’altro! Ma l’invito di De Zerbi sottintendeva senza dubbioqualche insidia. Ecco quanto, infatti, aggiungeva:«Se al posto di Rocco De Zerbi vi fosse stato Nunzio Nasi23 di cui io avevo un ottimoconcetto, chi sa che non mi sarei indotto ad accettare il Sottosegretariato all’agricoltura eda chiamarmelo collaboratore dei disegni di legge bancari»24.Cefaly ha risposto a Colarusso a stretto giro di posta e quest’ultimo, chesicuramente aveva fatto più che un pensierino alla candidatura nel collegiodi Palmi, pochissimi giorni dopo, il 29 di aprile, così tornava alla carica:«Ed ora vengo ad un altro imbarazzo, sul quale mi trovo per la richiesta del mio appog-gio in questo collegio da parte dei candidati, che si preparano a tenere il campo, cioè daPeppino Genoese-Zerbi distinto ufficiale di marina25, e dall’avv. Gabriele Fimmanò26, nonosando chiederlo l’Alfredo De Zerbi nipote del fu Rocco, del quale lungamente ti scrissi eche il Prefetto con qualche miraggio potrebbe subito ridurre a me».

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Maggiorino, DBI, 1996, ad vocem). Interrogato il giorno 2 marzo 1893 in merito ai rapporticol Comm. Monzilli, ha risposto che questi, conosciuto quand’era segretario della Commis-sione Parlamentare per l’Inchiesta sulle Dogane (1884-86) «non cercò in modo alcuno d’in-fluire moralmente sulle mie opinioni o di favorire alcuno degl’Istituti»: BR, vol. 26.22 Non ho alcuna idea a chi ci si possa riferire per cotal Giupa. Potrebbe trattarsi dipseudonimo o di due iniziali raggruppate e per la prima è il caso di leggere Giuseppe?23 Nunzio Nasi (Trapani 1850-Erice 1935), laureato in giurisprudenza, professore inun istituto tecnico, quindi direttore di scuole elementari, è stato deputato dal 1886 al 1926,quando è stato dichiarato decaduto per la partecipazione al cosiddetto Aventino. È statoministro delle poste e telegrafi con Pelloux e dell’istruzione pubblica con Zanardelli. Coin-volto nel 1907 in un processo per utilizzo indebito di somme di denaro pubblico, l’annodopo è risultato decaduto, ma in seguito è ritornato alla grande nell’agone politico (GIANLuCA FRuCI, DBI, ad vocem).24 Quanto riportato del Cefaly è parte delle sue Memorie, ch’egli intendeva rivedere ma chesono rimaste inedite L’ho estratto dalle stesse, che ho decifrato al completo per incarico deldirettore di «Storicittà» Massimo Iannicelli, che ha poi provveduto a pubblicarle su tale pe-riodico. La lettura del manoscritto non è stata per niente agevole, in quanto la calligrafia usatapresentava un carattere ostico. Si veda: «Storicittà», XXIV (2015), n. 224, pp. 14-17 e nn. ss.25 Giuseppe Genoese Zerbi, di nobile famiglia reggina (Reggio Cal. 1870-Napoli 1930).Distinto ufficiale di marina, ha partecipato alla guerra di Libia ed è pervenuto al grado diammiraglio. È stato deputato tra 1867 e 1880, ma alla fine è confluito nelle file fasciste. Èstato sindaco e podestà e si deve a lui l’iniziativa della Grande Reggio: cfr. GIuSEPPE MASI,DBI, vol. 53, 2000, ad vocem.26 Su questo politico di Santa Eufemia d’Aspromonte, peraltro valente avvocato, si veda

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Anche se oggi si affaccia qualche possibile spiraglio sulle ultime ore delDe Zerbi, la sua fine resta comunque avvolta nel mistero. Quanto non scon-fina nell’arcano rimane però senza dubbio la causa che ha portato il notopersonaggio a una fine così precipitosa. Le carte del processo della BancaRomana stanno ancora in buona parte a testimoniare sui particolari dellascandalosa vicenda di corruzione politico affaristica nella Roma di fine ot-tocento, che ha coinvolto tanti bei nomi del nostro Risorgimento.Tra le carte del processo della Banca, in particolare da registrazioni se-questrate al cassiere Cesare Lazzaroni27, emergono varie notizie sullesomme che il De Zerbi avrebbe avuto dal governatore Bernardo Tanlongoe che sono segnate partitamente per un totale di £ 523.000. Partono dal25 gennaio 1888 e terminano col 19 febbraio 1892 e le trances vanno da5.000 a 10.000, 20.000, 25.000, 30.000 fino anche a 40.000. Nel 1888 am-montano a 70.000, nel 1889 a 185.000, nel 1890 a 50.000 in un sol colpo,nel 1991 addirittura a 188.000 e, infine, nel 1892 ad appena 30.00028. Datener conto che nel 1889 era stata avviata l’inchiesta Alvisi-Biagini29, i cuirisultati nel 1891 il governo Di Rudinì aveva omesso di rendere noti «innome dei superiori interessi del Paese e della Patria», fatti conoscere poisul finire dell’anno dopo dal deputato Napoleone Colajanni.Chiestone conto al Tanlongo, che inizialmente sin dal 27 gennaio si eraespresso evasivamente affermando di aver dato delle somme al De Zerbie ad altri solo per spese di stampa e di viaggio, a più precise contestazioni,così quegli si giustificava in data 8 febbraio 1893:«Io posso dire di non aver conosciuto altrimenti il De Zerbi che come giornalista; ed intale sua qualità essendo anche Direttore e proprietario del “Piccolo” giornale di Napoli, iogli pagai in varie volte tutte le somme indicate negli appunti di cui si parla e che non impu-gno. Non deve fare meraviglia l’ingente ammontare della somma, inquantochè essa era unaadeguata rimunerazione al lavoro del De Zerbi per moltissimi articoli ed importanti, pub-blicati non solo a Napoli, ma anche nelle città di Torino Milano ed altre in giornali che nonricordo. Questi articoli erano diretti a rendere favorevole la pubblica opinione per la plu-ralità delle Banche e per l’abolizione della Riscontrata, e per cercare di riportare la circo-

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DoMENICo FoRGIoNE, Santa Eufemia d’Aspromonte-Politica e Amministrazione nei documentidell’Archivio di Stato di Reggio Calabria 1861-1922, Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria2008, passim.27 Il cassiere Lazzaroni alla fine è stato condannato al carcere.28 BR, vol. 7, Alligati alla perizia.29 Giacomo Giuseppe Alvisi (Rovigo 1825-Castelfiorentino 1892), laureato in giurispru-denza, medico chirurgo, giornalista, banchiere, deputato dal 1865 al 1880, presidente dellaCorte dei Conti. Per il comportamento dell’Alvisi si veda la lunga dichiarazione di Biaginidel 20 febbraio (BR, vol. 29). Gustavo Biagini, ch’era un diligente funzionario del ministerodel tesoro, è un fiume in piena nel raccontare gli intrecci politico affaristici delle persone

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lazione alla base metallica nelle proporzioni in cui era prima della legge del 1874. oltre aquesti articoli il De Zerbi dovette anche essere rivaluto delle spese di viaggio che fece ancheper dare in proposito delle conferenze fra giornalisti, ai quali, alla sua volta, per lo stessoscopo, dava dei compensi.Nessun pagamento gli è stato fatto nella sua qualità di Deputato. Sapevo che egli eraSegretario della Commissione che esaminò l’ultimo progetto di legge per la proroga di tremesi degli Istituti di Emissione, … (e avevo?) sempre ignorato che avesse fatto parte delleprecedenti commissioni parlamentari che si occuparono dell’altro progetto di legge circala proroga della facoltà di emissione».Seguono a questa piena dichiarazione delle precisazioni su vari riscon-tri richiesti dal giudice istruttore. Il versamento di £ 15.000 date a De Zerbicon appunto su di una nuova legge non erano a motivo di questa, ma nelsenso che quegli vi aveva contribuito con la stampa. Altra somma di £50.000 inviata allo stesso tramite Bellucci Sessa30 andava considerata sem-pre nello stesso solco. Così pure le £ 50.000 segnate a conto di R. Z. rico-nosciuto per il De Zerbi e indicate in un biglietto a motivo di «lotta forteper la discussione della legge e di nomina del relatore e del voto del par-lamento». Tra le carte di Tanlongo figuravano delle missive inviate dal De Zerbi.una riguardava un biglietto che afferma essergli stato inviato probabil-mente in relazione a quanto aveva ideato su un progetto di pensioni, delquale aveva parlato al Grimaldi31, che chiedeva parimenti d’interessare.Altra era una lettera dell’8 dicembre 1890 che atteneva «ad un regalo in-significante da me fattogli». oltre queste scusanti, il governatore dellaBanca alla fine opponeva che i pagamenti a favore di De Zerbi si erano fer-mati al 1891, in quanto ormai a giugno dello stesso era stata emanata la

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ruotanti intorno alla Banca Romana.30 Gaetano Bellucci Sessa, avvocato, faccendiere non meglio indicato. Così scrive di luiil deputato Di Sandonato nella deposizione effettuata il 24 febbraio: «Ho conosciuto il Bel-lucci Sessa da parecchio tempo indietro a Napoli, quando io era Sindaco e lui impiegatoMunicipale e fu anche redattore di giornali del nostro partito di opposizione, giornali cheerano ispirati da me e dai miei amici» (BR, vol. 23). Il Bellucci, che nella personale dichia-razione data nel marzo mostra di conoscere molto sui rapporti del Tanlongo e nega di avermai parlato con i commissari della nota commissione, così si esprime: «Il Tanlongo nonaveva bisogno di far loro parlare da me, giacché se non li conosceva trovava modo di farsipresentare e parlare loro personalmente» (BR, vol. 23).31 Bernardino Grimaldi (Catanzaro 1839-Roma 1897), avvocato, grande oratore, depu-tato dal 1876 alla morte, ha presentato parecchi progetti di legge ed è stato varie volte mi-nistro del tesoro, delle finanze e dell’agricoltura (MASI, Grimaldi Bernardino, DBI, vol. 59,2003). Interrogato il 6 giugno, è stato torchiato a lungo. Ha dichiarato di non essere statomai avvocato ordinario del Tanlongo né tampoco consulente della Banca. Ha portato la suadifesa in due cause ed è stato pagato. Non ha mai avuto somme né per elezioni né per altrocontrariamente a quanto affermato dal Tanlongo. Non mancano note particolari su Achille

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legge “sulla riscontrata”. In verità, da quanto rilevato, ancora nel 1892 c’erastato un ennesimo versamento32. Come la mettiamo?Il 15 febbraio ancora Tanlongo a insistere sulla stessa scia, ma anche aconfermare la consegna di somme al De Zerbi in maniera diretta:«Tali somme sono state date al De Zerbi o da me direttamente quando gliele ho portatea casa o dal Lazzaroni Cesare, o gliele ho mandate per mezzo di Bellucci Sessa e gliele hodato, ripeto nella sua qualità di giornalista. Anzi, ora che ricordo, gli ho mandato unasomma di circa 20 mila lire per mezzo del Lagunao33 che il De Zerbi mi fece conoscere».A contestazione della dichiarazione di De Zerbi, che ha negato di averricevuto le somme segnate nelle carte, Tanlongo si è espresso con mag-giore veemenza:«Mi sorprende come il De Zerbi dica di non aver ricevuto come sopra le somme, mentrela verità è che le ha ricevute perché io gliele ho date come sopra detto.Io non so se le forme di procedura lo consentano ma io son sicuro che se gli fosse de-ferito il giuramento egli non potrebbe negarlo ed io sono disposto a contestarglielo col vivodella voce».Durante lo stesso interrogatorio il Tanlongo aggiungeva di non aver maisaputo che De Zerbi fosse segretario della Commissione interessata allalegge sulle Banche, anzi che lo apprendeva in quell’occasione. Insistevaperaltro: «Non ho mai dato a deputati somma alcuna e tanto meno al DeZerbi o al Nicotera». Si vuol certo dire ch’egli non aveva dato via denariper comprare deputati, ma che aveva agito soltanto a titolo di appoggiogiornalistico. Comunque, a riprova ch’egli aveva fatto avere delle sommeal De Zerbi sarebbe stato sufficiente rivolgersi a Lazzaroni e a BellucciSessa, che avevano fatto da intermediari. Bellucci Sessa addirittura lo pre-veniva con la richiesta e lui provvedeva a mettere il tutto in busta chiusa.Faceva mente di quella volta che in risposta aveva avuto un biglietto delDe Zerbi «che accusava ricevuta delle 20 bottiglie».Nel verbale del 3 marzo Tanlongo ha implicato addirittura anche il figliodi De Zerbi, che nell’avventura accompagnava spesso Bellucci Sessa. Maecco le sue stesse parole: «È vero che un giovinotto biondo veniva a pren-dermi alla Banca Romana nella vettura del Bellucci per condurmi a casadurante la malattia di quest’ultimo, ma io ho sempre ignorato che quellofosse il figlio di De Zerbi, giacché il Bellucci diceva che era suo nipote». Èun particolare che confermerà ancora il successivo 13 marzo.Sull’ammontare delle somme date a De Zerbi, che, se non era una mil-

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Fazzari e il suo acquisto di Mongiana come di varie altre persone (BR, vol. 9).

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lantata affermazione, dovevano risultare superiori a quanto annotato negliatti della Banca, Tanlongo si soffermava ancora nell’interrogatorio del 17aprile: «quanto al De Zerbi per la ragione da me indicata nei precedenti interrogatori circa la pro-paganda a favore delle Banche posso dire che le somme a lui somministrate ammontanoad una cifra di gran lunga superiori il mezzo milione. Varie di queste somme mi erano chie-ste in precedenza a nome del De Zerbi dal Bellucci Sessa che spesso mi veniva a dire chese non mandavo quella somma determinata di ventimila lire più o meno che di tanto intanto chiedeva per conto del De Zerbi non si poteva andare avanti a riuscire a fare trionfarele idee nell’interesse delle Banche predette.Mi sorprende come il De Zerbi abbia potuto negare ciò e sono dolente di non potereper la sua morte, di cui ho avuto notizia, sostenere un suo confronto, come avrei desiderato,quanto già dichiarato.Però nessuno meglio di Bellucci Sessa è in grado di affermare quello che io ho asserito,inquantochè era sempre.Io ho creduto che il danaro consegnato al De Zerbi spesso per le mani di Bellucci Sessaservisse a scopo di lecita propaganda, ed il De Zerbi mi faceva credere fra l’altro che avevain private discussioni cercato di convincere a favore delle Banche gli onorevoli Laporta34e Maggiorino Ferraris questi come contrario alle idee propugnate dalle Banche stesse»35.Dopo aver passato al setaccio Tanlongo, eccoci a Lazzaroni chiamato incausa dallo stesso, che con accenno sin dal 27 gennaio e in maggiore evi-denza il 27 giugno così veniva a esprimersi sul perché di tanto denaro ver-sato a politici, giornalisti e altre persone e, in particolare, al De Zerbi:«Non ho mai conosciuto neppure di vista il De Zerbi, e le somme che sborsavo e che

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32 BR, vol. 3.33 Ferdinando De Laurentys y Lagunas era un rappresentante di case commerciale eperciò il suo interrogatorio avvenuto il 19 aprile ha riguardato questioni di affari come l’ac-quisto di una vigna. Il testo si presenta poco leggibile. Risulta autore nel 1884 presso Befania Roma del volume L’Italia ippica nel settennio 1876-83 (BR, vol. 8).34 Luigi La Porta (Palermo 1830-1894), militare, deputato dal 1861 al 1892, ha fattoparte di varie commissioni.35 Su per giù lo stesso discorso sosteneva il Tanlongo col figlio Pietro in una corrispon-denza clandestina sequestratagli «Poi il D. Z. nega d’aver egli mai conosciuto, sebbene sodi certo che una volta almeno mandai lui a portare le valute per le stampe e la propagandadelle pluralità delle Banche che io avevo pregato facesse fare lui facendo figurare altri, ondenon si sapesse da che fonte venivano i lavori, sentendomi dire che egli nega d’aver avutosomme per questo verrebbe a concludersi, che tutti negando, sarei io che le ho prese inquesto senso per conto mio, perciò è necessario che almeno questo dica la verità, che si èfatto questo grande lavoro, ma non avendo voluto egli figurare ed io avendolo pagato comepotevo di poterlo fare a nome altrui sulli giornali e con parole, fece in questo modo, masenza compromettere nessuno, ed io per fare questo lavoro, gli dava li necessari mezzi».Di seguito invece un pezzo di corrispondenza del figlio Pietro circa il comportamento te-nuto dal De Zerbi: «Circa D. Z. egli ha detto che Bellucci era quello che prendeva e che eglivi ha dato consigli in qualche pubblicazione e sul modo di regolarvi. In ogni modo avete

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segnavo sotto il nome suo nei miei appunti per Zammarano36 e Monzilli37, erano da me con-segnate al Governatore ed io non sapevo per quale ragione»38.In verità, già il 20 gennaio, coinvolgendo pienamente Bellucci Sessa,aveva illustrato bastantemente, anche se in modo indiretto, quanto si svol-geva nella stanza di Tanlongo:

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sempre risposto bene perché conforme a verità» (BR. Corrispondenza clandestina).36 L’interrogatorio di Lorenzo Zammarano è avvenuto il 9 febbraio e ha riguardato ilfunzionamento delle banche (BR, voll. 27-29). Tale aveva funzione di commissario gover-nativo incaricato a trattare con gli istituti di emissione: cfr. PIERPAoLo MARTuCCI, Le piaghed’Italia-I lombrosiani e i grandi crimini economici nell’Europa di fine Ottocento, Franco An-geli, Milano 2007, p. 9.37 Il ministro Miceli voleva a tutti i costi affiancare al sen. Alvisi per la nota ispezione ilcapo divisione comm. Antonio Monzilli, ma questi non godeva di alcuna stima, almeno daparte di Alvisi e Biagini. Quest’ultimo, nel suo interrogatorio, riferisce che Alvisi voleva re-carsi a protestare direttamente col ministro dopo aver così apostrofato lo stesso Monzilli:«Non sono un impiegato per dover subire la volontà del Ministro. Se non mi liberano di leideclino l’incarico». Monzilli era di certo acquiescente col Tanlongo e se n’era accorto inqualche circostanza anche Biagini. Nell’interrogatorio riferisce qualche particolare in me-rito (BR, vol. 29). Sarà infatti accusato di falsa relazione al Miceli: «La Civiltà Cattolica» cit,p. 499.

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«E che egli abbia agito per conto del De Zerbi lo desumo dal fatto di essermi trovatoqualche volta nella camera del Governatore dopo che gli avevo mandato il richiedente da-naro, vidi che il Governatore stesso, riponendolo in una busta consegnava nelle mani delBellucci Sessa. È certo che queste somme pagate al De Zerbi in varie volte ammontavanoad un valore ingente e se io non so direttamente il titolo, cui venivano pagati, ho però ra-gione di ritenere che esse, tanto più che furono fatte per maggiore ammontare all’epocadella discussione della legge sull’abolizione della riscontrata, gli siano state date comecompenso per favorire in Parlamento con i suoi discorsi le ragioni e gl’interessi dellaBanca»39.ora non resterebbe che riferire sull’interrogatorio del De Zerbi mede-simo avvenuto il 9 febbraio, ma di esso resta solo qualche spezzone. Pro-babilmente, a morte avvenuta lo stesso è stato stralciato e destinato altrovese non distrutto. In un primo tiene a precisare che in una comunicazionedel governo, che peraltro esibisce, dopo la conclusione dell’inchiesta, allaBanca tutto risultava regolare anche se si sospettava che qualche irrego-larità fosse stata già corretta. Sospetti in merito erano stati lanciati nel1891 dal corrispondente del Times. un secondo spezzone attiene a un’au-todifesa di De Zerbi, che, indicando alcuni particolari sul funzionamentodella commissione, ne ridimensionava il ruolo:

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38 BR, vol. 4.

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«Neppure potevo vantare la mia influenza presso i membri della Commissione; poichéil presidente di essa, on.le Di San Donato40, dicevasi avesse qualche cambiale alla BancaRomana, gli on.li Simonelli41, Montagna42 e Zeppa43 avevano amicizia personale onestissimacol Comm. Tanlongo e con l’on. Narducci44 che della Commissione domandava notizie ventivolte al giorno.L’on.le Plebano45, tempra di uomo rigidissima e severa, è stato sempre avversario im-placabile della Banca Romana. Io dunque non avrei potuto esercitare la mia influenza chesui milionari Torrigiani46 e Sciacca della Scala47 e sull’incorruttibile compianto Consiglieredi Stato Mazza che pensava con la sua testa»48.Quest’ultima, in verità, è l’unica autodifesa che conosciamo del De Zerbi.

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39 BR, vol. 20.40 Gennaro Sambiase San Severino Di San Donato (Sala Consilina 1821-Napoli 1891),duca, deputato dal 1861 alla morte. Attivo liberale, ha subìto il carcere e l’esilio. Ha parte-cipato alla II guerra d’indipendenza ed è stato anche sindaco di Napoli. Interrogato il 24febbraio, ha risposto in merito a biglietti e cambiali scambiati col Tanlongo (BR, vol. 8).41 Ranieri Simonelli, laureato in matematica, valido architetto, è stato deputato per 6legislature tra 1870 e 1895. Dal 1883 al 1886 è stato membro della commissione generaledel bilancio e dei conti amministrativi. Interrogato il 16 marzo, ha fornito una lunga rispo-sta, che è scarsamente leggibile, soprattutto in merito alla formazione della Commissione:BR, vol. 8.42 Francesco Montagna (Marigliano 1848-1922), barone, industriale, deputato dal 1890al 1913.43 Domenico Zeppa (Vetralla 1841-Roma 1922), avvocato, professore universitario,giornalista, deputato dal 1876 al 1904. È stato sottosegretario al tesoro dal 1898 al 1899.44 L’on. Alessandro Narducci, nato a Giuliano di Roma nel 1832, è stato deputato dal1882 al 1895 e ha avuto a che fare con lo scandalo della Banca.45 Achille Plebano (Asti 1891-1890), giornalista di quotati giornali – ha diretto tra l’altroanche il «Fanfulla», impiegato del ministero delle finanze e cultore di politica della finanzapubblica, è stato autore di varie opere in merito. Deputato dal 1874 al 1890, ha fatto partedi varie commissioni. Interrogato il 24 febbraio, in relazione alla formazione della com-missione per il progetto di legge per la proroga della facoltà di emissione del biglietto dibanca, così ha officiato: «Dapprima si pensò di nominare l’on. De Zerbi perché aveva cercatodi conciliare le differenze di opinioni fra maggioranza e minoranza alla quale appartenevoio. In seguito fu nominato relatore l’on. Zeppa. Mi parve che il De Zerbi non desiderasse diesserlo e che egli stesso si cooperasse per la nomina del Zeppa». Nel documento si dilungaa trattare delle facoltà della commissione e dei rapporti di alcuni membri: BR, vol. 8.46 Dovrebbe trattarsi dell’on. Filippo Torrigiani Guadagni (Firenze 1851-1924), depu-tato dal 1882 al 1909.47 Barone Domenico Sciacca Della Scala (Patti 1846-Roma 1900), laureato in giurispru-denza, giornalista, deputato dal 1880 alla morte. È stato sottosegretario al ministero del-l’agricoltura, industria e commercio dal 1894 al 1896.

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1. «un deputato… in rosso»Francesco Arcà1, avvocato, prima socialista poi sindacalista rivoluzio-nario, fu eletto deputato nel collegio di Cittanova (Reggio Calabria) nelleelezione del 1913, al primo turno con il 50,92% dei voti2, battendo l’avv.Giovanni Alessio, deputato da due legislature, giolittiano conservatore3. La

Un deputato in trincea.Francesco Arcà, dal Sindacalismo rivoluzionario

all’interventismo combattente (1913-1916)

Antonio Orlando

1 Nacque a Palmi il 1° maggio 1879 in una famiglia di facoltosi proprietari terrieri diAnoia, piccolo comune dell’entroterra della Piana, dove visse la sua adolescenza fino aquando non si trasferì a Reggio Calabria per frequentare il Liceo classico Campanella. Siiscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Napoli dove si laureò nel 1900. Eser-citò la professione di avvocato prima a Napoli e poi a Roma e qui si avvicinò al Partito So-cialista al quale si iscrisse nel 1901. Nel 1904 viene eletto consigliere provinciale nelcollegio di Cinquefrondi. Nel 1905 partecipa, insieme a Enrico Leone e Paolo Mantica, allafondazione della rivista «Il Divenire sociale», ed entra nel comitato di redazione. Si staccadal socialismo ufficiale avvicinandosi alle tesi di Sorel e alle posizioni massimaliste ed estre-mistiche dei socialisti rivoluzionari. Nel 1907 pubblica Calabria vera. Appunti statistici edeconomici sulla provincia di Reggio Calabria. Nonostante le sue posizioni critiche e di apertadissidenza, le sezioni socialiste della provincia di Reggio Calabria gli offrono la candidaturanel collegio di Cittanova contro “il giolittiano” Giovanni Alessio. Al termine di un’aspra bat-taglia, Arcà viene eletto. Volontario nei primi mesi di guerra, partecipò successivamente ailavori parlamentari e collaborò con tutte le iniziative che tendevano all’affermazione dellenuove nazionalità per riconoscere il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Molto ap-prezzato fu il suo discorso tenuto a Roma l’8 dicembre 1918, su Il risorgimento nazionaled’Israele in Palestina. Con una lettera pubblica, resa nota da «La falce socialista» nell’ottobredel 1919, decise di non ripresentare la sua candidatura al Parlamento. Colpito dalle febbrispagnole, morì improvvisamente a Roma il 10 gennaio 1920; FRANCO ANDREUCCI E TOMMASODETTI (a cura di), Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico. vol. I, voce ad nomen,Editori Riuniti, Roma 1975 e PASqUALE BELLANTONE, Francesco Arcà. Un borghese che lottòper i diritti dei lavoratori, Tauroprint, Anoia 2001.2 Le elezioni si tennero il 26 ottobre 1913, Arcà ebbe 4.748 voti su 9.324 votanti, mentreAlessio ebbe 4.576 voti; gli elettori iscritti erano 15.405; decisivi per Arcà furono i voti ot-tenuti a Cittanova, a Polistena e a Radicena, i tre più grossi comuni del Collegio; cfr. ArchivioStorico della Camera dei Deputati, Elezioni, XXIV Legislatura. 3 Giovanni Alessio (Varapodio, 5 ottobre 1862 – Palmi, 10 febbraio 1917), avvocato,pubblicista; eletto per la prima volta nell’elezione suppletiva del 28 luglio 1907 con voto

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

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battaglia elettorale fu durissima, infuocata, spregiudicata e condotta senzaesclusione di colpi da entrambe le parti, tanto che il risultato fu in bilicofino all’ultimo4. Ancora oggi nell’immaginario popolare quel periodo vienericordato come «la battaglia tra bianchi e rossi», come una sorta di rivincitapopolare sui “i ’gnuri” che avevano sempre dominato il territorio sia primache dopo l’unificazione. Il risultato conseguito da Arcà è straordinario: eglirisulta l’unico deputato “socialista” della regione e la sua cifra elettorale èseconda solo al risultato conseguito a Napoli da Carlo Altobelli con il53,81%5. Si iscrive, nel rispetto degli accordi elettorali, al Gruppo Parla-mentare Socialista che conta 79 deputati, ma ben presto il Gruppo si dividein tre correnti.I deputati che si riconoscono nel Partito Socialista, 52 in tutto, si sepa-rano dai Riformisti che sono 19, mentre Arturo Labriola, Alceste De Am-bris, Ettore Ciccotti, Enrico Ferri, Giacomo Ferri, Carlo Altobelli e Arcàcostituiscono il Gruppo dei Socialisti Indipendenti. Arcà è alla ricerca diuna sua collocazione, equidistante quanto basta sia dal Partito Socialistache dal frastagliato mondo del Sindacalismo rivoluzionario, che sia tale danon porlo in una posizione così indipendente da tagliarlo fuori completa-mente e ridurlo all’isolamento. Si tratta di sciogliere definitivamente l’equi-voco che è stato alla base della sua candidatura e che, accreditandolo comerappresentante del Socialismo – anche solo “ufficioso” - gli ha permesso diottenere i voti popolari. Ora il Gruppo Socialista si aspetta, non certo unasubordinazione alle direttive del Partito, ma, almeno, un’adesione che do-vrebbe concretizzarsi in forme di intesa per realizzare delle azioni comuni. La sola accettazione della candidatura gli ha già alienato le simpatiedegli anarco-sindacalisti dell’Unione Sindacale Italiana (USI)6 e ora devesubire gli strali ironici del poeta anarchico Antonio Gamberi7 che ha dedi-

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quasi plebiscitario e riconfermato nelle elezioni del 1909 con il 97% dei voti. Cfr. PIERGIORGIOCORBETTA E MARIA SERENA PIRETTI (a cura di), Atlante Storico-elettorale d’Italia, Zanichelli, Bo-logna 2009.4 Una ricostruzione delle ragioni che portarono alla candidatura di Arcà si possono tro-vare nel mio Il collegio elettorale del mandamento di Cittanova (1861-1919), in ROCCO LENTINI(a cura di), Un paese del Sud. Cittanova 1618-1948, Istituto “Ugo Arcuri” per la Storia del-l’antifascismo e dell’Italia contemporanea in provincia di Reggio Calabria, Villa San Gio-vanni, 2005, pp. 124 ss.5 ANNAMARIA AMATO, La classe politica napoletana e le elezioni del 1913, La città del sole,Napoli 2001, pp. 206 ss.6 «… i vari Mantica, Orano, Lanzillo, Arcà negavano assolutamente il parlamentarismo,ma viceversa ammettevano in via eccezionale l’azione elettorale. Nessuno riuscì mai a ca-pire… con quali criteri consentissero o non consentissero le eccezioni. Ho avuto sempre…il sospetto, che consentissero quelle sole eccezioni, in cui sperassero di essere eletti essi

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cato a lui e ai suoi compagni tre gustose poesie parlando di «giravolte sin-dacaliste»; per non parlare dei durissimi attacchi della stampa anarchicache ha bollato la sua candidatura come «puro carrierismo», «opportuni-smo parlamentare», «ambizione di appuntarsi la medaglietta…. e conqui-stare l’agognata indennità di deputato», finendo col dire «l’Arcà tanto perruzzolare la china di un abbrivio si è già dichiarato favorevole alle spesemiliari!»8. Negli anni in cui (1907-1910) il movimento sindacalista ha at-traversato il suo periodo più difficile9 si è mantenuto ai margini dedican-dosi alla professione, alle collaborazioni giornalistiche, seppur con rivistesindacaliste come «Il Divenire sociale», «Pagine libere», «La Lupa»10 e aglistudi giuridici. Così pure è riuscito a tenersi fuori dalla mischia nel corsodel rovente e lacerante dibattito sulla guerra di Libia, che ha visto il movi-mento spaccarsi con Labriola, Olivetti, Lanzillo ed Orano schierati a favoredell’intervento italiano e tutti gli altri, a cominciare da Michele Bianchi eda Paolo Mantica ed Enrico Leone, fortemente contrari11. Se per ottenere

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deputati», cfr. ARMANDO BORGHI, Mezzo secolo di anarchia (1898-1945), Edizioni Anarchismo,Catania 1989, p. 96 (1ª ediz. ESI, Napoli 1954).7 ANTONIO GAMBERI, Momento solenne, Gli istrioni, Incoerenze e contraddizioni, in «Batta-glie sovversive», Polli Ed., Firenze 1920, ora in FRANCO BERTOLUCCI E DANIELE RONCO (a curadi), Antologia, BFS Edizioni, Pisa 2004; Gamberi crea il detto «Labriola capriola». 8 Politica elettorale Sindacalista, in «Cronaca sovversiva», XI, novembre 1913 (articolonon firmato, ma attribuito al direttore LUIGI GALLEANI); si noti che questo giornale si stam-pava negli USA (Barre, Vermont) in lingua italiana, raramente con pagine in inglese e avevaanche in Italia una discreta diffusione.9 Dopo la rottura con il Partito Socialista e l’ondata di scioperi nelle campagne del par-mense (maggio-luglio 1908), la dura repressione governativa e il forzato esilio dei più im-portanti dirigenti del movimento, segnarono un netto declino delle attività sindacaliste. Lacrisi raggiunse il culmine con l’espulsione dei sindacalisti deliberata a grande maggioranzanel congresso del PSI nel settembre del 1908; cfr. ALCEO RIOSA, Il sindacalismo rivoluzionarioin Italia e la politica nel Partito Socialista nell’età giolittiana, De Donato, Bari 1976.10 «Si può dire che… prendevano a delinearsi nel movimento sindacalista due nebulosedistinte, sia pure dai confini contigui mal definiti. La prima formata da una compositaschiera di sindacalisti, in gran parte intellettuali, per lo più reduci dal Partito Socialista.Generalmente estranei a dirette esperienze unionistiche e di lotta operaia, i suoi membris’impegnavano… in una militanza per lo più esterna, di natura ideologica e propagandistica.Tipici casi di quei meridionali che nella collaborazione alle riviste… esaurivano il loro im-pegno sindacalista: così il palermitano Loncao, docente universitario, Soricchio, sedentarioavvocato dell’Abruzzo, Panella, funzionario statale e il calabrese Arcà, agiato avvocato in-stallatosi a Roma»: cfr. WILLy GIANINAZZI, Intellettuali in bilico. “Pagine libere” e i sindacalistirivoluzionari prima del fascismo, Unicopli, Milano 1996, p. 78. 11 Lo scontro, che provocò anche la crisi redazionale di «Pagine libere» e mise in di-scussione lo stesso assetto proprietario della Rivista, è ricostruito da GIAN BIAGIO FURIOZZI,Il Sindacalismo rivoluzionario in Italia, Mursia, Milano 1977, pp. 46-49; si veda anche W.GIANINAZZI, Intellettuali in bilico cit., pp. 264 - 272.

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la candidatura non ci fu bisogno di una formale adesione al Partito Socia-lista, come era stato necessario per altri12, una volta eletto, risultava diffi-cile riconquistare quegli spazi di totale autonomia di cui aveva goduto finallora. quale fosse la sua vera collocazione nel variegato e frastagliatomondo del Socialismo italiano13, a onor del vero, lo aveva precisato a con-clusione della campagna elettorale, nel comizio tenuto a Cittanova il 12 ot-tobre 1913: «Se avrò l’onore di sedere in Parlamento, pur non dimenticando mai in nessuna oradella mia vita la mia regione, la mia provincia, il mio collegio, il mio paese, curerò di essereveramente il rappresentante della Nazione. Non sono nazionalista nel senso che debba laNazione nostra avere un predominio sugli altri agglomerati umani, ma non sono interna-zionalista al punto da negare che oltre le classi non vi sia la realtà. Vi è – lo ha rivelato a noila guerra libica – la realtà nazionale. Oh! e questa nostra Italia, che tanta luce di civiltà dif-fuse pel mondo, sia perciò forte, sia rispettata, sia temuta occorrendo nel consorzio dellenazioni: che ognuno di noi, in Patria e fuori dei confini, senta davvero l’orgoglio di essereitaliano; che la missione italica di diffondere luce di civiltà, si compia intera»14.quell’inciso sulla guerra di Libia serve a rimarcare le distanze non solodal Partito, ma anche dal resto del movimento Sindacalista che sta subendoun’ulteriore riorganizzazione sulla base anche di una ri-lettura dell’operadi Georges Sorel, alla quale oltre a Lanzillo, Orano, Olivetti e Mantica,prende parte pure Arcà15.La prima iniziativa parlamentare, di Arcà, nel dicembre del 1913, è lacostituzione di un Gruppo parlamentare calabrese, un gruppo trasversaleche deve raccogliere tutti i 23 deputati della regione e che si assuma il com-pito di portare avanti gli interessi delle tre province. L’adesione è totalenella forma, ma molto tiepida nella sostanza e solo una parte della stampalocale e qualche intellettuale, come Roberto Taverniti16, che aveva propu-

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12 Arturo Labriola rientrò nel Partito Socialista nell’aprile del 1913, iscrivendosi dap-prima alla sezione di Trani e poi a quella di Pozzuoli; ZEFFIRO CIUFFOLETTI, GIOVANNI SABATUCCI,MAURIZIO DEGL’INNOCENTI, Storia del PSI. Le origini e l’Età Giolittiana, vol. I, Laterza, Roma-Bari 1992.13 NORBERTO BOBBIO, Profilo ideologico del Novecento italiano, Einaudi, Torino 1986.14 Discorso dell’avv. Arcà a Cittanova, in «La Giovane Calabria», XI , 44, ottobre 1913.15 Si veda AGOSTINO LANZILLO, Giorgio Sorel. Biografia Ritratto ed Autografo, Libreria Edi-trice Romana, Roma 1910 e GEORGES SOREL, Da Proudhon a Lenin e L’Europa sotto la tor-menta, in appendice Lettres a Mario Missiroli, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1974,che raccoglie gli articoli scritti dal sindacalista francese dal 1910 fino al 1921 nonché 243lettere, in originale, inviate a Missiroli dal maggio 1910 fino al 1921.16 Roberto Taverniti, nacque a Pazzano (RC) il 18 febbraio 1888. Iniziò gli studi nel Se-minario Arcivescovile di Reggio Calabria e quindi presso il Liceo Campanella di Reggio Ca-labria, e conseguì la maturità classica a Catanzaro. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza

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gnato, nel corso della campagna elettorale, «la formazione di un ben or-ganizzato, combattivo e fattivo Gruppo parlamentare calabrese»17, accol-gono con entusiasmo la notizia. A parte la seduta inaugurale, il Grupporimane in realtà solo sulla carta: troppo distanti le posizioni politiche deideputati e troppo diversi, inconciliabili si potrebbe dire, gli interessi rap-presentati da ciascuno dei parlamentari calabresi18. La costituzione di ungruppo parlamentare su base regionale, nelle intenzioni di Arcà, avrebbedovuto, da un lato, agevolare la realizzazione di un programma di stampomeridionalistico e dall’altro garantirgli una maggiore libertà di manovraper poter effettuare quello sganciamento, senza traumi e senza strascichi,dal Socialismo ufficiale. Di per sé il fallimento del gruppo calabrese noncomportava certo l’abbandono delle tematiche legate agli interessi dellepopolazioni calabresi, che poi erano, in sostanza, le stesse questioni da luitrattate nel suo saggio sulla condizione economico-sociale della provinciadi Reggio Calabria19. Gli argomenti in discussione (l’abolizione dei dazi do-ganali; il completamento di alcune grandi infrastrutture; la riforma tribu-taria secondo il progetto Martini; maggiore autonomia agli enti locali,adeguati investimenti in agricoltura) erano questioni all’ordine del giorno,agitate dai giornali locali e la cui soluzione era considerata decisiva da al-

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presso l’Università di Roma e già da studente iniziò l’attività giornalistica. A soli 23 annidivenne collaboratore e redattore capo per i servizi interni dell’Agenzia Stefani. Nel 1911,fondò in Roma il giornale «Terra Nostra» per mezzo del quale riuscì a porre all’attenzionedell’opinione pubblica nazionale i veri problemi della Calabria, come parte integrante efondamentale dei problemi italiani. Scoppiata la guerra si arruolò come soldato semplice,però, dopo un breve corso, ottenne il grado di sottotenente e successivamente quello di te-nente per meriti di guerra. Il 16 Settembre 1916 sulle alture di Monfalcone, una raffica mi-cidiale di mitragliatrice austriaca poneva fine alla sua vita eroica; ORESTE CAMILLO MANDALARI,Roberto Taverniti: giornalista e combattente, Archivio Storiografico dei Reduci di Guerra,Roma 1936, che riproduce la conferenza tenuta dall’Autore a Reggio Calabria il 7 ottobre1935 nell’aula magna della Biblioteca Comunale. Si veda anche: TERESA GRANO, La passionepolitica e civile di Roberto Taverniti, un giornalista calabrese caduto sul Carso, in GiuseppeFerraro (a cura di), Dalle trincee alle retrovie. I molti fronti della Grande Guerra, Icsaic. Rende2015, pp. 129-144.17 ROBERTO TAVERNITI, Auspici, in «Terra nostra», 5 ottobre 1913. 18 Si veda FRANCESCO SPEZZANO, La lotta politica in Calabria (1861-1925), Lacaita, Man-duria 1968, p. 197, che riporta il giudizio espresso, in articolo non firmato, da «Il popolo»del 21 dicembre 1913: «Non abbiamo il piacere di condividere l’esultanza dei nostri amiciperché siamo convinti che la realtà politica spezzerà le buone intenzioni e gli interessi in-dividuali prevarranno sempre nelle azioni dei nostri parlamentari, Noi non crediamo al-l’accordo dei nostri deputati perché molte battaglie nell’interesse collettivo dovrebberoimportare rinunzie a particolari fisionomie politiche». 19 FRANCESCO ARCà, Calabria vera. Appunti statistici ed economici sulla provincia di ReggioCalabria all’inizio del ‘900”, Tip. F. Morello, Reggio Calabria 1907 (riedizione qualecultura-Jaca Book, Vibo Valentia 2000, con prefazione di FRANCESCO ADORNATO).

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cuni deputati calabresi, come Paolo Chidichimo20 e Luigi Saraceni21, per ilfuturo della regione22. In realtà queste tematiche stanno per passare in secondo piano poichétutta l’attenzione della nuova Camera dovrà essere concentrata sul dibat-tito riguardante il finanziamento delle spese per la guerra di Libia e già sivocifera che esse sono cresciute molto più di quanto era stato preventivato. 2. Il dibattito parlamentare sulle spese militari per la guerra di LibiaLa discussione sulle spese di guerra si apre alla Camera il 10 febbraio1914 con la presentazione, da parte dell’on. Fortunato Marazzi23, di un Di-segno di legge che reca:«Spese determinate dall’occupazione della Tripolitania e della Cirenaica, dall’occupa-zione temporanea delle Isole dell’Egeo, e dagli avvenimenti internazionali: conversione inlegge dei Reali decreti emessi dal 29 giugno al 30 dicembre 1913,e autorizzazione dellaspesa occorrente fino al 30 giugno 1914»24.Per il neodeputato Arcà, presso chè sconosciuto negli ambienti politicie parlamentari, si presenta un’occasione unica tanto più che a spianare lastrada verso una clamorosa, quanto inattesa, presa di posizione originalee nuova da parte del Sindacalismo rivoluzionario, ci ha pensato, nella se-duta del 13 febbraio, proprio Arturo Labriola, con un intervento che con-ferma la condivisione della “conquista” della nuova colonia, ma critica ilmodo di conduzione della guerra e la mancata attuazione del Trattato di

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20 Paolo Chidichimo (Cassano Jonio, 2 luglio 1860 – 29 novembre 1918), avvocato;eletto nel Collegio di Cassano J.21 Luigi Saraceni (Cosenza, 10 dicembre 1862 – Castrovillari, 7 novembre 1929), avvo-cato; repubblicano, eletto nel Collegio di Castrovillari.22 In un’intervista rilasciata a «Terra nostra» (gennaio 1914) dal titolo I problemi re-gionali e politici nell’ora attuale, l’on. Saraceni afferma che «il Regionalismo è delegazionedi alcune funzioni che attualmente esercita lo Stato, alla diretta competenza di organi locali;è nobile concezione di giustizia ed opera di perequazione… è incessante movimento di ri-generazione politica mediante una legislazione adatta alle sue proprie condizioni di vita».23 Fortunato Marazzi (Crema, 19 luglio 1851 – 19 gennaio 1921), guardiamarina, ge-nerale dell’Esercito, deputato del Collegio di Crema per 8 legislature dal 1890; fu sottose-gretario al Ministero della Guerra nel Governo Sonnino nel 1906. Durante la Grande Guerraebbe il comando della 29ª Divisione e poi della 12ª. Pubblicò diversi volumi di Storia mili-tare, tra cui merita di essere ricordato quello su L’insurrezione parigina del 1871. Nel 1920fu nominato senatore del Regno; cfr. Andrea Saccoman, Aristocrazia e politica nell’Italia li-berale. Fortunato Marazzi militare e deputato (1851-1921), Unicopli, Milano 2000.24 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, Discussione, 1ª tornata, 1febbraio 1914.

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pace con la Turchia25. Arcà è iscritto a parlare nella seduta pomeridianadel 26 febbraio, parla per ultimo e subito dopo c’è la replica conclusiva delMinistro delle colonie, Pietro Bertolini. quello di Arcà è un discorso moltoimpegnativo, articolato, contorto, in alcuni punti un po’ arzigogolato, cheha il chiaro obiettivo di consentirgli di smarcarsi definitivamente dai so-cialisti. Dopo aver premesso che voterà contro le richieste del Governo, af-ferma di essere favorevole alla conquista della Libia per le ragioni espressedal suo amico Arturo Labriola, ma ancor di più per quelle che, più di diecianni prima, aveva enunciato, in nome del Socialismo italiano, il filosofo An-tonio Labriola26:«Dico dunque [rivolto ai Socialisti] che è un errore vostro che non si possa essere “libici”e socialisti…dato che, come sosteneva il Maestro di tutti noi…. gli interessi dei socialistinon possono essere opposti agli interessi nazionali, che anzi li debbono promuovere sottotutte le forme».E subito aggiunge:«Sono sicuro, però, a priori, che il mio voto contrario non basterà ad allontanare dalmio capo non dirò la scomunica – che io appunto per questo mio dissenso libico mi sonotenuto e mi tengo indipendente da gruppi socialisti – ma l’aspra censura e la fiera rampo-gna, in nome di quella fede stessa socialista che in questo momento mi piace riaffermarepiù fervida, più pura, più incontaminata». Chiarito questo aspetto, Arcà passa a confutare la seconda obiezioneche è stata mossa dal Partito Socialista per bocca dell’on. Treves ai Sinda-calisti rivoluzionari e cioè il fatto che la colonizzazione della Libia deter-mini un inevitabile conflitto con gli interessi delle regioni meridionali. Ildeputato calabrese ritiene, al contrario, che la soluzione dei problemi me-

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25 «L’impresa – afferma Labriola – voi lo sapete, è uscita da una considerazione irresi-stibile: io non la respingo. I paesi, i cui confini sono segnati dal mare, con isponde opposte,non possono resistere alla tendenza o di assorbire o di farsi assorbire dalla sponda opposta.Il mare non unisce, ma rende nemici i confinanti delle due sponde. L’Italia, questo singolareprodigio della storia, non si mantiene unita se non a patto di impedire che sulla oppostasponda si accumulino le energie militari ed economiche di una grande potenza europea !Ma noi, impedendolo, non serviamo soltanto l’Italia; noi serviamo anche il socialismo. Sì,anche il socialismo! Il socialismo uscirà non dalla prevalenza di una nazione sull’altra, madalla loro armonia. Il socialismo non sopprimerà le differenze: le armonizzerà L’impresalibica è una impresa nazionale, non un’impresa coloniale», cfr. Atti parlamentari, Cameradei Deputati, XXIV Legislaura, 1ª tornata, 13 febbraio 1914.26 Arcà fa riferimento all’intervista rilasciata da Antonio Labriola il 13 aprile 1902 al«Giornale d’Italia», organo della Destra conservatrice facente capo al barone Sidney Son-nino; sull’argomento cfr. ENRICO LANDOLFI, Rosso imperiale. Le sorprese espansionistiche inAntonio Labriola ed altri saggi, Solfanelli Editore, Chieti 1992.

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ridionali possa proprio venire dall’occupazione della nuova colonia perchéla soluzione del problema meridionale non può che venire, riprendendoArturo Labriola, che dal mare. Per quanto si possano realizzare infrastrut-ture e investimenti, opere pubbliche e bonifiche, «non sarebbe con ciò as-sicurata né la ricchezza né il benessere del Mezzogiorno, il quale solo dallarinascita dei commerci mediterranei può sperare un nuovo rigoglio». E siamo al punto cruciale. Dopo aver fatto notare che è in atto, special-mente in Calabria, uno spostamento delle popolazioni verso le coste lungole quali stanno sorgendo nuovi paesi o doppioni di paesi già situati in col-lina, che si caratterizzano, fin da subito, per un particolare dinamismo, im-presso loro giusto dalla vicinanza al mare, afferma:«questo fu intuito dalle popolazioni meridionali, che furono tutte favorevoli all’impresa,questo forse più che il miraggio che la Libia fosse o potesse diventare una colonia di popo-lamento. E questi furono i motivi fondamentali per i quali anche noi giudicammo l’impresacome quella che… fosse essenziale per la Nazione. […] Il Socialismo che s’impernia tuttonella lotta di classe, il Socialismo che sbocca necessariamente nella rivoluzione…non puòfar sua la predicazione umanitaria e pacifista. La guerra che pure è una terribile cosa nonè necessariamente l’imbestiamento, il massacro degli inermi, la strage degli innocenti; èinvece la guerra un magnifico processo di accelerazione rivoluzionaria, mentre può esserela pace un processo di fissazione e di cristallizzazione delle più grandi iniquità». queste ultime parole scatenano un tumulto sia a destra che a sinistra,l’oratore viene ripetutamente interrotto, dai banchi dell’Estrema si ap-plaude, i Socialisti insorgono, da Destra si urla che anche i socialisti tede-schi sono nazionalisti e la pensano allo stesso modo, il Presidente Marcoraa fatica riesce a riportare l’ordine per poter permettere ad Arcà di conclu-dere27. Il neo-deputato, nel tempo ancora rimastogli, sferra un violento at-tacco al Governo muovendo dalla considerazione che la guerra al di fuoridel territorio nazionale, acuisce i conflitti di classe e se è vero che la guerradi Libia ha rafforzato la “Nazione italiana” e altrettanto vero che essa haindebolito lo “Stato italiano” tant’è che il militarismo nazionalista «ne èuscito con le ossa rotte» per essersi macchiato in Libia di troppe colpe chepotrebbero tranquillamente chiamarsi crimini. questa volta da tutti i ban-chi della Sinistra si alza un’ovazione, mentre dai banchi della Destra par-tono fischi e insulti. Arcà non ha ancora concluso, deve marcare la linea diconfine che separa i rivoluzionari dai riformisti. Non gli interessano nél’assetto né le poste del bilancio pubblico, gli interessa far intendere ai suoi

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27 Lo fa con un’arguta battuta, rivolta ai deputati della Destra, che ovviamente cercanodi soffiare sul fuoco delle polemiche esistenti nella Sinistra: «Non interrompiamo onorevolideputati. L’oratore non ha bisogno di incoraggiamenti».

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compagni qual è la vera posta in gioco in questa lunga discussione parla-mentare. Per cui, cambiando di colpo registro, afferma:L’essenza del socialismo rivoluzionario non è, e non può essere, la lotta a beneficio dellaclasse proletaria o più spesso di qualche sua aristocratica cooperativa o più spesso ancoradi qualche categoria di impiegati, sui margini e sui avanzi del bilancio dello stato, ma è deveessere un più profondo e vitale contrasto: la lotta diuturna tra il proletariato organizzatounitariamente come classe (e non già diviso in corporazioni, secondo le medievali teoriedell’on. Miglioli) contro la classe borghese e contro lo Stato, nei limiti in cui con la borghesias’identifica, per raggiungere il fine della gestione della ricchezza affidata ai sindacati diproduttori liberi e uguali. Se la presente crisi finanziaria dello Stato servisse, se non altro,a diminuire le illusioni sulla soluzione statale dei problemi fondamentali del proletariato,questo pare a me che sarebbe un non disprezzabile risultato in senso socialista dell’impresadi Libia perché cominciavamo ad essere troppo minacciati dall’allattamento delle troppecooperative alle mammelle dello Stato e dalla politica antinazionale dei lavori pubblici, chespesso sacrificava al protezionismo di alcune categorie operaie le esigenze delle regioni edei lavoratori del Mezzogiorno.Ora che la sua collocazione politica è chiara, adesso può separare lasua convinta adesione alla guerra di Libia dal merito del dibattito parla-mentare che non riguarda, come pretenderebbero i Socialisti, le ragionidell’impresa, bensì una richiesta di sanatoria dei debiti contratti in passatoe una concessione di nuovi crediti al Governo. Né l’una né l’altra cosa pos-sono essere accordate a una compagine ministeriale che ancora nascondei documenti e che si rifiuta di dar conto di tutti gli errori diplomatici, mi-litari e politici commessi nella preparazione prima e nella conduzione econclusione poi di una guerra che sembra sia andata a buon fine solo per-ché «il fato si è compiuto». E conclude tra scroscianti applausi:Da questa discussione è sorto il convincimento che, specialmente in confronto dei nuovisudditi d’Italia, occorre rifarsi daccapo, occorre segnare indirizzi e vie nuove che non pos-sono più essere battute dal Governo che ha fatto la guerra e che ha firmato la pace; dal Go-verno cioè che ha concluso il suo compito e che dopo aver mutato a decine i generali e icomandanti, dovrebbe intendere il supremo dovere di far posto ad altri uomini, i quali nonpregiudicati dagli errori, dagli orrori e dalle colpe della guerra, possano, con maggioresenso di serenità, guardare risolutamente in faccia ai problemi, che dal fatto della guerrason sorti come problemi nuovi della nuova Italia, sia in colonia che all’interno28.La votazione finale sulle richieste del Governo Giolitti avviene nella se-duta del 4 marzo 1914. Prima della votazione l’on. Alessio, per conto del

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28 Le citazioni sono tratte dal discorso pubblicato in Atti Parlamentari, Camera dei De-putati, XXIV Legislatura, 2ª tornata, 26 febbraio 1914.

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Governo, illustra l’ordine del giorno sulle «spese determinate dall’occupa-zione della Cirenaica e della Tripolitania» e poi il Presidente chiede ad ognideputato che ha presentato ordini del giorno se intende mantenerli omeno. Labriola e Arcà ritirano i loro ordini del giorno, ma si riservano difare una dichiarazione di voto. Si alza a parlare Arturo Labriola, il qualeafferma che parlerà anche a nome dell’amico on. Arcà.«L’amico Arcà ed io abbiamo dichiarato il nostro consenso all’impresa di Libia, vale adire abbiamo accettato l’idea che ha mosso il Governo. Però sul modo dell’esecuzione ab-biamo dovuto pronunciare altri giudizi che sono di completo dissenso; dunque, quando cichiedete un voto per il passaggio agli articoli, poiché questo voto può significare che noiimplicitamente accettiamo non solo l’impresa, ma la maniera tenuta dal Governo per ese-guirla, noi rispondiamo: NO. Avremmo desiderato che il Presidente del Consiglio avesseposto diversamente la questione; egli dispone di un’enorme maggioranza senza obbligarenoi a confondere i nostri voti con quelli della sua maggioranza. Noi – l’amico Arcà ed io –abbiamo dovuto esporre un avviso consenziente in parte col vostro ed in parte dissenzientecol vostro, in parte dissenziente dal Partito dal quale usciamo ed in parte consenziente conesso e noi non possiamo in nessuna maniera ammettere che il nostro voto possa confon-dersi col voto degli uni e col voto degli altri. È una questione di lealtà. Possiamo essere dis-senzienti coi nostri amici…nell’apprezzare l’impresa di Libia, ma ricordiamo che uncongresso socialista, il congresso internazionale di Amsterdam, ha dichiarato che il sistemadelle colonie…» [interruzioni].Il resoconto registra interruzioni, rumori, voci, urla, contestazioni talinon permettere all’oratore di andare avanti, quando riprende il poverostenografo non ha potuto ascoltare la parte conclusiva del discorso che La-briola stava esponendo per cui lascia in sospeso, segnando «rumori vivis-simi» e riprende:«L’opinione che io e l’amico Arcà abbiamo esposto dal punto di vista socialista non èpiaciuta ai nostri compagni e ce ne duole; avremmo desiderato non separarci da loro, manoi siamo d’accordo con la nostra coscienza e quindi non possiamo votare la fiducia al Go-verno»29. La fiducia viene accordata con 361 voti favorevoli, 4 astenuti e 83 con-trari, ai socialisti si aggiungono i repubblicani ed alcuni cattolici. Subitodopo il Presidente pone ai voti l’ordine del giorno Treves che recita:«La Camera invita il Governo a pubblicare i documenti diplomatici relativi all’impresalibica fino al Trattato di Losanna e delibera la nomina di una Commissione d’inchiesta par-lamentare sulla spesa della guerra a tutto il dicembre 1913».

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29 IVI, 1ª tornata, 4 marzo 1914. Sulla guerra di Libia ARTURO LABRIOLA aveva da pocopubblicato una raccolta di articoli dal titolo, L’impresa di Libia e l’opinione socialista, Biblio-teca di “Scintilla…”, Roma 1913.

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Si tratta della sintesi dell’o.d.g. presentato dall’on. Treves e sottoscrittodai socialisti di tutte le tendenze. Il Presidente del Consiglio reagisce inmaniera stizzita e dichiara, alzando il tono della voce, che spetta soltantoal Governo decidere e in questo momento, afferma testualmente Giolitti,«non è ancora possibile la pubblicazione di quei documenti senza pregiu-dizio per il Paese». Si passa alla votazione per chiamata: Labriola non risponde, probabil-mente si allontana dall’Aula, Arcà vota a favore della proposta di Treves,che viene, però, respinta con 318 voti contrari e solo 53 favorevoli30. Percompletezza va segnalato che il dibattito prosegue il giorno dopo conl’esame degli articoli del disegno di legge e del bilancio allegato e si con-clude il 6 marzo con la votazione dell’ordine del giorno:«La Camera invita il Governo a presentare un disegno di legge per la nomina di unaCommissione d’inchiesta che accerti come fu erogata la spesa in riguardo ai servizi di ap-provvigionamento ed ai servizi accessori inerenti le spese determinate dall’occupazionedella Tripolitania e della Cirenaica».Primo firmatario l’on. De Felice-Giuffrida più altri 17 deputati, tra cuianche Arcà. La proposta viene respinta con 239 voti contrari e solo 41 fa-vorevoli, compreso, questa volta, Labriola31. 3. L’attività parlamentare, i “poteri straordinari al Governo” e la dichiara-zione di guerraL’avvenuta, netta separazione dal partito Socialista consente ora adArcà di esercitare il suo mandato nella più assoluta libertà, senza subirecondizionamenti da parte del Gruppo socialista e con la possibilità di sce-gliere, di volta in volta, l’atteggiamento da assumere sia nei confronti delGoverno che dell’opposizione. Pur non intervenendo nel dibattito sul votodi fiducia al nuovo Gabinetto Salandra (marzo-aprile 1914), pronuncia unabrevissima dichiarazione di voto contro il nuovo Governo32 e nelle succes-sive sedute firma le mozioni e le interrogazioni presentate dai deputati so-

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30 Un ampio stralcio del dibattito viene pubblicato, insieme con l’esito delle due vota-zioni e l’indicazione nominativa dei deputati che hanno votato a favore e contro, anchesulla Gazzetta Ufficiale del Regno, n. 54 del 5 marzo 1914.31 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, 1ª tornata, 6 marzo 1914.32 IVI, 5 aprile 1914; in questo senso è da rivedere l’affermazione di F. SPEZZANO, La lottapolitica cit., pp. 200-201, che sostiene che in quella circostanza i deputati calabresi che ne-garono la fiducia a Salandra furono solo Albanese, Saraceni e Toscano, mentre il Lombardisi astenne.

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cialisti, appoggia le manovre ostruzionistiche che il Partito Socialista tentadi mettere in atto contro i provvedimenti tributari, sostiene apertamentela mozione di sfiducia presentata da Turati e Treves contro il Governo perla dura repressione attuata durante le manifestazioni della “Settimanarossa”, ma non partecipa al voto finale sui provvedimenti tributari33.Prende parte, invece, alla discussione che si apre su alcuni disegni di leggepresentati dal Governo e interviene presentando a sua volta diversi emen-damenti e due ordini del giorno, che poi, nella fase di votazione finale, ri-tirerà, sulle disposizioni riguardanti la riorganizzazione del servizioferroviario e la riforma e adeguamento delle pensioni dei ferrovieri34. Sidimostra, tuttavia, anche lui acquiescente di fronte alla “resa” del Grupposocialista35 che cessa qualsiasi ostruzionismo a seguito dell’approvazionedi una proposta di proroga dei lavori parlamentari, mutata poi, all’ultimomomento con un colpo di mano, in proposta di sospensione, sollecitatadallo stesso Salandra, presente in Aula, il quale, subito dopo l’approvazionedi detta mozione, augura ai deputati un «tranquillo ritorno a novembre».In questo modo, come ricorda lui stesso nelle sue memorie, si era garan-tito, non solo il superamento dell’ostruzionismo parlamentare, ma la pos-sibilità di «avere le mani libere e la Camera chiusa, anche in vista diprobabili complicazioni internazionali»36. La pausa estiva è, però, di brevedurata. La rapidissima sequenza degli avvenimenti dall’ultimatum dell’Au-stria alla Serbia del 23 luglio, passando attraverso lo sconvolgente voto fa-vorevole del Partito Socialdemocratico tedesco (Spd) ai crediti di guerra,alla dichiarazione di guerra della Germania alla Russia e alla Francia, finoall’ annuncio, 2 agosto, della neutralità italiana da parte del Governo Sa-landra, lascia senza fiato il gruppo dei Sindacalisti rivoluzionari e spiazzail Partito Socialista, schierato, come afferma Mussolini, direttore del’Avanti!, su posizioni di «neutralità assoluta»37. I primi scricchiolii di dis-senso si avvertono già l’8 agosto, con la pubblicazione di un articolo, fir-mato da Tullio Masotti e pubblicato su «L’Internazionale»38. Ogniincertezza negli ambienti del Sindacalismo rivoluzionario viene però tra-volta dal torrenziale comizio che Alceste De Ambris, a nome dell’U.S.I.,

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33 IVI, tornate del 9, 10, 14,16, 20, 24, 27, 29 giugno 1914.34 IVI, 1ª e 2ª tornata, 1, 2, 3 e 4 luglio 1914.35 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, 1ª tornata, 5 luglio 1914.36 ANTONIO SALANDRA, La neutralità italiana (1914-1915): ricordi e pensieri, Mondadori,Milano 1928, p. 65.37 RENZO DE FELICE, Mussolini, il rivoluzionario (1883-1920), Einaudi, Torino, 1995 (primaediz. 1965), pp. 229 ss. 38 G. B. FURIOZZI, Il Sindacalismo cit., p. 60.

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tiene a Milano il 18 agosto dove per la prima volta si sente l’espressione:«guerra rivoluzionaria»39. Il Consiglio Generale dell’USI, al termine di duegiorni di accanito dibattito, approva la mozione antimilitarista e anti-inter-ventista presentata da Armando Borghi. La frangia del Sindacato guidatada Alceste De Ambris e da Filippo Corridoni abbondona l’organizzazione eda vita all’Unione Italiana del Lavoro (U.I.L.)40. Arcà, che si trova nella suaAnoia, in Calabria, per trascorrere le ferie, apprese queste notizie, senzaaspettare oltre, rilascia un’intervista al nuovo quotidiano di Reggio Calabria,«Il Corriere di Calabria», appena fondato da Orazio Cipriani. Il giornale“spara” un titolo di grande effetto: L’on. Francesco Arcà, il giovane deputatocalabrese, vuole la guerra. Nel corso dell’intervista afferma:«Le prime ragioni di questa necessità sono ragioni rivoluzionarie. Non si può esserevolontariamente ciechi di fronte al grande fatto della guerra, visto che né le teorie né gliintrecci degli interessi capitalistici, né la forza del proletariato internazionale hanno potutoevitare l’immane tragedia, la spaventevole guerra. L’Austria e La Germania vollero la guerra:non soltanto i loro imperatori nei quali tutti personalizziamo la responsabilità, ma anchele forze sociali che avrebbero forse potuto, e certo voluto opporvisi. È evidente che l’In-ghilterra e la Francia, ed anche seppur in misura minore la Russia, non volevano laguerra»41.Ritorna a Roma nei primi giorni di ottobre. La posizione che ha assunto,spinge, facendogli superare le ultime perplessità, il suo amico Arturo La-briola a spiegare, senza indulgere all’esaltazione dell’eroismo e all’eb-brezza del bagno di sangue rigeneratore, la necessità dell’intervento inquesti termini: «Il Socialismo doveva considerarsi pacifista solo nei limiti in cui si fosse realizzato comesocietà universale; il pacifismo cioè è da considerare un punto di arrivo, non un punto dipartenza; un risultato ed un fine, non un mezzo e uno strumento»42.L’intervista di Arcà non suscita grandi sommovimenti e passa quasiinosservata negli ambienti politici calabresi, solo gli on. Luigi Saraceni43 e

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39 AMEDEO COSTI GUERRAZZI, L’utopia del Sindacalismo rivoluzionario, Bulzoni, Roma 2001,pp. 335 ss. e R. DE FELICE, Mussolini cit., pp. 235 ss.40 ENRICO SERVENTI LONGHI, L’utopia concreta di un rivoluzionario sindacalista. Vita di Al-ceste De Ambris, Franco Angeli, Milano 2012; pp. 193 ss.. 41 «Il Corriere di Calabria», 25 settembre 1914, ora in ITALO FALCOMATà, Il corriere di Ca-labria e l’opinione pubblica reggina nella Grande Guerra (1914-1918), La città del sole, Reg-gio Calabria 2004.42 ARTURO LABRIOLA, La conflagrazione europea e il socialismo, Athenaeum Edizioni, Roma1915, p. 87.43 È noto il telegramma che il deputato di Castrovillari invia a Salandra: «Popolazioni

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Nicola Lombardi aderiscono in maniera entusiastica mentre si registra unamanifestazione pubblica di interventismo a Reggio Calabria e un’altra aCosenza44. Tra settembre e novembre si registrano altri pronunciamenti45per un intervento immediato, con punte di acceso fanatismo46, mentreMussolini, dalle colonne de l’Avanti! (18 ottobre 1914) passa Dalla neutra-lità assoluta alla neutralità attiva ed operante47.Arcà attende per poter pre-cisare la propria posizione a favore della guerra, la convocazione dellenuove sessioni della Camera, previste per i primi giorni di novembre, mala convocazione viene continuamente rinviata dal Governo a causa dei con-trasti interni e della netta opposizione alle spese militari da parte del Mi-nistro delle Finanze Rubini48. La Camera si riunisce il 3 dicembre perascoltare le comunicazioni del Presidente Salandra in ordine sia alla for-mazione della nuovo Gabinetto sia alla dichiarata neutralità italiana. Dopola lunga relazione del Presidente del Consiglio, il primo intervento è quellodi Arturo Labriola. Il suo è, nei fatti, l’intervento di un capo-Gruppo che siesprime non solo a nome proprio, ma anche degli ”amici” che condividonole sue posizioni. L’oratore lamenta soprattutto il malcostume del Governoitaliano «di occultare più che si può in materia di politica estera» e, riper-

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calabresi sempre pronte ai sacrifici per la grandezza d’Italia pretendono contro il cinicobrigantaggio giolittiano asservito allo straniero aspettano fiduciosi che il V.S. Ministeroeviti la guerra civile avviando con saldo cuore la patria al compimento dei suoi destini nellagloria del sangue»: si veda Gaetano Cingari, Storia della Calabria dall’Unità ad oggi, Laterza,Roma-Bari 1982, pp. 222-223. 44 IVI, pp. 214-216.45 La posizione assunta da De Ambris spacca l’USI, che passa nelle mani degli anarco-sindacalisti, con l’elezione di Armando Borghi come segretario, ma le due più importanticamere del lavoro – Parma e Milano – restano saldamente nella mai di De Ambris. A RomaMichele Bianchi, Olivetti, Corridoni, Amilcare De Ambris, Cesare Rossi e Massimo Roccafondano il “Fascio rivoluzionario di azione interventista”, mentre Lanzillo, Paolo Mantica,Dinale e Polledro, dopo essersi espressi a favore dell’intervento, entrano nella redazionedel nuovo giornale – «Il popolo d’Italia» – fondato da Mussolini; cfr. G. B. FURIOZZI, Il Sinda-calismo cit., pp. 61-68; GAETANO ARFÈ, Storia del Socialismo italiano (1892-1926), Einaudi,Torino 1975 (prima ediz. 1965), pp. 186-200; R. DE FELICE, Mussolini cit., pp. 221 ss.46 ANGELO OLIVERIO OLIVETTI, che ha ripreso le pubblicazioni di «Pagine libere», scrive:«Oggi la penna deve cedere al fucile… Sfidiamo tutti gli asini laureati in marxismo, che nonhanno mai letto Marx, ad indicarci quali sono i principi in nome dei quali si fanno traditoridella patria», in «Pagine libere», 2ª serie, 10 ottobre 1914, si veda anche FRANCESCO PERFETTI,Angelo Oliverio Olivetti. Dal Sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Bonacci, Roma1984.47 R. DE FELICE, Mussolini cit, pp. 227 ss.48 GIORGIO CANDELORO, Storia dell’Italia moderna. La prima guerra mondiale, il dopo-guerra, l’avvento del fascismo (1914 – 1922), vol. VIII, Feltrinelli, Milano 1992 (1ª ed. 1974),pp. 92 ss.

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correndo gli eventi successivi all’ultimatum austriaco alla Serbia, attribui-sce alla Germania la piena, per quanto dissimulata, determinazione allaguerra, con l’obiettivo ideologico della «pangermanizzazione dell’Europa»e quello economico conseguente di trasformare i territori dal mar Balticoal Golfo Persico, anche attraverso la politica turcofila, in un’unica plaga diazione austro-germanica. Individua poi nello sviluppo ad Oriente, più chein quello verso il Nordafrica, il destino mediterraneo dell’Italia e conclude:«Noi siamo in una delle fasi culminanti della storia del mondo. Partecipare ad essa conperfetta consapevolezza della sua importanza è cosa che riempie l’animo di orgoglio. So-cialista, cioè uomo di progresso, io auspico un risultato della crisi che non consacri la ege-monia germanica sull’Europa continentale. Italiano, formo il voto che essa si abbia aconcludere con la riunione intorno a Roma di tutta la famiglia italiana. Deputato, modestorappresentante della Nazione, spoglio di sentimenti faziosi, auguro a voi, signori del Go-verno, la sublime dolcezza di poter associare il vostro nome all’ultima grande impresa na-zionale, che gli italiani hanno il dovere di compiere»49.Labriola, pur senza dichiararsi apertamente a favore della guerra, mettein risalto che i punti di divergenza con gli antichi alleati sono più numerosidi quelli di convergenza, manifesta tutta la sua delusione per le scelte deisocialisti tedeschi che, in pratica, non lasciano ai socialisti italiani, altrapossibilità e sostanzialmente invita il governo a compiere «l’ultima grandeimpresa nazionale», cioè la guerra a fianco delle democrazie occidentali.Il dibattito impegna la Camera per due giorni; le uniche note di dissensovengono dal Gruppo Socialista, mentre il resto dell’Opposizione, pur conaccenti diversi, segue il percorso tracciato da Labriola. Arcà non interviene,si riserva una dichiarazione di voto. Al termine del dibattito l’on. Bettolo,a nome del Governo, presenta il seguente ordine del giorno:«La Camera, riconoscendo che la neutralità dell’Italia fu proclamata con pieno dirittoe ponderato giudizio, confida che il Governo, conscio delle sue gravi responsabilità, sapràspiegare, nei modi e’ con i mezzi più adatti, un’azione conforme ai supremi interessi na-zionali».Su richiesta dei Socialisti, si vota per appello nominale. L’o.d.g. Bettoloottiene ben 413 voti e appena 49 voti contrari; Arcà, rinunciando alla di-chiarazione di voto, e tutto il gruppo sindacalista, votano a favore50. La rot-tura adesso è veramente consumata, non ci sono più margini neppure per

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49 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, 1ª tornata, 3 dicembre1914.50 IVI, 5 dicembre 1914, Si noti che gli ultimi due interventi sono quelli di Filippo Turatie di Giovanni Giolitti.

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forme di collaborazione sul piano parlamentare. Tra dicembre e febbraiodel nuovo anno si registrano in Calabria manifestazioni interventiste cuida sostegno, specialmente in provincia di Reggio, il deputato Arcà, che oraè entrato in netto contrasto con le sezioni socialiste calabresi. Le adesioni alle manifestazioni interventiste non sono proprio di massa,si tratta di piccoli gruppi di giovani studenti, professionisti, maestri e pro-fessori di Liceo, qualche impiegato pubblico, commercianti facoltosi e rariartigiani51. In realtà molto più diffuse e partecipate, in particolare nei centriminori e nei comuni delle fasce interne, sono le agitazioni e le proteste, or-ganizzate dalle Leghe contadine e dai Socialisti, contro il caro-vita, il man-cato rispetto dei patti agrari, la disoccupazione, l’aumento delle impostee tasse locali. A queste si aggiungono scioperi di protesta, a volte improv-visi, messi in atto da determinate categorie ben organizzate come gli edili,gli scaricatori, i postetelegrafonici. In queste manifestazioni si mescola,talvolta, qualche elemento interventista, che agita, senza suscitare parti-colari entusiasmi, il tema della guerra o vista come compimento del Risor-gimento o come guerra rivoluzionaria e di classe52. Coglie bene la realtàdelle cose il Prefetto di Cosenza che in sua Relazione (febbraio – aprile1915) al Ministro degli Interni scrive:«In questo capoluogo la maggioranza di parte intellettuale è di opinione interventistae gli animi sono eccitatissimi… L’eccitazione degli animi va addirittura facendosi turbolentae le teste riscaldate manifestano i più strani propositi… La eventualità di entrata in guerradel nostro Paese non appassiona le masse»53.La situazione economica desta, però, nel sindacato così grave preoccu-pazione che le Camere del Lavoro di Reggio Calabria e Messina organizzano,nel novembre del 1914, un «Congresso calabro-siculo contro la disoccupa-zione». Vi partecipa anche Arcà che pronuncia un brevissimo intervento,più un indirizzo di saluto che un vero contributo al dibattito, con il qualeassicura il suo interessamento e promette di presentare, insieme con altrideputati calabresi, delle apposite e concrete proposte al Governo54.

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51 Una rassegna completa delle manifestazioni pro e contro l’intervento in guerra sitrova in ENZO MISEFARI , Le lotte contadine in Calabria nel periodo 1914-1922, Jaca Book, Mi-lano 1972, pp. 36-63.52 IVI, pp. 21-32.53 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Busta 2, Relazione Prefetto diCosenza a Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati,19 aprile 1915.54 ENZO MISEFARI, Il Socialismo in Calabria nel periodo giolittiano, Rubbettino, SoveriaMannelli 1985, p. 164.

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L’impegno potrà essere mantenuto solo in piccolissima parte e si ri-durrà, dato l’incalzare degli eventi, alla presentazione di quattro interro-gazioni, le prime due dedicate a questioni riguardanti la gestionedell’ordine pubblico nel territorio della Piana da parte della polizia, conparticolare riferimento all’area compresa nel suo collegio (Cittanova, Ja-trinoli, Maropati) e l’altra sulla situazione venutasi a creare all’internodella Pretura di Cinquefrondi55, argomenti che esulano dall’oggetto del pre-sente scritto. L’altra attiene, invece, al dibattito che segue le comunicazioni del Pre-sidente Salandra e cioè la richiesta e concessione della fiducia al nuovoGabinetto e l’approvazione del Decreto con il quale i Prefetti possono vie-tare e sciogliere qualunque manifestazione che metta in pericolo l’ordinepubblico56. Il decreto sull’ordine pubblico viene approvato nella seduta del18 marzo, Arcà e Labriola non partecipano alla votazione. Nella sedutaconclusiva, con il solito escamotage di suggerire un’anticipazione della so-spensione dei lavori per la pausa festiva, questa volta collegata alle festivitàpasquali, Salandra ottiene contemporaneamente, la proroga dei lavori al12 maggio e l’approvazione di gran parte dei decreti, con la sola, forte op-posizione dei Socialisti. Il deputato Arcà, il giorno prima, presenta la suaquarta interrogazione al Ministro degli interni e «chiede … di sapere se i comizi pubblici possono essere proibiti anche quando sono indettiper discutere di mancata esecuzione di leggi speciali, di piani regolatori, di strade d’accesso,com’è avvenuto a Lazzaro ed in altri comuni della provincia di Reggio Calabria»57.Essa viene registrata, ma non viene posta in discussione e il deputatoha appena il tempo di segnalare che si tratta di uno dei tanti frutti avvele-nati di uno stato di confusione determinato dall’agire incerto del Governo,dimenticando che il decreto sull’ordine pubblico è stato voluto, se non im-posto, proprio per contrastare le manifestazioni contro la guerra promossedai Socialisti e dalle Camere del Lavoro che si riconoscono nella Confede-razione Generale del Lavoro (CGL). Così che i prefetti hanno ora le manilibere e possono vietare qualunque manifestazione di protesta neutralistao non gradita alle forze governative58. L’ondata delle manifestazioni inter-

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55 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, 1ª tornata, 20 febbraio1915; che va messa in relazione all’interrogazione presentata dall’on. Larizza sulla costi-tuzione delle Corti d’assise in Calabria, IVI, 2ª tornata, 17 marzo 1915.56 IVI, 1ª tornata, 6 marzo 1914.57 IVI, 21 marzo 1915.58 IDOMENEO BARBADORO, Il Sindacato in Italia, vol. II, Teti Editore, Milano 1998, pp. 321 ss.

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ventistiche, sia di parte nazionalista che democratica, coinvolge il giovanedeputato sindacalista che, facendo la spola tra Roma e la Calabria, da il suoapporto alla costituzione di un, certo non numeroso, ma sicuramente ru-moroso e agguerrito “Comitato interventista” che in Nicola Lombardi, aCatanzaro, Luigi Saraceni e Nicola Serra nel Cosentino e in Paolo Mantica,Lanzillo e lo stesso Arcà a Reggio, ha gli esponenti più determinati e ac-cesi59. Durante le “radiose giornate di maggio” il giovane deputato è uncomprimario di prima fila che, senza nascondersi né defilarsi, preferiscelasciare ad altri la scena. quando la Camera, finalmente, si riunisce il 20 maggio è chiamata, piùche ad assumere una decisione, a ratificare quanto già imposto dalla piazzae dall’avventurismo dei tanti interventisti e, nei fatti, ad approvare quantoconcordato dalla triade costituita dal Re, dal Presidente Salandra e dal mi-nistro degli Esteri Sonnino e dai potenti gruppi industriali siderurgici60.Salandra presenta un Disegno di legge per il conferimento al Governodi poteri straordinari in caso di guerra61, e chiede che ne sia deferitol’esame ad una commissione da nominarsi dal Presidente della Camera eche la Commissione62 riferisca immediatamente; contestualmente il Mini-stro Sonnino rende pubblica la documentazione relativa ai negoziati in-tercorsi tra l’Italia e l’Austria-Ungheria dal 9 dicembre 1914 fino al 4maggio 191563.La seduta riprende nel pomeriggio con l’intervento del Pre-sidente della Commissione Boselli e la contro-relazione di Turati64, poichiedono di parlare, solo per dichiarazione di voto, i deputati Barzilai, Co-lajanni e Ciccotti. quest’ultimo, con un discorso sofferto, accorato e conti-nuamente interrotto sia da contestazioni che da approvazioni, dopo averesordito affermando di parlare anche a nome dei colleghi Altobelli, La-briola, Arcà e Raimondo, annuncia il voto favorevole di questi cinque de-putati al Decreto sui pieni poteri e conclude così:«La guerra, in cui sta per impegnarsi l’Italia, è anche guerra di difesa, non solo delle ra-gioni nazionali, ma di un qualcos’altro che, nel nostro pensiero e nella nostra fede di so-

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59 E. MISEFARI, Le lotte cit, pp. 45-52.60 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, 1ª tornata, 20 maggio 1915.61 ANGELO VENTRONE, La seduzione totalitaria: guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli, Roma 2003, pp. 100-103.62 Il Presidente chiama a far parte della Commissione i deputati : Boselli, Luzzatti, Bac-celli Guido, Cocco-Ortu, Compans, Finocchiaro-Aprile Camillo, Guicciardini, Barzilai. Bet-tolo, Pantano, Aguglia, Bianchi Leonardo, Credaro, Dari, Turati, Arlotta, Bissolati e Meda .63 Il Dossier, che comprende 78 documenti, viene pubblicato in fascicolo come allegatoalla Gazzetta Ufficiale del Regno del 21 maggio 1915.64 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, 2ª tornata, 20 maggio 1915.

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cialisti, è superiore anche alle ragioni nazionali: la difesa della causa della libertà e dellaindipendenza dei popoli i quali non vogliono nessuna egemonia, perchè non vogliono nes-sun vassallaggio…Noi vogliamo, o signori, questa volta, con le armi, con le armi stesse spez-zare l’onnipotenza, spezzare la superstizione delle armi: memori, anche in ciò, dellatradizione di Garibaldi, del quale nessuno più esecrò la guerra e nessuno combattè più bat-taglie per dare in olocausto la guerra a questo ideale di pace universale, di trionfo dell’ideadi umanità. Noi Socialisti vogliamo che l’Internazionale viva e trionfi, ma non ci pare di as-sicurarne l’avvento dichiarandoci estranei a un conflitto in cui il proletariato più progreditoe meglio organizzato fa causa comune con la classe borghese per assicurare il trionfo alproprio Stato nazionale»;«O colleghi, o amici socialisti, anche a noi sta in cuore 1’ inviolabilità della personaumana; ma, purtroppo, per rivendicare i diritti della vita, per consacrarli e riaffermarli ac-cade talvolta sacrificar delle vite… Noi Socialisti non siamo i corifei della guerra per laguerra e non appettiamo la risurrezione dell’Italia per la guerra e attraverso la guerra;l’avremo solo dopo la guerra, quella resurrezione, se sapremo trarre profitto dalle colpe edagli errori degli altri e nostri; acquistare la coscienza di quelli che sono i veri interessi delPaese; comprendere che la guerra è l’orgasmo di un’ora e l’educazione l’opera di anni, eche un paese può divenir grande in pace e in guerra, solo quando vi si nobiliti il carattere,vi si rafforzi la disciplina, quando vi si realizzino quelle condizioni che possono essere ri-sorse per la guerra, ma sono soprattutto la grandezza e la sublimazione della pace. Taleoggi noi, in cospetto della stessa guerra, auspichiamo l’Italia; un’Italia che non pretenda,in nome di un passato tramontato, di dar legge ai popoli, ma che cooperi con tutti i popolia stabilire quelle leggi di una più vera umanità, senza le quali ogni azione è infeconda, eogni battaglia è soltanto una gesta omicida e ogni guerra è uno scempio scellerato»65.La votazione si svolge a scrutinio segreto: lo stato di guerra viene deli-berato con 407 voti favorevoli, 74 contrari e un astenuto. Il 24 maggio l’Ita-lia entra in guerra; il giorno dopo, senza esitazione alcuna, il deputato Arcàsi arruola volontario.4. Sei mesi sul fronte orientaleIl 25 maggio 1915 Francesco Arcà varca il portone della caserma del13° Reggimento di Artiglieria da campagna66 e chiede al comandante del3° Gruppo – col. Federico Baistrocchi67 – di essere arruolato come volon-

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65 IVI, 1ª e 2ª tornata, 20 maggio 1915.66 Il 13° Reggimento Artiglieria da campagna “Granatieri di Sardegna” venne costituitocon legge del 23 giugno 1887, si caratterizzò subito come il Corpo più moderno e meglioattrezzato dell’Esercito. Il suo motto è: Dura la volontà ferma la fede”; V. Ministero della Di-fesa – Ispettorato dell’Arma di Artiglieria - Cenni storici sul 13° Artiglieria da campagna(1888-1952) , Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1952.67 Federico Baistrocchi (Napoli, 9 giugno 1871 – Roma, 31 maggio 1947) generale d’ar-mata, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, deputato, senatore, sottosegretario al Ministerodella Guerra con Mussolini; cfr. GIAN PAOLO NITTI, Dizionario Biografico Italiano, vol. V, vocead nomen, Treccani, Roma 1963.

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tario. Insieme con lui ci sono Edgardo Sambo68, un pittore triestino, e gliavvocati Cesare Talarico e Mario Gioncada, suoi colleghi e soci di Studio. Èil primo deputato del Parlamento italiano che chiede di andare a combat-tere. È il primo rappresentante delle Istituzione che compie un gesto per-fettamente conseguente con le scelte politiche adottate. quali sono lemotivazioni? Possiamo prendere a prestito quelle forniteci dal deputatoMarcello Soleri, che lo seguirà arruolandosi il 19 agosto: «i soldati devonoessere convinti che la guerra non la deve fare solo il popolo, ma pure coloroche occupano posizioni sociali e politiche»69.Per i deputati l’esempio è contagioso: il 27 maggio si arruola Luigi Ga-sparotto e poi a seguire un folto gruppo di deputati, alla fine si conterannocirca 180 deputati-soldati. «Gli alti comandi tollerarono a malapena la pre-senza dei deputati in grigioverde, in essi si temono dei critici, e pur utiliz-zando quelli di idee sicure per indottrinare le truppe, il rapporto conl’elemento politico rimane difficilissimo»70. Non tutti i politici in armi sonoassimilabili nelle ragioni che li spinsero alla partecipazione diretta allaguerra né tutti riuscirono a cogliere il senso dei nuovi valori che stavanomaturando nelle trincee e tra la truppa. Tutti ebbero la capacità di coglierele contraddizioni della vita al fronte, l’iniquità della disciplina militare, igravi errori compiuti dal Comando supremo – da Cadorna, in primo luogo– ma non tutti riuscirono a stabilire un rapporto diretto e immediato coni soldati che marciavano, combattevano e morivano al loro fianco. Solo al-cuni come Arcà, De Felice-Giuffrida e Labriola ebbero la capacità di com-prendere la dimensione innanzitutto politica della guerra moderna chenon si poteva affrontare e, di conseguenza, vincere, senza il consenso con-vinto dei combattenti, il sostegno e la mobilitazione del c.d. “fronte in-terno”, la collaborazione di tutte le istituzioni civili e politiche. Arcà riuscìa cogliere tutto questo, tanto è vero che egli considera il ritorno alla vitacivile e all’attività di parlamentare, che non vorrebbe, come la continua-zione, con altri mezzi, della guerra. Comunque superato il primo imbarazzodel col. Baistrocchi e vinte le perplessità dei suoi superiori, Arcà viene sot-

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68 Edgardo Sambo (Trieste 1882-1969), pittore; frequentò l’Accademia di Venezia e poiquella di Monaco, lavorò a Vienna e a Praga, dove affrescò l’abazia di Emaus; cfr. FABIO CE-SCUTTI, Un pittore in guerra, in «Il Piccolo» (Trieste), 28 aprile 2014.69 UMBERTO LEVRA, Il Diario di guerra di Marcello Soleri, in «Notiziario dell’istituto Storicodella Resistenza di Cuneo e provincia», n. 10, dicembre 1976, pp. 33-34. 70 SILVANO MONTALDO, Il Parlamento e la società di massa (1990-1919), in LUCIANO VIOLANTEE FRANCESCA PIAZZA (a cura di), Storia d’Italia – Annali 17 – Il Parlamento, Einaudi, Torino2001, pp. 243-244.

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toposto a un accelerato corso di addestramento che comprende cavalcare,l’uso delle armi da fuoco leggere, il lancio di bombe a mano, i rudimentidella balistica e l’impiego dell’artiglieria di montagna. Il tutto in meno didieci giorni sotto la ferrea guida del sergente Bruno Orsini, un militare dicarriera che sarà, purtroppo, una delle primissime vittime della guerra71.Il 2 giugno gli vengono consegnati i gradi di tenente e il 3 raggiunge Vitto-rio Veneto. Gli ordini sono di schierarsi sul Cadore per posizionarsi lungola montagna del Fiammes nella zona compresa tra Croda d’Ancona, cimaCadini e il Son Pauses. Subito nota:«Nella guerra attuale…non è possibile, nemmeno alle più sbrigliate fantasie di criticimilitari e di giornalisti, fare la descrizione di una battaglia, come nella classica concezione,mettiamo da Giulio Cesare in poi: spiegamento di grandi linee, attacchi in massa e soluzionenella giornata. Oggi la guerra è una sola, continua battaglia di tutti i giorni, che dura permesi e mesi su fronti di centinaia di chilometri, una battaglia continuata che ha però diversigradi e fasi, dall’azione d’attacco ad una posizione da mantenere con fanterie, al duello con-tinuo d’artiglieria»72.Il primo grosso problema da affrontare è il posizionamento delle bat-terie in alta montagna. Bisogna superare le asperità a forza di braccia, vin-cere il freddo pungente e installare un servizio di comunicazione efficientee rapido. Il tutto sotto il tiro incessante del Nemico che dispone di un nu-mero notevole di mitragliatrici pesanti ben piazzate negli anfratti e nellegrotte.«Sono specialmente qui – afferma – ad oltre 1500 metri, le insidie della guerra di mon-tagna, guerra meno brillante, meno attiva, meno spettacolare. Ci accorgiamo ogni giornodi più che qui si debbono esercitare le più riposte virtù, le più latenti qualità di costanza,di tenacia, di disciplina militare, fisica e spirituale. L’ora e la giornata di combattimento,ossia dell’attacco di fanteria è breve; è un’ora di slancio, di coraggio, di entusiasmo, di eroi-smo, di ebbrezza, di cecità… è questa scuola quotidiana che trasforma i nostri bravi ragazziin forti uomini di guerra, non solo audaci, ma serenamente, prudentemente se occorre, va-lorosi, continuamente vigilanti»73.Il secondo grosso problema è quello dei franchi-tiratori tirolesi, dei

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71 Singolare la fine di questo soldato. Il Sergente Maggiore Bruno Orsini, cui era stataaffidata la 7ª batteria del 13° Rgt di Artiglieria, dopo aver resistito, a oltre 2.000 metri d’al-tezza, per tre giorni sotto il fuoco nemico ed essere scampato al tiro di un cecchino (il pro-iettile gli trapassò il berretto lasciandolo incolume) morì travolto da una valanga il 12novembre 1915 su un ripiano del Nuvolao a quota 2.176 metri; cfr. LUCIANO VIAZZI, Guerrasulle vette, Mursia, Milano 2007.72 FRANCESCO ARCà, Come combattono i nostri soldati, Edizione a cura del Comitato dellaCroce Rossa, Roma 1916, p. 15. 73 IVI, pp. 25-26.

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“cecchini” o come li chiamano in Veneto, del “Gallo cedrone”. Sono quelliche ti colpiscono quando meno te lo aspetti, durante le pause, al rancio,all’alba o sul fare dell’imbrunire quando il soldato è stanco, l’attenzionecala, la vigilanza diminuisce. La descrizione della morte di un soldato, col-pito al polpaccio dal proiettile di un cecchino, che non può essere soccorsoprima dell’alba, al quale ognuno si prodiga di portare aiuto come può, cheparla, delira e muore dissanguato accanto a lui, richiama subito alla mentei forti versi di “Veglia” di Giuseppe Ungaretti74: «È il primo contatto tragicoche ho con la guerra: è niente a confronto di quel che mi toccherà, prestodi vedere»75.Il racconto prosegue con la descrizione delle giornate che trascorronolente nell’attesa di un ordine di spostamento o di attacco, per poi diventarevorticose nel momento dell’azione e non mancano le notazioni sui mo-menti di socialità – il rancio, la distribuzione della posta – di allegria - glistornelli improvvisati – le canzoni – le poesie struggenti per la mamma, lafamiglia, la fidanzata e quelle satiriche per gli ufficiali e i commilitoni76. Ilrapporto che il deputato instaura con i soldati è di “fratellanza”, di pienacondivisione:«La disciplina migliore in guerra è quella che scorga dall’affetto e dall’ammirazione chei soldati hanno per l’ufficiale, dall’esempio che questi giornalmente fornisce […] Parlatesempre ai soldati: è il vostro maggiore e miglior dovere, dice sempre il Colonnello… siateseveri quando è necessario…ma siate sempre buoni, affettuosi e giusti e curate tutti i biso-gni materiali e spirituali dei vostri uomini.. ed informatevi se hanno notizie della loro fa-miglia, se scrivono…»77.I soldati scrivono alle loro famiglie, alle loro madri, alle fidanzate, agliamici e se non sanno scrivere si fanno aiutare perché vogliono comunicare,con semplicità, senza nulla nascondere, i loro sentimenti più profondi, illoro stato d’animo, le loro angosce78.

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74 “Veglia” in GIUSEPPE UNGARETTI, L’allegria, Tutte le poesie – I Meridiani Mondadori, Mi-lano 1969.75 F. ARCà, Come combattono cit., pp. 18-19.. 76 «Dalla tana del Comando in Val Popena», «Fior di città/ Visto che rima in Forges none n’è/la chiediamo al deputato Arcà”, in Come combattono cit., p. 43.77 F. ARCà, Come combattono cit., pp. 27 – 28.78 Sulle lettere dei soldati nella Grande Guerra cfr. GIUSEPPE FERRARO, Lettere dal fronte:aspetti e problemi di vita militare durante la Grande Guerra, in «Rivista Calabrese di Storiadel ’900», 2, 2012, pp. 117-132; Id., Trincee di carta: scritture e memorie di guerra (1914-1918), in Id. (a cura di), Dalle trincee alle retrovie cit, pp. 77-96: CARMINE CHIODO, …le canno-nate passano friscando sopra la nostra terra: di alcune lettere di soldati calabresi sulla primaguerra mondiale, in «Culture e Prospettiva», 25, ott.-dic. 2014.

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Bisogna raccontare quel che succede al fronte, nelle trincee, in monta-gna, nelle immediate retrovie, nelle cittadine conquistante – “redente”, – epoi di nuovo perdute. questo è il compito che gli viene affidato.«Le giunga gradito – scrive il col. Baistrocchi – il saluto dei suoi commilitoni e del suocomandante, nel momento in cui Ella si appresta a lasciare le armi che di fronte al nemicotenne con onore per recarsi a compiere in patria, un dovere di minori soddisfazioni, mapur tanto necessario: quello di concorrere con l’opera e la parola sua, confortata dall’espe-rienza di sei mesi di guerra, combattuta in difficili circostanze di nemico e di terreno, amantenere viva quella fede che è elemento primo di successo79.5. La propaganda e il “Fronte interno”Con rinnovato entusiasmo, Arcà si tuffa in questa attività di propagandache considera una nuova missione, il compimento di un dovere civile,prima ancora che politico. Racconta, con viva partecipazione e, a tratti, in-tensa commozione, non senza una punta di patriottica retorica e di “liri-smo militaresco”, la sua esperienza di guerra in una serie di conferenzeche tiene, a partire dal 23 gennaio 1916, prima a Palmi, subito dopo a Reg-gio Calabria, poi a Napoli, a Roma e in altre città sotto l’egida della CroceRossa. «La guerra era necessaria e perciò sacra: necessaria perché l’Italia conseguisse la suaindipendenza e la sua libertà, sottraendosi al giogo di un confine insicuro che lasciavaaperte all’invasore le porte di casa; necessaria per ricongiungere alla Nazione l’italianitàdolorante d’oltre confine; necessaria per contribuire ad annientare le mire egemonichedel militarismo prussiano, a cui si accodarono la barbarie turca e la vergogna austriaca, eche straziò il Belgio, neutrale ed eroico, la Serbia, fiera ed indomita, che affogò nei gorghidel mare del nord e del Mediterraneo nostro le donne e i bambini e i pacifici cittadini emi-granti; necessaria soprattutto, perché l’Italia non restasse – quando tutte le nazioni in armiavessero fatto la nuova loro storia – isolata e svergognata, senza onore e senza prestigio.E’ per questo che i nostri soldati combattono saldamente l’aspra guerra; perché sono ani-mati dal divino entusiasmo della causa giusta, coscienti che al loro valore , al loro eroismo,al loro sacrificio, è affidata - oltre che la causa della stessa esistenza nazionale – la causadel diritto e della giustizia»80. Si rende conto che nel Meridione e ancor di più in Calabria, i ceti popo-lari hanno vissuto l’entrata in guerra con un misto di rassegnazione e sop-portazione di una sorta di particolare calamità, incontrollabile eineluttabile come può essere un terremoto. Le agitazioni interventistiche,che pure sono state partecipate a Reggio, a Palmi, a Villa San Giovanni, a

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79 Lettera di commiato del col. Baistrocchi, riportata in F. ARCà, Come combattono cit.,p. 7.80 F. ARCà, Come combattono cit., p. 9.

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Catanzaro, a Monteleone (Vibo Valentia), a Cosenza, a Corigliano e a Ca-strovillari, percorse da un forte e rinnovato fermento patriottico, appaionoadesso un “fuoco di paglia”. I ceti popolari sono rimasti passivi e ora che,più di ogni altro, si sono sobbarcati il peso della guerra, recalcitrano, re-putano che la chiamata alle armi sia l’ennesima ingiustizia subita, in-somma non sentono la guerra come propria né in senso patriottico e tantomeno in senso rivoluzionario81. Per questo il primo accorato appello, Arcàlo rivolge a quello che pensa sia ancora il suo elettorato, facendo leva suisentimenti personali e sui legami con i soldati. Ognuno – sostiene - è chia-mato a dare, in qualunque modo ed in qualunque forma, il proprio contri-buto, nessuno può sottrarsi a questo impegno morale poiché la causa ècomune e i soldati al fronte hanno bisogno di essere confortati, di sentirsisostenuti, di sapere che l’intero popolo, superate le incertezze, abbando-nate le paure, messe da parte le polemiche e le divisioni partitiche, sta conloro. «Tutto giunge alle trincee, tutto giova alla causa della giusta guerra;occorre solo che ciascuno di noi pensi che non ha mai fatto, non ha maidato abbastanza e che perciò possa sempre ancora fare, ancora dare»82. Per questo il nemico più temibile e più pericoloso è quello che si an-nida nelle retrovie. Sono quelli che avvelenano l’animo collettivo, sonoquelli che volevano rimanere nella «vergogna della neutralità perpetua»,quelli che«ancora oggi, nascosti però nell’ombra – guatano il dolore delle famiglie e le difficoltà diogni genere, che sono conseguenze ineluttabili della guerra…per spargere intorno il dubbioe la diffidenza; per intaccare la saldezza granitica della stessa nazione, pervadendola discetticismo e tentando così una vera opera di tradimento»83.Si riferisce chiaramente a quelli che con un neologismo appena coniato,vengono chiamati “gli imboscati”84. Visto con gli occhi dei fanti, dei soldati

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81 Particolarmente decisa era stata l’opposizione del clero e degli ambienti cattolici, sicfr. PIETRO BORZOMATI, Aspetti religiosi e storia del movimento cattolico in Calabria (1860-1919), Rubbettino, Soveria Mannelli, 1993 (prima ediz. Cinque Lune, Roma 1967).82 F. ARCà, Come combattono cit., p. 10.83 Ivi, p. 8.84 L’on. Francesco Ciccotti definì imboscati «tutti coloro che, dovendo prestare un ser-vizio militare, fanno in modo da renderlo più apparente che reale, più formale che effet-tivo», Atti Parlamentari, Camera, XXIV Legislatura, 1ª tornata, Discussioni, seduta del 21marzo 1916. L’on. Ciccotti affermò che alcuni imprenditori traevano un lucro occulto e il-lecito facendo pas sare per operai parecchi giovani di buona famiglia, e che addi rittura eranostati impiantati degli opifici non tanto per fab bricare armi e munizioni, quanto per orga-nizzare l’imboscamento, «industria più profittevole di ogni altra»: Atti Parlamentari, Ca-mera dei Deputati, XXIV Legislatura, 1ª tornata, 21 marzo 1916.

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di trincea, erano imboscati gli arti glieri, e per l’intero esercito erano im-boscati tutti gli italiani che non si trovavano in zona di guerra. Il fante di trincea aveva diviso l’esercito in quattro categorie: i fessi,come lui, che combattevano in prima linea; i fissi, presso i comandi (daquello di divisione in su); gli italiani, nelle retrovie; gli italianissimi, all’in-terno del paese85. Non era facile far comprendere al soldato che i cittadiniri masti negli uffici o nelle fabbriche erano altrettanto utili alla vittoriaquanto e talvolta più di lui o che, anche la sua stessa sopravvivenza dipen-deva dall’efficienza delle armi, dall’organizzazione della produzione, dallacontinuità dei rifornimenti. La protesta dei combat tenti contro le esenzioni dal servizio militare puòessere quindi considerata come un dato di carattere permanente nellaprima grande guerra moderna. quella protesta raggiunse un grado di esa-sperazione davvero eccezio nale86. La fanteria, nella sua grande mag gioranzaera composta da contadini, mentre la quasi totalità degli operai industriali,erano esonerati per legge dal servizio militare. Inoltre gli operai richiamatialle armi milita vano molto raramente in fanteria poiché, se conoscevanosia pure superficialmente un motore o sapevano maneggiare un attrezzo,erano avviati a far parte di altri corpi, come l’Artiglieria o il Genio. Per ilfante-contadino, dunque, dire operaio equivaleva dire imboscato, na scostoin qualche corpo speciale o più spesso rimasto in città a guadagnare paghesempre più elevate e a sfruttare in qual che modo la guerra87. Anche un giovane ufficiale calabrese in licenza – Eugenio Musolino –avverte uno scollamento tra il fronte e la società civile:«Partito da Aquileia, man mano che il treno mi portava verso la Calabra, avvertii, sianelle persone che incontravo nelle stazioni ferroviarie, sia nelle città dove mi toccava farsosta, una situazione, dal punto di vista psicologico, del tutto diversa da quella immaginatao pensata da noi combattenti, esposti ai più duri sacrifici. Mentre al fronte si soffriva e simoriva, la popolazione, in tutti i suoi strati sociali, si mostrava gaudente e del tutto indif-ferente verso noi combattenti. I cinema, i caffè-concerto, i ritrovi pubblici e privati rigur-

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85 Sull’argomento cfr. PIERO MELOGRANI, Storia politica della grande guerra, vol. I, Laterza,Bari 1977.86 Sono note le tragiche vicende della “Brigata Catanzaro” nonché le varie forme indi-viduali di protesta messe in atto dai soldati che arrivavano anche ad infliggersi gravi mu-tilazioni pur di evitare di essere mandati in prima linea; cfr. GIANLUCA COSTANTINI E ELETTRASTAMBOULIS, Officina del macello. La decimazione della Brigata Catanzaro, ERIS, Torino 2014e MARCO ROSSI, Gli ammutinati delle trincee. Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale,BFS Edizioni, Pisa 2014. 87 «La guerra la fanno i contadini!» gridò alla Camera l’on. Soderini. «La pagano col lorosangue in pro porzione del 75 per cento», confermò l’on. Giacomo Ferri: Atti Parlamentari,Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, 1ª tornata, Discussioni, seduta del 20 marzo 1916

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gitavano di gente allegra, che della guerra dimostrava di non aver alcun pensiero o la mi-nima preoccupazione. Ma quel che più offendeva era l’indifferenza con la quale mi vedevotrattato da coloro che conoscevano la mia provenienza. In tutti i volti si leggeva un’espres-sione che non saprei definire se di commiserazione o di estraneità, certo di poca conside-razione o di poca riconoscenza. Facevano spicco i cosiddetti imboscati, che ben protetti inalto, vestiti da militari ed insolenti verso di noi, si godevano la dolce vita in allega compa-gnia […] Ebbi l’impressione di un crescendo di una gazzarra, e mi sentii più solo»88.Per non cadere nella trappola delle contrapposizioni concentriche, chesi allargano a macchia d’olio, finendo per coinvolgere, partendo dall’in-terno dell’esercito i fanti e il resto dei reparti specializzati, i fanti e i sele-zionati gruppi d’assalto (i c.d. “Arditi”)89; i combattenti e la società civile e

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88 EUGENIO MUSOLINO, Quarant’anni di lotte in Calabria, Teti Editore, Milano 1977, p. 27.89 BASILIO DI MARTINO E FILIPPO CAPPELLANO, I Reparti d’assalto italiani nella Grande Guerra(1915-1918), Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, Roma 2007.

L’on. Francesco Arcà (1879-1920)

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poi, senza distinzione alcuna, la società, le istituzioni fino ai più alti verticipolitici, compreso il Parlamento, Arcà deve obbligatoriamente fare appelloal “senso del dovere” che ciascun cittadino non può non sentire in questocruciale momento. In secondo luogo richiama lo spirito di solidarietà, rap-presentato dall’azione della Croce Rossa per conto della quale conducequella che, per lui, è innanzitutto una campagna di informazione e di sen-sibilizzazione, che non può non essere avvertito nel momento in cui la “Na-zione” – che, presto, diventerà, anche per lui, “patria” - è in guerra: «Ecco perché, io ho oggi la sensazione di compiere anche un dovere militare insiemecol dovere civico di giovare alla Croce Rossa. Un dovere militare che però qui è veramentegradito al mio spirito, perché in questa vecchia terra nostra, che ancora una volta si è rive-lata terra di forti e di eroi, è tanto viva la fede nelle armi della patria, nel valore dei nostrisoldati, nella sicurezza della giusta vittoria, che piuttosto che essere io ad infondere nuovialimenti alla fiamma viva dei vostri cuori, siete voi che date ame la gioia di poter piena-mente appagare il mio spirito… con una rievocazione semplice del loro semplice eroi-smo»90. La ripresa, da metà dicembre, dell’attività parlamentare, contribuiscea mantenere quell’afflato patriottico, generato dalla partecipazione direttaalle operazioni militari, che ha fatto passare in secondo piano, e forse, hadefinitivamente accantonato, ogni velleità di trasformazione della guerrain guerra rivoluzionaria. La Camera non può che porsi, argomenta Arcà, alservizio della Nazione e sostenere lo sforzo bellico e in virtù di questo lasua posizione può ora essere definita «coerentemente filo-governativa»,sia nei confronti del Governo Salandra, in carica fino al 12 giugno, sia poinei confronti del nuovo Gabinetto Boselli, che presenta tutte le caratteri-stiche di un ministero di unità nazionale. Il fatto poi che nel nuovo Gabi-netto non sieda nessun sindacalista, gli permette di continuare amantenere, pur guardandosi bene dall’intralciare l’attività del Governo,ancora una certa autonomia. Tant’è che si limita a sollevare problematicheriguardanti interessi locali o a formulare proposte per interventi a favoredelle famiglie dei ceti popolari che hanno figli al fronte91. La sua coerenzasi spinge fino a chiedere la costituzione di Comitati segreti per il controllodelle attività ministeriali e a sollecitare sedute segrete della Camera92:«il Governo, il Parlamento… devono mostrarsi degni dei loro soldati , che nelle trincee

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90 F. ARCà, ARCà, Come combattono cit., p. 8.91 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, 1ª tornata, 16 aprile, 29 e30 giugno 1916.92 IVI, 6 dicembre 1916.

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plasmano la nuova anima italiana, la nuova storia d’Italia; sol che i soldati sappiamo chetutto si soffrirà serenamente , fino all’ultimo sacrifizio, pur di conseguire la vittoria, allaquale vogliamo e dobbiamo sacrificare la nostra vita e i nostri averi e i nostri affetti ed ilpianto sacro delle madri e delle spose e l’avvenire stesso dei figli»93.E in conclusione aggiunge:«Giudicate voi se con questi tipi di combattenti… non abbia il dovere tutta la Nazione,il Governo, il Comando supremo di essere sempre degni di essi, di tutto osare, fi nulla omet-tere, di non più errare. Con soldati come questi la nostra guerra si deve vincere. E si vin-cerà»94.Caporetto s’incaricherà di spazzare via le ultime illusioni dell’interven-tismo democratico e rivoluzionario che, di fronte alla prospettiva dell’in-combente disfatta, non potrà far altro che allinearsi dietro il nazionalismoconservatore e, da spettatore compiacente, assistere dall’interno all’avviodella lenta disgregazione dello Stato liberale.

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93 F. ARCà, Come combattono cit., p. 10. 94 IVI, p. 51.

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Nella Prima guerra mondiale la religione esercitò una forza di penetra-zione e di influenza rilevante sia al fronte che nella società civile1: il con-flitto si trasformò per questo anche in uno scontro tra i principali credioccidentali. all’interno della grande famiglia del cristianesimo, ad esempio,cattolici, ortodossi e protestanti erano schierati, a seconda delle alleanze,gli uni contro gli altri. L’appartenere allo stesso credo, però, il più dellevolte non garantì un vincolo di fraternità, come dimostrava lo scontro tral’austria e l’Italia, due nazioni cattoliche. Nello stesso tempo alcuni cristianicombattevano contro i musulmani. Si assistette per questo ad una vera epropria mobilitazione delle diverse religioni a difesa delle proprie nazioni2. agli Stati (ma anche alle Chiese) in lotta tra di loro non era sfuggito ilruolo importante che a livello psicologico la religione poteva avere nel le-gittimare la guerra, sostenere moralmente i soldati al fronte, rafforzare laresistenza di questi ultimi nei combattimenti3. La guerra, oltre alle que-

Patria celeste e patrie terrene.L’arcivescovo Orazio Mazzella

e il suo catechismo per la Grande guerra*

Giuseppe Ferraro

* Il saggio espone i primi risultati di una ricerca più ampia. Voglio ringraziare per i con-sigli ricevuti il Prof. Vincenzo Lavenia dell’Università di Macerata. Se il lavoro presenta an-cora limiti naturalmente la responsabilità è soltanto mia. 1 Cfr. StéPhaNe aUdoIN RoUzeaU e aNNette BeCkeR, La violenza, la crociata, il lutto. LaGrande Guerra e la storia del Novecento, einaudi, torino 2002, [titolo originale 14-18, re-trouver la Guerre, Gallimard, Paris 2000], pp. 104-121. 2 ad esempio, il 13 giugno 1915 le Chiese evangeliche organizzarono a Roma una cele-brazione Pro Patria, a riguardo StefaNo GaGLIaNo, La Bibbia, i doveri del cristiano e l’amor dipatria: il protestantesimo italiano nel primo conflitto mondiale, in «Rivista di storia del cri-stianesimo», 2, 2006, pp. 359-381. Per la confessione ebraica cfr. MaRIo toSCaNo, Ebraismo eantisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, franco angeli, Milano 2003, p. 117.3 Su questo argomento, per quanto riguarda la Chiesa cattolica cfr. aGoStINo GeMeLLI, Il no-stro soldato. Saggi di psicologia militare, treves, Milano 1917; anche PIetRo SCoPPoLa, Cattolicineutralisti e interventisti alla vigilia del conflitto, in GIUSePPe RoSSINI, a cura di, Benedetto XV, icattolici e la Prima guerra mondiale, atti del Convegno di Spoleto, 7-9 settembre 1962, CinqueLune, Roma 1963, pp. 95-151; aLfoNSo PRaNdI, La guerra e le sue conseguenze nel mondo cat-tolico italiano, in G. RoSSINI, a cura di, Benedetto XV cit., pp. 153-205. In Italia le autorità già apartire dall’aprile 1915 con una circolare di Luigi Cadorna ripristinavano la figura dei cap-

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stioni politiche ed economiche, ne poneva, quindi, altre di natura religiosa,che riflettevano anche i rapporti tra Stato e Chiese. ad esempio la Chiesacattolica si ritrovò ad affrontare la guerra prima di tutto su un piano teo-logico-filosofico. Infatti bisognava spiegare alle masse come dio, onnipo-tente e misericordioso, permettesse che ogni giorno perdessero la vita nonsolo tanti soldati sui campi di battaglia, ma anche persone inermi nelle co-munità civili che si professavano di fede cristiana. Il discorso del clero cat-tolico cominciò per questo a spiegare il conflitto come un indirettodisegno-castigo-flagello della Provvidenza di dio per la redenzione del-l’umanità, strumento per ristabilire un ordine naturale e divino alterato4.In questo discorso però non era assente la componente nazional patriot-tica riferita alla guerra in atto. Nei dieci mesi di neutralità generalmente nel mondo cattolico era pre-valsa una linea di attesa e di speranza che l’Italia rimanesse neutrale. dalmaggio 1915 invece le posizioni del clero italiano, e soprattutto di alcunivescovi, si orientarono verso la costruzione di un discorso prima interven-

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pellani militari che dovevano con la loro presenza sostenere, confortare, motivare i soldatial fronte. Sul ruolo dei cappellani militari durante la Prima guerra mondiale cfr. RoBeRto Mo-Rozzo deLLa RoCCa, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Studium,Roma 1980; cfr. anche GIoRGIo RoChat, a cura di, La spada e la croce. I cappellani militari nelledue guerre mondiali, atti del XXXIV Convegno di studi sulla Riforma e i movimenti religiosiin Italia, 28-30 agosto, Bollettino della società di studi valdesi, torre Pellice 1995; MaRIo ISNeN-GhI, Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure nell’Italia tra il 1914 e il 1918,donzelli, Roma, 2015, pp. 35-49. Non mancarono nemmeno da parte del governo italiano neiconfronti del clero cattolico atti di diffidenza e di ostilità perché accusato di disfattismo o divicinanza all’austria, cfr. LUIGI BRUtI LIBeRatI, Il clero italiano nella Grande guerra, editori Riu-niti, Roma 1982, pp. 32-40, 138-157, 169-189. Per l’inconciliabilità invece tra guerra e cri-stianesimo cfr. BRUNa BIaNChI, I pacifisti, in NICoLa LaBaNCa (sotto la direzione di), Dizionariostorico della Prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 245-248. 4 esiste una bibliografia abbastanza corposa sul tema della guerra giusta. agostinoespose la sua dottrina della guerra nel Contra Faustum, nelle Epistulae 138 e 189, nel De li-bero arbitrio, nel libro XIX del De civitate Dei, nelle Questiones in Heptateucum. Per unosguardo di lungo periodo sul concetto di guerra giusta si veda, ad esempio, la raccolta distudi GIoVaNNa daVeRIo RoCChI, a cura di, Dalla concordia dei greci al bellum iustum dei mo-derni, franco angeli-San Marino University Press, Milano 2013. anche GUILLaUMe BaCot, Ladoctrine de la guerre juste, economica, Paris 1989; aNtoNeLLo CaLoRe (a cura di), «Guerragiusta»? La metamorfosi di un concetto antico, Giuffrè, Milano 2003; GIoVaNNI MICCoLI, Laguerra nella storia e nella teologia cristiana. Un problema a molteplici facce, in Pace e guerranella Bibbia e nel Corano, a cura di PIeRo StefaNI e GIoVaNNI MeNeStRINa, Morcelliana, Brescia2002, pp. 103-141. Per quanto riguarda la Prima guerra mondiale rimando alla posizionedi Benedetto Croce che da una parte dimostrava i limiti di una «teoria della guerra giusta»,dall’altra come questa teoria fosse stata utilizzata per mobilitare forze a favore del conflitto,cfr. BeNedetto CRoCe, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Laterza, Bari 1965, inparticolare pp. 11-50.

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tista, poi nazionalista. I moniti di Benedetto XV a favore della pace e delruolo universale del magistero della Chiesa, che esigevano vicinanza, manon sostegno per le nazioni in guerra, vennero il più delle volte disattesi5.Gli episcopati seguirono logiche politico-storiche che rispondevano alleloro Chiese nazionali e si mossero in sostegno della propria nazione co-struendo una religione di guerra6. anche l’episcopato calabrese in generalesembrava seguire nei confronti della guerra orientamenti simili, come te-stimoniavano le posizioni di alcuni ordinari diocesani e del mondo catto-lico7. L’episcopato calabro assunse infatti una posizione di sostegno allosforzo militare italiano8. Mons. Carmelo Puija, vescovo di Santa Severina,e mons. Giovanni Scotti di Cariati potevano essere i due esempi più indi-cativi di queste posizioni, infatti in più occasioni avevano evidenziato i van-taggi che la guerra avrebbe potuto procurare alla popolazione9. alcuniordinari, secondo le autorità italiane, erano riusciti a fomentare addirittura«l’odio verso il barbaro invasore che osò calpestare il sacro suolo della Pa-tria»10. I vescovi, nelle lettere pastorali, nei discorsi pubblici, nelle omeliee nelle comunicazioni al clero, da una parte vedevano il conflitto comeun’occasione per un ritorno alla fede, dall’altra pubblicizzavano il proprio

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5 Cfr. BeNedetto XV, La Chiesa e i suoi ministri nell’ora presente, in «L’osservatore Ro-mano», 7 ottobre 1914. 6 Cfr. aLBeRto MoNtICoNe, I vescovi italiani e la guerra 1915-1918, in G. RoSSINI, a cura di,Benedetto XV cit., pp. 627-659; aNNette BeCkeR, La guerre et la foi. De la mort à la mémoire,1914-1930, Colin, Paris 1994; Id, Chiese e fervori religiosi, in La prima guerra mondiale, acura di StéPhaNe aUdoIN-RoUzeaU e JeaN-JaCqUeS BeCkeR, edizione italiana a cura di aNtoNIoGIBeLLI, vol. II, einaudi, torino 2007, pp. 113-123 [Encyclopédie de la Grande Guerre, 1914-1918. Histoire et culture, sous la direction de StéPhaNe aUdoIN-RoUzeaU et JeaN-JaCqUeS BeCkeR,Bayard, Paris 2004]; MIMMo fRaNzINeLLI, Il volto religioso della guerra. Santini e immaginetteper i soldati, edit, faenza 2003. I vescovi, soprattutto quelli vicino alle frontiere austriache(veneti, friulani e trentini in particolare), assolsero anche il compito di cronisti, osservatoridella guerra per conto del Vaticano, ma anche di Roma o di Vienna a seconda degli schie-ramenti. Su questo rimando a aNtoNIo SCottà (a cura di), I vescovi veneti e la Santa Sedenella guerra 1915-1918, edizioni di storia e letteratura, Roma 1991.7 Cfr. su questo contesto PIetRo BoRzoMatI, Aspetti religiosi e storia del movimento catto-lico in Calabria (1860-1919), Rubbettino, Soveria Mannelli 1993, pp. 252, 268-270; ancheId, I cattolici calabresi e la guerra 1915-1918, in G. RoSSINI, a cura di, Benedetto XV cit., pp.447-482.8 Posizioni non del tutto isolate tra le diocesi italiane: cfr. ad esempio MaRCeLLo MaL-PeNSa, Religione, nazione e guerra nella diocesi di Bologna (1914-1918). Arcivescovo, laicato,sacerdoti e chierici, in «Rivista di storia del cristianesimo», 3, 2006, pp. 383-392. Per posi-zioni più prudenti e moderate cfr. Matteo CaPoNI, Una diocesi in guerra: Firenze (1914-1918),in «Studi storici», 50, 2009, pp. 231-255. 9 P. BoRzoMatI, I cattolici calabresi e la guerra cit., pp. 465-478, per la citazione p. 478.10 Cfr. Ibidem.

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amore per la patria che doveva essere coltivato anche nelle loro comunitàdiocesane11. Mons. Giuseppe Rovetta si augurava, in una nota indirizzataai parroci delle diocesi di Rossano e Cassano allo Ionio12, che la guerrafosse un ritorno a dio: «troppo dilettissimi, ci eravamo dimenticati di dio;la bestemmia, il turpiloquio, lo scandalo dilagando sulla terra han provo-cato la Giustizia, deh! Che almeno adesso si faccia sincero ritorno a Lui epropiziarne la misericordia nel pentimento e nella preghiera»13. Rovettaconcludeva la comunicazione ai parroci chiedendo in tono patriottico chein quell’«ora triste che volge[va] per l’Italia nostra» i fedeli prestassero lamassima concordia e formulassero preghiere per i soldati italiani. «Sappiamo i nostri valorosi soldati che nei piani friulani e veneti si stanno battendo inlotta titanica per contendere palmo a palmo al nemico il sacro suolo della patria, sappiamoche l’anima di tutti gli italiani è con loro, che ne condividiamo le angoscie e speranze cheper loro da tutti i cuori e in tutte le Chiese si innalzano fervidi preci, affinché una pacegiusta ed onorevole venga presto a coronare i duri sacrifizii»14. Il patriottismo di molti ordinari, però, non era sempre dettato da mo-tivazioni ideali, ma anche dall’opportunità di ricevere dalle autorità stataligli exequatur o il sostegno per essere promossi in sedi episcopali più im-portanti. In Calabria, inoltre, queste posizioni confermavano come moltivescovi, anche in relazione alla guerra, non erano in linea con le decisionidella Curia romana e del papa. I moniti di Benedetto XV per la pace veni-vano infatti omessi dal clero o relegati nelle pagine interne dei giornali diorientamento cattolico. Le stesse nomine nelle sedi episcopali calabre diordinari con provenienza centro-settentrionale, volute da Pio X, indicavanola poca fiducia che le alte gerarchie pontificie nutrivano nei confronti del-l’elemento locale. Le decisioni di Roma, infatti anche se venivano accoltecon deferenza e timore, erano in molti casi disattese in favore di logicheche privilegiavano gli interessi personali e locali.

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11 Molto interessanti sono in tal senso le posizioni dei vescovi titolari di sedi episcopalivicine al fronte che si ritrovarono, a seconda dei movimenti dello scacchiere militare italo-austriaco di qua o di là dei confini nazionali, ad avere posizioni diverse; rimando ai profiliben scelti da M. ISNeNGhI, Convertirsi alla guerra cit., pp. 175-207.12 Mons. Rovetta nel 1917 venne nominato anche amministratore apostolico della dio-cesi di Rossano a causa della sede vacante per il trasferimento dell’arcivescovo Mazzella ataranto nel 1917. 13 archivio storico diocesano di Rossano (d’ora in poi asdRo), Sede vacante ammini-stratore apostolico mons. Rovetta-arcivescovo Giovanni Scotti 1917/1918-1966, busta 115fascicolo 528, + Giuseppe Rovetta Vescovo di Cassano e Amm. Aplico di Rossano ai Molto RR:Parroci delle diocesi di Rossano e di Cassano, s.d. [ma fine ottobre 1917]. 14 Ibidem.

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Per quanto riguarda il discorso sulla guerra dei vescovi in questa sedeci interessa prendere in considerazione la posizione teoretica di mons.orazio Mazzella, arcivescovo della diocesi di Rossano, che sembra esserenel panorama regionale un caso di studio rilevante15. tale posizione pro-veniva infatti da uno degli esponenti più dotti dell’episcopato calabro diquel periodo16. Il testo dove condensava e spiegava meglio le sue tesi sulruolo della guerra nel pensiero cristiano venne pubblicato nel 1916 con iltitolo Il Catechismo della guerra17. Una parte faceva soprattutto riferimentoalla guerra allora in atto in europa e all’interno Mazzella sottolineava chel’amore verso la propria nazione era un dovere per il cristiano, che patriae religione si fondevano18. Non è un caso che la pubblicazione venne fattaproprio nel 1916, quando in Italia e in europa il conflitto non appariva piùcome una guerra breve e già presentava le sue pesanti ripercussioni nonsolo sugli eserciti, ma anche sulle comunità civili. L’opera di Mazzella, adifferenza di altre pubblicazioni di identico genere che avevano come ri-ferimento i soldati19, era riferita infatti principalmente alle comunità deicredenti, al fronte interno. In un conflitto che richiedeva la mobilitazionedell’intera nazione, il «fronte interno» era tra gli elementi che potevanodeciderne le sorti, aspetto che non dovette sfuggire nemmeno a Mazzella.Con la sua opera cercava sì di spiegare la guerra in una chiave cristiana,

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15 La posizione di Mazzella era sta già menzionata da MoNtICoNe in I vescovi italiani cit.,pp. 643-650. 16 orazio Mazzella (Vitulano 1860-Benevento 1939) era nipote del più conosciuto car-dinale Camillo Mazzella, tra i principali rappresentanti del neotomismo in Italia, e del fra-tello gemello di questi, ernesto arcivescovo di Bari-Canosa. La formazione presso ambientineotomisti caratterizzò la sua produzione teologica-filosofica. Nel 1898 venne promossoalla sede arcivescovile di Rossano, nel 1917 fu poi trasferito in quella di taranto. Per unabiografia di Mazzella cfr. fRaNCeSCo RUSSo, Cronotassi dei vescovi di Rossano, Guido, Rossano1989, pp. 202-209. 17 oRazIo MazzeLLa, Il Catechismo della guerra, desclée & C. – editori Pontifici, Roma 1916.18 Già nel 1915 in una lettera pastorale e in un testo tenuto per una conferenza all’ar-cadia di Roma, poi anche a Benevento, aveva delineato questo suo pensiero, cfr. rispettiva-mente: Lettera pastorale di mons. Orazio Mazzella, Arcivescovo di Rossano, Rossano, 14giugno 1915, in particolare le pp. 3-4; oRazIo MazzeLLa, La guerra nella Bibbia e nella storiadella Chiesa, ossia la guerra nel disegno di Dio, nell’insegnamento di Gesù Cristo, nell’azionedella Chiesa, Rossano, 3 febbraio 1916. Numerose furono nelle diocesi italiane le pubbli-cazioni di libretti, opuscoli, di tale tenore, seppur legati ad evidenti elementi di omogeneitànel metodo utilizzato e nei contenuti, sono molti gli aspetti di differenziazione dovuti alcontesto in cui venivano elaborati, all’appartenenza culturale dei singoli ordinari diocesani.Monticone classificava questi ordinari come «patriottici», cfr. a. MoNtICoNe, I vescovi italianicit., pp. 642-643, in particolare la nota 29. 19 Per i catechismi dei soldati in età moderna si veda VINCeNzo LaVeNIa, Il catechismo deisoldati. Guerra e cura d’anime in età moderna, edizioni dehoniane, Bologna 2014.

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ma tentava anche di mobilitare il fronte interno che mostrava segni di ce-dimento, non solo a livello politico-militare. Il perdurare del conflitto stavaproducendo nella popolazione civile fenomeni di scoraggiamento e di ma-lumore nei confronti dello Stato, dei comandi militari e della stessa reli-gione. Proprio nei confronti di quest’ultima la popolazione cominciò adassumere atteggiamenti diversi rispetto al 1914-1915. Lo scoppio del con-flitto in europa aveva fatto nascere infatti speranze e attese, fatte di pre-ghiere per preservare la pace prima, poi, con l’entrata in guerra, diinvocazioni per una vittoria in tempi brevi. dal 1916 anche la religionesembrava però non offrire soluzioni migliori rispetto agli Stati e ai comandimilitari, a nulla sembravano essere servite le preghiere per la pace o la vit-toria immediata. L’opera di Mazzella segnava, sotto certi aspetti, per l’epi-scopato calabro un momento importante riguardo al discorso religiososulla guerra. Infatti pur mantenendo i toni patriottici e nazionalistici, i ve-scovi divennero più riflessivi di fronte all’immane flagello rispetto al pe-riodo 1914-1915, sviluppando, accanto al patriottismo civile, quelloreligioso. Il patriottismo religioso rispetto a quello civile offriva tempi emodalità di realizzazione diversi, le masse difficilmente ne potevano con-testare la struttura ideologica per la mancata alfabetizzazione, soprattuttooffriva la consolazione dell’animo e non prometteva solo conquiste mate-riali che tardavano ad arrivare come dimostrava l’andamento del conflitto,ma soprattutto nella “patria celeste”. L’opera di Mazzella può essere divisa in due parti. Nella prima si fa unexcursus generale sulla guerra nella storia, nella seconda invece una rifles-sione basata su quella allora in atto. Il presule presentava l’opera come «unatrattazione popolare sotto forma di catechismo»20, quindi scritta in manieraabbastanza semplice per essere compresa dalla maggior parte dei fedeli.Nella prima parte sottolineava come la fede, nello smarrimento dellaguerra, potesse fornire spiegazioni sulla morte-sacrificio dei soldati alfronte e l’elaborazione dei tanti lutti. Nel Catechismo Mazzella sentiva anchela necessità di ammonire il popolo cristiano, che a causa della guerra levava«bestemmie contro la Provvidenza». Nonostante le atrocità delle guerre,che negavano apparentemente la presenza di una divinità buona e miseri-cordiosa, secondo il presule dio esisteva, era sempre onnipotente e buono,però lasciava esistere il male, non per impotenza, ma per rispetto dellescelte che gli uomini compivano nella storia. La guerra veniva presentatacome male fisico e «gravissimo male morale»21. I mali fisici che la guerra

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20 o. MazzeLLa, Il Catechismo della guerra cit., p. 3. 21 Ivi, p. 7.

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produceva erano intesi come sofferenza, povertà e disordine sociale. traquelli morali rientravano le azioni militari che anche se venivano presentatedai giornali come atti di eroismo, non erano altro, ribadiva Mazzella, che«strage di vite umane», inganni nei confronti di altri uomini: «nella guerras’inganna il nemico, si scoprono i suoi movimenti per mezzo di spie e ditraditori, si violano trattati, giuramenti, parole date»22. dopo la condannadella guerra intesa in ogni tempo come male morale e fisico, Mazzella chia-riva il ruolo che dio e la sua volontà avevano in tanta sofferenza. anche sedio non poteva volere il male morale della guerra, poteva invece volere imali fisici: «distruzione di case, angoscie di spirito, dolori fisici, mutilazioni,mortalità»23. questi non andavano intesi nei disegni della Provvidenza comemali, ma «come mezzi per ottenere il bene». facendo ricorso a tutto un fi-lone di pensiero cristiano e di exempla verificatisi nella storia universale24,Mazzella dimostrava che dio non voleva questi mali, ma li permetteva, pernon limitare la libertà dell’uomo, ordinandoli poi secondo i «fini della suaprovvidenza»25. I fini ai quali la guerra poteva essere funzionale erano, adesempio, mettere alla prova una popolazione o richiedere un grande sacri-ficio, conservare e sviluppare il bene, perché «tutte le attività dello spirito

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22 Ivi, p. 8. 23 Ivi, p. 9. 24 «I Giudei commisero l’esecrando deicidio del Calvario, gravissimo male morale e fi-sico. dio non spinse i Giudei al deicidio, non l’approvò, ma, posto che essi lo avrebberocommesso, nel piano della sua Provvidenza ordinò il male fisico, cioè la morte di Gesù, allanostra redenzione, cavando così un immenso bene da un grandissimo male. Similmenteaccade nella guerra. Un feroce re, per passione di conquista, si gitta sopra una regione, viproduce rovine, vi semina strage. dio non spinge quel re alla distruzione ed alla strage, nonapprova il suo operato, ma, posto che quel re si determini liberamente a causare quei malifisici, Iddio, nel piano della sua Provvidenza, ordina tali mali al conseguimento di beni diordine superiore, e così cava il bene dal male», Ivi, p. 12. 25 Ivi, p. 11. Mazzella aveva espresso tesi simili a quelle relative al rapporto dio-guerraa proposito del terremoto che il 28 dicembre 1908 colpì le città di Messina e Reggio. Il ter-remoto era visto dal presule come una sciagura che poteva far risollevare gli occhi al cielo,quindi una sorta di castigo divino per riportare l’umanità sulla retta via. Recentemente letesi di Mazzella sono state oggetto di un acceso dibattito soprattutto mediatico. Nel marzodel 2011 lo storico Roberto de Mattei, vice presidente del CNR, dai microfoni di RadioMaria, citando le tesi di Mazzella riguardo al terremoto del 1908, aveva fatto delle compa-razioni con il terremoto del Giappone dell’11 marzo 2011, ricevendo aspre critiche. Sullaquestione cfr. www.corriere.it/esteri/11_marzo_27/eretico-cnr-castigo-divino_5e67f5e6-5841-11e0-8955-c490be50f429.shtml (consultato il 29 giugno 2015); www.lastampa.it/2011/03/22/blogs/diritto-di-cronaca/il-terremoto-un-castigo-di-dio-Nboe2zum-fzdYdjXfu29SdP/pagina.html, (consultato il 29 giugno 2015); www.ilfoglio.it/articoli/2011/04/11/il-caso-de-mattei___1-v-109969-rubriche_c288.htm, (consultato il 29 giugno2015) www.robertodemattei.it/2011/04/01/la-discussione-in-italia-sul-terremoto-in-giappone/ (consultato il 29 giugno 2015).

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umano si risvegliano sotto la sofferenza»26. questa sopra accennata era laposizione di Mazzella nei confronti della guerra nella storia universaledell’umanità esplicitata nei primi quattro capitoli dell’opera. Nel quinto passava, poi, ad analizzare la guerra che il mondo dal 1914stava vivendo. Il conflitto veniva subito identificato da Mazzella comefrutto della crisi religiosa dell’europa e aveva radici molto più profondedella conflagrazione bellica in corso. Il tutto cominciava dalla Riforma pro-testante del XVI secolo ed era proseguito con il pensiero razionalista27. Perquesto la guerra era: «un castigo che i popoli infliggono a se stessi, ossia un autopunizione, […]. […] la conseguenzadell’apostasia dei popoli dall’evangelo e da dio. Per tale apostasia la politica si è separatadall’evangelo; alle leggi evangeliche della giustizia, della carità i Governi hanno, dove piùdove meno, sostituito la legge della forza, e ne è venuta, come fatale risultanza, questaguerra barbara, che disonora l’europa»28. Secondo Mazzella la guerra scoppiata in europa nel 1914 era quindi«con somma probabilità» il castigo di dio per le colpe dei popoli29. alcunecolpe, specificava, pur essendo frutto della «volontà individuale», rivesti-vano un carattere di universalità e quindi diventavano «colpe sociali»30.Per molti aspetti era stata la ricerca del progresso, del divertimento, il cultodella modernità trionfante e della scienza, che dalla fine dell’ottocentoaveva plasmato le società occidentali, una delle principali cause dellaguerra. aveva infatti prodotto corruzione dello spirito, incredulità a cui

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26 o. MazzeLLa, Il Catechismo della guerra cit., p. 22. 27 alcuni membri del clero vedevano nella guerra la volontà della Germania protestantedi imporsi sui popoli latini. Il canonico teologo Stefano zoccali in un discorso per la com-memorazione funebre di Pio X sosteneva che i tedeschi si stavano muovendo per dare l’ul-timo colpo all’anima latina «col ferro e col fuoco». Già da decenni, sosteneva il teologo,questo processo era in atto in Italia dove veniva «calpestata la filosofia di alberto e di tom-maso», mentre si faceva scendere a Roma «l’astro di Berlino, lo harnac, per dettare, nelleaule della Sapienza, quell’essenza del Cristianesimo buona per le caraffine di tutti i drio-ghieri e di tutti i farmacisti […]»; «la bandiera contro Roma e il Cattolicesimo l’avea innal-zata già Lutero e il Protestantesimo…[…]»; «il protestantesimo era ed è il nemico di Romae dei popoli latini», cfr. Can. teol. StefaNo zoCCaLI Licenziato in S. Scrittura, Pio X. Discorsoletto nella Commemorazione tenuta il 15 Novembre 1914 dal Circolo “S. Paolo” nel Padiglionedelle Associazioni Cattoliche di Reggio Calabria, tipografia «dante aligieri», s.l., 1915, pp.19-32, per le citazioni riportate in questa sede pp. 26-27. anche su questi aspetti eMILIoGeNtILe, La Grande Guerra della cultura, in GIoVaNNa PRoCaCCI (a cura di), La società italianae la Grande Guerra, «annali della fondazione Ugo La Malfa», Storia e Politica, XXVIII, Gan-gemi, Roma, 2013, pp. 58-61.28 o. MazzeLLa, Il Catechismo della guerra cit., p. 45. 29 Ivi, p. 46. 30 Ivi, p. 47.

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andava aggiunta «una spaventevole indifferenza religiosa»31. Gli Stati conle loro leggi avevano «apostatato socialmente dalla Chiesa, abbracciandol’eresia, lo scisma […]»32. altre nazioni con il laicismo avevano portato al-l’esclusione di dio e della Chiesa dalla vita sociale, bandendo la formazionecristiana «dalla scuola, dall’officina»33. In questo orientamento la guerraaveva lo scopo di riaccostare alla religione masse di fedeli che con l’avan-zare del secolarismo si erano allontanate dalla Chiesa e, ora provate dalsacrificio del conflitto, potevano avviarsi verso una riconversione-rigene-razione34 (questo era uno schema teologico comune a tutto l’episcopatocattolico35). Un battesimo che poteva ricondurre alla Chiesa cattolica quellefolle di fedeli che si erano man mano smarrite, come dimostravano le la-cerazioni interne alla comunità cattolica per il modernismo e la politica disecolarizzazione in francia36. Nel discorso religioso di Mazzella sullaguerra, il primo conflitto mondiale diventava una grande occasione,un’apocalisse, una sorta di: «battesimo di sangue, nel quale l’anima di un popolo [poteva] purificarsi dalle colpe, rige-nerarsi, rinascere a nuova vita ritemprandosi nella verità dei principi, forse, dimenticati,nella pratica di virtù trascurate, nel risveglio di energie rimaste latenti ed infruttuose, nellaforza di propositi generosi, fecondi di nuove ere di prosperità e di virtù»37.

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31 Ivi, pp. 47-49. 32 Ivi, p. 49. Mazzella riprendeva la posizione di Benedetto XV che vedeva nella guerrauna gigantesca carneficina frutto del castigo divino per gli Stati che avevano voluto estro-mettere la Chiesa e il cattolicesimo dalle proprie leggi, cfr. daNIeLe MeNozzI, Chiesa, pace eguerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Il Mulino, Bologna2008, p. 17 ss. 33 o. MazzeLLa, Il Catechismo della guerra cit., p. 49. 34 In questa direzione si muoverà anche l’iniziativa promossa da padre Gemelli nel gen-naio del 1917 di consacrare l’esercito al Sacro cuore, cfr. SaNte LeStI, “Per la vittoria, la pace,la rinascita cristiana”. Padre Gemelli e la consacrazione dei soldati al Sacro Cuore (1916-1917), in daNIeLe MeNozzI, a cura di, La Chiesa e la guerra. I cattolici italiani nel primo con-flitto mondiale, in «humanitas», n.s. 6, 63, 2008, pp. 959-975. 35 Cfr. MaRCeLLo MaLPeNSa, Il sacrificio in guerra nelle lettere pastorali dell’episcopato, in«humanitas», 63, 2008, pp. 905-924, in particolare pp. 909-915. 36 Su questo contesto esiste una bibliografia molto ampia mi limito a rimandare a P.Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento ecclesiale in Italia, Il Mulino, Bologna 1961; eN-RICo deCLeVa, Anticlericalismo e lotta politica nell’Italia giolittiana, I, L’«esempio della Francia»e i partiti popolari (1901-1904), in «Nuova rivista storica», LII, 1968, pp. 291-354; Id,L’estrema sinistra e la formazione dei blocchi popolari (1905-1909), in Ivi, LIII, 1969, pp.541-617; JaCUqLINe LaLoUette, La libre Pensée en France, 1848-1940, albin Michel, Paris1997, pp. 68-70; GUIdo VeRUCCI, Cattolicesimo e laicismo nell’età contemporanea, franco an-geli, Milano 2001. 37 o. MazzeLLa, Il Catechismo della guerra cit., p. 25. Sulla guerra intesa come momentodi formazione di un uomo nuovo si veda anche eMILIo GeNtILe, L’apocalisse della modernità.La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, Milano 2008. In Calabria già nel 1915 l’or-

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La guerra diventava un castigo per tutte le nazioni coinvolte, sconfitte evittoriose. anche quelle che alla fine sarebbero riuscite ad ottenere la vittoria,tra le quali Mazzella poneva l’Italia, che dalla guerra sarebbe uscita certa-mente «più grande e più forte», però al momento dei bilanci umani e materialidi quegli anni sarebbero risultate ugualmente sconfitte38. Mentre la vittoriaper le generazioni future avrebbe significato «grandezza e prosperità», perquella che l’avevano combattuta più che un «benefizio» sarebbe stata vistainfatti come un «sacrifizio»39. da questi sacrifici però si potevano cominciarea delineare, secondo Mazzella, i primi segnali che facevano sperare in un rav-vedimento delle nazioni e dei popoli in guerra, che si sarebbero di nuovo ac-costati alla Chiesa e a dio. La guerra stava comportando secondo Mazzella«Un notevole risveglio delle spirito di fede», «Un risveglio di stima, di riverenza,di affetto per il Sacerdozio», «L’esaltamento del Papato», «L’esaltamento dellaChiesa», «Il trionfo dell’ideale evangelico», «La stima della religione come ispi-ratrice di vero patriottismo», «Un consolante sviluppo di virtù morali, civili, pa-triottiche»40. anche se Mazzella vedeva nelle trincee una sorta di palestra divita cristiana, in realtà le forme di fede e di religiosità vissute dai soldati alfronte non erano quelle proposte e in linea con il magistero della Chiesa cat-tolica, ma si trattava di manifestazioni di superstizione popolare41.

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dinario diocesano di Gerace, Giorgio delrio, aveva ribadito posizioni simili a quelle di Maz-zella. Per delrio era evidente che i sacrifici imposti dalla guerra erano «pene espiatrici»,dio stesso le pianificava per l’uomo per farlo salire sull’altare della redenzione, cfr. GIoRGIodeLRIo, La guerra, Lettera pastorale, Gerace Superiore, 7 febbraio 1915, in questo caso lepp. 34-36. 38 o. MazzeLLa, Il Catechismo della guerra cit., p. 49. 39 Ivi, p. 49. 40 Ivi, pp. 56-58. 41 Cfr. sull’argomento, CaRLo StIaCCINI, Con questo segno vinco. La religiosità popolarenelle testimonianze dei soldati della Grande Guerra, in «humanitas», LXIII, 2008, pp. 943-958; anche Id, L’anima religiosa della Grande Guerra. Testimonianze popolari tra fede e su-perstizione, aracne, Roma 2009; aNtoNIo GIBeLLI e CaRLo StIaCCINI, Il miracolo della guerra.Appunti su religione e superstizione della Grande guerra, in Il soldato, la guerra e il rischiodi morire, a cura di NICoLa LaBaNCa e GIoRGIo RoChat, Unicopli, Milano 2006, pp. 125-136;GIoVaNNa PRoCaCCI, Attese apocalittiche e millenarismo, in «Ricerche storiche», settembre1997, pp. 657-672; aNNette BeCkeR, Croire, Centre régional de documentation pédagogiquede Picardie, amiens 1996; anche all’interno di aNtoNIo GIBeLLI, L’officina della guerra. LaGrande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, einaudi, torino, 1991. Gli eserciti ve-nivano considerati anche in passato dai sacerdoti in maniera negativa perché la vita mili-tare rendeva gli uomini inclini alla bestemmia, alla lussuria, alla violenza. Un gesuitaitaliano a metà del XVII secolo scriveva: «Non si può negare che nell’esserciti non vi siagrande libertà, grandi scandali, e poco timore di dio […]. questi sono quelli che sommini-strano all’inferno grande numero d’anime; e tra gli esserciti fa il demonio la sua raccolta,e riempie il suo granaro di ladri, carnali, bestemmiatori», la citazione è riportata in V. La-VeNIa, Il catechismo dei soldati cit., p. 6.

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dal capitolo VI il discorso veniva utilizzato anche per motivare i cattolicinel sostenere il conflitto in corso e la propria patria, assumendo un regi-stro sempre più nazional patriottico. Per Mazzella era per i cattolici «de-litto di lesa patria» non cooperare alla vittoria della propria nazione,questo atteggiamento non era: «solamente un dovere […] civile poggiatosu motivi suggeriti dalla ragione, [era un] dovere religioso suggerito damotivi di fede»42. I cattolici dovevano amare e difendere la loro patria nonsolo perché era la «terra natale, la culla delle nostre istituzioni, la tombadei nostri avi, ma perché dio ce lo comanda, e Gesù Cristo ce ne ha datol’esempio»43. Subito dopo si rivolgeva con un accorato appello finale ai sol-dati ed alla società civile per cooperare in questa direzione, solo così l’Italiapoteva sperare di ottenere la «pace nella vittoria»44: «Per noi cattolici dunque l’amore di patria ha radici profonde nella coscienza, perchéesso poggia sull’amore di dio e di Gesù Cristo suo figliuolo. Ricordatelo, o giovani cattolici,

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42 o. MazzeLLa, Il Catechismo della guerra cit., p. 66. Nella prefazione ad un testo biograficoper commemorare la morte di un giovane tenente di fanteria nel 1915 mons. Mazzella avevagià ribadito questi concetti. Scriveva nella prefazione: «il patriottismo difatti, viene da Dio,il quale ne ha fatto un dovere il giorno che dato il precetto fondamentale del Cristianesimodi amare il prossimo, giacché, per tale precetto, nella gerarchia dei nostri affetti dobbiamocollocare prima l’amore per i compatrioti più prossimi a noi, e poi lo amore per gli stranieri»;«I cattolici potrebbero, anzi, aggiungere che il patriottismo è una risultanza della loro reli-gione e che perciò non si può essere cattolici senza esser veri patrioti», Sac. Prof. RaffaeLeGaRGIULo dottore in S. teologia ed in diritto Canonico Prol. in diritto civile, Biografia del Prof.Loreto Starace tenente di fanteria morto sul carso il 26 luglio 1915. Preceduta da una elabo-rata Prefazione dell’Ecc. Mons. D. Orazio Mazzella Arcivescovo di Rossano e seguita da unaAppendice con scritti di vario genere dell’Illustre Estinto, tipografia e Libreria Pontificia an-drea e Salv. festa, Napoli 1915, pp. 13-14. Sulla sacralizzazione delle nazione e i culti pa-triottici che si svilupparono durante l’ottocento cfr. CoNoR CRUISe o’ BRIeN, God land:Reflections on Religion and Nationalism, harward University Press, Cambridge 1988. 43 Mazzella attraverso alcuni brani del vangelo rafforzava questa sua tesi, scriveva che:«Se poi apriamo l’evangelo, vi troviamo stupende lezioni di amor patrio dateci da Gesù.egli infatti inviò gli apostoli in tutte le nazioni, ma disse che dovevasi cominciare dalla casad’Israele, cioè dalla Giudea e dalla Galilea, che furono la sua patria. Se dopo la sua mortegli apostoli hanno evangelizzato il mondo, nella sua vita e direttamente egli non ha prodi-gato il beneficio della sua parola e dei suoi miracoli che alla sua patria […]», cfr. o. MazzeLLa,Il Catechismo della guerra cit., pp. 66-67. Sull’individuazione nel mondo cattolico nella na-zione un principio spirituale cfr. LUIGI GaNaPINI, Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la po-litica estera in Italia dal 1871 al 1914, Laterza, Bari, 1970; ReNato MoRo, Nazionalismo ecattolicesimo, in Federzoni e la storia della destra italiana nella prima metà del Novecento,a cura di BeNedetto CoCCIa e UMBeRto GeNtILoNI SILVeRI, Il Mulino, Bologna 2001. 44 anche altre confessioni religiose parlavano di una «giusta pace» che avrebbe alla finepremiato le proprie nazioni contro le sconfitte, queste ultime accusate di aver voluto laguerra, cfr. LaUReNt GaMBaRotto, La prèdication du protestantisme français pendant la Pre-mière Guerre mondiale, Labor et fides, Genève 1996; Id, Guerre sainte et juste paix, in «14-18 aujourd’hui, today, heute», 1998, 1.

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chiamati sui campi a dare il vostro sangue per la patria, e andate con coraggio: voi compiteun dovere non solo verso la patria, ma, altresì verso dio; ricordatelo, o madri, che dateforse l’ultimo abbraccio al vostro figlio, che va ai confini, ed abbiate coraggio: il vostrogrande sacrifizio non solo merita la gratitudine della patria, ma altresì la benedizione didio, che conta le vostre lagrime…«Ma non tutti sono chiamati sul campo di battaglia a dare il loro sangue per la patria.questa in tempo di guerra esige la cooperazione dei suoi figli sotto varie forme: chi non èatto a dare il suo sangue, può forse dare il suo oro; chi non può dare né sangue né oro, potràprestare la sua opera; per lo meno può dare la parola, che incoraggia e conforta. tutti intempo di guerra dobbiamo cooperare alla salvezza della patria: coloro, ai quali la patrianon chiede la cooperazione militare hanno il dovere della organizzazione civile»45. In conclusione il discorso religioso di Mazzella sulla guerra era voltoprincipalmente a legittimare la partecipazione al conflitto dei cattolici. Ilconflitto era inteso da Mazzella come giusto, ma nessun approccio criticoveniva però proposto sulle ragioni della guerra, un’evidente contamina-zione della religione dovuta alla cultura di violenza scaturita dalla Primaguerra mondiale46. era anche un chiaro riavvicinamento della Chiesa cat-tolica allo Stato italiano, anche se ancora non istituzionalizzato, dopo lefratture dovute all’unificazione nazionale e alla fine del potere temporaledei papi. Si ricreavano, in un diverso contesto storico-politico, le condizionidi ausilio che i due poteri nel corso della storia si erano dati, senza rinun-ciare però a reciproche diffidenze che non vennero mai meno. In questaprospettiva gli anni 1914-1918 rappresentavano un momento cruciale. LaGrande guerra significò per questo in maniera più incisiva l’inclusione deicattolici e delle gerarchie ecclesiastiche nelle vicende dello Stato nazionale,divenendo così a pieno titolo cittadini italiani. Le stesse sfere dell’alto cleroche fino ad allora avevano guardato alla patria italiana con diffidenza eodio, e avevano espresso sempre riserve e contrarietà ai tentativi di dia-logo e di partecipazione dei cattolici nella vita politica italiana, si mosseroin tal senso. Un riavvicinamento che aveva seguito fasi abbastanza lente econtrastanti, da intransigenti nemici dello Stato, a suoi patriottici sosteni-tori di massa con la Grande guerra e poneva le basi per future intese.

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45 o. MazzeLLa, Il Catechismo della guerra cit., p. 67. Riporta in realtà alcune sue rifles-sioni scritte nella Lettera pastorale del 14 giugno 1915 già citata. 46 Cfr. S. aUdoIN-RoUzeaU e a. BeCkeR, La violenza cit., p. 212.

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Il primo periodo: 1921-1926durante il famoso XvII Congresso del Partito Socialista Italiano, tenu-tosi al Teatro Goldoni di livorno dal 15 al 21 gennaio 1921, la mozione co-munista ricevette 75 voti, corrispondenti al 4,49% sul totale di quelliesprimibili dai delegati della provincia di reggio Calabria (1.669). Tale per-centuale fu nettamente inferiore a quella espressa dalle altre due provincecalabresi: infatti, i delegati cosentini attribuirono il 28,35% dei voti allafrazione di amadeo Bordiga e quelli dei catanzaresi il 21,03%1.Questo dato, forse in parte anche spiegabile con la relativamente piùricca economia reggina, sembrerebbe poi confermato dal numero di iscrittieffettivi (in regola, cioè, con i pagamenti) al Partito Comunista d’Italia pre-senti nella provincia di reggio al 31 dicembre 1921: mentre a Cosenza ri-sultavano 79 iscritti e a Catanzaro 84, reggio si fermava a quota 512. dopo il 21 gennaio 1921 il nuovo partito è tutto intento alla propria or-ganizzazione, in particolare con la creazione in tutta Italia delle federazioniprovinciali. Sulla nascita della federazione provinciale di reggio Calabrianon si ha alcuna notizia certa, sebbene si ritenga probabile la sua costitu-zione agli inizi del 1921, a opera di luigi Capurro e di Beniamino lo Giu-dice3, quest’ultimo anche fiduciario provinciale, nel 1921, degli arditi delPopolo4.

Il partito comunista nella provincia di Reggio Calabriadal 1921 al 1943

Domenico Sorrenti

1 FerdINaNdo Cordova, Alle origini del PCI in Calabria (1918-1926), Bulzoni , roma 1977,p. 13.2 Paolo SPrIaNo, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci,vol. I, ei-naudi, Torino 1977, p. 165.3 arChIvIo CeNTrale dello STaTo(aCS), Ministero dell’Interno, direzione Generale di Pub-blica Sicurezza-divisione affari Generali riservati; Casellario Politico Centrale, busta 2811,fascicolo 42114, carte 15, anni 1930-1933 e 1936-1940; d’ora in poi, CPC, b., f., cc.4 CPC, b. 3388, f. 108429, cc. 11, 1923-1928. organizzazione paramilitare creata daargo Secondari in opposizione allo squadrismo fascista. Salutata con gioia da lenin sullaPravda, Nikolai Bucharin invitò vivamente ruggiero Grieco a non intralciare la fondazione

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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Primo segretario della federazione provinciale fu Francesco Morabito5,un ferroviere che era stato tra i fondatori del partito comunista nella pro-vincia. anche per quanto riguarda l’inquadramento a livello provincialedei giovani comunisti, non si hanno notizie sicure sulla data di istituzionedi un organismo federale, anche se dalla lettura delle carte del CasellarioPolitico Centrale (CPC) se ne deduce l’affidamento organizzativo, presu-mibilmente tra i primi mesi del ’21 e non oltre i primi del 1922, a GiovanniScilipoti, un giovane di reggio che, iscrittosi nel 1920, ad appena 15 anni,alla Federazione giovanile socialista, in seguito alla scissione di livornodiede vita alla prima sezione giovanile comunista della città6. Con queste premesse, ossia con una federazione provinciale ancorapresumibilmente debole e un’organizzazione giovanile assente o comun-que ancora in fieri, il Partito comunista nel reggino partecipò alle elezionidel maggio 1921. I risultati furono, com’era logico aspettarsi, minimi, so-prattutto se rapportati alla percentuale di voti che il PCd’I raccolse a livellonazionale. Il partito ottenne, infatti, 3.361 voti in tutta la Calabria, pariall’1,5% dei votanti mentre tale percentuale raggiungeva il 4,6% sull’interoterritorio nazionale. a fronte del deludente risultato, che non consentival’elezione di alcun deputato, deve essere sottolineato il carattere rivolu-zionario di questa minoranza compatta, in perfetta sintonia con il rigido,ma coerente, dottrinarismo bordighista che ancora per qualche anno sa-rebbe stato l’indirizzo politico caratterizzante il nuovo partito. È da notarecome in Calabria tutti e tre i segretari delle federazioni provinciali fosserobordighisti; anche Scilipoti, segretario dei giovani comunisti nel reggino,era un fervente seguace di Bordiga7. Tuttavia c’è un dato che, forse, è indicedi come proprio la provincia di reggio Calabria fosse alla fine la meno “disinistra” tra le provincie calabresi. Tale considerazione giunge dopo l’ana-lisi dei dati sulla diffusione della stampa comunista in Calabria nell’anno1924. Pur mancando le informazioni riguardanti la provincia di Cosenza,è interessante notare come delle 45 copie totali della rivista «ordine

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dell’organizzazione antifascista, anche se questa non era alle dipendenze dirette del Partitocomunista d’Italia.5 Francesco Morabito, fiduciario del PCd’I per la provincia di reggio Calabria, il 6 feb-braio 1923 fu arrestato insieme a Giuseppe Palumbo con l’accusa di avere partecipato aun complotto contro i poteri dello Stato ordito da amadeo Bordiga e dagli altri componentidell’esecutivo nazionale comunista. assolto nell’ottobre dello stesso anno, negli ultimi mesidel 1925 abbandonò la carica di segretario provinciale del partito. Morì il 19 febbraio 1926. 6 Cfr. F. Cordova, Alle origini del PCI in Calabria cit., p. 164; CPC, b. 4703, f. 40072, cc. 96+ 3 pagine de «l’Unità» del 2 febbraio 1926, 1925-1942.7 CPC, b. 4703, f. 40072, cc. 96 + 3 pagine de «l’Unità» del 2 febbraio 1926, 1925-1942.

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Nuovo» vendute, il periodico più profondamente e direttamente legato algruppo gramsciano-togliattiano, ben 43 venissero distribuite nel reggino8. Ma torniamo al 1921. dopo la tornata elettorale di maggio, il PartitoComunista d’Italia procede nella sua opera di organizzazione nazionale esi avvia verso il 1922, un anno carico di avvenimenti che si concluderà, mi-seramente, con il “golpe” di ottobre.Il primo evento politico determinante per i futuri sviluppi della situa-zione politica italiana fu il II Congresso del PCd’I, svoltosi a roma dal 20 al26 marzo 1922. l’assemblea, tenutasi in condizioni di semilegalità, decretòa larga maggioranza la netta contrarietà del partito a ogni forma di colla-borazione, anche solo parziale, col PSI e confermò la precedente analisi delfascismo, visto come «conseguenza ineluttabile dello sviluppo del regimeborghese»9. Queste conclusioni congressuali incontrarono la ferma oppo-sizione dell’Internazionale Comunista, la quale spingeva, invece, per la co-stituzione di un fronte unico, tra comunisti e socialisti, contro il fascismo.Intanto, tra la primavera e l’estate altri due fatti movimentarono il pa-norama politico italiano. Innanzitutto ci fu l’esperienza, come si è già ac-cennato, degli arditi del Popolo e poi, nel febbraio 1922, la costituzione, aopera del Sindacato dei ferrovieri, dell’alleanza del lavoro. Quest’organi-smo, divenuto poi momento di lotta unitaria di tutte le sigle sindacali, ri-cevette l’appoggio del PSI, dei repubblicani, degli anarchici e, dopoparecchie incertezze, del PCd’I. l’alleanza del lavoro, pur nascendo al finedi «opporre alle forze coalizzate della reazione l’alleanza delle forze pro-letarie» per la «restaurazione delle pubbliche libertà e del diritto comune,unitamente alla difesa delle conquiste di carattere generale delle classi la-voratrici, tanto sul terreno economico che su quello morale»10, era fatal-mente destinata a un sostanziale fallimento. dopo una serie dimanifestazioni per il ripristino della legge e delle libertà politiche e sin-dacali, fu indetto, dalla mezzanotte del 31 luglio 1922, uno sciopero na-zionale di tutte le categorie dei lavoratori. Questo sciopero generale, la cuidata di inizio, nelle intenzioni degli organizzatori, sarebbe dovuta rima-nere segreta fino all’ultimo, fu detto “legalitario” in ragione del fatto che,nell’appello allo sciopero, i lavoratori venivano invitati ad astenersi dalcommettere atti di violenza tali da indurre la reazione fascista. Quando ar-rivò il fatidico giorno i fascisti minacciarono una feroce rappresaglia se laprotesta non fosse terminata entro 48 ore.

Il partito comunista nella provincia di reggio Calabria dal 1921 al 1943

8 F. Cordova, Alle origini del PCI in Calabria cit., p. 59. 9 P. SPrIaNo, Storia del Partito comunista italiano cit.., p. 182.10 IvI, p. 192.

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Sin dalla mattina del 1˚ agosto lo scontro assunse i toni di una battagliadecisiva, al culmine della guerra civile, tra forze fasciste contro forze ope-raie11. ovunque l’atteggiamento delle autorità governative fu quello di av-valersi dell’aiuto fascista per stroncare lo sciopero, che finì a mezzogiornodel 3 agosto senza che però questo evitasse ai lavoratori una dura rappre-saglia, appoggiata spesso dall’indifferenza, o peggio, dalla benevolenzadelle forze di polizia. Probabilmente il fallimento dello sciopero legalitario fece realmente ca-pire a Mussolini quanto le forze proletarie, obiettivamente impreparate alloscontro, non rappresentassero alcun serio pericolo per quello che lui e i suoiaccoliti circa due mesi dopo avrebbero fatto. Come lucidamente avrebbescritto Gramsci due anni dopo: «la catastrofe dello sciopero legalitario del-l’agosto 1922 ebbe il solo risultato di spingere gli industriali e la Coronaverso il fascismo e di far decidere l’on. Mussolini al colpo di stato»12.appare ora utile analizzare questi importanti fermenti nazionali nell’am-bito della provincia reggina.Per quanto riguarda il fenomeno operaio degli arditi del popolo nellaprovincia di reggio Calabria, a parte il già menzionato Beniamino lo Giu-dice, l’esame del Casellario Politico Centrale non ha fornito indicazioni utilialla sua comprensione. Considerando tutte le fonti analizzate, è da ritenereche tale movimento fosse nel reggino non marginale, bensì quasi del tuttoassente.l’esperienza dell’alleanza del lavoro, al contrario, fu presente in Calabria,anche qui per iniziativa del Sindacato Ferrovieri Italiano13. dalle corrispon-denze dei quotidiani locali sembrerebbe che in Calabria, in occasione dellosciopero legalitario, l’astensione dal lavoro sia stata generale14.Per quanto riguarda la provincia di reggio, invece, emergerebbe tut-t’altro- dalla lettura dei fascicoli del CPC intestati a comunisti del regginosi fa fatica a trovare notizie e riferimenti di partecipazione allo scioperoin questione. I pochi cenni raccolti fanno tutti riferimento a lavoratori delleFerrovie dello Stato, gli unici, a quanto pare, ad aver preso parte all’evento,pagandone spesso la partecipazione con tre giorni di sospensione dellapaga e un anno di proroga dell’aumento di stipendio. Quest’osservazionesulla partecipazione allo “sciopero legalitario” è del resto perfettamentecompatibile con la situazione reggina, con il fascismo cioè quasi del tuttoassente dalla scena politica locale.

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11 IvI, p. 210.12 IvI, p. 215.13 F. F. Cordova, Alle origini del PCI in Calabria cit., p. 50.14 IBIDEM.

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Infatti, la prima sezione dei fasci di combattimento calabresi venne inau-gurata a Caulonia il 4 aprile 1920, mentre a reggio il fascio locale fu costi-tuito solo il 3 ottobre successivo e, da questa data fino all’agosto 1922, pochisono i centri in cui vengono aperte sezioni fasciste. In tutta la provincia, al1˚ gennaio 1922 sembrerebbero essere presenti solo i fasci del capoluogoe di laureana. Secondo un rapporto del segretario provinciale fascista, Mar-cianò agostinelli, del settembre del ’22, un mese dopo lo sciopero legalita-rio, erano attivi nella provincia quattordici fasci con 3.000 iscritti. Tali datisono ovviamente da prendere con le dovute cautele. Secondo un’altra fontepubblicata dal Misefari, i fasci attivi nel reggino, al 1˚ ottobre del 1922, sa-rebbero stati nove più ventitre in via di costituzione, per un totale di 643iscritti. Sempre secondo il Misefari nel 1920 i fascisti reggini sarebbero stati87 e 275 nel 192115. risulta quindi evidente come lo sciopero legalitario,sebbene non avesse avuto una grande eco nel reggino, abbia contribuitoalla crescita esponenziale del movimento fascista provinciale.Intanto, in tutta Italia riprendevano vigore le violenze squadristiche,costringendo così il Comitato esecutivo del PCd’I a inviare, il 28 agosto,una circolare a tutte le 63 federazioni provinciali esistenti con una seriedi disposizioni per il passaggio all’attività clandestina16. Queste disposi-zioni prevedevano, per ogni federazione provinciale come per ognunadelle 1.200 sezioni territoriali, la nomina di un comitato esecutivo segreto,pronto a prendere il posto di quello ordinario nel caso in cui a quest’ultimofosse venuta meno la capacità o la possibilità di poter funzionare. Inoltre,un fiduciario di sezione e un fiduciario provinciale, anch’essi segreti, avreb-bero preso immediatamente il posto del comitato segreto eventualmentescoperto. Si stabiliva pure l’assoluto divieto allo scioglimento delle sezioninelle località colpite dalla reazione fascista e l’obbligo, per i dirigenti fe-derali, all’immediato ripristino dell’organizzazione partitica. Notevole im-portanza veniva infine riconosciuta alla stampa, la distribuzione dellaquale doveva essere assicurata nelle zone occupate non solo per renderenote ai militanti le disposizioni degli organismi dirigenti, ma anche perdare un senso di “vicinanza” ai compagni più lontani17.Purtroppo tali disposizioni non garantirono l’incolumità ai militanti ealle strutture del giovane partito comunista che riuscirono a stento a so-pravvivere pur continuando nell’azione politica.

Il partito comunista nella provincia di reggio Calabria dal 1921 al 1943

15 eNzo MISeFarI, aNToNIo MarzoTTI, L’avvento del fascismo in Calabria, Pellegrini, Cosenza1980, pp. 67-68.16 F. F. Cordova, Alle origini del PCI in Calabria cit., p. 52.17 P. SPrIaNo, Storia del Partito comunista italiano cit., pp. 170-177.

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Come era prevedibile, dopo la Marcia su roma e la conseguente salitaal potere dei fascisti, la polizia divenne più attenta nei confronti dei cosid-detti partiti sovversivi.Questo inasprimento governativo ebbe le sue conseguenze anche in Ca-labria. Mentre nel dicembre del 1922 il prefetto di Catanzaro decretava loscioglimento della federazione provinciale, delle sezioni e dei circoli gio-vanili comunisti, nel febbraio del 1923 il segretario provinciale del PCd’Idi reggio Calabria, Francesco Morabito, fu arrestato e denunciato per as-sociazione a delinquere e complotto contro i poteri dello Stato, insieme alsegretario provinciale di Cosenza Fortunato la Camera, al fiduciario dellafederazione giovanile Salvatore Martire e a Francesco Maruca, segretarioprovinciale di Catanzaro18. Questa operazione di polizia si inseriva in unquadro nazionale ben più vasto e drammatico per il partito comunista, chevide arrestati settantadue dei suoi segretari provinciali, quarantuno se-gretari provinciali delle organizzazioni giovanili e quasi tutto il ComitatoCentrale, incluso l’indiscusso e prestigioso capo amadeo Bordiga19.Il Partito Comunista d’Italia, impreparato a questa battuta anticomu-nista, ne uscì con l’organizzazione sconvolta. In Calabria l’organo regionaledel partito, «Calabria proletaria», dovette sospendere le pubblicazioni.Il Centro nazionale creò nell’aprile 1923 cinque segretariati interregio-nali, grandi zone dirette da un funzionario qualificato e autorizzato a in-viare rapporti al Centro. I segretariati erano i seguenti: il I per il Piemontee la liguria, il II per la lombardia e l’emilia, il III per il veneto e la veneziaGiulia, il Iv per la Toscana, l’Umbria, le Marche, il lazio e l’abruzzo e il vper il Mezzogiorno20. Il primo fiduciario nazionale per il mezzogiorno fu ilnapoletano vittorio Carli. Intanto, nella provincia di reggio, il ventitreenneUmberto Mallone, già fiduciario della sezione giovanile, aveva pronta-mente sostituito Francesco Morabito alla guida della federazione provin-ciale, ripristinando così il lavoro clandestino di organizzazione.Grazie a un rapporto inviato al Centro dal quinto segretario interregio-nale siamo in grado di conoscere la situazione del Partito nel reggino dopola repressione dei primi mesi del 1923. Stando ai dati forniti da Carli il 9ottobre 1923, in un rapporto all’esecutivo del PCd’I, nella provincia si con-tavano 79 iscritti, suddivisi tra le sezioni di reggio Calabria (35), Cittanova(14), Gioia Tauro (14), Seminara (14) e Bagnara (2). era presente pure unrelativamente forte movimento giovanile, presente nelle sezioni di reggio

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18 F. Cordova, Alle origini del PCI in Calabria cit., p. 54.19 P. SPrIaNo, Storia del Partito comunista italiano cit., pp. 262-263.20 Ibidem, p. 268.

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(22 tesserati), Gioia Tauro (21), Palmi (20), Seminara (20) e Cittanova (12),per un totale provinciale di 95 militanti21. Il segretario interregionale Carli,scoperto e arrestato dalla polizia nel novembre 1923, fu prontamente so-stituito da Ugo Girone, anch’egli napoletano, che inviò nello stesso meseun’ampia relazione all’esecutivo sull’organizzazione comunista nel Mez-zogiorno. In questa relazione la provincia di reggio Calabria presentavaun’organizzazione più forte rispetto al prospetto fornito da Carli nel mesedi ottobre. le sezioni presenti sul territorio erano passate da cinque a novee gli iscritti (adulti) a 134, così suddivisi: reggio Calabria 30, Palmi 20,roccella 20, Seminara 17, Brancaleone 15, Cittanova 14, Gioia Tauro 10,Melito 5, Bagnara 322. dalla relazione di Girone non emergono dati sul mo-vimento giovanile ma, ammettendone la presenza egli stesso, ovunquefosse presente una sezione “adulta”, è da ritenere plausibile anche per igiovani comunisti un aumento sia di sezioni che di tesserati. le due relazioni dei fiduciari interregionali esaminate possono proba-bilmente considerarsi incomplete, in quanto la lettura dei fascicoli del CPClascia intravedere la presenza di altre sezioni. In particolare, manca nelledue relazioni ogni accenno a Santo Stefano d’aspromonte, comune situatoa cavallo delle fiumare Gallico e Catona, dove, fino alla tornata elettoraledel 1924, era presente una sezione del partito comunista, successivamentetrasformatasi in cellula23. Prima del 1926 sappiamo della presenza di unasezione comunista, ma non se ne conosce purtroppo la consistenza nume-rica, anche nei comuni di Galatro24, Gallico25, laureana di Borrello26, Mam-mola27 e Sambatello28. risulta dunque evidente, malgrado le difficoltà, come il PCd’I fosseriuscito a darsi, nel 1923, una buona organizzazione nella provincia direggio. Purtroppo, a causa dell’assenza di documentazione, non è pos-sibile conoscere l’andamento dei medesimi parametri per i primi mesidel 1924. Tuttavia, grazie alle elezioni di aprile, è possibile fare delle ipo-tesi. dai risultati elettorali il dato che emerge circa il Partito comunistain Calabria è di sostanziale tenuta e riconferma dei voti ottenuti nel 1921,avendo ricevuto 2.860 preferenze (l’1,17%) contro le 3.361 (1,52%) di

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21 F. Cordova, Alle origini del PCI in Calabria cit., p. 56.22 IvI, p. 57.23 CPC, b. 936, f. 13280, cc. 73, 1928-1942; CP, b. 172, cc. 99, 1935-1940.24 IvI, b. 1471, f. 59612, cc. 9, 1930-1941.25 IvI, b. 2273, f. 1148, cc. 15, 1927-1933.26 IvI, b. 4016, f. 96302, cc. 12, 1931 e 1936-1942.27 IvI, b. 4230, f. 6365, cc. 32, 1928-1942.28 IvI, b. 2693, f. 10908, cc. 10, 1928-1929, 1933, 1936, 1938 e 1940-1941.

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tre anni prima29 e riuscendo a inviare, alla Camera dei deputati, il comu-nista Fausto Gullo (la cui elezione sarà però invalidata il 24 giugno)30. Ineffetti, per i comunisti sembrerebbe esserci stato un arretramento. Però,considerando il clima violento e intimidatorio che accompagnò le elezioni,durante le quali la segretezza del voto fu praticamente assente e vide iltracollo dei due partiti socialisti oltre che dei popolari (passati in Calabriadal 18,8% del 1921 al 3,3% del ’24), i comunisti anche in Calabria man-tennero onorevolmente le posizioni acquisite.Posizioni che, in seguito al rapimento del deputato socialista Matteottiil 10 giugno 1924, sembravano destinate ad acquisire maggiori spazi. l’in-dignazione popolare per un delitto ascritto da subito ai fascisti, anzi diret-tamente a Mussolini, si scatenò anche nel reggino. a reggio Calabria, inparticolare, un episodio ebbe gli onori della cronaca nazionale. la sera del31 dicembre, infatti, il «Corriere di Calabria», male informato dal suo cor-rispondente romano, pubblicò – sebbene con un punto interrogativo – lanotizia delle dimissioni di Mussolini da Capo del Governo. appena il quoti-diano fu messo in vendita, una manifestazione di giubilo riempì corso Ga-ribaldi, la via principale della città, confluendo poi nel cuore del centrourbano, piazza vittorio emanuele, dove si tennero, non disturbati dagli sbi-gottiti e inerti fascisti e forze dell’ordine, comizi inneggianti alla libertà31.l’episodio, destinato a entrare nell’immaginario collettivo, acquista mag-giore spessore se si considera il comportamento tenuto nell’occasione daifascisti locali. Quelli maggiormente compromessi sparirono dalla circola-zione, mentre gli altri si dichiararono tutti nauseati del “passato” regime32.Gli oppositori furono commossi e non ci furono vendette postume33. addirittura, il prefetto e il questore spiegarono le ragioni per le qualinon avevano potuto rifiutarsi, per il bene del Paese, di accettare i loro ri-spettivi incarichi dal governo fascista34. Gli antifascisti li perdonarono, di-menticarono il passato e celebrarono tutti insieme la concordia35. risulta dunque più che evidente come l’adesione al fascismo nel reg-gino fosse davvero poco convinta.

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29 vITTorIo CaPPellI, Politica e politici, in PIero BevIlaCQUa, aUGUSTo PlaCaNICa (a cura di),Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi. La Calabria, einaudi, Torino 1985, p. 540.30 F. Cordova, Alle origini del PCI in Calabria cit., p. 58.31 FerdINaNdo Cordova, Il fascismo nel Mezzogiorno. Le Calabrie, rubbettino, Soveria Man-nelli 2003, p. 194.32 eMIlIo laSSU, Marcia su Roma e dintorni, einaudi, Torino 1965, pp. 164-165. 33 IBIDEM.34 IBIDEM.35 IBIDEM.

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Si ebbero tuttavia reazioni già nei giorni immediatamente successivi aldelitto. a reggio, a esempio, si tentò di inscenare una manifestazione diprotesta lungo corso Garibaldi36, mentre forte era la propaganda antifa-scista portata avanti dai ferrovieri. a Gioia Tauro i comunisti al grido: «vivaMatteotti, viva lenin, viva la rivoluzione sociale», tentarono di invadere illocale circolo dei signori e uno dei membri, che si trovava sulla porta del-l’associazione, fu colpito con l’asta della bandiera37. Il comunista eugeniola Face, nato a Santo Stefano d’aspromonte ed emigrato a venezia, in oc-casione del delitto Matteotti invece tentò, inutilmente, di far cessare unconcerto musicale in Piazza San Marco38. Tanta fu l’indignazione per que-sto omicidio che, pur essendo Matteotti segretario di un partito che nonriscuoteva le simpatie comuniste, alcuni militanti come Girolamo Mura-tori39, ne tenevano la foto in casa oppure organizzavano cerimonie com-memorative, come avvenne in argentina, dove il comunista GiuseppeParrello aveva tentato di commemorare pubblicamente il quinto anniver-sario della morte di Matteotti venendo però arrestato dalla polizia4. a roc-cella Ionica, pare che Carmelo Toscano con altri dodici compagni di fede il1˚ novembre 1926 avesse organizzato una cerimonia in memoria del se-gretario socialista, con la deposizione nel cimitero di roccella di una co-rona di fiori e di cento candele votive41.Intanto, a livello nazionale, il Partito Comunista d’Italia era scosso dallelotte interne tra la sinistra bordighista e il centro gramsciano per la con-quista della direzione. la costituzione in frazione, nel giugno del 1925, delgruppo capeggiato da Bordiga sancì, di fatto, la vittoria della corrente ca-peggiata da Gramsci e Togliatti.Questo cambio di potere ai vertici avviò il processo di sostituzioneanche nella vecchia guardia dirigente calabrese. Francesco Morabito, ri-tornato dopo il suo arresto alla direzione della federazione provinciale direggio già nell’ottobre 1923, fu sostituito con l’appaltatore edile FrancescoGurnari, arrestato pochi mesi dopo e quindi a sua volta sostituito dall’av-vocato Ferdinando Tripodi, rimasto in carica dall’agosto al dicembre 1925.Il segretario provinciale del movimento giovanile, Giovanni Scilipoti,restò invece al suo posto almeno fino al 1926, quando, a causa di una sua

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36 CPC, b. 2164, f. 72657, cc. 9, 1923-1926, 1938 e 1941.37 IvI, b. 4969, f. 28043, cc. 10, 1927-1929.38 IvI, b. 2693, f. 9538, cc. 71, 1923-1942.39 IvI, b. 3459, f. 81050, cc. 57, 1927-1942.40 IvI, b. 3746, f. 35167, cc. 60, 1929-1942.41 IvI, b. 5176, f. 38797, cc. 21, 1929-1942.

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lettera di dissenso sull’operato dell’esecutivo centrale, venne espulso dalpartito. Questi contrasti interni indebolirono senz’altro la struttura comu-nista, rendendola di fatto maggiormente esposta agli attacchi provenientidai nemici esterni.Un altro pesante colpo contro il partito venne dalla questura di Milanoche, nel luglio 1925, scoprì la costituzione del Comitato Centrale. Tale sco-perta avvantaggiò enormemente la polizia nella sua opera di repressionedel PCd’I, consentendo agli agenti di poter arrestare, tra i tanti, ancheennio Gnudi, segretario interregionale per la Calabria e la Sicilia. la de-crittazione dei documenti sequestrati a Gnudi diede alla polizia un impor-tante aiuto nella conoscenza della struttura del partito nella provincia.Così, dopo un’attenta opera di controllo, anche il sostituto di Gnudi, Giu-seppe Pianezza, nel dicembre 1925 fu arrestato.Dalle “Leggi fascistissime” alla caduta del fascismo (1926-1943)la tempesta della repressione prese avvio dall’attentato contro Mus-solini del 31 ottobre 1926. Quel giorno il duce si trovava in visita a Bologna,quando il quindicenne anteo zamboni gli sparò contro un colpo di rivol-tella, lacerandogli la giacca ma lasciandolo illeso42. I fascisti, precipitatisisul ragazzo, lo linciarono in strada con brutale ferocia: lo pugnalarono, glispararono e, infine, lo strangolarono.l’attentato avrà immediate conseguenze. In nemmeno 24 ore il regimefarà sparire quell’ultimo barlume di tolleranza, non di libertà, ancora pre-sente nel Paese. Già il giorno successivo, infatti, il ministro dell’Interno Fe-derzoni ordinò ai prefetti di sospendere, per misure di ordine pubblico efino a nuovo ordine, tutti i giornali d’opposizione. Presentò poi al Consigliodei Ministri del 5 novembre alcune proposte, subito approvate. Queste pro-poste di legge riguardavano la revisione di tutti i passaporti per l’estero,severe sanzioni contro gli espatri clandestini, la revoca a tempo indeter-minato di tutte le pubblicazioni quotidiane e periodiche ostili al regime,lo scioglimento di tutti i partiti, le associazioni e le organizzazioni che svol-gevano attività antifascista, l’istituzione del confino di polizia per tutti icosiddetti “sovversivi”, l’introduzione della pena di morte per una serie direati politici e la nascita di uno speciale organo giudiziario che giudicassetali reati, il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato43. anche per questatempestività di azione e per la concretezza delle proposte, quasi fossero

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42 P. SPrIaNo, Storia del PCI. Gli anni della clandestinità, vol. II, einaudi, 1975, p. 61.43 IvI, pp. 61-62.

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pronte già da tempo, c’è il dubbio che di tale attentato gli istigatori e forsegli esecutori fossero, in realtà, gli stessi fascisti44. e fu solo l’inizio. l’8 no-vembre il capo della polizia arturo Bocchini, telegrafando ai prefetti ita-liani, ordinò la perquisizione personale e domiciliare di tutti i deputatiiscritti al Partito comunista, con la raccomandazione di procedere al lorofermo. anche antonio Gramsci cadde nella rete. a quel punto il dado era ormai tratto; iniziava ufficialmente la dittaturafascista. alla fine del 1926 un decreto-legge dichiarò il fascio littorio em-blema ufficiale dello Stato e la milizia fascista fu promossa al rango dicorpo armato statale. la diplomazia e la magistratura furono ampiamentefascistizzate. Infine, a partire dal 1˚ febbraio 1927, iniziò a funzionare ilTribunale Speciale per la difesa dello Stato, che avrà tra le sue vittime pre-ferite proprio i comunisti. In questo periodo nasceva inoltre anche la ce-lebre e misteriosa ovra (sigla mai spiegata e oggetto di varieinterpretazioni: opera volontaria di repressione antifascista, organizza-zione di vigilanza e repressione dell’antifascismo, organo di vigilanza deireati antistatali45), la polizia segreta destinata ad avere un ruolo di primopiano nella repressione dell’antifascismo. Per finire, lo Stato attuò un de-ciso potenziamento delle forze dell’ordine, le quali arriveranno a impie-gare nella lotta contro i reati politici oltre 100.000 uomini46, entrando cosìin un’epoca dove l’arresto di militanti comunisti si fa quasi ininterrotto. Sipensa addirittura che alla fine del 1926 oltre un terzo degli effettivi delPCd’I si trovasse in prigione47.Intanto, il partito fu riorganizzato e posto su due distinti livelli operativi,con la creazione di un Centro interno e uno estero. Il centro interno, dalquale dipendeva l’azione clandestina in Italia, fu inizialmente affidato aCamilla ravera, mentre il centro estero, con sede a Parigi, fu consegnato aTogliatti48. C’è da dire che, malgrado anche il PCd’I fosse rimasto sorpresodalle leggi eccezionali e dalla conseguente e immediata nullificazione dellepoche libertà ancora esistenti, esso fu l’unico partito ad aver preventiva-mente messo in atto un piano di emergenza che prevedeva la creazione distrutture organizzative occulte, con la presenza di militanti già passatinella clandestinità e una fitta rete di basi logistico-operative. Queste pre-

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44 Cfr. BrUNella dalla CaSa, Attentato al Duce. Le molte storie del caso Zamboni, Il Mulino,Bologna 2000.45 FraNCo MarTINellI, L’OVRA. Fatti e retroscena della polizia politica fascista, Milano, devecchi 1967, pp. 240-41.46 P. SPrIaNo, Storia del Partito comunista italiano cit., pp. 91-92.47 IvI, p. 63.48 IvI, pp. 68-70.

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cauzioni, figlie dirette della concezione “settaria” che Bordiga aveva im-presso al partito, consentirono al PCd’I un attivismo, per alcuni mesi, quasispavaldo, con una febbrile attività di propaganda svolta attraverso la dif-fusione di un gran numero di giornali e di volantini. Questo sforzo, cheportò la sezione italiana della Terza Internazionale a divenire espressionedel più combattivo e intransigente antifascismo, non fu però sostenibile alungo. la rete del centro interno, benché pazientemente ritessuta dopoogni arresto, era costantemente infiltrata da agenti provocatori della po-lizia fascista, che arrivò persino a ottenere la collaborazione di un membrodi primo piano dell’Ufficio politico come Ignazio Silone49. e se ancora neiprimi mesi del 1927 il partito poteva contare su circa 10.000 comunistiattivi in Italia, prima della fine degli anni venti questi si ridussero ad unatrama esilissima di militanti.Un elemento sempre più importante fu l’esistenza di una consistente basefra le masse dei lavoratori emigrati. Nella provincia di reggio Calabria, in par-ticolare, il fenomeno migratorio interessò profondamente i comunisti.Per quanto riguarda l’emigrazione “sovversiva”, nello specifico quella co-munista50, queste sono le cifre che è possibile ricavare dai fascicoli del CPC:dei 305 comunisti reggini schedati, il 50,49%, corrispondente a 154 persone,emigrò. Un numero, dunque, elevato di espatri per fuggire dalle miserie edalle ristrettezze, sia economiche che politiche, della quotidianità. Una cospicua minoranza di queste persone, inoltre, emigrò in due o piùStati. Questo implica una notevole differenza tra il numero reale degli emi-grati (154) e il numero di residenze degli stessi all’estero (220). Incro-ciando questi dati, otteniamo la tabella seguente, esemplificativa delletendenze migratorie.dalla tabella risulta chiaro il ruolo di primissimo piano svolto dallaFrancia nella storia dell’antifascismo italiano. I 108 comunisti reggini chela scelsero come loro residenza acquistano maggiore spessore se si consi-dera che la Francia, da sola, raggiunse il 49% sul totale degli espatri e che,addirittura, su 10 emigrati, 7 vi si sono recati una o più volte.Un rapporto speciale, dunque, con la Francia, che se da un lato può es-sere spiegato con la vicinanza dei confini (anche se si può notare come laSvizzera non abbia avuto il medesimo successo), dall’altro si collega al-l’immagine quasi mitica, e non completamente infondata, della terra rivo-

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49 aldo aGoSTI, Storia del PCI, laterza, 1999, p. 27. Per approfondimenti, cfr. darIo BIoCCa,MaUro CaNalI, L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, luni editrice, Milano 2000.50 Sull’argomento mi permetto di rinviare al mio: L’emigrazione comunista regginadurante il Ventennio fascista, in «rivista calabrese di storia del ‘900», 1, 2012, pp. 99-109.

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luzionaria protettrice degli oppressi51. Inoltre, la presenza al governo fran-cese di partiti vicini alle sinistre, l’esistenza di un forte partito socialista edi un partito comunista tra i più ortodossi alla linea sovietica, favorironola preferenza accordata alla repubblica d’oltralpe.. andiamo più in profondità. delle 108 partenze dal reggino alla Francia,la tabella successiva indica l’anno di partenza52:da questi dati si può ricavare un’interessante considerazione. ritengo cioèche proprio dall’analisi dei flussi migratori diretti verso il territorio francese,

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51 Tale considerazione era valida soprattutto per i comunisti, vista la costituzione dellaloro centrale estera a Parigi. altre considerazioni vanno fatte se si esamina, a esempio,l’emigrazione anarchica, che si indirizza per circa l’80% verso l’argentina. Sull’argomentosi veda: KaTIa MaSSara, L’emigrazione “sovversiva”. Storie di anarchici calabresi all’estero, leNuvole, Cosenza 2003. 52 alle cifre contenute nella tabella, vanno aggiunte alcune partenze in date non speci-ficate: una negli “anni dieci”, otto negli “anni venti” e tre negli “anni Trenta”.

133Stato N. dei comunisti % sul totale % sul totalereggini residenti delle residenze dei dei comunistiall’estero comunisti reggini reggini emigrati all’estero algeria 6 2,72% 3,89%argentina 20 9,09% 12,98%Belgio 23 10,45% 14,93%Canada 1 0,45% 0,64%Colombia 1 0,45% 0,64%egitto 1 0,45% 0,64%etiopia 3 1,36% 1,94%Francia 108 49,09% 70,12%Germania 5 2,27% 3,34%Grecia 1 0,45% 0,64%lussemburgo 13 5,90% 8,44%Messico 1 0,45% 0,64%olanda 2 0,90% 1,29%Panama 1 0,45% 0,64%Princ. di Monaco 1 0,45% 0,64%rep. dominicana 1 0,45% 0,64%russia 1 0,45% 0,64%Senegal 1 0,45% 0,64%Spagna 15 6,81% 9,74%Stati Uniti 10 4,54% 6,49%Svizzera 2 0,90% 1,29%Tunisia 2 0,90% 1,29%Uruguay 1 0,45% 0,64%

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si possa notare come in realtà anche il proletariato e il sottoproletariato reg-gini fossero abbastanza politicizzati, almeno relativamente al resto della re-gione. Questo risulta chiaro notando come il numero di emigrati regginiaumenti a partire dal 1923 e prosegua negli anni arrestandosi nel 1927,quando con l’entrata in vigore delle leggi eccezionali emigrare era diventatopiù difficile. Inoltre, anche se nella gran parte dei fascicoli esaminati si giu-stifica il motivo dell’espatrio con la dicitura «per motivi di lavoro», non si puònemmeno negare che la grande maggioranza di quelli che partivano all’arrivomanifestavano, da subito, ideali comunisti, spesso celati nei paesi d’origine.È il caso di Natale Cuzzucoli, nato a Montebello Jonico il 12 dicembre1908. In Italia lavorava come contadino e non diede mai luogo a rilievi dinatura politica. riguardo al regime fascista, pur non sostenendolo, neanchelo contrastò. Nel maggio 1933 espatriò clandestinamente in Francia «permotivi di lavoro». Fin qui nulla di strano. Tre anni dopo, il colpo di scena. Il4 dicembre 1936, sul numero 49 del giornale «Giustizia e libertà», Cuzzucolivenne citato in un elenco di feriti sul fronte di huesca (settembre 1936),dove si era recato per combattere i franchisti con la colonna “rosselli” dellemilizie rosse. Iscritto il 18 maggio 1937 dalle autorità italiane in rubrica difrontiera e nel bollettino delle ricerche per l’arresto, si scoprì poi che era giàcaduto in combattimento, nel novembre 1936, ad admudevar53.

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53 CPC, b. 1567, f. 132633, cc. 49, 1935-1942.

anno Partenze 1920 6 1921 4 1922 0 1923 10 1924 10 1925 15 1926 16 1927 2 1928 6 1929 2 1930 10 1931 6 1932 1 1933 1 1934 2 1935 0 1936 11937 2

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Un altro dato che è bene riportare riguarda le modalità di ingresso nelterritorio francese. legalmente emigrarono 71 comunisti reggini, mentrei restanti 37 lo fecero clandestinamente. Chi emigrò clandestinamente lofece attraversando il confine da ventimiglia o, molto più spesso, imbarcan-dosi su navi dirette in Corsica o a Marsiglia, magari aiutato nell’impresada altri reggini come attilio anastasi54, domenico Coppola55, domenicoesposito56 o vincenzo Priolo57 (tutti indagati per favoreggiamento dell’emi-grazione clandestina) che fornivano soldi, documenti falsi o magari pro-curavano solo un posto su un’imbarcazione, oppure semplicementeindicavano l’itinerario più sicuro per attraversare il confine.Comunque, una volta arrivati in Francia, tutti presero subito contatto conle locali strutture del partito comunista francese per essere inseriti nei co-siddetti “gruppi di lingua italiana”, in ottemperanza alle decisioni dell’Inter-nazionale Comunista che prevedeva questa soluzione per i fuorusciti.I comunisti italiani in Francia si occupavano della diffusione di giornalidi partito e di volantini, della propaganda diretta verso i connazionali, delsostegno alle iniziative del PCF, del supporto alla lotta antifascista soste-nuta dai compagni rimasti in Italia. a questi compiti non si sottraevanoovviamente i comunisti provenienti dalla provincia di reggio.Tra tutti risaltano per l’impegno profuso Pasquale albanese58, attivo pro-pagandista tra l’elemento giovanile, emilio Bandiera59 e Giuseppe Cala-bria60, entrambi addetti alla vendita e diffusione di giornali comunisti quali«vie Proletarienne», «riscatto» e «lo Stato operaio». Giuseppe Calabriaprovvedeva inoltre a collette con liste di sottoscrizione a favore del partitocomunista italiano. Giuseppe Paoletti61, invece, fu un deciso propagandistadel Fronte popolare francese, formula politica inaugurata in Francia nel1934 e rilanciata nel 1935 al vII congresso della Terza Internazionale, cheindividuava nell’alleanza tra i partiti operai (socialisti e comunisti) e le forzepolitiche progressiste lo strumento per combattere il fascismo. ancora. edoardo rodà62 si impegnò nella raccolta di fondi a beneficiodelle vittime politiche, mentre i comunisti domenico Magnoli63, Francesco

Il partito comunista nella provincia di reggio Calabria dal 1921 al 1943

54 IvI, b. 107, f. 129398, cc. 99, 1934-1943.55 IvI, b. 1464, f. 135005, cc. 57, 1937-1943.56 IvI, b. 1894, f. 36692, cc. 33, 1930, 1934-1937 e 1940-1942.57 IvI, b. 4132, f. 17946, cc. 11, 1929-1930 e 1940-1941.58 IvI, b. 41, f. 123061, cc. 25, 1935-1942.59 IvI, b. 302, f. 98292, cc. 36, 1931-1942.60 IvI, b. 937, f. 116970, cc. 37, 1933-1941.61 IvI, b. 3707, f. 110181, cc. 41, 1932-1941.62 IvI, b. 4368, f. 124053, cc. 43, 1929-1942.

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Nepi64 e antonio Giuseppe Spizzica65, tutti propagandisti a favore dellaSpagna repubblicana e delle milizie rosse e, in particolare, lo Spizzica e ilNepi, che organizzarono, rispettivamente, raccolte di fondi per le milizierosse e per gli italiani arruolati nelle milizie repubblicane. Proprio par-lando delle milizie repubblicane, è opportuno ricordare che anche diversicomunisti reggini furono in prima fila nella difesa della Spagna rossa, eche qualcuno, come il già ricordato Natale Cuzzucoli, morì. altri occupa-rono posti delicati nella famosa Brigata Internazionale Garibaldi, comeFrancesco Foti di donato66 (porta-ordini e caporale), agostino Serafino67(caporale) e Giuseppe Pellicanò68 (sergente). lavorava, invece, come in-fermiere negli ospedali militari repubblicani, il comunista proveniente daMontebello Jonico Francesco Foti di domenico69.Non tutti, comunque, aiutarono la Spagna repubblicana imbracciandoun fucile. domenico Coppola70, a esempio, si imbarcò sulla petroliera “Cam-pero” della Spagna rossa, mentre Salvatore Moscato71 preferì prestare ser-vizio sui piroscafi repubblicani che dal Pireo portavano in Spagna i carichidi armi, presumibilmente sovietiche.diversa, invece, la parte avuta nella guerra civile spagnola da vincenzoPlutino72. egli svolgeva infatti servizio di informazione per conto della po-lizia investigativa politica della Generalidad di Catalogna (ossia il governoautonomo con sede a Barcellona), al fine di scoprire eventuali infiltrati fa-scisti e quindi attirarli nella capitale, dove sarebbero poi stati uccisi. Nonci è dato sapere quanti fascisti Plutino sia riuscito a denunciare.Come si può ben vedere già da questi pochi esempi, i comunisti regginiemigrati parteciparono, tutti o quasi, con grande impegno e passione allalotta che nei paesi di adozione si andava compiendo contro l’avanzata delle

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63 IvI, b. 2932, f. 124744, cc. 15, 1936-1941.64 aCS, Ministero dell’Interno, direzione Generale di Pubblica Sicurezza-divisione affariGenerali riservati; Categoria. 2B (disfattisti), b. 163, cc. 7, 1937-1938; d’ora in poi Ctg. 2B.65 CPC, b. 4919, f. 131962, cc. 13, 1937-1942.66 IvI, b. 2136, f. 94239, cc. 162, 1925, 1929 e 1931-1942.67 IvI, b. 4753, f. 136879, cc. 49, 1938-1942. In particolare, Serafino fu catturato il 20settembre 1938 dai franchisti sul fronte dell’ebro. rimase fino alla fine del 1939 nel campodi concentramento di San Pedro de Cardena e fu in seguito trasferito in una compagnia dilavoratori impiegati nella costruzione delle strade68 IvI, b. 3828, f. 131944, cc. 106, 1937-1942.69 IvI, b. 2136, f. 106823, cc. 31, 1941-1942.70 aCS, Ministero dell’Interno, direzione Generale di Pubblica Sicurezza-divisione affariGenerali riservati; Ammoniti e Diffidati, b. 95, f. 710 rC, d’ora in poi AD; CPC, b. 1464, f.135005, cc. 57, 1937-1943.71 CPC, b. 3438, f. 138060, cc. 110, 1937-1943.72 IvI, b. 4037, f. 137141, cc. 57, 1937-1941.

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forze reazionarie e filo-fasciste. Può dirsi lo stesso per la provincia di reg-gio Calabria? a questa domanda cercherò ora di rispondere.Come si è visto nel precedente paragrafo, dopo la presa del potere a fine1922, i fascisti trovarono nella provincia di reggio un movimento comuni-sta se non proprio forte, comunque presente e organizzato. e se è vero,come già detto, che nei primi mesi del 1923 il partito comunista, nel regginocome in Italia, ricevette dal governo mussoliniano un colpo durissimo, è al-trettanto vero che i militanti non subirono passivamente la reazione.Uno tra gli episodi più eclatanti – e un po’ spettacolari – di dissenso con-tro il regime avvenne a Palmi a opera del comunista antonino Polimeridetto Corio73, il quale, in occasione della visita del quadrumviro MicheleBianchi, provocò un corto circuito che fece cessare l’illuminazione pubblicapoco prima della cerimonia di saluto del gerarca. Un altro episodio di spet-tacolare dissenso si ebbe nel 1927 a Cittanova. Qui, nella notte del 30 aprile1927, il comunista Girolamo Muratori74, già segretario della sezione comu-nista di Cittanova, si recò su un’altura vicina, distante circa 300 metri dal-l’abitato e issò una bandiera rossa, con la falce ed il martello e la scritta “wil primo maggio”, che molti cittanovesi videro sventolare la mattina dopo.a parte questi eclatanti, l’antifascismo quotidiano nel reggino si espli-cava con piccoli gesti, a basso impatto, ma continui. Innanzitutto, bisognaconsiderare che i simboli “forti” del comunismo (la bandiera rossa, lenin,etc.) rappresentarono, per una popolazione di militanti mediamente anal-fabeta o poco più, un fattore identitario e di coesione essenziale in queglianni a loro ostili. Si scriveva, a esempio, semplicemente “w lenin” sui muri,come fece il rosarnese orazio arena75 su un carro merci fermo alla stazionedi Torre Cerchiara, oppure si lanciavano accuse più dirette e precise, comefece Giuseppe Cristoforo76 che, in un bagno dello stabilimento genovesedell’architetto enrico Monto, scrisse: «Sotto la timpesta del Fascismo sal-vamo la nostra bandiera rossa - W lenin - W Natale Sencabilin - abbassoMussolini». In Toscana, invece, precisamente a Borgo San lorenzo, il co-munista Cosimo Mallamace77, originario di Catona, il 25 febbraio 1925 si

Il partito comunista nella provincia di reggio Calabria dal 1921 al 1943

73 ad, b. 95, f. 710 rC, sf. 66.5 e 66.6, 1934, sf. 67.4, 1936, cc. 7, 1934 e 1936; CPC, b.4063, f. 56571, cc. 73, 1926-1942; aCS, Ministero dell’Interno, direzione Generale di Pub-blica Sicurezza-divisione affari Generali riservati, persone pericolose da arrestare in de-terminate circostanze, b. 11, f. 65 rC, 1929-1930 e 1933, d’ora in poi S13A.74 IvI, b. 95, f. 710 rC 1940, sf. 68.1, 1940, sf. 68.1, 1941, cc. 6, 1940-1941; CP, b. 698, cc.55, 1938-1939; CPC, b. 3459, f. 81050, cc. 57, 1927-1942; S13A, b. 11, f. 65 rC, 1929-1930.75 CPC, b. 182, f. 46397, cc. 15, 1925-1943.76 IvI, b. 1539, f. 14089, cc. 5, 1928 e 1940.77 IvI, b. 2960, f. 87797, cc. 35, 1924-1939.

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presentò all’ufficio anagrafe del comune per denunciare la nascita di unfiglio al quale voleva dare il nome di Trotskij. Non sappiamo poi se la pra-tica abbia avuto un seguito. Similmente si comportò Salvatore Budaci dettoTigani78, il quale però, più ortodosso del Mallamace, al suo unico figlio im-pose il nome lenin, anche se circa otto anni dopo, nel 1932, glielo cambiòcon quello di domenico.ovviamente anche gli inni rappresentarono un vivace terreno di scon-tro. ai fascisti e a “Giovinezza” si contrapponevano con “Bandiera rossa” icomunisti e i socialisti. diversi sono gli esempi.Nell’agosto 1924, a Caraffa del Bianco, Pasquale Morabito79, in occa-sione di una festa religiosa, si mise alla testa di un gruppo di compagni epercorse le vie del paese cantando l’inno comunista. Girolamo Muratori,invece, il 27 ottobre dello stesso anno fu fermato a Cittanova dai carabi-nieri mentre, in occasione di una festa popolare, chiedeva alla banda mu-sicale di suonare “Bandiera rossa”. Infine a reggio, nella notte tra il 24 e il25 luglio 1928, mentre un reparto di fanteria sfilava intonando “Giovi-nezza”, Tommaso de Giovanni80 gridò ripetutamente «Bolscevismo». Fer-mato da un ufficiale oppose resistenza e fu quindi tratto in arresto.Processato il 15 settembre dal locale tribunale, fu accusato del reato diviolenza e resistenza, oltraggio e lesioni in persona di un ufficiale dell’eser-cito, venendo condannato a tre mesi di reclusione e a 400 lire di multa.l’episodio più grave, tuttavia, si verificò a Palmi nel 1925. Qui, la seradel 30 agosto, verso mezzanotte, stava per svolgersi l’ultima parte del pro-gramma dei tre giorni di festeggiamenti in onore della Madonna della let-tera. la piazza vittorio emanuele era gremita di oltre cinquemila personein attesa dei fuochi artificiali, mentre la banda di Frigento dalla villa co-munale si dirigeva verso la piazza per suonare durante i fuochi pirotecnici.Un gruppo di fascisti precedeva e un altro seguiva la banda che suonaval’inno «Giovinezza», mentre i fascisti, sventolando le bandierine nazionalidi carta che avevano tolto dai festoni di addobbo della villa, accompagna-vano con il canto l’inno. Ciò avvenne malgrado che alcuni esponenti deipartiti di sinistra qualche giorno prima si fossero recati presso le autoritàlocali a protestare per l’esecuzione di “Giovinezza” durante una festa reli-giosa, ventilando la possibilità di attriti. arrivati in piazza, i fascisti, nontrovando tutti posto davanti alla sede del fascio, s’incunearono in un

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78 IvI, b. 882, f. 80019, cc. 52, 1926-1942.79 ad, b. 95, f. 710 rC 1926-1930, sf. 65.4 e 65.14, cc. 2, 1926-1927; CPC, b. 3388, f.84812, cc. 33, 1927-1938.80 CPC, b. 1660, f. 18184, cc. 50, 1928-1944; S13a, b. 11, f. 65, 1929.

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gruppo di persone, in gran parte socialisti e comunisti che, in piedi e se-duti, sostavano davanti al caffé «de rosa».la banda continuava a suonare «Giovinezza» e i fascisti schierati con-tinuavano a cantare sventolando le bandierine, allorché il comunistarocco Pugliese81 lanciò una sedia in mezzo al gruppo dei fascisti into-nando le parole: «avanti, o popolo, alla riscossa». Seguirono immediata-mente alcuni spari. Il fascista rocco Gerocarni rimase ferito al bassoventre e morì la settimana dopo all’ospedale. Inoltre rimasero feriti il gio-vane Giuseppe daino, il fratello di Gerocarni, andrea, la signora Maria Se-minara e il fascista rosario Privitera. Ci fu un fuggi fuggi generale e alcunielementi di sinistra furono subito arrestati, altri ancora lo furono dopopochi giorni. Tutti vennero denunciati all’autorità giudiziaria e trasferitinel carcere di Catanzaro.I comunisti arrestati furono antonino e Giuseppe Bongiorno, NataleBorgese, Francesco Carbone, Pasquale Carella, Giuseppe de Salvo, Giu-seppe Florio, Gregorio Grasso, Giuseppe Marazzita, Giuseppe, rocco e vin-cenzo Pugliese e antonio Sambiase, tutti di Palmi e imputati di correitànell’omicidio volontario del capomanipolo della milizia rocco Gerocarnie nel ferimento di altre quattro persone. Con sentenza del 5 dicembre 1928antonino Bongiorno fu condannato a otto anni e dieci mesi di reclusionee 500 lire di multa. la stessa condanna fu inflitta al fratello Giuseppe e arocco Pugliese. Natale Borgese e vincenzo Pugliese furono condannati adieci anni e otto mesi e 600 lire di multa; Giuseppe Florio e GregorioGrasso a dieci anni e sette mesi e 600 lire di multa. Inoltre furono tutti con-dannati all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a tre anni di vigilanzaspeciale. Tutti gli altri furono assolti dal Tribunale Speciale per la difesadello Stato per non provata reità.Come si può notare, la passione politica era tutt’altro che sconosciutanelle contrade reggine. la realtà che si presenta è molto più dinamica diquello che ci si aspetterebbe. Sebbene la storiografia ufficiale indichi il1926 come l’anno della sospensione di ogni attività del PCd’I in Calabria,in realtà per un decennio ancora, e forse fino alla fine del regime fascista,il partito continuò ad avere nella provincia una trama gracilissima, ma de-

Il partito comunista nella provincia di reggio Calabria dal 1921 al 1943

81 aCS, Ministero dell’Interno, direzione Generale di Pubblica Sicurezza-divisione affariGenerali riservati, detenuti Sovversivi, b. 53, f. 3953, cc. 8, 1928-1929 e 1941, d’ora in poidS; cfr. anche CPC, b. 730, f. 1006, cc. 94, 1927-1943; dS, b. 49, f. 3614, cc. 37, 1928-1937e 1934-1939 aCS, Ministero dell’Interno, direzione Generale di Pubblica Sicurezza-divi-sione affari Generali riservati, Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, sent. 145 del 5dicembre 1928, rG 280.1928, d’ora in poi TSdS; TSdS, sent. 33 del 6 luglio 1934 della CI;TSdS, sent. 5 del 4 febbraio 1935.

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terminata, di militanti impegnati nelle propaganda antifascista e nell’operadi ricostituzione delle strutture partitiche.In provincia di reggio Calabria abbiamo, in realtà, un solo caso docu-mentato di ricostituzione di una sezione comunista dopo le leggi specialidel 1926. l’episodio vide coinvolti i già citati comunisti di Palmi antoninoBongiorno e Salvatore Borgese (scarcerati il 18 novembre 1932 in virtùdell’amnistia concessa nella ricorrenza del decennale della marcia suroma), oltre che Giuseppe Marafioti82, Pasquale Melara83 e lorenzo Fran-cesco Morabito84 (questi ultimi due di Seminara).dalle indagini eseguite dalla questura di reggio Calabria a partire dal1933 era risultato che antonino Bongiorno avesse organizzato e fosse acapo di una cellula comunista scoperta a Palmi e Seminara. Inoltre tenevariunioni clandestine con i compagni di fede sia nel suo salone di barbiereche all’aperto in contrada «all’affaccio» o in casa di Giuseppe Marafioti.durante gli incontri con i compagni di fede svolgeva intensa propagandae comunicava ai gregari le istruzioni che gli giungevano dalla centrale co-munista di Parigi. Il 21 marzo 1934 Bongiorno fu arrestato insieme al fa-legname Salvatore Borgese e al tipografo Giuseppe Marafioti di Palmi, alfalegname Pasquale Melara e al panettiere lorenzo Morabito di Seminara,tutti imputati di attività comunista. Il Bongiorno, inoltre, era imputato diavere organizzato e diretto un’associazione comunista. deferito al Tribu-nale Speciale per la difesa dello Stato, con sentenza del 4 febbraio 1935fu condannato a dodici anni di reclusione (di cui due condonati ai sensidel regio decreto del 25 settembre 1934), all’interdizione perpetua daipubblici uffici e alla libertà vigilata. Salvatore Borgese fu condannato a dueanni e sei mesi, di cui due condonati; Pasquale Melara, Giuseppe Marafiotie lorenzo Francesco Morabito a tre anni di reclusione.Come abbiamo detto, questo dei comunisti di Palmi e Seminara ful’unico tentativo riuscito di ricostituzione di una sezione comunista in pro-vincia di reggio dopo le leggi speciali di fine 1926. dal 1934, dunque, al 3settembre 1943, quando con lo sbarco delle forze alleate a reggio Calabria(l’operazione “Baytown”) fondamentalmente per il reggino finì la Secondaguerra mondiale, non si riuscì più a impiantare sul territorio alcuna cellula,pur proseguendo, i singoli militanti comunisti, con le azioni di propagandacontro il fascismo.

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82 CPC, b. 3011, f. 76762, cc. 18, 1934-1938 e 1940-1941.83 IvI, b. 3204, f. 76301, cc. 25, 1934-1941.84 IvI, b. 3388, f. 73098, cc. 30, 1934-1941.

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PremessaLa costituzione del Partito Popolare Italiano va inquadrata nell’esigenzadei cattolici e della chiesa di farsi interpreti delle varie richieste sociali edeconomiche delle classi popolari e subalterne – soprattutto alla fine dellaprima guerra mondiale – sulle quali il mondo cattolico aveva sempre eser-citato una certa influenza e che dopo lo sviluppo del Socialismo organiz-zato in partito e dopo la rivoluzione bolscevica nell’ottobre del 1917 inrussia, rischiavano di allontanarsi dall’influenza e dai precetti dell’areacattolica, per seguire la nuova ideologia.La storia del Partito Popolare è strettamente legata alla figura di donLuigi Sturzo1, nel novembre del 1918 si adoperò con le autorità vaticaneper la formazione di un partito nazionale dei cattolici come «forza inno-vatrice, pacifista e popolare».Il 18 gennaio del 1919, la commissione esecutiva del Partito Popolarestilò il primo appello al paese e il testo definitivo del programma. L’appello,firmato da una commissione provvisoria di undici membri che dirigeva ilpartito e che designò don Luigi Sturzo come segretario politico, incomin-ciava con le seguenti parole: «a tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di coope-rare ai fini supremi della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perchétutti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà»2.Insieme all’appello venne presentato anche il programma del Partito indodici punti, con particolare riguardo per la famiglia, l’educazione e la cul-

«L’Azione Popolare», giornale del Partito Popolare Italiano

in Provincia di Reggio Calabria

Domenico Romeo

1 Su Luigi Sturzo cfr. GaBrIeLe De roSa, Luigi Sturzo, Utet, Torino 1977. FraNceSco MaLGerI,Luigi Sturzo, San Paolo, cinisello Balsamo 1993.2 GIULIo De roSSI, Il Partito Popolare Italiano dalle origini al Congresso di Napoli, La nuovacultura editrice, Napoli 1969, p. 54.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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tura, tramite il quale il neo costituito partito tentò di offrire alla gente unanuova via politica rispetto al Liberismo e al Socialismo3. Il primo congressosi tenne a Bologna dal 14 al 18 giugno del 1919 con la partecipazione deirappresentanti di circa 700 sezioni su 850 già costituite e censite in Italia.anche in calabria, all’indomani della grande guerra il Partito Popolareregistrò la costituzione delle prime sezioni4.In provincia di catanzaro l’iniziativa di costituire sezioni e di pubbli-cizzare il programma del Partito Popolare fu presa da don Francesco ca-porale, a cui si affiancò un altro sacerdote, cesare Talarico5.a cosenza e in provincia i sacerdoti carlo De cardona e Luigi Nicolettifurono le figure più rappresentative del Partito Popolare, affiancati da altrireligiosi come il reverendo calistro e don Michele caruso e da vari laici6. Nella provincia di reggio calabria, invece, il Partito Popolare si diffusea opera di laici appartenenti anche all’azione cattolica, di professionisti edi uomini rappresentanti famiglie che per tradizione, prestigio e censo ga-rantivano un’ampia base elettorale. Nell’ottobre del 1919 nella provinciadi reggio calabria risultavano costituite le sezioni di reggio calabria, ca-tona, ardore, Gerace Superiore, Siderno, roccella Jonica, caulonia, GioaTauro; tra il 1920 e il 1925 si erano aggiunte le sezioni di Polistena, ro-sarno, Lubrichi, oppido Mamertina. Nella provincia di reggio il partitoaveva una giunta esecutiva per la diffusione del programma che in data 3ottobre 1919 era composta da Luigi Nunziante di San Ferdinando (presi-dente), Gaetano De Blasi, Domenico Lupis crisafi e arturo Borgese7.Il giornale settimanale “L’Azione Popolare”Molto importante per la diffusione del programma nella provincia reg-gina fu l’organo a stampa dal titolo «L’azione Popolare» (per complemento

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3 IBIDEM, pp. 57-59.4 Sul PPI in calabria cfr. PIeTro BorzoMaTI, Il P.P.I. In Calabria, in «Sociologia», N.S., XXI,1-2-3, 1987, pp. 375-388: FraNceSco MaLGerI, Il Popolarismo in Calabria, in Aspetti e problemidi Storia della Società calabrese nell’età contemporanea, atti del I convegno di Studi, reggiocalabria 1-4 novembre 1975, editori riuniti Meridionali, reggio calabria 1977.5 FraNceSco SPezzaNo, Fascismo e antifascismo in Calabria, Lacaita, Manduria 1975, p.31. Su don caporale cfr.: PIeTro eMIDIo coMMoDaro, Francesco Caporale 1877-1961: pionieredel cattolicesimo sociale in Calabria, Grafiche Simone, catanzaro 2010.6 F. SPezzaNo, Fascismo cit., pp. 29-31. cfr. anche GIovaNNI GaLLINa, Il Partito Popolare aCosenza dal 1919 al 1926 - Cenni sul movimento cattolico in Cosenza dal 1898 al 1919, in«Historica» 4, 1974, pp. 153-167. Sulla figura di don carlo De cardone, cfr. LUIGI INTrIerI,Don Carlo De Cardona, SeI, Torino 1996.7 «L’azione Popolare», 30 ottobre 1919.

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aveva Organo settimanale del Partito Popolare Italiano nella Provincia diReggio Calabria), il cui primo numero uscì a Polistena il 30 ottobre 1919,stampato dalla Tipografia orfanotrofio di S. Giuseppe; direttore respon-sabile era arturo Borgese. Il settimanale usciva ogni sabato, in quattro pa-gine. accanto al titolo era riportato il motto: «con il popolo per l’Italia econ l’Italia per il popolo»8. all’interno il settimanale aveva come rubrichefisse Nostre Corrispondenze e Leggendo ed annotando.Nel 1921, il giornale venne stampato a reggio calabria con la testata«L’azione Popolare» e il complemento di testata Organo Provinciale delPartito Popolare Italiano; gerente responsabile era Salvatore vazzana. al-l’interno vi erano le rubriche Dalla Provincia e In giro per Reggio.Nel 1925, sempre in 4 pagine, sotto la testata il giornale riportava unafrase di Luigi Sturzo: «Le vittorie non sono le nostre, ma dell’idea: le scon-fitte sono nostre e non dell’idea». Direttore responsabile era l’avv. GiovanniItalo Greco. L’abbonamento annuo era di £. 12. Un numero costava 30 cen-tesimi e veniva stampato dalla tipografia del periodico «U chiaccu». In se-conda pagina vi erano le rubriche Vita Calabrese e Cronaca di Reggio; interza pagina la rubrica del clero. Non in tutti i numeri vi erano poi le rubri-che Segnalazioni e La settimana politica. In qualche numero vi era la rubricaForche caudine a cura di Bergerac, pseudonimo di Giovanni Italo Greco.

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8 IBIDEM.

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Il settimanale uscì fino alla fine del 1925, anche se nel corso di quel-l’anno subì vari sequestri, finché il Fascismo né vietò la pubblicazione9.*******Il primo numero de «L’azione Popolare» in prima pagina riportava ilprogramma della giunta esecutiva del PPI della Provincia di reggio, com-posta da Luigi Nunziante di San Ferdinando (presidente), Gaetano De Blasi,Domenico Lupis crisafi e arturo Borgese.Nell’editoriale di presentazione il nuovo giornale scrive:«L’ora che volge non consente vanità di preamboli e troppo necessario è, d’altro canto,lo spazio perché lo si possa concedere allo sterile sforzo delle frasi fatte.Ma noi dobbiamo pur manifestare al pubblico dei lettori la nostra divisa e perciò sen-z’altro diciamo che questo foglio, nella provincia di reggio, è la voce fervida e schietta delpartito Popolare Italiano.esso quindi ha una fede purissima da tener sempre viva nella coscienza degli uominionesti: ed è la fede negli immutabili principi cristiani fondamento e presidio, attraverso itempi, d’ogni società civile: è, insieme, la fede verace nella fatale ascensione della Patriaitaliana a una più sicura ed indipendente grandezza.Senonché - e il monito è antico - la sola fede non basta. ed il nostro giornale ha cosìanche un programma da sostenere, che è precisamente il programma del Partito Popolare.ognuno ne conosce - e altrimenti conoscerà in questo medesimo foglio - i postulati precisi.Quanto di più socialmente umano, quanto di più fervidamente italiano: tutto che insommaoggi è necessario ed urgente al benessere della Nazione, e del Popolo, esso propugna.Invano si cercherebbe di trovarvi l’ombra di un’ambiguità o la maschera di una ipocri-sia: tutte le comode vie del facile tornaconto sono al nostro programma ignote. ed è perquesto che mentre sarà, con la più tenace asprezza, avversato da quanti in questa nostraItalia traggono - cavalieri d’industria - ad empirsi le pance neanche più nitide e a mitriarela viltà neppur essa più inclita: al contrario, da tutti gli uomini liberi e forti, sarà non soloaccolto in tenore di vita, ma validamente difeso ed attuato.a tale Fede adunque, ed a tale Programma il nostro giornale dedicherà le sue giovaniforze e le sue migliori energie.al palpito della bandiera popolare noi ci ripromettiamo di combattere e vincere le piùgagliardi battaglie.. al palpito della bandiera popolare noi vogliamo soprattutto - anche dabuoni calabresi - fare per la nostra terra quello che altri non ha voluto o non ha saputofare: vogliamo compiere il nostro dovere.Dinanzi a noi non vi è una calabria derelitta, desolata, sventurata, mendicante da ses-sant’anni le briciole della mensa nazionale: dinanzi a noi vi è la calabria forte e cosciente; laculla antica delle arti e delle scienze, la moderna eroina delle alpi, del carso e del Piave, che,al compimento dei suoi doveri verso la Patria, richiede il soddisfacimento dei suoi diritti.Noi questi diritti sapremo ben tutelare: e sarà questo per noi il più bel titolo d’onore.ed ora, avanti!a tutti gli amici e a tutti gli avversari, ai colleghi della stampa vada intanto il nostro sa-

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9 Sulla repressione fascista nei confronti della stampa libera, si veda: GIaNcarLo carcaNo,Il fascismo e la stampa: 1922-1925, l’ultima battaglia della Federazione nazionale dellastampa italiana contro il regime, Guanda, Milano, 1984; per gli aspetti calabresi si rinvia aPaNTaLeoNe SerGI, Stampa e fascismo in Calabria: quei giornali morti di regime, «Incontri Me-diterranei», n. 2, 2000, pp. 100-111.

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luto sincero. e vada in ispecie, a questi ultimi, che noi dovremo necessariamente combat-tere, ed ai quali nondimeno possiamo affermare che nessuna intemperanza e nessuna vol-garità troveranno mai nei nostri sistemi di lotta; così come non troveranno nessunatransazione e nessuna debolezza. L.a.P.».altro articolo riguardava la lotta elettorale tra popolari, liberali e so-cialisti in provincia. Un articolo era dedicato all’attività delle sezioni delPPI presenti in provincia: quella di reggio calabria che aveva il direttivocon presidente vincenzo Manti, vicepresidente Nicola Siles e Putortì se-gretario; quella di caulonia e quella di catona costituita il 20 ottobre 1919.Il n. 2 de «L’azione Popolare», uscito il 6 novembre 1919 a Polistena,dava notizia in prima pagina dello scioglimento delle camere, mentre l’al-tro articolo I nostri candidati riportava la scheda dei candidati del P.P.I perle elezioni parlamentari, ossia: Ferdinando Nunziante, antonino arena,Giuseppe Maria cappelleri, Pietro De Nava e Nicola Siles.Fu la sezione del PPI di ardore che aprì la campagna elettorale con ildiscorso tenuto dall’avv. agostino Mittiga. Le elezioni politiche si tennero il 16 novembre 1919 e nel collegio elet-torale della provincia di reggio calabria per la lista del Partito Popolarevennero eletti Ferdinando Nunziante di San Ferdinando con 23.372 voti10

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10 BrUNo PoLIMeNI, Lotte politiche in provincia di Reggio Calabria dal 1861 al 1943, cittàdel Sole edizioni, reggio calabria 2008, p. 123.

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e Giuseppe Maria cappelleri11 di roccella Jonica con 20782 voti.Il n. 4 del settimanale con un articolo in prima pagina esortava le bat-taglie “popolari”, mentre l’altro articolo commemorava il 4 novembre,giorno della ricorrenza della vittoria nella prima guerra mondiale.Il n. 5 del settimanale, uscito il 16 novembre, riportava in prima paginaun articolo di Libero Maioli dal titolo Noi e gli altri, nel quale si faceva ildistinguo tra il P.P.I. e le forze politiche presenti in provincia ossia socialisti,liberali e combattenti.Il n. 6, uscito ancora a Polistena il 30 novembre 1919, riportava l’elencodegli eletti della provincia di reggio calabria alla camera dei Deputati nelcollegio di reggio: De Nava Giuseppe con voti 39.557, albanese Giuseppecon voti 38.665, Filesi Pietro con voti 36.661, Nunziante Ferdinando convoti 23.845, evoli Tiberio con voti 23.669, camiti rocco con voti 21.609,cappelleri Giuseppe con voti 20.658. Quindi si comunicava ai lettori l’aper-tura di una sede del giornale a roma.Il n. 7, uscito il 7 dicembre 1919, conteneva in prima pagina un articolosul problema della libertà d’insegnamento. altro articolo rendeva noto l’at-tività svolta dai parlamentari del P.P.I. Quindi vi era la rubrica Nostre Cor-rispondenze che pubblicizzava la costituzione del circolo di Gioventùcattolico Femminile Sant’Agnese nella parrocchia di Santa Lucia a reggiocalabria. altra notizia riportata riguardava la nomina dei membri del con-siglio direttivo della sezione del P.P.I. di ardore, così composto: GiuseppeBova presidente, Domenico Gallucci, Napoleone romeo, Luigi Frascà, Sa-verio Spanò, enrico romeo, Ferdinando cosentino, vincenzo vilardi, ro-sario chianesi, Salvatore Pelle, tutti consiglieri, mentre segretario politicoera Bruno Puntureri.Il n. 8 del settimanale uscito a Polistena il 14 dicembre 1919, in primapagina riportava un articolo in cui veniva messa in evidenza l’attività delgruppo parlamentare del P.P.I. e le proposte portate avanti dallo stesso.L’editoriale di prima pagina, a firma di F. Meda, si interessava del problemadelle ragazze madri e la ricerca della paternità.Il n. 9, uscito il 20 dicembre 1919, nell’editoriale di prima pagina trat-tava del problema del diritto di sciopero.altro articolo interessante era quello che riportava il programma delP.P.I. reso noto a Molochio dall’avv. Giuseppe Politi, nel quale si esponeval’idea del nuovo partito, l’impegno sui problemi della scuola, della famiglia,delle organizzazioni tra classi sociali, della spartizione dei fondi incolti,del decentramento amministrativo, quindi il programma economico so-

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11 GIUSePPe caLoGero, Storia e cultura della Locride, La Sicilia, Messina 1964.

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ciale del P.P.I. e l’organizzazione e il funzionamento dello stesso.Nel n. 10, uscito il 27 dicembre 1919, in prima pagina oltre all’editorialeche trattava della libertà d’insegnamento, era riportato un articolo sull’at-tività parlamentare del P.P.I. ed un sonetto dedicato al Natale. In secondapagina un articolo era dedicato alla nomina a vescovo della diocesi di op-pido Mamertina di mons. antonio Galati, quindi vi era la rubrica NostreCorrispondenze.Il primo numero del 1921 riportava in prima pagina un articolo chetrattava della questione agraria. In seconda e terza pagina con vari articolisi affrontava il problema della scuola in calabria, mentre la rubrica In giroper Reggio metteva in evidenza i problemi della città.Il n. 21, uscito il 7 maggio 1921, in vista delle elezioni politiche riportavain prima pagina l’elenco dei candidati del PPI che erano: on. anile antonio,on. cappelleri Giuseppe Maria, on. Miceli Picardi Francesco, arena Paquale-professore, Bianco Francesco-avvocato, calauti Francesco-medico, D’Ippo-lito carlo-avvocato, Ferrari Giuseppe Michele-professore, GianturcoMario-avvocato, olivo Domenico-colonnello, rodinò Marino-avvocato, Sa-lomone rocco-avvocato, Sensi Francesco-avvocato, Siles Nicola-industriale,Spizzirri Francesco-avvocato, vulcano Giovanni-avvocato. Un altro articolodal titolo La parole del Pontefice e le elezioni riportava uno stralcio del di-scorso di papa Pio X relativamente alla elezioni, nel quale si legge: «La parola del Pontefice e le elezioni – a tutti i cattolici che domenica 15 maggio do-vranno recarsi alle urne, ricordiamo che il loro dovere è riassunto in modo chiaro e chenon ammette eccezioni, in queste altissime parole pronunziate dal Pontefice Sommo S.S.Pio X il 1906, e che oggi – La civiltà cattolica – riproduce quale monito per tutti i dubbiosi.“Tutti debbono ricordarsi che quando non è in pericolo la religione e lo Stato, è lecito star-sene in ozio. ora quelli che cercano di sconvolgere la religione e la società, agognano sopratutti ad afferrare, se possibile, il governo e farsi eleggere alle camere legislative. a questopericolo dunque è necessario che mettano riparo i cattolici con ogni industria... sforzandosispecialmente a fare riuscire nelle elezioni siano municipali o nazionali coloro che, giustale circostanze di ciascuna elezione, dei tempi e dei luoghi, sembra che meglio debbanoprovvedere, nel loro governo, ai vantaggi della religione e della patria”.cattolici, credenti, italiani oggi chi provvede meglio nei vantaggi della religione e dellapatria è il Partito Popolare. votate i candidati dello Scudo crociato».In seconda pagina un articolo a firma di Bergerac trattava il problemadel divorzio. La terza pagina aveva la rubrica Giornate Popolari nella qualevenivano pubblicizzati tutti gli eventi organizzati dal P.P.I. nei paesi dellaprovincia reggina, precisamente oltre a reggio, ad ardore, a Scilla, a campocalabro, a Siderno Superiore, a roccella, a caulonia, a Gerace Superiore12.

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12 «L’azione Popolare», 7 maggio 1921.

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Tra il 1921 e il 1922 nonostante l’affermarsi del Fascismo, nella pro-vincia reggina il Partito Popolare resistette. Nel circondario di Gerace suoiesponenti di spicco furono oltre al deputato Giuseppe Maria cappelleri,Francesco calauti13 a Siderno, Ilario asciutti14 a caulonia, mons. ettore Mi-gliaccio a Gerace15, Bruno Puntureri ad ardore.Nonostante non siamo riusciti a rintracciare numeri degli anni 1922 e1923, in provincia di reggio calabria il Partito Popolare, come trasparedagli articoli pubblicati su «L’azione Popolare» nel corso del 1924 e, so-prattutto, del 1925, si oppose al Fascismo, subendo alla fine del 1925 lachiusura del giornale.comunque dopo il rapimento e l’uccisione di Giacomo Matteotti anchein provincia di reggio calabria venne costituito un comitato di opposizioneal Fascismo, di cui fece parte il popolare Nicola Siles16. «L’azione Popolare»del 17 agosto 1924 accolse con soddisfazione la costituzione del GruppoUnione Goliardica per la Libertà.Il n. 32 del 24 agosto 1924 dette notizia del divieto imposto al comitatodelle opposizioni reggine di commemorare Giacomo Matteotti.Il n. 33 del giornale, uscito il 31 agosto 1924, criticava la politica truffadel governo fascista nei confronti delle zone terremotate17.Proprio l’aperta opposizione al Fascismo causò il sequestro di alcuni nu-meri del giornale e la sua cessazione. Difatti il n. 1 del 4 gennaio 1925 vennesequestrato in quanto a detta degli organi di polizia incitava all’odio di classe.Il n. 2 uscì l’11 gennaio 1925 sotto la direzione dell’avv. Giovanni ItaloGreco; nell’editoriale di prima pagina dal titolo Augurale oltre a esaltare isette anni di battaglie del giornale, l’articolista scriveva che «Programmae bandiera che furono, come sono, e come indiscutibilmente e rigidamentesaranno la bandiera e il programma del Partito Popolare Italiano».La rubrica di seconda pagina Vita Calabrese conteneva un articolo re-lativo ad alcuni misfatti commessi da ras fascisti di paese. La terza paginaospitava La rubrica del clero dedicata all’attività ecclesiale provinciale. La

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13 Su Francesco calauti cfr. GIUSePPe errIGo, Protagonisti del Novecento Jonico, aGe, ar-dore Marina 1993, pp. 87-97.14 Il barone Ilario asciutti di caulonia fu in corrispondenza con Luigi Sturzo che gli scri-veva dall’esilio di Londra.15 Su mons. ettore Migliaccio cfr. vINceNzo caTaLDo, Mons. Ettore Migliaccio, in CalabriaLetteraria, XLI, 1,2,3, 1993, p. 83; GIUSePPe errIGo, Ettore Migliaccio, in Protagonisti del No-vecento Jonico, vol. II, aGe, ardore Marina 1999, pp. 24-34.16 FerDINaNDo corDova, Il Comitato delle Opposizioni Reggine Aventiniane, in «Historica»,5-6, 1964, pp. 171-183.17 ID., Il Fascismo nel Mezzogiorno: le Calabrie, rubbettino, Soveria Mannelli 2003.

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rubrica Medaglie d’Oro riportava per intero l’ordinanza emessa dal que-store di reggio calabria con la quale era stato disposto il sequestro del n.1 del 1925, che si riporta:«Il questore della città e del circondario di reggio calabria considerato che il giornalesettimanale azione Popolare n. 1 del 4 gennaio corrente edito in questa città contiene inprima pagina l’intestazione colle parole: «e sia: noi suoneremo le nostre campane, BenitoMussolini confessandosi reo, scaglia la sua fazione contro la Patria», e gli articoli col titolo“o popolo d’Italia, aiuta! aiuta!”, “Sotto il cielo del’Urbe”, in seconda pagina “Brianzola”, ein terza pagina “La milizia”, articoli tutti eccitanti all’odio di classe ed alla guerra civile equindi atti a turbare gravemente l’ordine pubblico. visti gli articoli 2 comma B e 4 del r.D.15 luglio 1923 n. 3288; visto l’art. 3 del r.D. Legge 10 luglio 1924 n. 1081; visto la delegadel signor Prefetto ordina il sequestro del giornale settimanale L’azione Popolare n. 1 del4 corrente edito in questa città. reggio calabria 5 gennaio 1925 – Il Questore f.to antonioSalsano – Per copia conforme il commissario P.S. Panetta»18.La prima pagina del n. 3 uscito il 18 gennaio 1925 era tutta dedicataalle opposizioni aventiniane al Fascismo ed al loro Proclama con l’articoloE come un giorno i soldati d’Italia cantarono Monte Grappa tu sei la mia Pa-tria, oggi gli italiani guardano all’Aventino come all’Italia.Nella rubrica Cronaca Letteraria l’articolo Lui contro Egli evidenziava glistrafalcioni di Benito Mussolini nel corso di alcuni discorsi e l’attacco allareligione cristiana nel suo discorso tenuto la sera del 26 marzo 1904 a Lo-sanna in Svizzera e pubblicato con il titolo L’uomo e la divinità dalla Biblio-teca Internazionale di Propaganda razionalista di chene Bourg di Ginevra.L’editoriale del n. 4, uscito il 25 gennaio 1925, dal titolo Ancor oggi noisiamo qui a gridare: Viva il Partito Popolare Italiano, metteva in risalto,esaltandoli, i sei anni de’ L’azione Popolare e delle sue lotte per la libertà.In seconda pagina un articolo invitata a leggere il volume di don LuigiSturzo, Popolarismo e Fascismo. La rubrica La settimana politica contenevaaltro articolo sui sette anni di vita del Partito Popolare, impegnato per lalotta per la libertà in tutti i suoi aspetti.anche i numeri 5 e 6 del giornale vennero sottoposti a sequestro dalleautorità di polizia, con la motivazione che contenevano articoli atti a tur-bare l’ordine pubblico.Il n. 7, uscito il 15 febbraio 1925, in prima pagina dava notizia dei se-questri dei numeri precedenti (5 e 6), riportando come titolo Sapete comerispose Antonio Sciesa: Tirerem Innanz!Quindi venivano riportate le due ordinanze di sequestro del n. 5 del 1febbraio e del n. 6 dell’8 febbraio.

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18 L’Azione Popolare sequestrata, in «L’azione Popolare», l’11 gennaio 1925.

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vi era poi un articolo a firma di riccardo Maldonato su l’opera di Nitti.La rubrica segnalazioni riportava un articolo relativo all’ordine del giornovotato nel consiglio nazionale del PPI e un profilo politico dell’on.le NicolaSiles.Il n. 8, uscito il 21 febbraio 1925, riportava all’interno dell’editoriale laseguente affermazione: «Il partito fascista è e non può essere altrimentidi ciò che è stato: ossia un movimento insurrezionale contro tutti i potericostituiti al solo scopo d’impadronirsene, per uso e consumo di parte».L’editoriale del n. 9 del giornale, uscito il 1° marzo 1925, riportava l’ar-ticolo Il Partito Popolare dovrà prendere le redini del Governo e salvare lanazione. Quindi altro articolo era dedicato alla propaganda e al tessera-mento per l’anno 1925; vi erano poi le rubriche Vita Calabrese e Cronacadi Reggio, nonché Settimana politica.come il n. 6 anche il n. 9 aveva la pubblicità in quarta pagina.Il n. 12 del settimanale, uscito il 22 marzo 1925, nell’editoriale conte-neva l’affermazione di don Sturzo: «Il Popolarismo è sintesi di battagliemorali ed ideali, sociali e politiche, e qualunque persecuzione lo rinvigo-risce perciò e lo risalda». Quindi vi era un articolo sull’episcopato cala-brese. La rubrica L’azione di propaganda riportava un articolo sul convegnoPPI di Napoli e altre notizie relative alla giunta esecutiva provinciale delPPI. L’editoriale di prima pagina del n. 15 del giornale, uscito il 9 aprile1925, insisteva sul tema della libertà a costo del sacrificio della vita, ciòcontro l’avanzata del Fascismo. altro articolo si occupava della protestadelle opposizioni reggine a tutela della libertà di stampa, ormai limitata equasi annullata dal governo fascista.Nel n. 14 l’editoriale si scagliava contro Farinacci e le sue tesi. La rubricaPer l’azione e per la propaganda dedicava spazio alla sezione popolare diLubrichi definita «della vera democrazia cristiana». altri articoli trattavanosempre il problema della libertà sotto qualsiasi forma, in quanto ormai li-mitata e minacciata dal Fascismo.anche il n. 20 uscito il 16 maggio 1925 fu sottoposto a sequestro su or-dine del Prefetto della provincia di reggio calabria, in quanto, a suo avviso,conteneva articoli come “reggio in castigo”, contenenti apprezzamenti ten-denziosi e notizie false atte a turbare l’ordine pubblico.con l’affermarsi del Fascismo e la fine delle libertà democratiche,«L’azione Popolare», come detto, fu costretto a cessare le pubblicazioni afine 1925 e molti esponenti del Partito Popolare furono costretti ad andarein esilio all’estero, tra cui il suo fondatore don Luigi Sturzo.

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Le condizioni economiche della Calabria e le migrazioni interneIl cosentino era tradizionalmente una provincia agricola e al 1942 con-tava 384.654 contadini, di cui 208.835 «lavoratori agricoli», caratterizzatidalla presenza di «famiglie coloniche», «famiglie mezzadrili», «famiglie brac-ciant[ili]», «famiglie salaria[li]», «famiglie […] bosch[ive]» e 175.819 «agri-coltori», suddivisi in «coltivatori diretti», e in proprietari «non coltiv[atori]diretti»1. I punti di forza della sua economia erano la ragguardevole presenzadi boschi, che rivestiva un terzo del totale della «superficie» della provinciae che era tra le più «ricche» d’Italia2, la produzione di fichi, che nella stagionedella loro «lavorazione» abbassava notevolmente la disoccupazione nel ter-ziario3, e la piana di Sibari, verso cui il regime si impegnò a operare una si-gnificativa azione di bonifica per farne un’area di attrazione di nuove forzelavorative. così si scriveva infatti alla fine degli anni trenta in una relazionenon firmata, ma attribuibile al prefetto di cosenza:«Il potenziamento agricolo della provincia è strettamente connesso al completamentodella bonifica di Sibari, la cui piana garantisce straordinarie possibilità produttive ed i cuilavori hanno subito una stasi, nonché alla soluzione del problema silano, mediante la tra-sformazione del sistema di cultura agraria che sfuggendo dal latifondo e promuovendo ilsorgere di case coloniche, ricoveri, silos e strade, determinasse la formazione di piccoleproprietà e di colonie con adeguata attrezzatura […]»4.

I calabresi in Germania e altrove.Un tassello nella storia dell’emigrazione

durante il fascismo

Giovanna D’Amico

1 ArchIvIo dI StAto dI coSeNzA (d’ora in poi AScS), Gabinetto di Prefettura, Fondo Macero,b. 30, relazione del comando della milizia nazionale forestale della coorte di cosenza, mi-nistero dell’Agricoltura e delle Foreste al prefetto di cosenza del 6 ottobre 1942. 2 IBIdem. 3 cfr. ad esempio il prospetto sulla disoccupazione per settore nel cosentino dell’ottobre1938 in cui si annotava che «La diminuzione nella categoria “Aziende commerciali” è dovutaa maggior assorbimento di mano d’opera per la lavorazione stagionale dei fichi secchi»;IvI, b. 102. 4 IvI, b 30, relazione senza data e senza firma, ma con forte probabilità prodotta nel1939.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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Alla fine degli anni trenta, dei 152 comuni che componevano il cosen-tino, 25 erano sprovvisti di acquedotti, 78 di fognature e in 122 mancavanoedifici scolastici; proprio lo stato penoso della rete viaria e dell’ediliziadella provincia incoraggiavano continui cantieri di lavori che rendevanomeno gravosa la strutturale disoccupazione nell’edilizia, la più ingente. Adesempio nel 1938 si prevedevano lavori di costruzione di case popolari esi prospettavano come necessarie la costruzione di un edificio per le scuolemagistrali di cosenza, la sistemazione «igienico-sanitaria» della città e unaristrutturazione della sua cattedrale5. La provincia era pressoché priva di industrie di rilievo, con la gran partedei propri operai impegnati nelle attività considerate artigianali, della pesca,dell’edilizia e della curiosa categoria degli «ausiliari del traffico […]». eccoun prospetto che ne delineava l’articolazione nel 19406:

Il prefetto di cosenza insisteva sovente sulla cronica disoccupazionedegli edili. Per esempio il 5 dicembre 1940 osservava che mentre «La ma-nodopera risulta[va] interamente assorbita nel settore commerciale edagricolo […] per le categorie industriali si registra[va] un aumento di di-soccupazione nel settore edilizio»7.

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5 IvI, relazione senza data sulla situazione economica della provincia di cosenza, macon forte probabilità prodotta nel 1938. 6 La tabella, intitolata I lavoratori dell’industria nella provincia di Cosenza, è tratta da«calabria fascista», 20 aprile 1940. 7 AScS, Gabinetto di Prefettura, Fondo Macero, b. 29.

Addetti all’industria dell’abbigliamento 910A.G.e. 305dell’Alimentazione 889del legno ed ind. Art. 2527della carta e stampa 68della chimica 535dell’edilizia 1240estrattive 340Meccaniche e metallurgiche 714della pesca 1420tessile 128dello spettacolo 122del vetro e ceramica 22delle comunicazioni elettriche 31Ausiliari del traffico e t.v. 1130Autisti 476totale 20867

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8 IBIdem, relazione sulla situazione economica e politica del cosentino del 1939. 9 IvI, b. 102, Prospetti sulla disoccupazione per settore nel cosentino dell’ottobre 1938e del settembre e ottobre 1939. 10 IBIdem, Prospetto sulla disoccupazione per settore nel cosentino del settembre 1939,in AScS, cit. 11 IvI, b. 182, Prospetti sulla disoccupazione per settore nel cosentino del settembre,ottobre e novembre 1940.

In realtà, non vi erano settori immuni dalla disoccupazione, che seb-bene assai acuta nell’edilizia presentava ciclicamente punte significativeanche negli altri comparti ed erano in sostanza i lavori agricoli o commer-ciali stagionali a smussarne le punte. Per esempio, mentre il prefetto si fre-giava del fatto che nell’ottobre del 1939 la disoccupazione agricolaappariva dimezzata rispetto all’anno precedente8 – risultando in quel mesei senza lavoro 2.839, di cui 117 nell’agricoltura (rispetto ai 228 dell’annoprecedente) e 1.871 nell’industria edilizia – a uno sguardo più attento lacontrazione non si era verificata nell’arco della intera annata ma quasi deltutto in un unico mese, poiché ancora nel settembre del 1939 i disoccupatiagricoli erano risultati ben 2579. che cosa era accaduto allora? dall’analisi dei prospetti che rilevanomese per mese la disoccupazione per settore nel cosentino si può arguirela ragione del dimezzamento: già a settembre si era verificata una dimi-nuzione di 632 disoccupati nel settore agricolo «dovuta all’inizio dei lavoridi preparazione del terreno per la semina»10. Inizio che con forte probabi-lità era poi proseguito nel mese successivo producendo una ulteriore di-minuzione dei senza lavoro. Senonché nel corso del 1940 la disoccupa-zione agricola era di nuovo risalita fino a toccare a settembre le punte di301 unità, per poi ridiscendere seccamente nei mesi di novembre e di di-cembre di quello stesso anno11. Nel mondo contadino la piaga della disoccupazione stagionale era fre-quente e per renderla meno gravosa i lavoratori tendevano a spostarsida un luogo all’altro della provincia, tra una provincia e l’altra e addirit-tura in regioni diverse pur di non rimanere senza impiego. tale mobilitàaffondava le proprie radici in tempi relativamente remoti: Piero Bevilac-qua ha sottolineato che nell’ottocento i contadini, tranne che non fosseroproprietari di appezzamenti di terre di medie dimensioni, erano solitiintegrare al lavoro nelle rispettive proprietà mansioni consimili all’in-terno di proprietà altrui, dislocate in zone distanti dalle loro, attraversospostamenti stagionali: nelle pianure del Lazio e prima di tutto nellegrandi aziende agro-pastorali dell’Agro romano erano i pastori e i con-tadini che provenivano dalle colline circostanti, ma soprattutto dalle

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Giovanna d’Amico154montagne delle Marche e dell’Abruzzo a impiegarvi il proprio lavoro sta-gionalmente12. Non diversamente si svolgevano le attività nel tavoliere di Puglia, nellacalabria ionica e tirrenica e in Sicilia: l’agricoltura e la pastorizia eranorese possibili dalle migrazioni stagionali. Soprattutto nell’Italia meridio-nale e in Sicilia vigeva una migrazione agricola strettamente legata allageografia delle produzioni e scandita da regolari e cadenzati calendari13: «La mietitura del grano, ad esempio, nei latifondi del crotonese, in calabria, richiamavatra giugno e luglio migliaia di braccianti agricoli, uomini e donne, che provenivano dallealtre zone della calabria e della Basilicata. A partire dall’autunno erano invece i «paesidell’olio», cioè soprattutto gli sterminati uliveti delle campagne di reggio, a diventare illuogo di raduno di raccoglitori e raccoglitrici, che si mettevano in moto da altre provincedella calabria e della Basilicata, e perfino dalla vicina Sicilia, per restarvi talora sino a gen-naio e febbraio. d’inverno erano ancora la provincia di reggio, ma soprattutto le campagnedella Sicilia, con le loro vaste coltivazioni d’agrumi, concentrate in varia misura in tutte leprovince, ad attrarre popolazione di contadini dai vari villaggi e paesi dell’isola e del Mez-zogiorno continentale, per le lunghe operazioni di raccolta […]»14.Stefano Gallo, dal canto suo, ha messo in rilievo come in quello che hadefinito «il sistema migratorio siciliano», il raggio d’azione delle migrazioniabbracciasse anche la provincia di reggio calabria e parte del crotonese:pare che i calabresi fossero particolarmente richiesti per i lavori di «asse-stamento idrico»15 e che gli «spumatori» messinesi, specializzati nella«raccolta delle essenze degli agrumi», si spostassero annualmente versogli agrumeti siciliani e calabresi16. A cavallo tra l’ottocento e la prima guerra mondiale è poi agli scambicontinui di forza lavoro tra una provincia e l’altra della calabria che biso-gna guardare per capire «il profondo intreccio che si era stabilito tra [lesue] sottoregioni agricole»: «In spazi vicini si erano sviluppate differenti organizzazioni produttive, per cui zonedominate dal latifondo classico si trovavano a breve distanza da altre suddivise in tantepiccole proprietà contadine dedite all’autoconsumo o ancora a piccoli e medi coltivatoridiretti che producevano per la vendita sul mercato: dunque assetti produttivi molto diversi,

12 PIero BevILAcqUA, Società rurale e emigrazione, in PIero BevILAcqUA, ANdreINA de cLe-MeNtI e eMILIo FrANzINA (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, Partenze, donzelli,roma 2001, p. 97. 13 IvI, p. 98. 14 IBIdem. 15 SteFANo GALLo, Senza attraversare le frontiere. Le migrazioni interne dall’Unità a oggi,Laterza, roma-Bari 2012, p. 33. 16 IvI, p. 99.

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I calabresi in Germania e altrove. Un tassello nella storia dell’emigrazione durante il fascismo 155con esigenze e disponibilità di manodopera differenti. ciò dava luogo a continui movimentimigratori, alla mobilità stagionale a corto raggio all’interno della regione o poco fuori, aitrasferimenti verso le città […], alle partenze a lungo raggio […]»17. Su questo sostrato di vecchie consuetudini venne ad impiantarsi iltentativo del fascismo di regolamentare la mobilità degli italiani: dopolunghi «tentennamenti» nell’agosto 1929 fu proibito l’ingaggio privatoin agricoltura. da lì a qualche giorno sarebbe sorta una fitta rete di ufficidi collocamento, consolidatasi poi a metà degli anni trenta. ora le assun-zioni si dovevano svolgere attraverso gli uffici statali: i datori di lavoropotevano scegliere i dipendenti presenti nelle liste di collocamento, purdovendo dare la precedenza «agli iscritti al Partito nazionale fascista eal sindacato»18. L’emigrazione contadina e la «Questione meridionale»Anna treves ha fatto notare che nel ventennio, per reazione alla pro-gressiva chiusura dei tradizionali sbocchi migratori verso l’estero la mo-bilità interna degli italiani si era accresciuta19. È noto, infatti, che a partire dal 1927 gli spazi per espatriare si eranoridotti in maniera significativa. tra il 1916 e il 1942 avevano lasciato lapenisola 4.355.240 italiani, di cui 2.245.660 si erano recati in europa; tut-tavia il 60% si era spostato prima del 1926. La seconda guerra mondialeaveva bloccato quasi del tutto gli spostamenti, con la sola eccezione del-l’emigrazione in Germania20, avviata nel 1938 attraverso accordi specificitra i due paesi per l’impiego degli italiani nell’economia bellica e nell’agri-coltura tedesca. La chiusura degli sbocchi all’estero avrebbe penalizzato in primo luogoi contadini poveri, avvezzi a ricercare fuori d’Italia la possibilità di un la-voro che gli consentisse di vivere dignitosamente: «L’Italia dei contadini, dei poveri diavoli con mezzo ettaro di terra, dei braccianti e deipiccoli proprietari, quell’Italia che da decenni conosceva nell’emigrazione un’alternativaai propri mali non scomparve di sicuro solo perché gli Stati Uniti e gli altri paesi avevanosbarrato le porte. ora rimaneva in Italia una gran massa di gente che, come prima stava

17 IvI, pp. 13-15. 18 IvI, p. 95. 19 ANNA treveS, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, einaudi, torino 1976, p. 113. 20 MAtteo SANFILIPPo, Tipologie dell’emigrazione di massa, in PIero BevILAcqUA, ANdreINA,de cLeMeNtI e eMILIo FrANzINA (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, Partenzecit., p. 80.

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Giovanna d’Amico156male, ma che aveva solidamente acquistato in decenni di esperienza la prospettiva di emi-grare: ed è intuitivo – anche a prescindere da dati e statistiche – che chi non si rassegnavaad una misera esistenza senza nessuna speranza nel proprio villaggio, trovandosi sbarratala via dell’espatrio, tentasse la fortuna altrove in Italia»21. La questione del venir meno di una alternativa tradizionalmente bat-tuta dai contadini assume particolare rilievo nel caso del sud Italia, pre-valentemente agricolo, e quindi anche dei calabresi, che avevanoconosciuto spostamenti massivi oltreoceano, in particolare tra l’ultimotorno dell’ottocento e lo scoppio della I guerra mondiale, per lo più incerca di una sistemazione definitiva. dal 1876 al 1915 ne erano emigrati885.000, dei quali particolarmente dinamici si erano mostrati i cosentini.Fino alla fine del secolo molto meno propensi a spostarsi erano stati invecei reggini, mentre i catanzaresi si erano collocati in una posizione mediana,benché tra il 1892 e il 1902 sarebbero balzati ai «vertici della graduatoria»con 8.449 emigrazioni annuali22. Fino alla fine del XIX secolo la meta prio-ritaria dei calabresi era stata l’America latina, con in testa l’Argentina, se-guita dal Brasile; a partire dal Novecento la preferenza sarebbe andatainvece al Nord America. A emigrare erano prevalentemente artigiani, agricoltori e addetti ai la-vori nei campi, benché non si trattasse del bracciantato più povero, ma dicoloro cui era possibile procacciarsi i mezzi per pagare il biglietto perl’espatrio: costoro si spostavano prevalentemente dalle zone di collina eda quelle malariche della pianura. come per il resto degli italiani, con il fa-scismo gli espatri si sarebbero ridimensionati anche per i calabresi: nel1920 ne erano emigrati 50.672 nei paesi transoceanici e 994 in europa,con la provincia di cosenza che, come sempre, si mostrava particolarmentemobile. e a partire continuavano ad essere i contadini poveri23. Per avere unaidea dell’andamento di questi espatri, suddivisi per provincia, nel corsodegli anni venti si osservi la tabella 124. Le cifre dei partenti erano nettamente calate rispetto ai 47.000 espatri

21 A. treveS, Le migrazioni interne nell’Italia fascista cit., p. 113. 22 GIUSePPe MASI, La Calabria e l’emigrazione: un secolo di partenze (1876-1976), in vit-torio cappelli, Giuseppe Masi, Pantaleone Sergi (a cura di), Calabria migrante. Un secolo dipartenze verso altri mondi e nuovi destini, centro di ricerca sulle migrazioni, IScAIc, Arca-vacata di rende 2013, pp. 15-16. ringrazio Pantaleone Sergi per avermi segnalato gli scrittidi Giuseppe Masi, Saverio di Bella e Gianfausto rosoli, alcuni dei quali citerò più avanti. 23 IvI, pp. 17-21. 24 IvI, pp. 20-21. I totali parziali sono miei.

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l’anno che si erano manifestati tra il 1909 e il 191325, soprattutto dopo il1927 e particolarmente sul versante delle emigrazioni transoceaniche.Il problema storiografico è capire quali sbocchi si potessero ora aprireai contadini cui veniva impedito di lasciare il paese. Gianfausto rosoli haparlato di una vero e proprio inasprimento della «questione meridionale»e ha fatto notare che un primo canale di difesa era stato trovato nell’espe-diente di emigrare clandestinamente: con la «complicità» delle «autoritàcomunali» si sarebbe favorita«la partenza abusiva dei lavoratori agricoli senza il preventivo nulla osta (circa 3.000 perla sola provincia di catanzaro). L’esodo, nonostante il minuzioso apparato di polizia,[avrebbe interessato] numerosi centri della provincia, in special modo di montagna e dialta collina, ma […] spesso [con] deludenti risultati […e] con il rimpatrio degli indigenti»26. Sulla questione è tornato Giuseppe Masi asserendo che consegnandoai braccianti agricoli «una nuova carta d’identità» e «il relativo libretto di

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25 Gianfausto rosoli, Cento anni di emigrazione calabrese. Profilo quantitativo dei flussimigratori calabresi all’estero tra ’800 e ’900, in AUGUSto PLAcANIcA (a cura di), Storia dellaCalabria moderna e contemporanea, II, età presente – Approfondimenti, Gangemi, reggiocalabria 1997, p. 209.26 IvI, p. 216.

157Paesi europei Paesi transoceaniciAnni catanzaro cosenza reggio cal. catanzaro cosenza reggio cal. totale

1919 153 377 351 1.049 5.711 2.518 9.2781920 95 449 450 15.831 21.547 13.294 50.6721921 46 120 74 5.649 8.027 3.121 16.7971922 78 91 189 5.608 7.904 4.688 18.2001923 128 136 344 7.574 9.462 5.470 22.5061924 189 193 1.231 5.053 6.737 4.332 16.1221925 163 116 1.747 5.169 6.830 4.125 16.1241926 360 116 1.557 6.234 8.948 5.684 20.8661927 70 67 597 5.574 8.458 5.688 19.7201928 62 79 426 2.726 3.982 2.461 9.1691929 51 34 302 3.338 3.982 2.461 9.7811930 49 43 618 2.505 3.309 2.106 7.116Tab. 1 - Espatri dalla Calabria per provincia (1919-1930). Fonte: Istat

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lavoro nei quali i prestatori d’opera […] ricevevano la qualifica di badilanti,minatori o terrazzieri dell’industria» gli impiegati producevano un vero eproprio «falso in atto pubblico». Il fenomeno sarebbe cominciato già nel1931 e si sa che nel 1942 contadini reggini si erano trasferiti «abusiva-mente» nel novarese27. La strategia era quella di spostarsi al Nord, sfrut-tando la possibilità di lavorare come operai, tanto che si è parlato di unaprogressiva meridionalizzazione delle migrazioni interne proprio a partiredal fascismo28, quando gli spostamenti nord-sud cominciarono ad assu-mere contorni significativi, benché il processo abbia iniziato a profilarsigià a partire da fine ottocento29. Secondo Masi l’espediente di trasferirsi a roma o nel Nord Italia diven-tava così per i contadini un rimedio agli interventi del regime, consideratifallimentari: da quelli relativi alle bonifiche delle zone di S. eufemia, ro-sarno, Sibari, val del Neto, alla emigrazione dei calabresi nelle colonie, op-pure anche in Germania. Frattanto le migrazioni interne si eranoaccresciute raggiungendo una media di 10.000 spostamenti annui, sia perlavori agricoli, sia per lavori industriali30. Uno studio a tutto tondo sugli spostamenti interni alla calabria duranteil ventennio non è stato ancora fatto e mancano quindi i parametri per va-lutare quale sia stata la direzione effettiva delle migrazioni contadine eoperaie, se verso Nord (e in che misura) o se prevalentemente – come sisostiene – tra comune e comune della stessa provincia31. Manca anche lapossibilità di misurare su studi concreti quanti contadini abbiano effetti-vamente cambiato mestiere per sfuggire alla disoccupazione e quanto que-sto abbia avuto un effetto di lunga durata. Franco ramella ha fatto notareche durante il ventennio i trasferimenti urbani e verso il Nord sono stati

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27 GIUSePPe MASI, movimenti migratori in Calabria nel periodo fascista, in «Storia con-temporanea», 1, 1986, pp. 69-70. 28 A farlo notare è stata per prima ANNA treveS nel suo Le migrazioni interne nell’Italiafascista cit., p. 27. 29 Si era trattato, peraltro, di un processo che coinvolgeva l’intera europa, quando conl’estendersi degli influssi della rivoluzione industriale per tutto il continente le traiettoriedelle migrazioni precedenti si erano rimodulate topograficamente assumendo le direzionisud-nord ed est-ovest; cfr. in proposito KLAUS BAde, europa in Bewegung- migration vomspäten 18. Jahrhundert bis zur Gegenwart, c. h. Beck, Mӵnchen 2000, p. 69. relativamenteal flusso interno all’Italia cfr. S. GALLo, Senza attraversare le frontiere cit., pp. 71-74. 30 G. MASI, movimenti migratori in Calabria nel periodo fascista cit., pp. 23-24. 31 A quanto mi consta l’unico tentativo in questa direzione è quello di SAverIo dI BeLLA,demografia ed emigrazione in Calabria durante il fascismo: Vibo Valentia 1919-1945: Pro-blemi e appunti per una ricerca, in Aspetti e problemi di storia della società calabrese nell’etàcontemporanea, editori Meridionali riuniti, reggio calabria, 1977, pp. 565-584, limitatoperò a vibo valentia per gli anni che vanno dal 1928 al 1945.

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improntati alla logica di occupazioni saltuarie e quindi a spostamenti ro-tatori: in altre parole, la precarietà a quei tempi del lavoro industriale nonconsentiva il passaggio duraturo da un mestiere all’altro, ma solo un mu-tamento temporaneo che diventava integrativo al lavoro agricolo che sisvolgeva abitualmente nella propria dimora; quindi, in definitiva, si conti-nuava a pendolare32. valeva questo anche per i calabresi? Una analisi puntuale delle dinamiche micro e macro-storiche dei flussimigratori dei calabresi sotto il fascismo richiederebbe la presenza di studirelativamente al loro spostamento per lavoro nelle colonie africane, in Al-bania e verso la Germania di hitler33. Purtroppo il quadro delle ricerche èdeficitario nel merito34. È possibile che tali nuovi spostamenti, soprattuttoquello verso la Germania, abbiano lasciato tracce durature nei modelli mi-gratori e che proprio a partire dal nazismo l’emigrazione dei meridionalisi sia «germanizzata»35. L’emigrazione in GermaniaNonostante l’importanza della emigrazione degli italiani in Germania– basti pensare che nel 2000 vi si concentrava la gran parte dei 2.840281dislocati in europa, che a loro volta rappresentavano la maggioranza dei3.840.281 sparsi nel mondo36 – sono pochi gli studi che vi si sono dedicati.Alla fine degli anni Novanta rené del Fabbro faceva notare che l’opera piùesaustiva sulla mobilità degli italiani all’estero, quella di ercole Sori, nonaveva utilizzato «neppur un lavoro» relativo alla Germania37. Il quasi as-

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32 FrANco rAMeLLA, Le migrazioni interne. Itinerari geografici e percorsi sociali, in PAoLAcortI, MAtteo SANFILIPPo (cura di), vol. 24, migrazioni, einaudi, torino 2009, pp. 432-433.33 A quanto mi consta, e ringrazio Nicola Labanca per la segnalazione, l’unico lavoro direspiro nazionale allo stato esistente pur se non ancora esaustivo sulla migrazione per la-voro degli italiani in Africa orientale è quello di GIAN LUcA PodeStà, Il mito dell’impero: eco-nomia, politica e lavoro nelle colonie italiane dell’Africa orientale, 1898-1941, Giappichelli,torino 2004. 34 Sull’emigrazione degli italiani nel terzo reich cfr. i lavori fondamentali di BrUNeLLoMANteLLI, «Camerati del lavoro». I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periododell’asse 1938-1943, La Nuova Italia, Firenze 1992, e ceSAre BerMANI, Al lavoro nella Germa-nia di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945, Bollati Boringhieri,torino 1998. 35 A propendere per una ipotesi di rottura tra le due fasi sembra essere invece roBertoSALA, L’emigrazione italiana in europa dal boom economico alla fine dei grandi flussi, in PAoLAcortI, MAtteo SANFILIPPo (a cura di), vol. 24, migrazioni cit., pp. 410-420. 36 cfr. in proposito MAtteo SANFILIPPo, Tipologie dell’emigrazione di massa cit., p. 77.

37 reNé deL FABBro, Transalpini. Italienische Arbeitswanderung nach Sӵddeutschland im

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soluto silenzio sul tema colpisce ancora di più per gli anni venti, poichéper questa fase e in merito ad altri luoghi di approdo si contano numeroseopere: in tutto 2.59038. Il silenzio è spiegabile da un lato con lo scarso nu-mero di flussi relativo agli anni che vanno dal 1920 alla metà degli annitrenta: si è scritto infatti che alla fine del secondo conflitto mondiale sitrovavano in Germania 200.000 italiani39, mentre tra il 1917 e il 1918 vene erano ancora tra i 10.000 e i 14.000; nel 1916 ne emigrarono 12, nel1917 e nel 1918 nessuno: a rimanere nel reich fino all’epilogo del conflittosembrano essere state in tutto 20.000 persone. Al 1925 il loro numero sa-rebbe risalito a 24.00040 e nel 1933 sceso a 22.47041. eppure studiare chiè rimasto, oltre che chi è partito aiuterebbe a entrare a fondo nella morfo-logia di quella emigrazione e a misurarne le istanze di lungo periodo: chenesso c’era tra gli spostamenti in età guglielmina, quelli durante il venten-nio e i flussi successivi? e che ruolo vi avevano i meridionali? Perché se èvero che a emigrare in Germania furono prima del tornante del 1938 so-prattutto settentrionali, particolarmente veneti42 – una statistica del 1911«registra[va] insieme a 71 […] siciliani, solamente 23 calabresi […]» – pure,in un’ottica microanalitica, sarebbe interessante capire chi fossero questepersone e se e cosa avessero lasciato dietro di loro. Gli spostamenti degliitaliani in terra tedesca intervenuti tra il 1938-1943 vengono in secondoluogo letti erroneamente come «forzati»43, qualcosa di diverso rispetto aiflussi ritenuti spontanei che a lungo si erano diretti verso europa ed ol-treaoceano. Il sud deve avere contribuito in maniera significativa a rendere consi-stente l’emigrazione in Germania a partire almeno dal 1940, se si consi-

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Kaiserreich 1870-1918, Universitätsverlag rasch, osnabrӵck 1996, pp. 15-16. Il riferimentoera a ercoLe SorI, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Il Mulino,Bologna 1979.38 cfr. in proposito João FáBIo BertoNhA, Fascismo, antifascismo e gli italiani all’estero.Bibliografia orientativa 1922-2015, edizioni Sette città, viterbo (in corso di stampa). rin-grazio Matteo Sanfilippo di avermi trasmesso il testo in anteprima. Sul tema degli italianiemigrati all’estero durante il ventennio cfr. quali importanti sintesi storiografiche ancheMAtteo SANFILIPPo, eMILIo FrANzINA (a cura di), Il fascismo e gli emigrati. La parabola dei fasciitaliani all’estero, Laterza, roma-Bari 2003 e MAtteo PreteLLI, Il fascismo e gli italiani al-l’estero, clueb, Bologna 2010. 39 r. deL FABBro, Transalpini cit., p. 9. 40 Ivi, p. 251. 41 cLAUdIA BALdoLI, Un fallimento del fascismo all’estero. La costruzione delle piccole Italienella Germania nazista, in «Italia contemporanea», 235, 2004, p. 221. 42 cfr. in proposito reNé deL FABBro, Transalpini cit., pp. 27-46. 43 vedi in questo senso la lettura di cLAUdIA BALdoLI, Un fallimento del fascismo all’esterocit., p. 221.

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dera che stando ai riscontri documentari finora rinvenuti dalla sola Siciliasi erano spostate oltre 15.000 persone, cifra che dovrà essere ulterior-mente precisata44. Anche il flusso dei calabresi, pur se più contenuto, sem-bra essere stato discreto. In una relazione del settembre 1940 il prefettodi cosenza osservava che «la disoccupazione operaia [andava] alquantoattenuandosi a seguito della partenza di numerosi lavoratori per la Ger-mania e l’Albania»45. effettivamente, il 30 agosto precedente «calabria fa-scista» aveva titolato un suo articolo La partenza di 200 lavoratori per laGermania: «La settimana scorsa hanno lasciato la nostra città diretti in Germania duecento lavo-ratori della nostra provincia. Alla partenza dei lavoratori ha assistito una folla numerosadi camicie nere che ha tributato ai partenti calorose manifestazioni di simpatie. Il vice fe-derale reggente ed il dirigente dell’Unione dei lavoratori dell’industria hanno rivolto ai la-voratori cameratesche parole di saluto e di augurio. Ai lavoratori a cura della Federazionedei Fasci femminili sono stati distribuiti pacchi-dono e sigarette. Alla partenza del treno ilavoratori hanno improvvisato una entusiastica manifestazione al duce alla quale si è as-sociata la folla che gremiva il piazzale della stazione»46. Al settembre successivo la cifra era già salita a 38647. I primi calabresia partire erano stati però i reggini, nel numero di 100, il 16 agosto di quellostesso anno: «Alle ore 12 di ieri sono convenuti a casa Littoria i cento operai reggini prescelti perun periodo di lavoro in terra tedesca, in conseguenza degli scambi di mano d’opera che sieffettuano tra l’Italia e la Germania […]. I lavoratori, magnifica espressione della nostreforze del lavoro, erano ricevuti dai camerati della Federazione dei Fasci ed ammessi nellaPalestra della Gioventù Italiana del Littorio, dove si disponevano su tre colonne affian-cate»48. Se a questi si aggiungono gli ulteriori 250 operai della provincia «partitiper l’Albania» il 6 settembre e «appartenenti alle varie categorie dell’in-

I calabresi in Germania e altrove. Un tassello nella storia dell’emigrazione durante il fascismo

44 Si tratta di una cifra che si attesta su numeri minimi, se si considera che i dati fannoquasi esclusivo riferimento al 1940 e alla prima metà del 1941, poiché le notizie sul 1942e sul 1943 sono allo stato assai scarne, mentre non sembra ci sia stata emigrazione nel1938 e nel 1939. Il fenomeno è quindi sicuramente più consistente. Mi permetto in propo-sito di citare il mio recente saggio, dal titolo Siciliani nel Terzo Reich, in corrAdINA PoLto (acura di), echi dalla Sicilia, Pàtron, Bologna 2015, pp. 142-155. 45 AScS, Gabinetto di Prefettura, Fondo Macero, b 29. 46 «calabria fascista», 30 agosto 1940. 47 B. MANteLLI, «Camerati del lavoro» cit., p. 179. 48 Partenza per la Germania di 100 operai reggini, in «calabria fascista», 17 agosto 1940.Mantelli, nel suo «Camerati del lavoro» cit., p. 179, ha restituito la cifra di 95 reggini presentiin Germania al settembre 1940.

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dustria»49, oltre che i 7 calabresi andati in Germania un paio di giorniprima e di cui «Il Giornale d’Italia» forniva nomi e cognomi, pur tacendoneil luogo di provenienza50, si giunge a una cifra di 743 partenze, e ciò senzaconsiderare altri possibili espatri interni all’impero, o per l’Albania o laGermania di cui non siamo a conoscenza. Nonostante dal cosentino fossero partiti quell’anno i contingenti piùnumerosi per il reich, il prefetto di cosenza non mancava presto di lamen-tare che la disoccupazione nel settore edilizio si era accresciuta e il 5 gen-naio del 1941 chiariva che essa «presenta[va] gli stessi dati del meseprecedente salvo un lieve aumento nel settore industriale edilizio dovutoalla stasi nelle costruzioni specie d’iniziativa privata»51, segno che gli espa-tri non erano in quella fase ancora in grado di far rientrare del tutto la di-soccupazione stagionale, soprattutto edile, nel cosentino. e in effetti alfebbraio del 1941 i senza lavoro nell’edilizia risultavano essere ben2.69652, benché da lì all’estate la situazione sarebbe sostanzialmente cam-biata, per l’invio massiccio di operai in Germania e per l’emigrazione perla prima volta anche di contadini calabresi. Nel 1941 furono 228.563 italiani a partire, di cui 174.052 erano operaiindustriali: nel 1940 la Germania aveva richiesto che dalla penisola par-tisse un contingente molto corposo, innanzitutto per l’approssimarsi della«operazione Barbarossa», che richiedeva un ingente numero di operai dasostituire alla manodopera tedesca in partenza per il fronte; un ulterioremotivo che in seguito sarebbe emerso erano le cattive prove date dall’Italianella guerra parallela53. Già il 2 febbraio «La Gazzetta», «quotidiano fascista della Sicilia e dellacalabria», in un articolo dal titolo Reclutamento di operai per la Germaniaannunciava che era in atto«un reclutamento avente larga scala di lavoratori dell’industria da trasferire in Germania.tale reclutamento, per le superiori ragioni di interesse nazionale che lo determina[vano],acquista[va] […] una eccezionale importanza. La […] provincia [di Reggio Calabria], che[aveva] già inviato in Germania alcuni nuclei di lavoratori, i quali [avevano] dato e [davano]

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49 Partenza di operai per l’Albania, in «Il Giornale d’Italia», 6 settembre 1940. 50 Partenza di operai per la Germania, in «Il Giornale d’Italia», 4 settembre 1940. I nomierano quelli di Santo Scramuzzo di Gennaro, Francesco Marzullo fu Salvatore, vincenzoMorrone di Salvatore, Salvatore Marzullo di Saverio, cosmo rizzo di Salvatore, GiuseppeAmoroso di Francesco, Umberto Barca di Salvatore. 51 AScS, Gabinetto di Prefettura, Fondo Macero, b. 29, relazione prefettizia sulla situa-zione economica e politica del 5 dicembre 1940, cit. e del 5 gennaio 1941.52 IvI, b. 182, Prospetto sulla disoccupazione nel cosentino per il febbraio del 1941. 53 B. MANteLLI, «Camerati del lavoro» cit., p. 33 e pp. 260-261.

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prova di operosità e disciplina, [avrebbe concorso] anche questa volta, con rilevante numerodi operai»54. effettivamente, il 27 marzo sarebbero partite per la Germania «tre cen-turie di lavoratori» dal reggino, il primo scaglione dell’anno a lasciare laprovincia55. Il 15 e il 16 aprile era la volta di ulteriori «500 lavoratori del-l’industria», che costituivano «il 3° e il 4°» contingente di operai scelti «trale categorie dei falegnami, carpentieri, ferraiuoli e manovali»: «Altri contingenti [erano] in via di reclutamento. Al momento della partenza i lavoratoriperfettamente equipaggiati e divisi tra centurie e in squadre [erano] stati adunati alla pre-senza del Segretario Federale e del rappresentante confederale camerata Franco Mancuso.Il Segretario dell’Unione [aveva] ricordato ai lavoratori partenti la alta funzione che essi[erano] chiamati a compiere nell’attuale momento decisivo per il definitivo assetto socialedell’intera europa […]»56. Più o meno contemporaneamente dal cosentino e dal catanzarese par-tivano rispettivamente 600 operai57, di cui si ignora la qualifica, e 400 mi-natori58: «Il Giornale d’Italia» non mancava di annunciare infatti che: «Ieriè partito alla volta della Germania un primo scaglione di seicento operaireclutati nella nostra provincia [quella di Cosenza] dall’Unione ProvincialeFascista dei Lavoratori dell’Industria»59. Al 25 aprile 1941 i minatori italiani in Germania erano 12.996 e ben10.080 erano stati selezionati nel marzo precedente; il problema maggioreconsisteva nella carenza di specialisti tra di loro, poiché spesso si trattavadi cavatori; all’interno di un campione di 55 lavoratori Brunello Mantelliha rinvenuto la presenza di «un fabbro, uno scalpellino, un battelliere, unbracciante agricolo, financo un cameriere, otto muratori, un vetraio, un fa-legname, un meccanico, un operaio metallurgico, uno stradino […]». L’im-piego di queste persone nel reich assumeva particolare rilievo nel casodei meridionali perché a quanto pare «il reclutamento per la ruhr [avevaavuto] successo solo nel [sud] […]»: così a partire dal 26 marzo si eranodiretti in Germania 538 lavoratori del foggese, 2.200 agrigentini [e] mina-

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54 «La Gazzetta», 2 febbraio 1941. 55 cfr. Festosa partenza per la Germania di 300 operai dell’industria, IvI, 28 marzo 1941.56 500 lavoratori dell’industria trasferiti in Germania. Il saluto del Segretario Federale edel Rappresentante della Confederazione, in IvI, 17 aprile 1941. 57 cfr. l’articolo Seicento operai cosentini sono partiti per la Germania, in «calabria fa-scista», 16 aprile 1941. 58 Il riferimento ai catanzaresi partiti per la Germania è ne «Il Giornale d’Italia», in unarticolo dal titolo 400 minatori di Catanzaro, 16 aprile 1941. 59 Partenza di operai del Cosentino, in «Il Giornale d’Italia», 17 aprile 1941.

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tori provenienti dal palermitano, dal messinese, dal trapanese, dall’ennese,dal catanese, dal siracusano, dal ragusano e ancora dalle province di co-senza, di catanzaro e di reggio, per citare solo alcune delle località coin-volte dal reclutamento. La mappa dei luoghi di origine vedeva in ogni caso«la netta prevalenza del Sud». Il lavoro era pesante e spesso i meridionali si trovavano impreparati adaffrontarlo, tant’è che «quasi immediatamente» sarebbero sorti problemie la Bezirksgruppe Steinkohlenbergbau – Ruhr (SKBBr, gruppo distrettualeminiere di carbone della ruhr) avrebbe preso «una posizione dura invi-tando i direttori delle miniere a denunciare subito gli operai riottosi allaGestapo di dӵsseldorf, che [avrebbe provveduto] ad infliggere loro qualchesettimana di detenzione». Il 14 marzo la Gestapo di dӵsseldorf aveva per esempio arrestato M. P.,proveniente da Bisceglie e occupato a essen. questi faceva parte di ungruppo di 15 lavoratori di cui alcuni originari di Bari e altri della provinciadi reggio calabria60«che [si erano rifiutati] di scendere nei pozzi dichiarando francamente di aver paura;l’azienda [li avrebbe sottoposti] a visita medica [imponendo] ai dichiarati idonei di lavorarein galleria. Sette [avrebbero persistito] nel rifiuto [e sarebbero stati] incarcerati […]. vistala situazione, gli operai [si sarebbero piegati] al diktat […e] messi in libertà. e’ pressochécerto che nessuno di loro aveva mai visto una miniera di carbone»61. A maggio lasciavano il cosentino e il catanzarese per la prima voltaanche lavoratori destinati a essere impiegati come agricoltori nel reich:si trattava nel primo caso di 200 persone e nell’altro di ben 500 unità62,oltre che di una vera e propria novità per il sud Italia – se si fa eccezioneper il barese – poiché negli anni precedenti sembrano non essere stati in-gaggiati lavoratori dal meridione63. La ragione dell’esclusione stava precipuamente nel fatto che gli italianivenivano impiegati «nelle colture industriali: bietole, fibre tessili, orzo, se-gale, patate e per la mietitura e trebbiatura del grano». «e si trattava di untipo di colture prevalenti nell’Italia settentrionale», ciò che chiariva l’esclu-

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60 B. MANteLLI, «Camerati del lavoro» cit., pp. 287-319. 61 IvI, p. 315. 62 cfr. gli articoli La partenza da Cosenza di 300 rurali per la Germania, in «Il Giornaled’Italia», 2 maggio 1941, Il saluto del Federale ai rurali in partenza per la Germania, in «ca-labria fascista», 3 maggio 1941 e Il Prefetto e il Federale di Catanzaro salutano i lavoratoriin partenza per la Germania, in «Il Giornale d’Italia», 22 maggio 1941. 63 Sulla questione rimando al mio Lavoratori siciliani nel Terzo Reich cit., pp. 145-147 eai contingenti per le province d’Italia degli anni 1938 e 1939 rinvenuti da MANteLLI nel suo«Camerati del lavoro» cit., pp. 89-104.

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sione dal reclutamento dei meridionali64. I calabresi provenienti dalla pro-vincia di catanzaro impiegati come agricoltori nel reich erano stati almeno1.01065. La ragione della svolta va inquadrata nelle complesse trattative che sitennero a roma dal 17 al 23 gennaio 1941 quando i tedeschi chiesero al-l’Italia ulteriori «60.000 braccianti, di cui 50.000 stagionali e 10.000 concontratto annuale» per il progressivo esaurirsi delle proprie riserve dibraccia e il persistente bisogno di agricoltori. Fu in quel contesto di impel-lente necessità che l’Italia volle «estendere anche ad altre province il re-clutamento della manodopera», dando così sfogo al dilagante disagio deicontadini del Sud Italia, che con l’ingresso del paese nella guerra si eranovista serrata anche la porta (stretta) della Libia66. L’emigrazione nelle colonie Sebbene il reclutamento di famiglie coloniche per la Libia avrebbe do-vuto in origine essere appannaggio dei meridionali, nei fatti finì col coin-volgere molto più le regioni del settentrione, soprattutto per l’alto tassodi disoccupazione presente in val Padana, in particolare in alcune aree delveneto, e per l’essere quelle zone «tradizionalmente irrequiete e propenseal socialismo»67: «nel dibattito sulla colonizzazione metropolitana in Libia si era affermata l’idea che icontadini meridionali fossero i più adatti sia per le loro capacità e conoscenze specifiche(il tipo di agricoltura da sviluppare era simile a quella di molte regioni dell’Italia meridio-nale e insulare), sia per le loro abitudini climatiche. da queste premesse era derivato il po-polamento dei primi villaggi della cirenaica: a Berta le circa 80 famiglie dei coloni, percomplessive 500 persone, che vi risiedevano nel 1937 erano venute tutte dalla Sicilia […].Infine le 80 famiglie di Privara/razza (627 persone) erano giunte dagli Abruzzi e dalla ca-labria»68. dei ventimila coloni pronti a lasciare l’Italia per la «quarta sponda» allafine di ottobre del 1938 ora i calabresi rappresentavano invece un contin-

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64 G. d’AMIco, Lavoratori siciliani nel Terzo Reich cit., p. 147. 65 I cosentini, per l’esattezza 204; cfr. B. MANteLLI, «Camerati del lavoro» cit., p. 148. 66 Sull’ipotesi di un qualche nesso tra l’erompere delle richieste di contadini meridionali(non solo calabresi) di poter essere impiegati nel reich e la chiusura del reclutamento inLibia rimando al mio Lavoratori siciliani nel Terzo Reich cit., pp. 147-148. 67 FederIco creStI, Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana in Libia, ca-rocci, roma 2011, p. 189. 68 IvI, p. 188.

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gente relativamente piccolo: 136 erano i cosentini, 230 i catanzaresi e 128i reggini69. In un articolo intitolato Le famiglie rurali che andranno in Libia,il 22 ottobre di quell’anno «calabria fascista» si fornivano addirittura legeneralità dei capifamiglia partiti dalla provincia di cosenza. Invece, nella seconda ondata di immigrazione, nel 1939, tra gli 11.000componenti i partenti per la Libia, quasi tutti ripartiti tra la tripolitania ela cirenaica, i meridionali furono un numero maggiore, pur conservandoil Nord «una predominanza assoluta». Ma dei catanzaresi ne emigraronosolo 217 – un numero più basso rispetto all’anno precedente70 – mentrenon sono stati rinvenuti dati sui reggini e sui cosentini. Si trattava certamente di cifre piccole e Klaus Bade ha osservato – conqualche ragione – che la politica coloniale fascista era stata «un fiasco» es-sendo stati trasferiti al 1930 nelle colonie solo 50-60.000 italiani, concen-trati soprattutto a tripoli e Bengasi. Negli anni trenta la migrazionecoloniale era salita a 400.000 unità, ma con rientri rilevanti: alla fine deglianni trenta sarebbero rimasti nella quarta sponda non più di 80.000 ita-liani, mentre nell’AoI la cifra era scesa a 60.00071. Non disponiamo della distribuzione annuale degli operai calabresi inAfrica orientale ma sappiamo che al 1937 erano articolati come in tab. 272.

Nel 1938 nel cosentino ve ne erano ancora 90373, mentre per il 1940 è

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69 IBIdem. Nelle diverse fonti consultate i dati però non sono strettamente coincidenti;per esempio in una relazione probabilmente risalente al 1938 sulla situazione economicae politica nel cosentino, in AScS, cit., si asseriva che i contadini partiti dal cosentino erano150, mentre i 128 reggini coincidevano perfettamente in un articolo dal titolo Le 1800 fa-miglie contadine pronte a partire per la Libia, del 26 ottobre 1938, pubblicato su «La Gaz-zetta». cfr. il mio Lavoratori siciliani nel Terzo Reich cit., p. 147. 70 IvI, pp. 208 e 317. 71 K. BAde, europa in Bewegung cit., p. 261. 72 G. MASI, movimenti migratori in Calabria nel periodo fascista cit., p. 85. 73 AScS, Gabinetto di Prefettura, Fondo Macero, b.184, relazione sulla situazione eco-nomia e politica del cosentino databile al 1938, cit.

Provincia operai emigrati operai rimpatriati operai deceduticatanzaro 2.943 2.267 19cosenza 1.319 1.308 12reggio calabria 4.151 3.132 24calabria 8.413 6.707 55Tab. 2 - Espatri dalla Calabria per provincia (1919-1930). Fonte: Istat

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possibile solo operare ricognizioni di massima, ricavabili dalle quantitàdei vaglia spediti dagli operai alle famiglie: al 14 gennaio del 1940 ne eranostati mandati 1.384, nel mese di febbraio 1.437, a maggio tra i 1.958 e i2.130, a giugno 1.290, ad agosto 1.033, a settembre 1.10374. Contadini o operai?Se si parte dal presupposto che le statistiche sulla disoccupazione con-tadina non rendono conto della consistenza effettiva dei senza lavoro –posto che tra gli occupati venivano conteggiati quanti possedessero anchequantità residuali di terra75 – allora si deve supporre che il pressoché unicocanale di sfogo, oltre a quello interno, della Libia non potesse essere suf-ficiente a placare il loro malessere. Gli sbocchi lavorativi in Germania, inAoI e in Albania erano nel caso dei meridionali sostanzialmente riservatiagli operai: Stefano Gallo ha osservato che «L’assenza dei contadini daiprogrammi migratori del tardo fascismo e la promozione di lavori di ca-rattere fluttuante e precario, simili a quelle della tanto deprecata classebracciantile, erano l’implicita ammissione di occasioni di sconfitta di unindirizzo politico»76.quello che va capito è non solo quali sbocchi diretti potessero essereriservati ai contadini, ma quali vie traverse essi potessero percorrere peressere ingaggiati come lavoratori edili, come minatori e, insomma, in me-stieri diversi dal proprio, per aggirare le strettoie dentro le quali si tro-vavano immessi. I tentativi devono essere stati frequenti, come dimostrail caso citato dei lavoratori agricoli che si spacciavano per minatori perpoter partire per la Germania e come – indirettamente – sembravano ri-marcare le autorità fasciste in un articolo su «calabria fascista» del 14 lu-glio 1941, dal titolo Per la scelta degli operai da avviare in Germania, incui si scriveva che «la scelta definitiva [degli operai da mandare nel Reichdoveva essere fatta] attraverso un titolo assoluto di merito, evitando pre-ferenze abusive o favoritismi ed escludendo comunque infiltrazioni dimano d’opera agricola». Non era del resto casuale che l’appello venisse pubblicato proprio a lu-glio poiché fu a partire da allora che le visite mediche e i controlli tedeschipresero a farsi più forti sui partenti, su cui in precedenza si era stati non

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74 IBIdem. 75 Faccio riferimento in particolare ai prospetti relativi al cosentino da me consultati. 76 S. GALLo, Senza attraversare le frontiere cit., p. 112.

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poche volte corrivi77. e non era infrequente che ingaggiati per una specificamansione gli interessati venissero poi utilizzati per altri mestieri, ancheper scelta dei datori di lavoro, e questo ancora nel 1942. ecco per esempiola deposizione che il manovale muratore vito Fulciniti, nato a cenadi, ca-tanzaro, rendeva ai carabinieri di San vito Jonio: «Il 12 aprile 1942, all’atto di partire da catanzaro per la Germania per lavoro, nellaqualità di manovale metallurgico, firmai presso la Unione Lavoratori dell’Industria di ca-tanzaro un contratto di lavoro per la durata di mesi 12 alla dipendenza della ditta WabdererWerke Schionau (chemnitz) [sic]. Giunto in Germania lavorai presso tale ditta fino al 18novembre. In tale giorno il capo campo tonolli Selvino, mi ordinò di trasferirmi in dresdaper assumere lavoro presso altra ditta, nella qualità di trasporto bagagli. Pur non avendofirmato alcun atto di licenziamento dalla ditta Wanderer Werke [sic], dalla quale non fuicompletamente soddisfatto delle competenze, mi recai – data l’imposizione – a dresda. Ivigiunto mi annunziai ammalato ed il medico del luogo mi concesse due giorni di riposo altermine del quale chiesi nuova visita medica per cui fui visitato da altro sanatorio [rectesanitario] il quale mi accordò altri due giorni di riposo. dopodiché mi rifiutai di iniziare illavoro perché le mie condizioni di salute non me lo permettevano in quanto avvertivo do-lori al petto e alle gambe»78. che spesso i lavoratori dichiarassero di svolgere mansioni diverse daquelle proprie è del resto comprovato anche nel caso degli ingaggi in Al-bania dove si recarono molti «sarti, guantai, barbieri» invece degli sterra-tori richiesti79. Nel 1940 sembra che in 200 fossero pronti a giungervi dalle zone ma-lariche del cosentino e a seguito di numerose proteste sollevate dai ca-strovillaresi per la selezione di due soli lavoratori tra loro al posto dei 50inizialmente prospettati80, l’ufficio di collocamento provinciale in una mis-siva alle autorità locali lamentava che il ritardo del rappresentante delladitta «Aureli» nel raggiungere le località della provincia per l’ingaggio deicosentini da mandare in Albania – previsto originariamente per il 23 lu-

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77 c. BerMANI, Al lavoro nella Germania di Hitler cit., p. 99. 78 IvI, p. 72. 79 G. MASI, movimenti migratori in Calabria nel periodo fascista cit., p. 86.80 relativamente ai 200 partenti, in realtà, il commissario per la colonizzazione e le mi-grazioni interne il 4 giugno del 1940 aveva mandato un telegramma alla prefettura di co-senza per chiedere se i lavoratori di sui si richiedevano «duecento documenti sanitari»dovessero essere ingaggiati per l’Italia o l’Albania. da una comunicazione del 28 giugnosuccessivo del prefetto ai comuni della provincia, che rimandava la prevista partenza perl’Albania, si deduce che con forte probabilità i duecento lavoratori avrebbero dovuto esseremandati in Albania. La questione del malcontento dei castrovillaresi era riportata in unamissiva della Legione territoriale dei carabinieri di catanzaro – gruppo di cosenza – del15 luglio 1940 al prefetto della provincia. La documentazione è in AScS, Gabinetto di Pre-fettura, Macero, Busta 184.

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glio – si era ripercorso sull’andamento delle selezioni che avevano dovutoessere fatte «in fretta e furia»81. Inoltre«il rappresentante della ditta si [era] dimostrato molto severo nella selezione degli operaispecie per quanto riguarda[va] l’accertamento della qualifica professionale (manovale ter-razziere) che d[oveva] risultare chiaramente dallo stato di servizio segnato nel libretto dilavoro e delle marche apposte sulla tessera delle assicurazioni sociali. [erano] stati quindiscartati molti operai che pur essendo in possesso di tali documenti da questi non risultaval’attività svolta in passato»82. Nel comune di S. Giorgio Albanese, sempre nel cosentino, nell’agostodel 1940 «molti operai» si erano lamentati invece che in vista dell’ingag-gio per la Germania ai locali erano stati sempre preferiti operai di altricomuni: «ciò dimostra[va] che tale ingaggio non avv[eniva] con criteri di equità e di giustiziama solo per favoritismo e per partigiana protezione. risulta[va] infatti che dalla vicina vac-carrizzo [era] stato ingaggiato, con la qualifica di manovale, un tizio che al paese esercitavail mestiere di calzolaio, mentre con arrogante e ingiusto trattamento venivano messi allaporta quei sangiorgesi che avevano chiesto di essere ingaggiati»83. quanti siano stati a dichiarare un mestiere diverso da quello svoltopur di partire e quanti fossero i contadini tra loro è una vicenda del tuttoda ricostruire, ciò che sarebbe possibile per numeri contenuti. In ognicaso che le partenze per la Germania – da cesare Bermani considerate«la panacea per la fallimentare politica economica condotta negli annitrenta […] [usati] per attutire gli effetti della disoccupazione e della sot-toccupazione endemica»84 – abbiano alleggerito i disagi economici dei ca-labresi è un dato di fatto. Nella relazione sulla situazione economica e politica del cosentino del3 agosto 1941 il prefetto di cosenza scriveva che la disoccupazione era di-minuita e ridotta a poche centinaia di persone «per effetto dell’invio in Ger-mania dei lavoratori di ogni categoria», che erano stati 1980 in totale e «peri richiami alle armi»85. Al 24 giugno 1941 i reggini andati nel terzo reich

I calabresi in Germania e altrove. Un tassello nella storia dell’emigrazione durante il fascismo

81 Per inciso Aurelio Aureli era il presidente della Federazione nazionale fascista co-struttori edili ed imprenditori grandi opere; in tale funzione egli ebbe un ruolo importantenella conduzione di appalti pubblici in Italia e all’estero. 82 AScS, Gabinetto di Prefettura, Fondo Macero, b. 184. 83 IvI, b. 184, Missiva del podestà di S. Giorgio Albanese del 30 agosto 1940 al prefettodi cosenza. 84 c. BerMANI, Al lavoro nella Germania di Hitler cit., p. 10. 85 AScS, Gabinetto di Prefettura, Fondo Macero, b. 30.

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risultavano, invece, 1.50086. Non ci sono dati così complessivi per i catan-zaresi, per i quali un’indagine accurata deve ancora essere svolta. Conclusionidopo i primi scaglioni di operai e contadini calabresi andati oltralpenella primavera del 1941 le partenze per il reich si erano fatte febbrili:a fine maggio ulteriori 250 lavoratori dell’industria si erano diretti inGermania, mentre il 14 giugno era stata la volta di «un’altra centuria»87.dal reggino a fine giugno si erano mossi 300 operai e dal cosentino qual-che giorno dopo era «partito […] il settimo scaglione» di lavoratori, cheportava la cifra degli operai trasferiti fino a quel momento in Germaniaa 1.40088. I reclutamenti per il reich sarebbero proseguiti anche oltre benché apartire dalla seconda metà del 1941 le fonti documentarie e a stampa nonoffrano quasi indicazioni in proposito. In un articolo di «calabria fascista»del 14 luglio 1941 dal titolo Per la scelta degli operai da avviare in Germa-nia si metteva l’accento sull’esigenza di mirare alla qualità degli ingaggi edi non cedere alla lusinga del numero: «Il Partito si sta occupando, in questo particolare momento, dell’invio degli operai inGermania e della loro assistenza. Seguiranno perciò altri turni di nostri lavoratori che sirecano nella Nazione alleata per stringere sui campi di lavoro la fratellanza che si è stabilitasui campi di battaglia. La provincia di cosenza deve dare il suo contributo fino in fondo […]. Sono i Segretari Politici che, d’accordo con i Fiduciari locali dell’Unione dei lavoratoridell’industria, devono procedere alla scelta degli elementi da designare per l’imminenteturno migratorio, tenendo presente: 1) che l’operaio deve rispondere ai prescritti requisiti morali, politici, fisici; 2) che deverispondere alla qualifica tecnica professionale per cui sarà reclutato; 3) che non deve averea suo carico alcun precedente penale; 4) che sia esente da malattia eventualmente soprav-venuta dopo la visita medica da molti già effettuata. Il controllo medico deve essere fattotramite l’Ufficiale sanitario del comune; 5) che appartengano alle classi di leva stabilitesino al 1910 e dal 1911 al 1921 soltanto per i riformati […]»89. con le partenze dei contadini e degli operai dal cosentino, dal regginoe dal catanzarese per la Germania si diede sollievo alla economia calabreseanche per le rimesse che questi mandavano alle proprie famiglie e che ne

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86 Altri trecento operai partiti per la Germania, in «La Gazzetta», 24 giugno 1941. 87 Partenza di lavoratori per la Germania, in «calabria fascista», 31 maggio 1941; e Par-tenza di operai per la Germania, in «calabria fascista», 14 giugno 1941. 88 Altri trecento operai partiti per la Germania, in «La Gazzetta», 24 giugno 1941 e Par-tenza di operai per la Germania, in «calabria fascista», 28 giugno 1914.

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rendevano più alti gli standard di vita. certo, c’era miseria e l’entrata inguerra dell’Italia, i razionamenti e il collasso dei trasporti rendevano dif-ficile persino procacciarsi i generi di consumo di maggiore urgenza: la fa-rina, la pasta e il pane. Nelle relazioni sulla situazione economica dellaprovincia di cosenza si leggeva frequentemente di questi problemi. Peresempio il 5 dicembre 1941 il prefetto scriveva:«dal lato economico la situazione presenta una certa preoccupazione per quanto con-cerne il rifornimento delle farine che ha subito una stasi per il mancato arrivo del prodottodalle provincie, specie dalla campania, che abitualmente lo esportavano. Anche, il man-cato, tempestivo, arrivo del grano destinato all’industria molitoria locale, ha contribuitoa rendere difficoltoso l’approvvigionamento. Il consiglio Provinciale delle corporazioniha cercato di alleviare il disagio con un rigoroso sistema di controllo sulla distribuzionee ripartizione del prodotto tra i 152 comuni della Provincia, ma è necessario risolvere,con urgenza il problema restituendo la tranquillità nel rifornimento dell’indispensabilegenere»90. Le restrizioni poste all’emigrazione dal fascismo a partire dal 1927 ave-vano impedito a numerosi disoccupati e lavoratori disagiati di abbando-nare il paese producendo, come si è visto, una accresciuta mobilità internae graduali spostamenti verso il Nord. Il 1935, con l’avvio massiccio di ope-rai in Albania aveva rappresentato una svolta resa ancora più significativadalla colonizzazione della Libia e dall’inoltro di lavoratori in Albania e inGermania. Non sappiamo quanto le politiche del lavoro sperimentate nellecolonie siano state davvero incisive: uno studio che possa ricostruirne irisvolti deve ancora essere intrapreso tanto per il territorio nazionalequanto per la calabria. certamente significativo per il Sud fu il tornante del 1940, per la pos-sibilità di spedire forze lavorative nel reich: furono in tanti a voler par-tire, anche se con il procedere del conflitto sarebbe cominciato adaffiorare con pari forza pure il desiderio di tornare. Un lavoratore «nonappena rientra[to], per esempio, v[enne] fatto sedere al caffè Gatto di co-senza. Gli si offr[ì] da bere e gli si chie[se] perché [era] tornato. e lui rac-cont[ò]»: «Me ne sono scappato, e con me vi sono circa altri 1500 che sono scappati e si trovanoin un campo di concentramento vicino alla frontiera, la maggior parte cosentini, che ver-ranno a fine mese. I tedeschi non ci possono vedere. ci hanno fatto soffrire la fame, ed orache i bombardamenti si moltiplicano è un pericolo restare in Germania. Per venire ho speso800 lire»91.

I calabresi in Germania e altrove. Un tassello nella storia dell’emigrazione durante il fascismo

89 Per la scelta degli operai da avviare in Germania, in «calabria fascista», 14 luglio 1941. 90 relazione del 5 dicembre 1940, in AScS, cit. 91 c. BerMANI, Al lavoro nella Germania di Hitler cit., p. 160.

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quanto si erano germanizzati i calabresi e quanto si erano fascistizzatinella loro esperienza in Germania? Non lo sappiamo ancora92, ma è possi-bile che la partenza per il reich di lavoratori provenienti dal Sud abbia get-tato un germe significativo per la futura, massiva meridionalizzazionedell’emigrazione italiana oltralpe.

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92 A parte le opere già citate sulla fascistizzazione degli emigranti si vedano MAtteoPreteLLI, mussolini’s mobilities Transnational movements between Fascist Italy and ItalianCommunities Abroad, in «Journal of Migration history», 1, 2015, pp. 100-120. Id., Il fascismoe gli italiani all’estero. Una rassegna storiografica, in ASeI (Archivio storico dell’emigrazioneitaliana) 3, 2008, consultabile al seguente indirizzo elettronico: www.asei.eu/it/2008/11/il-fascismo-e-gli-italiani-allestero-una-rassegna-storiografica/. ringrazio Mat-teo Sanfilippo per avermi trasmesso entrambi i testi. cfr. ancora FrANceScA cAvArocchI, Avan-guardie dello spirito. Il fascismo e la propaganda culturale all’estero, carocci, roma 2010.L’autrice è anche in procinto di pubblicare un importante contributo sulla fascistizzazionedegli italiani in colonia e a Parigi, tanto più prezioso quanto ancora difettano gli studi sulcaso tedesco.

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1. Cenno biografico, il contesto storico-sociale-religioso, l’azione pastoralenella diocesi di Cariati.La figura di mons. eugenio raffaele Faggiano, Passionista e Vescovo diCariati dal 1936 al 1956, s’inquadra nella storia socio-religiosa della Cala-bria della prima metà del Novecento, nel cui ambito occupa un posto di ri-levante importanza, come dimostra l’interesse manifestato da studiosiautorevoli del movimento cattolico nel mezzogiorno, verso il suo operatoe la sua pastoralità, tra cui Pietro Borzomati e maria mariotti1.«raffaele Faggiano – scrive Borzomati – fu silenzioso e sofferente protagonista dellavita difficile della Calabria e, soprattutto, di Cariati all’indomani della prima guerra mon-diale, durante il ventennio fascista e per un decennio dopo la Liberazione negli anni, cioè,della ricostruzione e della riforma agraria che interessò quasi tutto il territorio della suadiocesi. Fu profeta disarmato per il radicarsi di un neo-clientelismo e di un neo-coloniali-smo che ostacolarono, anche, l’evangelizzazione delle Chiese del mezzogiorno, conun’opera di strumentalizzazione che, non di rado, impedì quell’azione socio-pastorale au-spicata dall’episcopato meridionale prevalentemente con la lettera pastorale del 1948».Lo stesso Borzomati osserva che, dall’epistolario ascetico di mons. Fag-giano, «emergono, oltre alla sua varia e ricca cultura, la sua santità ed il suo ascetismo, la sua con-tinua ansia pastorale ed il suo sviscerato amore soprattutto per i deboli ed i poveri, il suoessere religioso rigorosissimo innanzitutto con se stesso nella direzione delle anime a luiaffidate»2.

Mons. Eugenio Raffaele Faggiano,un vescovo della Calabria tra fascismo e democrazia

(Cariati, 1936-1956)

Franco Liguori, Romano Liguori

1Cfr. PIetro BorzomatI, La pastoralità e la spiritualità di mons. Raffaele Faggiano passio-nista e vescovo di Cariati dal 1935 al 1956, in Id., Movimento cattolico e Mezzogiorno, La Go-liardica, roma 1982, pp. 137-153; marIa marIottI, La pastoralità di Mons. Eugenio RaffaeleFaggiano Vescovo di Cariati (1936-1956), estratto da «amicitiae causa» - Scritti in onoredel vescovo alfredo m. Garsia, Centro Studi «arcangelo Cammarata», San Cataldo (CL), pp.229-258. 2 P. BorzomatI, La pastoralità e la spiritualità cit., p. 138.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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maria mariotti, in un suo ampio saggio edito nel 19993, inquadra la fi-gura del vescovo Faggiano nel contesto storico-sociale-religioso della Ca-labria negli anni ’30-’50 e, dopo una attenta analisi delle sue letterepastorali, coglie nel vescovo di Cariati «profonda consapevolezza delmondo in cui vive» e «del grave disagio materiale e morale» che caratte-rizza la società meridionale e calabrese del suo tempo, concludendo che«l’attualità più valida» di mons. Faggiano «è nella sua testimonianza diesemplarità (preghiera, penitenza, povertà, carità), garanzia fondamentaledi autentica e feconda presenza e azione della Chiesa nel mondo».L’essenzialità, opportunamente messa in evidenza dalla mariotti, fu, ineffetti, la nota caratteristica prevalente della personalità del vescovo-pas-sionista.mons. Faggiano, infatti, non fu un uomo appariscente, non cercò maila notorietà, non cercò di accreditare un’immagine di sé che andasse oltrei limiti indispensabili imposti dal suo ministero. Non scrisse di teologiao di morale, pur avendone l’attitudine; rifiutò ogni onore superfluo aifini dell’esercizio della sua funzione; disdegnò la ricchezza e visse di ciòche quotidianamente la Provvidenza gli offriva, come i poveri della suadiocesi.era nato a Salice Salentino, in provincia di Lecce, il 28 gennaio 1877,da donato e Concetta Leuzzi4.Cresciuto in una onesta e religiosa famiglia di modesti agricoltori, all’etàdi 15 anni abbracciò la Congregazione dei PP. Passionisti, agevolato in que-sta scelta dalle missioni tenute in Salice, dai medesimi, il 2 novembre 1893.accolto nella Congregazione si distinse ben presto negli studi e nell’ap-plicazione delle pratiche religiose. da novizio prese il nome di eugenio.ordinato sacerdote, nei primi anni insegnò ai giovani studenti. durante laguerra 1915-18 fu cappellano militare in Brindisi. a fine guerra, ritornato tra i suoi confratelli, si dedicò, con umiltà e fer-vore, ai molti compiti e doveri del suo apostolato. Fu fecondo oratore, mae-stro dei novizi, rettore a Fuscaldo, Superiore a Borgetto in Sicilia, fuConsigliere e Superiore Provinciale della sua Provincia religiosa, che am-ministrò con sagacia e saggia competenza.Per molti meriti sacerdotali, di santa vita, di cultura e abilità nella di-rezione ecclesiastica nel 1935 fu designato da S. S. Pio XI, vescovo di Ca-

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3 m. marIottI, La pastoralità cit., p. 258. 4 Una documentata e ampia monografia sulla sua vita è: P. aNSeLmo LIBraNdI, Mons. Eu-genio Raffaele Faggiano passionista vescovo di Cariati. Abbozzo di una biografia, tiemme,manduria 1978.

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riati, quindi venne consacrato in tale qualità, dall’arcivescovo di Cosenza,monsignor Nogara, il 19 aprile 1936, nella chiesa matrice di manduria,alla presenza delle autorità locali, del clero e di numeroso popolo ivi con-venuto.Prese possesso della sua diocesi nello stesso anno, il 19 maggio, accoltofestosamente dalla popolazione di Cariati e dalle autorità civili e religiosedella Provincia di Cosenza5.Quando il vescovo Faggiano venne a prendere possesso della sede ve-scovile di Cariati, nel maggio 1936, si era in piena era fascista, e il Comunedella cittadina ionica era governato da un podestà locale, l’agronomo, diantica famiglia patrizia, Nicola Venneri, che tanto si era adoperato per fartornare il vescovo a Cariati6, dopo che la sede era rimasta vacante per 11anni, in seguito a un tafferuglio verificatosi durante la processione del ve-nerdì Santo 1925, in cui fu coinvolto fisicamente il vescovo Giuseppantoniomaria Caruso7.L’accoglienza ricevuta dal nuovo vescovo fu veramente trionfale e videla partecipazione di tutte le autorità, non solo civili, militari e religiose, maanche di quelle fasciste, come riferisce un dettagliato servizio della «Cro-naca di Calabria» del 24 maggio 1936.Fin dal suo arrivo s’instaurò tra ilvescovo e la principale autorità amministrativa della città, il podestà NicolaVenneri, uomo mite e cattolico praticante, un rapporto di reciproca stimae collaborazione. Lo si evince anche dal discorso, a nome di tutta la citta-dinanza, dello stesso podestà:«ecco il mio gregge, eccellenza, lo affido a Voi buon Pastore degno figlio di San Paolodella Croce, perché possiate guidarlo e menarlo all’ubertoso pascolo della fede cristiana epossiate ricondurlo all’ovile della santa Chiesa Cattolica.Questo gregge è buono, è ubbidiente, è amoroso, è affettuoso. ho ricevuto l’incarico difare a nome di tutti all’e. V. formale dichiarazione e promessa che la massa completa delpopolo cariatese Vi amerà come un padre vero.Nel darVi il benvenuto e nel porgerVi il saluto di tutti i cariatesi e di tutta la diocesi, ioformulo l’augurio che la Vostra venuta in questo nostro paese possa essere apportatrice dibene spirituale, morale, e materiale…»8.

mons. eugenio raffaele Faggiano, un vescovo della Calabria tra fascismo e democrazia...

5 Cfr. L’arrivo del nuovo Vescovo a Cariati, in «Cronaca di Calabria», 24 maggio 1936. 6Cfr. arChIVIo ComUNaLe CarIatI (=aCC), delibera podestarile n. 61 del 9 maggio 1935,avente a oggetto: «Voti della popolazione di Cariati per la nomina del Vescovo titolare delladiocesi». 7Cfr. romaNo e FraNCo LIGUorI, Cariati nella storia - Vicende di un Comune della CalabriaJonica dalle origini ai nostri giorni, Ferraro, Cirò marina (Cz) 1981.8 Il brano del discorso del podestà N. Venneri è riportato dal periodico «La missione»,n. 4, maggio 1986, nello speciale: 50 anni fa - Consacrazione episcopale del Servo di Dio Eu-genio R. Faggiano.

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«Vengo a voi apportatore di pace, nuncius pacis», rispose il vescovo Fag-giano all’indirizzo di saluto del podestà:«La pace dunque sia con voi: Pax vobis. Gesù l’annunziò per mezzo degli angeli nelcomparire su questa vita mortale, la inculcò per sempre, la predicò, la diede a tutti gli uo-mini di buona volontà. La pace fu un saluto augurale continuo nel comparire agli apostolidopo la gloriosa resurrezione!...La mia cura speciale, il mio dovere continuo, i miei sforzi saranno impegnati per pro-curarvi questa pace!...o diletti figli di Cariati e di tutta la diocesi, vi fo una preghiera, vi chieggo una grazia,che voi certo non mi negherete, perché so che mi amate, ve la chieggo in questo momentoper me e per voi solenne, ve la chieggo in nome di Gesù Cristo…: dimenticate il passato, epensate all’avvenire … Non più tristi ricordi, non più dissensi e dissapori tra voi!...ed ora prima di licenziarvi rivolgo a tutti i miei più sentiti ringraziamenti per l’acco-glienza fattami, che non potea essere più solenne e più spontanea…Con questi belli auspici il nostro apostolato sarà fecondo, perché non manca la nostrabuona volontà, non mancheranno i divini aiuti, che invochiamo ed invocheremo sempre, ecosì Pastore e gregge potremo raggiungere il nobile fine: pace, tranquillità in questa vita,pace eterna e gloria nell’altra»9.e questa intesa tra amministrazione civica e Chiesa, in effetti, a Cariatici fu. Il nuovo vescovo, d’altra parte, piacque subito anche ai cariatesi che,a prescindere dai festeggiamenti ufficiali, lo accolsero sinceramente comeil messia. del vescovo Faggiano si apprezzava l’immediatezza di linguaggioe la spontaneità del comportamento, che lo resero in breve tempo popo-lare anche tra la gente più umile della vasta diocesi, che comprendeva ben20 comuni, in gran parte gravitanti nell’area del marchesato di Crotone,allora in provincia di Catanzaro, tra i quali melissa dove nel ’49 si verifi-cheranno i gravi fatti causati dall’occupazione delle terre da parte dei con-tadini.Gli anni che vanno dal ’36 al ‘43, contrassegnati dalla vistosa presenzadel regime fascista in ogni manifestazione della vita pubblica, sia civile chereligiosa, vedranno ripetersi anche a Cariati, come in ogni comune d’Italia,lo stesso rituale retorico, tipico di quegli anni, che vedeva fianco a fiancola Chiesa e i rappresentanti del fascio. ma di questo non c’è da meravi-gliarsi, se pensiamo – come fa rilevare P. Borzomati – che, fin dalla sua na-scita «il fascismo calabrese era riuscito con una serie di iniziative,particolarmente antisocialiste ed antimassoniche, ad accattivarsi profondesimpatie negli ambienti ecclesiastici»10.

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9 IBIDEM.10 Cfr. P. BorzomatI, I cattolici calabresi, la guerra 1915-18, il dopoguerra, in Chiesa e so-cietà in Calabria nel secolo XX - raccolta di studi storici (a cura della delegazione regionaleCalabrese del movimento Laureati di a. C.), reggio Calabria 1978, p. 207.

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Lo stesso vescovo Faggiano, giunto a Cariati nel 1936, anno della «ri-nascita dell’Impero» e del raggiungimento del massimo consenso da partedel regime, in una sua lettera pastorale del 22 febbraio 1938 definirà «im-presa di redenzione e di civiltà» la guerra d’africa, nella quale andarono acombattere tanti contadini calabresi e anche di Cariati.

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Mons. Eugenio Raffaele Faggiano

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e quando, nell’aprile del 1939, Benito mussolini, nel corso del suo viag-gio in Calabria, fece una breve sosta nella stazione ferroviaria di Cariati,prima di proseguire per Crotone, a porgergli il saluto e l’ossequio dei Ca-riatesi, salì sul treno, insieme al podestà Nicola Venneri, anche il vescovoFaggiano11.Questo atteggiamento ossequioso del vescovo di Cariati non va, comun-que, inteso come una sua adesione politica al regime. tutt’altro! mons. Fag-giano fu essenzialmente un uomo di pace e di preghiera, lontanissimo daogni posa esibizionistica e da qualsiasi ambizione carrieristica, preciso esaldo nel senso di giustizia e di rettitudine in tutto il suo operare e nellasua vita si mostrò sempre «un teste esistenzializzato del Vangelo»12.Fu umile con gli umili e austero con i potenti, disdegnando ogni ceri-monia diretta ad esaltare la sua persona più che la dignità sacerdotale.Sulla situazione italiana che passa dal totalitarismo alla democrazia esui riflessi di questo passaggio sulla vita e sull’opera della Chiesa, non ab-biamo documenti ufficiali che consentano di illustrare sufficientemente laposizione di mons. Faggiano. Sappiamo, comunque, dalla sua intensa atti-vità pastorale e del suo fattivo impegno di vescovo, volto ad alleviare ledifficili condizioni di vita delle popolazioni della sua diocesi, che egli ac-colse con favore il ritorno alla democrazia, senza, però, mai schierarsi po-liticamente e apertamente con nessun partito, perché – come scrive eglistesso nella lettera circolare ai suoi sacerdoti, il 4 giugno del ’44 – «laChiesa non fa della politica» e «i sacerdoti non debbono appartenere adalcun partito»13. L’unico «partito» che a lui sta a cuore è quello che «ha per fondamentola legge di dio, il Vangelo, la Chiesa Cattolica, il Papa»14.difronte alla schiacciante vittoria del partito della democrazia Cri-stiana, però, nella competizione elettorale del 1948 – lo apprendiamo dalsuo epistolario ascetico degli anni 1948-49 – mons. Faggiano fece questocommento: «L’esito è stato un vero trionfo. Si comincia un’era nuova perl’Italia, che si ripercuote in tutto il mondo. ma la lotta con la potestà delle

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11Cfr. a. N. (aNtoNIo NUCaro), Cariati per la visita del Duce, in «Cronaca di Calabria», 9aprile 1939, articolo in cui, tra l’altro, si legge: «La gioia raggiunge davvero il delirio quandoil fondatore dell’Impero parla a S. e. il vescovo Faggiano, al podestà e quindi bacia pater-namente la graziosa bambina dell’ispettore di zona Nucaro…»12 La definizione è di mons. Giuseppe agostino, in «Prefazione» a a. LIBraNdI, Mons. Eu-genio Raffaele Faggiano cit., p. 5.13 arChIVIo StorICo dIoCeSaNo CarIatI (= aSdC), Lettera circolare del 4 giugno 1944, inCartella Faggiano.14 IBIDEM.

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tenebre continuerà sempre: il demonio freme di rabbia, ma vincerà lacroce»15.Il territorio della diocesi di Cariati, che abbracciava numerosi comunidel Crotonese (Cirò, Strongoli, Carfizzi, melissa, Savelli, Cerenzia, Caccuri,S. Nicola dell’alto, Umbriatico, Verzino …) era in quegli anni dell’immediatodopoguerra (1943-1950) profondamente agitato da un agguerrito movi-mento contadino, che lottava per l’abbattimento del latifondo e l’assegna-zione delle terre incolte alle masse rurali, che vivevano in una condizionedi estrema miseria. alle elezioni del 17 marzo 1946 ci fu in quei comuniuna considerevole affermazione del Partito comunista, che conquistò leamministrazioni di Carfizzi, Pallagorio, Umbriatico, Casabona e Caccuri16.a melissa, cuore del movimento contadino, alle elezioni del 17 marzo1946, la lista di sinistra, con lo slogan elettorale «la terra a chi la lavora»,ottenne la maggioranza dei seggi e venne eletto sindaco il contadino an-tonio Squillace del Partito socialista17.L’atteggiamento del vescovo Faggiano difronte a questa avanzata delcomunismo ateista nei paesi della sua diocesi, fu di grande preoccupa-zione, ma anche di prudenza. Per cercare di arginare l’allontanamentodalla Chiesa e dalla religione cattolica di tante famiglie, che spingeva moltia non battezzare i propri figli, il vescovo inviò presso quelle comunità imissionari Passionisti di S. Paolo della Croce e nel 1947 decise di riper-correre tutta la diocesi con una seconda visita pastorale, dopo quella del1938-3918.L’accoglienza riservata ai missionari dalle popolazioni fu generalmentebuona e molte persone adulte acconsentirono a farsi battezzare. ma nonmancò qualcuno che li mise letteralmente fuori la porta con disprezzo19.La gente di quelle contrade, anche se buona e laboriosa, era esasperatadalla povertà e dalle condizioni di vita estremamente difficili (mancanzaassoluta di acqua, alta mortalità infantile, condizioni igieniche delle abi-tazioni pessime, ecc.) e aspirava ad avere un pezzo di terra, da cui trarre il

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15 Cfr. P. BorzomatI, La pastoralità cit., pp. 148-149, con citazioni dell’epistolario asceticodegli anni 1948-49.16 Cfr. aNtoNIo CoSeNtINo, Melissa contemporanea, Grafosud, rossano 2003, pp. 154-55. 17 Ibidem.18 Cfr. a. LIBraNdI, Mons. Eugenio Raffaele Faggiano cit., p. 101.19 Nel volume biografico di P. anselmo Librandi, più volte citato, viene riportato il branodi una lettera di un padre missionario al suo Padre provinciale, che così racconta la suaesperienza nella diocesi di Cariati: «Qualcuno ci ha messo fuori la porta con disprezzo! ab-biamo bisogno di pane, e non di battesimo! de Gasperi avrebbe potuto mandarci lavoro, enon missionari!...».

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sostentamento per la famiglia. Particolarmente sentito questo disagio eranel comune di melissa, le cui terre erano tutte in mano al marchese Ber-lingieri20. Il 24 ottobre 1949 la popolazione del luogo, innalzando bandiere rossee cartelloni con le parole d’ordine «la terra a chi la lavora» e «pane e la-voro» invase alcuni terreni del latifondo, suscitando le vibrate proteste delmarchese, il quale «fece pressione sugli organi preposti, richiedendoun’azione energica a difesa della sua proprietà»21.Il 29 ottobre del ’49 i contadini di melissa occuparono pacificamente leterre incolte di contrada Fragalà. La polizia, chiamata dal marchese Ber-lingieri, dopo vari tentativi per far sgombrare i terreni occupati, passò allemaniere forti, lanciando lacrimogeni e sparando colpi ad altezza d’uomo.alla fine, rimasero uccisi tre contadini (Francesco Nigro, Giovanni zito, an-gelina mauro) e quindici altri manifestanti furono feriti22.Quale sia stato l’atteggiamento assunto dal vescovo Faggiano difrontea quei fatti dolorosi passati alla storia come «eccidio di melissa», non èdato sapere con precisione, per la mancanza di «documenti» ufficiali cheattestino la posizione del vescovo di Cariati su quei tristi accadimenti ve-rificatisi in un centro della sua diocesi. È fuor di dubbio, comunque, che mons. Faggiano, tenne un atteggia-mento di grande prudenza, mostrandosi sicuramente solidale con i conta-dini di melissa e molto vicino alle povere famiglie delle vittime e dei feriti23. Se il vescovo non intervenne ufficialmente, con un suo documento pa-storale, fu – a nostro avviso – per tenersi fuori dall’eccessiva strumenta-lizzazione che di quei fatti, subito dopo, si fece, specialmente da parte deipartiti politici di sinistra, che li enfatizzarono fino al punto da fare di me-lissa il simbolo delle lotte comuniste per il riscatto dei contadini poveridel Sud.ma a Fragalà c’erano tutti, anche i democristiani e i fascisti, e non soloi comunisti e i socialisti. era stata la fame e la disperazione a spingere icontadini ad invadere il feudo di Fragalà24.

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20 Cfr. a. CoSeNtINo, Melissa contemporanea cit., pp. 145-182.21 IVI, pp. 167-68 22 Sulle lotte contadine per la terra: PaoLo CINaNNI, Lotte per la terra e comunisti in Ca-labria (1943-1953), milano 1977; mario alcaro, amelia Paparazzo, Lotte contadine in Ca-labria (1943-1950), Lerici, Cosenza 1976; eNzo CICoNte, All’assalto delle terre del latifondo.Comunisti e movimento contadino in Calabria (1943-1949), milano 1981.23 angelina mauro era figlia del sagrestano di melissa. morì tre giorni dopo i fatti di Fra-galà all’ospedale di Crotone per le ferite riportate.24 a melissa una prima occupazione di terre era stata effettuata già nel 1946, sotto la

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Furono proprio i tragici fatti di melissa ad accelerare le leggi della ri-forma agraria per la Calabria. dal comune di melissa, appartenente alladiocesi di Cariati, il 29 aprile 1951 cominciò la distribuzione delle terre aicontadini, di quelle terre che da secoli erano in Calabria il pomo della di-scordia tra bracciantato agricolo e borghesia terriera. Il vescovo Faggianovenne invitato a presenziare insieme al ministro dell’agricoltura antonioSegni e ad altri rappresentanti del Governo, alla cerimonia di assegnazionedei primi poderi ai contadini di melissa25. Il suo comportamento in quellaoccasione non fu affatto di circostanza, ma fu quello di colui che in primapersona aveva vissuto e sofferto uno degli episodi più drammatici del ri-scatto contadino in Calabria, quale Vescovo di quelle contrade26.Su quelle stesse terre di melissa Faggiano tornò due anni dopo (1953),quando una disastrosa alluvione lasciò sul lastrico molte famiglie, «perrecar loro il conforto della sua parola e della sua inesauribile carità pasto-rale»27.Guardando all’azione pastorale complessiva di mons. Faggiano nel suoventennio di episcopato a Cariati (1936-1956), si può ben dire che essa fuintensa e incisiva in tutti i settori in cui un vescovo può operare.Giunto a Cariati nel maggio del 1936, si mise subito all’opera. Suoprimo pensiero fu l’apertura del Seminario, chiuso da ben otto anni.dopo un accurato restauro, il 25 ottobre del ’36, l’antico istituto erettoin Cariati nel 1643 dal vescovo Gonzaga28, riacquistava la pienezza dellesue funzioni. Immediatamente dopo, egli provvide a restaurare l’episco-pio e la Cattedrale, che da tempo erano in stato di abbandono. Cercò poidi dotare l’istituzione del Seminario di una sede estiva, dove i chiericipotessero trascorrere le loro vacanze lontani dalle insidie del mondo.Questo obiettivo che da tempo aveva costituito il sogno dei vescovi ca-

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guida dell’associazione dei Combattenti, nel feudo Culonuda. Sui fatti di melissa e su altreoccupazioni di terre al Sud, vedi: VINCeNzo maUro, Lotte contadine e repressione nel Sud, mi-lano 1979.25 Cfr. r. e F. LIGUorI, Cariati nella storia cit., pp. 245-46. 26 IVI, pp. 243-249-27 La partecipazione di mons. Faggiano alla cerimonia di assegnazione delle terre aicontadini di melissa è documentata anche nel registro parrocchiale di torre melissa, incui si legge: «Il 29 aprile del 1951 il ministro Segni, venuto a torre melissa per presenziareal sorteggio di terre, ascoltava con devozione e fede ammirevole la S. messa. era pure pre-sente mons. Vescovo Faggiano. accompagnavano il ministro un gruppo di Parlamentari Ca-labresi, tra cui gli on.li Pugliese, Foderaro, Salomone, col Prefetto di Catanzaro e altreautorità», in a. LIBraNdI, Mons. Eugenio Raffaele Faggiano cit., p. 115. 28 Il Seminario, fondato nel 1624 dal vescovo ricci in terra di Verzino, successivamente,nel 1643, era stato trasferito dal vescovo Francesco Gonzaga nella città di Cariati.

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riatesi, trovò realizzazione l’11 febbraio 1937, data in cui il vescovo Fag-giano firmò l’atto di acquisto di uno stabile con annesso terreno in agrodi Perticaro, nel Comune di Umbriatico, da destinare a sede estiva delSeminario cariatese.Nel gennaio del 1937 mons. Faggiano, per far arrivare più facilmentela sua voce di «pastore» in tutti i centri della sua vasta diocesi, fondò il«Bollettino ecclesiastico della diocesi di Cariati», ufficiale per gli atti dellaCuria Vescovile e per l’azione Cattolica, che ebbe, però, vita difficile e breve,prima a causa della guerra e poi delle scarse risorse economiche a dispo-sizione del vescovo.ma egli non pensò soltanto alla ricostruzione materiale della diocesi.«Per santificare Clero e Popolo – scrive P. Librandi - «lo zelante Pastore ri-corse ai mezzi classici del governo episcopale: predicazione delle Santemissioni in tutti i paesi della diocesi; corsi di esercizi spirituali per il clero;Santa Visita Pastorale…»29.Particolare importanza egli attribuì alle «missioni» e ciò era più che na-turale, data la provenienza da una Congregazione missionaria. Frequenti,infatti, furono nel ventennio del suo episcopato, le missioni in tutte le Par-rocchie della diocesi, tenute dai Padri Passionisti, suoi confratelli.Una costante aspirazione, fin dall’esordio del suo governo episcopale,fu quella di accogliere in forma stabile nel territorio della diocesi una pic-cola Comunità missionaria.egli si mise, quindi, all’opera per realizzare la fondazione di una Casadi religiosi Passionisti a Cirò marina, su un terreno di proprietà dellamensa Vescovile. Il 2 luglio 1940 veniva posta la prima pietra di quello chesarebbe stato il nuovo Santuario della madonna d’Itria; ma a causa dellaguerra i lavori si arrestarono sul nascere e furono, poi, ripresi e portati acompimento a distanza di circa un trentennio30, sotto l’episcopato di mons.Semeraro.Negli anni Cinquanta, a opera del vescovo Faggiano, sorsero Centri diServizio Sociale e Pie Unioni per diverse categorie di lavoratori, la cui as-sistenza venne affidata ai Padri Passionisti31.Per i molteplici meriti acquisiti con la sua intensa ed efficace azione pa-storale esplicata a Cariati e nei venti comuni della sua diocesi, il 6 settem-bre 1953, cinquantesimo del suo sacerdozio, l’amministrazione Comunale

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29 IVI, pp. 98-99.30 Cfr. P. aNSeLmo LIBraNdI, La Madonna d’Itria di Cirò Marina (Storia e devozione),tiemme, manduria 1971, p. 24 e sgg. 31 Cfr. a. LIBraNdI, Mons. Eugenio Raffaele Faggiano cit., pp. 112-113.

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di Cariati, presieduta dal sindaco democristiano daniele Franza, gli confe-riva la cittadinanza onoraria32.tre anni dopo, nel settembre del ’56, a causa dell’età avanzata e delleprecarie condizioni di salute, rinunciò alla diocesi e si ritirò nel conventodei Passionisti di manduria, dove morì santamente il 2 maggio 1960.Su istanza della Curia Provinciale dei Passionisti di Puglia-Lucania-Ca-labria, il 24 gennaio 1986, la Conferenza episcopale Calabra, presiedutada S. e. rev.ma mons. Giuseppe agostino, arcivescovo di Crotone, ha chie-sto e ottenuto dalla S. Sede di poter iniziare il processo informativo per lasua canonizzazione.Il processo apertosi nella Cattedrale di Cariati il 20 novembre 1987, conla partecipazione di tutti i Vescovi della Calabria33, ha concluso la sua fasediocesana nel giugno del 1991. 2. La pastoralità di Mons. Faggiano attraverso i suoi scrittiNel corso del suo ventennale episcopato (1936-1956) alla guida delladiocesi di Cariati, molte furono le lettere pastorali indirizzate al Clero e alPopolo, quasi tutte, tranne la prima, edite presso lo Stabilimento tipogra-fico abramo di Catanzaro34. da esse è possibile trarre le linee di pensierodel Vescovo Faggiano e i tratti principali della sua pastoralità. alle lettere,pubblicate dal 1936 al 1943, vanno aggiunte un gruppo di “lettere circo-lari” dattiloscritte divulgate nella diocesi, negli anni che vanno dal 1944al 1953.La prima lettera pastorale è del 1936, anno della sua nomina a Vescovodi Cariati, ed esprime il suo sconcerto di umile Passionista, nel ricevere «ilnon lieve peso dell’episcopato»35, che è venuto a interrompere «la serie

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32 Cfr. aCC, delibera del Consiglio Comunale n. 63, 6 sett. 1953.33 Sull’apertura del processo informativo per la canonizzazione a Cariati, cfr. «Gazzettadel Sud» del 24 novembre 1987.34 Le lettere pastorali di mons. Faggiano, conservate nell’aSdC, sono le seguenti: Primalettera pastorale al clero e al popolo, manduria 28 aprile 1936, tip. agostiniana, roma 1936,18 pp.; L’amor di Patria. Lettera pastorale per la Quaresima 1938, Cariati 22 febbraio 1938,tip. abramo, Catanzaro 1938, 16 pp.; Nella vittoria la pace. Lettera pastorale per la Quare-sima 1940, Cariati 2 febbraio 1940, tip. abramo, Catanzaro 1940, 22 pp.; A tutti i sacerdotidella nostra diocesi. Lettera pastorale per la Quaresima 1941, Cariati, 19 marzo 1941, in«Bollettino ecclesiastico della diocesi di Cariati», 5 (3-4/1941) pp. 3-15; Una grande pre-occupazione per la nostra Diocesi. Lettera pastorale per la Quaresima 1942, Cariati 1942,ivi, 4 (3-4/1942) pp. 1-8; La nostra salvezza. Lettera pastorale. Lettera pastorale per la Qua-resima 1943, Cariati 22 febbraio 1943, tip. abramo, Catanzaro [1943] , 12 pp.35 Lett. 1936, p. 5.

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non breve» dei suoi anni «di contemplazione e di azione proprie del Pas-sionista».Pur convinto della sua «insufficienza», il fervente Passionista, lascia lasua «tranquilla celletta» e obbedisce alla «augusta volontà del S. Padre»,accettando la nomina a Vescovo di Cariati.Il neoeletto vescovo affronta nella sua prima lettera il tema della pace,affermando che essa «è reclamata da tutti» e «desiderata da tutte le na-zioni»36.La «vera pace», quella sicura e stabile, «è fondata sulla giustizia, la qualeconsiste nel dare a ciascuno ciò che gli è dovuto». «Quanto non regna tra gli uomini la giustizia» – scrive il vescovo Fag-giano – «non vi può essere pace»37. egli, però, lamenta «la noncuranza didio nelle grandi assemblee politiche, nelle adunanze, nei comitati ove sidiscutono problemi di primissima importanza sociale», e l’ignoranza deigrandi, dei dotti e degli intellettuali «in quanto a religione ed a vita sopran-naturale».richiamandosi al Vangelo di marco, ribadisce quelli che egli chiama «idoveri di giustizia verso i nostri simili» che è, come dire, verso il nostroprossimo, da lui identificato non solo con chi ci è caro per vincolo di san-gue, o vicino per nazionalità, ma con «l’immensa famiglia umana»38. Nel suo stemma è riportato il motto Iustitia et pax osculatae sunt, chevuol dire: «la giustizia e la pace si sono strette in un abbraccio».La seconda lettera pastorale del vescovo Faggiano è datata 22 febbraio1938 e ha come tema «L’amor di patria».dopo aver illustrato il concetto di patria presso gli antichi, che per essaebbero un «culto speciale» e una «venerazione»39 e, poi, presso i primi cri-stiani e i santi, il vescovo si sofferma sulla Patria così come era vista ai suoitempi dalla Chiesa di roma e dal Fascismo al potere in Italia, esaltando iPatti lateranensi che hanno conciliato «la patria nostra», cioè lo Stato ita-liano, con la Santa Sede, e inneggiando al Papa, al re e al duce, che chiama«fattori della conciliazione». In linea con le idee dell’epoca egli si dimostraquando, parlando della guerra coloniale d’africa (1935-36) la definisce«impresa di redenzione, di civiltà per quei popoli, di espansione e di be-nessere per la nostra Patria»40.

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36 IVI, p. 6.37 IVI, p. 7.38 IVI, pp. 10-11.39 Lett. 1938, p. 3.40 IVI, p. 10.

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Nella lettera pastorale del ’38, mons. Faggiano commenta anche l’enci-clica di Pio XI Divini Redemptoris contro il comunismo ateo, condividendocol Papa la necessità di combattere l’ignoranza religiosa, «diffusa in tuttele classi sociali»; si scaglia, inoltre, contro quei moltissimi cristiani, «chesi dicono e si dichiarano cattolici, ma poi non lo sono nei fatti e nelle pra-tiche religiose», per paura, forse, «di essere chiamati bigotti e bacchet-toni»41. e, alla fine, lancia un accorato appello ai sacerdoti affinchè siimpegnino al massimo per riuscire ad ottenere dai fedeli «l’adempimentodei propri doveri e verso dio e verso la Patria».Interessanti riflessioni sulla «Necessità dell’azione Cattolica» chiudonola lettera pastorale del 193842. «Il sacerdote non può penetrare dapper-tutto, né può da solo diffondere nel popolo la buona novella; ha bisognodi aiuti nelle diverse branche dei cittadini»: così si esprime il vescovo Fag-giano, concludendo che c’è un «bisogno impellente dell’azione Cattolica,la quale supplisce il sacerdote entro i limiti consentiti ai laici». egli nonmanca di sottolineare, anche qui, il vantaggio che l’operato dell’azione Cat-tolica può arrecare anche alla Patria: «L’azione Cattolica poi procura beniimmensi alla Patria, perché mentre si sforza di formare uomini profonda-mente credenti ed esemplarmente praticanti, procura in pari tempo alloStato ottimi cittadini, tanto più amanti della prosperità e grandezza dellaloro Patria, in quanto maggiormente il loro animo è temprato alla virtù eal sacrificio»43.«Nella vittoria la pace» è il titolo della lettera pastorale scritta dal Ve-scovo di Cariati in piena guerra e datata 2 febbraio 1940. Fin dalle primerighe si legge in questo documento il rifiuto e la condanna della guerra:«Si grida Pace, pace! ma dov’è la pace? Vi è odio crudele, accanito tra le na-zioni, che si vogliono distruggere a vicenda, e ne cercano i mezzi che lascienza e la meccanica mettono a loro disposizione; e lo manifestano neidiscorsi, nella stampa, in pubblico, in privato! dio mio dove siamo arrivati!Come vorremmo che tornasse l’iride luminosa della pace!»44. esaminandole cause di quel difficile momento storico, che egli definisce «ora ango-sciosa», il vescovo Faggiano ne individua le cause nella «profonda crisi spi-rituale, che ha sconvolto i sani principi della morale privata e pubblica» e«nell’affievolimento della fede in dio»45.

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41 IVI, p. 12.42 IVI, p. 15.43 IVI, p. 16.44 Lett. 1940, p. 3.45 IVI, p. 4.

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Passa, poi, a commentare la prima enciclica di Pio XII, nuovo ponteficedal 1939, che reca il titolo Summi Pontificatus. “Un’enciclica meravigliosa”che - egli scrive - «riguarda e interessa tutto il mondo, credente e non cre-dente, cattolico e non cattolico, perché tutti attraversano e attraversiamoquest’ora tenebrosa e sconvolta»46.La vittoria a cui Faggiano allude nel titolo della sua lettera pastoralenon è da intendersi – come egli stesso tiene a precisare – nel senso di una«disfatta completa del nemico», ma fa riferimento a «una vittoria trascen-dente e suprema», «è la vittoria dello spirito sulla materia, delle ragionisui sensi, dei beni veri e imperituri sui beni appariscenti e fugaci».La lettera prosegue con amare riflessioni sul comportamento di quelliche si proclamano «cattolici» e «credenti», ma tali non sono affatto, a giu-dizio del vescovo, perché, mentre i primi cristiani «vivevano dello spiritosantificatore della Chiesa», «ora si vive dello spirito depravato del mondo,spirito d’irreligione, di egoismo e di sensualità» e i cattolici non hanno piùl’assennatezza di una volta e «si occupano di frivolezze, di divertimenti, dipassatempi tralasciando i doveri sacrosanti, che impone la loro profes-sione di cristiani e di credenti!».La lunga lettera pastorale si chiude con un invito a vincere l’egoismo ea guardare con animo tranquillo all’avvenire, avendo piena fiducia in dio,che non abbandona mai chi confida in lui:«dovete combattere e vincere l’apatia, l’indifferentismo religioso, che vi tiene lontanidalla Chiesa e dai doveri di Cristiani! (…) dovete combattere e vincere l’egoismo che mena tanta strage ai giorni nostri; e doveteamare, beneficare, aiutare, soccorrere i vostri simili, che sono tutti fratelli in Gesù Cristo!»47Si vede chiaramente come il vescovo Faggiano, in questa sua lettera pa-storale eviti accortamente di spingersi in una riflessione di tipo politicosulla guerra che ne individui i responsabili, e si limiti, invece, a spiegare ilterribile momento storico, con la crisi morale e spirituale dell’uomo in ge-nerale e il suo allontanamento dalla fede in dio e dai principi della fedecristiana. era questa, in fondo, la linea della Santa Sede sotto il pontificatodi Pio XII, estremamente cauta a pronunciarsi sulla situazione internazio-nale48.La lettera pastorale del 1941 è rivolta principalmente a tutti i sacerdoti

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46 IBIDEM.47 IVI, p. 18.48 Cfr. PIetro SCoPPoLa, La Chiesa e il fascismo: documenti e interpretazioni, Laterza, Bari1971.

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della diocesi ed è incentrata su una serie di consigli e di precetti finalizzatia guidarli nell’adempimento dei loro doveri, che sono «molti e gravi», comedice il vescovo. egli suggerisce ai suoi sacerdoti lo studio della teologiamorale e della dommatica, ma soprattutto della Sacra Scrittura e ricordaloro che «il primo dovere di ogni sacerdote è la vita santa per edificare ilprossimo col buon esempio»49.appena un accenno si coglie nella lettera uscita in piena guerra (19marzo 1941), ai «tempi attuali» che egli definisce «pieni di incognite, etanto martoriati»50.«Una grande preoccupazione per la nostra diocesi» è il titolo della let-tera pastorale per la Quaresima del 1942, rivolta a tutti i fedeli della dio-cesi, ai quali il vescovo ricorda che per salvarsi «occorre indispen-sabilmente» anche la loro «cooperazione». dopo aver fatto nella letteraprecedente una requisitoria sulla condotta dei sacerdoti davanti a dio edavanti al prossimo, il vescovo Faggiano, in questa lettera, prende la lorodifesa, accusando i fedeli di «noncuranza», di «disprezzo» e quasi di «odio»nei loro confronti. eppure – egli scrive – «il sacerdote è il banditore delladivina parola» è «l’operaio evangelico, che deve affaticarsi senza posa perla conquista delle anime» e ai fedeli tocca «rispettarlo sempre come mini-stro di dio; compatirlo se difettoso, aiutarlo se povero» e non già «mor-morare, borbottare contro di lui» e, magari, anche «calunniarlo»51.La lettera pastorale del 1943 porta il titolo de «La nostra salvezza», edesprime fin dalle prime righe, il dolore del vescovo difronte alla tragediadella guerra che imperversa in tutta europa e nel resto del mondo.«L’uragano che sempre più furioso imperversa sul mondo; lo schianto di vite umane;la sistematica distruzione di città, di monumenti, di opere d’arte, che da secoli hanno for-mato l’ammirazione di tutti, ci fa esclamare come già gli apostoli atterriti: Signore, salvaci,noi siamo in pericolo!... Questa invocazione accorata, queste voci allarmanti ottennero illoro effetto: il cielo si rasserenò, tornò la calma e la bonaccia! e perché non imitare gli apo-stoli Perché ancor noi non ci gettiamo ai piedi di Gesù per invocare la tranquillità, la calma,la pace giusta e duratura?In questa guerra di sterminio, più che nell’altra guerra, pare che il sentimento religiososi sia affievolito e quasi spento in moltissimi fedeli, anzi possiamo affermare, e lo ricor-diamo bene, che certi fenomeni di perversità umana appena appena affioravano allora,mentre nell’attuale guerra si sono sviluppati, cresciuti, dilagati, in modo impressionante.Seguiteci attentamente in questa Lettera Pastorale, e vedrete se sono esagerate le nostreasserzioni, e se davvero non abbiano bisogno di ricorrere a Colui, che solo è capace di se-dare la tempesta!»52.

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49 Lett. 1941, p. 9 sgg.50 IVI, p. 4.51 Lett. 1942, p. 3 - 4.52 Lett. 1943, pp. 3-4.

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Il vescovo continua cercando di trovare le vere cause del tremendo con-flitto, ma la sua indagine ancora una volta si astiene dal dare giudizi e va-lutazioni sull’attualità storica del momento, dall’individuare responsabilitàdi ordine politico. Così egli scrive:«Si è parlato e si parla, si è scritto e si scrive continuamente sulle cause di questo im-mane eccidio mondiale. Non mancano delle riviste autorevoli, ove scrittori di polso ci di-cono spassionatamente quali sono le vere cause di tanti mali, esaminando la condottadell’umanità odierna.Voi spesso ve la prendete con gli uomini di governo, sparlate, criticate, imprecate con-tro uno, contro l’altro! andiamo alla radice del male, andiamo alle cause remote, e ve-dremo chi sono i veri colpevoli. I veri colpevoli siamo proprio noi stessi, che ci siamopreparati tanta iattura, e ne paghiamo le conseguenze! e’ il caso di dire – Incidit in foveamquam fecit (Ps: 7-16). Ci siamo scavati la fossa da noi stessi, ed eccoci precipitati nel caosorribile!»53Il vescovo afferma che, in un’epoca di «formidabile e sbalorditivo pro-gresso nella meccanica e nei ritrovati della scienza», il grande sconosciutoè dio; proprio in questo secolo – egli dice – «che è tenuto il più illuminatonell’ordine naturale», vi è «tanta ignoranza religiosa». Invita. pertanto, icattolici a scuotersi dal loro torpore e a seguire la legge di dio e i precettidella Chiesa. denuncia, inoltre, la corruzione dei costumi e l’ipocrisia diquelli che egli chiama «cattolici a modo loro».Un richiamo all’attualità storica si coglie allorquando il vescovo denun-cia con aspre parole la mancanza di moralità, la perdita del senso del pu-dore nelle donne dei suoi tempi e della sua diocesi:«Siamo sotto il tremendo flagello della guerra; tanta balda gioventù, tanti padri di fa-miglia spargono il loro sangue, danno generosamente la loro vita per il bene della Patria,mentre tante donne gozzovigliano, si divertono, si danno alla bella vita a prezzo del sanguedei loro cari.Basta oramai, e pensiamo a placare lo sdegno di dio con una vita più seria e più cri-stiana! Si tronchino una buona volta certe unioni illegali, certe relazioni; ed ognuno si mettain regola con la propria coscienza!»54.Un altro tema affrontato dal vescovo Faggiano nella lettera pastoraledel ’43 è quello dell’amore sfrenato al danaro, della «cupidigia», che eglivede come uno dei tanti mali che angustiano la società del suo tempo.«L’uomo in genere desidera il danaro» - egli scrive - e per aumentarlo è ca-pace di tutto. Parole di fuoco il vescovo usa riguardo alla «frode», molto diffusa in

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53 IVI, p. 4.54 Lett. 1943, pp. 6-7.

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quegli anni difficili della guerra, molto più pericolosa e subdola dei furti,e, in particolare, contro il diffuso fenomeno del «mercato nero»:«Con due parole laconiche la frode dei tempi nostri si definisce: mercato nero! Vi sem-bra poco? Pare incredibile che essa sia penetrata in tutte le cellule della società! e’ una veralue contagiosa, della quale non si vuol conoscere l’enorme gravezza, le fatali conseguenze,perché si è perduto il senso del pudore e della responsabilità davanti a dio e davanti alprossimo! Felice e contento chi può nascondere, trafugare, chi può sottrarre per venderea prezzi favolosi, e per questo non si trova nulla! Si trova tutto se comprate a discrezionedel venditore, il quale vi fa un favore squisito e da amico se vi cede la merce succhiandoviil sangue come un vampiro!»55.In questa sua lettera pastorale del ’43 appare evidente che il vescovo-passionista, finora molto prudente e riservato nell’esprimere valutazionisulla situazione storico-politica dei difficili anni del fascismo e della guerra,forse perché «angosciato» dalle enormi difficoltà del momento, da lui vis-sute in prima persona nella sua diocesi56, si apre a qualche riflessione sullarealtà di quel tempo denunciando – come abbiamo visto – il deplorevolefenomeno del «mercato nero», presente anche nel commercio della suadiocesi, ma anche quello, altrettanto diffuso, della immoralità, della diso-nestà e del tradimento.ed ecco le sue parole:«Si commettono frodi a danno dello Stato, delle ditte, dei padroni senza alcuno scru-polo. Si frauda falsificando, alterando pesi, misure, generi, cifre, negando, spergiurando!ma io dico: avete voi un’anima da salvare? Non sapete voi che gli ingiusti non saranno eredidel regno di dio?...Volete sapere dove si arriva? mentre i nostri cari combattenti si assoggettano a milledisagi, a privazioni, a stenti, quali porta con sé la guerra, tanti cittadini fuori pericolo, tantedonnette allegre vorrebbero che essa non finisse mai per continuare una vita equivoca elosca!»57.altri interessanti spunti documentari per capire l’atteggiamento dimons. Faggiano nei confronti del drammatico periodo bellico da lui vissutocon gravi difficoltà nella sua sede vescovile di Cariati, vengono dal suo«epistolario ascetico»58, più volte richiamato da Pietro Borzomati in unsaggio sulla pastoralità del vescovo-passionista.

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55 Ivi, pp. 7-8. 56 Sulla situazione di Cariati, capoluogo dell’omonima diocesi governata in quegli annidal vescovo Faggiano, vedi r. e F. LIGUorI, Cariati nella Storia cit., pp. 152-158 e 243-249.57 Lett. 1943, p. 8.58 Epistolario ascetico di mons. Eugenio Raffaele Faggiano, 1939-1959, in archivio dellaProvincia dei PP. Passionisti di manduria (ta).

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Così si esprimeva in questo suo epistolario il vescovo Faggiano, nell’ot-tobre del 1941: «In quanto alle mie afflizioni ed ai disagi in questa diocesiabbandonata per tanti anni, vi è chi vorrebbe impegnarsi per un cambia-mento». e ancora:«Non chiederò mai di cambiare: la sola ubbidienza potrà muovermi da questo posto, enon è consigliabile fare diversamente. S’intende che anche per me e pel Seminario i tempisono contrari: ma, con l’aiuto del Signore, non ci limitiamo con la sola tessera; abbiamodelle riserve e possiamo dire che abbiamo più del necessario»59.emerge da questi scritti fuori dall’ufficialità delle lettere pastorali e,quindi, di carattere intimo e riservato, il carattere combattivo del vescovo-passionista, che è disposto a qualsiasi sacrificio pur di difendere la diocesiche gli è stata affidata60.altri documenti utili per conoscere il carattere della pastoralità dimons. Faggiano sono una serie di lettere circolari, dattiloscritte, indirizzateai sacerdoti e ai fedeli della diocesi nel periodo 1944-1953.riferimenti alla realtà drammatica della guerra sono ancora presentiin una lettera rivolta “a tutti i sacerdoti della diocesi” il 4 giugno del 1944,con la quale il vescovo spiega la sospensione della pubblicazione del Bol-lettino diocesano, «cagionata» – egli scrive – «dalla congiuntura dellaguerra, che ci ha portato ad una vera rovina, ed ha scosso paurosamentela compagine spirituale, morale ed economica della nostra diocesi, anzi ditutta la diocesi»61.Scopo della lettera sopracitata è quello di dare alcune direttive aglistessi sacerdoti ma anche ai fedeli. Il vescovo torna nuovamente, con toniancora più sferzanti sul tema del malcostume, dell’immoralità e dell’in-gordigia del danaro già affrontati nella lettera pastorale del ’43: «Vi siete accorti come in questa guerra sterminatrice il popolo si è allontanato da dioe si è abbandonato al malcostume, all’immoralità ed all’ingordigia del danaro in modo rac-capricciante? Questa corsa sfrenata ai piaceri ed all’acquisto delle ricchezze non accennaa diminuire, ed ha ossessionato la quasi totalità dei fedeli: è diventata come un morbo con-tagioso tanto più esiziale quanto meno si avverte il danno incalcolabile, che arreca al-

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59 P. BorzomatI, La pastoralità e la spiritualità cit., pp. 137-153.60 In una lettera del suo «epistolario ascetico» del 23 agosto 1943, scritta probabil-mente dal Seminario estivo di Perticaro (Umbriatico), così scrive alla sua figlia spirituale:«o carissima figlia, gli avvenimenti precipitano e molti mi consigliano di non tornare insede. Io rispondo: appunto perché vi è pericolo io torno a Cariati, e starò quasi solo per cu-stodire la Cattedrale e l’episcopio». La lettera è riportata in P. BorzomatI, Movimento catto-lico cit., p. 148.61 Lett. 1944, p. 1.

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l’anima, già lontana da dio. Girate per le città, per i paesi, per le campagne, e vi incontreretedei vampiri umani, che si succhiano il sangue l’uno dell’altro. e noi ce ne stiamo indifferenti? ed assistiamo impassibili a tanta decadenza morale ereligiosa? ma via! Pare che noi sacerdoti abbiamo perduto ogni autorità, e timidi, ci fac-ciamo trascinare nel nostro colpevole silenzio dal torrente impetuoso dell’odierna societàpaganeggiante»62.ai sacerdoti il vescovo raccomanda, in questa lettera circolare, di essere«prudenti», «caritatevoli», «paterni», di «correggere, istruire, additare lavia del bene», precisando che «la Chiesa non fa della politica» e che «i sa-cerdoti non debbano appartenere ad alcun partito»63.Il 22 aprile 1945 il vescovo Faggiano torna a rivolgersi «a tutti i sacer-doti ed ai fedeli della diocesi di Cariati», con un nuovo suo messaggioscritto che si apre con le parole: «tutti col cuore angosciato sospiriamo lapace! tutti come smarriti e sgomenti ci domandiamo: quando finisce que-sto immane flagello provocato dalle nostre colpe?»64. Si coglie in questeparole la netta condanna della guerra da parte di mons. Faggiano, il qualene attribuisce la responsabilità a tutta l’umanità, che «è molto lontana dadio e dalla sua legge»65.altri «messaggi» del vescovo Faggiano al clero e ai fedeli della sua dio-cesi si datano al 1950 e sono ispirati all’anno Santo, indetto da Pio XII nelmaggio 1949. Nel dicembre del ’49 mons. Faggiano, rivolgendosi al vene-rabile clero e al carissimo popolo della diocesi di Cariati, così si esprime:«Un fremito di gioia e di esultanza pervade il nostro cuore! In quest’ora comincia l’annoSanto, il massimo giubileo, promulgato già dal regnante Pontefice Pio XII il giorno del-l’ascensione 26 maggio di quest’anno 1949. È l’incontro dell’umanità con dio, di Gesù Pa-store eterno, Principe della Pace, con le anime erranti e martoriate dall’odio e dallavendetta per condurle al suo cuore divino»66.Il 14 marzo del 1950, rivolgendosi ai sacerdoti della sua diocesi, liesorta a impegnarsi con queste parole:«o parroci, o sacerdoti, a voi facciamo appello, a voi chiediamo aiuto nella presente tra-gica ora per la misera umanità… Non risparmiate fatiche, non permettetevi soste! alzatela voce, esortate le anime affinchè tornino a dio, nutrendosi della dottrina del Vangelo eriformando i loro costumi!»67.

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62 IBIDEM.63 IBIDEM.64 Lett. 1945.65 IBIDEM.66 Lett. 1949, p. 1.67 Lett. 14 marzo 1950.

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Il tema sul quale il vescovo-passionista insiste è sempre lo stesso: lanecessità che l’uomo si allontani dall’immoralità e da una vita all’insegnadel materialismo e si avvicini a dio. egli invita i suoi fedeli a tornare a diorichiamando le parole rivolte da papa Pio XII all’azione Cattolica: «a nes-suno è lecito essere neghittoso e pigro, mentre sovrastano tanti mali e tantipericoli, mentre quelli che sono dall’altra parte così alacremente lavoranoper distruggere le tesi stesse della religione cattolica e del culto cristiano68. Si coglie anche in questo scritto, ancora una volta, l’assoluta fedeltà delvescovo Faggiano alle direttive di Papa Pacelli, il cui messaggio era quellodi rafforzare la Chiesa per rinnovare la società. La via da seguire eral’«anno del gran ritorno»: il ritorno dei singoli a una fede vissuta in pro-fondità, il ritorno delle società distaccatesi dai riferimenti religiosi, il ri-torno di quelli che erano ostili al cristianesimo. Il ritorno alla Chiesa erasemplificato dal pellegrinaggio a roma.all’anno Santo del 1950 il vescovo Faggiano dedicherà anche un’appo-sita lettera pastorale, datata 1 agosto 1950, nella quale si coglie l’eco dellanuova guerra scoppiata proprio quell’anno nell’estremo oriente, la guerradi Corea: «Un lontano fragore di guerra scuote gli animi, atterrisce i cuoriper gli ultimi avvenimenti bellici»: così esordisce mons. Faggiano in questasua lettera, invitando tutti a mobilitarsi contro questo nuovo «orribile fla-gello».Il vescovo-passionista si fa interprete dei sentimenti del Santo Padre,esternandoli ai fedeli della sua diocesi nella lettera pastorale dell’agosto1950:«Non è la prima volta che il S. Padre, vigile sentinella,con accenti accorati si rivolge allozelo pastorale dei Vescovi affinché alzino la loro voce e richiamino l’attenzione dei fedelialle loro cure affidati.Con la presente lettera facciamo eco alle giuste preoccupazioni del Sommo Ponteficerivolgendoci in modo speciale alle anime buone della nostra diocesi. Si, ne abbiamo animebuone in questa nostra cara diocesi! o anime di dio, o anime ferventi, pregate, pregate assaiaffinché stia lontano dalle nazioni il flagello della guerra!»69.Interessanti riflessioni sulla pace e sui modi per ottenerla sono conte-nute ancora in questa lettera pastorale dedicata al giubileo del 1950, concommento al documento sulla pace di Pio XII:«Sappiate, o dilettissimi, il S. Padre ce lo ripete ancora, che una giusta durevole pacescaturisce solo dalle norme e dai principi dettati da Cristo e messi in pratica con sincera

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68 IBIDEM.69 Lett. 1 agosto 1950, p. 5.

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pietà. essi richiamano gli uomini alla verità, alla giustizia e alla carità; pongono un frenoalle loro cupidigie; obbligano i sensi ad obbedire alla ragione; muovono questa ad obbedirea dio; fanno si che tutti, anche coloro che governano i popoli, riconoscano la libertà dovutaalla religione, la quale, oltre allo scopo fondamentale di condurre le anime all’eterna sal-vezza, ha anche quella di tutelare e proteggere i fondamenti stessi dello stato».«da ciò si può arguire quanto siano lontani dal procurare una sicura pace coloro checalpestano i sacrosanti diritti della Chiesa Cattolica; proibiscono ai suoi ministri il liberoesercizio del culto, condannandoli anche all’esilio e al carcere; impediscono o addiritturaproscrivono e distruggono le scuole e gli istituti di educazione che sono retti secondo lenorme e i principi cristiani; trascinano con errori, colunnie e ogni genere di turpitudini ilpopolo e specialmente la tenera gioventù dalla integrità dei costumi, dalla virtù e dalla in-nocenza verso gli allettamenti dei vizi e la corruzione»70.Si legge chiaramente in queste parole la netta condanna del comunismoreale e dei paesi dove esso domina, calpestando i diritti dei cattolici, chenon sono liberi di professare la loro religione. È la condanna proclamatasolennemente da papa Pacelli contro l’ateismo comunista e fatta propriadai vescovi cattolici.Il gran disegno di Pio XII con l’indizione dell’anno Santo71 era, in so-stanza, una palingenesi, «il ritorno dell’intera umanità ai disegni di dio»,un ritorno insistentemente auspicato anche dal vescovo Faggiano, in tuttii suoi documenti pastorali, l’ultimo dei quali è una lettera circolare indi-rizzata ai sacerdoti e ai fedeli della sua diocesi il 29 novembre 1953, in oc-casione dell’anno mariano 1953-54, della quale riportiamo qui di seguitola parte introduttiva:«Un fremito di gioia pervade tutto il mondo cattolico, che si ripercuote in ogni angolodella terra!Un astro fulgente brilla sul firmamento, e scuote dal torpore di una vita edonista e sen-suale un mondo corrotto e immerso nei vizi, nei divertimenti e nell’indifferenza religiosa:Siamo all’anno mariano!L’ammirevole enciclica del regnante Pontefice Pio XII Fulgens corona ci ricorda comecent’anni orsono il sommo Pontefice Pio IX, d’immortale memoria, definì come domma difede l’Immacolato Concepimento di maria SS.ma, madre di dio e madre nostra. tutto ilmondo esultò allora, e dobbiamo esultare anche noi in quest’anno mariano, che cominceràl’8 dicembre prossimo, celebrando con ardente fervore e con la massima solennità un taleavvenimento.ma non dobbiamo fermarci ad un ricordo storico, che sarebbe ben poco; dobbiamo co-minciare una vita secondo i dettami del Vangelo e della santa legge di dio»72.Come rileva opportunamente maria mariotti, che a mons. Faggiano ha

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70 IVI, p. 6.71 Sull’anno Santo del 1950 cfr.: aNdrea rICCardI, 1950, il giubileo di Pio XII, in «La storiadei giubilei», vol. IV, BNL edizioni, roma 2000.72 Lett. 1953, p. 1.

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dedicato il già citato saggio del 1999, gli scritti pastorali del vescovo-pas-sionista «manifestano una sua profonda consapevolezza del mondo in cui vive: non quella più at-trezzata culturalmente dello studioso, ma quella spirituale e sofferta del pastore che viveil suo ministero in una situazione di grave degrado materiale e morale. egli non se la na-sconde, anzi la tiene presente e intende affrontarla, non disdegnando gli strumenti umaniche i tempi e l’ambiente gli offrono …, ma ponendo la sua fiducia prima e ultima nell’aiutodivino, ritenuta unica forza risolutiva di redenzione e di salvezza»73.dopo aver studiato tutti i suoi documenti pastorali ci troviamo d’ac-cordo con questa valutazione finale dell’illustre storica del movimento cat-tolico in Calabria, in merito alla pastoralità del vescovo Faggiano, che ressela diocesi di Cariati nel complesso ventennio che va dal 1936 al 1956, trafascismo, guerra e difficile ritorno alla democrazia.

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73 m. marIottI, La pastoralità cit., p. 258.

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L’ingresso della nazione in guerra e l’internamento dei civili. Durante la Seconda guerra mondiale, il governo fascista utilizzò lo stru-mento dell’internamento per togliere dalla circolazione migliaia di civiliitaliani e stranieri giudicati “indesiderabili” o “pericolosi” per la sicurezzanazionale o per quella del regime: in primo luogo “sudditi nemici”, dissi-denti politici (veri o presunti) e “allogeni” della Venezia Giulia (cioè italianiappartenenti alle minoranze etniche slovena e croata)1. Vennero inoltreinternati gli ebrei stranieri e apolidi (in buona parte emigranti e profughifuggiti dalle persecuzioni hitleriane, ai quali, negli anni precedenti, erastato consentito l’ingresso e un “rifugio precario” in Italia), mentre gli ebreiitaliani non furono internati in quanto tali, ma solo se già segnalati per mo-tivi politico-sociali (si ricorda che le leggi antisemite fasciste degli anni1938-39 – seppure fortemente discriminatorie sul piano dei diritti civili –non prevedevano né l’internamento, né alcuna vessazione di tipo fisico)2.complessivamente, fino alla caduta del regime, operarono 48 campidi concentramento per internati civili, che furono sottoposti al controllodel ministero dell’Interno e allestiti, quasi tutti, nel centro-Sud. tra essi,uno dei pochi realizzati ad hoc, con struttura a baraccamenti, fu quellodi ferramonti, aperto a pochi giorni dall’ingresso della nazione in

Tra rimozioni, mitizzazioni e didattica.Brevi considerazioni sulla memoria di Ferramonti

e sull’internamento civile fascista

Carlo Spartaco Capogreco

1 Per una veloce informazione generale sull’argomento, rimando alla voce Internamentocivile, redatta da chi scrive per il Dizionario del fascismo, a cura di VIctorIa De GrazIa e SerGIoLuzzatto, vol. I, einaudi, torino 2002, pp. 674-676. Sugli internati civili italiani, sempre utileè lo studio dell’aNPPIa: SImoNetta caroLINI (a cura di), “Pericolosi nelle contingenze belliche”.Gli internati dal 1940 al 1943, aNPPIa , roma 1987.2 Sul contesto generale dell’atteggiamento del regime fascista verso gli ebrei, lo studiopiù aggiornato è mIcheLe SarfattI, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione,einaudi, torino 2000. Sull’internamento degli ebrei stranieri da parte del fascismo restafondamentale KLauS VoIGt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, vol. II, LaNuova Italia, firenze 1996 (ediz. originale Stuttgart 1993).

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

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guerra, in una landa malarica presso tarsia, in calabria3.Le condizioni materiali della vita nei campi (allestiti dal fascismo, maspesso rimasti attivi anche nei “45 giorni” del governo Badoglio), delineatedal Decreto del Duce del 4 settembre 19404, inizialmente non furono moltodure5. Soprattutto se confrontate con quelle vigenti negli speciali campiper civili dell’“internamento parallelo”, aperti dal regime in seguito all’oc-cupazione nazifascista della Jugoslavia (e gestiti generalmente dalle auto-rità militari), nei quali si registrarono indici di mortalità talvolta davveroraccapriccianti6. Nel maggio del 1940 il governo fascista aveva previsto l’internamentodi tutti gli ebrei non italiani presenti nella Penisola. Si precisò poi che, ini-zialmente, sarebbero stati avviati nei campi solo gli uomini adulti, mentreper donne e bambini era previsto il domicilio obbligato in piccoli comuni;e che, successivamente, sarebbero stati tutti “accentrati” a ferramonti7.Nei fatti, il 15 giugno 1940 fu disposto l’arresto degli «ebrei stranieri ap-partenenti a Stati che fanno politica razziale», col successivo internamentoin appositi campi di concentramento già in allestimento» di quelli tedeschi,ex cecoslovacchi, polacchi e apolidi e l’espulsione di quelli rumeni, unghe-resi e slovacchi8.Il 4 giugno ’40, su richiesta del ministero dell’Interno, il comune di tar-sia deliberò la concessione di un primo lotto di terreno demaniale desti-nato a ospitare il previsto campo di concentramento (inizialmentechiamato della “media valle crati”). a realizzare la struttura e a garantirsipoi la gestione di uno spaccio in monopolio fu eugenio Parrini, un impren-ditore-faccendiere fascista già impegnato in loco per la bonifica della valle

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3 Per la mappatura dei campi in oggetto rimando al mio I campi del duce. L’internamentocivile nell’Italia fascista (1940-1943), einaudi, torino 2004, pp. 177-247 (su ferramontialle pp. 242-244). 4 apparso sulla «Gazzetta ufficiale», n. 239 dell’11-10-1940.5 Gli internati privi di mezzi propri di sostentamento, come i confinati, ricevevano dalgoverno un piccolo sussidio di sopravvivenza.6 Internamento “regolamentare” e “parallelo” sono le diciture (ormai pienamente ac-quisite dalla storiografia sull’argomento) che ho scelto nel 2004 (I campi del duce cit.) perdefinire le due diverse tipologie di internamento dei civili realizzate dall’Italia monarchico-fascista . Per la mappatura dei campi dell’“internamento parallelo”, cfr. ivi, pp. 251-276. cfr.pure carLo SPartaco caPoGreco, Una storia rimossa dell’Italia fascista. L’internamento deicivili jugoslavi, in «Studi Storici», 1, 2001, pp. 203-230.7 Secondo le previsioni ministeriali, gli ebrei sarebbero rimasti a ferramonti «anche aguerra ultimata, per essere trasferiti di là nei paesi disposti a riceverli» (m. SarfattI, Gliebrei nell’Italia fascista cit., p. 172).8 cfr. K. VoIGt, Il rifugio precario cit., pp. 5-11.

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del crati9. al momento dell’entrata in funzione, ferramonti (affidato allasorveglianza interna della Pubblica sicurezza e a quella esterna della mi-lizia fascista) disponeva di soli due capannoni in via di completamento edi alcuni preesistenti edifici in muratura appartenuti al cantiere di bonificadella ditta Parrini, nei quali venne alloggiata la direzione del campo10. Lestrutture in via di realizzazione (grandi baracconi di materiale legnoso)poggiavano su uno spiazzo polveroso che al primo scroscio di pioggia sitramutava in acquitrino. a un mese dall’apertura del campo, i suoi abitanti(rastrellati nelle grandi città dell’Italia centro-settentrionale) ammonta-vano a un centinaio; nell’autunno poi, con un trasporto di 302 ebrei mit-teleuropei arrestati in Libia nel settembre 1940, gli internati (compren-denti, ora, anche donne e bambini) divennero 70011. Ferramonti tra gli altri “campi del duce”ferramonti (con una superficie di 16 ettari e una presenza media di800 persone) cominciò a configurarsi come una comunità chiusa, per ta-luni aspetti paragonabile ai ghetti dell’europa orientale, per altri ai kib-buthz della Palestina. In alcuni casi, sotto scorta, gli internati potevanouscire all’esterno, per effettuare acquisti o sottoporsi a visite mediche spe-cialistiche. e i calabresi del circondario li guardavano con sospetto, primadi rendersi conto che non erano “individui diabolici”, come li dipingeva lapropaganda del regime, ma piuttosto poveri perseguitati12. ferramontinacque perciò come campo ebraico; ma a partire dal novembre ‘41 comin-ciò a ospitare altre categorie di internati: “ex jugoslavi”, greci, cinesi, fran-

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9 cfr. maSSImo LeoNe, Le organizzazioni di soccorso ebraiche in età fascista, carucci, roma1983, pp. 210-211; S. caroLINI, (a cura di), “Pericolosi nelle contingenze belliche” cit., pp.367-369 (relazione dell’ispettore medico collina del 3 marzo 1942). 10 alla direzione venne chiamato un commissario della Pubblica sicurezza: l’avellinesePaolo Salvatore (1899-1980), cui si sarebbero succeduti Leopoldo Pelosio e mario fraticelli.I rapporti con gli internati vennero curati soprattutto dal maresciallo reggino Gaetano mar-rari (1891-1987). 11 Per la storia del campo, cfr. carLo SPartaco caPoGreco, Ferramonti. La vita e gli uominidel più grande campo di internamento fascista (1940-1945), La Giuntina, firenze 1987; peril turn-over degli internati (dall’apertura del campo all’agosto ‘43), cfr. fraNceSco foLINo,Ferramonti un lager di Mussolini. Gli internati durante la guerra, Brenner editore, cosenza1985. Sulle presenze e i movimenti degli internati è molto utile il sito web www.annapiz-zuti.it, peraltro in continuo aggiornamento. una storia attraverso le testimonianze emergedal volume di marIo reNDe, Ferramonti di Tarsia. Voci da un campo di concentramento, mur-sia, milano 2008.12 cfr. c.S. caPoGreco, Ferramonti cit., pp. 173-181.

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cesi e, infine, alcuni antifascisti italiani. La presenza ebraica, tuttavia, nonsarebbe stata mai inferiore al 70% degli internati, che toccarono la puntadi massimo affollamento nell’agosto ’43, con 2016 unità. L’afflusso più con-sistente si ebbe nel febbraio-marzo 1942, quando arrivarono 494 giovaniebrei che avevano tentato di raggiungere la Palestina con un battello, il“Pentcho”, partito da Bratislava nel maggio 1940 e naufragato nell’egeo13.altri trasporti significativi riguardarono: 1) un gruppo proveniente da Lu-biana, composto da 106 ebrei tedeschi, polacchi, austriaci e cecoslovacchi,arrivato a ferramonti il 31 luglio ‘41; 2) un secondo “gruppo Lubiana”,composto da 50 persone, che giunse nel settembre 1941; 3) un “gruppoKavaja” (dal nome della cittadina albanese nella quale era stato internatoinizialmente) composto da 187 ebrei, in buona parte originari di Belgradoe Sarajevo, che giunse a ferramonti nell’ottobre ‘4114. Per la straordina-rietà della propria vicenda, va anche menzionato l’arrivo di tre ebrei, giuntinel campo dopo un’incredibile fuga dalla Polonia avvenuta il 26 ottobre194215. Nella prima metà del ’42 arrivarono inoltre a ferramonti altri 164ebrei stranieri: 48 da Isola del Gran Sasso, 58 da Notaresco, e 34 da Iserniae alberobello (quattro “campi del duce” sgombrati allora dagli internatiebrei). Nella primavera 1943 giunsero infine in calabria ulteriori 300 ebreistranieri, relegati precedentemente come “internati liberi” in paesini delleprovince di aosta, asti e Viterbo16. L’internamento fascista non corrispondeva, propriamente, a una pri-gionia. In tutti i 48 campi il comportamento delle autorità – salvo pochicasi di violenza, generalmente messi in atto dalla milizia – si conformò allenorme umanitarie previste dalla convenzione del 1929 sulla prigionia diguerra (ricalcate dal decreto del duce del settembre 1940). a ferramonti– anche se la segregazione era ben palpabile per via del filo spinato, degliappelli e della sorveglianza armata – i civili internati, al pari di quelli rele-gati dal regime nelle “colonie di confino” fin dal 1926, poterono gradata-

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13 cfr. Luca PIGNataro, I naufraghi del Pentcho. Profughi ebrei nell’Italia in guerra, in«Nuova Storia contemporanea», 1, 2012, pp. 37-50.14 cfr. carLo SPartaco caPoGreco, I profughi ebrei rastrellati in Montenegro nel luglio 1941e il loro internamento in Albania e in Italia, in Laura Brazzo e mIcheLe SarfattI (a cura di),Gli ebrei in Albania sotto il fascismo: una storia da ricostruire, La Giuntina, firenze 2010,pp. 153-167.15 Sull’arrivo dei tre giovani ebrei e sul lungo e travagliato percorso compiuto, cfr. K.VoIGt, Il rifugio precario cit., pp. 28-29; c.S. caPoGreco, Ferramonti cit., pp. 99-108. 16 L’“internamento libero” (l’opzione più blanda dell’“internamento regolamentare”)corrispondeva, sostanzialmente, a un confinamento in piccole località, generalmente isolatee disagiate.

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mente usufruire di diverse iniziative autogestite17. Inoltre, gli ebrei pote-rono contare sull’aiuto della “Delasem” di Genova (l’ente assistenziale peri correligionari profughi, istituito dalle comunità israelitiche italiane) e suquello della “mensa dei bambini” di milano18. ma, dalla metà del 1942, leulteriori restrizioni imposte dalla guerra peggiorarono notevolmente lasituazione, e la fame cominciò a imperversare anche a ferramonti, sebbenegli internati tentassero, quando possibile, di porvi rimedio col mercatonero e il baratto. Nel marzo 1942 essi ricevettero la visita del rabbino capodi Genova riccardo Pacifici, personalità di spicco dell’ebraismo italiano.L’anno prima avevano avuto quella di francesco Borgongini-Duca, nunzioapostolico presso il governo, che convinse il Vaticano a inviare nel campo,in pianta stabile, padre callisto Lopinot (1876-1966), un anziano cappuc-cino alsaziano19. complessivamente, persero la vita a ferramonti (per ma-lattia o incidenti) una quarantina di persone, con un tasso annuo dimortalità dell’ordine del cinque per mille: cioè non superiore a quello ri-scontrabile mediamente nei paesi del circondario20. Non vanno tuttaviatrascurate le continue sofferenze psicologiche patite dagli internati ebrei,sempre assillati dall’incertezza del domani e dal terrore dell’eventuale de-portazione, che portarono qualcuno persino alla pazzia21.

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17 Nel campo operarono una biblioteca, un ambulatorio medico, luoghi di culto, scuole,un “tribunale” (per piccole controversie) e persino un parlamentino (l’assemblea dei “capicamerata”), alle cui deliberazioni il direttore faceva generalmente riferimento con criterioconsultivo.18 Sulla “Delasem” cfr. SaNDro aNtoNINI, Delasem. Storia della più grande organizzazioneebraica di soccorso durante la seconda guerra mondiale, De ferrari, Genova 2000; La“mensa” era un organismo privato creato da Israel Kalk, un ebreo lèttone divenuto cittadinoitaliano prima del 1919, e pertanto – a norma delle leggi antisemite fasciste – non assog-gettabile all’internamento. Sul suo operato cfr., in particolare, KLauS VoIGt, Israel Kalk e ifigli dei profughi ebrei in Italia, in «Storia in Lombardia», IV, 2, 1990.19 Sull’esperienza di Lopinot, cfr. «analecta fratrum minorum cappuccinorum», LX,1944, pp. 70-75 e LXI, 1945, pp. 40-44; e, in particolare, il diario degli anni trascorsi nelcampo (1941-1944), prodigiosamente recuperato da LuIGI INtrIerI e pubblicato a sua cura(con traduzione italiana) in Ferramonti: un Lager nel Sud, a cura di fraNceSco VoLPe, oriz-zonti meridionali, cosenza 1990, pp. 156-207.20 cfr. carLo SPartaco caPoGreco, L’internamento degli ebrei stranieri ed apolidi dal 1940al 1943: il caso di Ferramonti-Tarsia, in Italia Judaica. Gli ebrei nell’Italia unita 1870-1945,ministero per i Beni culturali e ambientali, roma 1993, pp. 533-563.21 fu questo il caso del rabbino jugoslavo otto Deutsch (1911-1943), corrispondentedella «Delasem» da fiume, internato a ferramonti nel 1941 e da lì, nell’estate del ’43, av-viato nel manicomio di Nocera Inferiore, dove morì trentaduenne. (cfr. K. VoIGt, Il rifugioprecario cit. pp. 229,254) L’amaro stato d’animo dominante tra gli internati, in particolaretra quelli più giovani, emerge pienamente, a esempio, dalle riflessioni del direttore dellascuola autogestita di ferramonti, Jan hermann (archivio del centro di Documentazioneebraica contemporanea di milano, fondo “Israel Kalk”, II, 2).

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al ministero dell’Interno, nel luglio 1943, si stava ipotizzando il trasfe-rimento “al Brennero” degli ebrei del campo calabrese22. ma l’inquietanteipotesi naufragò in giornata per via dell’arresto di mussolini, un evento che,anche a ferramonti, fece sperare nella rapida fine della guerra. ai primi disettembre, per il timore di essere catturati dai tedeschi, tanti internati siallontanarono dal campo (ormai non più fascista) col beneplacito della di-rezione; e, rimaste incustodite, molte baracche vennero saccheggiate daicontadini dei dintorni. Poi, il 14 settembre ‘43, vi giunsero finalmente i sol-dati dell’VIII armata britannica23. Iniziò così a operare il “secondo campo”di ferramonti: di fatto, un centro di raccolta per displaced persons che il 1°ottobre ‘43 contava già 1854 persone, tra cui tanti ebrei già internati inpaesi del circondario. a dirigerlo fu nominato, il mese dopo, lo statunitenseLouis Korn, e ferramonti, tra il 1943 e il ‘44, divenne, oggettivamente, lapiù fervente comunità ebraica d’Italia. una grande comunità che, però, co-minciò immediatamente a spopolarsi, perché molti ex internati si trasferi-rono a cosenza, in Sicilia e in Puglia; oppure raggiunsero il resto dell’Italiagià liberata, il Nord africa, la Palestina o gli uSa24. Nel maggio ‘44, col primotrasporto autorizzato dal governo mandatario britannico, 254 ebrei lascia-rono il campo per raggiungere Eretz Israel. altri 240 si imbarcarono per gliuSa, il 17 luglio ‘44, insieme a 760 loro correligionari già internati in altriluoghi del Sud25. La prefettura di cosenza, già nel gennaio 1945, dichiaravasciolto il campo di concentramento, ma l’abbandono definitivo di ferra-monti – condizionato dall’andamento complessivo delle vicende belliche –si sarebbe completato, in realtà, col finire dell’anno26.

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22 La proposta di trasferimento fu inoltrata al capo della Polizia, il 25 luglio ’43, dal capodi gabinetto del ministero dell’Interno umberto albini (il documento è riprodotto in c.S.caPoGreco, L’internamento degli ebrei stranieri ed apolidi dal 1940 al 1943: il caso di Ferra-monti-Tarsia cit., p. 561). Sulla questione, cfr. pure: K. VoIGt, Il rifugio precario cit. p. 389-391; mIcheLe SarfattI, Gli ebrei negli anni del fascismo: vicende, identità, persecuzione, incorraDo VIVaNtI (a cura di), Gli ebrei in Italia, v. II, einaudi, torino 1997, pp. 1699-1700.23 cfr. c.S. capogreco, Ferramonti cit., pp. 143-152.24 cfr. SettImIo SoraNI, L’assistenza ai profughi ebrei (1933-1941). Contributo alla storiadella DELASEM, carucci, roma 1983, pp. 80-81; c.S. caPoGreco, Ferramonti cit., p. 30; LILIaNaPIccIotto, Il Libro della Memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia, mursia, milano 2002; rende,Ferramonti di Tarsia. Voci da un campo di concentramento cit., pp. 134-259..25 cfr. ruth GruBer, Haven. The Unknown Story of 1000 World War II Refugees, SignetBook, New York 1983; K. VoIGt, Il rifugio precario cit., pp. 547-556. 26 Nell’aprile del 1944 ferramonti contava ancora 930 persone e in agosto 300; nelmaggio del 1945, quando si concluse la Seconda guerra mondiale in europa, gli abitantidel campo erano poco più di 200. Infine, nel mese di dicembre, anche il “secondo campo”ferramonti venne definitivamente sgomberato; capogreco, Ferramonti cit., pp. 152-166;YehoShua haLeVY, Habàita, tel aviv 1950 (in ebraico), pp. 149-163.

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La “scomparsa” dei campi fascistiQuesta, per sommi capi, è stata la storia di ferramonti. ma le vicendedell’internamento fascista (alle quali essa appartiene a tutto tondo, anchese talvolta è presentata come “storia della Shoah”27) rimasero avulse dalsentire comune e dall’interesse della ricerca accademica, nel contesto diuna più generale rimozione del passato scomodo fascista e coloniale. talerimozione, in relazione ai campi, diede luogo a uno dei più emblematici epersistenti vuoti di memoria del dopoguerra: un buco nero che, oltre allevicende dell’internamento “regolamentare” del ministero dell’Interno, av-volse anche quelle, ben più tristi, dell’internamento “parallelo” e di quellofascista-repubblicano di Salò. Difatti, dopo il 25 aprile, l’aspirazione al-l’oblio si diffuse in tutta la società italiana; e la neonata repubblica – piut-tosto che affrontare il passato scomodo guardandolo in faccia – preferì«lasciarselo alle spalle»28 e creare miti assolutori: a partire da quello dellasupposta immunità al razzismo e alle sopraffazioni insita nel “caratterenazionale” dei suoi abitanti, ben colto dall’espressione «italiani bravagente»29.Per far capire sino a che punto fosse giunta la rimozione, ricordo unepisodio quasi grottesco del 1965, accaduto a una delegazione jugoslavagiunta in Italia per rendere omaggio alle spoglie mortali di 187 propri con-nazionali deceduti a monigo di treviso durante la guerra. agli ospiti stra-nieri, le autorità trevigiane non seppero indicare neppure il luogo disepoltura di quegli sventurati: come se il campo di monigo non fosse maiesistito!30 ma quell’episodio è solo uno tra i tanti che possono dar conto

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27 tra i non rari apporti di questo genere, cfr., per esempio, Il Kaddìsh a Ferramonti. Leanime ritrovate, pubblicato a castrovillari nel 2014 da uno sconosciuto “centro interna-zionale di studi giudaici”.28 «“Lasciarsi il passato alle spalle», cioè, come scrive tony Judt, «accettare di superare,o dimenticare (negare) il ricordo recente di un conflitto intestino o di una violenza all’in-terno della propria comunità», è stato, in molti paesi, uno degli obiettivi fondamentali deigoverni postbellici (L’età dell’oblio. Sulle rimozioni nel ‘900, Laterza, roma-Bari 2011, p. 8).Sul caso italiano cfr. pure marIo toScaNo, Ebraismo e antiebraismo in Italia. Dal 1948 allaguerra dei sei giorni, franco angeli, milano 2003, pp. 209-210.29 cfr. DaVID BIDuSSa, Il mito del bravo italiano. Persistenze, caratteri e vizi di un paeseantico/moderno, dalle leggi razziali all’italiano del Duemila, Il Saggiatore, milano 1994. fi-lippo focardi ha ormai chiarito che la scelta di alimentare quel mito non fu casuale, mafrutto di una strategia politico-diplomatica precisa che tese ad enfatizzare la «bontà ita-liana» da contrapporre alla «cattiveria tedesca», per distanziare, quanto più possibile, ilfascismo dal nazismo (Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della se-conda guerra mondiale, Laterza, roma-Bari, 2013).30 Nel 2012, finalmente, il saggio di fraNceSca meNeGhettI, Di là dal muro. Il campo di

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della cancellazione che aveva subito il dato storico dell’esistenza di campifascisti nell’Italia smemorata del dopoguerra31. In verità, a riportare un minimo di attenzione sull’argomento, nel1963, c’era stato un breve saggio intitolato Appunti sugli ebrei stranieri inItalia durante la guerra32. L’autore, un ebreo straniero internato dal fa-scismo, frantz hajek, conosceva quella che Klaus Voigt ha definito «la ba-nalità e la miseria della vita nel campo»33 e che maria eisenstein, ebreaviennese internata in abruzzo, ha descritto come «un vegetare pietoso»34.hajek aveva capito che i “campi del duce”, seppure non paragonabili aiLager, non furono certo “villaggi turistici”, ma sudice e ambigue stazionidi attesa, talvolta divenute anticamera della morte, talaltra della libertà35.ma l’Italia di allora non seppe o non volle approfondire36. Preferì conti-nuare ad avallare l’idea, radicata nell’opinione pubblica e nei media, chei campi di concentramento (ricondotti tutti, concettualmente, al sito-ar-chetipo del Lager) fossero, “di per sé”, un fenomeno tedesco. ci vollero glianni ottanta perché l’internamento fascista cominciasse a far breccianella storiografia e nella coscienza civile; e solo nel 1987 apparve una mo-nografia italiana che ricostruiva la storia di uno di quei campi (nella fat-tispecie quello di ferramonti)37.

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concentramento di Treviso (1942-43), Istresco, treviso 2912, ha colmato egregiamente il“buco nero” relativo al campo di monigo.31 ancora negli anni Novanta due importanti campi italiani (ferramonti e campagna)venivano presentati – seppure da una pubblicazione a carattere divulgativo – come “Dur-chgangslager nazisti” (GuStaVo ottoLeNGhI, La mappa dell’inferno. Tutti i luoghi di detenzionenazisti 1933-1945, Sugarco, carnago 1993, pp. 79, 66). 32 fraNtz haJeK, Appunti sugli ebrei stranieri in Italia durante la guerra, in Gli ebrei inItalia durante il fascismo, a cura di Guido Valabrega, in «Quaderni del centro di Documen-tazione ebraica contemporanea», 3, 1963, pp. 153-157.33 KLauS VoIGt, La memorialistica dei profughi ebrei in Italia dopo il 1933, in marIa SechI,GIoVaNNa SaNtoro, marIa aNtoNIetta SaNtoro (a cura di), L’ombra lunga dell’esilio: ebraismoe memoria, Giuntina, firenze 2002, p. 174.34 marIa eISeNSteIN, L’internata numero 6, a cura di carLo SPartaco caPoGreco, mimesis,milano 2014 (1ª ediz. roma 1944). p. 131.35 emblematica può considerarsi, la vicenda, ricostruita da Klaus Voigt, di un ebreo te-desco che, dopo essere stato internato in vari luoghi della provincia di chieti, il 6-2-1944approdò ad auschwitz (Maximilian Segall, un profugo ebreo in Italia, in «La rassegna men-sile di Israel», vol. 54, n. 1-2 gennaio-agosto 1988, pp. 279-304). Nella provincia di chieti,secondo i conteggi effettuati da anna Pizzuti su fonti d’archivio, subirono la deportazionenei Lager una cinquantina dei 367 ebrei stranieri internati colà dal giugno 1940 al settem-bre ’43 (www.annapizzuti.it). 36 Peraltro hajek, nel suo saggio, aveva invitato gli “addetti ai lavori” a: comprendere lepeculiarità di quell’internamento; mappare i relativi campi di concentramento; studiarel’apporto dato dagli internati alla resistenza.37 cfr. carLo SPartaco caPoGreco, Tra storiografia e coscienza civile. La memoria dei campi

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Il lento “ritorno” dei campi fascisti, tra “memory boom” e leggi memorialiIl 1987, a parere di robert S. Gordon (studioso britannico che ha benscandagliato l’evoluzione della memoria pubblica e degli studi prodotti inItalia dal 1944 al 2010), rappresentò, perciò, un «momento cardinale»38.ma credo che quell’anno sia stato, soprattutto, uno spartiacque tra l’antee il post: poco dopo – cadute le ideologie – l’europa occidentale cominciòa individuare nella Shoah l’elemento nodale di storie e memorie nazio-nali39. e, sul finire degli anni Novanta, nel quadro di una crescente «osses-sione commemorativa», quello sviluppo portò la pubblica attenzione perauschwitz (efficace sineddoche rappresentativa di tutta la Shoah) a toc-care livelli di «frastuono massmediatico»40. così, l’ombra dell’universo con-centrazionario nazista si proiettò “naturalmente” sulla memoriaemergente dell’internamento nostrano (non solo sul piano della ricerca edell’apprendimento, ma anche su quelli dell’elaborazione del trauma e del-l’uso pubblico della storia), condizionandone non poco la lettura 41. e conla «moda delle leggi razziali» che coinvolgeva sempre più le scuole, le isti-tuzioni e i mezzi d’informazione42 – lo “scoprire” una rete di campi che

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fascisti e i vent’anni che la sottrassero all’oblio, in «mondo contemporaneo», 2, 2014, pp.137-166.38 cfr. roBert S. c. GorDoN, Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Bollati-Boringhieri, torino 2013, p. 27439 In Italia, col cinquantenario delle “leggi razziali”, si avviò un’inattesa esplosione d’inte-resse per il rapporto fascismo-ebrei ed una nuova stagione di studi che si allargò al dibattitosull’identità nazionale e la costruzione dello stato. a livello più ampio, il crollo del muro e la“fine delle ideologie” determinarono una spropositata crescita del “peso” della memoria edei testimoni. cfr. charLeS S. maIer, Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinco-nia e la negazione, in “Parole chiave”, n. 9, dicembre 1995; Jay Winter, The Generation of Me-mory: Reflections on the “Memory Boom” in Contemporary Historical Studies, in “archives &Social Studies. a Journal of Interdisciplinary research”, Vol. 1, n. 0 (marzo 2007).40 cfr. eNzo traVerSo, Storia e memoria. Gli usi politici del passato, in «Novecento», 10,2004, pp. 9-25. Si vedano pure, a questo proposito, tIm coLe, Selling the Holocaust. FromAuschwitz to Schindler. How History is Bought, Packaged and Sold, routledge, New York1999; réGINe roBIN, Le mémoire saturée, Stock, Paris 2003.41 In verità, il “filtro” dei Lager sull’interpretazione dell’internamento fascista agiva no-tevolmente già prima degli anni Novanta. Lo si può constatare, ad esempio, rileggendo i ti-toli con cui, nel 1987, la stampa accolse l’uscita del primo libro italiano con la storia di uncampo fascista (c.S. caPoGreco, Ferramonti cit.). Nessun titolo riuscì allora a esprimersisenza dover ricorrere a termini come “Lager” o “campo di sterminio”: Un lager per ebrei,ma all’italiana («Il Giorno», 17 maggio 1987), Così l’Italia “importò” i lager («L’unità», 25maggio 1987), Il lager della “buona sorte” («Il Giornale», 16 giugno 1987), Un lager dal voltoumano («Il messaggero», 10 luglio 1987), Il lager della salvezza («La Nazione», 26 agosto1987), Una felice eccezione nei lager di sterminio («il manifesto», 10 dicembre 1987). 42 aLBerto caVaGLIoN ha scritto che la «moda delle leggi razziali» (la definizione è sua)

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avevano operato nella Penisola, portava molti, da un lato, a cogliervi unnesso diretto con la legislazione razziale (e a ritenere che quei campi fos-sero stati creati esclusivamente per gli ebrei); dall’altro, a sottolinearne i“meriti” (ciò che i campi fascisti “non erano stati”, rispetto ai Lager), piut-tosto che a comprenderne le intrinseche specificità storico-politiche43. Si diffuse così la tendenza a racchiudere le vicende dell’internamentomonarchico-fascista in un quadro “olocaustocentrico”44. e si tese anche amitizzare alcuni suoi “campi ebraici” – in primo luogo quelli più grandi:ferramonti (cosenza) e campagna (Salerno)45, trascurando il fattore prin-cipale che, dopo l’8 settembre ‘43, aveva evitato la deportazione degli ebreiin essi internati46. ferramonti, in particolare, divenne tema prediletto diuna narrazione trita che lo definisce, consolatoriamente, un “campobuono”, oppure “all’italiana”47; oggetto di interpretazioni semplicisticheche, anziché favorire una responsabile, seppur tardiva, presa d’atto deldato storico che anche l’Italia avesse perseguitato le minoranze, gli oppo-

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fu sorretta allora da «uno schieramento di forze mai visto prima», e maturò «troppo al-l’improvviso per non essere condizionata dalla pressione degli eventi politici» (L’Italia dellarazza s’è desta, in «Belfagor», 337, 2002, pp. 27-42; poi anche in Ebrei senza saperlo, L’an-cora del mediterraneo, Napoli 2002, pp. 39-49).43 cfr. tereSa GraNDe, La ricostruzione “in positivo” di un’esperienza di internamento: ilcampo di Ferramonti, in DoNateLLa BarazzettI e carmeN LeccarDI (a cura di), Responsabilitàe memoria. Linee per il futuro, La nuova Italia Scientifica, roma 1997, p. 149.44 mi riferisco qui alla propensione (dei “non addetti ai lavori”, ma non solo) a rappor-tare i campi fascisti (sia esecrandoli che mitizzandoli) più ai Lager, agli ebrei ed alla Shoah,che non alla dittatura di mussolini, al suo progetto totalitario ed alle sue specifiche formedi repressione/segregazione. Negli studi sul fascismo successivi al 1988, come osservafrancesco Germinario, è una tendenza diffusa e fuorviante quella di proiettare l’antisemi-tismo (ma estenderei il concetto anche all’internamento: persino a quello non rivolto agliebrei) «verso una posizione da cui fosse possibile scorgere auschwitz e il devastante pro-getto nazista della Shoah» (fraNceSco GermINarIo, Fascismo e antisemitismo, Progetto raz-ziale e ideologia totalitaria, Laterza, roma-Bari 2009, p. XI). 45 In questo contesto, la memoria del campo di campagna, per lungo tempo, è statastrutturata unicamente sulla “bontà” del vescovo locale, Giuseppe maria Palatucci, e, so-prattutto, di suo nipote Giovanni (reggente della prefettura di fiume, deportato nel 1944e, nel 1990, proclamato Giusto) al quale – senza effettive ricerche storiche o dati realmenteacclarati – veniva attribuito il “salvataggio” di cinque-seimila ebrei. cfr. carLo SPartaco ca-PoGreco, Il campo di concentramento di Campagna e l’internamento fascista nel Meridione.In LuIGI PareNte e fraNceSco SaVerIo feSta (a cura), Giovanni Palatucci. La scelta, le differenze,mephite, avellino 2004, pp. 69-92.46 cioè il quadro militare/geopolitico che, dopo l’8 settembre 1943, determinò il rapidoarrivo degli alleati al Sud e consentì la “messa in sicurezza” degli ebrei ivi internati dal fa-scismo.47 tali narrazioni riducono, generalmente, la complessità delle vicende storiche legateall’internamento fascista a racconti autogratificanti sulla “bontà” italiana. Su ferramontiinteso come “campo all’italiana” cfr., tra i primi, Un lager per ebrei, ma all’italiana cit.

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sitori e i “diversi”, finivano con l’avallare il concetto che il fascismo avesse“umanamente” realizzato dei “non-Lager”. In ambito scolastico, dove que-ste narrazioni hanno ancor oggi notevole seguito, esse giungono a veico-lare messaggi che – invece di sollecitare un’apertura cognitiva alleproblematiche del razzismo e della sopraffazione – accentuano l’attitudine,tipica dei ragazzi, a semplificare la realtà attraverso la creazione di stereo-tipi. Portandoli, in ultima analisi, a esorcizzare, piuttosto che a compren-dere, le tragedie della nostra storia e a rilanciare, inconsapevolmente, ilfuorviante mito del “buon italiano”48. Dalla metà degli anni ottanta sino a oggi, le ricerche sui campi fascistihanno fatto passi da gigante, svelando scenari sempre più complessi epoco stereotipabili. ma tutto ciò, paradossalmente, non ha scoraggiato piùdi tanto la lettura acritica dell’argomento. Sia perché l’irruzione nellescuole italiane del “Giorno della memoria” (deciso dalla legge 211 del 20luglio 2000) ha alimentato, per com’è generalmente impostato, un “buo-

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48 cfr. NaDIa caPoGreco, Dalla memoria al futuro, in Ferramonti. Dal Sud Europa per nondimenticare un campo del duce, Laruffa editore, reggio calabria 2010, pp. 43-55 (in part.pp. 47-48, 54-55).

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Un’immagine del campo di Ferramonti di Tarsia ripresa dopo un temporale

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nismo endemico”49; sia perché le narrazioni metastoriche sui campi fascistisono supportate, soventemente, dalle stesse testimonianze di ebrei stranieriex internati50. La “simpatia” di questi ultimi per l’Italia – «paese del sole e dibuona gente»51 – si trasforma talvolta in «lode sperticata e acritica, senzadistinzioni tra atteggiamenti popolari e comportamento delle autorità»52:un encomio tanto sincero, quanto incapace di distinguere tra la politica delregio governo e quella del fascismo di Salò; di contestualizzare storicamentegli eventi vissuti e realizzare che la mancata deportazione nei Lager dopol’armistizio del ’43 non dipese dalla “bontà” del fascismo o dei suoi campi, enemmeno, prioritariamente, dalla solidarietà popolare, che pure fu notevole(non soltanto al Sud) e merita sempre di essere sottolineata53. un giudizio assai diverso sull’internamento fascista si coglie sempre,invece, nelle testimonianze dei non ebrei. Soprattutto in quelle degli ex in-ternati jugoslavi e greci54 che – deportati dal fascismo in Italia o internatinelle loro stesse terre – vissero la propria condizione come un duro calva-rio. anche nel caso dell’internamento “mite” nel campo di ferramonti.

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49 cfr. DoNateLLa arcurI, Il giorno della memoria e gli anni dell’oblio, in «Sud contempo-raneo», IV, 1, 2003; NaDIa caPoGreco, Fra trauma e monito. Rischi e potenzialità del Giornodella Memoria, in «ha Keillah», 1, 200650 cfr., per es., alcune testimonianze riportate in NIcoLa caraccIoLo, Gli ebrei e l’Italia du-rante la guerra 1940-45, Bonacci, roma 1986.51 La citazione è tratta da una testimonianza in lingua tedesca del viennese Paul Pollak,già consigliere aulico e medico della Polizia di Vienna, internato nel 1940 presso maceratae successivamente deportato ad auschwitz (PauL PoLLaK, Das Konzentrationslager Urbisa-glia – Macerata, archivio del centro di documentazione ebraica contemporanea di milano,fondo “Israel Kalk”, busta n. 3, fascicolo 33): «Nelle ore grigie ed oscure di auschwitz –così scriveva Pollak, sopravvissuto ai due diversi internamenti – abbiamo sempre visto da-vanti a noi, come un miraggio, il luminoso giardino dell’abbazia di fiastra in Italia, paesedel sole e di buona gente». Sul campo marchigiano dove Pollak fu internato, cfr. carLo SPar-taco caPoGreco, L’internamento degli ebrei italiani nel 1940 e il campo di Urbisaglia-Abbadiadi Fiastra, in «La rassegna mensile di Israel», a. 2003, LXIX, 1/tomo 1, pp. 347-368. 52 L. PIccIotto, Il Libro della Memoria cit., p. 855. 53 Sui buoni rapporti intercorsi generalmente tra internati e popolazioni locali si disponeormai di molta bibliografia. tra i tanti lavori, segnalo qui marIa chIara faBIaN e aLBerta BezzaN,“... Siamo qui solo di passaggio”. La persecuzione antiebraica in Polesine 1941-1945, Panozzoeditore, rimini 2015; aNtoNIo mazzoNI e LIDIa maGGIoLI, Con foglio di via. Storie di internamentoin Valmarecchia, Il Ponte Vecchio, cesena 2009; aNNa PIzzutI, Vite di carta. Storie di ebrei stra-nieri internati dal fascismo, Donzelli, roma 2010; PaoLo taGINI, Le poche cose. Gli internati nellaprovincia di Vicenza 1941-1945, con un contributo di aNtoNIo SPINeLLI, Istrevi-cierre, Verona2006. anche il lavoro di KLauS VoIGt sui «ragazzi di Villa emma» (Villa Emma. Ragazzi ebreiin fuga 1940-1945, La Nuova Italia, firenze 2001) offre tanti spunti in questo senso. 54 a ferramonti vennero internati alcune centinaia di greci: non solo deportati diretta-mente dalla propria terra (per lo più funzionari dello stato), ma anche dalla Libia. tra essi,l’ex prefetto di corfù, evangelos averoff-tossizza, sul cui giudizio sull’internamento fascistacfr. c.S. caPoGreco, I campi del duce cit., pp. 155-56.

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recentemente sono venuto in possesso di una raccolta di lettere, com-posta da alcune centinaia di esemplari, tra missive, biglietti e cartoline po-stali per le forze armate, scritte dal fronte e da svariati campi di prigioniadurante il secondo conflitto mondiale. La collezione, interamente inedita,donatami da un caro amico, Domenico Commisso, un italiano di gioiosaJonica, cittadino svizzero residente a ginevra, deceduto da qualche anno,copre l’arco cronologico della guerra tra il 1940 e il 1945. altre epistole diprigionieri, negli attendamenti inglesi, risalgono addirittura ai primi settemesi del ’461. grazie ad alcune coincidenze fortuite e all’amore per le «carte» vecchie,manifestato dal nostro benefattore nel corso della sua vita, fin da quando,

Cara sposa: una finestra sulla seconda guerra mondialeattraverso le lettere di militari calabresi

Giuseppe Masi

1 Un doveroso ringraziamento alla moglie di Domenico Commisso, signora Heidi, laquale, alla scomparsa del marito, ne ha eseguito e nello stesso tempo concretizzato la vo-lontà, rimettendomi una seconda parte del prezioso materiale documentario. L’interroga-tivo è come queste lettere a famiglie calabresi le più variegate, non facenti parte di uncarteggio composito, sia stato possibile reperirle in mercatini italiani e stranieri. PaNtaLeoNeSergI, in un recente saggio, Per me non penzati a niente. Limbadi: lettere di militari, prigio-nieri e civili mai arrivate alle famiglie, in «rivista calabrese di storia del ‘900», 2, 2012, pp.133-142, ha esaminata alcuni messaggi di militari, rintracciati nell’archivio del comune.gli stessi, mai pervenuti alle famiglie, venivano trattenuti negli uffici. gaetaNa Mazza, Ritro-vate nell’Archivio Storico del Comune di Sarno le lettere di emigranti e militari sarnesi (g. DF.- S.a. per www.vesuvioweb.com) propone una soluzione a riguardo. alcune famiglie, perottenere dall’eCa sussidi per i loro familiari in guerra, inoltravano la relativa domanda agliuffici competenti, corredata da pezze d’appoggio, nel nostro caso lettere, cartoline postali,vaglia che potessero documentare la reale esistenza di congiunti al fronte o nei campi diprigionia. anche in L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerramondiale, einaudi, torino 1971, di NUto reveLLI, si legge che 4.000 lettere, utilizzate dalloscrittore, provenivano da archivi pubblici, essendo state richieste nel 1943 dalle autoritàper corrispondere ai parenti la paga del caduto o del disperso (aNtoNIo gIBeLLI, Pratica dellascrittura e mutamento sociale. Orientamenti e ipotesi, in Per un archivio della scrittura po-polare, atti del seminario nazionale di studio, rovereto 2-3 ottobre 1987, in «Materiali diricerca», 1-2, 198 , p. 19). Si può presumere che anche le nostre lettere, una volta accoltala domanda, abbiano preso una strada impensata.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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giovane e impegnato nel sociale, lasciò la Calabria per trasferirsi nella con-federazione elvetica, le lettere, raccolte andando in giro per i mercatinidell’antiquariato tra Francia, Svizzera e Italia oppure rinvenendole nellebancarelle e scambiandole con i collezionisti, sono state, così, salvate siadall’incuria sia dalla dispersione in cui, contrariamente, potevano incap-pare per la negligenza degli uomini o degli stessi collettori di reperti po-stali. Concentrati preferibilmente sulle cartoline usate, con posta infranchigia o sui bolli apposti, questi amatori delle affrancature ripongonoin secondo piano il contenuto, definito, altrimenti, dai cultori delle vicendeumane «un meraviglioso documento spirituale», essenziale per la memo-ria e la storia della collettività2. Il mercato filatelico, da parte sua, pur me-ritevole per la finalità della sua attività e la serietà profusa nel reperimentodi piccoli e grandi epistolari, è, spesso, movimentato da gente comune, lacui esperienza si limita allo smembramento di interi ritrovamenti in singolipezzi o in lotti e all’ eliminazione delle parti, prive di un valore commer-ciale. L’insieme documentario, appartenente alla stessa persona o allastessa famiglia, divenendo, con tali intromissioni, un fattore distruttivodella uniformità e della riconoscibilità dei fondi, subisce un notevole dannocome fonte storica e, di conseguenza, la sua primaria considerazione, so-stanzialmente, si ridimensiona3. Le lettere conservate, nel mio archivio privato, costituiscono un corpusdi notevole rilevanza storica. Sono una campionatura non omogenea, al-quanto diseguale. Le corrispondenze dei combattenti, quasi tutte appar-tenenti a scriventi diversi, sono dirette ai loro familiari. Non ci sonoriscontri da parte di questi ultimi. Pochi sono i casi in cui un individuo siaautore di due o più missive. Si contano sulle dita di una mano. Uniche ec-cezioni due nuclei, uno di nove e un secondo di sei, divisi tra teatro delleazioni belliche e prigionia. Complessivamente l’epistolario ha un comunedenominatore: gli estensori sono tutti militari calabresi (provincia di Co-senza, in primis, e reggio Calabria), sparpagliati nelle zone di combatti-

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2 Così nella Prefazione di FraNCo DeLLa PerUta ad aNNa LISa CarLottI (a cura di), Italia1939-1945. Storia e memoria, vita e pensiero, Milano 1996, p. XII, un volume il cui asse pri-vilegiato è la memoria (diari, lettere, carteggi, epistolografia popolare)3 arCHIvIo LIgUre DeLLa SCrIttUra PoPoLare, Catalogo, Università degli Studi di genova.Dipartimento di storia moderna e contemporanea, ciclostilato, p. 7; BeNIaMINo CaDIoLI, aLDoCeCCHI, La posta militare italiana nella seconda guerra mondiale, Stato Maggiore esercito.Ufficio Storico, roma 1991, p. 9. anche nel fondo Commisso, custodito presso l’Istituto ca-labrese per la storia dell’antifascismo a dell’Italia contemporanea (Biblioteca tarantelli,Università della Calabria), mi sono imbattuto in molte buste manchevoli del messaggio,andato perso o al macero nei vari passaggi.

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mento delle varie regioni dell’europa e dell’africa e nelle molteplici pri-gioni alleate, dislocate un po’ dovunque nei cinque continenti (europa,asia, africa, australia e Stati Uniti d’america). Il fondo, in aggiunta, anno-vera pure testimonianze di militari a familiari domiciliati in disparate re-gioni italiane. Un’ulteriore sezione verte su internati, italiani e di talunipaesi europei, deportati nei campi di concentramento germanici. Complessivamente un universo considerevole per ricostruire dal bassola guerra e, come asserisce Nuto revelli, per farla narrare agli stessi pro-tagonisti, singolarmente minori, perché definiti i «senza storia», ma che,messi assieme, consapevolmente diventano gli autentici interpreti dell’im-mane tragedia europea, ***«voglio solo sperare che San Francesco di Paola, il nostro glorioso monarca, incita il Si-gnore a porre la sua mano misericordiosa e placare la sdegnosa ira dei dirigenti dellaguerra; perché tutto il mondo è stanco di questa. Solo Lui può porre fine a tutti questi ca-stighi perciò anche voi siate fidenti a Lui». Il caporale maggiore calabrese, Francesco Conforti di Montalto Uffugo,prigioniero degli inglesi nel camp di prigionia n. 7 a Bombay in India, scri-vendo alla moglie il 25 ottobre 1942 così affidava al foglio i suoi pensieridi salvezza. Ma, simultaneamente non dimenticava, quale essere umano,di vivere la sua vita terrena con molta dignità e senso del dovere. Frequen-tava le scuole (presto doveva sostenere l’esame), seguiva con cognizioneun corso di lingua inglese. «In queste terre maledette, dove l’ozio è la mag-giore minaccia del paese, l’istruzione è l’unico rimedio credibile per allon-tanare il pericolo di perdere la testa»4. anche da un punto caldo del fronte italiano, da una zona localizzata neipressi della linea del fuoco, precisamente il circondario di trapani alla vi-gilia dello sbarco alleato del 10 luglio ‘43, Domenico Magliarello di Cori-gliano Calabro, primo plotone della Compagnia nebbiogena territoriale, indata 23 giugno 1943, a. XXI dell’era fascista, con un biglietto postale perle forze armate, riferiva alla famiglia «riguardo alla mia situazione fino adoggi molto bene», poi «volete sapere se qui ci sono bombardamenti ogni

Cara sposa: una finestra sulla seconda guerra mondiale attraverso le lettere di militari calabresi

4 Diversamente da altre, scritta in un italiano corretto, la lettera denota nel mittentebuone basi di alfabetizzazione Pur adottando alcune locuzioni critiche nei confronti dellaguerra, aveva superato il controllo militare, molto rigido nei confronti delle espressioni talida prefigurare segnali di disfattismo. In questo caso l’addetto alla censura non aveva avutola temerarietà di oscurare il santo patrono dei calabresi.

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giorno quasi», ma di tanto in tanto «mi arrabbio che sono lontano, maspero al Signore di ritornare così sarò tra voi». raffaele Consoli di San Donato di Ninea, 7° divisione fanteria Lupi ditoscana, di stanza in quel momento a ollioules, Ufficio Posta militare 95(U. P. m.), località francese nel dipartimento del varo della regione Pro-venza-alpi-Costa azzurra, il 22 agosto 1943, prima di intraprendere, nellaprima settimana di settembre, un lungo e avventuroso viaggio di trasferi-mento nei pressi di roma, a Ponte galeria, rincuorato da grande «pa-zienza», indirizzava una viva preghiera alla «Madonna del Pettoruto e tuttii Santi che ci faranno salvi da tutti i pericoli che possiamo portare la vitaalla casa»5. Sono unicamente tre esempi, tra molti, di scrittura immediata, genuinadi gente sincera, ma indicativi dello stato di precarietà e di transitorietà,per cui ognuno, sottoposto ai pericoli giornalieri, rivolgeva il suo pensieroai Santi, considerati, in tali frangenti, una sicura e affidabile ancora di in-columità. Le orazioni a Dio, ai Santi o alla Madonna del Pettoruto, in par-ticolare, suppliche che, tra nostalgia e tristezza per i congiunti lontani,affiorano quasi sempre nelle lettere, sono il filo conduttore dell’ epistolarioalle famiglie. Le implorazioni sono, pertanto, un vero e proprio leit-motif:Iddio al di sopra di ogni cosa e nel pensiero di tutti, un sicuro salvagente acui aggrapparsi nei momenti in cui lo sconforto o la trepidazione per il do-mani, prendendo molte volte il sopravvento, demoralizzava il tempera-mento di uomini pur rotti a ogni temperie. La protezione è invocata un po’ da tutti e senza distinzione. Chiedevanola benedizione di Dio (e ne avevano un provvidenziale bisogno), i soldatiche restavano al fronte. Il prolungamento della guerra poteva riservareamare sorprese e l’inquietudine si manifestava esclusivamente per il ti-more di non poter salvaguardare le famiglie. La implorava giorgio Madeodi Corigliano Calabro, fante della Divisione libica, da Sidi el Barrani(egitto), U. P. m. 26. Il 15 dicembre 1940 comunicava alla mamma che ilsuo reggimento, dopo l’avanzata dell’esercito italiano in egitto, si era riti-rato da dove stava e ora era fermo in un posto differente, Sollum, a 145chilometri da tobruk, una posizione già occupata in precedenza. «ti vengoa dire che sto bene anche con dei brutti giorni passati male, ma speriamo

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5 Il Santuario-Basilica della Madonna del Pettoruto si trova a San Sosti, in provincia diCosenza, a 600 metri di altitudine alle pendici del Pollino. È situato nella gola formata dalfiume rosa tra il Monte «Montea» e il Monte «Mula». Nominato così perché deriva dallaparola petruto (pietroso, roccioso), il luogo sacro prende il nome dal territorio in cui sorge.Col passare dei tempo il gergo originario è stato corrotto in Pettoruto.

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presto di dare mie notizie meglio di sempre col stare più tranquilli». Il 20ottobre 1942, Bartolo Mandaglio di giffone, soldato della divisione auto-trasportabile Pasubio in partenza per la russia, localizzata nello stesso pe-riodo a Poltvskaya, nei pressi di Krasnodar, capoluogo della russiameridionale, non lontana dal Mare Nero e dalle propaggini settentrionalidel grande Caucaso (U. P. m. 83), invitava la moglie a stare calma e di nonspaventarsi Dopo aver fatto riferimento a una lettera recapitata a manocon uno di galatro, un certo Scozzana, precisava «che la partenza è pros-sima io in quella lettera ti dicevo che non so il giorno preciso ma adesso loso che si parte giorno 21 ti prego di fare coraggio che speriamo Iddio chepresto porteremo la vittoria e così ritornerò nelle tui braccia». Per la mo-neta «non mi mandare niente che non o nulla fare dato che ci sarà la par-tenza». Con il mio paesano siamo nella stessa compagnia «Basta ti pregodi farti coraggio che sarà tutto destino al mondo. Saluti a tua madre e glichiedo la S.B. come pure ai miei genitori». Ugo Sileni di Mammola, il 18 ottobre 1942 XX da Cuneo comunicavaalla consorte: «ti faccio sapere che il giorno diciassetta abiamo partito perla russia voi non penzate niente io sto bene. Questo è il mio indirizzo Uf-ficio Posta militare 152. State tranquilli». Il 20 ottobre la posta era appron-tata a Medova (Ucraina). Salvatore Maida di S. Stefano di aprigliano, il 23settembre 1942, (U. P. m. 152), avvisava i suoi di aver raggiunto la russiae il suo reparto era fermo a radcenskoie. Domenico Loizzo di rende, arti-gliere della Divisione Littoria stanziata a Mantova, una posizione certa-mente appartata per il momento, il 8 agosto 1943 scongiurava notizie dallafamiglia «perché siamo in un punto molto malissimo, di me non state tantoin pensiero [...] ormai non si può vivere più, io non mi sento più di resi-stere, speriamo che presto finirà tutto, così potremo tornare alle nostrecase» (la speranza del rientro a casa è predominante in tutti). Li sollecitavaa scrivere continuamente e con maggiore sollecitudine. La impetravano, gli stessi soldati, a conclusione della guerra guerreg-giata, con la certezza, una volta catturati, di essere inseriti nelle liste deiprigionieri, uno status, comunque, liberatorio che assicurava la fine deicombattimenti e perciò una presumibile via d’uscita. Codesti si appella-vano a Dio per essere tutelati durante il tempo da trascorrere in deten-zione. Una siffatta decisione era preferita da Mariano ruffolo di MaranoMarchesato, prigioniero degli inglesi in egitto. Il 28 gennaio 1941, confes-sava ai genitori: «Finalmente con l’aiuto di Dio vi scrivo questa lettera ma ci vuole conforto per voi cheper me ormai questo era il mio destino di essere priggioniero. e sono stato preso il 17 gen-

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naio giorno di Carnevale. Ma io vi assicuro che sto bene di saluta e di tutte le altre cosestati sempre allegri» Pasquale Longobucco di Bisignano, prigioniero in gran Bretagna, il 16luglio 1942 faceva giungere ai genitori le ultime sulla sua salute «che finoal momento va benissimo per grazia di Dio» e «che la Santissima vergina mi conzola con la grazia del Signore a me e a tutti i miei fratelliche siami lontane di voi e della nostra amata e gloriosa Patria. e che la hanno ventuno conla santa volontà del Signore e della Santa vergine del Carmine, sareme anche noi a festeg-giare il suo bel giorno con il suono delle nostre campane, così sarimi felice e ci possiamoraccontare la vita passata, quinti voi non penzate niente, io vi ripeto sto bene per grazia diDio».acclude i saluti del tenente cappellano padre giovanni Catalano e deltenente medico, dottore riccardo Castagna6. Se l’invocazione personale alla divinità per scampare gli imprevisti, erasupplicata da tutti con animo sereno e fiducioso, non manca finanche chi,diversamente, vivendo in prigionia, ma animato da un forte spirito patriot-tico e in parte ossequioso dei temi della propaganda ufficiale del regime,peraltro già dissoltosi, vi associava anche la patria, mescolando il sacro eil profano7. Il 3 novembre 1943 da Bombay (lettera pervenuta dopo circa3 mesi), uno dei prigionieri, nativo di San Pietro in amantea, metteva alcorrente i genitori di stare in buona salute grazie al buon Dio e, nello stessotempo, li invitava a restare calmi e sicuri. Convinto che il sostegno di Dio,apertamente «schieratosi dalla parte della sua gente», procedesse di paripasso, nella lettera confidava con sincero ottimismo «che verrà un giornoche il nostro paese trionferà»8.

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6 tutte le citazioni di questa come anche delle altre lettere, sono trascritte fedelmente,compresi gli errori, così come sono rispettati sia l’interpunzione sia l’abitudine di servirsidelle maiuscole. Particolare curioso la consonante t al posto della D e viceversa, un’usanza«classica» della provincia di Cosenza. 7 Uno spaccato di fede e patria in aDeLe SaNtaNIeLLo, Lettere di un soldato, in «Meridione.Sud e Nord nel Mondo», 1, 2007, p. 54 ss. 8 Lupi vittorio. Per quanto il regime avesse concluso la sua parabola da qualche mese,lo scrivente non specifica se crede, ancora, nella vittoria della patria fascista, o, viceversa,il prossimo trionfo consiste nel momento dell’ uscita dell’Italia dalla sofferenza della guerra.In parte era comprensibile perché molti prigionieri, colti alla sprovvista, rimasero increduliall’annuncio della caduta del fascismo, «pensando ad un espediente del nemico per au-mentare la demoralizzazione». reclusi in terra straniera, prevalse, viceversa, in molti l’amordi patria e il senso di fedeltà alle istituzioni. Cfr. a. L. CarLottI (a cura di), Italia 1939-1945cit., p. L. In India ci furono campi in cui i prigionieri legati al fascismo vennero separatidagli altri.

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Queste prime e preziose testimonianze, veri e propri frammenti debolibasati su fonti altrettanto fragili ed esposti a un forte rischio di dispersione,sono il mezzo più subitaneo per palesare le personali esperienze. Uno stru-mento improvvisato, non elaborato, nato dal bisogno di «fissare la con-sueta comunicazione orale su un supporto in grado di abbattere ledistanze»9, adoperato, prevalentemente, dai presunti primi attori dei duegrandi eventi dell’età contemporanea, i movimenti migratori e le dueguerre di lunga durata, avvenimenti sintomatici e rappresentativi, perchéentrambi hanno coinvolto le masse. Chi partiva alla volta delle lontaneameriche o andava in guerra, una volta approdato in un lido straniero oraggiunta la località dello scontro, la prima operazione a cui si accingevaera, appunto, di rimettere alla parola scritta le proprie emozioni, le privatecondizioni di salute, i particolari sentimenti, trasmettendo il tutto a casada dove, per causa di forza maggiore, si era allontanato. accedere alla scrit-tura era, quindi, la sola possibilità di non cessare le relazioni con chi erarimasto, di rafforzarne la continuità con l’aiuto e il conforto della famiglia10. restringiamo, per il momento, l’attenzione al secondo conflitto mon-diale. Potenziata e dilatata dalla tecnologia, la guerra aveva reso i ceti po-polari consapevoli della propria storia individuale, la quale «non è più unmero fatto privato e come tale insignificante, ma un evento riguardantetutti per la sua generalità e in cui tutti possono riconoscersi. La sofferenzaindividuale non è più allora cronaca privata ma specchio della sofferenzapubblica»11. Il soldato, sia dalla prima linea sia dalla prigionia, ha consegnato una

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9 FaBIo CaFFareNa, La Grande Guerra raccontata dai soldati, in Fonti e percorsi della storiacontemporanea (www.liceograssi.gov.it/); FaBIo CaFFareNa, DavIDe MoNtINo, Dalle carte del-l’Archivio ligure della scrittura popolare, in «Storia e problemi contemporanei», 31, 2002,pp. 167-184; Cfr. anche LaUra BrIgaNtI, Il dialetto ed il linguaggio dei “semicolti” attraversol’esame delle lettere de “L’ultimo fronte” di Nuto Revelli, in «Il Presente e la Storia», 58, 2000,pp. 199-224. L’immediatezza della testimonianza è data dalla veridicità delle lettere scrittein dialetto e perciò per molti aspetti avvicinabili al linguaggio dei semicolti (p. 201). Si vedaaNtoNIo gIBeLLI, L’officina della guerra, Bollati-Boringhieri, torino 1991, p. 55; ID., La Guerragrande. Storie di gente comune, Laterza, roma-Bari 2015. L’autore definisce la lettera unmezzo di autoconservazione, il modo per alleviare il dolore della lontananza e l’orrore dellostato presente. 10 F. CaFFareNa, La Grande guerra cit. in aNtoNIo gIBeLLI, Dal grigio al rosso. Appunti sucorrispondenza privata e storia degli italiani in tempo di guerra, in «Storia e memoria», 1,1997, pp. 197-209.11 teoDoro SCaMarDI, La guerra dal basso. Introduzione a aNtoNIo CoSeNtINo, Parole dallaguerra. Riassunto dei miei 53 mesi di vita militare (7 gennaio 1941- 29 giugno 1945), a curadei Quaderni feroletani e Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia con-temporanea, edizioni Mapograf, vibo valentia 1997, p. 11

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produzione sterminata di materiale (lettere, diari, memoriali filtrati),molto di esso scritto da persone con un basso tasso di scolarizzazione ocolte nella misura in cui potesse bastare nelle piccole evenienze. La stesuradi una lettera, pur con l'utilizzo di una terminologia sempre somigliante,non era. pertanto, un compito certamente facile, ma oltremodo necessariaper «dare un ordine all'insensato, un ordine al disordine».. La parte maggiormente numerosa di questa documentazione, costituitada lettere semplici e credibili, «forme primarie», senza molto rispetto perla punteggiatura, tratteggia, per certi versi, quasi una storia a sé stante,ma lo scopo dello scrivente, sebbene edotto delle difficoltà di un serviziopostale lento (una pregiudiziale di grave angoscia), tale da dilatare, oltre-misura, il momento dell'inoltro e della ricezionee, era di tenersi in contattocon le famiglie e con i parenti (da ciò un reiterato elenco delle persone daincludere nei saluti), enumerando le informazioni essenziali sul presentestato fisico12. Il già menzionato raffaele Consoli:«Se non avete le mie notizie che il fatto e della posta che non viaggia per tante raggioninone la mia la colpa che io da quanto sono partito della casa nio scritto dei lettere che nioperso il conto e nono potuto avere lonore di averni una da voi [...] Come sai per noi che

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12 Il soldato, nello scrivere alla famiglia, doveva seguire la trafila della posta militareche non era così semplice come può sembrare a prima vista. La distanza e gli innumerevoliostacoli burocratici disciplinavano l’inoltro della corrispondenza. Una lettera, per arrivarea destinazione, impiegava a volte alcuni mesi e questa dilazione era fonte di preoccupazioneper entrambi, per lo scrivente e per il ricevente. L’avviamento verso l’Italia avveniva dagliuffici postali militari sistemati nei vari fronti e in varie località (dalla capitale dello Stato alpaese più sperduto). Nonostante il dispiegamento degli uomini su un teatro bellico moltovasto, la guerra di movimento, propria del secondo conflitto mondiale, e il moltiplicarsi deiservizi offerti avevano pur tuttavia un carattere di continuità e consentivano che la postaarrivasse in tempo utile, più che se fosse avviata via mare. ogni divisione poteva contare,in questo modo, su una sua agenzia che si spostava in base ai trasferimenti degli stessi re-parti. Sull’estensione degli uffici postali, posizionati in tutte le zone dello scacchiere euro-peo dove combatteva l’esercito italiano e ridotti al minimo o chiusi con il collassodell’esercito dopo l’ 8 settembre, è fondamentale: B. CaDIoLI, a. CeCCHI, La posta militare ita-liana cit. Dal suddetto volume sono prese, ovviamente, le basi di partenza delle lettere inol-trate alle famiglie. Le stesse identiche difficoltà sussistevano anche per i prigionieri, soggettispesso a trasferimenti in campi distanti a volte migliaia di chilometri, per cui le lettere, de-stinate a un recapito comune, non pervenivano con regolarità al destinatario nel frattempolontano le mille miglia. (Pulice Francesco dalla gran Bretagna 11 febbraio 1944. Ho ricevutodue lettere, una di aprile e l’altra maggio 1943 spedite in Sud africa). La posta dei prigio-nieri di guerra era censurata prima sul suolo nemico, poi presa in carico dalla Croce rossaInternazionale attraverso alcuni punti di frontiera con la Svizzera, era trasmessa all’ufficiocensura prigionieri di guerra presso il Ministero delle Poste per una successiva verifica;dopo questo secondo controllo, era immessa nel circuito civile per la distribuzione.

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siamo sotto questa vita la più felice del monto serà quanto abiamo le notizie vostre che quitutti i Calabresi siamo a un modo che per avere una notizia ci vogliono dei mesi ma purtroppo bisogna avere pazienza».emilio Lorelli di amantea, caporale maggiore, prigioniero in Sud africaa zonderwater, il grande campo costruito durante la Seconda guerra Mondialenei pressi di Pretoria, che tra l’aprile del ‘41 e il gennaio del ‘47 alloggiò oltre100.000 italiani, il 3 novembre 1945, lamentandosi con il fratello di non esseresollecito nel riscontrare le lettere alla famiglia, faceva notare che il ritardo di-pendeva da cause estranee: «anche noi stiamo diversi mesi senza ricevereposta, poi arriva tutta in una volta». Nonostante i tempi alquanto differiti, procrastinati («ho ricevuto in unasola volta tutta posta vecchia da 5 e 6 mesi, una sola nio ricevuta recentis-sima», era una precisazione del nominato vittorio Lupi), le lettere, pursempre attestazioni utili, quasi alla stregua di autobiografia collettiva, sonoil racconto della guerra come la vedevano i compilatori. In esse non si sco-pre l’eroe, pronto al combattimento, capace di grandi imprese, di azioniallo sbaraglio contro i nemici; niente di tutto questo, nell’ipotesi migliorein qualcuno, forse, tutt’al più c’ è lo stakanovista, il lavoratore volenterosoe zelante. Immagini veritiere e dirette del vissuto quotidiano e dalle qualitrapelano sensazioni, impressioni del tutto franche13. In sintonia la letteradi anselmo Motta di Cosenza, addetto al magazzino viveri ed avena di ar-mata, per la Iv armata di stanza nella Francia meridionale. Invece di spre-care il tempo a disposizione nell’ozio o nell’ attesa preferiva impegnarsinel suo lavoro. Da Nizza il 4 aprile 1943, chiedeva scusa ai genitori: «horicevuto giorni dietro vostre Postali cui non ho potuto rispondere troppopresto perché non ho assolutamente potuto, essendo, fra l’altro, anche im-pegnato per la scuola». Si congratulava con le due sorelle, venere e as-sunta,«che con tanta celerità han saputo ascendere così sublime da poter coprire sì alte ed im-portanti cariche [...] Quanto ai figurini, state pur tranquilli che quanto prima vi sarannospediti non avendo potuti spedirveli per mancanza di tempo. Sembrerebbe impossibile,ma pure è così, figuratevi: la sera a mezzanotte a letto, e la mattina a levarmi alle ora 5 o 5e mezzo. Comunque è meglio così che altrimenti». Luigi Magno di Morano Calabro, prigioniero in gran Bretagna, il 23 ago-sto 1943 ai genitori non preoccupatevi «che io sto bene non pensate a me,

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13 gIorgIa MaNCa, Lettere dal fronte: i soldati italiani nella Jugoslavia occupata (aprile1941 – luglio 1943), in «Passato e Presente», 68, 2006, p. 120.

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vi dico che adesso lavoro cioè lavoriamo di agricoltura e si fa festa ogni do-menica che se vi ricordate da mia parte era molto agradito», però sonoquasi 32 mesi di prigionia, ma presto verrà la fine. e proprio a una proba-bile cessazione delle operazioni belliche o al ritorno in patria si orientò unsoldato. guidato da un presentimento, temerario ma illusorio, ci sperò per unlasso di tempo, non circostanziato, il caporale maggiore giuseppe Macrinidi Castrovillari. Da Hyeres. comune francese in Costa azzurra (U. P. m. 78),il 9 agosto 1943, giovandosi di una cartolina postale per le forze armatecon la riproduzione di uno dei tanti proclami di Mussolini, L’avvenire è no-stro, è nelle nostre mani sicure, poiché sarà il prodotto del nostro coraggioe della nostra inesauribile volontà di vita e di vittoria, dava ai genitori unabuona novità: siamo per rimpatriare, ma non so dove ci portano domani,lasciamo la Francia attendete il mio nuovo indirizzo14. tutti questi nostri esemplari letterari non contengono informazioni divalenza politica, neanche spunti o interpretazioni soggettive sulle atrocitàdella guerra stessa, in grado di stimolare l’intervento della censura e in-fondere ansia nell’animo di chi sta a casa. Il militare, si presuppone, percautelarsi e fare in modo che la sua lettera non venisse trasmessa oppurerecapitata con mutilazioni, aveva capito come concepirla (si avvaleva diuna autocensura personale) e in quasi tutti i casi si conteneva a dare se-gnalazioni sintetiche, a spronare i familiari a ritrasmettere di frequente, achiedere ragguagli sulla salute di chi era a casa a volte con insistenza, conuna giustificazione partecipata e cointeressata, nello stesso tempo. Unamalattia ordinaria di un familiare oppure una individuale, subita in seguitoa una ferita riportata in battaglia, poteva legittimare la concessione di unalunga licenza. Propiziare questa occasione non era, comunque, un pensiero assillanteper il soldato. L’occorrenza poteva essere sfruttata al bisogno, ma, in defi-nitiva, non lo distoglieva dall’espletamento del suo dovere di militare inguerra. antonio Mammì di Praia a Mare, il 7 aprile 1940 a. XvIII (primadell’entrata in guerra dell’Italia), da tripoli «da quando orricevuto i soldi che si tratta quasi dal giorno di pasqua che non ricevo vostrenotizie ma vorrei che state bene di salute che poi è un giorno prima e un giorno dopo esempre lo stesso e fatemi sapere se siete ammalato perché se siete ammalato fate un tele-gramma imediatamente [...] ma spero idio che passano subito e senza pensiero ma comevio raccomandato che se state ammalato di fare subito un telegramma[...] e così immedia-

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14 Il rimpatrio non ci fu, perché l’armistizio del mese successivo sconvolse tutti i pianidell’esercito italiano.

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tamente mi mandano a casa senza pagare nessuno soldo e se volete che io sto sempre al-legro fatemi sapere perché avete ritardato a scrivere». Insisteva parecchie volte sulle inadeguate risposte da parte del padre.«io qui mi diverto molto ma sempre incaserma con i camii e vetture sicammina sempre dalla mattina alla sera senza pensare che siamo in terrabruciata chiamamola così perché ce un sole che ti brucia [...] e avoi vichiedo la santa benedizione». Francesco Mancuso di Camigliatello, il 4aprile 1940, da Bengasi (U. P. m. 221), sperava nel consiglio di leva perandarsene a casa o almeno ottenere un placet, ma contemporaneamentesi preparava alla lotta con il nemico «oggi siamo andati a fare i primi tiricol cannone e fra giorni andiamo al campo il 21 aprile prestiamo il giu-ramento e incominciamo a montare di guardia e incominciamo a provarela prigione». Nello scambio epistolare, a essere all’ordine del giorno sono i problemidella famiglia, della campagna, altri minori di natura privata e ancora i fattidella sfera quotidiana nel campo e così via. al primo posto l’educazione el’ impegno scolastico dei figli. guido Cello di Parenti, richiamato alle armi,dalla Cirenaica (U. P. m. 26 C), in data 13 ottobre 1940. «Di me non averepensiero che sto sempre bene e così spero sempre, mi fari sapere pure seMinuccio e ancora a Spezzano e come sta Cesarino se mancia oppure no».ercole Manes di Paola, il 19 marzo 1943, dall’albania (U. P. m. 70), chiedevaalla sposa la sua foto e quella del figlio, «pure ti prego di custodire il nostrocaro babbino che questo è il nostro caro e primo fiore della nostra vita eperciò ti prego di non trascurarlo». Francesco Chiovaro di terravecchia, il20 settembre 1945 dalla prigione in gran Bretagna alle amatissime figlie:«Sono tanto lieto nell’apprendere che state bene queste è una grande gioiaper me. Presto vengo a casa a riabbracciarvi e coprirvi di baci. Siate semprebrave e buone come oggi e io non mi dimenticherò mai». garbata e com-prensiva la lettera di armando Capparelli di Mongrassano, prigionierodegli inglesi in east africa (Kenia). Il 5 ottobre 1945 interpellava perso-nalmente il figlio piccolo angelo, il giovanottino: «rispondo al tuo caro biglietto dove con piacere leggo le tue prime frasi [...] riscontronel tuo biglietto che quest’ anno non sei stato promosso, con questo noto che la scuola nonl’hai frequentata oppure non stavi attento alle lezioni. ti prego di studiare e stare attento,di non fare inquietare la tua mamma e frequentare la scuola con amore spero che nelle va-canze avrai studiato, se tu mi prometti che studi e non si ripete ancora una volta di non es-sere promosso, al mio ritorno ti farò un bel regalo». Una seconda preoccupazione, affiorante nei soldati, quasi tutti di estra-

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zione contadina o braccianti o piccoli coltivatori o artigiani, si rapportavaall’andamento del lavoro e ai problemi dell’agricoltura. Una dimostra-zione in alcune lettere. antonio Nucaro di terravecchia, il 10 maggio 1942XX da tmimi, villaggio libico tra Derna e tobruk (U. P. m. 54), consigliavai genitori«se il governo si piglia gli animali come dovete fare io carissima matre vi dico una cosasola a buono vostro di fare come meglio potete fare e se in caso che le pere vanno Benevendetele tutte che così non avete pinziero di niente e questo è il mio consiglio che vimanto di le vendete tutte se vedete che ciè qual che cosa da potere cuadagnare e voi nonavete nemmeno seccatura da nessun motivo [...] poi voi siete a casa e vedete come megliopotete fare». angelo Coschignano di Bisignano, Divisione di fanteria acqui, da argo-stoli (isola di Cefalonia) (U. P. m. 412), in agosto trasferitosi a Corfù, il 5luglio 1943 (era analfabeta, lo scrivente era Berardi giuseppe), replicavaa due lettere, appena ricevute, della moglie, contento «che mio padre e mia madre si trovano alla Sila che fanno la raccolta del grano e che ancheci sono andati a aiutarli il cugino vincenzo e il compari Michele [...] quando a Dio piacendoavrò la fortuna di fare ritorno a casa sarà cura mia di potermi dissobligare con le personedisponibili nell’assistere i genitori nella raccolta, necessario per poter mangiare un pezzodi pane. Comunicava di avere spedito lire 300 ed oggi stesso «ti spedisco altre300 [...] vi raccomanto di stare tranquilla perche fino al momento mi lapasso molto bene. ti raccomanto i bambini». aveva molta fiducia nel ter-mine «della dura e triste lontananza». Le ricordava, inoltre, di volere benee di andare d’accordo con i genitori.Italo Chiarelli di Cleto, prigioniero degli inglesi a Napoli, (25 ottobre1945), alla suocera manifestava la sua soddisfazione «che il marito stavalavorando la mia terra» e «che ce qualcuno che ancora tengo che non siedimenticato». Carmine Mainieri di Cerchiara Calabra, caporale maggiore, prigionieroin egitto, il 23 marzo 1946 al padre. Compiaciuto di aver ricevuto una let-tera dalla zia«nella quale mi dice che voi sareste andato il giorno dopo a Castrovillari per contrattarecon l’impresa dei lavori del ponte di virtù. La lettera portava la data 15-2-46 dunque voisiete andato il 16-2-1946. Spero abbiate raggiunto ad un accordo, così avete lavoro perqualche anno, lavorerà anche il signor Micuzzo dopo aver fatto per lungo tempo il galan-tuomo».Ulteriori problemi, anche se minori, sono collocati in un virtuale elenco.

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alfredo Provenzano di Lago, il 14 novembre 1941 XX e. F., dalla grecia (U.P. m. 37) incoraggiava la sorella a rispondere «vi prego di mandarmi i bolliche non posso più scrivere». Chiedeva notizie sulla venuta di Longo Fran-cesco con un mese per motivi agricoli. «oggi ospedito L. 500 quelli cheavevo spedito prima milanno vutati indietro». Luigi Cosentino di Cetraro,prigioniero in gran Bretagna, il 20 febbraio 1946, soddisfatto che la moglieha ucciso il maiale e ha mandato i saluti con l’amico paesano, il quale ti«dirà cuanto sera il mio arrivo da voi». vincenzo Provenzano di BelmonteCalabro Marina, U. P. m. 22 (tirana), in data 12 agosto 1943 non avendoavuto una conferma alla sua lettera era inquieto poiché «non so a che cosaattribuire questo silenzio». Preoccupato inoltre per «tutto quel fragored’incursioni nemiche a Paola non so cosa pensarne»15. Mariano ruffolo diMarano Marchesato, prigioniero in gran Bretagna, il 28 ottobre 1945 allasorella lieto per il padre «che ha vinto la causa della robba di rende e cosìla nostra cara mamma madre è rientrata in parte», in possesso della suaeredità. ***Spedire o ricevere posta, rappresentava per i soldati il momento più«esclusivo» della loro esistenza perché la successione delle due movenze,proiettata nella circostanza inconsueta, dolorosa, in cui essi si muovevano,era l’unica opportunità di continuare il rapporto con il mondo reale di tuttii giorni, al quale si auguravano di tornare entro breve tempo (antonioLongo dall’egitto «quello che mi interessa di più è la posta»). rimanerneprivi, costituiva a ogni piè sospinto un grave disagio. Lo registravano inparticolare i prigionieri, disseminati a macchia di leopardo nell’intero ter-ritorio del Commonwealth, e senza rendersi conto delle logiche inerential rilascio (non ricevevano delucidazioni da nessuno, né da parte del go-verno britannico né da quello italiano), rimasero ancora per molto tempoin cattività, affrontando e superando quasi una nuova guerra. Il 25 aprile, per i militari italiani, PoWs (Prisoners of War), non significòla libertà, quanto piuttosto l’ inizio di un’attesa lunga e snervante. essi ven-nero rimpatriati a partire dal dicembre 1945, e i più sfortunati, per rive-dere le loro famiglie, dovettero attendere la tarda estate del 1946 o,addirittura, il febbraio dell’ anno successivo16. alle motivazioni ufficiali,

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15 Nell’estate del ‘43, in previsione dello sbarco alleato a reggio Calabria, le coste cala-bresi furono alla mercé di continui bombardamenti.16 NICoLò CoNtI, Il 25 aprile non arrivò per tutti: il ritardato rimpatrio dei prigionieri di

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connesse alle difficoltà del trasporto, si sovrapponevano le esigenze del-l’economia agraria del paese. Le autorità inglesi, potendo contare su unaforza lavoro a basso costo, costituita dalla massa dei prigionieri, non si fe-cero scrupoli a rimpiazzare la manodopera «autoctona» nei lavori agricolio nell’ allevamento del bestiame, ma la scarcerazione avvenne non prima«di aver terminato l’ennesimo raccolto delle barbabietole da zucchero». Un gruppo considerevole del fondo archivistico riguarda lettere di mi-litari rinchiusi nei campi inglesi; altri messaggi postali sono scritti da de-tenuti in Nord america e qualcuno anche dall’algeria e dal Maroccofrancese. La consistenza effettiva dell’ incartamento è tale da poter rico-struire la storia dei calabresi imprigionati, a partire dai primi fino ad arri-vare all’ultimo rimpatriato nell’ inoltrato 1946. Dagli epistolari dei prigionieri calabresi emergono, in genere, tanti statid’animo, variabili da un giorno all’altro. Dalla cauta serenità per essere fi-niti in prigionia e per aver posto fine alla guerra, si passava alla trepida-zione speranzosa per la liberazione. Prima con la stipulazionedell’armistizio dell’8 settembre 1943 e la susseguente assunzione dellacobelligeranza da parte dell’Italia e poi, successivamente alla fine del con-flitto nell’ aprile del 1945 (Francesco gallo di anoia, prigioniero in granBretagna, il 4 maggio 1945, raggiante per l’epilogo della guerra sicuro diritornare a casa). Infine, in mancanza di voci sicure sulla data definitivadel rientro, alla nervosa rassegnazione e all’emergere della cosiddetta«psicosi del reticolato». Indubbiamente tranquilli, per la fine delle ostilità, i combattenti in Nordafrica, prigionieri dopo poche settimane dall’inizio degli scontri. vincenzoCuzzola di reggio Calabria, caporale autiere, prigioniero di un War Campin egitto, il 17 febbraio 1941, in forma quasi telegrafica, informava i geni-tori «vi fo noto che sono prigioniero, sto molto bene. State tranquilli, chenon soffro alcun male». aggiungeva di avvertire la sua anna e i parentitutti. antonio Longo di Maierà, quattro mesi dopo, il 22 giugno 1941, ai

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guerra italiani in Gran Bretagna (1945-1946), in «Studi e ricerche di storia contemporanea»,77, 2012, pp.21-40. Sui prigionieri degli inglesi, sulle loro condizioni di vita e sulle moti-vazioni che hanno determinato la lunghezza della prigionia rimando al libro di ISaBeLLa IN-SoLvIBILe, Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-1946), edizioni ScientificheItaliane, Napoli 2012. Per il campo di prigionia di zonderwater, Sud africa, che rappresentòil più grande concentramento per prigionieri di guerra della Seconda guerra Mondiale sivedano LoreNzo CarLeSSo, Centomila prigionieri italiani in Sud Africa. Il campo di Zonderwa-ter, editore Longo, ravenna 2009; CarLo aNNeSe, I diavoli di Zonderwater. 1941-1947. Lastoria dei prigionieri italiani in Sudafrica che sopravvissero alla guerra grazie allo sport, edi-tore Sperling e Kupfer, Milano 2010.

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genitori di essere stato preso dagli inglesi il 5 gennaio. «altre volte hoscritto, ma ancora non ricevo vostre notizie [...] Speditemi alcuni oggettidi biancheria e anche qualche scatola di viveri e sigarette. Che così anchiopasserò qualche giorno molto felice». Il fante antonio Lombardo di SantaDomenica talao, rinchiuso nel campo n. 308, sempre in egitto (Middleeast), il 10 gennaio 1942 una cartolina alla moglie: Non stare in pensiereal mio riguardo perché io sto bene solo che mi trovo prigioniere. assiemea me si trova anche due paesane (essere insieme poi con conoscenti eraun sollievo notevole). armando rizzo di rossano, Camp 313 in egitto, il16 maggio 1943, dopo molte lettere non pervenute, ribadiva alla madre«io mi trovo prigioniero fin dal giorno 22 marzo. Sono stato catturato sanoe salvo dopo aspri combattimenti e tuttora godo ottima salute». ricordavadi avere inviato nel mese di marzo Lire 100 «fammi sapere se le ai ricevute.attendo con ansia tue notizie e di tutti i parenti e di chi s’interessa di me». Per alcuni la vita nel campo non era soltanto motivo di scoramento, didepressione; al contrario si destreggiavano per organizzare la giornata ilmeglio possibile, coltivando gli hobbies. Francesco ruffolo di Marano Prin-cipato, dal Sud africa il 7 marzo 1943 XXII, «se per fortuna vi arriverà que-sta» chiedeva al padre di mandare il mandolino e tre parate di corde dichitarra e tre di mandolino «così possono passare i giorni più discreti,credo che non vi sarà scomodo il mandolino è già prondo». Cari saluti avoi e alla mamma e dite ai signori parenti «che io non ci sono e che tuttofinisce se Iddio vuole». Col trascorrere dei mesi, l’attesa per il rimpatrio degli «inglesi» costituìun vero e proprio «tormento» e una calma apparente subentrò in tutti. Lapazienza, tuttavia, riuscì a sopperire in diversi momenti alla costernazione.tullio Santamaria di S. Marco argentano, il 10 gennaio 1944 da alessan-dria d’egitto. Dopo aver esternato i saluti ai genitori e aver comunicato lenotizie relative alla sua salute, auspicava (era nella speranza di tutti) «cheil 44 sia lanno della pace hanno che ci contuca a ogni uno alle nostre casedelli nostri cari». elio Marino, caporale maggiore di Marina di BelvedereMarittimo, prigioniero in Inghilterra, il 21 gennaio 1945. Ha ricevuto no-tizie dalla famiglia. «Per quanto voi mi dite di un subito ritorno io credoche per il momento è molto difficile ma speriamo sempre bene». Per il ve-stito di cotone è inutile parlarne. le mie «condizioni sono quelle di un pri-gioniero». Quando la guerra sarà finita ci penseremo. Io sto bene e faccio,sempre, il mio dovere con tutti.venute meno le attese per l’8 settembre e l’aprile ‘45, la distensione siallentò notevolmente fino a trasformarsi in vero nervosismo. Molteplicilettere documentano l’avvilimento dei prigionieri, prostrati ogni limite,

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Francesco Mancuso di Camigliatello, secondo messaggio del 9 settembre1945, (prima in Libia ora in gran Bretagna). «Domani 10 settembre com-pio il mio venticinquesimo anno in prigionia, mai credevo ciò che anchequest’anno lo dovevo finire lontano da voi, ma non mi sgomento per que-sto perché ce la salute. oggi appunto ho letto un articolo sul giornale a ri-guardo del nostro rimpatrio, dove diceva che il nostro rimpatrio non andràa lungo, ma tutta la difficoltà e per i mezzi di trasporto dei pochi mezzi ditrasporto che ci sono a disposizione, ma si spera che per Natale forse sa-remo a casa». tutti attendiamo con calma il giorno della verità. «Io piùgiorni passano e più mi è pesante il fardello ormai sono cinque lunghi annidi prigionia, ora che scrivo questo foglio di carta non so neanche io cosascrivo perché sono tanti i pensieri che ciò per la testa». emilio Lorelli, se-gnalato prima, notificava che correvano voci sul ritorno in patria. «Speroprima che ti giunga la presente o sarò a casa o avete ricevuto mie da unluogo più vicino. Natale, se Iddio vuole, lo faremo sicuramente assieme».raffaele reda di Cosenza, dalla gran Bretagna in una cartolina del 14marzo 1946 pregava i familiari «di non pensare nulla di me. SperiamoIddio di farci riabbracciare presto». Simili raccomandazioni in due lettereprecedenti, la prima del 20 settembre 1945 e la seconda del 31 gennaiodel nuovo anno. Nei primi mesi del ‘46 una nuova rassegnazione, lunga e dolorosa, rim-piazzò lo smarrimento iniziale. I tempi erano ormai maturi per la libera-zione, ma la sensazione comune, diffusa prontamente in tutti i campi, eraquella di non conoscere il periodo degli addii. Pur ignorando ancoraquando sarebbero tornati a casa, i prigionieri non si fecero sopraffare dall’afflizione e dalla totale demoralizzazione ma si incoraggiavano reciproca-mente «facendo scommesse» sul giorno tanto atteso. rocco Mainieri di Castrovillari, la guerra è terminata sia in europa sianell’estremo oriente e ci troviamo ancora detenuti. La vita è noiosa da tuttii punti di vista e ci siamo messi con l’animo in pace aspettando il 194617.Michele rizzuti di Carolei, prigioniero in egitto, 19 settembre 1945. Hannodetto che per venire in Italia ci vuole il ‘46, tutto può essere ma per dire laverità io non so niente. «Iddio e tanto grande e può fare tutto, abbi semprefede a Dio e vedrai che qualche giorno avrai a me nelle tue braccia», biso-gna avere pazienza. Catilio Caputo, di San Pietro in guarano, prigionieroin gran Bretagna il 25 novembre 1945: «Non so cosa dirvi riguardo ad un

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17 In una lettera del 24 ottobre 1944, il prigioniero aveva anticipato questi suoi statiemotivi «qui regna la solitudine e la malinconia» .

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sicuro rimpatrio però aspettiamo da oggi a domani e può darsi che ci vuolequalche altro mese [...] Non so dirvi il giorno preciso». Una seconda lettera (by air mail) di elio Marino scritta il 20 dicembre1945, tra il serio e il faceto. Non riceve notizie da molto tempo. Qui ilfreddo si fa sentire. Speriamo che Carlo per Natale sia a casa. Per me an-cora niente. appagato per giovanni Nocito impiegatosi presso l’Ufficio dellavoro. vi raccomando di conservare una buona bottiglia di vino paesanogiacché sono quasi tre o quattro anni che non ne bevo. Santo Costabile diMontalto Uffugo, il 1 gennaio del 1946 dal Sud africa non credeva di com-pilare una lettera datata ‘46, «ma ci vole pacienza per unaltro poco [...] nonti scuragire che io credo che il mio ritorno non sarà allunco sembre coragioche anche io sono 6 anni che manco di casa». Mi faccio coraggio e la seracon i compagni parliamo sempre dell’Italia. oggi è il primo dell’ anno e vifaccio gli auguri, di passare una bella festa. Francesco Lucente di Franca-villa Marittima, il 7 febbraio 1946 dalla gran Bretagna dava risposta allalettera della sorella del 24 gennaio riportante la liberazione, solo prean-nunciata. di un suo commilitone. «Forse per me se ne parla per giugno opiù tardi. Dal mio campo hanno incominciato a partire ma dal passo chevanno passerà di più di un anno. La cosa va troppo lenta». rosario Salituro di Castiglione Cosentino, l’11 febbraio 1946 dal Sudafrica, spiegava che erano rimpatriati i prigionieri del 1940 e stavano pre-parandosi i primi mesi del 1941. Hanno iniziato dai più anziani. Felice peril fratello Francesco (prigioniero negli Stati Uniti), rimpatriato per un per-messo di due mesi (informazione ufficiale), ma «spero che l’abbiano con-gedato». In una lettera di fine novembre ‘45, con mestizia,. «la prigionia euna delle principali cose che ci ha fatto invecchiare», ma, pur rendendosiconto di essere invecchiato, commentava che «la vita non mi fa paura». Francesco Celestino di Malvito, prigioniero in gran Bretagna, il 12marzo 1946 sperava di ritornare a casa prima della santa pasqua. Non scri-vetemi. ancora Carmine Mainieri, nel marzo del ‘46, non aveva novità: «peril rimpatrio nulla si dice ancora, si spera da un mese all’altro, ma non c’èverso di vedere quel desiderato giorno». eugenio Sapia di Longobucco, il29 aprile 1946 dalla gran Bretagna, non riceveva notizie dai genitori, per-ché sicuri del suo ritorno. «voi credete che sia in viaggio ma non è vero,comunque rispondete subito perché il mio rimpatrio andrà oltre di quelloche speravo e che vi feci sapere nelle scorse lettere». ormai sono passatisei anni e mezzo, passeranno forse pochi mesi. Santo Luci di Molochio, prigioniero in Inghilterra, l’11 febbraio 1946,«avevo una speranza per il giorno 28 corrente mese, come già eravamo inlista per il rimpatrio, ma come si dice oggi qui nel campo estata soppesa

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la partenza [...] ormai dopo 5 anni di prigionia e gia arrivata la fine di que-sta maledetta vita priva di tutto e lontani della nostra cara patria». ar-mando Capparelli di Mongrassano, già ricordato, prigioniero in egitto, il 9luglio 1946, alla moglie «qui si vive sempre nel silenzio, riguardo la nostraposizione, nessuno sa niente, ci siamo dimenticati di essere stati nella vitacivile, e non ci crede più di tornare nella vita primitiva». Il già citato giorgio Madeo di Corigliano Calabro, nei panni di prigio-niero a gaythorne, un suburbio di Brisbane nel Queensland (australia), il21 agosto 1945 al fratello:«voi mi dite che da voi la vita costa cara dovete lavorare per tirare avanti la famiglia epoi dovete fare le veci della nostra assenza, quello che ti raccomando di avere un po’ dicura sulla nostra casa che poi quando veniamo noi allora non avrai più disturbi che ormaila fine è vicina». Una terza lettera il 10 novembre 1945. Sorpreso come mai i genitorisiano stati sei mesi senza sue lettere, nonostante le due lettere scritte ognisettimana. La colpa è della posta. euforico per il fratello rocco ritornato acasa, qui si dice «che chi prega Dio e ama i Santi di dietro passa avanti»,avete capito la parabola? «Io che dovevo rientrare prima di loro, viceversaloro sono arrivati prima di me, ma io sono contento lo stesso». Nei campi americani (negli Stati Uniti dei 125 mila italiani ne furonotrasferiti 51 mila, distribuiti in quasi tutti gli Stati, a eccezione del Nevada,North Dakota e vermont, i militari internati furono trattati meglio, si assi-curarono una grande varietà di generi alimentari ed ebbero il sostegnodelle popolose comunità italoamericane, mobilitatisi in loro favore. ac-canto a una grande maggioranza di prigionieri, che, pungolata dalla pro-spettiva di migliorare le condizioni materiali, aderì al programma dicooperazione, lavorando per la vittoria degli alleati, ci fu una minoranzamolto restia a collaborare, subendo serie ripercussioni18.

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18 La loro storia è stata ricostruita da FLavIo gIovaNNI CoNtI, I prigionieri italiani negliStati Uniti, Il Mulino, Bologna 2015. Questo volume, come anche quello della Insolvibile, èbasato su fondi archivistici italiani e stranieri, inediti. Sul tema dei prigionieri militari ita-liani Cfr. roMaN H. raINero (a cura di), I prigionieri militari italiani durante la seconda guerramondiale Aspetti e problemi storici, atti del Convegno internazionale di studi, Marzorati,Milano 1985; LaUra MoNteNero, Le diverse prigionie dei militari italiani, in «Studi e ricerchedi storia contemporanea», 48, 1997, pp. 81-88; MarIo De ProSPo, I prigionieri di guerra ita-liani negli Stati Uniti e il dilemma della cooperazione 1944-46, in «Diacronie. Studi di Storiacontemporanea», 2, 1/2010 (rivista online). Per i prigionieri non collaboratori, rinchiusinel campo di Hereford in texas, si veda il libro di gaetaNo tUMIatI, Prigionieri nel Texas, UgoMursia, Milano 1985.

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Per scrivere a casa alcuni prigionieri si servivano di biglietti prestam-pati con domande fisse. De Stefano Domenico di reggio Calabria, il 21 giu-gno 1943 XXI Sono in un campo d’internamento americano Il mio stato disalute è ottimo. emilio Conforti di Surdo Campagnano. alla moglie dalcamp Weingarten nel Missouri il 19 giugno 1943 si lamentava per la pe-nuria di notizie: «Il cuore non sta in pace». Francesco Salituro di Castiglione Cosentino, l’11 maggio 1943 alla mo-glie da Carson in Colorado, «che mi trovo prigioniero del 22 Marzo e mitrovo in america con tante paesane di Cosenza anzi vi faccio presente chesono insieme con il nipote del guardiano di Campagna che si chiama Sci-gliano Pietro e quindi quello che vi raccomanto sempre di stare tranquilli».rosario Quintieri di Cittadella del Capo, il 26 luglio 1944 una cartolina daFort Meade nel Maryland (Usa) alla moglie per avere l’indirizzo dei paesaniresidenti negli USa, con la speranza di poterli contattare. Una richiestaplausibile dovuta alle maggiori libertà beneficiate dai sostenitori del pro-getto americano. ***Il nostro compito, nell’opera di selezione condotta, ha mirato a estra-polare un qualcosa di insolito per uscire fuori dalla routine uniforme diquesti scritti e dare spazio a idee discordi sulla guerra. Ma, nelle lettereconsultate, il diverso non c’è. La lettera era una prassi per comunicare, aifamiliari lontani, in una congiuntura indubitabilmente inusuale, come seattraverso il contato epistolare si intuisse la presenza dei cari. Poche parolescritte di getto senza pensarci due volte e senza immaginare se nella pros-sima tappa ci fossero state le premesse per trovarsi all’ appuntamento(nelle lettere dei mobilitati verso la russia c’è un accenno), quale scenarioangoscioso di guerra aspettasse i soldati italiani19. I sentimenti diventano un rifugio, uno schermo per difendersi dall’ag-gressione del mondo esterno, e così il parlare o scrivere delle loro emo-zioni e delle loro percezioni rimane un artificio personale. Nuto revellisottolinea che gli epistolari, considerati documenti tutto sommato «moltopiù validi che non le testimonianze raccolte», se scritti persino da personecon poca istruzione (poche classi delle elementari mal fatte), possono ri-sultare talvolta difficili e noiosi da leggere; in realtà è proprio questa loro

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19 Una ricerca, interessante, potrebbe essere quella di seguire il rimpatrio di questi mi-litari, quante persone sono ritornate dalla guerra, in modo particolare i soldati che partironoper la russia senza conoscerne i rischi a cui andavano incontro oppure quelli che, alla vigiliadell’armistizio, si trovavano in situazioni molto delicate, nelle isole di Cefalonia o Corfù.

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inaccessibilità a renderli così «pieni di cose, pieni di suggerimenti»20.In chiusura una breve osservazione. La finalità del presente lavoro in-tende avere una modesta pretesa: offrire un tassello allo studio, oggi al-quanto praticato, dell’epistolografia popolare «sulla scia – avvalora ilgibelli – di un mutamento della sensibilità storiografica, divenuta più at-tenta alla vita quotidiana, all’immaginario e alla percezione degli avveni-menti da parte della gente comune»21.

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20 L. BrIgaNtI, Il dialetto ed il linguaggio dei «semicolti» cit., p. 220.21 aNtoNIo gIBeLLI, L’epistolografia popolare tra Prima e Seconda guerra mondiale, in Ita-lia 1939-1945, in a. L. CarLottI (a cura), Storia e memoria cit., p. 14.

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Una stagione irripetibile«la stagione dei giornali politici che si stamparono nel Mezzogiorno grazie al Pressplan for Italy elaborato dagli anglo-americani ancor prima dello sbarco in Sicilia, fu quellain cui si formò una coscienza politica nuova che mise in primo piano i bisogni delle massetornate finalmente protagoniste. ogni città ebbe il suo giornale, e spesso più di uno, cheaccompagnò un dopoguerra di speranza e di tensioni, tra aspirazioni di riscatto sociale etentativi di rivincita della reazione agraria che […] si nutrì di quel clima politico dominatodal badoglismo e dalla monarchia sabauda alle prese con un estremo tentativo di soprav-vivere dopo gli anni di sostegno al fascismo»1.È quanto in altra occasione abbiamo avuto modo di affermare, convintiche una stampa libera costituisca l’elemento caratterizzante di ogni de-mocrazia. tale stampa, infatti, assolve un ruolo unico nella formazione diun’opinione pubblica democratica e cosciente dei propri diritti e dei propridoveri. esemplare, in tal senso, è quanto avvenne in Calabria all’indomanidello sbarco delle truppe anglo-americane del 3 settembre 1943. Dopoil lungo sonno del Ventennio fascista, infatti, la spinta alla democrazia ealla libertà si caratterizzò per il ritorno della stampa politica che sostenneil processo di riorganizzazione dei partiti e la partecipazione al dibattitodi quel popolo fino ad allora escluso dai processi decisionali. Per la re-gione è stata una stagione irripetibile. Dal 1943 in poi, in pochi anni, ac-canto alla nascita di periodici d’informazione e alla pubblicazione di dieciquotidiani non tutti legati ai partiti, si registrò un’esplosione di testatepolitiche. tutte le formazioni ebbero i loro giornali, due facciate ma stam-pate in migliaia e migliaia di copie magari con inchiostri pessimi su cartad'occasione, di scarsa qualità e a volte di colori diversi. Si trattò di un fe-nomeno per certi versi effimero e tuttavia indicativo di una fertilità edi-

Stampa politica e democrazianel secondo dopoguerra in Calabria

Pantaleone Sergi

1 PaNtaleoNe SergI, Pane, pace e Costituente. Una “Voce” socialcomunista in Puglia (1945-1947), Bulzoni, roma 2002, p. 11.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

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toriale che non trova paragoni nella storia del giornalismo calabrese2.alcuni di questi giornali scomparvero molto presto «senza lasciaregrandi rimpianti»3 ma in ogni caso con la loro presenza, le battaglie com-battute e il dibattito politico che si sviluppò sulle loro pagine, segnaronol’avvio di una difficile democrazia.Il richiamo della militanza, infatti, facilitò il passaggio al nuovo sistemapolitico con le profonde trasformazioni della rappresentanza. restava daaffrontare e con urgenza anche il nodo della ricostruzione di un tessutoeconomico in pratica cancellato dalla lunga guerra. Messo alle spalle il tur-bine della distruzione, infatti, la massa dei bisogni premeva e attendevasoluzioni immediate4 e furono in pratica i giornali a veicolare l’idea dicome i partiti intendevano affrontare e risolvere i drammatici problemiche la Calabria aveva ereditato dal fascismo e dalla guerra5.tutto fu possibile grazie a un’applicazione molto duttile del Press Planfor Italy6 gestito dalla Psychological Warfare Branch (PWB) e dall’Allied Mi-litary Government of Occupied Territories (aMgot, semplicemente aMgdopo la cobelligeranza), attraverso l’Allied Pubblication Board (aPB), l’enteinteralleato per la stampa e la propaganda costituito allo scopo nel dicem-bre 19437. In effetti, il programma degli alleati per il concreto ritorno alla libertàdi parola e di stampa era estre ma mente semplice: «rompere con il passatoe assicurare con i propri mezzi e con un rapido controllo delle pubblica-zioni locali autorizzate un’in for ma zione tesa ad appoggiare i propri obiet-tivi militari»8. Per fare ciò, il Plan for Pwb operation in occupied territory

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2 ID., Quotidiani desiderati. Giornalismo, editoria e stampa in Calabria, Memoria, Cosenza2000, in particolare il capitolo 3 (pp. 53-74).3 MarIo graNDINettI, La stampa quotidiana in Calabria dalla caduta del fascismo a oggi,in «Il Corriere calabrese», 2, 1992, p. 101.4 Per un quadro della situazione post-bellica, cfr PIetro BorzoMatI, Per una storia dellasocietà calabrese all’indomani della seconda guerra mondiale, in Aspetti e problemi di storiadella società calabrese nell’età contemporanea, editori Meridionali riuniti, reggio Calabria,1977, pp. 603-618.5 Su questi temi mi permetto di rinviare ai miei saggi: La Calabria all’indomani dell’8settembre 1943, in «rivista Calabrese di Storia del ‘900», 2, 2013, pp. 179-196; e La Calabrialiberata. Tra ripresa democratica e dinamiche conservatrici, atti Convegno 1943. Leggere iltempo negli spazi. Napoli, Campania, Mezzogiorno e Mediterraneo, Napoli, 17-19 ottobre2013 (in corso di pubblicazione).6 alejaNDro PIzzarroSo QuINtero, Stampa radio e propaganda. Gli alleati in Italia 1943-1946, Franco angeli, Milano 1989, p. 19.7 goVerNo MIlItare alleato e CoMMISSIoNe alleata DI CoNtrollo, Resoconto delle attivitàsvolte dal 10 luglio 1943, il giorno D in Sicilia, al 2 maggio 1945, giorno della resa tedesca inItalia, tip. Ist. romano arti grafiche tumminelli, Città universitaria, roma 1945.

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prevedeva la chiusura dei mezzi di informazione esistenti compromessicol fascismo e l’apertura di fogli informativi autorizzati dalla PWB9.era accaduto così in Sicilia con la chiusura dei giornali esistenti e l’edi-zione immediata del bilingue «Corriere di Siracusa» a uso dell’esercito, edel primo quotidiano post-fascista che significativamente fu chiamato «Si-cilia liberata», pubblicato a Palermo dal PWP il 4 agosto 1943 con il sotto-titolo «Quotidiano d’informazione» e una tiratura di 50 mila copie10.Il Press Plan elaborato per un territorio occupato, però, dovette fare i conticon la mutata situazione determinatasi prima con l’armistizio e poi con lacobelligeranza, «dando spesso l’im pressione di mancare di una pianifica-zione centralizzata»11. In Calabria, infatti, contrariamente a quanto previsto,i nuovi giornali furono affidati alla gestione dei diversi gruppi politici risortidal silenzio plumbeo del regime mussoliniano. Nonostante ciò fu ugualmenteesercitato un loro sostanziale controllo sia con le interferenze degli ufficialialleati e la censura da essi esercitata in tandem con le prefetture, sia per ilfatto che era sempre l’Allied Publications Board, quindi il governo militareche ufficialmente si proponeva una politica di «governo indiretto, onde as-sistere il governo Provinciale Italiano e farlo governare»12, a regolare l’uscitadei periodici e l’edizione di libri, concedendo o negando l’autorizzazione sullabase di criteri molto soggettivi e a volte arbitrari. ed era ancora l’APB a sele-zionare e fornire le notizie nazionali e internazionali da pubblicare e, soprat-tutto, assegnare la carta a propria discrezione13, cosa che spesso nonconsentiva l’uscita regolare del periodico anche se autorizzato14.

Stampa politica e democrazia nel secondo dopoguerra in Calabria

8 a. PIzzarroSo QuINtero, Stampa, radio e propaganda cit., p. 19.9 tra i tanti fogli espressione del regime fu chiusa anche la «Cronaca di Calabria» pub-blicata dalla fine dell’ottocento, che era passata dall’atteggiamento socialisteggiante deiprimi anni all’asservimento totale al fascismo.10 Per le politiche degli alleati sull’informazione si rinvia al documentato volume di a.PIzzarroSo QuINtero, Stampa, radio e propaganda cit. e per alcuni aspetti relativi al Mezzo-giorno a P. SergI, Pane, pace e Costituente cit., pp. 17-25.11 a. PIzzarroSo QuINtero, Stampa, radio e propaganda cit., p. 117.12 arChIVIo DI Stato DI CoSeNza (aSCs), Prefettura, Fondo Macero, b. 133, f. 12, Lettera delcol. Hec Nichols dell’Allied Military Government Province of Cosenza al Prefetto, 30 dicembre1943.13 IVI, b. 50, f. 7, Lettera del titolare della Tipografia SCAT al Prefetto di Cosenza, 5 ottobre1944: «l’aCC di Catanzaro assegna direttamente i rotoli di carta alle amministrazioni deigiornali, le quali fanno tenere in tipografia, di volta in volta, il quantitativo di carta neces-saria per la stampa dei giornali stessi».14 È il caso, per esempio, della «Voce del Popolo», organo del Pci di Catanzaro che inqualche occasione per il mancato approvvigionamento della carta saltò le pubblicazioni.Cfr. arChIVIo PartIto CoMuNISta ItalIaNo, Istituto gramsci, roma (aPC), Cartella Calabria1943-1945, fasc. Catanzaro 1944, MF 063/279; 0036-285-287, Lettere di Dante De Simone,Gennaro Miceli e Velio Spano.

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l’assegnazione della carta, di fatto, era un meccanismo di controllo cheantonio la tella, giovane giornalista reggino addetto stampa della Prefet-tura dopo lo sbarco alleato (il suo compito, in pratica, era quello di con-trollare i giornali ed eventualmente disporne il sequestro), in un volumedi memorie ricorda così: «la penuria di carta era un dato reale» ma «eraanche vero che alla ripartizione delle scorte disponibili si provvedeva concriteri politici. tutti di estrazione inglese o americana gli ufficiali dell’aMgnon delegavano agli italiani una sola oncia del loro potere che, sul settorestampa e propaganda, era inappellabile»15.anche quando formalmente le competenze sulla stampa passarono aiprefetti, infatti, il potere dell’aPB si faceva sentire sotto forma di consiglie pareri che i prefetti si guardarono bene di contestare. Quello che si ve-rificò a Cosenza agli inizi del 1944 con Pietro Mancini prefetto16, può es-sere ritenuto un esempio di quel fenomeno contraddittorio che da unaparte vedeva la mobilitazione popolare avviata dai partiti e dai sindacatiappena rinati e che trovò la sua massima espressione nelle lotte conta-dine, e dall’altra il controllo sul territorio esercitato sotto diverse formedall’esercito anglo-americano anche quando aveva restituito i poteri alleautorità civili italiane. Il maggiore Dreyfus, dell’aMg di Cosenza, per esem-pio, trasmise al prefetto tre richieste di autorizzazione per pubblicaregiornali con una nota: «Dato il numero già grande di giornali stampatinon sembrerebbe desiderabile accordare nuovi permessi»17. Il prefetto siadeguò. e respinse così diverse domande, anche di giornali che già eranoapparsi dopo l’8 settembre e dovevano soltanto rinnovare l’autorizza-zione e, finanche di un settimanale di “novelle, racconti e tutto quello chepuò interessare alla donna» che si voleva stampare col nome di «Calabre-sella». tra gli altri, senza dare alcuna spiegazione, scrisse un marcato “no”sull’istanza presentata per la continuazione del periodico «la Fiaccola»pubblicato per la prima volta il 26 novembre 1943 a Castrovillari18 e sem-pre a Castrovillari bloccò la pubblicazione del «Diogene»19; stessa sortetoccò al modesto giornaletto parrocchiale «la Campanella – galoppino di

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15 aNtoNIo la tella, Taccuino segreto, Città del Sole, reggio Calabria 2006, pp. 20-21.16 Pietro Mancini fu nominato dagli alleati al posto di Fausto gullo «proclamato» dallapiazza dopo la rivolta di Cosenza che cacciò a furor di popolo il prefetto fascista enrico hen-drich ancora in carica: cfr. FulVIo Mazza, MarIa toloNe, La rivolta di Cosenza del 4 novembre1943, in «Periferia», n. 11, maggio-agosto 1981, pp. 56-59. Si veda anche NINo De aNDreIS,La Ribellione di Cosenza del 4 novembre 1943, Il Solco, riva ligure 1977. 17 aSCs, Prefettura, Fondo Macero, b. 1, f. 8, B. Dreyfus Major, A/SCAO Cosenza, al Prefetto,Giornali, 16 febbraio 1944.18 IVI, Istanza di Paolo Lombardi al Prefetto, 20 febbraio 1944.19 IVI, Telegramma Compagnia carabinieri al Prefetto, 8 marzo 1944.

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Fiumefreddo» che, a sentire il parroco-editore di Fiumefreddo Bruzio, erastato «sospeso perché accusato di antifascismo e fu ripreso fin dal mo-mento dell’occupazione inglese in Calabria»20. Il prefetto Mancini, ancora,lasciò senza risposta l’istanza per «l’amico del popolo» a rossano21 e negòl’autorizzazione all’«eco del tirreno» che s’intendeva pubblicare a Belve-dere Marittimo, motivando tale decisione con «l’ingente numero di gior-nali che già vedono la luce in provincia» e «in relazione a disposizioni alriguardo emanate dal Comando alleato»22. Chiaramente per i suoi tra-scorsi fascisti che tentò inutilmente di alleggerire, al giornalista SalvatoreVentrella che nel 1936 e 1937 era stato direttore del periodico cosentino«Il popolo di Calabria», non fu concesso, invece, di pubblicare il settima-nale «l’eco del Crati»23. Nel marasma generale, con il Paese ancora in guerra e i «liberatori»che si comportavano da «occupanti», le certezze erano molto labili. Il go-verno Badoglio, da parte sua, dopo il 25 luglio aveva mantenuto la legi-slazione fascista e il meccanismo di controllo della stampa, arginando cosìl’onda di libertà che alla caduta di Mussolini aveva interessato anche igiornali. Nell’autunno del 1943, dopo la Conferenza dei tre grandi a Moscache tra i suoi obiettivi aveva proprio quello di sviluppare la libertà distampa, però, fu costretto dagli alleati ad allentare la morsa. In Calabriaqualche testata aveva già visto la luce per iniziativa del governo militare.Ma, non ritenendo possibile in quel momento cancellare la legislazionefascista ancora applicata24, la «liberalizzazione» arrivò con una circolarealle prefetture in cui Badoglio comunicò la «determinazione di permet-tere la regolare pubblicazione di giornali editi da partiti politici»: volendodare prova tangibile del «suo programma di ripristinare la libertà delPaese», il governo autorizzò «gli esponenti di cinque principali partiti» apubblicare ugualmente i loro organi di stampa con alcune prescrizioni,tra cui la censura preventiva delle Prefetture sia relativamente al segreto

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20 IVI, Arciprete di Fiumefreddo Bruzio a Comando Alleato, 14 febbraio 1944.21 IVI, Ins. Antonio Mercogliano a Prefetto – Ufficio Stampa, 19 febbraio 1944.22 IVI, Prefetto Mancini a Comando Stazzione Carabinieri di Belvedere Marittimo, 22 feb-braio 1944.23 IVI, Lettere del giornalista Salvatore Ventrella al Comando AMG, 26 gennaio 1944 e 4febbraio 1944. Ventrella era stato direttore del periodico «Il Popolo di Calabria», omonimodel quotidiano fascista che si stampava a reggio Calabria, che a suo dire era cessato dopoun contrasto con «Calabria Fascista» e il suo direttore.24 gIoVaNNI De luNa, I 45 giorni e la Repubblica di Salò, in La stampa italiana dalla resi-stenza agli anni ’60, laterza, roma-Bari 1980. Il governo Badoglio il 5 agosto 1943 avevavarato le «Norme per la disciplina della stampa in relazione allo stato di guerra», in praticabloccando ogni forma di libertà.

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militare «sia per la parte politica»25, cosa che, aggiunta alle lamentate co-artazioni per interessi personali da parte di chi era «preposto a compitidi responsabilità e di comando»26, agli interventi di tipo fascista della ma-gistratura (almeno quella cosentina)27, di fatto in alcune città la rende-vano, a sentire esagerate proteste, «la chimera delle favole».Il 14 gennaio successivo, il governo regolò tutta la materia con il rDl«Disciplina della stampa durante l’attuale stato di guerra».Si è assistito così, pur tra tante incertezze, a quello che Ian S. Munro,capo dell’ufficio stampa del PWB in Italia, e responsabile dell’attuazionedel Press Plan for Italy, ha definito un«esperimento unico nella storia del giornalismo e forse unico nella storia della guerra, cioèla fondazione della libera espressione della parola stampata in mezzo a un popolo ex ne-mico, che non aveva esercitato questo privilegio per due generazioni, e lo sviluppo di unastampa libera in un paese che [era] ancora teatro di operazioni di guerra»28.Segno dell’articolazione nuova della vita politica post-fascista, furonodunque i numerosi periodici di partito che operarono sotto l’occhio vigiledella censura militare che interveniva spesso con sequestri, divieti, so-spensioni e accorpamenti di testate. un sistema a libertà vigilata, dunque,ma niente a che vedere con il tallone fascista esercitato attraverso il Min-culpop e le prefetture.Per una regione che tra ottocento e primo Novecento nel settore edi-toriale aveva offerto prove non entusiasmanti specialmente per la debo-lezza dovuta a mancanza di capitali e di mercato, tuttavia, la vera novitàfu rappresentata dai quotidiani che raggiunsero anche alte tirature29. Sol-tanto che, se i quotidiani d’informazione costituivano i first priority papersdel Press plan for Italy, in Calabria, nonostante la fioritura di testate cosid-dette indipendenti, si fece maggiormente ricorso ai second priority papers,cioè i periodici dei partiti, il cui ruolo fu fondamentale nella formazione di

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25 aSCs, Prefettura, Fondo Macero, b. 1, f. 8, Ufficio stampa e propaganda del governo,Pubblicazioni periodiche di partiti politici, 28 ottobre 1943. Si veda anche: Dall’armistizioalla liberazione di Roma, Documentazione, in «Politica estera», n. 6, roma, luglio 1944. Igiornali nel diedero notizia in poche righe: cfr. La libertà di stampa autorizzata dal mare-sciallo Badoglio, in «la Nuova Calabria», 31 ottobre 1943. alcune limitazioni furono postedal governo militare che, richiamando «reati di guerra» e «reati contro le forze alleate», siriservò il diritto di «ordinare la soppressione di qualsiasi giornale a qualsiasi momento»(cfr. Importante comunicato dell’Amgot. Compartimento Calabria, in «la Nuova Calabria»,13 novembre 1943.26 MINIMuM, Libertà di stampa, in «emancipazione», 15 marzo 1944.27 Al ministro di Grazia e Giustizia, in «avanti!», 27 dicembre 1944.

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coscienze democratiche e specialmente nel sostenere – o anche a osteg-giare – le lotte per la terra che, alla resa dei conti, sono state il lievito dellademocrazia.Furono, infatti, questi giornali il luogo privilegiato del dibattito politicoe alcuni raccontarono, più o meno con continuità, la nascita delle nuoveformazioni sul territorio. Per i partiti minori, che avevano difficoltà adaprire sezioni in tutti i centri, la pubblicazione di un organo di stampa di-venne assolutamente vitale per poter raggiungere militanti isolati e pertentare un’opera di proselitismo più o meno ampia.Protagonismo frenatoSollecitata molto tempo fa da Vittore Fiore, persiste la necessità diun’attenta riflessione sul ruolo della stampa politica in tutto il Sud, soprat-tutto nelle fasi di ricostruzione della democrazia30, in un periodo in cuil’apparizione dei giornali rappresentava senza dubbio un vero e proprioatto di coraggio31. riteniamo importante, allora, soffermarci ancora suquello che accadde in Calabria, prima regione continentale occupata/libe-rata dagli anglo-americani, dove i vari partiti incominciarono l’attività allaluce del sole con la pubblicazione di giornali che diventarono essi stessiprotagonisti del dibattito politico libero finalmente di esprimersi. la stampa politica, inizialmente fu prevalente, anche se gli alleati «per-misero l’uscita di pochi giornali di informazione che si dovevano presu-mere liberi da qualsiasi impegno di parte e indipendenti da qualsiasi forzaorganizzata»32 ma nella sostanza non lo furono perché parteciparonoanch’essi al dibattito politico non sempre in posizione neutra. Nacquero,tuttavia, giornali portatori di ideologie diverse che in comune avevano ildovere di «preparare il domani»33, e mostravano una forte e ostentata ca-ratterizzazione antifascista unita alla volontà di ricostruire un tessuto de-

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28 Paolo MurIalDI, La stampa italiana dalla Liberazione alla crisi di fine secolo, laterza,Bari-roma, 1998, p. 185.29 P. SergI, Quotidiani desiderati cit., pp. 53-71.30 VIttore FIore, Un ruolo unificante per la stampa italiana, in Mezzogiorno e informa-zione, associazione della Stampa di Puglia e Basilicata, Bari 1981, p. 10631 ID., Giornali del Mezzogiorno, in «avanti!», 18 febbraio 1949: «l’uscita di un giornalenel Mezzogiorno è sempre un avvenimento importante ed è qualcosa di più di un fatto dicronaca».32 La battaglia per la stampa, «la Voce della Puglia», 21 settembre 1947. Nei loro pro-grammi gli alleati avrebbero voluto privilegiare proprio i giornali d’informazione.33 luigi Silipo, Programmi politici e partiti, in «la Nuova Calabria», 1 dicembre 1943.

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mocratico nel Paese. la voglia di riprendersi la parola dopo la fine del to-talitarismo fascista e il ripristino delle libertà era tanta e si determinò unastagione ricca di fermenti che le nuove testate del dopoguerra hanno so-stenuto con passione, assecondando in una prima fase la spinta popolarealla democrazia e alla repubblica.Il fiorire di questa stampa democratica in tutte le sue espressioni, chesi distinse a volte per le accese polemiche tra le diverse fazioni politiche,finì per destare forti perplessità nell’amministrazione alleata e, addirittura,fu giudicata eccesiva da autorità italiane di antica fede democratica comeil prefetto di Cosenza, che di fatto, come abbiano visto, bloccò le autoriz-zazioni34, e quello di reggio Calabria che firmò un decreto per la «limita-zione temporanea dei giornali al numero strettamente necessario»35.anche il giovanissimo questore della città dello Stretto, preoccupato peril «pullulare» di giornali a suo giudizio «superflui alla necessità e, al tempostesso, dannosi per l’ordine pubblico, poiché davano luogo a polemiche dicarattere personale», segnalò la cosa al Ministero dell’Interno36. Perfino ilquotidiano antifascista stampato a Catanzaro lamentò una «euforica fun-gaia di giornaletti», inutile e dannosa, la pubblicazione cioè di «nuovi foglipomposamente chiamati “giornali”, i quali minacciano di assumere lo svi-luppo di certi funghi», soffermandosi sugli aspetti negativi di quello checonsiderava «eccesso di stampa»37.una situazione opposta si determinò nel settore dell’informazione ra-diofonica. Sebbene dal 5 agosto, fossero state avviate le trasmissioni diradio Palermo, considerata il primo modello radiofonico dell’Italia libe-rata, alla quale fu assegnata la funzione di propaganda militare38, una voltain Calabria gli alleati esclusero dalla liberalizzazione le trasmissioni radio-foniche locali.Per gli anglo-americani, i costi di impianto di stazioni radio e, soprat-tutto, l’impossibilità pratica di interventi censori, rendevano impossibileun sistema pluralista. In verità gli alleati avevano previsto l’impianto di

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34 aSCs, Prefettura, Fondo Macero, b. 1, f. 8, Prefetto Mancini a Comando Compagnia ca-rabinieri di Castrovillari, copia s. d.35 Cfr. «Democrazia», 5 marzo 1944, cit. in gIuSePPe MarCIaNò, Calabria Libera 1943-1944. Storia di un quotidiano scomodo bel Regno del Sud (seconda parte), in «Calabria Sco-nosciuta», XXX, 115, 2007, p. 42.36 arChIVIo CeNtrale Dello Stato (aCS), Min. Int., Dir. PS, Div. agr, b. 61 B, Rapporto delquestore di Reggio Calabria Giuseppe Parlato, 10 aprile 1944. Pubblicato anche in «Cala-bria», suppl., n. 4-5, 1985, pp. 13-16.37 gISa, Euforia di Stampa, in «la Nuova Calabria», 23 dicembre 1943.38 FraNCo NICaStro, Radio Palermo 1943, una voce dall’avamposto dell’Italia liberata, in«Comunicando», 2, 2001, p. 222.

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una stazione radio a reggio Calabria, ma per ragioni subentrate dopo losbarco in continente non se ne fece nulla. Fu subito stroncata dalle autoritàitaliane, di conseguenza, l’iniziativa di alcuni giovani che nell’ottobre 1945avevano aperto una stazione radio a reggio senza preventiva autorizza-zione. a nulla valse, secondo quanto riferito dal quotidiano reggino «Iltempo», la loro intenzione di mettere i microfoni a disposizione dei partitidel Cln locale39. un valore simbolico assume, invece, la breccia nel monopolio rai, cheaveva preso il posto della fascistissima eiar, fatta da una stazione radioreggina, questa volta autorizzata dalla Prefettura di reggio con un eccessodi discrezionalità, che nel 1947 trasmise la stagione lirica del teatroCilea40.In tale contesto, la rinascita dei partiti e dei sindacati andava in paral-lelo alla rinascita dei giornali e dell’informazione libera, e ciò era il fruttodi un sospirato ritorno alla democrazia. Il professor giuseppe Mannarino,esponente del Pri catanzarese, si rese interprete di tale ansia con un edi-toriale su «la Nuova Calabria», quotidiano del Fronte unico per la libertàdi Catanzaro che raccoglieva tutte le anime dell’antifascismo locale41: «Ègiusto e necessario – scrisse – che i Partiti si riorganizzino. È anche giustoe necessario che essi abbiano i loro organi per poter parlare al popolo, inprimo luogo la stampa»42.I partiti d’altronde, erano consapevoli della utilità di disporre di un pro-prio giornale, per dialogare con più persone ed “educarle” alla democrazia,e dare loro l’opportunità di essere coinvolti nella vita politica. Dopo glianni del pensiero unico fascista vi era, infatti, «la necessità di spiegare l’im-portanza del confronto fra idee diverse e di diffondere un dibattito, anche

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39 “Qui Reggio Calabria”, in «Il tempo», 2 novembre 1945. I programmi della radio, cheapriva le trasmissioni sulle note della canzone Calabresella e che trasmise soltanto musicaper alcuni giorni, venivano captati fino a sette-otto chilometri dalla città40 PaNtaleoNe SergI, L’antenna liberata: iniziò in Calabria la fine del monopolio Rai, in«Daedalus», 16, 2001, p. 53. tale radio si sarebbe chiamata «rara», acronimo delle altiso-nanti ma inesistenti «radio audizioni reggine associate».41 guidata da un «provato giornalista antifascista» (cfr. CeSare MulÈ, Il movimento de-mocratico cristiano e le lotte contadine in Calabria, edizioni Cinque lune, roma 1975, p.43) come giovanni Paparazzo (condirettore giovanni Migliaccio), la redazione di «la NuovaCalabria» era formata dai rappresentanti di tutti i partiti, il comunista luigi Silipo, i demo-cristiani Vincenzo turco e Francesco Bova, i sacerdoti democristiani Francesco Caporale eDomenico Vero e il socialista giuseppe Cappa. Sul quotidiano si veda: aMelIa PaParazzo, LaNuova Calabria (1943-1945). La vita di una città e i problemi di una regione dopo la cadutadel Fascismo, gangemi editore, roma, 1996.42 gIuSePPe MaNNarINo, Cominciamo a ricostruire, «la Nuova Calabria», 14 dicembre1943.

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aspro e serrato, ma che possa promuovere i valori democratici a cui de-vono essere educati i cittadini»43.Giornali per la democraziaNel ventennio fascista in Italia era proliferato un giornalismo «in livrea»e circolata soltanto una stampa inquadrata, grigia e obbediente ai voleridel regime. In Calabria la realtà era stata peggiore, se possibile, per la con-genita debolezza del settore editoriale e la povertà dei mezzi e dei conte-nuti: il fascismo spense tutte le voci libere44, affidandosi a organi del Pnf efogli d’ordine obbedienti ai ras locali45.Dopo l’armistizio e la cobelligeranza, come anticipato, anche in Calabriaperò fu concessa ai partiti l’opportunità di avere il proprio organo di stampa,settimanale per lo più. Non mancarono, tuttavia, decadali, quindicinali emensili. lo stesso avvenne con le organizzazioni sindacali e padronali. ap-parvero anche periodici satirici e si stamparono pure settimanali di enigmi-stica ad alte tirature, quasi a simboleggiare la ritrovata voglia di svago.«la gran quantità di giornali pubblicati nell’Italia liberata è uno sfogonaturale dopo 20 anni di silenzio», spiegò il sottosegretario alla Stampa eInformazione giuseppe Spataro, in un’intervista citata dal quotidiano reg-gino «Il tempo»46. ancora più esplicito è l’affresco sulla situazione in Ca-labria fatto da Pietro Mancini in alcune «note affrettate»:la Calabria, non appena caduto il fascismo, è tornata a nuova vita politica. ovunquesono sorti Comitati di liberazione e partiti, financo nei paeselli sperduti nelle forre. un ri-gurgito di vita. un’euforia infrenabile e giustificata. Si stava morendo di silenzio.I quadri socialisti e comunisti che avevano vissuto la vita illegale, furono subito rico-stituiti. I giornali fiorirono. a Cosenza e provincia nel febbraio 1944 se ne contavano 20;fra cui un quotidiano e un giornale umoristico.la gente era assetata di notizie e di scritti d’argomento politico sociale. la polemica siaccendeva. Dapprima scomposta e personalistica, poi moderata e più consona ai pro-grammi ricostruttivi municipali, provinciali amministrativi47.

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43 Matteo MazzolI, Raggi di luce di un’alba nuova. La formazione alla democrazia suigiornali fiorentini del biennio 1944-1946, in «annali di Storia di Firenze», II, 2007,www.dssg.unifi.it/SDF/annali/annali2007.htm44 PaNtaleoNe SergI, Stampa e fascismo in Calabria: quei giornali moti di regime, in «In-contri Mediterranei», I, 2, 2000, pp. 100-111.45 Pur con la prudenza dettata dalla situazione, durante il fascismo fuori dal coro in Ca-labria rimase solo «Parola di Vita», periodico pubblicato dalla Curia di Cosenza: cfr. PaNta-leoNe SergI, L’anima doppia della stampa cattolica durante il fascismo in Calabria, in «rivistacalabrese di storia del ’900», IV, 1-2, 2010, pp. 59-68.46 Dichiarazione del sottosegretario alle Informazioni, in «Il tempo» (rc), 9 luglio 1944.47 arChIVIo FoNDazIoNe gIaCoMo MaNCINI (Cosenza), Subfondo Pietro Mancini, faldone460, fila 4, scaffale 3, palchetto 5, Pietro Mancini, Note affrettate. Calabria. Partiti politici.

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Più o meno nello stesso periodo cui si riferisce Péietro Mancini per Co-senza, un analogo fenomeno si registrò nelle altre province calabresi: areggio Calabria, per esempio, alla fine di gennaio circolavano ben 16 gior-nali, che erano il frutto frutto di pionierismo e di tanto ottimismo. la stampa politica, infatti, mostrò grande fervore a reggio dove giàdal 1943 furono presenti diversi quotidiani chiaramente orientati (unocomunista, due democristiani, uno democristiano-socialista e uno socia-lista), sebbene non dipendessero direttamente da sigle politiche. «Cala-bria libera», quotidiano comunista del pomeriggio, il primo ad appariredopo l’8 settembre, era stato autorizzato dagli alleati come Quotidianod’informazioni ma ben presto si palesò come «organo dell’antifascismopiù intransigente»48. la sua pubblicazione fu il primo vero segnale dellalibertà riconquistata. era diretto da Carlo la Cava un ex socialista mas-simalista perseguitato dal fascismo il quale, già nel 1943, chiese l’iscri-zione al PCI49. Seguirono diverse testate quotidiane nel giro di pochi anni: «Corrieredi Calabria» che uscì per poco tempo diretto da Franco Cipriani, «la Vocedella Calabria» (poi «Voce di Calabria») del banchiere Filippo rizzo che in-titolò l’editoriale del primo numero «Democrazia Cristiana» e quello delsecondo «Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana»; «la luce» socia-lista, diretto da guglielmo Calarco, giornale che dopo l’oscuramento fasci-sta aveva ripreso le pubblicazioni con periodicità settimanale50; «Iltempo», che avrebbe dovuto essere esclusivamente informativo, direttodal democristiano Franco Cipriani e dal socialista eduardo rodinò, rap-presentò, almeno sulla carta stampata, il primo esperimento di centro-si-nistra in Italia. tutti questi giornali ebbero vita tormentata e a volte breve,tranne «Voce di Calabria» in edicola fino al 1958, ma rappresentarono, tut-tavia, un’esplosione di democrazia. reggio, che partì per prima con la stampa quotidiana, usufruì anche di

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48 Sul quotidiano si rinvia a g. MarCIaNò, Calabria Libera (1943-1944). Storia di un quo-tidiano scomodo bel Regno del Sud (prima parte), in «Calabria sconosciuta», XXX, 115, 2007;Seconda parte, cit.49 aPC, Partiti Politici, Calabria, Documento 063-565.50 Sulla «luce» si veda PaSQuale aMato, La “Luce” dopo il fascismo 1944-1945, in gaetaNoCINgarI (a cura di), Guglielmo Calarco per il socialismo, libreria Milone, reggio Calabria1975, pp. 37-55. Nel dicembre del 1943, tuttavia, i socialisti avevano dato vita anche all’«ar-tefice», un «quindicinale di idee di cultura e di problemi sociali», pure diretto da guglielmoCalarco (si veda gIuSePPe MarCIaNò, I giornali della speranza. La rinascita della stampa «li-bera» a Reggio Calabria (1943), in «rivista calabrese di Storia del ’900», 2, 2013).51 entrambe le testate non compaiono nei repertori sulla stampa periodica in Calabria.

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diverse testate periodiche direttamente organiche ai partiti. tra queste, set-timanali come «Il lavoratore», che rappresentò le istanze antifasciste e an-timonarchiche del Partito Comunista, e fogli come «l’Idea» che, natarepubblicana-democratica-liberale, diventerà organo del PlI; l’«edera»51poi sostituita da «Calabria repubblicana» diretta da angelo romeo;«l’azione» diretta da Domenico De giorgio e stampata in 3000 copie52; la«Democrazia», settimanale del Partito democratico del lavoro diretto dal-l’avvocato guglielmo Siciliani53, che apparve il 9 gennaio 1944 con ben2500 copie54 e «rispondeva ai gusti e agli interessi di quella borghesia,agraria e professionale»55. altre testate di carattere politico, furono il«giornale murale» diretto da rocco zoccali che entrò in polemica con ilcomunista «Il lavoratore»56, «terra Calabra» diretta da giuseppe De Nava,della quale però non c’è traccia57, e altre ancora. anche la Camera del la-voro, ancora unitaria, ebbe il suo organo di stampa provinciale, il batta-gliero «l’amico del popolo».a Catanzaro, il ruolo trainante lo svolsero il quotidiano «la Nuova Ca-labria», organo del Fronte unico per la libertà che arrivò a stampare finoa 13 mila copie ma ben presto perse la sua funzione di rappresentanzaciellenistica58, e dopo la sua scomparsa dalla «gazzetta di Calabria» e da«Il rinnovamento» (ancora in vita nel 1947), anch’essi con tirature elevate:7.000 il primo, 10.000 il secondo. Con determinazione, tuttavia, nel dibat-tito infuocato che spesso sconfinava in personalismi, s’inserirono gli organi

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la prima è ricordata in arMaNDo DIto, Gruppi e movimenti sorti a Reggio dopo l’armistizio del1943, in Storia calabrese, vol. 2, tip. «la Voce di Calabria», s.l. (ma reggio Calabria) s.d.; dellaseconda, «edera», si parla in un Verbale del Comitato della Sezione del Partito RepubblicanoItaliano di Reggio Calabria del 28 febbraio 1944, in arChIVIo FaMIglIa DIto, reggio Calabria.52 a. PIzzarroSo QuINtero, Stampa, radio e propaganda cit., p. 151.53 Nell’editoriale del primo numero intitolato Ripresa il giornale «Democrazia» scriveva:«oppressa, oscurata per un ventennio da un governo tirannico che sarà giudicato dalla sto-ria come il più un rovinoso per le sorti di una nazione, l’Idea democratica, la grande e nobileIdea, liberatasi di ogni peso, di ogni ombra, s’innalza e risplende nel cielo grigio e melan-conico degli affanni e della sciagura, sollevando le più vive speranze in tutti coloro che, fer-vidi di amore, intendono portare conforto e soccorso alla patria per salvarne le residualifortune».54 a. PIzzarroSo QuINtero, Stampa, radio e propaganda cit., p. 151.55 g. MarCIaNò, I giornali della speranza cit., p. 22556 tracce di questa polemica si trovano in: «Il lavoratore», «Il Giornale Murale» e unalettera aperta all’avvocato Jacopino, in «Il tempo» (rc), 7 dicembre 1945. Mario jacopinofu direttore del «lavoratore» dal n. 39 del settembre 1944 quando subentrò a enzo Caridi,e a sua volta fu sostituito da eugenio Musolino dal n. 12 del 1946.57 «terra Calabra» è citata dal quotidiano «Il tempo» (rc) del 10 ottobre 1945.58 Cfr. a. PaParazzo, “La Nuova Calabria” (1943-1945) cit.

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di partito, incominciando ovviamente dai partiti di massa che potevanodiffonderli capillarmente in città e in tutta la provincia. Il Partito comuni-sta, dal 7 novembre 1943 al 4 ottobre 1947, poggiò sul settimanale «laVoce del Popolo», che non sempre rispose alle attese, la propria comuni-cazione politico-culturale fortemente ideologizzata e tuttavia attenta allaquestione agraria e alle lotte contadine. Nel contesto politico e giornali-stico catanzarese, il settimanale comunista, per il suo taglio intransigente,divenne subito protagonista e memorabili restano gli scontri con gli av-versari. la Democrazia Cristiana, invece, diede vita a «l’Idea cristiana», di-retta da Vincenzo turco. Sul periodico si esercitò sia l’anticomunismo sial’attivismo in campo sociale del sacerdote Francesco Caporale che, dopoun’esperienza nel «Partito Sociale agrario» da lui fondato59, che raccolseintorno a sé piccoli e medi proprietari terrieri (circa 4.000 iscritti), rientrònelle file democristiane da cui si era allontanato «perplesso da talune in-certezze moderate e non essendosi ancora definita la denominazione e lafisionomia dei cattolici democratici, eredi naturali della tradizione politicapopolare»60. anche «l’Idea Cristiana», che inizialmente subì una marcatainfluenza del clero, a ogni modo nacque con le stesse finalità della «Voce»comunista: indottrinamento e propaganda. Cosa che mancò, stranamente,al Partito socialista il cui organo «Calabria avanti!» riapparve defilato aVibo Valentia.accanto agli organi ufficiali della DC e del PCI, troviamo il settimanale«Il rinnovamento» che riprendeva nome e ideali liberali di quello già pub-blicato nel primo dopoguerra e chiuso dal fascismo. era diretto da Micheletedeschi, impegnato nella formazione di un Partito di rinnovamento. or-gano provinciale del gruppo di azione per la liberazione, ben presto si tra-sformò in quotidiano assorbendo «la Nuova Calabria». Nello stessoperiodo circolarono anche «l’amico del Popolo», settimanale della Fede-razione del PrI diretto da Italo Paparazzo, dirigente nazionale del partitoche fu anche anima politica dei quotidiani «la Nuova Calabria» e la «gaz-zetta di Calabria»; e ancora furono diffusi «la Diana», settimanale del Par-tito Democratico Italiano (monarchico), «la Voce dell’agricoltore»,quindicinale del Movimento agrario Calabrese, «terra Bruzia», settima-nale del Partito Democratico del lavoro che si tentò di diffondere in ogni

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59 arChIVIo DI Stato DI CataNzaro (aSCz), gabinetto di Prefettura, busta 112, Relazionemensile del Prefetto Giovan Battista Pontiglione, 5 aprile 1944.60 roBerto MaNCuSo, Partiti e giornali a Catanzaro dalla caduta del fascismo al referendumistituzionale, tesi di laurea (rel. P. SergI), Facoltà di Scienze Politiche, università della Ca-labria, anno accademico 2005-2006.

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comune; «l’uragano» e «Calabria qualunquista», periodici del Frontedell’uomo Qualunque; «l’azione», organo settimanale del Partito d’azione,«l’antifascista», indipendente «di lotta politica» e portavoce dei persegui-tati dal fascismo; il modesto «Nord e Sud» vicino al Partito del lavoro. Intale contesto un’esperienza anomala è rappresentata dal settimanale dicultura e varietà «Il Bivacco» fondato e diretto da Vittorio Nisticò, nativodi guardavalle61. gli antifascisti di Nicastro a metà novembre del 1943 die-dero vita a «la Calabria» che ebbe buona accoglienza.a Cosenza, pur essendo ben presente e attivo, il Cln locale non s’impe-gnò direttamente nella stampa di un proprio quotidiano. un po’ tutti i par-titi, pur potendo contare su propri organi di propaganda e di riflessionepolitica, cercarono spazio sul primo quotidiano «Italia Nuova» (5000copie) che poi cambiò la testata in «Corriere del Sud», entrambi con unaspiccata caratterizzazione antifascista e soprattutto antimonarchica62. «lariscossa», settimanale, organo politico sindacale del Fronte antifascista(poi Fronte unico per le libertà63) apparso il 2 ottobre 1943, non riuscì aimporsi per le divisioni subito affiorate tra i dirigenti antifascisti. Per cuiognuno fece da sé e non sempre i risultati sono stati soddisfacenti. Setti-manali di buona fattura e contenuti fortemente ideologizzati furono quellidella sinistra comunista e socialista e della DC. riprese subito le pubbli-cazioni «la Parola socialista», ch’era stata fondata nel 1905, e riapparveanche il settimanale «ordine Proletario» come organo della federazionecomunista. la DC, invece, diede vita a «Democrazia Cristiana», palestra delsacerdote don luigi Nicoletti, espressione di quel cattolicesimo democra-tico, il quale, come don Caporale a Catanzaro, dettò le linee della politicaagraria della Dc ed ebbe un ruolo decisivo nel cooperativismo bianco inprovincia.Su queste tre testate si sviluppò gran parte del dibattito e della pole-mica dominata dai partiti «maggiori», espressione di un anomalo bipola-rismo che di fatto si era creato in Calabria e nel Paese.anche il Partito d’azione che, come l’uomo Qualunque, non può esseredi sicuro considerato un partito minore vista la notevole massa di adesioni

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61 Vittorio Nisticò fu tra i protagonisti del giornale socialcomunista «la Voce di Puglia»e, in seguito, per circa venti anni fu direttore del quotidiano «l’ora» di Palermo.62 Secondo una segnalazione fatta all’allied Control Commission dal maresciallo gio-vanni Messe, capo di stato maggiore generale, il quotidiano cosentino era tra quelli che sidistinguevano nella pubblicazione di articoli contro la monarchia e l’esercito (Cfr. a. PIz-zarroSo QuINtero, Stampa, radio e propaganda cit., p. 150).63 S’incaricò di spiegarne compiti e funzioni F(IlIPPo) MartIre, Fronte Unico, in «la ri-scossa», 10 novembre 1943.

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specialmente nel Cosentino, subito dopo la liberazione pubblicò un pro-prio organo settimanale, «emancipazione», 3000 copie, fondata da NinoWodizka, ex confinato politico nominato commissario del risorto sindacatoma in rotta con le sinistre. ebbero un ruolo significativo anche il periodicodemocratico «libertà», nato nel 1943, che del problema del sostentamentofece il suo argomento centrale, e il settimanale «Civiltà» edito nel 1944 dallaCuria cosentina. Il movimento dell’uomo Qualunque, da parte sua, pub-blicò i settimanali «rinascita Cosentina» (1946) e dal 1947 il «CorriereCosentino», mentre il PrI nel 1946 diede vita alla «Parola repubblicana»,il PlI si affidò a «l’Idea liberale» e quindi ad «azione liberale», il MSI pub-blicò il settimanale «l’avvenire sociale» che sulle sue pagine rappresentòun partito già pronto a sostenere le politiche occidentali della Dc.essendo la stampa il veicolo privilegiato del dibattito politico, i giornalidella liberazione – che già nel periodo ciellenistico non avevano esitato amarcare, spesso polemicamente, differenze e divisioni tra i partiti demo-cratici anche sul modo di affrontare il dopo-fascismo64 – avevano pergrandi linee anticipato quelle rotture nei rapporti tra i partiti in Calabriache il voto dell’aprile 1948 avrebbe in un certo senso consacrato e certifi-cato. la fine del ciellenismo può essere letta, dunque, in filigrana anchenelle vicende editoriali avviate per iniziativa o col consenso degli occu-panti-alleati. l’aMg mise molto presto a tacere il quotidiano comunista«Calabria libera», e a reggio favorì la nascita de «Il tempo», primo espe-rimento di stampa di centrosinistra tanto cara agli inglesi, che cedette ilpasso a «la Voce di Calabria» primo quotidiano in Italia a definirsi demo-cristiano. la stessa «Nuova Calabria» edita come «organo del Fronte unicodella libertà», il Cln catanzarese, molto presto ruppe il patto originario edivenne espressione della politica del Pri e delle forze moderate. Significativa, infine, la vicenda di «Italia Nuova», quotidiano cosentinofondato come news sheet, «foglio di notizie» indipendente65. una volta tra-sformatosi in «Corriere del Sud» finì per diventare il primo esperimento

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64 Sono note, per esempio, le differenti valutazioni, spesso finite in polemiche, tra«Nuova Calabria» e «la Voce del Popolo», settimanale del Partito Comunista. «la NuovaCalabria» diede ampio spazio all’opera di ricostruzione dei partiti nella provincia e alle po-lemiche che li attraversavano, anche se furono privilegiati, soprattutto dopo la trasforma-zione del giornale in quotidiano di informazione, i cosiddetti partiti mino ri quali Partitod’azione, Partito repubblicano, Democrazia del lavoro e Frazione di sinistra socialista ecomunista.65 a. PIzzarroSo QuINtero, Stampa, radio e propaganda cit., p. 152.66 PaNtaleoNe SergI, Prove di “stampa gialla” nel Sud liberato: il “Cor rie re del Sud”, in«giornale di Storia Contemporanea», 1, 2005, pp. 78-107.

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in Italia di «stampa gialla»66, al servizio delle forze clerico-fasciste, in se-guito ad alcune vicende editoriali che lo portarono dapprima in mano almedico cosentino oscar Fragale, poi nel portafoglio di una società romanail cui amministratore, ottorino Fragola, iniziava a effettuare alcune speri-colate iniziative nel mondo della carta stampata diventando longa manusdella DC, del Vaticano e della destra neofascista. Il giornale, infine, tornòancora a Fragale che in seguito lo trasformò in settimanale e lo tenne invita fino alla metà degli anni Cinquanta quando cominciò a diradare le pro-prie uscite fino a cessare le pubblicazioni.PCI e Chiesa volevano un loro quotidianoanche per questa situazione effervescente, nella quale la stampa svol-geva un ruolo di punta nella formazione delle coscienze e nella propa-ganda, la Federazione provinciale del PCI di Catanzaro, che pubblicava ilsettimanale «la Voce del Popolo», dopo avere rinunciato, come aveva sug-gerito il dirigente nazionale Paolo tedeschi, alla pubblicazione di una ri-vista67, aveva sollecitato alla Direzione nazionale del partitol’autorizzazione per fondare un quotidiano per il quale era stata già avan-zata richiesta anche al Sottosegretariato alla Stampa68. Per il PCI catanza-rese il quotidiano «la Nuova Calabria», infatti, aveva «carattere edindirizzo equivoco» e ciò aveva costretto il redattore politico luigi Silipo,comunista, a lasciare l’incarico. «la Voce del Popolo», invece, per «le in-sufficienze giornalistiche dei compagni di Catanzaro», utilizzava linguaggiper iniziati, tanto che la «linea politica del nostro partito è quindi popola-rizzata soprattutto dalla Voce di Napoli»69 che nel settembre 1945 aprì aCatanzaro un ufficio di corrispondenza affidato a Francesco Cosentino egiuseppe agostini. Il quotidiano da pubblicare, negli intendimenti dei di-rigenti comunisti avrebbe sostituito la stampa periodica del partito nelletre province («la Voce del Popolo», «ordine proletario», «Il lavoratore»),che non poteva occuparsi di vasti problemi, consentendo così di contra-stare meglio il sorgere di nuovi periodici e quotidiani «fascisti in veste mo-

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67 aPC, Cartella Calabria 1943-1945. Fasc. Catanzaro 1944, Lettera di Dante De Simonedella Federazione comunista di Catanzaro al compagno Paolo Tedeschi, Catanzaro 18 marzo194468 IVI, M.F. 091-467, Congressi provinciali di partito, cit.69 IBIDEM.70 IVI, M.F. 091-443, Lettera della Federazione del PCI di Catanzaro alla Direzione Nazio-nale del partito, 10 aprile 1945.

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narchica» e di raggiungere le località periferiche in anticipo rispetto aiquotidiani, anche quelli comunisti, che arrivavano da roma o da Napoli70.Il progetto, tuttavia, non ebbe alcun esito concreto.anche la Chiesa calabrese diede vita a propri periodici e avvertì l‘esi-genza di varare un proprio quotidiano, pur potendo contare su una stampacattolica collaterale71 e su quotidiani amici, come «Il tempo» e poi «la Vocedi Calabria». le autorità ecclesiastiche ancora nel 1945 continuavano a di-mostrarsi almeno ufficialmente indifferenti alle questioni politiche, ma ilprefetto di Catanzaro nell’aprile di quello stesso anno segnalò al ministerodell’Interno l’avvio di un’attività propagandistica anticomunista a operadi alcuni parroci di campagna che interferivano nella dialettica politica.Questi parroci «per la maggior parte elementi faziosi», secondo il prefettoagivano di propria iniziativa e mostravano di non conoscere le «direttivecui il comunismo italiano informa la propria azione»72.una fase nuova del rapporto tra gerarchie ecclesiastiche e politica siannunciò, ben presto, con l’integralismo esibito da monsignor enrico Ni-codemo, vescovo di Mileto, il quale diede fiato e legittimazione a un bassoclero intransigente cresciuto intonando «te Deum» per i successi del re-gime e che aveva già in odio i partiti di sinistra.Il nuovo presule, nel prendere possesso della più vasta Diocesi dellaCalabria, il 26 maggio 1945, con parole chiare invitò i credenti a schierarsi:«ormai [è] necessario che ognuno assuma il suo posto di combattimentoe di responsabilità, di fronte ai falsi profeti e al dilemma o roma, la sua ci-viltà e le sue glorie millenarie, o Mosca con le sue teorie dissolutrici ed im-morali»73. e, ove mai fosse necessario, monsignor Nicodemo, in quel-l’occasione, incitò i fedeli «a non farsi sopraffare e a tenersi pronti a difen-dersi anche con la forza, la libertà di pensiero, di azione e di religione»74.I nuovi orientamenti della Chiesa calabrese che si preparava, dunque,allo scontro con i partiti di sinistra, avevano necessità di un sostegno edi-

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71 Il 6 maggio 1944, a Nicastro, iniziò le pubblicazioni il periodico «Verità e Vita» direttodal professor antonio Sando che si avvaleva della collaborazione di numerosi giovani, iquali negli anni successivi avrebbero militato nella DC. Fu uno dei primi giornali cattolicidel dopoguerra. «Il giornale – scrive Masi – si richiamava ai principi del Vangelo e ne volevarilanciare il messaggio di amore e di giustizia fra gli uomini» (Cfr. gIuSePPe MaSI, Giornali aNicastro tra Ottocento e Novecento, in «Comunicando», II, 3, 2001, pp. 387-398. a Palmi,invece, nello stesso periodo fu pubblicato il quindicinale religioso «l’ascendere» (cfr. aCS,Rapporto del questore di Reggio Calabria cit.).72 aSCz, gabinetto di Prefettura, b. 113, relazione mensile del Prefetto di Catanzaro alministero dell’Interno, 5 aprile 1945.73 Ivi, Relazione del Prefetto di Catanzaro al Ministro dell’Interno, 5 giugno 1945.74 IBIDEM.

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toriale forte, qualificato e a diffusione regionale. l’idea di fondare un quo-tidiano fu esposta per la prima volta da monsignor antonio lanza75 in unariunione della Conferenza episcopale calabrese (CeC) a reggio Calabria il10 novembre 1943, molto tempo prima quindi della «crociata» anticomu-nista di monsignor Nicodemo e per scopi sociali più che politici. Il giovaneprelato (aveva 38 anni) era arrivato in una reggio «scarnificata e presso-ché abbandonata»76 e si era subito tuffato in una decisa azione pastoralealla quale riteneva più che utile un quotidiano. I vescovi calabresi discus-sero di stampa alla fine dell’incontro e lanza espose il suo progetto per lacreazione di un giornale cattolico che, secondo la sua valutazione, potevavedere la luce in poco tempo. Per mesi, tuttavia, nulla si mosse. Se ne riparlò ancora il 19 giugno 1945al nuovo incontro della CeC e subito dopo la chiamata alle armi dei cattolicieffettuata del vescovo di Mileto. l’arcivescovo di reggio aveva in mente un quotidiano cattolico regio-nale «al di sopra dei partiti», la cui fondazione avrebbe favorito anche lanascita di un nucleo della Pro Civitate Cristiana. era stato individuatoanche il direttore, il sacerdote Sante Maggi che negli anni del fascismoaveva diretto il quotidiano cattolico «l’Italia» di Milano dalla quale erastato rimosso per avere pubblicato l’omelia del cardinale alfredo IldefonsoSchuster pronunciata il 13 novembre 1938, prima domenica dell’avventoambrosiano, che denunciava l’antisemitismo del regime. In quella seduta,i vescovi calabresi elaborarono un documento collettivo che delineava ilruolo dei cattolici nel momento politico e, di fatto, dava il via alla strategiadi sostegno alla Democrazia Cristiana e di condanna a ogni forma di so-cialismo77.l’idea di fondare il quotidiano, però, non fece passi avanti. Due annidopo, monsignor lanza ripiegò sulla pubblicazione di un settimanale,

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75 Mons. antonio lanza fu nominato arcivescovo metropolita di reggio Calabria dopola tragica scomparsa di monsignor enrico Montalbetti, vittima di un bombardamento al-leato. Sulla tragica morte del vescovo enrico Montalbetti cfr. la ricostruzione di agazIo troM-Betta, Memoria e ricerca. Melito di Porto Salvo tra Ottocento e Secondo dopoguerra, editriceCulture, reggio Calabria 2008, pp. 229-239.76 Così disse il cardinale giuseppe Siri in un discorso pronunciato all’inaugurazione delmonumento sepolcrale di mons. lanza. Cfr. MarIa MarIottI, Magistero e Pastoralità di An-tonio Lanza, in «l’osservatore romano», 10 giugno 1988, ora in Antonio Lanza: Arcivescovo.Atti del Convegno, 1. Maggio: al primo posto il Mezzogiorno, De Maria, Cosenza 1999, p. 76.Mons. lanza morì a 45 anni il 23 giugno 1950.77 arChIVIo VeSCoVIle DI NICaStro-laMezIa terMe, cartella giambo, verbale della sedutadella CeC del 19 giugno 1945. Cit. in VINCeNzo VIllella, Chiesa società e comunismo in Cala-bria nel secondo dopoguerra, in «Incontri meridionali», 2, 1990, p. 170.

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«l’avvenire di Calabria», diretto da don Vincenzo lembo. Il periodico dio-cesano riprendeva una vecchia tradizione, risalente all’ottocento, cheaveva visto impegnata la Curia reggina con diverse testate anche duranteil ventennio, quando apparve la seconda serie del settimanale «Fede e Ci-viltà» (1926-1940), sostenitore del fascismo, vedendo in Mussolini«l’uomo della provvidenza»78. al nuovo settimanale, diffuso soltanto nelle Diocesi di reggio e Bova,fu affidato il delicato compito della comunicazione sociale della Chiesa reg-gina. Sulle sue pagine è possibile ripercorrere, dunque, l’evoluzione del-l’atteggiamento ecclesiale con le due «notificazioni» dell’episcopatocalabrese, la prima del 22 aprile 1947 e la seconda del 29 gennaio di dueanni dopo. Con esse la Chiesa calabrese, condannava le dottrine laiche,marxiste e massoniche sulla scia della rigida posizione di papa Pio XII79.«l’avvenire di Calabria», in ogni caso, divenne strumento di dibattito digruppi cattolici impegnati nel cristianesimo sociale i quali, però, ebberoscarso peso nella vita politica reggina dominata da sacerdoti che del loroanticomunismo viscerale, retaggio di un passato prossimo, facevano unabandiera.La metamorfosi del giornalismo post-bellicola stagione della stampa politica che aveva caratterizzato la ripresa de-mocratica nella regione, non durò tuttavia a lungo. la normalizzazione,annunciata in maniera evidente con il «Corriere del Sud» di Cosenza messoal servizio di poteri conservatori e reazionari, divenne generale. Dei quo-tidiani nati dopo lo sbarco degli anglo-americani rimase in vita soltanto la«Voce», dichiaratamente democristiano, anzi il primo quotidiano demo-cristiano d’Italia. lo stesso giornalismo politico che aveva animato il di-battito negli anni della prima ricostruzione, si era trasformato in elementodi propaganda e di invettiva nella fase storica che si era aperta dopo il pe-riodo costituente. un ciclo si era concluso e in un certo senso ciò costituivaun riflesso di quanto avvenuto in politica dopo la frantumazione dell’unitàciellenistica.

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78 PIetro BorzoMatI, «Fede e Civiltà» (1926-1940) e «L’Avvenire di Calabria» (1947-50)tra fascismo e dopoguerra, in La Stampa cattolica in provincia di Reggio Calabria dall’Unitàal fascismo, reggio Calabria, 1990, p. 101. Cfr. anche P. SergI, L’anima doppia della stampacattolica durante il fascismo in Calabria cit.79 arMaNDo DIto, Massoneria e Chiesa in Calabria nel secondo dopoguerra, in «CalabriaVera – Quaderni Massonici», n. 3-4, aprile 1981, p. 8.

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Dopo gli esordi scoppiettanti, infatti, seguì un riflusso e prese piede unastampa avulsa dai temi nazionali e internazionali e in qualche modo estra-niata dai grandi problemi della stessa regione. Questa nuova stampa, gra-zie anche ai sostegni economici diretti e indiretti dei partiti di governo (DCin testa), banche ed enti statali e parastatali, si proponeva quasi sempre equasi tutta come elemento di polemica personale, al servizio di questo odi quel parlamentare di governo del quale cui esaltava il «poderoso inter-vento» o il «lucido discorso» o il semplice «impegno» nei riguardi di unmicroproblema e di una microrealtà con chiari fini clientelari sul modelloappena riverniciato del giornalismo «vicino al ministero», dominante giàin epoca giolittiana.tale atteggiamento ha ritardato, e non di poco, l’evoluzione contenuti-stica e anche tecnologica della stampa calabrese e la regione tornò a es-sere, a lungo e in forme massicce, debitrice di informazione importata.Nelle edicole calabresi tornarono in bella vista testate d’anteguerra come«Il giornale d’Italia», «Il Mattino» e «Il Messaggero» che avevano una fittarete di corrispondenti nelle tre province. tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, infine, conqui-starono il mercato regionale due nuovi quotidiani, entrambi filogoverna-tivi, reazionari e di destra: «Il tempo» di roma, fondato subito dopo laliberazione della capitale da leonida repaci e da renato angelillo ma benpresto abbandonato per dissenso politico dallo scrittore calabrese, e lafiammante «gazzetta del Sud» di Messina (13 aprile 1952), di proprietàdel monarchico uberto Bonino e diretta da gino Bruti, poi da Michele torree quindi, dal 1954 al 1958, da orsino orsini, ex fascista che negli annitrenta aveva già diretto l’omonima «la gazzetta» di Messina, «Notiziariofascista della Sicilia e della Calabria», e avrebbe lavorato in seguito all’uf-ficio stampa del Partito Nazionale Monarchico.

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IntroduzioneRedatto a metà del Novecento dal salernitano Giovanni Torre, all’epocafresco di studi artistici, l’inventario della pinacoteca di Giulio Berlingieri(1873-1968) fu steso consultando i registri e visionando di persona i 256dipinti di pittori italiani e stranieri allora conservati nel palazzo cittadinodel già anziano barone1. Il conto totale sale a 269 con l’aggiunta di un ul-teriore piccolo nucleo di tele che, custodite nel Castello di Policoro (MT),sorta di principesco casino di caccia del nobiluomo calabrese, Torre nonpoté vedere. Ne ricavò i dati, però, da un ulteriore registro, mentre «di altriquadri ancora conservati altrove» gli fu fatto solo un fuggevole accenno.Sollecitato da Antonio Sfortuniano, decano dei pittori crotonesi, conl’autografo datato 22 novembre 1996, che accompagna il resoconto dellaricognizione e l’elenco dattiloscritto delle opere, Torre offre all’amico il ri-sultato delle poco fruttuose ricerche compiute nel proprio archivio al finedi rintracciare quei documenti e gli ulteriori appunti presi in occasionedelle visite compiute al Palazzo Berlingieri più di quarant’anni prima2.L’abboccamento iniziale con il padrone di casa era avvenuto «dopo i fattidi Melissa» per il tramite di un amico comune, l’ingegnere Vincenzo Cizza,mentre nello svolgimento del suo arduo quanto piacevole compito, svoltoa margine della ricerca personale ispirata dal desiderio di trovare con-ferma all’idea di una sostanziale autonomia della pittura italiana modernarispetto alle altre scuole europee, il giovane fruì della collaborazione del-

La quadreria del barone Giulio Berlingierie la dispersione dei “più bei Palizzi della terra”

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1 Devo ad Antonio Sfortuniano, che ringrazio, l’opportunità di sottoporre a un primoesame l’inventario, in attesa della pubblicazione.2 Il citato resoconto, non datato, steso in forma di articolo, consiste in poco meno di 3pagine dattiloscritte, dal titolo La dispersione della Pinacoteca Berlingieri. Una perdita ine-stimabile per Crotone e per l’Italia. L’Appendice, che contiene l’elenco dei dipinti, ne occupa6 e mezzo; poco più di una le Note poste in calce.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

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l’allora amministratore della proprietà, il dott. Pasquale De Renzo, e delfiglio di costui, autorizzati a consentirgli l’accesso alle sale, dov’erano cu-stodite anche statue pregevoli e uno straordinario presepe napoletano3,pure in assenza del barone.A questo punto, affermare il carattere preliminare del presente contri-buto non è un vezzo né un gesto di prudenza ma una necessità. La quadreriadi Giulio Berlingieri, infatti, che nelle intenzioni più volte espresse dal pro-prietario, in mancanza di discendenza, avrebbe dovuto essere donata allacittà di Crotone per realizzare un museo di arte moderna, è rimasta invecea Milano, pervenuta in eredità ai parenti della seconda moglie e da lì smem-brata senza che se ne possano seguire le tracce. Trattarne significa, perciò,tentare di risalire ai contenuti e di ricostruire la storia della raccolta dallaformazione alla dispersione, cercando di distinguere, ove possibile, l’ap-porto dello stesso Giulio da quello del padre e del nonno, nell’impossibilitàoggettiva di spingersi ancora più indietro nel tempo, ma anche dover fare iconti con il giusto rammarico per l’occasione perduta e indagarne le cause. Queste ci riportano giocoforza a quei «fatti di Melissa» del 29 ottobre1949 cui il nome dell’ultimo Berlingieri è rimasto indissolubilmente legato.È arduo, del resto, prescindere dal caustico ritratto dei baroni crotonesitracciato da Leonida Repaci proprio nel 19494, dopo il cosiddetto eccidiodi Fragalà, ricostruito con grande pathos sotto il titolo Marcia dei bracciantidi Melissa (1949)5 e sul quale si dovrà tornare. Quei “fatti” furono la ragionestessa, nella misura in cui precedettero di qualche mese appena la RiformaAgraria varata con la Legge 230 del 12 maggio 19506, dello stizzito abban-dono della città natale e del trasferimento definitivo del barone a Milano,dove già soggiornava abitualmente varî mesi all’anno, per il resto dei suoigiorni. La decisione fu presa in spregio agli amministratori locali che,espropriandone i possedimenti, a suo dire gli avevano mancato di ri-spetto7. Il trasloco nel capoluogo ambrosiano avvenne poco dopo la rico-gnizione autoptica della preziosa pinacoteca compiuta da Giovanni Torre

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3 A detta del Torre, alcune delle statuine erano state riprodotte su inserti speciali delquotidiano partenopeo Roma pubblicati in occasione del Natale, oggi consultabili pressola Emeroteca-Biblioteca Tucci.4 LEoNIDA REPACI, Calabria grande e amara, a cura di LuIGI MARIA LoMBARDI SATRIANI, Rub-bettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 172, 176, 179.5 IVI, pp. 61-77.6 Cfr. GIuSEPPE GALASSo, La Riforma Agraria in Calabria, Editoriale opere Nuove, Roma1958.7 Così Giovanni Torre. Silvio Messinetti, Sindaco della città dal 1946 al 1957 e deputatonelle prime quattro legislature della Repubblica, avrebbe invece lamentato in Parlamento

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e offrì la prima occasione per il deprecabile smembramento cominciato,vedremo, vivente lo stesso Berlingieri. Come accennato, le conseguenze di quel gesto (legalmente non censu-rabile) vanno ben oltre la sfera individuale, poiché si riverberano sulla co-munità crotonese e non solo. La storia recente di Crotone, d’altro canto, èspesso una storia di occasioni perdute, anche nel settore dei beni storico-artistici. Le collezioni ottocentesche di antichità formate dai grandi possi-denti locali e affluite nel Museo Civico voluto dagli Sculco, dai Lucifero edagli Albani, concretizzato nel 1910, hanno subito gravi perdite prima edopo la cessione allo Stato, avvenuta nel 19678, mentre la cospicua raccoltadi capolavori del Vicino oriente formata da Giovanni Barracco attingendoal mercato antiquario internazionale prese (probabilmente da subito) lastrada di Roma9. L’ignoranza dei più, che, non sapendo di doversi ramma-ricare di qualcosa, vivono serenamente la diminutio subita, e la constata-zione dello stato di abbandono in cui versano, oggi, le collezioni civiche discultura e pittura, nonché i fondi librarî lasciati in eredità al Comune, at-tenua solo in parte il rimpianto per le pagine di storia locale irrimediabil-mente perdute e per certe opportunità culturali sfumate sul nascere.1. Giulio Berlingieri: cenni biograficiNato a Cotrone il 21 luglio 1873, Giulio Berlingieri fu il secondogenitodei 7 figli del barone Pietro (1843-1914) e della cugina Eleonora (1851-?), sposi nel 1869. Pietro era figlio di Luigi (1816-1900) di Pietro (1777-1860) e della baronessa Laura Barberio Toscano; Eleonora era figlia diCesare Berlingieri (1825-1853) di Anselmo (1792-1844) e di Chiara Ber-lingieri (1829-1901) di Pietro (1777-1860), quindi consanguinei anch’essi. Alla morte del fratello maggiore (1871-1894), che ripeteva come con-suetudine il nome del nonno, e per il quale costui fece edificare l’elegante

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che, per faziosità e partigianeria dei funzionari dell’Ente Sila addetti all’espropriazione, albarone Giulio Berlingieri fossero stati lasciati, solo nel Crotonese, 614 ettari, e ad AlfonsoBarracco addirittura 2920: cfr. Atti Parlamentari Camera dei Deputati, Legislatura II – Di-scussioni – Seduta del 13 maggio 1954, p. 7972. Circa i decreti di espropriazione a dannodel Berlingieri relativi al solo agro di Crotone, si vedano Gazzetta Ufficiale, anno 91°, n. 170,del 27.7.1950, Decreto n. 515; Gazzetta Ufficiale, anno 92°, n. 211, del 14.9.1951, Decreton. 857; Ibidem, n. 275 del 29.11.1951, Decreto n. 1233.8 L’argomento è svolto diffusamente in MARGhERITA CoRRADo, La città senza memoria. Ri-stampa commentata dei Ricordi sugli avanzi di Cotrone raccolti da Nicola Sculco a centoanni dalla pubblicazione, Città del Sole Editore, Reggio Calabria 2014, pp. 93-98.9 IVI, nota n. 81, con relativa bibliografia.

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cappella che domina il settore storico del cimitero cittadino10, Giulio neereditò i privilegi, vigendo in famiglia il diritto di maggiorasco. Acquistòl’intero patrimonio familiare nel 1914, morto il padre, e come lui preferìnon seguire le orme dell’avo, che era stato cosmopolita e viaggiatore in-stancabile ma attento pure alla realtà crotonese: fu Sindaco, infatti, neglianni 1881-1887. Giulio rifiutò, invece, di assumere incarichi pubblici e dioccuparsi attivamente di politica locale se non vestendo i panni di Consi-gliere11, proprio come si calò nella parte di benefattore della comunità cit-tadina e della chiesa crotonese assai più raramente dei predecessori, moltoattivi su entrambi i fronti per tutto il XIX secolo. Preferì godere dei suoi vasti latifondi e dei proventi dell’allevamentodel bestiame, settore in cui già si erano distinti il nonno Luigi e altri mem-bri della famiglia12 ma che lo vide interessarsi personalmente soprattuttodi cavalli e di cani, essendo egli dedito alla caccia più che a ogni altra atti-vità. Nell’amore per l’equitazione Giulio Berlingieri affiancò, infatti, e poisostituì il padre ma nella passione di famiglia per gli esercizi venatori toccòvertici mai prima raggiunti, dedicandovi energie fino a tarda età13. Ne è figlia anche la ristrutturazione, nel 1907, del Castello di Policoro(MT), acquistato nel 1893 per la somma di 3.400.000 lire dai Serra di Ge-race, subentrati ai Gesuiti dopo la cacciata dal Regno (1772). Il Bosco Pan-tano, una delle più grandi foreste di pianura d’Italia e terreno privilegiatoper la caccia al cinghiale e al capriolo14, attraversato non senza difficoltàprima dalla Ferrovia Jonica Taranto-Reggio Calabria (1869) e poi dalla Sta-tale 106 (1928), era parte integrante della proprietà. L’atto di vendita fu

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10 ID., L’arte che non ti aspetti. Nel cimitero storico di Crotone, Città del Sole, Reggio Ca-labria 2011, pp. 9-29, 39-50.11 Cfr. ChRISTIAN PALMIERI, Carlo Turano (1864-1926). Democratico e socialista. Un prota-gonista delle vicende pubbliche calabresi e delle questioni meridionali tra Otto e Novecento,Pellegrini, Cosenza 2006, p. 198. Per diversi anni risultò il primo eletto dei due membridella Commissione direttiva del Museo civico che il regolamento imponeva di scegliereproprio tra i consiglieri comunali.12 Nicola Berlingieri figlio del già ricordato marchese Anselmo (1792-1844), è citatoda Armando Lucifero, in un trattato del 1909, tra quanti tentarono con esito felice di mi-gliorare la propria razza bovina incrociandola con vacche svizzere: cfr. ANToNIo LuCIFERo,Mammalia Calabra. Elenco dei mammiferi calabresi, Frama Sud, Chiaravalle C. 1983, p. 149. 13 Nei ricordi di un noto libraio milanese si legge di «Donna Marta Berlingieri ugoletti,che ogni mese veniva alla ricerca di libri sulla caccia grossa e varia letteratura per il consortesignor barone»: CESARINo BRANDuANI, Memorie di un libraio, Longanesi, Milano 1964, p. 43. 14 In minor misura vi si cacciavano anche la beccaccia, il fagiano, la volpi e l’istrice: cfr.MARIA MINICuCI (a cura di), Ci trovammo bene nel futuro: storia di una vita di un contadino:Antonio Mele, Argo, Lecce 1997, pp. 107-110. Quel che resta del Bosco Pantano è oggi unariserva naturale gestita dal WWF.

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rogato a Napoli il 2 maggio 1893 e proprio in quella circostanza il giovaneLuigi, inviato nella città partenopea per sbrigare l’affare che avrebbe frut-tato circa 6000 ettari di terreno (completi di castello, bestiame, magazzini,attrezzature e fabbrica di liquirizia), aveva contratto il morbo che loavrebbe stroncato pochi mesi dopo. Ci vollero dunque alcuni anni perché i neo-proprietari si risolvessero aprendere stabile possesso del maestoso edificio, cuore dell’antico feudo diPolicoro15, allora abitato da meno di trecento persone, e a porre sul portoned’ingresso il proprio stemma. L’abitudine di Giulio Berlingieri di trascorrerenel tenimento lucano, dato in fitto alla società “Padula di Moliterno e soci”fin dal 188716 ed ereditato dal padre, i primi tre mesi dell’anno, giungen-dovi in treno l’1 gennaio in vista dell’apertura della stagione di caccia alcinghiale fissata per il 717, spesso squisito ospite di aristocratici e autoritàd’ogni sorta provenienti dall’Italia e dall’estero18, condusse inizialmente inquella sede privilegiata19 anche la moglie (e cugina), la crotonese Laura

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15 Il complesso è stato venduto in anni recenti alla famiglia Ferrara; nel Castello di SanBasilio presso Tinchi (MT), rimasto invece di proprietà di un pronipote di Giulio Berlingieri,il marchese Annibale, ospita le collezioni di arte contemporanea del medesimo e della figliaLidia, la prima delle quali fu avviata ex novo alla fine degli anni Sessanta del Novecento:cfr. Going Around the Corner. Percorsi delle Collezioni Berlingieri, (Collezionismi/ 1 - MA-CRoMuseoArteContRM), in https://www.youtube.com/watch?v=k1cyI5IYoDo .16 Cfr. M. MINICuCI, Ci trovammo... cit., p. 61. 17 In estate, i cani altrimenti ospitati nell’apposita canettiera del Castello, erano trasferitinelle fresche radure della Sila, quindi ricondotti a Policoro per ferrovia o con un autotrenoall’arrivo del barone: cfr. M. MINICuCI, Ci trovammo... cit., 107; FELICE GIoVINAzzo, C’era la ma-laria, Grafica Sud, Policoro 2003, p. 46.18 Resta una cospicua documentazione fotografica, al riguardo, e le testimonianze degliesponenti locali della c.d. letteratura selvaggia già più volte citati: M. MINICuCI, Ci trovammo...cit., p. 107; F. GIoVINAzzo, C’era la malaria, pp. 47-48.19 L’impressione suscitata dai dipinti e dalle altre opere d’arte del Castello di Policoro,colmo di armi, attrezzi e trofei di caccia che ne denunciavano la destinazione principale,emerge assai vividamente nelle pagine di Felice Giovinazzo (F. GIoVINAzzo, C’era la malaria,pp. 50-52: «Mi sarò fermato dal barone sì e no cinque minuti; ma in questo brevissimo tempoho avuto non soltanto l’occasione di osservare la ricchezza della casa e l’abbondanza deimobili e dei quadri, ma anche di constatare come il Barone fosse un vecchio di ottant’anni,assai piccolo di statura, e per niente diverso dai comuni mortali, anche se ostentava un brac-ciale d’oro massiccio e si circondava di un lusso che un ‘forese’ nemmeno avrebbe immagi-nato. I pochi attimi che ho sostato nella camera del barone i miei occhi non sapevano cosaguardare tale era lo sgomento e la meraviglia: le teste dei cervi, le teste dei cinghiali, l’ar-meria mi opprimevano; i comò pieni di stivali da caccia mi calpestavano e mi riducevanopiù piccolo e insignificante di quello che ero». «Nell’entrata del Castello vi era attaccata unatesta di cinghiale balzamata», conferma Antonio Mele, che fu anche bacchettiere nelle bat-tute di caccia in grande stile – il bosco occupava ben 1200 dei poco meno di 6000 ettaridella proprietà – che impegnavano il barone (e i suoi ospiti) ogni due giorni, per consentireai circa 50 cani impiegati di riposare a sufficienza: M. MINICuCI, Ci trovammo... cit., p. 71.

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Galluccio, figlia del barone Nicola, sposata all’età di trentacinque anni, nel1906, e dalla quale non ebbe figli. I contrasti tra i coniugi, anzi, fecero pre-sto fallire il matrimonio e a distanza di diversi decenni la relazione stabilenotoriamente intrattenuta dal Berlingieri con Marta ugoletti (fig. 1) fucausa di un’azione legale promossa dalla Galluccio e risolta nel 1956, nonsenza grave scandalo, dopo l’annullamento delle prime nozze20.

I due amanti si sposarono solo il 20 dicembre 1959, quando il barone,vedovo da un mese e da tempo residente a Milano nel palazzo di CorsoMagenta n. 84, aveva raggiunto la bella età di ottantasei anni. La loro con-vivenza legale sfiorò il decennio, essendo egli mancato il 12 agosto del1968; le spoglie furono traslate nella cappella di famiglia del cimitero cro-tonese, ultimo dei suoi a trovarvi riposo21.

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20 Cfr. «La giustizia penale; rivista mensile di dottrina, giurisprudenza e legislazione»,LXI,1956, p. 786; «Rivista italiana di diritto processuale penale», III, 1956, p. 302.21 L’alone quasi mitico di cui fu circondata la figura di Giulio Berlingieri in quel di Poli-coro, tale che nel 1968, al passaggio del feretro diretto a Crotone lungo la Statale 106, al-l’altezza di Policoro non mancò di radunarsi una piccola folla, permane tuttora, non scalfitodall’esproprio che gli era costato tutti i 5692 ettari della proprietà: cfr. M. MINICuCI, Ci tro-vammo... cit., p. 15. E da ultimo Vito Fiorellini, narratore lucano di buon livello, ha dato allestampe (Rubbettino, 2015) un romanzo dal titolo quanto mai suggestivo, Il Barone del

Fig. 1 - Battuta di caccia nel Bosco Pantano: seduti, Luigi Berlingieri e Marta Ugoletti (daF. Giovinazzo, C'era..cit.)

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2. Sulle origini della pinacoteca dei baroni BerlingieriLa prima (e pressoché unica22) menzione della raccolta di dipinti deibaroni Berlingieri si rinviene nei Ricordi sugli avanzi di Cotrone: il libellopubblicato da Nicola Sculco nel 1905 che, dedicato all’antiquaria locale,ha anche il merito di segnalare tutti i beni culturali (pubblici e privati) esi-stenti in città all’inizio del XX secolo. A pagina 71, il paragrafo Quadri an-tichi celebra innanzi tutto i ritratti a olio degli antenati esposti nei salottidi casa Sculco e casa Lucifero; solo fuggevolmente aggiunge «Nelle altrecase, poi, anche quadri pregevolissimi; ne ha Berlingieri Barone». A quella data il titolo spettava ancora a Pietro, che certamente contribuì,come il genitore, alla sprovincializzazione del primo nucleo della raccolta,forse paragonabile a quanto registrato nell’inventario redatto nel 1781,quando il marchese Anselmo Berlingieri ereditò dal padre Carlo il palazzodi città costruito dal nonno Annibale all’inizio del secolo23. Dopo l’unità, ilmarchese avrebbe eletto a dimora il tratto delle mura spagnole dove Fran-cesco Berlingieri (1830-1902) fece costruire la cospicua villa omonima24.Il ramo cadetto dal quale discendeva il barone Giulio, invece, forte di unpatrimonio in continuo e assai cospicuo incremento grazie alle accorte spe-culazioni del bisnonno Pietro e soprattutto del nonno Luigi, visse nel mae-stoso palazzo (fig. 2) di Largo delli Ribellini (oggi umberto I). Nel 1919 vi abitava Annibale (1874-1947), nipote di Luigi perché figliodi un altro Pietro (1847-1908), mentre dalla parte opposta della piazza, inluogo della cortina delle mura viceregnali25 si sviluppava ormai l’edificiodelle scuderie dello zio Anselmo (1852-1911) (fig. 3), sostituite negli AnniTrenta dal Liceo Pitagora. Figlio anche lui di Antonio Annibale (1824-1904),fratello di Luigi senior, Anselmo fu sindaco di Cotrone nel triennio 1896-

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Bosco di Policoro, che consegna definitivamente il Berlingieri ad una fama più lusinghierae meno sinistra di quella datagli, suo malgrado, dai «fatti di Melissa». La crescente dimen-sione letteraria della figura di Giulio Berlingieri e il suo sostanziale riscatto operato dalFiorellini, che ne fa l’ultimo custode della millenaria foresta, compensa però solo in partel’immortalità (tutta terrena) che avrebbe potuto assicurargli la pinacoteca, se egli l’avessein fine donata ai concittadini invece di consentirne la dispersione. 22 un cenno, a trasferimento avvenuto, è in GAETANo ASTuRI, Storia di una città, La TipoMeccanica, Catanzaro, 1971, p. 73.23 ANDREA PESAVENTo, La chiesa di Santa Veneranda di Crotone e il palazzo dei Berlingieri,in «La Provincia KR», XIII-XIV, 1997, nota n. 33.24 Cfr. BRuNo MuSSARI, «Una barriera allo incremento e alla salubrità del paese»: le muradi Crotone tra dismissioni e sviluppo urbano, in «Storia urbana», CXXXVI-CXXXVII, 2012, p.176.25 ID., Ivi, pp. 186-187, nota n. 66.

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Fig. 2 - Crotone - Piazza Umberto I. A sinistra, la facciata di Palazzo Berlingieri nel secondodecennio del XX secolo

Fig. 3 - Crotone- Piazza Umberto I. Complesso delle scuderie di Anselmo Berlingieri nel 1925.

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1899. È dunque lui il Berlingieri reso celebre dall’incontro narrato nel diariodi viaggio calabrese di George Gissing26, giunto in città sul finire del 1897. 3. La pinacoteca di Giulio Berlingieri nel 1950: l’inventario di Giovanni TorreCome accennato in premessa, i dipinti complessivamente censiti da Gio-vanni Torre nel 1950 sono 269 tra olî (236), acquarelli (24)27, pastelli (4)e disegni (5) che, cronologicamente, si distribuiscono tra il Seicento e l’ini-zio del Novecento.Pur in mancanza delle relative immagini, l’esame dei titoli ricavati dairegistri (come l’identità degli autori, l’anno di esecuzione/acquisto e le mi-sure28) non lascia dubbi circa il criterio di scelta adottato dai Berlingieri, oalmeno da Giulio, per l’acquisto delle opere. Egli non si lascia guidare dal-l’apprezzamento per l’una o l’altra corrente artistica né per le capacità disingoli artefici (con una sola felice eccezione), e non mostra alcuna predi-lezione per i pittori o i soggetti calabresi29 ma appare interessato quasiesclusivamente alle raffigurazioni di animali. Sono bestie d’allevamento,da stalla e da cortile, ritratte nella loro quotidianità, o invece bestie selva-tiche, sia uccise sia inserite in scene di caccia dove anche i cani hanno spa-zio: predazioni di fiere e battute di cacciatori, preferibilmente a cavallo,ambientate in scenari europei o più di rado esotici. Natura e cinegetica, delresto, rientrano tra i filoni preferiti della pittura italiana del XIX secolo30.Persino certe rare immagini di individui al lavoro si giustificano allaluce della loro relazione con il mondo animale: mercanti di cavalli (nn. 94,233), butteri (nn. 121, 265, 266), maniscalchi (nn. 138, 205), pescatori (n.80), falconieri (n. 165). Banditi i ritratti, salvo rarissime eccezioni, an-ch’esse specialmente di ambientazione equestre e venatoria, o casi di ani-

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26 MAuRo FRANCESCo MINERVINo (a cura di), Sulle rive dello Jonio. Un vittoriano al Sud, EDTEdizioni, Torino 1993, p. 39. Sull’episodio, si veda anche DANIELE CRISToFARo, George Gissing.Il viaggio desiderato (Calabria 1897), Pellegrini, Cosenza 2005, p. 53.27 Due di questi però, non risultano eseguiti su tela o carta ma su ventaglio. Sono Caniin ferma e Trombettiere (Cavalleria Genova), i nn. 99 e 102 dell’elenco, opera di «C. D. DeVivo» e di Francesco Mancini (1830-1905). 28 Nei pochi casi verificabili esse risultano quasi sempre imprecise.29 Il catanzarese Salvatore Petruolo (1857-1942), con la sua Marina (n. 147), costituisceun’eccezione.30 Si veda GIAMPAoLo DADDI e ANNA RANzI e GIuSEPPE LuIGI MARINI (a cura di), Cecconi Ma-riani Quadrone. Caccia e natura nella pittura italiana dell’Ottocento, Catalogo della mostra(Archivio di Stato di Firenze, 24 maggio – 24 giugno 2003), Edizioni Polistampa, Firenze2003.

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mali di speciale pregio appartenenti a personaggi noti, l’indifferenza neiconfronti dei paesaggi non animati è quasi totale31 e quella verso le scenedi genere ammette solo rari ripensamenti.I bersaglieri a Porta Pia (n. 209) di Michele Cammarano (1835-1930),che forse replica in scala ridotta (cm 90x125) la monumentale Carica dei

bersaglieri a Porta Pia commissionata al pittore napoletano da VittorioEmanuele II nel 1871, rappresenta pressoché l’unica concessione alla pit-tura celebrativa dell’epos risorgimentale e di avvenimenti storici in ge-nere32. Non è certo, infatti, benché probabile, che il più piccolo Villafranca(n. 140) di Filippo Palizzi (cm 28x38) coincida con Carica di cavalleria alcomando del colonnello Strada a Villafranca: il dipinto esposto nel 1867alla mostra della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli e dato generi-camente «in collezione privata» che, con pochi altri, documenta in modoesplicito i rapporti del famoso pittore marchigiano con i Savoia33.Appena 6, in fine, sono i soggetti a carattere sacro, tutti di pittori italiani:un Gesù e la Samaritana di cui Torre respinge l’attribuzione a Luca Giordanoma conferma la pertinenza all’ambiente artistico di Napoli, L’Immacolata diFrancesco De Mura (1686-1792), il Ritorno del Divino Amore di Enrico Co-leman (1846-1911), un Interno di chiesa dipinto da Ciro Punso (1850-1925)e un altro forse di Francesco Mancini (1830-1905)34, La monaca di SalvatorePostiglione (1861-1906). La distanza cronologica dei primi due quadri daglialtri, che spettano alla seconda metà del XIX se non ai primi del Novecento,può farli supporre parte del nucleo originario della collezione. La rigorosa selezione tematica implica la compresenza, nella pinacotecadi Berlingieri e quindi nell’elenco Torre, di un gran numero di pittori: circa130. A parte 4 artisti ignoti, gli italiani sono probabilmente 67, più gli au-tori delle 15 tele genericamente ricondotte a diverse scuole della Penisola;gli stranieri 44, più 11 come sopra, e le nazionalità attestate francese, in-glese, olandese, tedesca e spagnola in ordine decrescente35. In circa metà

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31 Si contano appena due Venezia: un acquarello (n. 74) di Edoardo Dalbono (1841-1915), datato 1887, e un olio (n. 83) di Federico Cortese (1829-1913), autore anche di unpiù generico Paesaggio (n. 79).32 Tra i pochi esempi estranei al genere militaria, (Luca) Giordano alla corte di Spagna(n. 159) di «Guida G.» e la Battaglia (n. 180) di Salvator Rosa (1615-1673).33 Più problematici i nn. 134-135, dove ai titoli Esecuzione del comando e Il Comandocorrispondono, nella colonna degli autori, le indicazioni «Gener. Vittorio E. (1910)» e «Gen.Vittorio E. (1910)».34 Autore di altre cinque tele riportate nell’inventario Torre, potrebbe appartenerglianche questa, nonostante l’iniziale trascritta sia M. invece di F.35 Gli errori di trascrizione dei cognomi, da parte dei compilatori dei registri e in fine

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del totale dei casi, e ciò vale specialmente per i non italiani, a ciascun co-gnome corrisponde quindi un unico quadro. Per questo la quantità e la va-rietà delle tele dei fratelli Palizzi costituisce un’evidente eccezione cherichiede di essere approfondita a parte. Merita fare qualche considerazione ulteriore sulle iconografie più ricor-renti. Nelle pitture con animali la prevalenza di cani e cavalli è netta: i primicompaiono in 39 dipinti o più, mentre sono almeno 66 quelli con destrieri,posto che una decina di altri titoli ne fanno sospettare la presenza. Tuttiquesti quadrupedi avevano senza dubbio un posto d’onore nel cuore delcollezionista, che li apprezzava raffigurati singolarmente ma anche impe-gnati assieme in scene di caccia e, per quanto concerne i cavalli, in azionimilitari e gare sportive. Quello degli stalloni e delle giumente da competi-zione è anzi, nella pinacoteca Berlingieri, un filone ben riconoscibile e ap-pena più documentato degli altri. Se, infatti, eccezionalmente il settergordon del granduca Michele di Russia può contare su due ritratti, a pastelloe ad olio (nn. 39-40), eseguiti da Filippo Palizzi36, e allo stesso pittore si de-vono anche Cani di lusso e Cani del principe di Fondi (nn. 69, 71), la cui iden-tità doveva essergli nota, molti sono invece i cavalli di cui l’inventariofornisce le generalità associando i nomi del quadrupede e del proprietario.3.1 «I più bei Palizzi della terra» e il sarcasmo di Leonida RepaciQuando era assente da Crotone e dal Castello di Policoro, Giulio Berlin-gieri si divideva tra Milano e a Roma, per seguire da vicino i progressi deisuoi cavalli. A Milano, il complesso della Scuderia Berlingieri risale ai primidel Novecento, allorché la «Società Lombarda per le corse dei cavalli» rea-lizzò il famoso ippodromo di San Siro, dando origine a un vero e proprioquartiere ippico i cui edifici, ove superstiti, sono oggi tutelati ex lege37. Lascuderia Berlingieri, sita accanto a quelle di altri nomi noti dell’alta societàdi allora (De Montel, Ramazzotti, Forlanini ecc.)38, è specialmente famosaper i cavalli da ostacoli (steeple-chases). Riconoscibile dalla giubba bianco-rossa indossata dai suoi fantini, ebbe al soldo nomi molto noti nell’am-

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del Torre, si moltiplicano, però, in questo secondo gruppo, come pure nei titoli in linguaoriginale. Ciò rende impossibile l’identificazione di molti artisti – quelli trascritti tra vir-golette caporali – e falsa la gerarchia sopra citata.36 Nel 1872 questi era stato insegnante della moglie del granduca.37 Cfr. MARCo PARINI, Il significato di un vincolo, in Sentieri in città, Inserto Speciale, Alle-gato Anno 2, n. 4, 2005, p. VIII.38 Cfr. CRISTIANo MuTTI, L’ippica italiana tra evoluzione e tradizione, Tesi di Dottorato inSocietà dell’Informazione, Il Quartiere Ippico di San Siro, università degli Studi di MilanoBicocca, Ciclo XXIII (s.d.), p. 35.

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biente delle corse in siepi e poté contare su purosangue di alto livello,spesso trionfatori in prestigiose competizioni39. Giulio fu pure membrodella Società milanese di caccia a cavallo e dal 1969, a ogni fine stagione,si assegna un prestigioso premio che porta il suo nome. Il barone fu ugual-mente di casa, però, negli ippodromi di Roma, insieme al fratello Arturo(1878-1958), e anche lì gli animali di famiglia vinsero numerose gare, spe-cialmente alle Capannelle40. Ciò premesso, l’intensità della passione per i cavalli e l’equitazione ma-nifestata da Giulio Berlingieri non poteva che condizionare anche i suoiinteressi artistici. Nelle 66 tele della pinacoteca che certamente la testi-moniano troviamo, perciò, molti soggetti generici ma anche 3 gare ippiche,18 cavalli da corsa identificati solo nominalmente (più 4 per i quali mancala specificazione) e 11 ritratti individuali di purosangue da competizioneappartenuti a scuderie espressamente citate: quelle dei principi de’ Medicidi ottaviano e dei baroni Barracco e Berlingieri. Quasi tutte le suddette ec-cezioni sono ben motivate: da un lato riportano a Filippo Palizzi, l’artistapiù celebre della quadreria del barone Giulio e motivo per lui di smisuratoorgoglio, dall’altro dipendono dall’essere egli stesso il proprietario deglianimali e averne commissionato i ritratti.Se a Giuseppe Palizzi si deve un generico Puledri nel salernitano (n. 55),Filippo è indicato nell’inventario del Torre quale autore di un primo studiodal titolo Cavallo (n. 23) e di un secondo, Cavallo e Giumenta (n. 22), destinatoal suo celebre Diluvio universale41, nonché dell’acquarello Mandria di cavalli(n. 225), dell'olio Restone (n. 12), di un Cavallo da caccia (n. 105)42, del giàricordato Villafranca (n. 140) e del ritratto de Il Duca Caltabellotta Alvarezde Toledo a cavallo in costume spagnolo (n. 219). Sono suoi, però, anche Scu-deria del principe di Ottaviano (n. 220), del 1854, e “Aspro”, puro sangue delP. di Ottaviano (n. 104), quest’ultimo datato 1842, che chiamano in causaGiuseppe de’ Medici (1803-1874), IV principe di ottajano e duca di Sarno.La sua fama nell’ambiente dell’equitazione da corsa è legata all’acquisto di

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39 Cfr. V. FIoRELLINI, Il Barone cit., p. 103.40 Della ventiseiesima e ultima vittoria di Grifone, ad esempio, ottenuta al Premio RomaCapannelle (che si era già aggiudicato nel 1947) il 18 novembre 1949, resta documenta-zione filmata. Grifone era figlio di Vezzano, altro stallone della scuderia Berlingieri vitto-rioso in varie competizioni. Nel 1929, Giulio Berlingieri si era aggiudicato lo stessoprestigioso premio con Tigliano, figlio di havresac II.41 Il titolo corretto del famosissimo dipinto, oggi al Museo di Capodimonte, commissio-natogli da Vittorio Emanuele II nel 1861 e completato nel 1864, è Dopo il diluvio o L’uscitadegli animali dall’arca.42 Circa la sorte del dipinto, vedi infra, pp. 264, 266.

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cavalli inglesi e all’impiego di fantini della medesima nazionalità nelle gareippiche intese in senso moderno, da lui stesso inaugurate nel 1837. La coppia “Bersagliere” (n. 106) e “Feriglio” (n. 108), il secondo dei qualidatato 1857, come pure un altro olio il cui titolo è omesso dal Torre forseper una svista (n. 107), sono tutti accompagnati dalla specificazione ca-vallo del Barone Barracco. Di “Alì”, stallone arabo (n. 110), datato 1850, edi “Neros” (n. 211) non è segnalata la proprietà ma nel primo si deve sen-z’altro riconoscere il purosangue dal mantello bianco acquistato dai Bar-racco nel 1833 perché rinnovasse, migliorandola, la razza indigenacalabrese43. Incrociata ulteriormente, dal 1851, con stalloni inglesi, la razzaBarracco ebbe un grande successo in tutto il Napoletano e garantì largafama della famiglia in campo ippico. Nomi come i sopra citati Bersaglieree Periglio ricorrono perciò tra i vincitori di corse al galoppo in piano svoltea Napoli dopo la metà dell’ottocento44 insieme, tra gli altri, a quelli di Ri-schio ed Egeria, cavalli cui Giovanni Barracco era specialmente affezionatoe che furono anch’essi ritratti da Filippo Palizzi45, amico personale del ba-rone calabrese trapiantato a Roma46. Quanto ai cavalli della scuderia di Giulio Berlingieri, il parmense Danielede Strobel (1873-1942), a lungo professore all’Accademia di Brera e notoritrattista di tutti i vincitori del Gran Premio Ippico Milano (istituito nel1904) dal 1925 alla morte, dipinse per conto del barone il cospicuo “Ti-liano”, Cavallo della Scuderia del Barone Berlingieri (n. 112), da 80x85 cm47,ma anche i più piccoli “Butte”, (n. 113), “Nevada” (n. 114), “Orbignes” (n.115), “Grey rosette” (n. 116) e “Prince Pedro” (n. 117), ciascuno definito Ca-

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43 In 12 anni Aly generò oltre 40 cavalle - alcune furono incrociate con Barguth, altro epiù perfetto purosangue arabo acquistato nel 1842 -, e fu perciò considerato il fondatoredella Razza Barracco così rigenerata: A. LuCIFERo, Mammalia... cit., pp. 136, 167-169.44 IVI, p. 172. 45 Cfr. SIMoNA PIPPoNzI, Animali e animalismi palizziani, in SIMoNA PIPPoNzI e DANIELA MA-DoNNA (a cura di), I Palizzi e il vero: la metamorfosi nella pittura dell’800, Il Torcoliere, Vasto2008, pp. 83-115.46 Cfr. MARIA GABRIELLA CIMINo, Giovanni Barracco: un politico, un intellettuale, un colle-zionista dell’Italia post-unitaria, in RoBERTo SPADEA (a cura di), Il Tesoro di Hera. Scoperte nelsantuario di Hera Lacinia a Capo Colonna di Crotone, Catalogo della mostra (Roma, 28 marzo- 30 giugno1996), Edizioni ET, Milano 1996, p. 11, nota n. 14; MARTA PETRuSEWICz, Il percorsodi un “uomo felice”. Dal latifondo calabrese attraverso la formazione della nazione alla col-lezione dei frammenti d’arte antica, in MADDALENA CIMA (a cura di), Giovanni Barracco pa-triota e collezionista, Soveria Mannelli, Rubbettino 2010, p. 34; M. CoRRADo, La città... cit., p.237, nota n. 395. 47 Si tratta del già ricordato Tigliano vincitore, nel 1929, anche del Premio Roma alleCapannelle: vd. infra, nota n. 40.

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vallo della Scuderia del Barone G. Berlingieri. È opera del romano EdoardoGioia (1862-1937) “Utriano”, Stallone del Barone G. Berlingieri (n. 153).Non ci sono elementi per supporre che il barone abbia invece fatto ri-trarre qualcuno dei suoi cani, benché li amasse al pari dei cavalli e senzache questo gli togliesse il gusto di possedere ben 13 tele di Filippo Palizziraffiguranti, appunto, cani di diverse razze48. Le date di esecuzione dei quadri del pittore vastese presenti in elencorimandano alla metà circa del XIX secolo, comprese come sono fra il 1842e il 1857 per quanto concerne i cavalli, fra il 1840 e il 1873 per i cani. Tuttii dipinti spettano, dunque, ad una stagione ben anteriore a quella in cuiGiulio Berlingieri poté iniziare la sua attività di acquirente di opere d’arte.L’acquisto potrebbe, perciò, essere stato compiuto del nonno o del padrema il “silenzio” di Nicola Sculco (1905)49 suggerisce che Giulio possa inveceessere stato responsabile di tutte le acquisizioni.Come che sia, dell’orgoglio che il barone nutriva per la sua pinacotecaspecializzata50 e dell’ammirazione nei confronti di Filippo Palizzi, tale dariverberarsi anche sui fratelli Giuseppe (1812-1888), presente con 8 tele51,Nicola (1820-1870) e Francesco Paolo (1825-1871) con 2 e 3 per cia-scuno52, restano un paio di testimonianze dirette, pressappoco coeve madi opposto tenore, che vale la pena riportare puntualmente. Il coinvolgenteracconto della prima visita condotta da Giovanni Torre nel palazzo di Largoumberto I si rivela di grande interesse non tanto per le informazioni di or-dine tecnico ma per capire la psicologia del collezionista: La visita fu lunga, minuziosa; il barone si fermava davanti ad ogni quadro: di alcunidava notizie più particolari, accennando all’occasione dell’acquisto, indicandone la prove-nienza; di altri ci faceva notare alcuni particolari pregi artistici, sempre con molta compe-tenza, oltre che con tatto squisito e discrezione, quasi temesse di influenzare il nostrogiudizio e le individuali capacità di saperli “leggere”; davanti a tutti si fermava guardandoli

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48 Sono i nn. 12, 39, 40, 41, 44, 47, 69, 70, 71, 139, 144, 218 dell’elenco Torre.49 Il particolare interesse per le tele dei Palizzi che, sempre a p. 71, gli fa scrivere: «IlCav. Filippo Eugenio Albani ne possiede sette del Palizzi» risulta molto utile ai nostri fini.Posto che, per il tramite degli Albani, lo Sculco è solitamente bene informato su tutto quantoconcerne i Berlingieri, la mancata menzione dei Palizzi di quella collezione stride, infatti,con il contenuto dell’inventario Torre, forte di ben 65 opere dei celebri fratelli marchigiani.50 «Mi espresse anche un suo segreto rammarico e cioè che in altro momento si sarebbepotuto anche pensare ad illustrare quelle opere in un catalogo», riferisce Giovanni Torre.51 Sono i nn. 53, 54, 55, 57, 59, 60, 63, 141 dell’inventario Torre: Pecore nell’ovile, Ritornodalla montagna, Puledri nel salernitano, Interno di stalla, Pastorella con pecore, Pecore al-l’abbeveraggio, Tori in lotta, I rivali.52 Sono rispettivamente i nn. 11 e 194 (Testa di cane; Principe di Fondi a caccia) e i nn.28, 29 e 50 (Natura morta; Natura morta; Cane e gatto).

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con ammirazione affettuosa. E in chiusura aggiunge: ho fermo nella memoria lo sguardo d’amore con il quale il Barone Berlingieri carezzavatutte quelle opere che costituivano il suo orgoglio, frutto anche della sua predilezione pergli oggetti dipinti, ma sopra tutto segno del suo sentimento del bello e della sua infinitapassione per l’arte. Per finire, voglio solo riportare due ricordi che trovo segnati in un ap-punto scritto da me dopo il primo incontro e che trascrivo integralmente: Con premura haosservato un quadro il cui colore andava scrostandosi, ma ha subito aggiunto che dovevaessere presto restaurato. Davanti ad un altro, mi ha raccontato a quali sotterfugi ricorse aStoccolma per trasferirlo in Italia.La seconda voce è sostanzialmente concorde con la prima ma ciò chenel Torre suscitava una partecipe emozione è invece motivo di stizzito di-sappunto nel commento di Leonida Repaci ad un articolo di stampa fir-mato da un illustre giornalista dell’epoca: Apprendiamo dal virtuosissimo Lamberti Sorrentino53 che il barone Giulio Berlingieri,un signore oppresso da una proprietà di oltre 22.000 ettari54, dei quali ben 7658 tenuti ariserva di caccia55, ha sottoscritto ben 10.000 lire per rifornire di streptomicina il tuberco-losario di Crotone. Chiunque avrebbe messo l’accento su quell’offerta per fare del sarca-smo56. Non è stato di questo parere il nostro “inviato”, il quale ha trovato assai più chic eutile impegnare il suo talento di colorista nel dare il simpatico ritratto di Don Giulio, unvecchio signore di settantaquattro anni che avvicina la sua tempia al collo ansante dellacavalla Isolina, vincitrice a San Siro57, quasi ‘a prendere il bacio di una dama o più’; un vec-chio e solitario signore che esce a cavallo per quattro mesi all’anno, dall’alba al tramonto,per insegnare la vita attiva ai braccianti neghittosi; un vecchio signore che gira con unoscialle addosso per le settanta e più stanze del suo palazzo a contemplare, ad adorare i suoiPalizzi, ‘i più bei Palizzi della terra’, quei Palizzi nei quali egli cerca ‘tanti cavalli e cani dagli

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53 Campano di Sala Consilina, il Sorrentino (1899-1993), già capo redattore e poi cor-rispondente dall’Italia del quotidiano fascista «Il Mattino d’Italia» di Buenos Aires, notosoprattutto come cronista di guerra, era allora inviato speciale dei settimanali «Tempo» ed«Epoca».54 Altri nomi noti del giornalismo d’inchiesta si sono cimentati, in quegli anni, nell’analisidella situazione economica della Calabria e soffermati sulla rendita annuale assicurata a Giu-lio Berlingieri dai sui 23.000 ettari di terreno: ben 600 milioni, poiché gran parte delle sueproprietà erano concesse a grossi affittuari, disposti a pagarle il doppio di quanto potesserooffrirgli le cooperative di contadini nate sulla base dei «Decreti Gullo»: cfr. RICCARDo LoNGoNE,Facciamo i conti nelle tasche dei grandi proprietari di terre, in «l’unità», 8 gennaio 1950, p. 3. 55 La critica del Repaci è specialmente pungente a tale riguardo: cfr. L. REPACI, Calabria...cit., p. 176.56 La favolosa ricchezza dei latifondisti, unita a un’altrettanto abnorme avarizia, è untopos dell’inchiesta sulle condizioni della città e degli abitanti di Crotone (IVI, pp. 179-180,187, 189).57 Si tratta, in realtà, della cavalla Isoletta, vincitrice del Gran Premio Merano nel 1939.

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occhi dolci ed intimi che gli rinnovano dichiarazioni leali, amiche, disinteressate’. Avete ca-pito dove si caccia l’amore del dagherrotipo in Lamberti Sorrentino? Nell’impossibilità ditrovare una creatura umana che voglia bene al suo Don Giulio, il nostro amico è costrettoa cercarlo nel mondo degli animali. E fossero almeno animali viventi. Niente affatto. Sonoanimali dipinti da Palizzi58.4. La pinacoteca di Giulio Berlingieri dopo il 1950: una lenta agoniaNella memoria associata all’inventario, Giovanni Torre scrive:Dove sono andati a finire tutti quei quadri? È una domanda che mi pongo con profondosgomento… Il ricordo di quell’uomo nobilissimo che con tanto amore continuò l’opera fa-miliare, arricchendo e completando una raccolta di opere eccezionali, accrescerebbe il miorammarico e mi porterebbe ad amarissime considerazioni. Voglio solo formulare un augu-rio, che gli eredi abbiano conservato la parte loro spettante….orbene, sembra che sia stato Giulio Berlingieri in persona, poco dopoil trasloco a Milano, a incrinare per primo l’unitarietà della sua raccolta,quasi che averla spostata dalla sede storica avesse cancellato in lui ogniscrupolo a disfarsi di singole opere, non esclusi gli amatissimi Palizzi59. IlMuseo Nazionale Scienza e Tecnologia «Leonardo da Vinci» dispone, in-fatti, di un lascito di opere d’arte dell’industriale tessile lombardo GuidoRossi, risalente al 1955, di cui è entrato in possesso alla morte del dona-tore (1957) e che espone parzialmente al pubblico dal 195860. Tra i dipintidi quella raccolta, i magazzini del museo milanese ospitano due tele ovaliad olio di Filippo Palizzi, firmate e datate 1864, e una rettangolare di En-rico Coleman, attribuita al 1875-1880, provenienti dalla pinacoteca Ber-lingieri. Le schede messe in rete le identificano con i titoli Teste di animali(inv. 1865), Testa di asinello (inv. 1866) e Bufali nella campagna romana

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58 L. REPACI, Calabria... cit., p. 172.59 Non ebbe miglior fortuna, del resto, la collezione del fratello Arturo (1878-1958):per disaccordi tra i figli Arturo e Pier Luigi, essa finì all’asta insieme al mobilio della suaelegante abitazione romana di Viale Regina Margherita: cfr. FRANCESCo GIACoMINI, ANToNIoRoMITI (a cura di), Catalogo delle collezioni d’arte e di arredamento già appartenute al BaroneArturo Berlingieri, fu Pietro, esistenti nella Villa Berlingieri: che saranno vendute all’asta perdivisione ereditaria, L’Antonina, Roma 1961.60 Tutte e tre recano, infatti, sul retro del telaio o della tela il timbro a inchiostro nero,spesso reiterato, AMMINISTRAzIoNE / BARoNE GIuLIo BERLINGIERI / CRoToNE. In so-stituzione di quella tessile, verosimilmente, l’ovale con Testa di asinello conserva due eti-chette adesive sulle quali è scritto, a matita, 1775 – PALIzzI. I sigilli in ceralacca apposti sulretro dei quadri del solo Palizzi, impressi più volte sul citato supporto per trattenere un’eti-chetta di cotone bianco apparentemente anepigrafe, dovevano recare l’arma di famiglia.

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(inv. 1794)61, corrispondenti ai nn. 76, 75 e 215 dell’elenco Torre. A distanza di molti anni da questo primo episodio accertato di smem-bramento della pinacoteca Berlingieri, a giugno 2001, 20 dipinti della «Col-lezione Eredi Barone Giulio Berlingieri» sono stati battuti all’asta nellasede milanese di Sotheby’s, identificati come lotti 167-185. Il catalogo pub-blicato nell’occasione62, dove almeno 4 opere spettano a pittori non con-templati nella quadreria calabrese e lucana, può adombrare sia unincremento della collezione dopo il 1950, sia l’esistenza di un gruppo diopere destinate fin dall’inizio alla dimora milanese del barone. Aggiuntoalle tele trasferite a Milano dal Sud, alla morte del Berlingieri detto nucleodiventò tutt’uno con la pinacoteca “storica”63. Quanto alle altre 16, ben 10 sono quadri di Filippo Palizzi che vale lapena di esaminare in dettaglio, una coppia spetta alla francese Rosa Bon-heur (Quattro piccoli cinghiali e Mucca)64 e il resto sono singole pitture:un’Amazzone e una Lotta di tori di «Scuola italiana, secolo XIX»65, un Co-razziere portabandiera (olio su cartone) di «Scuola francese, secolo XIX»,e una Scena di caccia attribuita a Paul Tavernier (cartoncino su tela)66. Circa i dipinti di Filippo Palizzi, la scelta è caduta sul Toro nella stalla esu quattro ritratti di cani, due forse immaginari e due reali, benché solodel secondo ciò possa dirsi con certezza: Testa di bracco e Spinone conlepre67, del 1854 e 1844, nonché Bassotto, terrier e volpino al guinzaglio eRobin, il setter del Granduca Michele di Russia, del 1862 e 187268 (fig. 4).

La quadreria del barone Giulio Berlingieri e la dispersione dei “più bei Palizzi della terra”

61 Cfr. rispettivamente www.museoscienza.org/dipartimenti/catalogo_oa/scheda_og-getto-oa.asp?oa=400, www.museoscienza.org/dipartimenti/catalogo_oa/scheda_oggetto-oa.asp?oa=325 e www.museoscienza.org/dipartimenti/catalogo_oa/scheda_oggetto-oa.asp?oa=298, con relativa bibliografia. 62 SoThEBY’S ITALIA (ed.), Dipinti del XIX secolo. Milano – 5 giugno 2001, Sotheby’s, Milano2001, pp. 53-59.63 IVI, p. 55, nn. 173-175 e 172.64 IVI, p. 54, lotto n. 168. Sono probabilmente i nn. 20 e 19 dell’inventario Torre, che tut-tavia li chiama Cinghiale e Giovenca irlandese.65 IVI, p. 54, lotto n. 169; 55, lotto n. 171. Corrispondono, verosimilmente, ai nn. 207 e63 dell’elenco Torre, dove il secondo è attribuito a Giuseppe Palizzi. 66 Il solo dipinto di P. Tavernier presente in elenco (n. 217) è anch’esso un pastello ma,a parte la mancata corrispondenza delle misure, ha un titolo incomprensibile (per cattivatrascrizione) – L’hallolj sur la place – che non sembra compatibile con quello descrittivodel catalogo d’asta.67 SoThEBY’S ITALIA, Dipinti... cit., 56, lotto n. 177; 57, lotto n. 178. Il secondo è il n. 41 del-l’elenco Torre, riportato con il medesimo titolo.68 IVI, p. 56, lotto n. 176; 57, lotto n. 179. Il primo è forse il n. 69 del Torre, Cani di lusso,mentre il secondo è senz’altro il n. 40 (datato però 1873), che conta un ulteriore ritrattodel medesimo cane al n. 39, di dimensioni però molto modeste.

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Le altre 5 tele rappresentano cavalli. Quattro sono destrieri da corsa la cuiidentità doveva essere nota al pittore e al committente ma i curatori delcatalogo d’asta, in mancanza di informazioni al riguardo, hanno assegnatoloro titoli generici che ribaltano la gerarchia cavallo-fantino a favore delsecondo. Si tratta di Cavallo e cavaliere con giubba rossa (1851), Fantino acavallo guarda verso il pubblico (1857), Fantino a cavallo di profilo

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Fig. 4 - Ritratti di cani dipinti da F. Palizzi e appartenuti alla pinacoteca di Giulio Berlingieri.

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(1857)69. All’ancor più generico Morello da sella (1848) si aggiunge poiuna quinta tela, Buttero a cavallo (1855), di cui ingenuamente si insinuache «La persona ritratta a cavallo potrebbe essere proprio il committentedel dipinto, il Barone Giulio Berlingieri», ignorando i due estremi crono-logici della biografia del collezionista70. Se non bastasse, il presunto but-tero, stando all’inventario Torre (n. 279), che tuttavia lo data al 1875,sarebbe invece Il Duca di Caltabellotta Alvarez de Toledo a cavallo in co-stume spagnolo71 (fig. 5).

La maggiore aderenza al vero della seconda identificazione è palese perchiunque esamini il dipinto e il caso in questione autorizza più degli altriuna riflessione, amara, su quanto la mancata consultazione dell’inventario

La quadreria del barone Giulio Berlingieri e la dispersione dei “più bei Palizzi della terra”

69 IVI, p. 59, lotti 183-185. 70 IVI, p. 58, lotti 182 e 180.71 Se il dipinto risale al 1855, si tratterebbe di don Pietro Alvarez de Toledo (1803-1867), titolare del feudo di Caltabellotta (e di altri venti) ma con la qualifica di conte: DAVIDE

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Fig. 5 - Dipinto di F. Palizzi identificabile con Il Duca di Caltabellotta Alvarez de Toledo a ca-vallo in costume spagnolo (n. 279).

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Torre (o di un altro documento analogo) – leggerezza o prova dell’avvenutascissione tra le tele e il relativo carteggio? – abbia nuociuto alla storia diciascuna di esse, rimasta nei registri, ovunque questi siano finiti, mentre iquadri presero strade diverse. Il paradosso si raggiunge con quel Caccia-tore nello stagno attribuito a «Scuola italiana, secolo XIX», di cui nella brevescheda si legge: «La tradizione identifica il cacciatore qui ritratto con Gio-vanni Battista Gallone, principe di Marsiconovo»72. Con tutta probabilità– le misure coincidono –, si tratta invece del dipinto ad olio di Nicola Palizziintitolato Principe di Fondi a caccia73 (n. 194).A conferma ulteriore, uno dei due olî da cm 40x58 datati 1857 che rap-presentano cavalli da corsa montati da fantini in giubba bianco-blu po-trebbe corrispondere a “Feriglio”, cavallo del Barone Barracco e l’altro a“Bersagliere”, cavallo del Barone Barracco: i nn. 108 e 106 dell’inventario(fig. 6). Il sottosella blu notte/nero bordato di bianco posto sulla schienadel destriero, la rassomiglianza dei due animali e la probabile identità deirispettivi fantini, anch’essi vestiti di blu e bianco74, ne conferma l’apparte-nenza ad un’unica scuderia, mentre lo sfondo suggerisce una pista di alle-namento/competizione che, nel primo caso contempla pure il palco versoil quale il pubblico si affolla per la premiazione.Il Cavallo e cavaliere con giubba rossa potrebbe invece essere il n. 111dell’elenco Torre, ivi intitolato Cavallo da caccia (fig. 7, in alto). Il ruolo se-condario del cavaliere è sottolineato, in effetti, dalla sua posizione in se-condo piano rispetto all’animale, che lo nasconde in gran parte, el’abbigliamento, condiviso con altri due cavalieri intenti a saltare staccio-

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ShAMà, Genealogie delle famiglie nobili italiane, ad vocem Alvarez de Toledo, inhttp://www.sardimpex.com/A/Alvarez%20de%de%Toledo.asp. Sembra plausibile, perciò,che un errore commesso dall’ignoto compilatore del registro sia passato nell’elenco Torre.72 SoThEBY’S ITALIA, Dipinti... cit., p. 54, lotto n. 170.73 Premesso che i due titoli nobiliari identificano esponenti di famiglie diverse, quellodi principe di Fondi spetta ai de’ Sangro e, nel corso del XIX sec., al 4° e 5° di costoro: Andrea(1804-1871) e Giuseppe (1825-1909): cfr. D. ShAMà, Genealogie cit., ad vocem de’ Sangro:principi di Fondi, in http://www.sardimpex.com/di%20Sangro/di%Sangro/di%Fondi.asp.Se Giuseppe lo assunse alla morte del padre (1871), la tela del Palizzi dovrebbe ritrarrequest’ultimo, essendo morto il pittore nel 1870. Suoi anche i cani ritratti al n. 71.74 Il fantino dei supposti Periglio e Bersagliere è lo stesso che, indossando i medesimicolori anche se diversamente combinati, cavalca Rischio nel quadro di Filippo Palizzi tut-tora di proprietà Barracco. Il sottosella del cavallo, anche in tale caso, è blu notte bordatodi bianco. La scuderia Barracco si è vista poi assegnare il viola come colore distintivo dalJockey Club Italiano (ex inf. Maurizio Barracco, che si ringrazia), costituito però nel 1881e associato dieci anni più tardi all’unione Mondiale Jockey Clubs: cfr. ENRICo LANDoNI, L’ippicanella storia d’Italia, università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze della Storia edella Documentazione Storica, A.A. 2010, p. 7.

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Fig. 6- Ritratti dei cavalli da corsa chiamati Feriglio e Bersagliere (scuderia Barracco) dipintidi F. Palizzi e già appartenuti alla pinacoteca di Giulio Berlingieri.

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nate, come pure lo sfondo, non lasciano dubbi circa l’ambientazione in unospazio aperto non competitivo. Al contrario, il già citato Morello da sella(1848), la cui ricerca nell’inventario risulta infruttuosa per la genericitàdel soggetto75, è inserito in un paesaggio agreste dove apposite staccionatedefiniscono percorsi riservati all’allenamento o alla gara, rivelando la vo-cazione competitiva dell’animale (fig. 7).

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75 Restano disponibili, per il dipinto in esame, i nn. 23, 104 e 107.

Fig. 7 - Ri-tratti di cavalli(non identifi-cati nominal-mente) dipintida F. Palizzi egià apparte-nuti alla pina-coteca diGiulio Berlin-gieri.

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1. Situazione economica e sociale della Calabria di fine ‘800Il pensiero e l’opera di don Carlo De Cardona1 (morano Calabro 1871-1958) per lo sviluppo della Calabria e l’elevazione economica e sociale deilavoratori calabresi sono abbastanza noti, perché trattata in varie pubbli-cazioni ed è ancora viva per la presenza in Calabria delle Banche di creditocooperativo (ex Casse rurali) da lui fondate o ispirate personalmente. ri-tengo tuttavia importante ritornare sul tema per segnalare la permanentevalidità della sua visione e della sua azione anche per l’attuale momentodi grave crisi economica.Don Carlo si trasferì da morano a Cosenza nell’autunno del 1895, pocodopo l’ordinazione sacerdotale, chiamato in Città come suo segretariodall’arcivescovo Camillo Sorgente. In quel periodo la situazione econo-mico-sociale della Calabria era notevolmente difficile. Vi erano poche in-dustrie, e i lavoratori erano quasi esclusivamente contadini, artigiani emanovali. I contadini, in genere, erano coltivatori diretti soggetti all’usura,perché ricavavano dai loro terreni soltanto quanto bastava per vivere; op-pure erano mezzadri le cui condizioni variavano notevolmente ma in ge-nere sottoposti a pessime condizioni di lavoro. Gli artigiani eranolavoratori notevolmente specializzati, ma la povertà diffusa nella societàoffriva loro possibilità limitate. I manovali erano lavoratori disponibili adaccogliere qualsiasi richiesta di lavoro scarsamente specializzato e perciò

Il pensiero e l'azione di don Carlo De Cardonaper lo sviluppo della Calabria e dei lavoratori calabresi.

Ieri e oggi

Luigi Intrieri

1 La prima ricerca storica su don Carlo Cardona è stata presentata con una relazionecongressuale da Antonio Guarasci nel 1961, tre anni dopo la morte del sacerdote (ANTONIOGuArASCI, Carlo De Cardona e il movimento cattolico a Cosenza (1898-1906), in Atti del 2° con-gresso storico calabrese, Fiorentino, Napoli 1961, pp. 653-674), ed è stata seguita nel 1967dal volume di Pietro Borzomati (PIETrO BOrzOmATI, Aspetti religiosi e storia del movimentocattolico in Calabria (1860-1919), Cinque Lune, roma 1967) che ne mise in evidenza l’im-portanza nella vita del movimento cattolico in Calabria. Per la vita e i dettagli sulle operesociali di don Carlo rinvio al volume LuIGI INTrIErI, Don Carlo De Cardona, SEI, Torino 1996.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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mal pagati e utilizzati per brevi periodi di lavoro. un modo di sfuggire allamiseria diffusa era offerto in quel periodo dall’emigrazione transoceanica,soprattutto in Brasile, Argentina e Stati uniti.Le cause di questa situazione erano varie: economiche, sociali e politi-che. Fra le cause economiche giocavano un ruolo notevole, secondo le zone,o il latifondo o l’eccessivo frazionamento della proprietà terriera. Fra lecause politiche prevaleva l’azione adottata dai governi italiani successiviall’unificazione nazionale del 1861, caratterizzata dalla coscrizione uni-versale, dal sostegno ai grandi proprietari agrari e dalle tasse introdottedopo la proclamazione del regno d’Italia che, come quella del macinato,colpivano i consumi fondamentali della popolazione. La rivolta che neseguì fino al 1867 avrebbe dovuto essere fronteggiata soprattutto con l’at-tenuazione delle cause. I governi, invece, attribuirono la rivolta a un gene-rico banditismo e a un presunto secolare malgoverno borbonico. reagiro-no, conseguentemente con una pesante repressione militare che aggravòla situazione, perché produsse nel meridione un complesso d’inferioritàche impedì (e in parte continua ancora a impedire) la comprensione dellevere cause e la possibilità di modificarle.Fra le cause politiche del tempo agiva anche l’incapacità della classepolitica meridionale che non seppe superare una visione limitata ai proprilimitati interessi economici. Di solito per soddisfare i parlamentari cala-bresi bastava un ponte, una strada o la soluzione di un singolo problemalocale. Bastava, inoltre, un pranzo offerto agli elettori nel giorno delle ele-zioni per assicurare il voto al candidato “padrone” del collegio elettorale.Nel 1865, infine, era stata estesa a tutta l’Italia la legislazione statale pie-montese risalente al 1720-30, adatta a un regno di limitata ampiezza comeera il Piemonte di Vittorio Amedeo II e caratterizzata da centralismo esa-sperato, burocrazia complicata e perciò inefficiente. Questa legislazionecolpì gravemente il meridione anche perché era stata eliminata la legisla-zione borbonica che nel 1815 aveva confermato la più snella ed efficientelegislazione napoleonica introdotta da Gioacchino murat.Sul piano sociale influiva anche l’individualismo tipico della culturacontadina del tempo, dovuta alla montuosità del territorio e ai mezzi ditrasporto del tempo (asini e muli) che, eccettuate le zone marittime, limi-tavano i contatti mercantili.2. La concezione educativa di don Carlo De CardonaDon Carlo De Cardona aveva compiuto i suoi studi sacerdotali a romanel Collegio romano della Pontificia università Gregoriana, e aveva avuto

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fra i suoi docenti i Gesuiti che nel 1891 avevano ispirato il testo dell’enci-clica sociale Rerum Novarum di Leone XIII. Giunto a Cosenza, con la pienafiducia dell’arcivescovo Sorgente iniziò a proporre e attuare una visionesociale ispirata da tale enciclica. In particolare don Carlo si rivolse ai lavo-ratori calabresi e propose un’azione fondamentalmente educativa, perchéaffidava ad essi stessi il compito dello sviluppo economico e sociale. Sul piano operativo la sua proposta era costituita da cinque punti stret-tamente collegati. In particolare egli chiedeva ai lavoratori:– di assumere consapevolmente la responsabilità del proprio sviluppo(culturale, sociale, economico, politico),– di avere come ispirazione l’ideale religioso e morale del Cristianesimo:ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso,– di agire, perciò, animati da un forte sentimento di solidarietà fraterna,– di utilizzare gli organismi e gli strumenti della cooperazione,– di ricorrere alla competenza tecnica degli specialisti dell’agricoltura,dell’industria e del commercio.2.1. Responsabilità personaleDon Carlo era profondamente convinto che per conseguire il propriosviluppo sociale i lavoratori calabresi (allora in maggioranza contadini eartigiani) avrebbero dovuto impegnarsi ad assumere la responsabilità del

proprio sviluppo (culturale, sociale, economico, politico) e perciò a costituiree sostenere personalmente le istituzioni sociali ed economiche adatte.Questo impegno personale era assolutamente necessario perché avrebbeconsentito ai lavoratori di acquistare progressivamente fiducia in se stessie di smettere di attendere da altri la propria elevazione. Sconsigliava anchedi chiedere miglioramenti dovuti a interventi politici o caritativi esterni,perché ciò sarebbe apparso come un regalo gratuito e li avrebbe ulterior-mente demotivati. In tal caso, infatti, i lavoratori avrebbe rafforzato la lorodipendenza da forze estranee, il mantenimento del proprio complessod’inferiorità e lo sfruttamento da parte di altre classi sociali o da apparte-nenti a territori già sviluppati. Per questo motivo scrisse perentoriamente:«Il nostro motto è: i soli lavoratori»2, e ne spiegò gli aspetti in vario modo:«Ora è inutile e indecoroso che i lavoratori aspettino l’elemosina di un po’ d’aiuto, dallesoprastanti classi borghesi: bisogna che facciano da sé; che si riuniscano in società doveregni e aleggi lo spirito di Gesù Cristo; che, uniti insieme, si confortino a vicenda nella Fede,e si difendano dalla corruzione e dalla miscredenza che scendano dall’alto: occorre chemettendo insieme i loro piccoli risparmi, creino un capitale collettivo, il quale servirà loro

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2 Una difficoltà seria, in «Il Lavoro», 15 maggio 1905.

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di mezzo per aiutarsi in caso d’infermità, per aprire scuole popolari, per non lasciarsi op-primere dal fisco e dall’usura, per sostenere, nelle industrie e nell’agricoltura, la concor-renza dei grandi capitalisti, per essere forti e liberi e capaci, all’uopo, di dettar la legge achi finora ha creduto di manomettere impunemente la giustizia»3.«Se in ogni paese sorgesse una istituzione nella quale i contadini e gli artieri si affra-tellassero nel sentimento di una solidarietà invincibile e integra... Se nel petto di questi figlidella gleba, di questi servi del lavoro si alimentasse la fiamma dell’amore cristiano che nonconosce confini, né ostacoli, né paure, né viltà... Se questi operai si decidessero, con i piccolirisparmii del loro pur meschino salario, a formarsi un capitale collettivo da servire e ai bi-sogni più urgenti di ciascuno e alla difesa dei dritti del lavoro e alle imprese ardite che ri-dondassero a un progressivo miglioramento delle istituzioni, del ceto, delle industrie... Sesi moltiplicassero tali istituzioni e si stringessero in un fascio sotto gli auspicii di chi è postoa diffondere l’Evangelo di Cristo... allora un nuovo soffio di vita si sprigionerebbe dalle vi-scere del popolo, e tutti gli uomini di cuore avrebbero la gioia di salutare l’alba del verodomani della Calabria»4.«La libertà vera il popolo se la conquisterà da sé, con le sue vergini forze e col suo genioispirato e temprato dall’Evangelo di Cristo». Perciò i lavoratori «si uniscano nel sentimentodella solidarietà di classe - che è una delle più importanti virtù civiche - e allora: - a) il pattodel lavoro non sarà imposto, ma discusso, alla stregua della giustizia e dell’equità, fra pa-droni forti dei loro capitali e operai ugualmente forti nella loro unione; - b) la voce collettivadei proletarii si farà sentire forte e solenne così nelle alte sfere del governo centrale comein tutte le pubbliche amministrazioni; - c) i figli del lavoro una volta affiatatisi, potranno dicomune intesa studiare e attuare gradualmente quegli istituti e quelle riforme che hannodi mira l’educazione morale e civile del popolo, il miglioramento delle sue condizioni igie-niche ed economiche, la difesa legale dei dritti conculcati, la pace e l’armonia fra le varieclassi sociali»5.«La salvezza del popolo deve venire dal popolo stesso; vale a dire che il popolo con leproprie forze e con l’aiuto di Dio deve pensare ai propri bisogni unendosi in associazione,perché l’unione fa la forza»6. Don Carlo ripeté questo ultimo invito anche in occasione del terremotodel 1905: «Lasciamo ad altri i lamenti e le discussioni inutili, lasciamo al Governo indolente lacostruzione di baracche che il vento si porterà via - noi, o amici, sforziamoci a suscitare edorganizzare le nascoste energie dei lavoratori, per la redenzione dell’anima, e con l’anima,della vita intera dei nostri paesi»7. «È meglio avere poco per ora, ma fatto dagli operai - chemolto non fatto dagli operai: con quel poco soltanto è possibile l’educazione democraticadel popolo»8. Nel 1906, una lettera firmata «N.», molto probabilmente scritta da don

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3 Dovere essere solidali!, in «Il Lavoro», 25 novembre 1900.4 In mezzo alla neve, in «Il Lavoro», 26 febbraio 1901.5 I DEmOCrATICI CrISTIANI DI COSENzA, La Lega del lavoro, in «Il Lavoro», 25 maggio 1901.6 L’AmICO, In casa e fuori, in «Il Lavoro», 12 agosto 1905.7 Fra le rovine, in «Il Lavoro», 7 ottobre 1905. 8 Primo congresso operaio, in «Il Lavoro», 31 marzo 1906.

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Luigi Nicoletti, chiese che la Lega si occupasse anche dell’educazione deiborghesi. Il giornale di De Cardona la pubblicò integralmente, ma nellanota di commento sostenne che il modo migliore per educare i borghesiera quello di organizzare i lavoratori9. E riaffermò:«Dunque, o amici, io vi ripeto ancora: non v’immischiate, fate da soli! [...] C’è soprattuttoda far questo: rendere giustizia alla classe dei lavoratori in modo che possano vivere di-gnitosamente da uomini liberi e indipendenti: educare poco a poco l’animo dei lavoratori,educare la democrazia nello spirito della sincerità, della responsabilità, della eguaglianza,del rispetto ai valori reali di ogni essere che è nel mondo e nella società»10.Nel congresso cattolico calabrese di Gerace del 5-8 ottobre 1908, il col-laboratore di don Carlo don Francesco Pizzuti tentò di far accettare questavisione in tutto l’ambito regionale. Prendendo la parola, infatti, egli so-stenne l’opportunità di escludere i possidenti dalle casse rurali per salva-guardare gli interessi dei lavoratori11. La richiesta non fu accolta dairappresentanti delle altre diocesi e rimase confinata in quella di Cosenza,ma anche qui non fu rispettata ovunque.2.2. Ideale cristiano dell’amore del prossimoDon Carlo affermava, inoltre, che i lavoratori avrebbero avuto la forzadi assumere la responsabilità del proprio sviluppo solo se fossero stati ani-mati dal grande ideale religioso e morale del Cristianesimo, proposto daGesù Cristo con l’invito ad amare Dio e ad amare il prossimo come se stessi,perché «senza una grande e feconda idealità penetrata nelle coscienze,nessuna istituzione può nascere o sorreggersi a lungo»12.«Solo Gesù Cristo col suo Vangelo e con la sua grazia vi rende fratelli sinceri ed aman-tissimi; e però accorrete in quelle società in cui lo spirito del nostro Divin redentore aleggiaed impera. In esse troverete la pace, la concordia, la schiettezza, l’amore, perché dove èGesù Cristo ivi è ogni bene»13.«L’operaio che lavora, con la coscienza del cristiano, non è il bue che trascina, sui campi,l’aratro, contento di una scorpacciata di fieno: non è lo schiavo, strumento cieco nelle manidel padrone che ne sfrutta i sudori e le vigorose energie. L’operaio cristiano è il divino fa-legname di Nazareth, che il lavoro santifica con la preghiera, e nel segreto del cuore offre isuoi stenti ad onore del padre Celeste»14.

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9 A favore dei borghesi, in «Il Lavoro», 26 maggio 1906.10 Non v’immischiate, in «Il Lavoro», 24 agosto 1907.11 P. BOrzOmATI, Aspetti religiosi e storia cit. 19702 , p. 293; LILIum, Congresso regionale cat-tolico a Gerace Superiore, in «Stella dell’Jonio», 6 novembre 1908; Il congresso regionale cat-tolico di Gerace, in «Gazzetta di messina e delle Calabrie», 11 ottobre 1908, p. 2.12 Le leghe del lavoro, in «La Voce cattolica», 29 luglio 1901.13 DEmOFILO, Operai unitevi!, in «La Voce cattolica», 22 gennaio 1899.14 Il ferro convertito in oro, VC, 22 gennaio 1900.

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E aggiungeva:«Il Cristianesimo è una forza. una forza che non si vede, ma si sente nell’anima; unaforza che, come quella del treno, viene dal fuoco, cioè dall’amore; una forza divina che puòanimare e muovere con rapidità meravigliosa le più potenti organizzazioni del lavoro, epuò trasfondere una vita nuova in tutte queste masse pesanti di popoli, che ora dormonosotto il giogo della miseria e del male. Il Cristianesimo è l’anima grande e divina delle cose:è anima di verità perché è luce; è anima di giustizia, perché la giustizia esso vuole comebase del suo regno; è anima di fraternità universale, è anima di liberazione e di reden-zione»15.un giovane sacerdote suo amico ammoniva: «il cristiano, degno di tal nome, non confonde le idee con delle persone: votato al suoideale soffre per esso ed odia ogni opera che tenterebbe di soffocarlo, ma non odia le per-sone che al suo ideale si oppongono»16.2.3. SolidarietàNella visione cristiana di don Carlo la solidarietà era semplicementel’attuazione sul piano della vita sociale dell’amore del prossimo insegnatoda Gesù Cristo:«Il rimedio più efficace ai mali maggiori - la miseria e la corruzione morale - che afflig-gono oggi il ceto degli operai è indubbiamente l’unione salda, serrata, resistente, di tutti ifigli del popolo intorno al centro della vita e della libertà: intorno a Gesù Cristo viventenella sua Chiesa. [...] Operai, unitevi e sarete forti! unitevi in Cristo - vostro amico e vostrofratello [...] Dalla vostra unione verrà, insieme, il risorgimento morale ed economico delleclassi operaie, e la salute dell’intera società»17.«Solo le associazioni cattoliche possono redimere il popolo da questa abominevole ser-vitù. Perciò il vincolo dell’amore e della fratellanza cristiana deve unire in lega compatta ilpopolo per potere elevarsi all’altezza a cui l’ha designato il Cristianesimo»18.«Se ogni operaio cattolico si studiasse a fare intendere ai suoi compagni il precettoevangelico dell’amore fraterno, noi grado a grado, vedremmo sparire dal ceto dei lavoratoriquel freddo egoismo, che li tiene divisi e però schiavi della miseria, dei pregiudizii, dell’in-gordigia altrui: ucciso l’egoismo, vedremmo rifiorire quello spirito di solidarietà fra gliumili, al quale è legata la risurrezione morale ed economica dei nullatenenti»19.E nel 1913 don Carlo confermò la solidarietà come finalità educativadelle leghe:

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15 Quindici maggio, in «Il Lavoro», 15 maggio 1905.16 FIDENS, Lotte generose, in «Il Lavoro», 4 novembre 1905. Fidens era lo pseudonimodel sacerdote don Francesco Pizzuti (Spezzano Piccolo CS 1884 - San Pietro in Guarano1963), allora ancora seminarista e nipote dell’omonimo parroco del paese.17 DEmOFILO, Il dovere degli operai, in «La Voce cattolica», 12 giugno 1899.18 L’unione fa la forza, in «La Voce cattolica», 15 luglio 1900.19 La propaganda, in «La Voce cattolica», 2 dicembre 1900.

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«Le nostre Leghe hanno per principale scopo di sviluppare lo spirito di solidarietà ed’iniziativa per il miglioramento economico e morale dei lavoratori; e con l’aiuto di Dio,che non fa mancare la sua grazia a chi lavora per il bene, speriamo di riuscirvi»20.2.4. CooperazioneIl valore della cooperazione costituiva la conclusione logica e operativadella proposta e dell’azione di De Cardona. A tal fine don Carlo proponevadi costituire innanzi tutto in ogni comune una lega del lavoro, poi una coo-perativa di credito (Cassa rurale) per raccogliere il denaro necessario enon dipendere in tal modo dall’usura o dalla pressione di forze estranee.Il denaro raccolto dalle casse rurali avrebbe dovuto essere utilizzato so-prattutto per finanziare cooperative di consumo e cooperative di produ-zione e lavoro.«una Cassa rurale, col suo minuscolo capitale, è una catapulta contro l’usura - ed è an-cora un’altra cosa molto più importante: è una prima cellula vivente nella massa amorfa equasi inerte (almeno rispetto alla società) dei volghi campagnoli. [...] un mezzo sempre piùforte e quindi più atto a soddisfare i bisogni non personali soltanto. I piccoli e felici espe-rimenti accrescono la fiducia dei compagni e insieme il sentimento di una forza che nonavrebbero se fossero divisi, che hanno perché uniti e d’accordo: ringagliardita così la co-scienza di classe, nasce in quei petti, ricchi di intatte e fresche energie, lo slancio verso piùalte e degne mete di progresso civile»21.«Ebbene, amici operai, noi ci stiamo sforzando a raccogliere queste forze, ad ordinarle,a disciplinarle. Ed ecco le cooperative, ecco le leghe, ecco le casse rurali, ecco la propagandanostra»22.«Noi non vi nascondiamo che le nostre fiorenti cooperative hanno di mira l’educazionecivile e cristiana del popolo, ma vogliamo pure che questo poderoso ordinamento di leghesia, nelle mani dei lavoratori, strumento di difesa e di liberazione»23.«Il denaro è come il fiume, le Casse rurali sono i canali sicuri e le macchine possentiche lo trasformeranno in luce di civiltà e in ricchezza per le classi povere, per il popolo, nelquale oggi è la miseria e il deserto»24. «Pensate che con le sole Casse rurali, si riuscirà piano piano a creare una potenza eco-nomica grandiosa, nelle mani degli operai. Forse non passeranno che pochi anni e una vitanuova comincerà nei nostri paesi e nella Calabria»25.«Accrescere, poco a poco, anno per anno, la ricchezza della Calabria, ecco il nostrosogno, e non solo la ricchezza materiale, ma la ricchezza morale, ma la ricchezza civile, lagrandezza d’animo, lo spirito del bene, la luce del pensiero»26.

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20 Che cosa è una Lega del Lavoro, in «Il Lavoro», 8 marzo 1913.21 Il bene delle cooperative, in «La Voce cattolica», 25 novembre 1902.22 Raccogliere e ordinare, in «Il Lavoro», 11 agosto 1906.23 Ai lavoratori, in «Il Lavoro», 9 febbraio 1907.24 La ricchezza di un fiume, in «Il Lavoro», 11 maggio 190725 In treno, in «Il Lavoro», 17 agosto 1907.26 Siamo pezzenti?, in «Il Lavoro», 26 ottobre 1907.

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«mediante le Casse rurali, il denaro dei contadini, degli operai calabresi, rimane in Ca-labria, rimane nei piccoli paesi della Calabria nelle mani dei contadini e degli operai cala-bresi, e fruttifica a beneficio della Calabria, dei paesi della Calabria, del popolo calabrese.[...] Vedete le Cooperative, le Case operaie, i prestiti numerosi fatti a contadini e artieri -che invano avrebbero sperato un aiuto dalle grosse banche. [...] Così noi porteremo un con-tributo prezioso, tangibile, decisivo alla redenzione economica delle nostre terre e con que-sto semplice mezzo: le Casse rurali e le Cooperative commerciali e industriali»27. 2.5. Competenza tecnicaLa difficoltà di fare accogliere la tesi di accettare nelle leghe e nelle coo-perative soltanto lavoratori nasceva dalla convinzione che l’analfabetismodiffuso fra di essi e la loro mancanza di una competenza tecnica sul pianodello sviluppo agricolo, industriale e commerciale li rendeva incapaci diagire. In risposta don Carlo obiettava che la necessaria competenza tecnicapoteva essere facilmente ottenuta assumendo come dipendenti pagati itecnici necessari, ma che per lo sviluppo civile e sociale dei lavoratori eranecessario lasciare nelle loro mani il compito direzionale sul piano sociale.«una cooperativa - tanto più se è una banca - in cui gli operai ci stanno come zavorraper far peso, magari nelle elezioni, - non so quanto può giovare alla educazione civile delpopolo e a risvegliare nelle anime buone e sincere del popolo, lo spirito di solidarietà, ilsenso della responsabilità, la fiducia nell’avvenire. [...] La competenza si acquista, tanto daigalantuomini, quanto dagli operai, con l’esercizio e con l’aiuto - convenientemente pagato- dei ragionieri di professione»28. Nel 1913 una cooperativa della Lega di San Pietro in Guarano, finanziatadalla Cassa rurale federativa di Cosenza e dalla Cassa rurale cattolica delmedesimo Comune, inaugurò una centrale idroelettrica sul fiume Arenteper assicurare la produzione e la distribuzione dell’energia nei cinque co-muni di San Pietro, Lappano, rovito, Celico e Spezzano Grande. Questo fattodimostrava la validità delle organizzazioni cooperative di soli lavoratoripromosse da don Carlo e la possibilità di operare mediante l’utilizzazionedi tecnici competenti. Le attrezzature necessarie per la centrale erano stateacquistate dalla Ganz di Budapest, e per il suo montaggio era giunto ancheda Budapest un ingegnere accompagnato da un operaio ungherese29.Don Carlo colse l’occasione dell’inaugurazione per lodare la capacitàdella Lega e la possibilità di trasformare la Calabria:

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27 Il denaro del popolo Calabrese al popolo Calabrese, in «Il Lavoro», 2 maggio 1908.28 Le cooperative, in «Il Lavoro», 1 aprile 1905.29 Nel 1942 ho conosciuto personalmente a Cosenza questo operaio, biondissimo e dicarnagione rossastra, che si era fermato e sposato a Cosenza e lavorava nel mulino “Leo-netti” in via dei martiri, dove lavorava anche mio padre. Il mulino non esiste più ed ora èstato trasformato nella sede di una scuola superiore.

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«Pochi uomini del popolo, animati da un coraggio straordinario, a furia di sacrifici, sonoriusciti a compiere in meno di un anno un’opera che poteva costare anni di lavoro. Hannocreato una impresa industriale, moderna, utile al popolo, rimunerativa. Hanno utilizzato abeneficio dei nostri paesi buona parte di quelle grandiose forze naturali, che oggi ancora,aspettano di essere sfruttate dai forestieri. Il loro è un esempio caratteristico di quello chei nostri lavoratori e i nostri capitali possono dare, operando nella stessa nostra provincia»30.3. L’azione educativa e organizzativa di don Carlo e la crisi degli anni ’30.L’azione educativa e organizzativa di don Carlo ebbe un notevole suc-cesso. A poco a poco si costituirono alla sua presenza o per suo influssoindiretto molte leghe del lavoro comunali. Secondo la situazione localeesse promossero la costituzione di cooperative di credito (casse rurali), diproduzione e lavoro, di consumo. mettendo insieme le limitate risorse fi-nanziarie dei singoli lavoratori, le casse rurali offrirono prestiti a basso in-teresse ad essi e alle loro cooperative di produzione e lavoro. In tal modoli affrancarono dagli imprenditori che li sfruttavano mediante paghe ri-dotte e orari di lavoro eccessivi. A loro volta le cooperative di consumo con-sentirono di acquistare a prezzo ridotto sementi, concimi, attrezzi dilavoro, prodotti alimentari ecc. e in qualche caso raccolsero i prodotti agri-coli e li vendettero direttamente a grossisti di luoghi lontani. un esempiodi questa operazione fu la vendita dei fichi secchi della Valle del Crati in-viati a marsiglia dal 1907 in poi31.Le Casse rurali si svilupparono rapidamente. Nel 1923 aderivano allaCassa rurale federativa di Cosenza 400 soci e 90 casse rurali, delle quali78 della sua provincia e 12 di quella di Catanzaro32. La situazione migliorò

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30 Inaugurazione di un impianto idroelettrico, in «Il Lavoro», 28 giugno 1913.31 Coooperative, in «Il Lavoro», 28 settembre 1907.32Casse rurali della provincia di Cosenza aderenti alla Federativa: Acquappesa, Acri, Amen-dolara, Aprigliano Guarno, Aprigliano Vico, Belvedere marittimo, Bisignano, Bocchigliero,Bonifati, Calopezzati, Campana, Cariati, Carolei, Casole Bruzio, Cassano Jonio, Castiglione Co-sentino, Castrolibero, Castrovillari, Celico, Cerisano, Cerzeto, Cetraro, Civita, Colosimi, Cori-gliano, Crosia, Diamante, Dipignano, Domanico, Fagnano Castello, Firmo, Fuscaldo, Grimaldi,Laino Borgo, Lappano, Lattarico, Longobucco, Lungro, Luzzi, mandatoriccio, mendicino, mon-talto uffugo, morano Calabro, mormanno, Nocara, Oriolo, Paludi, Paola, Parenti, Paterno Ca-labro, Pedivigliano, Pietrafitta, rende, roggiano Gravina, rogliano, rose, roseto Capo Spulico,rossano Calabro, rota Greca, rovito, Sant’Agata d’Esaro, San Benedetto di San Pietro in Gua-rano, San Benedetto ullano, San Demetrio Corone, San Fili, San Giovanni in Fiore, San Lucido,Santa maria Le Grotte, San Vincenzo La Costa, Sangineto, Saracena, Sartano, Serra Pedace,Spezzano Albanese, Spezzano Grande, Terravecchia di Cariati, Torano Castello, VaccarizzoAlbanese. Della provincia di Catanzaro: Belvedere Spinello, Caccuri, Casino, Cirò marina, CiròSuperiore, Crucoli, melissa, Petilia Policastro, Savelli, Soveria mannelli, umbriatico e Verzino(pagina pubblicitaria, in “Il Lavoro”, 1923, n. 1 e successivi, p. 4).

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ulteriormente e al 31 dicembre 1928 la Federativa era al 2° posto in Italiaper i prestiti concessi e al 3° per i depositi raccolti33.La crisi economica mondiale degli anni ‘30 colpì duramente le casse ru-rali, ma ciò avvenne soprattutto per una decisione governativa. Nel 1926,infatti, per combattere la forte inflazione del periodo il Governo con l’art.2 del r.D.L. 6 novembre 1926, n. 1831, trasformò i Buoni del tesoro in cir-colazione in titoli di rendita al 5%, non soggetti a conversione prima dellafine del 1936. La Cassa rurale federativa di Cosenza aveva investito inBuoni del tesoro 25 milioni di lire sui 38 milioni che aveva in deposito, ese li trovò bloccati per dieci anni. Nulla accadde inizialmente, perché vi erascarsa richiesta di investimenti; ma la crisi degli anni ‘30 e il panico che sidiffuse per il fallimento di molte banche cosentine spinsero i depositantia ritirare i propri depositi. rimasta con poca liquidità e pressata dai ri-chiedenti, la Cassa rurale federativa di Cosenza fu costretta a vendere sot-tocosto i Buoni del Tesoro. Il risultato finale inevitabile, che aveva giàcolpito anche le ricche banche cosentine, fu la liquidazione. Durante la crisi emerse la validità della proposta di De Cardona. Il man-cato rispetto del criterio di ammettere fra i soci soltanto dei lavoratoriaveva indebolito in varie Casse rurali il rigore nella concessione dei pre-stiti; in altri casi i soci non avvertirono la necessaria solidarietà e si preci-pitarono a chiedere rimborsi.Dopo la crisi, sembrava che il pensiero e l’opera di don Carlo De Car-dona fossero stati definitivamente seppelliti. Invece nel dopoguerra, a par-tire dagli anni ‘50, il miracolo economico italiano di quel periodo trascinòcon sé la ripresa delle casse rurali, che nel frattempo avevano assunto perlegge (Testo unico 26 agosto 1937) la denominazione di Casse rurali e ar-tigiane. Dopo la nascita e lo sviluppo della Comunità europea, la riformaintrodotta dal decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, modificò leleggi in materia creditizia e le assimilò alle altre strutture bancarie. Persegnalare questa notevole modifica legislativa e il relativo ampliamentodelle loro competenze le singole casse rurali hanno dovuto assumere perlegge la denominazione di Banca di credito cooperativo. Tuttavia, nono-stante la novità, esse hanno mantenuto in buona parte lo spirito originarioe le strutture di collaborazione che avevano già costruito in precedenza.

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33 PrESTITI: Trento L. 89.566.677,30; Cosenza L. 44.533.987,77. DEPOSITI: Trento L.156.744.198,27; Bolzano L. 85.250.446,11; Cosenza L. 72.694.446,15 (G. D. mICELI, Le casserurali italiane al 31 dicembre 1928, in “La Finanza cooperativa”, III (1930), fasc. 1, pp. 3-7).La Calabria, a sua volta, si collocava al 5° posto in ambedue le classifiche fra le regioni (ibi-dem).

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4. L’evoluzione della società calabrese nella seconda metà del ‘900.Il notevole sviluppo economico iniziato dopo la fine della secondaguerra mondiale aveva fatto sperare ai calabresi che anche la Calabriaavrebbe partecipato allo sviluppo dell’Italia insieme alle altre regioni. Tut-tavia ciò non è avvenuto, e, anche se in modo diverso, la regione non solocontinua a rimanere sottosviluppata ma, per certi versi, è peggiorata.L’emigrazione continua come nel primo ‘900 e colpisce pesantemente tutti.I giovani laureati che avrebbero dovuto creare una classe imprenditoriale,sono emigrati come gli altri e continuano a farlo ancora oggi. La produ-zione agricola è fortemente diminuita per l’abbandono quasi generalizzatodella lavorazione della terra, nonostante la disponibilità di nuove macchineagricole capaci di ridurre fortemente la fatica fisica degli agricoltori. La co-struzione dell’autostrada milano-reggio Calabria, che avrebbe potuto fa-vorire la vendita dei prodotti artigianali calabresi al Nord, ne ha inveceridotto la produzione e la vendita, perché ha favorito il trasporto e la ven-dita in Calabria dei prodotti della piccola e media industria del Nord.Le cause di questo fenomeno sono molteplici, ma indubbiamente con-tinua a rimanere al primo posto l’incapacità della classe politica ed eco-nomica calabrese di rinnovare la propria mentalità, di liberarsi del propriocomplesso d’inferiorità e di acquisire una visione complessiva e unitariadei problemi regionali e meridionali. Queste due caratteristiche sono ovviamente intrecciate tra di loro e in-cidono insieme su ogni problema. Ogni richiesta al governo nazionale, in-fatti, è stata sempre presentata non come un problema nazionale darisolvere, ma come se si chiedesse una concessione particolare. Ogni pro-blema dà origine a una lotta tra istituzioni pubbliche locali per ottenerepiù delle altre, senza mai rendersi conto che solo l’unità e la condivisionepossono risolvere i problemi locali e generali. un vecchio proverbio cala-brese afferma: «Voglio che il mio vicino sia ricco, perché anche se non mi dàqualcosa almeno non mi chiede niente». Ogni classe dirigente locale, invece,raramente sostiene le richieste del vicino; anzi in vari casi, per una stranarivalità invidiosa, cerca di impedire che il vicino ottenga qualche miglio-ramento per non rimanere indietro. Tutto il contrario della solidarietà pro-posta ai lavoratori calabresi da don Carlo De Cardona.Gli esempi di questa incapacità politica e sociale non mancano:a) I forti danni prodotti nel 1951 alla zona ionica della provincia di reg-gio da una grave alluvione avevano stimolato il Governo nazionale a pre-sentare un apposito disegno di legge per sanare il dissesto idrogeologicodella regione e risolvere altri problemi. La classe politica reggina si oppose

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fortemente a questo ampliamento e ottenne che l’intera somma prevista,200 miliardi, fosse spesa soltanto per la sua provincia. Conclusione: diecianni dopo fu calcolato che l’addizionale “pro Calabria” approvata per fi-nanziare i lavori aveva raggiunto un introito di 1.200 miliardi, ma, comestabilito dalla legge, nella regione erano stati spesi soltanto i 200 miliardiapprovati e l’eccedenza era finita nel bilancio nazionale. b) La strada 106 Ionica percorre da nord a sud l’intera Calabria. ma néi comuni direttamente interessati, né le province, né la rappresentanzaparlamentare hanno mai intrapreso un’azione comune. Conclusione? Inu-tile esporla, è nota a tutti, perché continua a parlarsene ancora oggi dopoogni incidente stradale. Qualche anno fa, la somma prevista per il miglio-ramento della 106 è stata stornata dal Governo del tempo per pagare al-l’Europa le multe inflitte ai produttori di latte del Nord. Nessun movimentounitario di protesta.c) L’istituzione della regione Calabria avrebbe dovuto stimolare ricer-che e dibattiti per la redazione e l’attuazione di un piano complessivo re-gionale di sviluppo. Stimolò, invece, soltanto una feroce lottacampanilistica per la scelta delle sedi del capoluogo di regione, dell’uni-versità e del centro siderurgico. Ognuno voleva tutto per sé. E le strampa-late conclusioni sono sotto gli occhi di tutti: uffici centrali regionali divisitra reggio e Catanzaro; tre università con pochi corsi di laurea ciascuna;impossibilità di costruire il centro siderurgico perché queste istituzionierano già allora in crisi in tutta l’Italia. Il porto di Gioia Tauro, iniziato acostruire per il centro siderurgico, fu abbandonato; ma fortunatamentedopo alcuni anni la sua costruzione fu ripresa grazie all’iniziativa di alcuneindustrie straniere che ne avevano compreso l’utilità per il traffico petro-lifero mondiale. Tuttavia anche in questo caso la classe politica calabresenon ne comprese il valore generale e non si preoccupò di sollecitare la co-struzione di una adeguata rete ferroviaria e stradale di servizi.d) I danni dell’incapacità della classe politica ed economica calabresenon sono solo questi. mentre altre regioni meridionali (come la vicina Ba-silicata) hanno progressivamente migliorato la loro situazione economicae sociale, grazie all’opera intelligente e unitaria della loro classe politica, ipolitici calabresi hanno saputo soltanto continuare nell’antica azione clien-telare, contribuendo a distruggere quasi totalmente l’artigianato locale.Infatti, invece di aiutare gli artigiani ad aprirsi a nuove produzioni e crearelentamente piccole e medie industrie, i parlamentari calabresi hanno of-ferto loro posti clientelari. I calzolai e i falegnami, pur possedendo notevoliabilità tecniche, sono stati invece assunti come bidelli nelle scuole statali;i sarti come applicati di segreteria, i manovali come operai forestali ecc.

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Analogamente l’agricoltura è stata abbandonata a se stessa e gli agricoltorisono scesi nelle città o sono emigrati fuori regione. e) un notevole segno di incapacità è venuto anche da altre istituzioni.Verso il termine degli anni ‘50 le industrie del Nord, gonfie di emigrati me-ridionali e appesantite dai connessi problemi di una emigrazione tumul-tuosa, iniziarono a pensare a una delocalizzazione della loro produzionenel Sud. A ciò erano indotti anche dal fatto che la mano d’opera calabreseera molto meno costosa perché apparteneva all’ultima fascia salariale (l’ot-tava) nella quali erano divisi i salari nazionali. I sindacati operai nazionali,dominati dagli operai del Nord, avvertirono il rischio di perdere posti dilavoro nelle loro regioni e iniziarono subito un’azione per abolire le fascesalariali e unificare in tutta l’Italia il costo del lavoro a quello della fasciapiù alta. I sindacati del Sud non si accorsero della trappola e sostenneroquesta azione, pensando soltanto all’incremento salariale del quale avreb-bero goduto quelli che già lavoravano. Conclusione: il Sud perse una ma-gnifica occasione per l’industrializzazione e i loro figli dovettero emigrareal Nord (o all’estero) e continuano a farlo ancora oggi. 5. Validità e possibilità della proposta di don Carlo De Cardona oggi

5.1. Come emerge dall’esperienza di questi ultimi decenni, ai calabresi èmancato sia l’impegno a perseguire e gestire il loro sviluppo, sia la solida-rietà per sostenersi reciprocamente. In pratica sono venuti meno proprioi due principi dello sviluppo autogestito e della solidarietà, sui quali donCarlo De Cardona aveva costruito la sua opera di sviluppo nel primo ‘900.Questi principi tuttavia, sono validi ancora oggi, e possono costituire il fon-damento di uno sviluppo durevole. Nel suo tempo don Carlo De Cardona dovette superare l’analfabetismodiffuso nelle classi povere, la mancanza quasi generalizzata di Scuolemedie e superiori e l’assenza di università. Oggi questo vuoto non esistepiù, le scuole sono diffuse dovunque, vi sono tre università e, oltre a ciò, larete di Internet collega con facilità la regione a tutto il resto del mondo.Non c’è giovane che non abbia un telefonino; e la rete di Internet, già moltodiffusa, continua a diffondersi con rapidità. La Cina, il Giappone e l’Americasono oggi più vicine di quanto ieri lo fossero il Lazio o la Puglia. mentreieri i genitori di vari alunni di mia madre, maestra elementare, rifiutavanol’invito a far frequentare la scuola ai loro figli, affermando che essa nonserviva perché in futuro avrebbero dovuto semplicemente zappare; ogginon c’è genitore che non desidera una laurea per il figlio. La rete di Internetcollega con estrema facilità persone che non si sono mai incontrate e forse

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non si incontreranno mai, e quindi facilita lo sviluppo uno spirito unitario.Non c’è ragazzo che non abbia un parente della sua età o di età molto inol-trata che non viva in Alta Italia o in un paese estero, e che quindi non pos-sieda o non possa ottenere informazioni utili. E, soprattutto, non c’èragazzo che non desideri migliorare, anche se poi non sappia come utiliz-zare queste possibilità.5.2. I principi decardoniani di sviluppo autogestito, di solidarietà ecc. pos-sono dare un forte contributo per trasformare queste possibilità in realtà.E vi sono già vari esempi.a) Pochi anni fa il vescovo di Locri Giancarlo Bregantini, originario delTrentino, con una azione intelligente ha diffuso la conoscenza di questiprincipi sia personalmente, sia organizzando contatti frequenti dei giovanilocresi con esperienze produttive trentine. E i risultati si sono avuti: datempo sono state create alcune cooperative agricole che hanno curato pro-duzioni confacenti con la zona montuosa locrese e le hanno commercia-lizzate in collaborazione con analoghe istituzioni trentine.b) La BCC mediocrati, nata dalla recente fusione di casse rurali costi-tuite a suo tempo da don Carlo, già mette annualmente a disposizione sti-moli finanziari per spingere i giovani a iniziare attività imprenditoriali inproprio.c) In vari paesi intorno a Cosenza è iniziata la produzione e la venditadi pasta prodotta sul luogo da imprese familiari. Essa è ottima, sia comeconfezione estetica, sia come qualità.d) Su un quotidiano nazionale è apparso recentemente un breve arti-colo dal titolo decardoniano molto significativo: «Uniti abbiamo salvato ilnostro posto34». Quindici operai, infatti, dopo la chiusura della fabbrica dibirra nella quale lavoravano, hanno costituito personalmente la coopera-tiva “Birrificio Messina” per continuare in proprio la produzione.Perché non si stimolano e non si aiutano i dipendenti delle numeroseaziende in crisi a rilevare la propria fabbrica senza attendere il salvatoreesterno, equipaggiato da contributi statali da sfruttare per qualche mesee poi andarsene? Forse senza saperlo, gli operai messinesi hanno accoltol’invito lanciato da don Carlo De Cardona nel 1905: «Lasciamo ad altri i la-menti e le discussioni inutili, [...] noi, o amici, sforziamoci a suscitare edorganizzare le nascoste energie dei lavoratori»35.

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34 Uniti abbiamo salvato il nostro posto, in «Avvenire», 10 luglio 2015, p. 20.35 Fra le rovine, in «Il Lavoro», 7 ottobre 1905.

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Uno studio sulla vita interna della comunità e delle istituzioni ecclesiali,in rapporto alla complessità narrativa della società civile, può certamentetrovare utile esperienza nell’analisi di fonti ufficiali come le Relationes adLimina del XX secolo, specialmente in riferimento all’azione pastorale deivescovi di fronte al dinamico e travagliato incedere degli eventi storici. all’inizio del Novecento, il processo di rinnovamento religioso che siera irradiato, con variabile intensità, in tutte le diocesi italiane, aveva coin-volto anche la Calabria, a cui si era accompagnato la presenza di alcunipresuli provenienti dal centro – nord, diversi e differenti per tradizione econdizioni socio – economiche1. I vescovi calabresi, nella loro analisi socio– religiosa locale, individuarono alcune direttive comuni, necessarie a unareligiosità nuova e vitale; tra essi rilevarono la catechesi dei fedeli e la ri-forma dei Seminari diocesani2, a fronte di una comunità sicuramente reli-giosa e fedele ma impregnata di sentimentalismo devozionale edesternazione formale del culto, come si leggeva nella trattatistica parene-tica e si rilevava nelle Visite pastorali, assumendone una prospettiva arti-colata e complessa, incidente nel territorialismo pastorale e caratterizzan-te il rapporto centro/periferia nel governo della diocesi.anche l’azione pastorale degli arcivescovi di Cosenza, mons. CamilloSorgente e mons. tommaso trussoni, s’inseriva all’interno del processoinnovativo, incentrandosi su una migliore istruzione del clero e una reli-gione del popolo scrostata dal formalismo e dalla crassa ignorantia rerumdivinarum3 che, spesso, sfociava in una religiosità inadeguata. L’impegno

La situazione socio-religiosa dell'Arcidiocesi di Cosenzaattraverso le Relationes ad Limina (1910-1926)

Vincenzo Antonio Tucci

1 PIetro BorzomatI, Chiesa e società meridionale. Dalla restaurazione al secondo dopo-guerra, Studium, roma 1982, p. 40.2 Id., Aspetti religiosi e storia del movimento cattolico in Calabria (1860-1919), rubbet-tino, Soveria mannelli 1993, p. 84.3 archivio Storico diocesano di Cosenza (aSdCS), Relationes ad Limina 1921, cart. 1.2.13fasc. 60.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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e la costanza degli arcivescovi nel perseguire azioni di rinnovamento tra-spaiono chiaramente nelle Relationes ad Limina4, inviate alla Santa Sedein un periodo di grande rivolgimento storico (1910 – 1926), facendoneperdere il carattere burocratico e anonimo e diventando espressione dellapersonalità del pastore svolgente il suo ministero in un determinato mo-mento storico5. L’accurata sintesi assume, quindi, un carattere di preci-sione oggettiva6 e di informazioni che, utilizzate nella loro serialità storica7,come parte di un sistema giuridico – pastorale, e applicazione diacronica,possono essere efficaci per un’analisi articolata nei e tra i diversi contestistorico – sociali8; dunque, in esse si rispecchiano le condizioni religiosedella società meridionale tra il periodo pre – bellico e l’avvento della dit-tatura fascista; la stessa articolazione interna risente delle fasi di transi-zione storica, conglobando aspetti critici ed evidenziando elementi cheavevano messo a dura prova l’azione pastorale dei vescovi, specie di frontea sommovimenti sociali che ne riposizionavano le componenti. dunque,le Relationes costituiscono una massa documentaria di rilievo9 sia per la

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4 La relazione era preceduta dalla Visita ad Limina Apostolorum fatta dall’ordinario per-sonaliter a roma, testimoniando il legame Pontefice/Vescovo e instaurando una mutua re-lazione visita/relazione che offriva un quadro della realtà controllata e governatadall’ordinario. La Visita aveva un profondo senso ecclesiologico, in quanto creava una vitalecircolazione tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, definita perichoresis, parago-nabile al movimento diastole – sistole, per mezzo del quale il sangue partendo dal cuoreverso l’estremità del corpo ritorna al cuore. (Gianfranco Ghirlanda, La Visita ad limina apo-stolorum, in «Civiltà Cattolica», III, 1989, pp. 259-268; Cfr. Georgică Grigorită, L’autonomieecclèsiastique selon la lègislation canonique actuelle de l’Eglise orthodoxe et de l’eglise ca-tholique, Pontificia Università Gregoriana, roma 2011, p. 379; 381). 5 adoLfo LoNGhItaNo, Le relazioni ad Limina della Diocesi di Catania (1595-1890), Studioteologico San Paolo, Catania 2009, p. 11.6 marIa marIottI, Istituzioni e vita della Chiesa nella Calabria moderna e contemporanea,Salvatore Sciacca editore, Caltanissetta-roma 1994, p. 61.7 anticamente, l’obbligo di informare, periodicamente, il Pontefice, attraverso la Visitaad Limina Apostolorum, sullo stato della propria diocesi era prassi praticata; fu istituzio-nalizzata con la costituzione apostolica Romanus Pontifex (20 dicembre 1585) di Sisto V(VINCeNte CàrCeL ortI, La visita ad limina apostolorum Petri et Pauli. Notas historicas desdesus origines hasta 1975, in «Questioni canoniche», milano 1984, 101-111. Id., Nota storicogiuridica, in Direttorio per la visita ‘ad limina’, Città del Vaticano 1988, p. 31-34. Cfr. Id., Hi-storia, derecho y diplomatica de la visita ‘ad limina’, Conselleria de Cultura, educacio iCiencia, Valencia 1990).8 roBerto P. VIoLI, Episcopato e società meridionale durante il fascismo (1922 – 1939),aVe, roma 1990, p. 112.9 PaoLo VIaN, Visite «ad limina»: lo sforzo di incarnare il Concilio di Trento nella vita delladiocesi, in «L’osservatore romano», 11 luglio 1993, p. 3. Cf. ermeNeGILdo CamozzI (a cura di),Le visite «Ad Limina Apostolorum» dei vescovi di Bergamo (1590-1696), 1, Provincia di Ber-gamo, Bergamo 1992.

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vita interna delle istituzioni ecclesiastiche, sia per gli aspetti politico – so-ciali e demografici e sia per la specificità della religiosità popolare10 di unterritorio, tanto che alcuni studiosi11 ne hanno sottolineato il valore qua-litativo – quantitativo e l’opportunità storiografica12; altri, invece, ne hannoridimensionato l’importanza13, essendo documenti ufficiali14; altri ancorahanno optato per una valutazione variabile del documento, secondo la me-todologia adottata15. Un confronto paritetico con documenti coevi certamente rafforza il lorovalore autentico16, come ad esempio la Visita apostolica di p. Pacifico, lacui analisi dimostra una coincidenza parallela nelle criticità e nelle positi-vità religiose con le Visite Pastorali, passaggio del ventennio successivo;infatti, scriveva mons. Sorgente nella relazione del 191017 «niente poi sullostudio e sulla disciplina sono state annotate eccetto quello che nella pre-cedente relazione o attraverso la relazione del Visitatore apostolico man-dato dalla Santa Sede, ritengo di aggiungere»; oppure un raffronto con leVisite Pastorali, passaggio obbligato delle relazioni18, come sarà ribaditonel Codice di diritto Canonico del 191719 e, in epoca contemporanea, da

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10 VICeNte CarCeL ortI, marIa mILaGroS, Visitas Pastorales y Relaciones ad Limina, Fuentespara la Geografia Eclesiastica, in «memoria ecclesiae, Subsidia», a. 6, oviedo 2007. Cfr. Gae-taNo StIGLIaNo, La diocesi di Anglona e Tursi attraverso le relationes ad limina apostolorum,amministrazione provinciale, assessorato alla Cultura, matera 1989.11 JoSePh SChmIdLIN, Die kirchlichen Zustände in Deutschland vor dem DreissigjahrigenKrieg nach den bischöflichen Diözesanberichten an den Heiligen Stuhl, vol. 3, herder, freiburg1908-1910.12 marIo CaSeLLa, Alla scoperta della religiosità dell’Italia meridionale, rubbettino, Sove-ria mannelli 2005, p. 52.13 JoSePh LoSerth, Recensione a Die Kirclichen Zustände in Deutschland vor dem Dreissig-jahrigen Krieg nach den bischöflichen Diözesanberichten an den Heiligen Stuhl, DeutescheLiteraturzeitung, in «revue d’histoire ecclesiastique», XI, 1910, pp. 125-130.14 PIetro CaIazza, Una fonte a responsabilità limitata. Le Relazione ad Limina tra meto-dologia e storiografia, in «rassegna Storica Salernitana», s.n. 28, 1997, pp. 43-77.15 ottaVIo CaVaLLerI, Visite pastorali e Relationes Ad Limina, in ≪associazione archivi-stica ecclesiastica≫, atti del XII Convegno degli archivisti ecclesiastici, Napoli, 3-6 ottobre1978, XXII-XXIII, quaderni 2, 1979-1980, pp. 99-128.16 La diversità di giudizio trova riscontro anche nelle motivazioni soggettive che pote-vano essere svariate, ad esempio, minimizzare su alcune questioni per non dare un quadrotroppo negativo oppure per la brevità della visita affidarsi a informazioni fornite. (m. Ca-SeLLa, Alla scoperta della religiosità cit. p. 53).17 Scritta a mano, la relazione, datata 11 gennaio 1910, è composta di sei fogli senzanumerazione. La firma autografa conclude la relazione. aSdCS, Relationes ad Limina, 1910,cart. 1.2.13. fasc. 58.18 Concilium Tridentinum, Sessio XXIV, 11 novembre 1563, Decretum de reformatione,can. III.19 Codex Iuris Canonici, typis polyglottis Vaticanis, roma 1918; can. 343-346.

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documenti ufficiali20, dimostra la similarità nella struttura analitica, laquale era accuratamente preparata in ogni sua fase21 e finalizzata alla co-noscenza della diocesi (i parroci compilavano un questionario prestam-pato sulla vita morale e religiosa della parrocchia22). Ciò che era esaminatoin occasione delle Visite confluiva, poi, nelle relazioni sotto forma di bilan-cio consuntivo (i cui dati oggettivi evidenziavano le varie situazioni, le dif-ficoltà, etc..) e rappresentava un momento di sintesi sia delle situazionidella diocesi e sia del suo ministero, facendo il punto sullo stato materialee formale della chiesa e sull’azione pastorale23.La lettura delle relazioni traccia, dunque, un quadro poliedrico e varie-gato nel quale, attraverso un’articolazione di giudizi24, si evidenzianoaspetti critici ed elementi positivi che s’inseriscono pienamente nel na-scente processo di rinnovamento25 e nella radicata e solida religiosità deifedeli fra tutti gli strati sociali. Già nel 1910 mons. Sorgente annotava comesebbene per la nequitia dei tempi ogni cosa sembrasse deteriorata, nel-l’arcidiocesi di Cosenza il popolo non integre corruptus est, non si trascu-rava la fede cattolica e le chiese erano frequentate, specie dalle donne.tuttavia, mali comuni ad altre regioni26 come la carenza di sacerdoti af-fliggevano l’arcidiocesi: pochi giovani abbracciavano la vita religiosa (pauciiuvenes clericali militiae se adscribunt); spesso i parroci servivano due par-rocchie e, a volte, anche i frati avevano la cura animarum. In precedenza, p. Pacifico, Visitatore apostolico (nov. – dic. 1907), scriveva:«Il popolo […] dell’archidiocesi è in fondo religioso e vuole il suo clero esemplare edattaccato al papa; ma la pratica della vita cristiana, se può dirsi sufficientemente estesanelle donne, è assai limitata negli uomini, i quali frequentano la chiesa solo materialmente,non curandosi della frequenza dei sacramenti e del precetto pasquale. Un popolo moltoinclinato a pompe esteriori, a processioni e feste solenni, ed è indifferente per tutto il resto;se talvolta accade che sia scosso da qualche straordinaria predicazione o missione, ricadeben presto nell’abituale sonnolenza e nella noncuranza dei doveri della vita cristiana»27.Se dal punto di vista testuale si percepisce la difficoltà tra la nuova

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20 Direttorio per il Ministero pastorale dei Vescovi: Apostolorum Successores, Libreria ed.Vaticana, Città del Vaticano 2004, nn. 221-225.21 NoëL CoULet, Les visites Pastorales, Brepols, turnhout 1977, pp. 34-44.22 aSdCS, Visite Pastorali 1914 – 1926, cart. 1.7.7. fasc. 40-49.23 m. marIottI, Istituzioni e vita della Chiesa nella Calabria, cit. p. 66.24 r. VIoLI, Episcopato e società meridionale durante il fascismo cit. p. 112.25 Ivi, p. 120.26 matteo BaraGLI, Visite pastorali in terra di mezzadria: il clero e le popolazioni contadinenella Toscana d’inizio ’900, in «ammentu», 2, 2012, pp. 200-218.27 Visita Apostolica di p. Pacifico, dei Somaschi, 1907.

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struttura, la narrazione diegetica e la complessità organizzativa, in realtà,nella formulazione prevale, quasi sempre, un esatto adempimento dei pro-pri obblighi e un’equilibrata formulazione di giudizi.L’ultima relazione di mons. Sorgente, pur coeva al decreto A Remotis-sima Ecclesiae di Pio X (31 dicembre 1909) non ne presentava l’Ordo ser-vandus, ma si strutturava in una breve introduzione e si articolava in novecapitoli28, riguardanti 1. lo stato materiale della chiesa, 2. le pertinenzedell’arcivescovo, 3 – 5. il clero secolare e regolare, 6. il Seminario, 7. le con-fraternite, 8. il popolo e 9. le facoltà dispensative; ad essa s’accompagnavauna missiva29 che ne documentava la complessità elaborativa e gli ostacolidell’adempimento; tuttavia già l’anno precedente era stata richiesta unaproroga al Card. de Lai, segretario della Congregazione Concistoriale, persovraintendere ai lavori del duomo e del nuovo Seminario30.

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28 In generale si seguiva il questionario redatto dalla Congregazione Concistoriale nel1725, riportato nel volume Benedictus XIV, De Synodo Dioecesana, Prati 1844, vol. XII, pp.682-686.29 aSdCS, Relationes ad Limina, 1910. Eminenza Reverendissima. Le compiego in questamia 1a relazione dei tre anni, avrei dovuto mandarla per il 20 dicembre p. p. ma non mi èstato possibile per una indisposizione subita. Infine offrendomi ai venerati comandi di Vo-stra Eminenza Reverendissima m’inchino al bacio della S. Porpora mentre con profondoossequio ed alta stima mi pregio confermarmi. D. Vostra Eccellenza reverendissima Cosenza12 gennaio 1910.30 IBIDEM. Lettera di mons. Camillo Sorgente.

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Il Duomo di Cosenza in una vecchia immagine (da web.tiscali.it/CosenzaWeb)

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Nel I capitolo l’arcivescovo riassumeva lo status dioecesis e confermava,in generale, quanto detto nelle precedenti relazioni non essendo avvenuticambiamenti sostanziali; poche erano le annotazioni aggiuntive, tra le qualiil costo oneroso del restauro della Cattedrale (quasi 336.000 lire) e la pre-carietà statica di molte chiese della diocesi per i terremoti31, sebbene fos-sero istruite con la necessaria suppellettile e il Santissimo custodito condecenza. Il numero dei canonici nella Cattedrale era ridotto a dieci ed eranopresenti due prebende canonicali, una delle quali era quella teologale. L’ar-civescovo risiedeva sempre nella Curia e, solo d’estate, si spostava per mo-tivi di salute. La Cresima era amministrata durante la Visita pastorale, ederano regolarmente avvenute le ordinazioni. In diocesi, era predicato con-tinuamente il Verbum Dei sia con esperti oratori (peritissimos oratores), aspese dell’arcivescovo, e sia con missionari di provata virtù. Infine, il Sinododiocesano non era stato convocato per problemi organizzativi.Si erano prese molte precauzioni contro il malefico veneno del moder-nismo, anche se nessun sacerdote ne era infectus; la mancanza di un luogoidoneo, invece, impediva gli esercizi Spirituali, anche se si sperava di riu-nire i sacerdoti nel Seminario estivo dove non vi era periculum infectionisaeris che a Cosenza est timendum tempore aestivo. Il clero regolare era rappresentato dalle domenicane, dalle Cappucci-nelle, che vivevano sub clausura episcopali strictissime servata, dalle Suoredi Sant’anna, che si occupavano dell’ospedale e delle fanciulle orfane edalle suore della Crocefissione; tra gli ordini maschili: i minori, i minimi ei Passionisti che svolgevano un benefico ruolo nella diocesi. Per la tristitia temporum, era diminuito il numero degli studenti nel Se-minario (quasi a novanta), anche se il presule sperava nella costruzione delnuovo Seminario che, attraverso un’oculata gestione e amministrazione deiredditi e l’aiuto di benefattori, si stava edificando, per una spesa di quasi150000,00 lire, sebbene bisognasse ancora completare l’opera. al redditodel Seminario (2106,00 lire) si aggiungevano entrate dalle messe binate edalla celebrazione nei giorni non festivi per largitionem della Santa Sede. Incisivo, invece, era il giudizio sulle Confraternite; certamente si occu-pavano dei legati ed espletavano i sacramenti e il sacrificium missae, maalcune erano sottoposte all’autorità laica, tanto che spesso non era possi-bile minimamente investigandi auctoritati ecclesiasticae. Infine, il presule

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31 Il terremoto provocò moltissimi danni alle chiese, almeno venticinque secondo unaprima valutazione di mons. Sorgente; cfr. LUIGI INtrIerI, La Chiesa cosentina e il terremoto,in IGNazIo GUerra e aNtoNeLLo SaVaGLIo (a cura di) 8 settembre 1905. Terremoto in Calabria,aGm, Castrovillari 2006, p. 129 e ssg.

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chiedeva di poter avere la facoltà di dispensa sull’impedimento consan-guineo de tertio in quarto; accadeva spesso che si nascondesse l’impedi-mento, ma una volta scoperto, per non pagare la tassa, si contraevamatrimonio solo civilmente. Il 2 ottobre 1911, dopo trentasette anni alla guida dell’arcidiocesi diCosenza, moriva mons. Sorgente; per quasi due anni, fino all’ingresso delnuovo arcivescovo (17 maggio 1913), la diocesi fu retta dal vicario capi-tolare mons. federico Pirajino. Nel settembre del 1912 fu designato, qualenuovo arcivescovo di Cosenza, mons. tommaso trussoni, che, già nei primimesi del suo ingresso, si dedicò, con nuovo spirito pastorale, ad adottareprovvedimenti necessari32 (come la Visita Pastorale, iniziata nell’estate del191433, interrotta nel maggio del 191534 e ripresa nel giugno dello stessoanno), avvalendosi di tutta la sua esperienza di formatore e insegnantecome traspariva anche nella quotidianità con il clero e i fedeli35. La prima relazione di mons. trussoni, dopo la nomina ad arcivescovodi Cosenza, è del 191636 e si adeguava al decreto A remotissima37 del 1909;tra le innovazioni più importanti c’era l’obbligo della presentazione allaSede apostolica ogni 5 anni e non più tre (Can. I …omnes locorum Ordinarii[…] obligatione tenentur referendi singulis quinquenniis ad Summum Pon-tificem de statu sibi commissae dioecesis)38 e doveva essere completa inogni sua parte39.

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32 LUIGI INtrIerI, Dalla Cronaca del Frugali al Duemila. Aspetti e momenti della vita civilee religiosa di Cosenza, rubbettino, Soveria mannelli 2007, pp. 115 – 119.33 aSdCS, Visita Pastorale 1914. arcavacata, Casole Bruzio, Castiglione Cosentino, Ceri-sano, Cuti, Lappano marano Principato, mendicino, motta di rovito, San fili, San Vincenzola Costa, Santo Stefano di rogliano, Scarcelli di fuscaldo, Spezzano Grande, Spezzano Pic-colo, zumpano.34 Ivi, Visita Pastorale 1915. fuscaldo, Guardia Piemontese, malito, Paola e San Giovanniin fiore. 35 Ivi, Clero 1919-1933, cart. 1.7.15 fasc. 2. Numerosi sono gli appunti e le note provvi-sorie di mons. trussoni che continuamente annotava con precisione e dettaglio. 36 Ivi, Relationes ad Limina, 1916, cart. 1.2.13. fasc. 59. formata da venti fogli scioltisenza numerazione, è datata 16 agosto 1916. 37 Acta Apostolicae Sedis, a. II, vol. II, p. 15. Il decreto constava di un’introduzione e disette canoni che strutturava la Visita e la relazione; al canone VII si precisava che Visita erelazione non si dovevano confondere (non sint confudendae) con la Visita Pastorale, pre-scritta dal Concilio di trento sess. XXIV, cap. III de reform. 38 da computare dal 1 gennaio 1911; inoltre il canone IV stabiliva omnibus et singulispariter praecipitur ut, quo debent relationem exhibere, Beatorum Apostolorum Petri et Paulisepulcra veneraturi ad Urbem accedant et Romano Pontifici se sistant. decreto A remotissimaEcclesiae 31 dicembre 1909.39 Ibidem. Can. III. In prima cuiusque Ordinarii relationes ad singula quaesita, quae inadiecto Ordine continentur, distincte responderi debet..

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La relazione era intitolata De statu Ecclesiae Consentinae in VisitationeSS. Liminum facienda anno 1916 iuxta Decretum A remotissima Ecclesiaeaetate: constava di 16 capitoli (1. lo stato materiale della chiesa, 2. la fedee il culto divino, 3. ciò che è di pertinenza dell’ordinario, 4. la Curia dioce-sana, 5. il Clero, 6. il Capitolo, 7. le Parrocchie, 8. il Seminario diocesano, 9– 10. gli Istituti religiosi maschili e femminili, 11. il popolo dei fedeli, 12.gli Istituti di educazione, 13. le Congregazioni e le confraternite, 14. i legatie le elemosine, 15. le opere pie, 16. la diffusione di libri e giornali), per untotale di 150 quesiti declinati e articolati al loro interno, ai quali l’arcive-scovo doveva necessariamente rispondere. dopo il proemium relationis,seguivano le norme comuni divise in due paragrafi nei quali si specifica-vano le generalità dell’ordinario (Thomas Trussoni 60 annos natus Campi-dulcini (in Dioec. Comensi, in Provincia civili Sondriensi). Suscepi regimenArchidioecesis Consentinae die 12 mai 1913 per Procuratorem. Consecratusfui die 5 januarii 1913) e un giudizio generale sulle condizioni religiose emorali della diocesi, rispetto all’ultimo quinquennio (progressus vel regres-sus habitus sit); in esso, il presule descrisse una religiosità dei fedeli piut-tosto formale ed esteriore, frammista a superstizioni (quae superstitionempotius sapit); scriveva:«Ciò si deve attribuire principalmente all’ignoranza nelle cose spettanti alla religione,essendo il clero per niente sollecito all’educazione dei fedeli. ai sacramenti accedono pochie raramente, e nello stesso tempo di Pasqua in tutta la diocesi al massimo una decima partedegli uomini e la metà delle donne soddisfano il precetto; la maggior parte tuttavia dei nonsoddisfacenti si ritengono e vogliono dirsi cattolici. Nei giorni di festa la maggior parte cheassistono alla messa, ma poi si dedicano ai lavori agricoli. fino al punto in cui le condizionimorali rendono ampiamente praticabile il concubinato, così che non vi sia quasi nessunaparrocchia nella quale non ci sia più di un pubblico concubino; né si considera come cosaindecorosa, ma come cosa di uso comune indotta e quasi apprezzata».L’arcivescovo concludeva affermando de progressu vel regressu, cumsim novus dicere nescio. In diocesi il culto della fede cattolica era libero, ma a causa dei terremotio per mancanza di mezzi o incuria, molte chiese, anche parrocchiali, eranoancora in costruzione o con una suppellettile misera; tra l’altro, il popolo,spesso, trascurava la chiesa parrocchiale per prendersi cura di quella delle

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40 aSdCS, Visita al Clero 1914 – 1916, cart. 1.2.15 fasc. 1. Poco diffusi erano la tribuna,Il mattino, Il mulo, Libertà, La Croce, Idea Nazionale, L’Unione, L’Unione Cattolica di milano,L’Italia, Vera roma, Cronaca di Calabria. 41 IBIDEM.42 IBIDEM. Buona parte degli interrogati rispose di confessarsi ogni otto giorni, pochi unavolta al mese, ma vi erano alcuni che si confessavano anche più volte la settimana.

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confraternite. In generale, la condotta del clero era accettabile, almeno inpubblico, ed erano presenti sia lo spirito sacerdotale e sia la pietas, mentrel’arcivescovo temeva che, fra alcuni, si omettesse la recita del breviario eprevalessero interessi familiari. molti sacerdoti non leggevano giornali,altri solo giornali nazionali (il Corriere d’Italia, il Giornale d’Italia, l’UnitàCattolica, il Corriere della Sera, l’osservatore romano e Civiltà Cattolica)40; nelle elezioni politiche, poi, si indicava talvolta indifferentemente il suf-fragio a candidati verso cui vigeva o meno la Non expedit. Quasi tutti i sa-cerdoti portavano la veste talare, alcuni, però, in casa ne vestivano solo inparte, altri ancora in modo laico41; nella lettera pastorale inviata al clerol’8 febbraio 1914 il presule prescrisse la confessione octiduam, la cui te-stimonianza doveva essere inviata alla Curia, ma non tutti si conformaronoe alcune attestazione risultarono poco veritiere42. L’aggiornamento dei sa-cerdoti, considerato essenziale per il rinnovamento religioso, fu promossocon l’assegnazione di dodici casi morali all’anno ai quali rispondere periscritto e discuterli, poi, in una riunione vicariale, ma alcuni i vicari furonopoco solleciti nell’organizzare la discussione, mentre per gli esercizi spi-rituali, l’unica domus religiosa idonea era la casa della Congregazione delSS. redentore a Sant’andrea sullo Ionio in diocesi di Squillace, distantesette ore di treno43; infine, per i neo sacerdoti era stata istituita l’associa-zione Unione apostolica di cui era presidente d. antonio malomo, rettoredel Seminario. Il rapporto con il popolo generalmente era buono, sebbene propenso asospetti verso i parroci, tuttavia le maldicenze spesso erano prive di fon-damenti.Per la costruzione del nuovo Seminario vi era ancora un debito di28.638 lire col costruttore; l’edificio aveva una capienza di 150 alunni chepagavano annualmente 500 lire; c’erano solo due legati per alunni poverimentre altri erano esentati dal pagamento. Una parte del Seminario erastata occupata dai militari, mentre la casa per le ferie estive da profughitridentini. Gli studenti erano 57 nel Seminario e 10 in quello regionale.Quasi nulla era cambiato per gli ordini religiosi rispetto alla relazione dimons. Sorgente, ad eccezione di quattro suore dei Sacri Cuori di Gesù emaria che servivano nel rifugio di mendicità e di tre suore del Preziosis-simo Sangue a montalto Uffugo.Nel capitolo XI (de populo generatim, quesiti 114–124) il presule rico-

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43 Il presule si era molto impegnato per trovare un locale idoneo e aveva chiesto sia aifrati minimi, sia ai Passionisti e sia al Seminario, ma difficoltà oggettive ne impedirono ilrisultato.

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nosceva che il popolo era incline alla religione, ma in modo confuso e ge-nerico tanto che potius quam religionem superstitionem redoleat, intesacome ignorantia religionis, incrostata di devozionismo, frutto a sua voltadi condizioni storiche e sociali44, che faceva riempire le chiese per le no-vene dei Santi piuttosto che per la catechesi domenicale45. Il concubinatoera diffuso tanto che in nessuno destava meraviglia, anche se alcuni par-roci, talvolta, riuscirono a regolare le unioni46. Nei giorni di festa pochi la-voravano, la maggior parte si asteneva dai lavori sia in città sia incampagne; in genere, si osservavano l’astinenza e il digiuno, a Pasqua,però, da pochi uomini e donne. In generale, i Sacramenti della Confessionee della Comunione erano diffusi tra le donne rispetto agli uomini, come ri-sultava dai formulari dei parroci inviati all’arcivescovo; in realtà, la situa-zione era più complessa: in alcune comunità molti uomini delle campagnesoddisfacevano il precetto pasquale rispetto a coloro che abitavano nelcentro del paese47, in altri luoghi solo nelle solennità48 oppure si lasciavanodistrarre da aspetti della vita civile49; talvolta la mancanza di partecipa-zione era dovuta per la tipicità dei mestieri (pastori50, marinai51). Il batte-simo generalmente avveniva entro otto giorni52, ma non era raro che igenitori fossero negligenti anche per mesi e addirittura anni, ma pochis-simi erano coloro che lo proibivano. La celebrazione dei matrimoni avve-niva senza messa53. In generale, i rapporti con il potere civile erano buoni, mentre erano in-differenti con il Comune, anzi, spesso, si ostentava una certa ostilità, quan-tunque mai messa in pratica (namquam verae hostilitatis opera patravit,neque ausa est quid impedire). erano presenti in diocesi la massoneria (inaliquibus locis Dioecesis ut Paulae et Rublani) e il socialismo che però nonaveva attecchito, mentre era presente e diffuso lo spiritismo. L’arcivescovo espresse un giudizio negativo54 per le confraternite: si

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44 Cfr. fraNCeSCo SaIJa (a cura di), Questione meridionale, religione e classi subalterne,Guida, Napoli 1978.45 Cfr. eNrICo NICodemo, Problemi d’oggi, Bari 1963; Id., Scritti Pastorali, Bari 1963.46 aSdCS, Visita Pastorale 1914, Casole, marano marchesato, Lappano.47 IVI, mendicino, 1914 – 1915.48 IVI, Cerisano.49 IVI, Cuti.50 IVI, Guardia Piemontese.51 IVI, fuscaldo.52 IVI, 1915 – 1916.53 IVI, fuscaldo. a fuscaldo, il matrimonio civile si celebrava la mattina e quello religiosonel pomeriggio. 54 L. INtrIerI, Dalla Cronaca del Frugali al Duemila cit. p. 123-127.

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criticavano la loro dipendenza dalle autorità civili e la mancanza di spiritoreligioso (generatim spiritu defecerunt); spesso rifiutavano l’autorità ec-clesiastica tanto da essere occasione di litigi; inoltre, molti che presiede-vano non soddisfacevano il precetto pasquale, vivevano in concubinato eorganizzavano feste profane; l’arcivescovo riteneva che l’unico rimediofosse l’interdizione delle loro chiese. Un giudizio negativo coinvolgeva inparte anche il nascente movimento cattolico.C’erano la Giunta diocesana e l’Unione popolare, la quale era mossa dabuona volontà ma i suoi sottoposti non erano sempre adeguati, spessoerano cattolici solo di nome. fra le associazioni vi erano anche i terziarifrancescani retti da frati del primo ordine. esistevano diverse associazioni di solidarietà, alcune avevano finalitàpiù economiche che religiose; un ruolo essenziale era dato dalle moltecasse rurali55.La relazione del 192156 segue la Visita personaliter a roma di mons.trussoni avvenuta durante la canonizzazione dei Santi Gabriele, marghe-rita e Giovanna57; la trattazione del testo segue la formula stabilita dallaSacra Congregazione Concistoriale del 4 novembre 1918, che modificavala precedente del 1909 e si adeguava al nuovo Codice di diritto Canonico,ponendo particolare rilievo sulle questioni religiose attinenti alle condi-zioni della società del dopoguerra58. Iniziato sotto papa Pio X, il Codice fu promulgato da Benedetto XV con laCostituzione apostolica Providen-tissima Mater Ecclesia (27 maggio 1917 ein vigore il 19 maggio 1918); in precedenza era stato il Corpus Iuris Canonicia regolare i provvedimenti ufficiali della Chiesa, ma la molteplicità delle fonti(deroghe, correzioni…) aveva formato un coacervo di leggi e normesovrapposte; fu papa Pio X che, con il motu proprio Arduum sane munus (19marzo 1904), decise di riunire e riformare le leggi ecclesiastiche59, sce-

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55 Sulle casse rurali nell’arcidiocesi di Cosenza esiste un’ampia letteratura curata e pub-blicata da Luigi Intrieri, si citano ad esempio LUIGI INtrIerI (a cura di), La cooperazione inCalabria dal 1883 al 1950, atti convegno di studio (Cosenza 7 maggio 1988), Pellegrinieditore, Cosenza, 1990 ; Id., Don Carlo De Cardona e il movimento delle casse rurali in Cala-bria, effesette, Cosenza 1985; Id. Sulle Orme di Don Carlo De Cardona, arcidiocesi diCosenza-Bisignano, Cosenza 2008. 56 aSdCS, Relationes ad Limina, 1921 (14 fogli dattiloscritti, datata 12 novembre 1921). 57 Litterae Decretales, in Acta Apostolicae Sedis, XII, 11, 1 ottobre 1920.58 Acta Apostolicae Sedis 5.12.1918, pp. 487 – 503.59 Per l’interpretazione autentica Benedetto XV istituì la Pontificium Consilium CodicisIuris Canonici Authentice Interpretando; il Codice rimase in vigore fino al 1983, anno dellapromulgazione del nuovo Codice di diritto canonico, a cui fece seguito il Codice dei Canonidelle Chiese orientali.

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gliendo una codificazione60 breve e chiara in latino con canoni (in totale2414) suddivisi in paragrafi o numeri e premesse che enunciavano sintetica-mente l’argomento61. Il Codice fu organizzato in 5 libri: I. Normae generales(le leggi ecclesiastiche, la consuetudine…), II. De personis (la disciplina deichierici, religiosi…); III. De rebus (i Sacramenti, i luoghi e tempi sacri, ilmagistero della Chiesa...); IV. De processibus (i giudizi, le cause dibeatificazione…); V. De delictis et poenis.L’impianto organizzativo della relazione, dunque, in coerenza con il Co-dice, si modificava sostanzialmente, adeguandosi al nuovo contesto storicoe sociale, incidendo finanche sulla narrazione meta – rappresentativa e sullinguaggio ecclesiastico. La struttura prevedeva due pre – annotazioni e dodici capitoli (1. lostato materiale della chiesa, 2. l’amministrazione dei beni e gli inventaridegli archivi, 3. la fede e il culto divino, 4. quello che spetta all’ordinario,5. la curia diocesana, 6. il Seminario, 7. il clero, 8. il capitolo, 9. i vicari fo-ranei, 10. i religiosi, 11. il popolo dei fedeli, 12. giudizio sintetico sullo statodella diocesi), per un totale di 100 quesiti, i quali erano posti con precisa-zione e articolazione tali da rendere evidenti eventuali contraddizioni; loscopo era di evitare la soggettività delle risposte e offrire un preciso e co-mune modello di valutazione e di comportamento, l’unica parte che si po-teva omettere, se non c’erano state modifiche sostanziali, era lo statomateriale della chiesa62. Nell’ultimo capitolo si richiedeva un giudizio sin-tetico conclusivo con un raffronto storico rispetto alla precedente rela-zione sullo stato della diocesi. Come scritto nella precedente relazione (1916) l’arcivescovo ribadival’assenza di errori contro la fede, mentre era diffusa una certa indifferenzaalle pratiche religiose; la religione del popolo aveva il sapore (sapit) dellasuperstizione che spesso trascendeva la semplice celebrazione delle feste63come già aveva ammonito nella Lettera Pastorale per la Quaresima del191764; erano presenti forme di spiritismo, mentre erano assenti il mo-

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60 LUIGI ChIaPPetta, Il Codice di Diritto Canonico, edizioni dehoniane, Napoli 1988,prefazione.61 Non si trattava di fondare un nuovo diritto ma di riordinare quello vigente; tutta lamateria imitava il sistema delle istituzioni del diritto romano delle persone, delle cose edelle azioni.62 In relationibus, quae primum sequentur, Ordinarii omittere poterunt ea omnia, quaepartem materialem status dioecesis respiciunt et immutata manserint. decreto De Relatio-nibus Dioecesanis 4 nov. 1918.63 aSdCS, Visite Pastorali, 1916 – 1920.64 Bollettino Ufficiale dell’Archidiocesi di Cosenza, I, 2, 1917, p. 19.

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dernismo e il teosofismo o altre teorie speculative, anche se l’arcivescovoesigeva la professione di fede e il giuramento antimodernistico; inoltre,nelle Visite Pastorali aveva interrogato singolarmente i sacerdoti, richie-dendo anche l’attestato della confessione65. Si osservavano puntualmente i canoni sulla custodia dell’eucarestia1267 (revoca del privilegio di custodia se non chiese e oratori principali),1268 (unicità della custodia nella chiesa), 1269 (tabernacolo inamovibile)e 1271 (lampada sempre accesa); inoltre, molto utile era la presenza deiGesuiti sia per la predicazione sia per i sacramenti e sia per l’educazioneprivata dei fanciulli. L’ultimo Sinodo congregato, dopo quello del 1737, era stato nel 1859,ma i suoi atti non furono pubblicati, aggiungendo nescio qua ratione. Buoni erano poi i rapporti con il potere civile.Il clero viveva modestamente, non possedeva una propria casa, ma vi-veva in famiglia, che portava con sé anche fuori dal paese natale; faceva latonsura e indossava l’abito talare nella celebrazione della messa; in genere,non si occupavano di associazioni politiche o di politica se non in alcunicasi66; pochi scrivevano su settimanali e in genere si leggeva qualunquegiornale, mentre non erano diffusi libri proibiti. Con riferimento al canone126 del Codice (obbligo degli esercizi spirituali ogni tre anni), il presulesuggeriva di recarsi presso i Gesuiti a Grottaglie67. erano poi osservati i ca-noni 138 – 140 e 142 sul comportamento del clero.tutte le parrocchie erano provviste di parroco ed era osservato il ca-none 460 (titolarità in un’unica parrocchia); molti economi, però, non ri-siedevano nella parrocchia, perciò spesso per penuria di sacerdotis’istituiva un parroco vicino. Le chiese erano appena ornate e pulite, seb-bene alcune fossero fatiscenti (squalent et pene fatiscunt) e altre non pos-sedessero nulla, ma non avevano pitture o statue immodeste; spesso, ilpopolo non curava le chiese parrocchiali, adducendo motivo che spettavaal parroco (dicens id spectare ad parochos qui per eas vivant), anche quandonon avevano la possibilità di rifarle e risistemarle; si preferivano ristrut-turare le chiese delle confraternite piuttosto che quelle parrocchiali, poi-ché le confraternite erano mossi da propri interessi ed era quindi difficileal parroco o all’ordinario ottenere migliorie. d’altronde, il popolo non

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65 aSdCS, Visita al clero, 1919 – 1933.66 Ivi, Visita Pastorale, 1920, Carolei. a Carolei il sacerdote Sicilia era pro-Sindaco senzaalcun permesso dell’ordinario, che lo ammonì di non ricandidarsi. 67 Bollettino Ufficiale, V, 11, 1921, p. 166; nel bollettino dell’ottobre 1921 suggerivaGrottaglie.

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aveva grande riverenza per il clero che considerava come un mestiere(artem exercentes). Non c’erano parrocchie amovibili.La parrocchia era affidata per concorso (can. 455) mediante una com-missione, designata dall’arcivescovo, di tre esaminatori che proponevanosingoli casi di teologia morale, di teologia dogmatica, mentre l’arcivescovoproponeva un concione. I concorrenti, riuniti per sette ore, ricevevano unvoto unico; nello scrutinio si consideravano anche la vita, i costumi, l’ido-neità e l’opportunità dei singoli concorrenti. La parrocchia della Cattedraleera unita al Capitolo, con un Vicario perpetuo; si osservava il can. 415 (re-lazione giuridica tra Capitolo e parroco) e, per antica consuetudine, era in-detto un concorso come per le altre parrocchie, l’ordinario però nominavasenza l’intervento del Capitolo. tutti i parroci soddisfacevano il canone463 § 4 (gratuità del ministero) e i canoni 465 (residenza), 466 (messeper il popolo), 467 (amministrazione dei sacramenti), 468 (cura degli in-fermi, sebbene solo quando erano chiamati), 469 (vigilanza contro gli er-rori di fede), 470 (libri parrocchiali) e 785 (sacri oli); tutte le chieseavevano il fonte battesimale (can. 774). a diciannove sacerdoti era stata concessa licenza per prestare la loroassistenza alle casse rurali, per mancanza di laici competenti con incarichiannuali. Le casse erano governate con principi di naturale e commercialeonestà e amministrativamente erano rette, solide e federate; inoltre sacer-doti non mancavano per gli impegni al loro servizio sacerdotale.La morale e la disciplina del clero evidenziavano certamente le difficoltàe i disagi della condizione sociale e religiosa dei sacerdoti, ma rivelavanoanche un progetto di trasformazione delle strutture ecclesiastiche, idoneoa rispondere agli specifici problemi religiosi del dopoguerra68.Nel capitolo XI (de populo fideli, quesiti n. 84 – 99), l’arcivescovo spiegavacome i costumi del popolo fossero in generale deteriorati; forme di concubi-nato erano ampiamente diffuse in tutti gli strati sociali (tam inter eos qui sunthonestioris conditionis, quam inter plebem) e tra tutti i villaggi per quantopiccoli fossero, ma il peccato più diffuso e difficile da sradicare era la bestem-mia. La vita cristiana si praticava poco nelle famiglie e una buona parte deicontadini non conosceva le prime preghiere (Pater Noster, Ave Maria, Credo),sebbene la causa fosse, in genere, l’analfabetismo dei genitori.La pubblica religione consisteva nella celebrazione di feste con musiche,fuochi d’artificio e spettacoli cinematografici, i quali erano stati oggetto didiversi richiami per la loro assoluta proibizione nelle feste. L’arcivescovo

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68 r. VIoLI, Episcopato e società meridionale durante il fascismo cit. p. 134.

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aveva ordinato che le offerte dei fedeli per le feste dovevano andare in onoredi Nostro Signore, della madonna e dei Santi in modo da essere cristiane enon pagane; inoltre, dopo le spese necessarie, le restanti offerte dovevanoservire ai restauri delle chiese69; invece i proventi spesso erano spesi perspettacoli, musiche e festeggiamenti, mentre le chiese erano deserte. Le pro-cessioni poi erano alquanto deplorevoli, spesso si riducevano a parate co-reografiche o passeggiate liturgiche70, senza dignità (fiunt absque dignitate)e con una mendicità indecorosa (mendicationes indecorae) per finanziare lefeste. Sebbene stigmatizzata dalla Conferenza episcopale Calabra71 e incal-zata dall’arcivescovo per estirparle, la consuetudine era talmente radicatanel profondo e tanto comoda e utile che facilmente rinasceva. La partecipazione alla messa era più spesso un atto di devozione compiutoin determinate occasioni dell’anno che un assolvimento consapevole e rego-lare di una prescrizione ecclesiastica72; pochi erano gli uomini che parteci-pavano alla messa; nei giorni di festa si pensava a mercati e lavori manuali,come scrivevano i parroci di donnici Superiore e San Giovanni In fiore73. Il digiuno e l’astinenza si osservavano più come consuetudine e natu-rale coincidenza con la sussistenza contadina74 che come santificazione75delle feste. In genere, il precetto pasquale era osservato con alcune ecce-zioni76. In città molti uomini e donne frequentavano i Sacramenti quasiquotidianamente, di meno invece in diocesi. La cremazione dei cadaverinon era praticata e rari erano i funerali con il solo rito civile; accadeva in-vece che i poveri andassero al cimitero senza sacerdote né corteo77.

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69 Bollettino Ufficiale, V, 8, 1921; l’arcivescovo si rifaceva alla circolare n. 10 del 10 set-tembre 1914, p. 120. 70 NICoLa moNterISI, Sono cristiane le nostre feste?, in aNtoNIo BaLdUCCI (a cura di), Tren-t’anni di episcopato. Moniti e istituzioni, edizioni di Storia e letteratura, roma 2005, pp. 461e sgg.71 Lettera Collettiva Pastorale dell’Episcopato Calabrese per la Quaresima 1916.72 IVI, p. 5. I vescovi ritenevano che il comportamento dei fedeli in chiesa in genere la-sciasse molto a desiderare: si parlava, si rideva, si scherzava come se si fosse in piazza e sistava beatamente seduti anche nei momenti più solenni della messa. 73 aSdCS, Visite Pastorali, 1919-1920. a donnici era la mietitura (8 luglio 1919), a SanGiovanni la raccolta delle patate (24 settembre 1919). 74 r. VIoLI, Episcopato e società meridionale durante il fascismo cit. p. 119.75 aSdCS, Note provvisorie 1917-1933, cart. 1.7.15. fasc. 4. ad esempio a Pietrafitta, l’ar-civescovo annotava (19 settembre 1917), il contegno inopportuno tenuto in chiesa. 76 IVI, Visita Pastorale, 1920, Paterno. a Paterno, durante la messa, avendo l'arcivescovopredicato a proposito di quelli che non facevano il precetto pasquale, molti uomini anda-rono via. 77 IVI 1919 – 1920. a montalto, si esortarono i parroci a fare in modo che i cadaveri fos-sero portati in Chiesa.

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erano presenti alcuni ordini terziari che avevano un comportamentolodevole, mentre le confraternite, presenti in tutte le parrocchie, erano unvero flagello (pessima flagella), poiché, riconosciute dalle autorità civili,rispondevano solo al prefetto per la loro rendicontazione; inoltre, moltiloro statuti erano stati approvati da ferdinando II.C’erano circoli e unioni di giovani molto attivi che lasciavano ben spe-rare (de quibus bene sperandum est). molto attive erano poi le unioni donnesia per gli emigranti e sia per le vedove e madri dei soldati che l’arcive-scovo riteneva agire con ottimo spirito (optimo spiritu aguntur).Come nella precedente relazione, erano ancora presenti tre logge mas-soniche, che però non avevano molti iscritti, mentre dopo la guerra eranoaumentati i circoli socialisti, presenti in tutti i comuni78, i quali erano moltoattivi e miravano all’amministrazione municipale, sebbene la maggioranzadei cittadini s’opponesse. molti politici sceglievano di farsi eleggere nelpartito popolare79; infatti, due candidati erano stati eletti al parlamentonazionale.Nel giudizio80 sullo stato della diocesi, l’arcivescovo rilevava elementidi degrado, specie dopo la guerra: «le condizioni che indicai nella relazionedata nell’anno 1916 sotto n. 2 non soltanto non sono migliorate, ma piut-tosto deteriorate dopo la guerra», propagandone ampiamente l’immoralitàe l’irreligiosità (bellum scilicet, quod, praeter cetera flagella, late immora-litatem et irreligionem propagavit propter conventus tot iuvenum, quorummulti immorales et irreligiosi, ne dicam de illecebris et pessimis exemplisipsis obiectis).La guerra e la successiva crisi avevano inciso pesantemente sulle giàfragili strutture sociali e relazionali; esse rivelarono apertamente gli effettidel processo di secolarizzazione sulla fisionomia religiosa dei fedeli e sullecondizioni spirituali del clero; l’arcivescovo intensificò l’impegno socialee pastorale, cercando di ravvivare e riordinare la cura animarum attra-

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78 IVI, dipignano 1920. a dipignano i socialisti scelsero lo stesso giorno della visita del-l’arcivescovo (18 luglio 1920) per un comizio di propaganda tenuto da un professore diCosenza; andò poca gente e il parroco d. francesco Cozza avuto licenza tenne un contrad-dittorio. a San fili (IVI, Note Provvisorie 1920) si presentò all’arcivescovo un consigliereprovinciale per chiedere la riabilitazione di d. francesco rizzo iscritto alla società dei com-battenti e l’approvazione dello statuto della la società dei lavoratori. 79 IVI, Visita pastorale 1920, malito. a malito si cercò di fondare il Partito Popolare cona capo il parroco. L’arcivescovo rispose che il parroco avrebbe potuto favorire privatamentema non esserne a capo. 80 Denique Ordinarius dicat praesertim in sua prima relatione quid actu sentiat de mate-riali et morali conditione dioecesis, quae spes melioris status affulgeat, quaenum maiora di-scrimina immineant (quesito n. 100).

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verso la continua esortazione per una autentica catechesi ai fedeli (can.1344) e spingendo i parroci a migliorare l’istruzione e la preparazione.La relazione del 192681 confermava in gran parte quella precedente,con l’aggiunta di un’appendice di risposte ai quesiti di chiarimento dellaCongregazione Concistoriale; infatti, è omesso il capitolo relativa allo statomateriale della diocesi (praenotamen III della Formula del 1918) in quantoimmutato. La fede del popolo e del clero era priva di errori teoretici e le leggi ca-noniche e liturgiche erano puntualmente osservate, perduravano ancoraforme di spiritismo e ignoranza con venature e aspetti pagani o profaniche si manifestavano principalmente durante le feste, creando disordinenelle processioni82, difficile da estirpare per la profondità della consuetu-dine e per il lucro che se ne ricavava. Il numero delle chiese in diocesi era sufficiente, ma molte erano piccolee anguste tanto che i fedeli entravano appena. La pulizia non era esemplaree anche la suppellettile generatim misera est; molte chiese erano fatiscentie il popolo poco se ne curava perché si ritenevano i parroci de ecclesiis vi-vunt e quindi responsabili per la loro cura; ovviamente la mancanza dimezzi impediva di restaurarle e di istruirle degnamente..Il clero vive con poco e onestamente; non c’erano ricoveri per sacerdotianziani e infermi; molti sacerdoti coabitavano con la propria famiglia entroi confini delle parrocchie non sempre però vicino la chiesa; solo tre eranocoloro che abitavano fuori dalla parrocchia per problemi di alloggio. tra i sacerdoti c’erano lodevoli esempi di vita santa e religiosa. Spessoil giudizio popolare divulgato sul clero non era fondato e non di rado si ri-petevano denuncie e sospetti contro i sacerdoti; rari erano i casi di com-portamenti o reazioni emotivo – impulsivi del clero; si prestava pienaobbedienza su ciò che era in uso, se, invece, si prescriveva qualcosa con-trario agli usi o all’utilità era difficile ottenerne obbedienza. In genere, nonc’erano sacerdoti oziosi, che difettavano di scienza o di fama o che scrives-sero su giornali o periodici. Gli esercizi spirituali si compivano più volte in un anno dai minori, seb-

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81 aSdCS, Relationes ad Limina, 1926, cart. 1.2.13. fasc. 61. Si tratta di 30 fogli sciolti,scritti a mano e bozza di appunti, è datata 30 luglio 1926. 82 IVI, Note provvisorie, 1923. L’arcivescovo chiese al parroco di San fili, d. PasqualeNoto, informazioni sui disordini durante le funzioni, come anche (30 maggio 1924) al par-roco de filippis di marano marchesato lamentandosi degli avvenimenti durante la proces-sione di Santa rita e ordinò di fare una sola processione per chiesa e osservarescrupolosamente le indicazioni per le feste e le processioni della Lettera Pastorale Collettivadel 1916.

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bene non ci fosse una casa ma una che accoglieva i penitenti. erano pre-senti trenta casse rurali con licenza data ai sacerdoti; anche dopo la LetteraCircolare della Segreteria di Stato (3 gennaio 1923) che revocava la licenzadata ai direttori della federazione delle casse rurali, nulla cambiò poichési fece ricorso ma non fu data risposta.I Vicari foranei non sempre sostenevano ciò che si doveva eseguire;spesso si dovevano sollecitare per completare la visita dei loro distretti edarne poi conto all’ordinario. Nel Bollettino Ufficiale del 1923 scriveva:«Un altro lamento dobbiamo fare sulla omissione della Visita Vicariale per parte dimolti vicarei foranei. Ne richiamiamo ancora una volta lo stretto imposto dal Canone 449.Quale debba essere l’oggetto della Visita e della relazione che il Vicario foraneo deve fareall’ordinario è notato nei canoni 447 e 449. Preghiamo i vicarei foranei di risparmiarci ildispiacere di nuovi lamenti e di passi incresciosi»83.La legge sulla spiegazione del Vangelo era osservata. In tempo di Qua-resima nella Cattedrale si aveva l'omelia quotidiana, come in tutte le chiesedella diocesi (tutti i giorni o molte volte a settimana). C’erano predicazioninel mese di maria e del Cuore di Gesù, come anche le predicazioni novenedelle solennità.La moralità del popolo era deteriorata, né vi era molta speranza chepotesse mutare (neque multa spes est ut in melius commutentur); anche leragazze avevano atteggiamenti inopportuni per la maleducazione (ab amu-siis corruptae). La bestemmia, però, rimaneva il peccato più diffuso anchetra le donne; già in occasione della Quaresima del 1923, l’arcivescovo loaveva duramente stigmatizzato, esortando tutto il clero a istruire il popolocristiano:«facciano intendere che la bestemmia e ogni espressione direttamente o indiretta-mente sia ingiuriosa a dio. Lo è direttamente se va contro quelle creature che hanno spe-ciale relazione a dio, contro Gesù Cristo, contro l’ostia Santa, lo è indirettamente se vacontro quelle creature che hanno speciale relazione a dio, quali sono maria, il SS., i Santi ele cose sacre»84. La messa era frequentata solo nei giorni di festa e pochissimi, anche trale donne, soddisfacevano il precetto pasquale; continuava a permanerel’idea di una religiosità esteriore e pubblica che si manifestava in festepiene di clamori, musica e uso di cinematografo85, senza la frequenza dei

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83 Bollettino Ufficiale, VII, 1, 1923, p. 71.84 IVI, VII, 2, 1923, p. 21.85 IVI, IX, 10, 1925, p. 123. L’arcivescovo aveva proibito categoricamente l’uso del cine-matografo durante le feste; inoltre, aggiungeva come addirittura «in alcuni luoghi si è in-cominciato ad assoldare per le feste un buffone che diverte il pubblico colle sue scurrilità.

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Sacramenti; spesso nelle processioni, i promotori delle feste raccoglievanonotevoli somme di denaro che spendevano per spettacoli86. mons. trussoni insisteva nel ribadire che solo con l’istruzione dei ra-gazzi e del popolo i parroci avrebbero inciso maggiormente nel migliora-mento della religione e quindi li esortava a prestare con il loro esempiouna vita pienamente santa e cristiana così che il popolo avrebbe emulatoe i genitori avrebbero avvicinato i loro figli. Certo, la legge sulla scuola (1923) impartiva l’istruzione religiosa, maera superficiale (valde superficialis), specialmente, in alcuni luoghi per l’in-curia o l’ignoranza dei maestri (ex incuria et ignorantia magistrorum); solodove era concesso ai parroci di entrare nelle scuole, si ottenevano riscontripositivi. mons. trussoni insisteva sull’istruzione religiosa (canoni 1329 –1336; omelia, catechismo agli adulti e ai fanciulli), ribadendo essere per iparroci proprium et gravissimum officium87 e ricordandone l’ammonizione(can. 2382), specie se persistente et probata mala voluntate (can. 2185).molti s’iscrivevano al partito popolare, sperando di ottenere, il più pos-sibile, suffragi, pensando anche di essere favoriti dalla religione; in genereil clero non s’intrometteva, se non nelle politiche nazionali e salvo in alcunicasi88 dove si arrivò anche a non velati avvertimenti contro i parroci comea marano marchesato89. I socialisti, in molti comuni, spesso osteggiavano apertamente la

La situazione socio-religiosa dell'arcidiocesi di Cosenza attraverso le relationes ad Limina...

[...] Noi la proibiamo rigorosamente». al parroco di zumpano fu inizialmente proibito, nellafesta dell’annunziata del 5 agosto, l’uso del cinematografo, ma la rappresentazione avvennelo stesso perché era a spese di un privato per due sere che aveva fatto la questua (aSdCS,Visita Pastorale, 1923 zumpano).86 aSdCS, Visita pastorale, 1922 Belsito. a Belsito, l’arcivescovo proibì una rappresen-tazione teatrale sul sagrato della chiesa, chiesta dal presidente di un circolo cattolico, inquanto dal titolo e dalla lettura la ritenne una produzione immorale. 87 Bollettino Ufficiale, VII, 8, 1923 p. 119.88 aSdCS, Note provvisorie, 1921. a rovito si presentarono quattro persone tra cui unassessore comunale, accusando il parroco marsico e il parroco mazzei di aver fatto irru-zione il 15 dicembre nell’aula comunale durante un consiglio a capo di numerose personearmate di bastone e chiedendo che si dimettessero il sindaco e la giunta; successivamentescesero per le vie del paese con le bandiere, suonando tamburi. I presenti si lamentavanodel parroco che predicava in favore di un partito e contro la famiglia; in realtà il consigliocomunale voleva licenziare un impiegato, iscritto al partito popolare, per ragione di bilan-cio, mentre il parroco voleva farlo rimanere. 89 IVI, Note provvisorie, 1922. Il 28 novembre si presentarono quattro membri del di-rettorio fascista di marano marchesato con una lettera collettiva contro il parroco de fi-lippis in quanto lo si accusava di svolgere attività politica contro il commissario regio eanche il popolo gli era ostile; inoltre lo si accusava di aver trattenuto 400 lire per i semina-risti e «dicono che i fascisti lo bastoneranno. Il dott. Sicilia (piccolo e pallido) mi pare moltoinvelenito».

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chiesa90, ma, scriveva mons. trussoni, molti si erano ormai convertiti al fa-scismo per i propri interessi, mentre altri tacevano (Nunc autem multi so-cialistae converti sunt ad fascismum ob eumdem finem ceteri tacent).dopo il 1922 e con la nascita della milizia Nazionale accadeva che sichiedesse al parroco la benedizione dei gagliardetti e delle bandiere, l’ar-civescovo emanò diverse circolari nelle quali precisava che la milizia Na-zionale, quantunque fosse stata scelta tra i fascisti, era pur sempreun’istituzione pubblica e quindi poteva avere la benedizione, non però peril Partito fascista, in quanto associazione privata anche se al governo91.Nell’ultimo capitolo, l’arcivescovo, rispetto alle relazioni precedenti,dava un giudizio sintetico mitigato: l’ignoranza era ancora radicata, tutta-via parroci ben istruiti avrebbero potuto migliorare ancora la religione deifedeli, partendo proprio dall’educazione dei fanciulli92.

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90 IVI, Visita Pastorale 1922, San Giovanni in fiore, Lago. a San Giovanni in fiore, l’arci-vescovo fu accolto da molte persone e «un ragazzo intona a mezza voce “bandiera rossa”»;a Lago alcuni militanti del partito dei combattenti avevano esortato il popolo all’astensioneper il suo arrivo.91 Bollettino Ufficiale, VII, 1, g1923, p. 70.92 aSdCS, Visita pastorale, 1923, 1924. Scalzati, Cribari, forania di Casole Bruzio.

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Individuare e proporre un “frammento” dell’Archivio di Stato di Reggio Cala-bria da dedicare a Pietro Borzomati non è stato semplice: Borzomati ha studiatoe amato profondamente la storia, ha avuto una tenace passione per la ricerca, in-cessante è il contatto con le fonti documentarie. I luoghi dell’infanzia e adolescenza, l’amore per la Calabria e (non ultimi) il ri-cordo personale del suo essere maestro con le chiacchierate telefoniche degli ul-timi anni, tutti questi elementi hanno contribuito a orientare la nostra scelta suun dattiloscritto inedito di Giovanni Musolino che tratta la storia dell’emigrazioneitaliana in Germania1. Abbiamo anche considerato che Pietro Borzomati ha dedi-cato una parte considerevole della sua vita professionale alla raccolta di fonti percontribuire alla conoscenza dell’emigrazione calabrese, dal suo primo incertoavvio nel periodo immediatamente postunitario alle partenze massive del Se-condo Dopoguerra. Un altro elemento che ha indirizzato la scelta è stata la consi-derazione che Catona ha dato i natali a Pietro Borzomati e a Giovanni Musolino,legati da sincera e profonda amicizia; entrambi erano uniti dalla Fede in Dio.***

Chiesa ed emigrazione italiana in Germania.Uno studio inedito di Giovanni Musolino

Mirella Marra

1 ASRC, Archivio Musolino, b. 7, fasc. 2, Emigrazione italiana in Germania, s.d. È oppor-tuno dare di seguito poche, ma significative indicazioni su come questo carteggio sia arri-vato in Archivio. Pochi giorni dopo la morte di monsignor Giovanni Musolino (15 dicembre1917- 11 febbraio 2006), si è presentata in Archivio la pronipote Antonella Surace per co-municare la volontà dello zio di depositare le sue carte e la biblioteca nell’ASRC. Avviatacosì la procedura ufficiale di deposito, lo stesso è stato autorizzato con nota ministerialedel 26 maggio 2006. Documenti e libri sono arrivati in Archivio in grandi scatoloni. La sche-datura e il riordino del fondo non hanno presentato notevoli difficoltà perché sulle coper-tine dei fascicoli e dei sottofascicoli era segnato, per mano dell’autore, un breve regestocon il contenuto della documentazione. Si è poi proceduto con la schedatura e il riordinodel materiale documentario, ponendo estrema attenzione ai criteri adottati dal produttoree, in caso di mancanza d’indicazioni, cercando nei documenti il nesso implicito, anche sullabase della conoscenza della vita e delle opere di monsignor Musolino. Da questo lavorosono risultati, oltre a un esiguo nucleo di corrispondenza privata, piccole serie documen-tarie direttamente riferibili all’attività di docente, alla sua esistenza di uomo di fede, al-l’esperienza presso la missione Cattolica in Germania, alla sua attività di archivista,ricercatore e storico. L’inventario analitico è stato redatto da Lia Domenica Baldissarro, giàDirettore dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria, e Fortunata Chindemi. L’Archivio si pre-senta condizionato in 11 buste, gli estremi cronologici del fondo vanno dalla prima metàdel XIX secolo al 2006, anno di morte dell’autore.

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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Il l5 dicembre 1917 a Catona da Gaetano Musolino e Maria Berton nasceGiovanni Domenico2. Giovanni studia prima a Reggio presso il SeminarioPontificio Pio XI, poi a venezia, dove si è trasferito con la madre rimastavedova e dove conclude gli studi teologici nel Seminario Patriarcale. Il 6luglio 1941 viene ordinato sacerdote e inizia la sua opera pastorale comecooperatore nella parrocchia di S. Lorenzo martire di Mestre. Nel 1942 di-venta parroco di Santa Maria Assunta in Malamocco, nel 1947 si laurea inlettere presso l’Università di Padova con una tesi sulla cultura popolaredei pescatori dell’Alto Adriatico. In questi anni comincia a dedicarsi allapoesia e alla ricerca storica, due passioni che non lo abbandoneranno mai.Dal 1953 al 1958 frequenta con assiduità il Patriarca Angelo Roncalli, tantoche il futuro Papa scrive per don Musolino la prefazione alla monografiaLa Basilica di San Marco, pubblicata nel 19553.Dal 1960 al 1969 gli viene affidata la parrocchia di Santa Maria Elisa-betta al Lido di venezia; in questo periodo sarà anche presidente dellasquadra di calcio “Nettuno Lido”. Nel 1960, a un concorso indetto a Romadal Centro Sportivo Italiano in occasione delle olimpiadi, vince l’innoRoma, Olimpiadi 1960 scritto da Giovanni Musolino e musicato dal maestroAlfredo Ceccherini, ma quasi nulla conosciamo di questa vicenda e nonsiamo riusciti a trovare lo spartito4.

Mirella Marra306

2 Dalle carte d’archivio e dai lavori pubblicati, Lia Domenica Baldissarro ha ricostruitoda una biografia che introduce all’inventario dell’Archivio di Giovanni Musolino.3 GIovANNI MUSoLINo, La Basilica di San Marco in Venezia, F. ongania, venezia 1955. Nellaprefazione il Cardinale Roncalli, tra l’altro, così scrive: «A questo nobile servizio di guidasicura, di illustrazione piacevole, messa a punto delle ultime ricerche storiche circa l’insignemonumento, rispondono queste pagine dettate con rara competenza e con buon gusto dalsac. Prof. Giovanni Musolino. Scorrendone in un primo tempo, visitando poi sulle loro traccela Basilica nei suoi particolari, lo spirito si ricrea, si commuove e si esalta». Questa pubbli-cazione è tradotta in inglese nell’edizione del 1956 e ristampata l’anno successivo in linguaitaliana.4 Per trovare questo componimento l’ASRC ha esperito numerose indagini. Trascri-viamo di seguito la nota che abbiamo trasmesso al CoNI il 13 dicembre 2011 e che ci for-nisce i dati rivenuti in archivio per ritrovare questo componimento. «.. Tra le sue [diMusolino] carte si trovano tre articoli di giornali del 1960 in cui è riportata la notizia delprimo premio assegnato all’Inno dal titolo “Roma! olimpiadi 1960” musica del maestro Al-fredo Ceccherini e testo di mons. Giovanni Musolino che è stato selezionato dalla Commis-sione istituita dal Coni per la scelta dell’inno nazionale da suonare alle olimpiadi del 1960.Tale composizione musicale, si legge nell’articolo del giornale Il Tirreno del 2 aprile 1960,«sarà eseguita prima e durante i giochi olimpici. Essa avrà il suo battesimo nella capitalecon la banda dei Metropolitani in occasione del congresso “Sport e Comune” che il CentroSportivo Italiano stesso terrà a fine aprile a Roma». Nel giornale Minosse del 14 maggio1960 è riportato un articolo dal titolo Ceccherini-Musolino: 1° premio per un inno, dove silegge tra l’altro «l’inno è stato scelto fra i molti proposti, avendo la commissione rilevato in

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Ha inizio negli anni Sessanta l’attività di assistenza religiosa e sociale afavore degli immigrati e degli stranieri. Don Musolino, infatti, parla inglese,tedesco e spagnolo, conosce un po’ di sloveno, croato e greco moderno.Nel 1969 viene mandato in Germania per seguire le comunità degli emi-grati italiani; probabilmente prima di iniziare il suo lungo apostolato nellaparrocchia di St Petri5 a Neheim-Hüsten, odierna Arnsberg6 nella diocesidi Paderborg, visita i paesi scandinavi7. Arnsberg gli offre anche la possi-bilità di vivere con i giovani emigrati di seconda generazione, ai quali in-segna l’italiano; prende la patente8, organizza feste di Natale e Pasqua, vivele amarezze e le gioie delle famiglie degli emigrati e, con orgoglio raccontadella sua vita nella nebbia del Sauerland, sulle rive del Ruhr9. Al rientro in Italia nel 1983 diventa parroco della chiesa de Sacro Cuorea Tuscania e insegna nel Seminario della Quercia nella diocesi di viterbo,Durante questo periodo svolge anche il servizio di archivista della Curiavescovile e riprende con la consueta passione la ricerca e gli studi storici.Arrivato il tempo della pensione, nel 1993 don Musolino si stabilisce aSora, ma diventa pressante il desiderio della Calabria. Torna a Reggio e co-mincia a lavorare con passione rinnovata; accumula fino alla sua morteappunti su appunti che sono oggi conservati nel suo Archivio e pubblica,con fatica a noi nota, lavori di storia e raccolte di poesie10.

Chiesa ed emigrazione italiana in Germania. Uno studio inedito di Giovanni Musolino

esso una austera musicalità e nobiltà d’ispirazione che lo rendono particolarmente adattoal grande avvenimento». Questa ricerca, come altre, non ha avuto esito positivo.5 Nella busta 1 dell’Archivio Musolino sono conservati quattro fascicoli, come di seguitoriportati: n.33- Quaderno di appunti e fogli sciolti tedesco-italiano, s.d.; fasc. 34 -Ratsel.Mitgemacht – Mitgelacht, opuscolo a stampa di cruciverba, indovinelli ed altri passatempicon appunti manoscritti, s.d.; fasc. 35 -Rivista Schutzenbruderschaft Husten, n.19 del 1994.,a pag. 41 articolo di Karl-Heinz Keller su don Giovanni Musolino, 1994; fasc. 36 -St Petriaktùell…Hùsten, 10 e 17dicembre 1995, periodico in lingua tedesca, 1995; fasc. 37 -Im Blick-punkt, opuscolo commemorativo della parrocchia di ST. Petri- Husten, 20036 ASRC, Archivio G. Musolino, b. 7 fasc. 4, Calabresi ad Arnsberg in Germania, s.d., datti-loscritto, cc. 77 IvI, fasc. 3, Le missioni cattoliche italiane nei Paesi Scandinavi, s.d., dattiloscritto, cc. 348 IvI, b.1 fasc.2, Patente di guida rilasciata a Arnsberg il 3 dicembre 19709 GIovANNI MUSoLINo, Strade nel tempo.Poesie, Litotipografia Poziello, vitorchiano (vT),1993, pp. 66-6810 Tra le opere edite di don Musolino, conservate nell’ASRC e relative alla sua esperienzadi assistenza religiosa e vita quotidiana in Germania, citiamo: GIovANNI MUSoLINo, Le caro-vane del Sud, Istituto Tipografico Editoriale di Dolo, venezia, 1977. Si tratta di un romanzoche racconta l’esperienza di don Lino, un sacerdote che aveva già superato i cinquantaquando era giunto, nei primi anni Settanta, per la prima volta a Neheim-Hüsten per svol-gere la sua missione fra gli emigrati in Germania. È un romanzo chiaramente autobiogra-fico, anche se sul retro del frontespizio leggiamo «Ogni riferimento a fatti e persone ècasuale».

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Nella Casa del Clero, a Reggio, don Musolino si avvia verso «l’ultima strada. Tante strade ho percorso e dentro – mi struggeva l’anelito profondo – dinuove terre- e ignaro vagabondo – andavo per le vie vuote … Consumato dagli anni, pelle-grino – stremato proseguo il mio cammino - e mi rincuoro se volgo lo sguardo – al vicinotraguardo»11.Giovanni Musolino muore il 12 febbraio 2006.***

Torniamo a Pietro Borzomati, al suo impegno rigoroso per una ricostru-zione della storia dell’emigrazione in Calabria e alla pubblicazione degli Attidel II Convegno di Studi della Deputazione di Storia Patria per la Calabria,svoltosi a Polistena e Rogliano nel dicembre 198012. Nell’introduzione di questolavoro Borzomati scriveva: «Questo convegno di studio si svolge in uno deimomenti più drammatici della storia del Mezzogiorno, dopo pochi giorni dalterribile terremoto del 23 novembre e dall’inizio dell’esodo delle popolazionisinistrate della Basilicata e della Campania all’interno ed all’estero»13. Oggi,come Pietro Borzomati, possiamo affermare che questo studio di Giovanni Mu-solino sull’emigrazione14 in Germania viene pubblicato in uno dei momentipiù tragici della storia dell’Europa e dei Popoli.

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11 GIovANNI MUSoLINo, La porta del Cielo, Falzea Editore, Reggio Calabria 2004, p. 75, poe-sia L’ultima strada.12 PIETRo BoRzoMATI (a cura di), L’emigrazione calabrese dall’unità ad oggi, Centro StudiEmigrazione, Roma 1982.13 IvI, p. 7.14 Il dattiloscritto non presenta riferimenti bibliografici; la trascrizione è fedele.

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APPENDICE

Emigrazione italiana in Germania e assistenza religiosadi Giovanni Musolino

Le tappe dell’emigrazioneGli inizi dell’emigrazione italiana in Germania risalgono ai primi anni successiviall’unificazione dello Stato tedesco. verso il 1870 l’Italia, appena uscita dalle guerreper l’indipendenza e raggiunta l’unità nazionale, cercò nei vicini paesi d’Europa il ter-

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Mons. Giovanni Musolino (gessettodi Eugenia Musolinorealizzato per unconvegno dell’Archivio di Statodi Reggio Calabrianel 2012)

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reno adatto per sopperire alla sua povertà e all’eccedenza di manodopera. Quel primoperiodo della nostra emigrazione in Germania scavalca il secolo XIX e si prolunga finoallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. In quasi mezzo secolo i lavoratori emigratiin terra tedesca raggiunsero il numero di 1.225.820, di cui 1.150.000 rimpatriarono.Quella prima emigrazione comprendeva in prevalenza piemontesi, lombardi, liguri eveneti. La presenza dei meridionali era ancora quasi inesistente.Un esempio di emigrazione organizzata e tutelata si ebbe nel Trentino, soggettoallora alla dominazione austriaca. Dal 1870 al 1914 gruppi di operai trentini si trasfe-rirono particolarmente nei territori della Selva Nera e trovarono occupazione nell’im-pianto di linee ferroviarie. In quel lavoro essi si acquistarono una fama di specialistinel collocare le traversine di legno sulla massicciata. Gli operai addetti alla prepara-zione delle traversine provenivano per lo più dalla val di Fiemme, Canal San Bovo, Pri-miero, val di Sole e Alta Rendena.Altri emigrati trentini si trasferirono nel territorio della Saar come minatori. Dallaval Rendena giunsero in Germania i maestri arrotini, che erano degli artigiani girova-ghi. Da Segonzano emigrarono gruppi di scalpellini. Soprattutto dalla val di Non e dallaval di Sole partivano gli spazzacamini che svolgevano un lavoro stagionale e vagante,esposti a molti rischi e scarsamente retribuiti.Gli emigrati trentini, nel tempo in cui la regione faceva parte dell’impero austriaco,erano tutelati da istituzioni che avevano il compito di provvedere alla loro sicurezzacontro la disoccupazione e le malattie. Fin dal 1901 la Camera di Commercio, che avevasede a Rovereto, iniziò a svolger azione di assistenza agli emigrati. Essa fu autorizzatadal Ministero del Commercio di vienna ad aprire degli “Uffici per la mediazione dellavoro” con i contributi dello Stato. Gli emigrati godevano di una tariffa ferroviaria ri-dotta fino alla frontiera, venivano forniti di una lista con gli indirizzi dei posti dovepotevano consumare i pasti e soggiornare a prezzo conveniente e si raccomandava adessi di «munirsi di un vocabolario tascabile della lingua del paese» dove si recavano.Dalle statistiche si rileva che nel decennio 1900- 1910 gli emigrati trentini in Germaniafurono 1.970.Una seconda fase di espatri dall’Italia si ebbe dopo la Prima Guerra Mondiale e du-rante l’ultimo conflitto fino al 1942, quando i lavoratori emigrati furono 491.282 conun numero di rientri di poco superiore alle 419.000 unità. Nel 1941, in pieno periodobellico, vi erano in Germania 82.000 operai italiani, pari allo 0,3% della manodoperatedesca.Anche nel periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale, dopo l’unione all’Italia,il Trentino continuò la sua tradizione di assistenza agli emigrati. Nel 1921 fu costituitoun Segretariato trentino di emigrazione e nel 1924 fu fondata la “Cooperativa di emi-grazione agricola trentina San Cristoforo”, che includeva nel suo programma il propo-sito di conservare «integro il costume e le abitudini della regione, unitamente allareligione e alla lingua patria».La ripresa dell’emigrazione, sebbene in misura ridotta, avvenne a distanza di circaun decennio dalla fine del secondo conflitto mondiale. Nel 1954 vi erano in Germaniapiù di 6000 lavoratori italiani e nell’anno successivo essi superarono i 7000.Il 20 dicembre 1955 furono firmati i 23 articoli dell’accordo bilaterale italo-tedescoche regolarizzavano il reclutamento e l’impiego della manodopera italiana. Da partetedesca era interessato l’Ufficio del Lavoro di Norimberga. Da parte italiana partecipò alla stipulazione delle trattative il Ministero del Lavoroe della Previdenza Sociale. Dal 1955 l’afflusso della manodopera italiana aumentò dianno in anno e raggiunse nel 1956 la cifra di 19.096 lavoratori, che diventarono 48.809

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nel 1958, 21.685 nel 1960, 224.570 nel 1961, 296.104 nel 1964. In quel primo decennio i lavoratori venivano prima accuratamente selezionati af-finché fossero assicurate alla fatica forze fresche ed efficienti senza eccessivo riguardoper le esigenze umane e sociali. Il permesso di soggiorno era limitato e ad ognuno ve-niva assegnato il settore lavorativo. I lavoratori agricoli venivano inviati nelle campa-gne e trovavano sistemazione in fienili o in vecchie abitazioni. I lavoratoridell’industria erano indirizzati nelle miniere di carbone, nelle cave di pietra e nell’edi-lizia. Ad essi veniva fatto obbligo di abitare negli alloggi collettivi delle imprese con-sistenti in baracche site vicino alle fabbriche o lontane dalle abitazioni tedesche. Inquegli alloggi, spesso recintati e controllati di notte per impedire i contatti con estra-nei, i lavoratori venivano concentrati a centinaia ed erano obbligati ad uno stato d’iso-lamento che provocava frequenti casi di crisi isteriche e depressive.Era quella un’emigrazione di soli uomini perché veniva fatto rigoroso divieto di ri-chiamare le famiglie. vi furono pure gruppi di sole donne, occupate principalmentenell’industria conserviera e nell’industria del pesce. L’emigrazione di soli uomini e disole donne creò per molto tempo un clima di grave disagio. Quella situazione fu defi-nita«il peccato originale dell’emigrazione italiana in Germania». oggi (n.d.t. 1983-1984) ancora viene ripetuto che la Germania non era pronta ad accogliere quegliemigrati, accettati come lavoratori, ma ignorati come persone. Lo stesso cardinaleFrings in un discorso tenuto nel Duomo di Colonia nel mese di maggio del 1964 definìquella situazione «uno scottante problema sociale».Il 23 febbraio 1965 furono apportate delle modifiche all’accordo italo-tedesco percoordinarlo con le nuove norme della Comunità Economica Europea. Esse consenti-vano la libera circolazione della manodopera fra gli Stati membri della Comunità, abo-livano la limitazione del permesso di soggiorno e permettevano il ricongiungimentodei gruppi familiari. L’emigrazione cominciava così a cambiare volto. Gli emigrati usci-rono gradualmente dagli alloggi collettivi, ma per ragioni di economia si adattarono avivere nei quartieri più diseredati e negli ambienti più squallidi, dando così originead una nuova e volontaria segregazione. Il ricongiungimento dei gruppi familiari pro-poneva inoltre dei problemi di asili e di scuole che non potevano essere rapidamenterisolti.Nel 1965 l’afflusso della manodopera italiana toccò le 372.297 unità e nell’annosuccessivo raggiunse la cifra di 394.291 lavoratori emigrati. La crisi dell’attività pro-duttiva verificatasi nel 1967 portò a 266.801 presenze italiane in Germania, ma a par-tire dall’anno seguente si verificò una sensibile e graduale ascesa, che nel 1971 segnòla presenza di 408.015 lavoratori italiani.Dal 1960 al 1971 alla manodopera si aggiunsero altre forze lavorative. Arrivaronocon contratti di lavoro greci e spagnoli (1960), turchi (1963), portoghesi (1964), tu-nisini (1965), jugoslavi (1968) e marocchini (1971). L’assunzione di lavoratori pro-venienti da paesi estranei alla CEE presentava il vantaggio di potere ingaggiare forzelavorative con minore spesa e senza l’obbligo d’incorrere negli oneri imposti dalla Co-munità Economica Europea. In conseguenza di quegli ingaggi la percentuale di lavo-ratori italiani continuò a decrescere di anno in anno in proporzione al numero totaledei lavoratori stranieri.Conseguenza immediata dell’afflusso della manodopera straniera fu l’affermarsidi un regime concorrenziale sia fra gli stessi emigrati sia nei confronti degli operai te-deschi che con disappunto vedevano crescere ‘indice del lavoro a cottimo.Con gli operai italiani emigrati arrivarono pure piccoli commercianti come vendi-tori ambulanti, gelati, bottegai, gestori di ristoranti e pizzerie.

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Le situazioni precarie degli emigrati rappresentarono uno stimolo per una presadi coscienza ed una efficace reazione.Nel 1961 si verificò a Buchum una rivolta degli emigrati contro le condizioni disu-mane di lavoro e molti di essi furono espulsi. Nel 1962 scoppia Wolfsburg, presso gistabilimenti della vokswagen, la lotta contro le abitazioni. Si trattava però dicasi isolati,dai quali restavano assenti gli operai tedeschi. Una presa di coscienza di classe traoperai tedeschi e italiani si poté riscontrare negli scioperi dei metalmeccanici delBaden- Württemberg nel 1963 per l’aumento dei salari e negli scioperi del 1969.verso il 1970,con il sorgere delle associazioni,l’emigrazione diventò più coscientee cominciò ad occuparsi direttamente dei problemi che la riguardavano. Segno dellanuova situazione più matura fu l’occupazione di case, avvenuta a Francoforte,,a Essene altrove con la partecipazione di giovani tedeschi e di operai di altre nazionalità..Anche l’interesse per i problemi della scuola, la partecipazione degli stranieri ai sin-dacati tedeschi e la costituzione di Comitati degli Stranieri presso le amministrazionicomunali hanno dato testimonianza di una presa di coscienza nella difesa dei propridiritti.In rapporto alle regioni di provenienza il primato numerico dei connazionali è te-nuto dagli emigrati della Sicilia, seguiti da quelli della Calabria, della Campania e dellaSardegna. Agli ultimi posti stanno i lavoratori provenienti dalle regioni dell’Italia set-tentrionale. La circoscrizione consolare di maggiore insediamento è quella di Stoc-carda, seguita dalle circoscrizioni consolar di Colonia, Francoforte, Monaco eDortmund.A causa della recessione economica verificatasi dal 1974 al 1977 il numero di la-voratori italiani scese a275.000, ma riprese a risalire negli anni successivi. Nel quadrocomplessivo dell’emigrazione italiana la Germania assorbe più di un quarto di tutti inuovi emigrati. Negli anni 1977-1980il numero delle partenze dall’Italia ha continuatoa superare quello dei rientri. Nel tempo sesso si è verificata una fase positiva di svi-luppo sul piano culturale e politico delle comunità italiane in emigrazione, mentresono risultate inferiori alle attese le speranze d’integrazione. Particolarmente preoc-cupante è la situazione dei giovani della seconda generazione, che sono sforniti nel75% di qualifica professionale e sono perciò costretti a svolgere un ruolo subalternonella società che li accoglie.L’Opera BonomelliLa prima assistenza religiosa e sociale agli emigrati italiani in Germania fu prestatadall’opera Bonomelli, fondata nel 1900 dal vescovo di Cremona Geremia Bono-melli(1831-1914).Il vescovo di Cremona s’interessava da anni dei migranti. L’occasione per iniziareufficialmente l’opera gli fu offerta dalla richiesta di collaborazione religiosa avanzatadalla “Associazione Nazionale”,sorta a Firenze qualche anno rima per promuovere eMissioni italiane specialmente nel Levante. L’opera reclutava sacerdoti e laici volon-tari, disposti ad operare all’estero dove esistevano rilevanti insediamenti di emigratiitaliani. Centri di azione religiosa, nazionale e sociale erano i Segretariati degli operaiitaliani, guidati da laici e affiancati da un sacerdote missionario. I missionari eranoposti alle dipendenze dei vescovi tedeschi e lavoravano in collaborazione con il clerolocale. I missionari si spostavano da luogo a luogo e assistevano per la conservazionedella fede, ed evitare fenomeni di sfruttamento e per lenire le sofferenze della lonta-

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nanza e della fatica I missionari dovevano essere italiani e sacerdoti diocesani per go-dere di maggiore libertà d’azione.I Segretariati procuravano passaporti, sbrigavano documenti civili ed ecclesiastici,eseguivano traduzioni me curavano anche la spedizione di denaro. I Segretariati si oc-cupavano pure di vertenze tra emigrati e datori di lavoro, ma in un clima di assistenzaalieno da ogni funzione di partito.Co il Segretariato sorgevano la cappella, la scuola, la cassa di risparmio, la sedeper trascorrere insieme il tempo libero, la biblioteca e la cucina economica. Per l’emi-grato italiano il Segretariato era parrocchia, famiglia e casa.Il primo Segretariato fondato in Germania fu quello di Friburgo nel Baden. A Fri-burgo nel 1897 monsignor Lorenz Werthmann aveva fondato il Caritasverband tede-sco con funzioni assistenziali e nel 1871 era sorta in Germania la “Società San Raffaele”,destinata ad assistere gli emigrati tedeschi. L’ambiente tedesco era perciò preparatoa prestare assistenza agli migrati. Lo stesso monsignor Werthmann fu presente al Con-vegno tenuto a Cremona nel maggio del 1900 quando sorse l’opera Bonomelli.A Friburgo il missionario italiano curava la vita religiosa degli emigrati e ammini-strava i sacramenti, visitava gli operai dispersi nella regione e in incontri periodici as-sisteva le ragazze italiane ospitate nelle case messe a disposizione dalle fabbriche edirette spesso da suore italiane.Nei primi anni del secolo XX i connazionali residenti nel Baden erano circa 15-20.000. Superando ogni individualismo essi si accordarono per la fondazione di unaCassa di Risparmio, che raggiunse un capitale di 15.000 marchi di deposito. Nel 1904fu iniziata la pubblicazione del settimanale “La Patria” che nel 1908 raggiunse la tira-tura di 1.200 copie. Per l’istruzione pratica dei connazionali furono stampate 60.000copie di una guida per l’emigrante e vennero divulgati degli opuscoli di carattere for-mativo.Nel 1904 fu istituito il Segretariato di Berlino. Il missionario don Costa celebravala messa per gli italiani nella cappella di San Giuseppe presso le Carmelitane Scalzetedesche alla Papelleallee 61. Nei dintorni del convento vi era il quartiere italiano. Nel1914 don Costa fece ritorno in Italia e gli succedette don Luera, che fu internato alloscoppio della Prima Guerra Mondiale e alla fine di essa fece ritorno in patria. Nel 1921giunse a Berlino don Mozzicarelli di Rocca di Papa e rimase fino al 1923.Il Segretariato di Monaco estese la sua attività anche alle città di Passau, Regen-sburg, Linz e Norimberga. Nella zona lavoravano circa 8000 italiani e molti erano oc-cupati nelle fornaci. Il Segretariato svolse un’intensa opera di assistenza morale esociale ed intervenne a denunciare abusi patronali e a migliorare le condizioni degliemigrati.Nella vestfalia fu istituito il Segretariato di Bochum. Nella regione si contavano nel1908 circa 40.000 italiani che lavoravano nell’industria del ferro e della siderurgia edera necessario procedere all’assistenza sociale e morale dei lavoratori.L’impegno del Bonomelli nel portare avanti la sua opera, i rapporti tra i missionarie la Chiesa locale, le difficoltà e a volte le incomprensioni che resero difficile il lavorofra gli emigrati riecheggiano nella vasta corrispondenza intrecciata dal vescovo di Cre-mona con i vescovi tedeschi.Anche l’attività dei Segretariati non fu facile. I socialisti li accusavano di svolgereun’azione reazionaria tra gli operai. Gli stessi missionari, costretti dalla necessità asvolgere un lavoro senza troppi schemi preordinati, erano accusati di eccessiva indi-pendenza e di modernismo.La situazione divenne più complicata con l’avvento del fascismo, che nel suo spirito

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accentratore pretese la dipendenza dell’istituzione dal Commissariato Generale del-l’emigrazione.Nel 1926 la Chiesa tentò una chiarificazione attraverso una delimitazione delle at-tività dei missionari. Essi non potevano accettare «inviti o incarichi disdicevoli o pococonvenienti allo stato sacerdotale, come assistere ad operazioni di leva, stipulare con-tratti commerciali e simili od in genere partecipare a feste o dimostrazioni aliene dagliscopi propri del sacerdote». L’intervento dei missionari doveva essere riservato allecelebrazioni strettamente religiose e veniva fatto divieto in modo assoluto di prendereparte a manifestazioni politiche o di partito e di collaborare a giornali e periodici dicarattere politico. I missionari erano mandati a tutti per curare specialmente gl’inte-ressi spirituali di tutti.Il 18 novembre 1927 l’opera Bonomelli fu sciolta per impedirne l’assorbimentopolitico e per conservare l’autonomia spirituale e i missionari passarono alle dipen-denze della Sacra Congregazione Concistoriale. Nel 1928 venne nominato direttoredei missionari d’Europa monsignor Costantino Babini della Diocesi di Faenza, che ri-prese l’organizzazione dei circa 30 missionari che prestavano assistenza religiosa fragli emigrati italiani nei paesi europei. Egli protrasse il suo lavoro di rettore della Mis-sione di Parigi e direttore delle missioni europee fino al 1948 quando, già usciti dallaguerra, cominciava a profilarsi la nuova emigrazione. Monsignor Babini, cresciuto allascuola di Bonomelli, può essere considerato l’anello di congiungimento tra la vecchiae la nuova emigrazione.Assistenza religiosa durante il terzo ReichIn seguito agli accordi stipulati tra lo Stato italiano e quello tedesco, dal 1938 all’8settembre 1943 centinaia di migliaia di operai italiani svolsero attività lavorativa neiterritori tedeschi. I lavoratori, addetti all’agricoltura e all’industria, venivano assunticon contratto semestrale senza possibilità di ritorno anticipato e durante il loro sog-giorno in Germania veniva impedita ad essi la libera circolazione nei territori tedeschi.L’assistenza religiosa ai lavoratori veniva prestata dai cappellani del lavoro alle di-pendenze dell’ordinariato militare. I cappellani erano costretti a svolgere il loro mi-nistero in condizioni molto difficili sia perché erano solo tollerati dal regime fascistasia perché l’assistenza doveva essere estesa a vastissimi territori in campi di lavoronumerosi e lontani. Il regime di vita dei lavoratori era duro e severo. Nei campi di la-voro (Lager), formati di solito da baracche, venivano accolti soltanto uomini, che dor-mivano spesso in letti a castello su tavolacci e paglia. Quella situazione creava undisagio fisico e morale che giungeva al limite della sopportazione.L’azione pastorale dei cappellani consisteva nelle visite ai vari campi, dove venivacelebrata la messa. Dovunque era possibile incontrare degli operai più disposti e pre-parati a fare opera di apostolato tra i compagni di lavoro e a predisporre l’ambienteall’arrivo del sacerdote. Si distinguevano per spirito di sacrificio e capacità organiz-zativa i lavoratori provenienti dalle file dell’Azione Cattolica.Le grandi feste religiose dell’anno, particolarmente la Pasqua e il Natale, si svol-gevano in maniera solenne in grandi chiese, dove gli operai convenivano da varie lo-calità. Le messe venivano spesso accompagnate da cori di lavoratori, particolarmenteveneti, trentini e lombardi ed erano a volte precedute da corsi di predicazione. [Spessoperò, anche nelle grandi ricorrenze dell’anno, la messa veniva celebrata nei Lager.]Altra attività pastorale dei cappellani consisteva nelle visite ai malati ricoverati negliospedali.

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Le viste ai lavoratori sparsi nelle campagne venivano fatte nei giorni feriali. La ce-lebrazione della messa domenicale per gli operai dell’industria veniva preparata pertempo con i padroni di fabbrica e a volte il cappellano prolungava per alcuni giorni lasua permanenza in un campo e pernottava nelle baracche con i lavoratori.In alcune zone il lavoro dei cappellani presentava numerose difficoltà perché eracontrollato dalle autorità di polizia e di partito secondo le leggi di guerra. In alcuniluoghi il sacerdote era apertamente rifiutato e la sua azione pastorale, ostacolata dalleautorità locali, era più o meno tollerata dalle autorità sindacali italiane di partito, suc-cubi degli ordini impartiti dai tedeschi.Dopo l’8 settembre 1943 ai lavoratori italiani rimasti in Germania si aggiunseroaltri operai, reclutati per incrementare il lavoro dell’industria bellica. Essi venivanoindirizzati prima ai campi di smistamento, dove restavano per settimane in grandi ba-raccamenti ed erano costretti a dormire su tavolacci e pagliericci.Nei campi di concentramento venivano radunati per punizione i civili stranieri,colpevoli di mancanze e particolarmente per abbandono di lavoro. Più grave era lacondizione dei deportati politici, che venivano rinchiusi in appositi campi, dove nessuno poteva accedere.Gli operai diventarono una minoranza quando dai vari fronti di guerra comincia-rono ad affluire i prigionieri italiani. Il compito di assistenza religiosa ai prigionieridei Lager venne assegnato ad alcuni cappellani militari internati. In seguito agli ac-cordi di Berlino del settembre 1944 i soldati italiani prigionieri furono riconosciuticome lavoratori civili. Allora i cappellani militari vennero nuovamente rinchiusi neicampi di concentramento e ai lavoratori italiani continuarono a prestare assistenzareligiosa i cappellani del lavoro rimasti in Germania.Le missioni cattoliche italianeNel 1950, con l’istituzione delle prime Missioni Cattoliche Italiane, fu ripresa l’as-sistenza religiosa agli emigrati italiani in Germania. Il lavoro pastorale riguardava al-cune decine di migliaia d’italiani di vecchia emigrazione e ai connazionali [sic] rimastiin Germania dopo la fine del secondo conflitto mondiale. In quegli anni altra mano-dopera italiana era giunta per varie vie in territorio tedesco.Dopo l’accordo italo-tedesco del 20 dicembre 1955 cominciò l’affluenza in massadi lavoratori italiani e fu necessario provvedere alla fondazione di altre sedi di Mis-sione. Di anno in anno per circa un venticinquennio l’erezione di nuove Missioni andòrapidamente aumentando fino a raggiungere una sistemazione che in via di massimapuò considerarsi ora definitiva.Di pari passo con il graduale sviluppo numerico e pastorale delle Missioni proce-dette l’organizzazione delle strutture direttive ad esse pertinenti. Nel 1952 nacque laDirezione delle Missioni Cattoliche Italiane in Germania. Nel 1956 la Direzione incluseanche i Paesi Scandinavi, compresi fino a quel tempo tra le Missioni del Benelux. Nelladirezione delle Missioni si susseguirono don Aldo Casadei (1952-1960), padre Giu-seppe zanatta (1960-1965), don Silvano Ridolfi (1966-1971), don Giuseppe Clara (ott.1971- sett. 1981) e don Luigi Parente.Dal 1968, in seguito alle nuove direttive impartite attraverso la “Pastoralis Migra-torum cura” di Papa paolo vi, il termine di Direttore delle Missioni fu sostituito conquello di Delegato.L’organizzazione interna andò intanto consolidandosi con il raggruppamento delleMissioni in varie zone, che partendo dalla Baviera e da Baden- Württemberg giungono

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alla Lega Anseatica comprendente la Missioni di Amburgo, di Brema e del Niedersa-chsen. Una zona a parte è formata dai Paesi Scandinavi.I missionari delle varie zone si radunano in vari tempi dell’anno per discutere iproblemi delle Missioni e i rapporti con le Diocesi e per dare un’impronta di unità alleiniziative pastorali.Altra meta nello sviluppo organizzativo è stata l’istituzione del Consiglio di Dire-zione, fatta nel 1966. Il Consiglio è formato da alcuni membri, uno dei quali con finzionidi vicario, scelti dai missionari per coadiuvare il Delegato. Il Consiglio di Direzionerappresenta così un centro collegiale di attività nell’unità di indirizzo e di azione.I Convegni Nazionali, che si svolgono annualmente, radunano missionari, religiosee collaboratori di Missione per lo studio e l’approfondimento di temi, dai quali devonoscaturire nuove proposte di lavoro per l’aggiornamento della pastorale missionaria.L’aspetto amministrativo delle Missioni subì una svolta dal primo gennaio 1962quando la Sacra Congregazione Concistoriale, che per oltre un decennio aveva sov-venzionato i missionari, trasferì quell’onere alle diocesi tedesche.In varie occasioni fu svolto un lavoro unitario tra le varie Missioni Cattoliche Ita-liane d’Europa per procedere ad un esame collettivo intorno all’azione pastorale pro-mossa nei diversi paesi. Nel quadro di un rinnovato coordinamento di lavoro dal 7 al9 marzo 1967 si radunarono nel Palazzo Patriarcale di venezia la Presidenza dell’UCEI(Ufficio centrale per l’Emigrazione Italiana) e i Direttori delle Missioni della Francia,Inghilterra, olanda, Paesi Scandinavi, Belgio, Germania e Svizzera. A quell’incontro se-guirono negli anni successivi altri convegni a carattere internazionale che segnaronodelle tappe rilevanti per la vita religiosa nei paesi di emigrazione.Fra tante iniziative è degno di menzione il convegno dei Superiori Provinciali delleCongregazioni religiose che hanno sacerdoti in emigrazione. Il convegno, Promossodall’UCEI, ha avuto luogo a Milano il 14 maggio 1980 con la partecipazione di dodicipadri provinciali o di loro rappresentanti. In quell’anno i religiosi in attività nei paesieuropei di emigrazione erano 239, di cui 120 scalabriniani, sulla cifra complessiva di440 missionari dei migranti. Al convegno furono illustrati i problemi pastorali dei re-ligiosi in emigrazione e venne proposto che le congregazioni non abbiano solo curad’inviare nei propri paesi di emigrazione dei missionari, ma che formino in essi dellecomunità religiose e che il problema richiami l’interesse di tutti i confratelli.Alla graduale organizzazione delle Missioni si è accompagnata una trasformazionenel campo delle attività. Già dopo il primo decennio di lavoro era stato constatato chel’emigrazione in Germania aveva assunto delle caratteristiche nuove. Si rilevava infattiun periodo di permanenza più prolungato ed un aumento dei nuclei familiari, si af-facciava già la seconda generazione italo-tedesca e si era creata una fitta rete di Con-solati, uffici di assistenza sociale, addetti politici e associazioni. La nuova situazionerendeva meno assillante il lavoro del missionario nel campo sociale e gli consentivadi dare un maggior impulso alle attività pastorali attraverso la formazione di comunitàdi fede e per mezzo d’incontri di collaborazione con la Chiesa locale. Non sempre i ri-sultati del nuovo indirizzo sono stati soddisfacenti, ma dovunque fu messo in atto losforzo per alimentare nuovi fermenti di vita cristiana tra le collettività italiane e perstringere dei legami di lavoro con la Chiesa tedesca.Ma a base del lavoro missionario, nonostante trasformazioni e adattamenti, restacome pietra fondamentale la carità di Cristo verso i fratelli poveri e diseredati. NellaPasqua del 1967 don Silvano Ridolfi porgeva il saluto ai missionari ricordando soprat-tutto che la loro fatica doveva essere trasformata in un atto di amore continuo versoDio e verso il prossimo: «Grazie a Dio abbiamo le giornate piene come un guscio

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d’uovo. Purtroppo sentiamo anche la pena di un serrato funambolismo ascetico – spi-rituale. Il giovedì santo saremo “uni”. Per sentimenti nella nostra dispersione geogra-fica. Il Cristo Salvatore e Giudice ci ha imposto e si attende da noi la carità».Documenti pontificiAlle varie iniziative promosse per l’assistenza religiosa agli emigrati si accompa-gnarono le decisioni dei Pontefici che adeguarono le loro disposizioni alle trasforma-zioni sopravvenute nelle forme e nelle caratteristiche dei fenomeni migratori.Agli inizi ogni competenza in materia di assistenza religiosa agli emigrati era affi-data alla Congregazione di Propaganda Fide. Nel 1912 Papa Pio X costituì presso laSacra Congregazione Concistoriale l’Ufficio Emigrazione. Ad esso nel 1914 fu affian-cato il Pontificio Collegio per l’emigrazione con lo scopo di reclutare e preparare deisacerdoti da inviare come missionari nei paesi di emigrazione. Il Pontificio Collegiorimase attivo fino al 30 settembre 1973, data della chiusura.Il primo agosto 1952 Papa Pio XII pubblicò la Costituzione Apostolica “Exul Fami-lia”. Essa era testimonianza della viva preoccupazione della Chiesa per il problemadell’emigrazione che si era fortemente acutizzato durante e dopo il secondo conflittomondiale. L’ondata dei nuovi emigrati in tanti paesi del mondo aveva trovato molteChiese locali non sempre preparate a far fronte ai nuovi impegni pastorali. Pure nel1952 Papa Pio XII istituì presso la Sacra Congregazione Concistoriale il Consiglio Su-periore per l’Emigrazione. Per l’assistenza tecnica e sociale ai migranti lo stesso Pon-tefice istituì la Commissione Cattolica Internazionale, con sede a Ginevra, con lo scopodi «unire e collegare tra loro le forze delle associazioni e dei Comitati cattolici che esi-stono dappertutto e favorire, rafforzare e coordinare le loro iniziative per gli emigrantie i profughi».Lo zelo di Papa Pio XII per le opere di emigrazione diede un’altra dimostrazionenel discorso ascetico – pastorale tenuto nel mese di luglio del 1957 in occasione delPrimo Convegno Nazionale dei Delegati di Emigrazione. In omaggio al Pontefice dal 3al 7 agosto 1962, nella ricorrenza del decimo anniversario della “Exul Familia”, fu or-ganizzato un pellegrinaggio a Roma di profughi ed emigrati e ad esso parteciparonoanche i missionari della Germania con una rappresentanza di lavoratori italiani.A distanza di alcuni anni dalla pubblicazione della “Exul Familia” si verificaronodiversi avvenimenti che richiesero l’aggiornamento del documento pontificio. Fra letrasformazioni sopravvenute nel corso di quegli anni vanno registrati i grandi movi-menti migratori che si svilupparono dai paesi mediterranei verso l’Europa centrale.Altri spostamenti di masse di lavoratori riguardavano l’Africa, l’Asia e l’America Latina. Già nell’enciclica “Populorum Progressio” e in alcuni decreti del Concilio vaticanoII erano contenuti i germi di una futura trasformazione delle direttive riguardanti l’as-sistenza religiosa ai migranti. Anche i mutamenti delle direttive pastorali scaturite dalConcilio come le Conferenze Episcopali Nazionali e la visione missionaria ed ecume-nica della Chiesa esigevano l’aggiornamento della “Exul Familia” in senso pastoraleed ecclesiale. Si avvertiva soprattutto l’esigenza di nuove formule che coinvolgesseromaggiormente la responsabilità pastorale della Chiesa locale e stimolassero alla ri-cerca di linee comuni di lavoro con il clero e i cattolici dei luoghi di immigrazione. Inol-tre l’”Exul Familia”, troppo legata alla problematica dell’emigrazione italiana e perciòpraticamente ignorata da interi continenti, doveva cedere il posto ad una visione in-ternazionale dell’emigrazione.L’esigenza di un nuovo documento pontificio sull’emigrazione era anche postulata

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dal fatto che la “Exul Familia”, preoccupata dall’aspetto giuridico dell’assistenza agliemigranti, non aveva evidenziato gli atteggiamenti e i valori che s’intrecciano nelcampo dell’emigrazione e inducono a particolari comportamenti in rapporto al nuovoordine sociale e al nuovo ambiente religioso.Anche sul piano pratico l’emigrazione non poteva più restare all’esclusiva dipen-denza della Sacra Congregazione per i vescovi. Nel quadro della riforma della CuriaRomana erano stati istituiti dei nuovi Segretariati che per diversi aspetti potevano es-sere interessati al problema pastorale delle Missioni.Durante la seconda sessione del Concilio vaticano II, nel corso della congregazionegenerale del 18 settembre 1964, il Cardinale Carlo Confalonieri, Prefetto della SacraCongregazione dei vescovi, espresse la necessità di aggiornamento della “Exul Familia”.Negli anni seguenti, a partire dal 1966, si passò da un primo esame del problema allaredazione di un testo provvisorio eseguito sulla scorta di suggerimenti e proposte rac-colti presso le Conferenze Episcopali. Dopo due successivi esami compiuti dalle stesseConferenze Episcopali il testo, rinnovato e perfezionato, fu favorevolmente accolto daiPadri della Sacra Congregazione per i vescovi nella seduta plenaria del 21 novembre1968. Il documento prese il titolo “Pastorale Migratorum Cura” e fu firmato in formadi Motu Proprio da Papa Paolo vI il 15 agosto 1969.Il nuovo documento pontificio suscitò ovunque un vivo interesse e le ConferenzeEpiscopali Nazionali cominciarono a dedicarsi con particolare impegno al problemadelle migrazioni. vennero prese così delle iniziative pastorali per agevolare gli emigratiad adattarsi alle nuove condizioni di vita e per preparare le Chiese locali ad accoglierlinelle loro comunità con spirito di carità fraterna.Nella nuova visione ecclesiale e sociale prospettata dal documento pontificio tro-vano largo spazio i problemi relativi al “patrimonio culturale”, alla “diversità di tradi-zione”, al “processo d’integrazione” e alle “differenze culturali”. Un altro passo moltoimportante è rappresentato dalle disposizioni che sottolineano i compiti delle Confe-renze Episcopali dei paesi di provenienza e dei luoghi di accoglienza per preparare gliemigrati alle nuove esperienze sociali e per aiutarli alla conservazione della fede conuna adeguata assistenza spirituale per mezzo di sacerdoti della medesima lingua etradizione.Al Motu Proprio di papa Paolo vI il 22 agosto 1969 è stata aggiunta la “Istruzione”,pubblicata dalla Sacra Congregazione per i vescovi per dare attuazione al documentopontificio.A completamento della ristrutturazione delle opere delle migrazioni il 19 marzo1970 Paolo vI emanò una Lettera Apostolica con la quale venne istituita la “PontificiaCommissione per la Pastorale delle Migrazioni e del Turismo”, di cui è presidente ilCardinale Prefetto della Sacra Congregazione per i vescovi. Lo scopo della nuova isti-tuzione fu determinato dalla necessità di collegare «in forma stabile, feconda ed effi-cace» le varie iniziative a favore dei migranti, dei marittimi, dei viaggiatori in aereo,dei turisti e dei nomadi e di sottoporle ad un’unica direzione.Riferimenti ai migranti si riscontrano pure nella Lettera Apostolica “octogesimaAdveniens” pubblicata da paolo vI il 14 maggio 1971. In essa fra l’altro si legge: «È ur-gente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazio-nalistico per creare uno statuto che riconosca un diritto alla emigrazione, favorisca laloro integrazione, faciliti le loro promozione professionale e consenta ad essi l’accessoad un alloggio decente dove, occorrendo possano essere raggiunti dalle loro famiglie”.L’11 maggio 1978 la Pontificia Commissione Migrazioni e Turismo diffuse la lettera“La Chiesa e la mobilità umana”.

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In una parte di essa è trattato l’argomento: “Pastorale degli emigranti. La stessaPontificia Commissione nel mese di marzo 1979 ha organizzato a Roma il ConvegnoNazionale delle Migrazioni e Turismo.Papa Giovanni Paolo II, proseguendo sulla linea tracciata dai suoi predecessori, hadimostrato in varie occasioni il suo zelo apostolico a favore dei migranti. L’incontrodel Pontefice con le varie comunità dei lavoratori emigranti, avvenuto a Mainz il 17novembre 1980, ha testimoniato la viva preoccupazione della Chiesa per i problemidell’emigrazione. Nell’Enciclica “Laborem Exercens” del 14 settembre 1981 è statomesso in luce il fenomeno dell’emigrazione, che “ha, anche oggi, grandi dimensioniper le complicazioni della vita contemporanea”. Nella salvaguardia dei diritti della per-sona umana il Pontefice ha posto particolarmente l’accento sul dovere di tutelare i di-ritti dei lavoratori e di evitare lo sfruttamento umano e sociale. Nella commisurazionedel valore del lavoro devono essere adoperati gli stessi criteri che valgono per i lavo-ratori della società di accoglienza “e non con riguardo alla diversa nazionalità, reli-gione o razza”.Lo stesso Pontefice nel discorso tenuto in Piazza San Pietro il 15 novembre 1981nella circostanza della “Giornata Nazionale delle Migrazione” ha sottolineato gli aspettipositivi e negativi del fenomeno migratorio e i diritti degli emigrati rispetto alla casa,al lavoro, al trattamento economico e previdenziale, alla sicurezza dell’impiego e delsoggiorno, ad una adeguata formazione e promozione professionale e alle varie formedi assistenza sociale. Ai diritti devono corrispondere i doveri dei lavoratori migranti,che devono sentirsi impegnati a concorrere alla realizzazione del bene comune e allatutela dell’ordine pubblico nella terre che li accoglie. L’emigrato se da un lato è “giu-stamente desideroso che siano salvaguardate le proprie tradizioni culturali”, dall’altrodeve assumere «un atteggiamento di rispetto cordiale ed aperto verso il patrimoniodi valori, di lingua, di costumi della nazione che lo ha accolto».Chiesa in partenzaFin dal 1952, dopo la pubblicazione di “Ex”, la Sacra Congregazione Concistorialesi valse della collaborazione della Congregazione Scalabriniana da essa dipendente especializzata nel campo dell’assistenza religiosa agli emigrati. Alla stessa Congrega-zione fu affidata la direzione del Pontificio Collegio per i sacerdoti italiani di emigra-zione. Anche il primo Direttore nazionale delle opere per l’Emigrazione, padreFrancesco Millini, fu scelto fra gli Scalabriniani nel 1952.L’episcopato italiano nel 1960 istituì una Commissione per l’Emigrazione, che nel1962 pubblicò una Lettera collettiva dei vescovi italiani al clero sui problemi dell’emi-grazione.Dal primo gennaio 1965 la Sacra Congregazione concistoriale affidò alla Commis-sione Episcopale Italiana per l’Emigrazione la cura diretta dell’assistenza spirale, mo-rale e sociale degli emigrati italiani. La Commissione Episcopale agiva per mezzodell’Ufficio Centrale dell’Emigrazione Italiana (UCEI), che aveva l’incarico di metterein esecuzione quanto la Commissione Episcopale veniva studiando e programmando.Nell’UCEI furono unificati tutti i servizi svolti precedentemente dalla Direzione Na-zionale delle opere di Emigrazione e dalla Giunta Cattolica Italiana per l’emigrazione.A raggio locale agivano i Comitati Diocesani per l’Emigrazione, alcuni dei quali isti-tuirono degli uffici operativi specifici, come avvenne a Milano e a Torino. Ultima ca-pillare ramificazione dell’organizzazione erano i Sottocomitati parrocchiali.La Commissione Episcopale Italiana e l’Ufficio Centrale dell’Emigrazione moltipli-

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carono i loro contatti con gli episcopati europei dei paesi di emigrazione per raggiun-gere dei risultati concreti sul problema dell’assistenza religiosa ai migranti. In esecu-zione al numero 22 del documento pontificio vennero particolarmente sollecitate leConferenze Episcopali dei paesi di emigrazione a costituire una Commissione Episco-pale per le migrazioni o a designare un vescovo che si interessasse a fondo del pro-blema. Con l’episcopato italiano svolsero pure un’intensa opera per la tutela spiritualedei migranti l’episcopato spagnolo e quello portoghese, ugualmente interessati al mo-vimento migratorio.Intenso è stato pure il lavoro di collegamento dell’Ufficio Centrale dell’EmigrazioneItaliana con la Conferenza Episcopale Italiana, con gli episcopati dei diversi paesi, coni missionari, con le autorità civili e con le strutture sociali operanti nel campo dell’emi-grazione come i sindacati e le associazioni.Lo zelo costante della Chiesa italiana a favore dei migranti è pure dimostrato dallacelebrazione della “Giornata Nazionale delle Migrazioni” che viene annualmente ce-lebrata la terza domenica di novembre, dai viaggi dei vescovi nelle terre di emigra-zione, dai convegni nazionali, regionali e diocesani, dalla riunione annuale dei Delegatiindetta dall’UCEI, dai raduni di ex missionari iniziati nel 1972, da assemblee di studiopromosse sa vari enti con la collaborazione o con la partecipazione dei rappresentantidella CEI e dell’UCEI.Altre testimonianze dell’interesse della Chiesa Italiana per i problemi dell’emigra-zione sono offerte dalle lettere pubblicate da singoli vescovi o dagli episcopati regio-nali. Particolarmente importante è stata la lettera dell’episcopato siciliano “Abbiamocreduto nell’amore”, pubblicata nel 1970.Tra le voci dei vescovi, a titolo di esempio, merita di essere riportata quella del ve-scovo di Caltanisetta monsignor Alfredo Carsia che così descrive la cruda realtà del-l’emigrazione siciliana e l’impegno della Chiesa locale per attenuarne le doloroseconseguenze: «Nella mia diocesi vi sono comuni, la cui popolazione si è più che di-mezzata negli ultimi 20 anni. I miei diocesani si sono dispersi in mille rivoli per le viedel mondo e hanno dato luogo a piccole comunità in mille città e nazioni diverse. Cosìne ho incontrati in Francia, Germania, Belgio e, naturalmente, al Nord Italia. So chepotrei incontrarne in olanda, Inghilterra, Canadà [sic]. Mi interrogo a volte sulla miaresponsabilità nei confronti dei migranti e cerco di coinvolgere il mio presbiterio. Hoprogrammato un convegno sull’emigrazione, alcuni anni or sono, insieme ad ungruppo di operatori pastorali di una diocesi di Francia: alcuni miei sacerdoti hannofatto delle buone esperienze di servizio pastorale ai migranti in Francia e in Germania.Attendo, per la prossima estate, ancora un vescovo francese che viene a conoscere laChiesa di partenza di molti suoi immigrati. Ma mi sento impari a fronteggiare la situa-zione. La chiesa di partenza non può far molto. I parroci, in genere, mantengono uncerto contatto con gli emigrati (rispondenza, stampati, visite), ma non può bastare. Laresponsabilità più grande, mi pare, è quella della Chiesa di arrivo. Il fenomeno migra-torio interpella in maniera particolarissima la società e le Chiese verso cui i migrantipoveri, spinti dalla necessità di trovarsi un lavoro, si sono indirizzati».La Chiesa di arrivoLa Chiesa tedesca, dotata di lunga esperienza nell’assistenza ai propri connazionaliemigrati, ha avvertito per tempo la necessità di provvedere alla cura religiosa degliemigrati stranieri. Infatti, prima che nel secondo dopoguerra cominciasse l’afflussodella nuova emigrazione, numerosi sacerdoti tedeschi svolgevano già attività pastorale

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fra i nostri lavoratori. Quella preoccupazione diventò più tardi un problema fonda-mentale per la Chiesa locale. Essa infatti nel 1956 provvide a facilitare il lavoro deimissionari con l’assunzione dei primi operatori sociali da parte del Caritasverband.L’episcopato tedesco fin dagli inizi dell’azione pastorale dei missionari si premuròpure di emanare delle disposizioni al clero locale affinché mettesse a disposizionechiese e ambienti per la celebrazione dei riti sacri e per il tempo libero degli emigratiitaliani. I missionari furono inseriti nel clero tedesco alle dipendenze del vescovo lo-cale e ad essi fu preposto un Direttore nazionale, che dal 1969 assunse il titolo di De-legato.La soluzione dei problemi generali degli stranieri fu affidata prima alla “Katholi-sches Auslandssekretariat”, sostituito poi dalla “zentralstelle Pastoral der DeutschenBischofskonferenz”. Presso la zentralstelle, incaricata per la pastorale dei migranti, èistituito un Comitato permanente (Beirat), composto da cinque Delegati Nazionali eda quattro Referenten diocesani per gli stranieri. Il Beirat discute i problemi degli stra-nieri in riunioni bimestrali e avanza delle proposte alla Sottocommissione episcopale.In ogni diocesi vi è un Referent, nominato dal vescovo che coordina il lavoro dei sa-cerdoti stranieri. In alcune diocesi è stato pure istituito un Consiglio Pastorale Dioce-sano formato da tedeschi e stranieri, laici e sacerdoti, per discutere sulla situazionedegli emigrati e per risolvere i loro problemi.Agli inizi del 1966 la Conferenza Episcopale Tedesca decise d’inserire l’assistenzaagli stranieri nella Commissione Pastorale presieduta dal Cardinale Döpfener, Arcive-scovo di Monaco e Presidente della stessa Conferenza Episcopale. Al Convegno Nazio-nale dei missionari italiani tenuto a Leitershofen presso Augsburg dal 18 al 21 aprile1967 fu sollecitata la designazione di un vescovo come relatore degli stranieri nellaCommissione Episcopale Tedesca e nell’anno successivo quell’incarico fu affidato alvescovo Helmut Hermann Wittler di osnabrück.Testimonianza della viva preoccupazione della Chiesa locale verso gli emigrati èla relazione presentata dal vescovo di Müster Heinrich Tenhumberh alla riunione ple-naria della Commissione Episcopale tedesca, tenuta a Essen dal 16 al 19 febbraio 1970.Dall’esame della situazione e dei problemi dei lavoratori stranieri in Germania il ve-scovo rilevò che i paesi altamente industrializzati non dovevano tener conto soltantodel punto di vista economico, trascurando le esigenze sociali e culturali. La Chiesa daparte sua aveva l’obbligo di equiparare l’assistenza spirituale ai lavoratori stranierialla cura d’anime ordinaria. La Chiesa inoltre doveva rivolgere allo stato e alla societàla richiesta che la Germania si considerasse paese d’immigrazione e giungesse ad unariforma del diritto di cittadinanza. Era pure necessaria l’elaborazione di una “Chartainterna dei diritti dei vari gruppi” per il settore sociale e culturale. La Chiesa, lo Statoe la società dovevano premurarsi per l’integrazione umanamente dignitosa delle fa-miglie dei lavoratori stranieri e per la tutela della loro identità nazionale. In seguito a quella relazione la Conferenza episcopale Tedesca incaricò il Commis-sariato dei vescovi Tedeschi a Bonn di formare un gruppo di lavoro in collaborazionecon il Segretariato Cattolico per l’Estero e con esperti nel campo commerciale e poli-tico. Al gruppo di lavoro fu affidato il compito di esaminare i problemi particolari deilavoratori stranieri, come il problema dell’abitazione e dell’educazione scolastica, edi esamina tutte le possibilità per attuare proposte di soluzione. Nel 1973 il Sinodo Comunitario delle diocesi della Repubblica Federale di Germa-nia emanò le decisioni riguardanti lavoratori stranieri, «Un problema della Chiesa edella società». In esse vennero esaminati la situazione degli emigrati, i doveri delloStato, la responsabilità pastorale e i compiti della Chiesa nei confronti dei cristiani

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stranieri e i diritti degli emigrati in ordine al soggiorno, al ricongiungimento delle fa-miglie, al lavoro, all’assistenza scolastica, giuridica e sanitaria. Le grandi tematichedell’emigrazione, valutate alla luce degli insegnamenti pontifici, riemersero così intutte le loro implicazioni e imposero una severa presa di coscienza da parte dellaChiesa e dello Stato. Le decisioni sinodali, ora in via di attuazione, rappresentano unmodello per la pacifica convivenza e il vicendevole aiuto tra le comunità straniere e lapopolazione tedesca.La conferma dell’impegno assunto dalla Chiesa tedesca in difesa dei diritti degliemigrati viene, fra altre testimonianze, dalla presa di posizione del vescovo di onsa-brück Helmut Hermann Wittler contro misure restrittive a danno degli stranieri e par-ticolarmente avverse al ricongiungimento familiare degli emigrati, emanate nel 1981a Berlino. In una lettera indirizzata al Cancelliere Federale Helmut Schmidt il vescovoha denunciato le nuove disposizioni che violano i diritti fondamentali della famiglia edella stessa Costituzione tedesca. Quelle disposizioni infatti rendono «vani tanti annidi sforzi da parte delle associazioni assistenziali, delle Chiese e di numerose iniziativeper rendere possibile l’integrazione degli stranieri. La Chiesa s’impegna a sostenerecon tutti i mezzi che le sono offerti una politica che si renda garante della dignità per-sonale di ogni uomo»ı.Alla voce di protesta del vescovo di onsabrück, responsabile per gli stranieri pressola Conferenza Episcopale Tedesca, si è aggiunta una lettera pure indirizzata al Cancel-liere Federale dal dottor Schober, presidente del Diakonische Werk della Chiesa Evan-gelica tedesca, e, dal dottor Hüssler, presidente del Caritasverband.Il programma e le finalità della Chiesa tedesca a vantaggio dei lavoratori stranierisono così compendiati nelle «decisioni del Sinodo comunitario” delle diocesi della Ger-mania: «Conformemente alla volontà di Dio, l’azione cristiana di servizio mira alla pie-nezza della vita dell’uomo e ad un mondo più umano e più fraterno (…) Questo serviziodella Chiesa abbraccia tutti i forestieri e gli afflitti senza eccezione di origine e di reli-gione. Sussiste però una specifica responsabilità per i cattolici e per tutti coloro chefanno professione di fede in Cristo perché proprio nella solidarietà della propria vitainterna la Chiesa si pone come segno dell’Umanità intera».

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La cultura francese e i cattolici italianiNel 1954, la prestigiosa rivista dei domenicani francesi, «la vie Intel-lectuelle», fondata a Parigi nel 1928 e fautrice di un profondo rinnova-mento del pensiero cattolico in Francia grazie anche all’apporto,soprattutto nel primo decennio di vita, di personalità come Maritain, Mou-nier, Chenu, Sturzo e Prélot1, aveva in progetto un numero speciale suAspects et problèmes du catholicisme italien, per il quale era stato program-mato un contributo sulla spiritualità nell’Italia meridionale. È molto pro-babile che sia stato lo storico Ettore Passerin d’Entrèves2, attraverso oinsieme ad andré Nouat3, come testimonia una lettera di quest’ultimo

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Saverio Napolitano

1 In proposito, si rinvia a EgIdIo WaltEr CrIvEllIN, Cattolici francesi e fascismo italiano.«La Vie Intellectuelle» (1928-1939), Franco angeli, Milano 1984 e JEaN-ClaudE dElBrEIl, LaRevue «La Vie Intellectuelle». Marc Sangnier, le thomisme et le personnalisme, les Éditionsdu Cerf, Paris 2008.2 Nato a torino nel 1914 e morto ad aosta nel 1990, fu allievo di Walter Maturi e gioeleSolari all’università del capoluogo piemontese, avendo come compagno di corso il futurostorico Franco venturi. aderì alla resistenza. docente di Storia del risorgimeno nelle uni-versità di Pisa, Milano “Cattolica” e torino, amava definirsi un «cattolico senza aggettivi».legato al gruppo de” il Mulino”, condiresse la «rivista di storia e letteratura religiosa». trale sue opere: La Rivoluzione francese, La formazione dello Stato unitario, Religione e politicanell’Ottocento europeo (NICola raPoNI, Ettore Passerin d’Entrèves, in «rassegna storica delrisorgimento», lXXvII, 3, 1990, pp. 387-94; alBErt-MarIE CarEggIo E FraNCESCo traNIEllo,Hector Passerin d’Entrèves, in «Bullettin de l’académie Saint-anselme d’aoste», n.s., III, 1991,pp. 7-28; daNIlo vENEruSo, Ettore Passerin d’Entrèves (1914-1990) storico della cultura edella società degli ultimi due secoli, in «rivista di storia della Chiesa in Italia», Xlv, 1991,pp. 408-36; FraNCESCo traNIEllo, gIllES PÉCout, gIuSEPPE talaMo, NICola raPoNI (a cura di),Ettore Passerin d’Entrèves nella storiografia italiana ed europea, in «Quaderni del Museodel risorgimento di torino», n.1, 1995). 3 Sociologo di orientamento cristiano-sociale, visitò la Calabria nel 1954 (Castrovillari,Palmi, gambarie, Cutro, San giovanni presso reggio e Santa Severina) e nell’agosto 1957,avendo in quest’ultimo tour come guide Biagio Cappelli e agostino Miglio a Castrovillari,antonino Basile e luigi lacquaniti a Palmi, gaetano Cingari a reggio, Catona e Pellaro,

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dell’11 gennaio 19544, a suggerire giuseppe Isnardi per questo compito5.Passerin e Isnardi erano legati da una lunga amicizia e da molta familiarità,attestate dal carteggio conservato nel Fondo Isnardi dell’associazione Na-zionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia a roma6. Non sappiamoquando abbia avuto origine la conoscenza tra i due, ma è certo che maturòe si rafforzò nella profonda convergenza sugli ideali del cattolicesimo so-ciale. rené Nouat fu conosciuto da Isnardi a Pisa e Firenze, presumibil-mente con la mediazione di Passerin, la cui frequentazione con il sociologofrancese si desume da una lettera poco più avanti riportata.Passerin, scrivendo a Isnardi la domenica delle Palme del 1954, lo ag-giorna sulle decisioni della rivista parigina, assicurandolo del benestareal suggerimento suo e di Nouat:«le raccomando un po’ indiscretamente, forse, il quaderno per vie Intellectuelle sulcattolicesimo italiano, di cui sta occupandosi il Padre Maydieu. le telefonerà verso Pasqua.Si vorrebbe da lei qualcosa sulla pietà popolare, sulla vita religiosa nel Sud. […] Potessescrivere lei un 10 cartelle … oppure gli consigli qualcuno. Ma temo non ci sia altri …»7.Evidentemente Isnardi, nella modestia che ne contrassegnava la per-sonalità, temeva di non essere all’altezza del compito. lo incoraggiò il di-rettore della rivista, padre andré Maydieu, con una lettera del 30 aprile,dopo che la figlia di Isnardi, Margherita8, nella capitale francese per motivi

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come risulta rispettivamente da una cartolina postale del 13 settembre 1954 e da una let-tera del 13 luglio 1957 entrambe a Isnardi, al quale il precedente 5 giugno aveva manife-stato l’intenzione di dar vita a Parigi a un’associazione di amici francesi della Calabria(aSSoCIazIoNE NazIoNalE PEr glI INtErESSI dEl MEzzogIorNo d’ItalIa. arChIvIo gIuSEPPE ISNardI[di seguito aNIMI/agI], Corrispondenza. Minute, aa185). un suo contributo sulla realtà so-ciale calabrese fu incluso nel volume di JEaN MEyrIat, La Calabre, une région sousdeveloppéede l’Europe méditerranéenne, armand Colin, Paris 1960 (tr. it., lerici, Milano 1963).4 aNIMI/agI, Corrispondenza fascicolata per mittente, aa185. la cartella contiene 12 let-tere e una cartolina illustrata inviate da Nouat a Isnardi tra il 1953 e il 1961.5 Sulla figura e l’operato di Isnardi, nato a Sanremo e morto a roma, devo necessaria-mente rimandare al mio Giuseppe Isnardi (1886-1965). Coscienza nazionale e meridionali-smo, rubbettino, Soveria Mannelli 2014, volume inserito nella Collezione di studimeridionali dell’animi.6 aNIMI/agI, Corrispondenza fascicolata per mittente, aa192. lettere e cartoline postalicoprono il periodo 1949-1964. 7 aNIMI/agI, Corrispondenza fascicolata per mittente, aa192, dove si conservano 27 let-tere e 13 cartoline postali scritte da Passerin tra il 1949 e il 1964.8 Margherita Isnardi, nata a Catanzaro il 4 ottobre 1928, quando il padre vi risiedé perla seconda volta dal 1921appunto al 1928, è morta a roma il 16 novembre 2008. docentedi Storia della filosofia antica all’università di roma “la Sapienza”, ha studiato il pensierodi Jean Bodin e diretto l’«archivio storico per la Calabria e la lucania». le si deve la curateladel volume gIuSEPPE ISNardI, La scuola, la Calabria, il Mezzogiorno. Scritti 1920-1965, laterza,roma-Bari 1985 (di seguito siglato SCM). È stata ricordata da guIdo PESCoSolIdo, Margherita

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di studio, aveva provveduto a recapitare in redazione la comunicazione diassenso del padre, al quale con la lettera citata veniva preannunciato, anzi,che l’articolo atteso, abbinato con quello di giuseppe rovero, di cui eracomparso nel monografico de «Il Ponte» n. 8-9 del 1949 dedicato al Pie-monte il saggio Aspetti della vita religiosa in Piemonte e nello speciale n.6del 1950 su Chiesa e democrazia l’intervento di apertura Il problema poli-tico dei cattolici9, avrebbe sicuramente aiutato «les catholiques de Franceà comprendre l’âme religieuse des catholiques italiens»10.Il 9 giugno ’54 Isnardi, inoltrava a Maydieu quanto promesso, preci-sando nella lettera che, non padroneggiando appieno la lingua francese,aveva optato per la redazione del testo in italiano11. dei timori di Isnardicirca la positiva accoglienza del suo saggio ci restituisce l’eco una letteradel 27 giugno di Passerin d’Entrèves da Marina di Pisa, nella quale, elo-giando l’amico per avere mantenuto fede all’impegno con la rivista, scrive:«Non condivido i suoi scrupoli e sono persuaso che lei abbia saputo dare con la con-sueta chiarezza, e col calore di simpatia che conosco, un quadro vivace del Mezzogiornoreligioso. Non ho corrispondenza diretta col Maydieu (per colpa mia soprattutto, perchésono un pessimo corrispondente), ma Nouat mi tiene al corrente delle impressioni di May-dieu e quindi fra breve penso che mi farà l’elogio del Suo scritto»12.Successivamente, con una cartolina postale del 20 luglio da Châtillon,lo storico torinese lo rassicurava:«Caro professore, solo due parole per dirle che ho avuto una lettera di Nouat, entusia-sta e riconoscente del Suo articolo. Non so se il padre Maydieu le ha scritto nel frattempo– so che sono sovraccarichi di lavoro alla redazione de la vie Intellectuelle e voglio quindiche lei sappia almeno di questa sincera impressione di un amico che segue con passionee simpatia la nascita del cahier sull’Italia»13.

la Calabria paradigma della religiosità meridionale in un inedito di giuseppe Isnardi

Isnardi Parente e l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, gENNaroSaSSo, Ricordo di Margherita Isnardi, entrambi in «archivio storico per la Calabria e la lu-cania» (di seguito abbreviato in «ascl»), lXXv, 2008-2009, pp. 173-79 e181-98; gIaCINtoPISaNI, Margherita Isnardi Parente, in «rivista storica calabrese», n.s., XXXIII, 2011, pp. 269-71. affettuosi riferimenti a Margherita Isnardi e apprezzamenti per la sua attività di stu-diosa negli esordi giovanili sono costanti nelle lettere di Passerin al padre di lei (aNIMI/agI,Corrispondenza fascicolata per mittente, aa192). un breve, denso cenno a Passerin da partedi Margherita Isnardi è contenuto nel suo I miei maestri, il Mulino, Bologna 2003, p. X,quando ne riferisce come uomo «dalla sensibilità raffinata e dalla cultura vastissima dastrepitoso lettore qual era», aggiungendo che «mi fu vicino nel difficile periodo della miacrisi religiosa, seppur a contrasto, io tesa nella mia ansia di coerenza e lucidità, lui chiusonella sua singolarissima atmosfera (“cette horrible clarté m’effraie”)». 9 luCa PolESE rEMaggI, «Il Ponte» di Calamandrei 1945-1956, olschki, Firenze 2001, pp.272 e 285.10 aNIMI/agI, Corrispondenza fascicolata per mittente, aa124.11 IvI, Corrispondenza. Minute, ae326.12 IvI, Corrispondenza fascicolata per mittente, aa192.13 IBIDEM.

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Il testo, intitolato Religiosità meridionale e conservato nel già menzio-nato fondo Isnardi14, rimase sfortunatamente inedito, forse per la mortedi Maydieu avvenuta nel 1955 e la cessazione della rivista l’anno dopo. Quilo si rende noto per la prima volta integralmente, sia come recupero di unapreziosa testimonianza dell’operato di Isnardi in favore della Calabria edel Mezzogiorno, sia per la ricchezza delle considerazioni ivi contenute,svolte peraltro nel suo consueto, pregevole stile ipotattico e colloquiale.Più importante di tutto è sottolineare che il discorso di Isnardi si avvale -benché in modo non dichiarato, ma limpidamente rilevabile - del para-digma calabrese, richiamando il monachesimo italo-greco e il Mercurion,san Nilo, san Bruno, gioacchino da Fiore, san Francesco di Paola e un epi-sodio di vita ecclesiastica locale. È noto che la Calabria era conosciutamolto bene da Isnardi, essendovisi stabilito nel 1912 a seguito della no-mina in ruolo come insegnante di materie letterarie nel liceo “galluppi”di Catanzaro, dove rimase con entusiasta convinzione fino al 1916, quandocon la I guerra mondiale fu chiamato alle armi come tenente di fanteriacon destinazione sull’altopiano di asiago.Quella scelta, all’epoca peraltro non facile per lui settentrionale e congli affetti familiari divisi tra Sanremo, dov’era nato, e torino, dove si eranotrasferite la madre e la sorella alla morte del padre, ritornando così nellaregione di origine del nonno materno nativo di Biella, fu giustificata daldesiderio di votarsi a una missione civile (oltretutto irrobustita da unaprofonda convinzione religiosa derivatagli dalla consonanza col cristiane-simo sociale), destinando il suo impegno alla regione in quel periodo piùdisagiata e disastrata del Mezzogiorno per i postumi ancora non smaltitidei terremoti del 1905, 1907 e 1908. Nondimeno, quella decisione fu sol-lecitata in Isnardi anche dal fervore patriottico alimentato dalla comme-morazione, nel 1911, del primo cinquantenario dell’unità, che aveva acuitonegli italiani, specie in quelli più sensibili e avvertiti dei problemi del gio-vane Stato e segnatamente della questione meridionale, l’ansia di raffor-zare lo spirito di solidarietà nazionale, prestando aiuto concreto, sulcampo, ai connazionali sofferenti del Sud.la residenza calabrese di Isnardi ebbe una seconda fase tra il 1921 e il1928, allorché giuseppe lombardo-radice e gaetano Piacentini, esponentidi spicco dell’animi, lo investirono dell’incarico di direttore delle scuoleprimarie gestite in Calabria dall’associazione nelle aree rurali, dove nonera possibile, per le limitazioni di legge dell’epoca che richiedevano al-

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14 IvI, Corrispondenza. Minute, ae326. di seguito il testo è indicato in nota con Religiositàmeridionale.

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meno quaranta frequentanti, istituire scuole statali15. Isnardi non solo as-solse l’attività di docente prima e quella di direttore regionale dopo condedizione e attenta partecipazione alla vita e alle vicende delle popolazionicalabresi, ma approfondì la conoscenza geografica e storico-culturale dellaregione, dirigendo altresì l’«archivio storico per la Calabria e la lucania»dal 1963, anno della morte di zanotti-Bianco, fino al 196516.«Attenzione e caritatevole simpatia» per la religiosità meridionaleIl testo isnardiano, proposto in appendice come contributo alla storiaculturale del Mezzogiorno, è interessante perché riassume alcune proble-matiche che negli anni Cinquanta costituivano altrettanti motivi di dibat-tito in seno al cattolicesimo italiano e di cui Isnardi appare perfettamenteedotto. anzi, se ne dimostra acuto analista con considerazioni anticipatricidi quelle espresse molti anni dopo dalla nostra cultura cattolica più qua-lificata e aperta a letture nuove della società e dei suoi mutamenti.la richiesta della rivista francese, comunque, è plausibile nascessedalla vasta eco suscitata dal romanzo di Carlo levi Cristo si è fermato aEboli, che, sin dalla prima edizione del 1945, aveva sollevato molti inter-rogativi, non solo tra i cattolici, circa la natura della pratica religiosa nelSud e il modo di interpretarla. Si aggiunga che in quegli anni si inauguravala lunga parentesi internazionale della guerra fredda e della contrappo-sizione tra il blocco dei paesi occidentali con gli uSa capofila e l’unioneSovietica alla guida dei paesi della cortina di ferro, tra regimi liberal-de-mocratici e regimi comunisti, e in Italia, segnatamente, tra forze post-fa-sciste e antifasciste che non si riconoscevano nei partiti di sinistra(socialista e comunista) e quelle che li sostenevano, soprattutto nel nomedell’antifascismo.la sintonia con lo schieramento liberal-moderato e il fatto di essere cat-tolico, era stato determinante nella critica al libro firmata da Isnardi nel1947 su «la libertà», il giornale della Concentrazione antifascista fondato

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15 guIdo PESCoSolIdo, Animi cento anni, in Cento anni di attività dell’Associazione Nazio-nale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia e la questione meridionale oggi, a cura di guIdoPESCoSolIdo, rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 21-120; FraNCESCo MattEI, Animi. Il con-tributo dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia alla storia del-l’educazione (1910-1945), anicia, roma 2012; BruNElla SErPE, La Calabria e l’operadell’Animi. Per una storia dell’istruzione in Calabria, Jonia Editrice, Cosenza 2004. 16 Per un esame disteso, rinvio alla mia monografia citata alla precedente nota 5, a SCMe al volume da me curato gIuSEPPE ISNardI, Calabria geo-antropica, rubbettino, Soveria Man-nelli 2014.

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nel 1927 da Claudio treves17. Nella recensione, egli aveva colto che il rac-conto di levi non mirava a rivendicare la dimensione mitica di un Sud ar-caico e immobile e che la comprensione di esso non significava unincitamento alla sopravvivenza di quel mondo e della sua cultura. Piutto-sto, gli pareva che levi avesse tentato di spiegare i motivi della vita di sof-ferenza delle classi subalterne, innestando il racconto essenzialmente suuna «convinzione politica», ossia ideologica: l’inevitabilità della lotta diclasse dei ceti subalterni contro i ceti dominanti, che in ogni caso, a pareredi Isnardi, pur accettando il postulato, non andavano individuati solo neiproprietari terrieri latifondisti, ma, con qualche opportuno distinguo, purenella media e piccola borghesia, che condivideva e contribuiva a perpe-tuare gli schemi su cui si reggeva l’intero sistema di arretratezza econo-mico-sociale del Mezzogiorno18.la visione del problema meridionale suggerita da levi risentiva perIsnardi delle simpatie per la politica del Partito comunista italiano impe-gnato, a cavallo degli anni Quaranta-Cinquanta, nel riscatto delle regioni me-ridionali mediante le lotte contadine finalizzate alla soluzione dell’atavicapiaga della questione agraria. Posizione non del tutto persuasiva per il li-gure-piemontese, che si domandava se «veramente [fosse] tutto qui il pro-blema meridionale. o se [era] la singolarità e l’intensità stessa della sua [dilevi] esperienza [a far] vedere la questione da questo solo punto di vista»19.È il caso di ricordare che i dissenzienti dall’idea di levi di una civiltàcontadina in grado di scalzare la borghesia parassitaria meridionale – i co-siddetti “luigini” – dando vita a un radicale rinnovamento sociale e politicodel Mezzogiorno, furono presenti anche tra i comunisti italiani, comeMario alicata, e tra i liberaldemocratici, come Francesco Compagna, con-vinti che il riscatto del Sud fosse possibile solo attraverso lo sviluppo in-dustriale. Interessante che Isnardi, riflettendo sulla questione meridionale,proponesse invece, per la sua naturale propensione al bilanciamento fratradizione e modernità, di combinare lo sviluppo industriale con la difesadella cultura rurale, da salvaguardare e incoraggiare nei suoi aspetti posi-tivi, avvicinandola all’industrializzazione quanto bastava a non dimenti-care e stravolgere secolari pratiche e saperi, utili a mitigare gli effettinegativi dell’industrialismo20.

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17 aNIMI/agI, Manoscritti e Appunti, Ea005.18 IBIDEM.19 IBIDEM.20 Per una disamina del meridionalismo di Isnardi, rinvio al mio Giuseppe Isnardi (1886-1965), cit., pp. 323-53. una rivalutazione recente della proposta di levi viene da gIovaNNIruSSo, Carlo Levi segreto, Baldini Castoldi dalai, Milano 2011.

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Non per questo Isnardi disconosceva che il Cristo fosse«un libro di verità, anche se una verità di arte e di poesia più che di scienza; esso narra edescrive un costume di miseria che non è assolutamente e precisamente quello di tuttal’Italia meridionale. […] Nel libro di levi è descritta l’esasperazione di questa miseria, [percui] direi che esso può servire per il molto che vi è di genericamente vero in fatto di co-stumi, quasi come una chiave che permetta di interpretare quello che altrove è meno crudo,meno impressionante, ciò che altrove può dare e spesso dà speranza di attenuarsi, persinodi scomparire col tempo e con interventi umani grandiosi e risolutivi»21. Ma era poi vero che Cristo si fosse fermato a Eboli, abbandonando ilMezzogiorno a un’ancestrale e irrecuperabile mentalità irrazionale e ma-gica quale origine e conseguenza del suo sottosviluppo, senza che questomodello religioso avesse qualcosa a vedere con la vera fede? Isnardi rigettatale concezione e, anticipando i futuri studi antropologici e socio-religiosisul Mezzogiorno – quelli di don giuseppe de luca, Ernesto de Martino,gabriele de rosa e la scuola di quest’ultimo – propone, grazie agli anni dicontatti personali e diretti con le comunità del Sud e con quella calabresein specie, una chiave di lettura di quel mondo spirituale avvicinato senzapregiudizi rigoristi, ma con il caritatevole intento di contemperarne storia,cultura e ritualità e di capire quali fattori rendessero i percorsi della reli-giosità popolare nel Mezzogiorno non perfettamente allineati ai canonidettati dalla Chiesa. Per Isnardi, due erano le concause: il «costume» e la «resistenza» aicambiamenti che esso inevitabilmente implicava. riguardo al costume, eglifa appello a Pascal, secondo cui tale elemento non poteva essere esclusodai modi (moyens) di credere, unitamente alla ragione e all’ispirazione, poi-ché mai «si crede attraverso uno solo di questi, ma attraverso più o menociascuno di essi e tutti insieme». E se al popolo meridionale non mancacerto l’attitudine al ragionare, «non gli manca nemmeno quella forza diispirazione, alla quale, sempre secondo Pascal, si giunge attraverso la virtùdell’umiliazione». Questa, coniugata con «la forza dell’immaginazione, chenel popolo meridionale è vivissima, e continuamente attiva», fa sì che«l’elemento principale e attualmente decisivo della religiosità meridionale[possa ritenersi] quello del costume»22. la citazione dell’aspetto immagi-nativo merita di essere sottolineata, a dimostrazione della sensibilità diIsnardi per l’agostinismo, che intendeva la vis imaginativa non come fan-tasia romantica, ma come anelito alla congiunzione tra il reale e il divino,

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21 Religiosità meridionale.22 IBIDEM.

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tra l’uomo e dio. In questa prospettiva, Isnardi riteneva che dell’immagi-nazione fossero filiazioni «le manifestazioni particolari, individuali e corali,di singole anime e di moltitudini» tipiche delle pratiche religiose nel Mez-zogiorno, come tali non relegabili nel mero recinto folclorico23. Ma cosa intendere per costume? l’interpretazione avanzata da Isnardiè che esso si qualifichi fondamentalmente come l’esito «di solitudine e di povertà, di lungo, penoso adattamento e quasi di adesione rassegnataalla povertà, con tutte le sue privazioni e le sue sofferenze, più o meno coscienti, nella carnee nello spirito. […] una società così fatta […] non può non avere una fisionomia tutta sua diun primitività e di una rozzezza che spaventerebbero sempre e farebbero fuggire inorriditol’osservatore che viene da lontano se egli non giungesse, prima o poi, purché rimanga,anche se forzato a rimanere, come fu il levi, a scoprirvi motivi profondi di simpatia e, infine,quasi di amore»24.È, dunque, indispensabile non solo conoscere, ma anche “vivere” la so-cietà meridionale per poter entrare in sintonia con la sua storia, la sua cul-tura, la dimensione intima della sua religiosità e superare certi stereotipidi stampo razzistico che la immiseriscono (Isnardi ironizza infatti sull’in-sistenza di piemontesi e lombardi nell’identificare tout-court i meridionalicome “napoletani”25). Solo a questa condizione è sperabile il superamentodello iato tra le forme della religiosità popolare meridionale e il postulatodella sudditanza di esse al principio dell’arretratezza e del sottosviluppoeconomico-sociale, evitando nello stesso tempo le rigidità, le riprovazionie le condanne, mai lesinate, della Chiesa di pratiche e riti con ascendenzein culti antichi e radicati nella superstizione, ma nel cui fondo, tuttavia,non si poteva ignorare un’ansia di fede cristiana sincera e autentica. Si trat-tava, dunque, di non valutare come un’alterità sconosciuta il vario espri-mersi della pietà popolare, semmai qualificabile come esito dell’intrinsecaricchezza dell’esperienza religiosa da avvicinare col metodo dell’homoios,ossia riconoscendo uguale dignità al molteplice atteggiarsi del sentimentoreligioso. Bisognava, cioè, che alle pratiche devozionali e cultuali inseritenell’ambito del cristianesimo si riservasse comprensione storico-culturale

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23 IBIDEM. viene ovvio richiamare in proposito i suoi articoli su Praja a Mare e l’isola di Dino,dove descrive la devozione per la Madonna della grotta, Tiriolo in Calabria e la “pigghiata” delVenerdì santo e Il Cristo di Cutro, ora compresi in SCM, pp. 212-26; 227-31; 239-43.24 Religiosità meridionale.25 dell’ottima saggistica storica sull’argomento, si vedano vIto tEtI, La razza maledetta.Origini del pregiudizio antimeridionale, manifestolibri, roma 1993; NElSoN MoE, Un paradisoabitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, tr. it., l’ancora del Medi-terraneo, Napoli 2004; aNtoNINo dE FraNCESCo, La palla al piede. Una storia del pregiudizioantimeridionale, Feltrinelli, Milano 2012.

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e «caritatevole simpatia»26, sfuggendo al rischio di divaricare Chiesa e re-ligiosità popolare. un atteggiamento che oggi possiamo ammettere qualepreludio di tolleranza e interazione fra le differenze. Isnardi percepisce, quindi, con intelligenza e con l’understatement chene formava l’abito morale ed etico, quanto fosse necessario una diversamodalità d’approccio al vissuto cristiano delle genti meridionali, che inanni a venire, gabriele de rosa, auspice ben altra temperie storico-meto-dologica e una più avvertita consapevolezza delle vicende del Mezzo-giorno, avrebbe delucidato in modo magistrale:«la magia non dovrebbe essere messa in rapporto solo alla fede, così come risulta de-finita e prescritta dalla norma, ma anche e soprattutto alle condizioni sociali stesse che nehanno favorito la pratica, ai contesti geografici e culturali in cui si colloca. […] Non è lamagia che concorre a definire la «religione popolare», ma un comportamento sociale, legatoa circostanze storiche e ambientali, ai modi di produzione propri di comunità agrarie, feu-dali e precapitalistiche, dove è assente oppure è allo stato embrionale ogni processo dimercantilizzazione della campagna, dove il problema del controllo della natura, delle sta-gioni e delle acque è rimesso comunemente alle processioni delle rogazioni, alle benedi-zioni, al suono delle campane, dove riti e costumi hanno capacità di resistenza mentale,che solo l’avvento della tecnologia e gli inurbamenti massicci dell’età dell’industrializza-zione sono riusciti a rompere. […] la fiducia dei contadini nel mago e anche quella nel santocoprono una volontà ancora oscura di trasformare la società, di uscire dal sonno dei tempi,di garantirsi esistenzialmente il futuro»27.Non si poteva attribuire, perciò, all’ignoranza e all’incultura dei meri-dionali l’insorgere e il persistere delle derive irrazionali della loro fede, chegli studi successivi hanno chiarito contrassegnare l’intera storia dell’Europaoccidentale, tanto riguardo ai ceti “alti” quanto a quelli “bassi”, incontrandodappertutto la netta ostilità o le forti riserve o l’acquiescenza guardingadella gerarchia ecclesiastica cattolica28. un dato strutturale comune, dun-que, che per gli storici odierni non si può «distorcere» senza «mutilare pro-fondamente il senso e la realtà della storia moderna» europea29.

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26 Religiosità meridionale.27 gaBrIElE dE roSa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, laterza, roma-Bari1978, pp. 15-16. 28 Senza alcuna pretesa di completezza, si rinvia indicativamente ai monografici di «ri-cerche di storia sociale e religiosa», vI, 11, 1977, dedicato a Religione e religiosità popolaree di «Quaderni storici», XIv, 41, 1979, su Religioni delle classi popolari; gIuSEPPE galaSSo,L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Mondadori, Milano1982; gaBrIElE dE roSa, Vescovo, popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosadal XVII al XIX secolo, guida, Napoli 1983, II ed.; gIuSEPPE MarIa vISCardI, Tra Europa e “Indiedi quaggiù”. Chiesa, religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno (secoli XV-XIX), Edizionidi Storia e letteratura, roma 2012, (1ª ediz. 2005). 29 g. galaSSo, L’altra Europa cit., p. 460.

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Nel contesto meridionale, costretto nel lunghissimo periodo a confron-tarsi con strutture arcaiche, dove l’uomo, per l’assenza o insufficienza dellapolitica e delle istituzioni statali, nonché i ritardi della modernizzazione,ancora nel ‘900 risultava impotente di fronte alle morti improvvise, alleepidemie, alle sciagure naturali, difficilmente poteva rinunciare a una re-ligiosità che intrecciasse tradizioni di impronta pagana e devozioni santo-riali imperniate sugli avvocati taumaturghi, ai quali si richiedeva aiutocome «guida e consolazione della faticosa esistenza»30.a tale proposito, egli rievoca l’affermazione dei movimenti monasticialla luce del caso calabrese, le cui genti furono riconoscenti agli ordini chevi operarono nei secoli, riservando una riverenza speciale ai frati minimidi Francesco di Paola, che per Isnardi è il «santo antonomastico del popolomeridionale, perché mandato da dio per una missione di giustizia e di ca-rità»31. Il prevalere nel Mezzogiorno di un culto per interposta persona at-traverso santi patroni, santi protettori e taumaturghi incontrava labenevolenza di Isnardi in quanto espressione non di una Chiesa missio-naria, ossia controriformisticamente evangelizzatrice, catechetica e indot-trinante, bensì di una Chiesa in missione di presenza e di ausilio morale aipoveri, ai diseredati, agli angariati, agli afflitti, ai sofferenti, portando loroil messaggio cristologico della liberazione, della carità e della giustizia,quest’ultimo il nodo più doloroso della realtà politico-sociale meridio-nale32. Non a caso, Isnardi, a cui fu connaturato l’impulso caritativo - un’altradelle ragioni più profonde del suo impegno a favore della Calabria e delMezzogiorno33 e che dagli anni Quaranta fino alla morte lo vide prestarevolontariato nella Società di San vincenzo de’ Paoli a roma promuoven-dovi l’opera della povertà nascosta34 – riconosce a santi come Nilo di ros-sano e, in modo speciale al santo paolano, che aveva fatto della charitas ilsuo motto, il merito di un cristianesimo come progetto di riscatto e di sal-vezza. Carità che, riguardo alla realtà meridionale, egli definisce «di “con-cessione”, quasi di prudenza conservatrice», benché giudichi in

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30 Religiosità meridionale.31 IBIDEM.32 aNdrEa rICCardI, La chiesa cattolica in Italia nel secondo dopoguerra, in Storia dell’Italiareligiosa, III, L’età contemporanea, a cura di gaBrIElE dE roSa, laterza, roma-Bari 1995, pp.354-55.33 MarghErIta ISNardI ParENtE, Giuseppe Isnardi e i suoi maestri, in «aSCl», XXXIv(1965-1966), p. 95.34 SIMoNE MISIaNI, I visitatori dei poveri. Storia della Società di San Vincenzo de’ Paoli, III,Dalla Grande Guerra al Concilio Vaticano II (1915-1965), il Mulino, Bologna 2005, pp. 266-70.

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maturazione «una “carità evangelica” o vicina ad esserlo, ricavandone mo-tivo di speranza per tutta l’elevazione spirituale di una società che vienefaticosamente trasformandosi, per lo più senza avere una coscienza benchiara di questa trasformazione»35.Ciò nonostante, il clero meridionale secondo lui aveva fatto grandi pro-gressi con le novità introdotte nelle procedure formative da Pio X mediantei seminari regionali, ponendo mano così a una debolezza tutta interna al-l’istituzione nel Mezzogiorno e non sempre dipendente da problemi eco-nomico-sociali, come già esplicitato dalla lettera collettiva dei presulimeridionali del 25 gennaio 1948, di fatto redatta dall’arcivescovo di reggioCalabria antonio lanza36, che tra le altre cose ammoniva i fedeli di non ec-cedere nell’esteriorità e teatralità dei riti ed esortava il clero ad affrontaree risolvere i nodi critici di una pastoralità carente nei suoi compiti e nellesue funzioni: tutte cose delle quali Isnardi sembra essere al corrente, ben-ché con un giudizio alquanto perentorio attribuisca il merito principaledei casi di successo ai«vescovi non meridionali che sono mandati nel Mezzogiorno quasi in missione e debbonospesso combattervi dure battaglie non sempre vittoriose, e tanti sacerdoti sono ben inten-zionati di resistere alla forza di quello stesso ambiente dal quale quasi tutti provengono»37.una valutazione che risente evidentemente della condivisione dell’in-dirizzo dell’extraregionalità adottato da Pio X nella designazione dei ve-scovi nelle diocesi meridionali, assegnandovi presuli provenienti dalleregioni settentrionali, perché ritenuti più preparati e aderenti teologica-mente e pastoralmente a quello spirito “borromeico”38 dimostrato, adesempio, da un ordinario piemontese, che negli anni venti – ricorda Isnardi– era riuscito, sia pure rimanendo esausto per lo sforzo psicologico soste-nuto, a persuadere i comitati delle feste patronali della sua diocesi a im-piegare il denaro raccolto in opere di utilità sociale, piuttosto che inimponenti fuochi d’artificio39.

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35 Religiosità meridionale.36 g. M. vISCardI, Tra Europa e “Indie di quaggiù” cit., p.24; PIEtro BorzoMatI, I cattolici eil Mezzogiorno, Studium, roma 1995; PIEtro BorzoMatI, doMENICo PIzzutI, M. gIordaNo, LaChiesa e i problemi del Mezzogiorno. 1948-1988, avE, roma 1988.37 Religiosità meridionale.38 gIuSEPPE BattEllI, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Dal secondo Ottocento aiprimi anni della Repubblica, in Storia d’Italia, Annali 9, La Chiesa e il potere politico dal Me-dioevo all’età contemporanea, a cura di gIorgIo ChIttolINI E gIovaNNI MICColI, Einaudi, torino,p. 832.39 Religiosità meridionale.

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tuttavia, la complicazione maggiore negli anni Cinquanta proveniva alclero meridionale dalla«lotta politica aperta dal comunismo fra i contadini del Mezzogiorno e di cui è gran partel’equivoco della possibilità di conciliare comunismo e cattolicesimo, tenendo distinta l’eco-nomia da tutto l’insieme della vita dello spirito. Il contadino, attaccatissimo alla tradizione,di cui si è fatta una sua “cultura” morale ed estetica, acconsente assai volentieri all’equivoco,mettendo continuamente in grave difficoltà l’opera di educazione e di formazione del clero,il quale, a sua volta, è troppo spesso sviato dal “troppo umano” della lotta politica nelle suemanifestazioni elettorali, e qualche volta anche nella sua opera sociale, pur benefica e ancherichiesta dalla miseria in mezzo alla quale egli vive e soffre»40.Il timore ventilato da Isnardi – comune al cattolicesimo democratico,interpretato nel partito della democrazia cristiana attraverso i suoi spiritipiù vicini alla dottrina cristiano-sociale, era che l’aspetto economico, sucui marcava l’accento il pensiero italiano di matrice marxista, facesse «per-dere il contatto con l’intimità delle anime»41. Ciò che rendeva indispensa-bile salvaguardare e rafforzare il sostrato del pensiero cristiano attentoalla condizione sociale dell’uomo, evitando che l’economia assurgesse auna struttura soffocante, elusiva della propria finalità sociale e del perse-guimento del bonum commune. Qui sembra difficile non scorgere gli echi di alcuni valori proposti ai de-mocristiani da de gasperi in due conferenze tenute nel 1948, all’universitàCattolica di Milano, in ottobre, e a Bruxelles, in novembre, sottolineandola «forza propulsiva del cristianesimo, di cui [era] animata la civiltà mo-derna». asserzione corroborata con il richiamo al Croce del Perché nonpossiamo non dirci cristiani, che ammetteva il cristianesimo come «risorsa»in grado di rinnovare la civiltà, realizzando la sintesi più efficace tra leistanze della libertà politica e quelle della giustizia sociale42.alla luce di quanto appena illustrato, dalle osservazioni di Isnardiemerge, inoltre, in filigrana l’eco di una questione che dal 1945 in Italia fual centro di un fitto, animato dibattito e di uno scontro esplicito tra cattolicie partiti di sinistra, sul rapporto tra pensiero cattolico e pensiero di im-pronta marxista, tanto che non pochi cattolici ravvisarono la compatibilitàtra il cattolicesimo e i postulati empirico-teorici del socialismo. Molto piùprudenti sull’argomento i seguaci del cristianesimo sociale di orienta-mento moderato, che non intendevano ignorare i temi sociali, purché nella

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40 IBIDEM.41 IBIDEM.42 FraNCESCo traNIEllo, Religione cattolica e stato nazionale. Dal Risorgimento al secondodopoguerra, il Mulino, Bologna 2007, pp. 305-06.

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netta distinzione tra religione e politica43: posizione consentanea eviden-temente a Isnardi e che, in un altro ambito, concorse non poco a segnaregli indirizzi di studio sulla pietà tenuti a battesimo da don giuseppe deluca, e di storia prettamente socio-religiosa inaugurati da gabriele derosa, entrambi, forse non a caso, influenzati da una iniziale simpatia perla sinistra cristiana, l’uno, per il pensiero comunista, l’altro44. Sul tema della pastorale ecclesiale, Isnardi manifesta un’ultima preoc-cupazione: che la perdita di contatto con le anime dei fedeli da parte delclero meridionale possa favorire il protestantesimo, importato già a fineottocento nel Mezzogiorno, e segnatamente in Calabria, dalla Chiesa evan-gelica pentecostale, che aveva fatto proseliti tra gli emigrati americani45.Ciò rendeva sempre più urgente una revisione della pastoralità cattolica,sottintesa anche da Passerin d’Entrèves in una già citata lettera a Isnardi,quella della domenica delle Palme del 1954, chiedendosi con una certa al-larmata perplessità: «Ieri Spini [giorgio Spini, lo storico] (valdese) mi di-ceva che fioriscono piccole comunità pentecostali pazze ma sincere. E icattolici? troppo poco pazzi?»46.In effetti, in Calabria nel 1952, a Bruzzano zeffirio, era sorta ufficial-mente la prima comunità calabrese pentecostale, ma nel 1959 lo Stato ita-liano avrebbe conferito il riconoscimento giuridico a questo grupporeligioso47, rendendo eccessivi i timori dei cattolici che il protestantesimopotesse fare breccia nella realtà italiana, e in quella economicamente e so-cialmente più fragile del Mezzogiorno, tramite gli adepti pentecostali.

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43 NICola rICCI, Cattolici e marxismo. Filosofia e politica in Augusto Del Noce, Felice Balboe Franco Rodano, Franco angeli, Milano 2008, p. 51.44 Su questa tematica, cfr. FrÉdÉrIC attal, Histoire des intellectuels italiens au XXe siècle.Prophètes, philosophes et experts, les belles lettres, Paris 2013, pp. 359-81.45Religiosità meridionale.46aNIMI/agI , Corrispondenza fascicolata per mittente, aa192.47 StEFaNo BoglIolo, La storia del risveglio pentecostale in Italia dal 1901 al 2001, versola Meta, Catania 2001.

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APPENDICE

Religiosità meridionaledi giuseppe Isnardi

Mi avete chiesto, cari amici francesi, ch’io vi parli della religiosità nel Mezzogiornod’Italia. Ma che cosa dobbiamo intendere, voi ed io, con questa parola “Mezzogiorno”?tutta l’Italia è, agli occhi e forse anche allo spirito d’un forestiero che ci venga at-traverso le alpi, Mezzogiorno, e tutto Mezzogiorno è veramente, da un punto di vistafisico, di natura geologica, di clima, di vegetazione, la penisola italiana dall’appenninotoscano a sud; tale è anche da punti di vista non di natura, ma di storia, cioè di risultatodi volontà e di azioni umane.Se penso, tuttavia, alla singolarità della situazione spirituale d’una regione qualela toscana, che credo di conoscere bene, o anche a quella di una regione quale l’um-bria, o alla fisionomia tutta particolare che la storia non solo dell’Italia, ma del mondo,ha dato ad una roma, penso che acconsentirete con me se restringerò le mie osserva-zioni a quella parte dell’Italia e del suo popolo che va da roma esclusa – sebbene essaappartenga, in riassunto, più al Mezzogiorno che al rimanente d’Italia – sino alla Siciliacompresa: cioè se vi parlerò di quello che ancora oggi qualche vecchissimo meridio-nale chiama “il regno” e che un grande spirito meridionale (secondo me anche spiritoreligioso), giustino Fortunato, chiamava l’Italia “del feudo”, contrapponendola som-mariamente ma efficacemente, all’Italia “dei Comuni e delle Signorie”, quella che daltevere tirrenico e dal tronto adriatico, all’incirca si stende sino alle alpi. È l’Italia cheio, settentrionale di nascita e di prima educazione, forse conosco di più e meglio, d’unaconoscenza alla quale manca, per forza di cose, la virtù misteriosa dell’istinto (che tro-verete, ispiratrice massima di poesia e di arte, in uno scrittore quale il calabrese Cor-

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Giuseppe Isnardiin Calabria

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rado alvaro), ma che è stata, da quarant’anni a questa parte, il travaglio (vi prego, nontraducete “travail”, alla parola noi italiani diamo un senso quasi doloroso che la vostraparola non ha) continuo della mia vita, un accumularsi incessante dentro di me e quasiun contrastarsi di rivelazioni e di illuminazioni, di sorprese e di adesioni mentali cheancora non è cessato e che certamente continuerà, inesauribile come l’opera di cono-scenza dell’animo umano alla quale qualcuno di noi pare sia destinato, finché avròvita e con essa possibilità, quaggiù, di conoscere e di amare.ora vi dirò che ciò che più mi ha colpito e continua a farmi pensare, nella mia piùche quarantenne considerazione del popolo meridionale, è la parte che nella vita diquesto popolo ha quello che il vostro Pascal chiama, e noi pure chiamiamo, costume,questo, ancora secondo il pensiero di Pascal, potente ”entraineur” della natura o se-conda stessa natura derivata dalla lenta distruzione di una prima e preparatrice a suavolta di una terza, e così all’infinito, nella storia più vera e interiore dell’umanità.tutti coloro che, come è avvenuto a me, entrano in contatto con questo popolo me-ridionale per ragione di lavoro – sia esso un lavoro di pura tecnica, sia quello dell’istru-zione, come fu il mio, o quello più specificamente dell’educazione e dell’assistenzasociale, come è da qualche tempo – hanno, più o meno presto, ma hanno sempre, si-curamente, la sensazione (che può in seguito dar luogo alla riflessione e alla medita-zione) di questa enorme difficoltà che deriva al loro lavoro proprio dalla presenza edal fatto del costume e dalla resistenza, a volte insuperabile, che esso oppone ad ognipenetrazione profonda di idee, ad ogni tentativo di fusione di sentimenti e di volontàfra gente di origine e di provenienza lontane. dalle manifestazioni più vaste e più vi-stose come quella delle così numerose gerarchie sociali in cui si distingue la societàmeridionale, ciascuna per sé definita e delimitata e in difesa continua e inesorabile dise stessa, o con quella del sistema prettamente familiare dei rapporti che corrono fragli individui e fra i gruppi entro queste divisioni gerarchiche, anche là dove si tratta diinteressi e di rapporti che sembrerebbero oltrepassare la famiglia (interessi econo-mici, politici, di cultura ecc.) o come quelle, infine, che non sono le meno clamorose,delle singole personalità nelle loro, vorrei dire, esplosioni psicologiche, soprattuttonel campo del sentimento; da tutto ciò, concludo, l’osservatore non meridionale cheintenda essere anche collaboratore riceve quasi sempre l’impressione di una difficoltàgrave e penosa, che talvolta può divenirgli addirittura disgustante e insuperabile:donde i molti casi – soprattutto nel campo del lavoro intellettuale o per lo meno nonsolamente tecnico, ad es. in quello dell’insegnamento – di stanchezza e di interruzioneo addirittura di cessazione di opere alle quale si poteva essersi dedicati anche in unainiziale condivisione di entusiasmo e di prime felici attuazioni. Soltanto a chi ha laforza o la grazia di rimanere a lungo, lasciandosi in qualche modo conquistare dallostesso ambiente che vorrebbe in certo modo trasformare, è dato di compiere almenouna parte dell’opera che sente sua e in cui, uomo e cristiano, non può non credere.a chi si metta a studiare non superficialmente le abitudini di vita di questo popolo,la religiosità meridionale apparisce come uno degli aspetti, e, io penso, il più interes-sante e impressionante di questa immane forza di resistenza e di azione della natura-costume. dice ancora il vostro – e anche nostro, di tutti noi che vogliamo “pensare”come meglio possiamo questa nostra vita di cristiani – Pascal che ci sono tre moyensper credere: la ragione, il costume e l’ispirazione. Egli ci fa intendere poi che non sicrede veramente mai attraverso uno solo di questi moyens, ma attraverso più o menociascuno di essi e tutti insieme. ora al popolo meridionale, nonostante il suo ancoradiffuso analfabetismo (che è poi minore, io credo, di ciò che ne dicono le statistiche uf-ficiali e che non esclude una speciale “cultura” di tradizione, soprattutto morale, che

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spesso vale di più, in realtà, che un rudimentale alfabetismo non coltivato o mal colti-vato) e la sua quasi assoluta inesperienza libresca, non manca certamente tanto di at-titudini al ragionare, per cui si possa dire che la sua religiosità manchi di un fondo diverità accettata e vissuta con la forza di una sia pure semplicissima riflessione; non glimanca nemmeno, io penso, quella forza di ispirazione alla quale, sempre secondo Pa-scal, si giunge attraverso la virtù dell’umiliazione, ma anche, oso aggiungere io, attra-verso la forza dell’immaginazione, che nel popolo meridionale è vivissima econtinuamente attiva. Con tutto ciò mi pare che si possa ritenere elemento principalee attualmente decisivo della religiosità meridionale quello del costume. In esso le ade-sioni della ragione alle prove della verità religiosa si confermano e si rendono “naturali”,mentre l’ispirazione vi trova i suoi modi esteriori di essere e di rendersi esemplare etrascinante, i suoi riti e le sue manifestazioni particolari, individuali e corali, di singoleanime e di moltitudini. tutto tende a essere e a rimanere o a divenire costume.Ma vediamo un po’ più da vicino che cos’è, più propriamente, anche se soltanto inlinea di massima, questo costume meridionale, come si è venuto formando, nei secolidella vita cristiana, sino a divenire la natura stessa di questo popolo. Io lo chiamereiun costume di solitudine e di povertà, di lungo, penoso adattamento e quasi di ade-sione rassegnata alla povertà, con tutte le sue privazioni e le sue sofferenze, più o menocoscienti, nella carne e nello spirito. oggi, nel confronto con il costume di altri popoli,di altre società nazionali ed anche soltanto regionali-italiane, può sembrare un co-stume addirittura di miseria, cioè di una povertà assolutamente insufficiente ancheai più elementari bisogni fisiologici (soprattutto il nutrimento) e, non meno, a quellidell’anima. Quel giustino Fortunato che ho citato poco innanzi – egli era nato nellaBasilicata, la più triste forse delle regioni del Mezzogiorno; aveva vissuto a roma comeuomo politico, poi a Napoli; ma il suo cuore era rimasto là, fra quelli che egli chiamava“i suoi fratelli poveri” – sentiva e diceva che peggiore ancora della miseria materialedei suoi conterranei era la miseria morale, la miseria che implica e coinvolge anche imaterialmente non miseri, i possidentes, facendone, forse, non del tutto cosciamente,degli oppressori e dei crudeli, non beati, ma, in fondo, soltanto tristi. voi stranieri co-noscete di questa miseria un maximum impressionante, quello che avete trovato nellibro di Carlo levi Cristo si è fermato a Eboli. È un libro di verità, anche se di una veritàdi arte e di poesia più che di scienza; esso narra e descrive un costume di miseria chenon è assolutamente e precisamente quello di tutta l’Italia meridionale (la quale è poiassai più varia nei suoi modi di vita di quello che voi stranieri o anche un piemonteseo un lombardo, gente per la quale tutti i meridionali sono napoletani e dovrebberoperciò tutti cantare e avere in sé qualcosa di Pulcinella, mentre piuttosto è tipica delmeridionale non borghese la tristezza, lo stare “chiusi in sé”, talvolta anche fisicamente,nel silenzio o nell’ombra di una casa) e lo narra assai bene, avendolo conosciuto alungo in quella condizione di sofferenza spirituale che meglio di tutto può far cono-scere l’animo del prossimo. Nel libro del levi è descritta l’esasperazione di questa mi-seria, in uno dei luoghi più lontani, più isolati, più abbandonati del Mezzogiorno, inmezzo ad una natura che, come egli dice assai bene, “non è mai campagna”. Non tuttal’Italia meridionale – che è stata detta, assai bene, anche “paese di oasi” è, nella naturae negli uomini, quella che descrive il levi, non lo è nemmeno tutta la Basilicata. Sa-rebbe perciò un grosso errore fondare la propria conoscenza del Mezzogiorno su quellibro e su quella esperienza. direi che esso può servire per il molto che vi è di generi-camente vero in fatto di costumi, quasi come una chiave che permetta di interpretarequello che altrove è meno crudo, meno impressionante, ciò che altrove può dare espesso dà speranza di attenuarsi, persino di scomparire, col tempo e con interventi

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umani grandiosi e risolutivi (pensate alla malaria, che oggi quasi non esiste più, nelMezzogiorno, mentre ancora vent’anni fa era fra le massime sue condizioni negativedi vita; i giovani d’oggi queste cose non le sanno e perciò non le sentono più); è unlibro che tutti coloro che vengono in Italia dovrebbero aver letto, ma che bisogna saperleggere, per non esserne indotti in un grave e forse irrimediabile errore di compren-sione e di giudizio.una società così fatta, di possidentes e di nullatenenti (anche se sono piccoli o picco-lissimi proprietari, in una natura troppo spesso sterile) miseri, in fondo, gli uni e gli altri,non può non avere una fisionomia tutta sua di una primitività e di una rozzezza che spa-venterebbero sempre e farebbero fuggire quasi inorridito l’osservatore che viene dalontano se egli non giungesse, prima o poi, purché rimanga, anche se forzato a rimanere,come fu il levi, a scoprirvi motivi profondi si simpatia e, infine, quasi di amore.I secoli in cui questa condizione, economica e insieme di anime, si è venuta for-mando, sino a fissare quella fisionomia di cui ho detto e di costume di vita relativosono abbastanza vicino a noi. Io credo che siano stati specialmente il quindicesimo ei seguenti, quando, indebolitasi nell’Italia meridionale l’autorità regia (e anche quellaconservatrice sì ma pietosa della Chiesa), tutto il paese cadde in preda a una terribileanarchia feudale, di un feudalesimo risalente all’età normanna, la quale pare sia stataabbastanza felice, in complesso, con il suo intelligente, ragionevole rispetto delle tra-dizioni giuridiche romane e bizantine, ma inaspritosi e quasi imbestialitosi nelle etàsuccessive, durante le lunghe lotte della successione normanna (Svevi, angioini, ara-gonesi, sino all’età spagnola), in una frenesia di autoritarismo e di indipendenza, cheseppe giungere sino alla ribellione armata contro quell’autorità (e le masse di guerrafurono gli stessi contadini, illusi o ingannati nella loro “fame di terra”), poi in un mer-canteggiamento turpe di città, di paesi, di territori fra re, imperatori e famiglie feudali,vecchie e nuove, dal quale ogni pensiero di giustizia, di fedeltà ai patti conchiusi e giu-rati, ogni garanzia di umanità e di carità ci apparisce spaventosamente assente. leparti basse della Calabria e della Basilicata furono del tutto abbandonate in preda allamalaria e dappertutto si accentuò quella tendenza delle popolazioni meridionali a vi-vere radunate in centri più o meno grandi, intorno ai quali cominciò quel lavorio af-fannoso di ricerca di terreno agrario e di conseguente disboscamento donde sonoderivate in gran parte le condizioni di instabilità rovinosa delle terre meridionali. ag-giungete i terremoti e le pestilenze, con le loro conseguenze fisiologiche e psicologiche,e il quadro di questa miserie vi apparirà in tutta la sua tragica ampiezza.ora, quale poteva e quale può essere tuttora la religiosità di un popolo dal costumedi vita così poveramente penoso? I primi secoli del Medioevo vi avevano veduto unafioritura stupenda di ascetismo monacale, benedettino prima, poi, fra l’vIII e l’XI, diprovenienza orientale (attraverso, quasi sempre, la Sicilia) e obbediente alla regoladel grande padre Basilio. la mirabile corrente ascetica risalì dall’Isola tutta l’Italia me-ridionale, riempiendola di cenobi lauritici (famoso in Calabria il Mercurion nella suaparte più settentrionale) sino al Cilento (la boscosa montagna fra Salerno e la Basili-cata) e alle parti calcaree delle Murge in Puglia. da Elia di Castrogiovanni ad Elia loSpeleota a Nilo da rossano, col quale (morì nel 1005) si giunge quasi all’età normanna,fu una continua fioritura di santità, nella quale le popolazioni trovarono la guida e laconsolazione della loro esistenza così faticosa. ai santi nelle cui gesta era ancora l’ecodella mitologia pagana, San Michele arcangelo, San teodoro e San giorgio, uccisoridel dragone, succedettero, ben più vivi, questi santi contemporanei, difensori degliumili e dei poveri, consiglieri e spesso correttori evangelicamente audaci dei potenti;più tardi, quando accanto al basilianesimo ormai declinante si diffusero nel Mezzo-

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giorno, col ritorno trionfante della Chiesa latina, altri ordini religiosi attivissimi anchesocialmente, quali il cisterciense (che da roma a Sud ebbe i suoi primi grandi monu-menti architettonici in Italia), il certosino con San Brunone di hortenfaust in Calabria,il florense, il cui fondatore, il famosissimo gioacchino da Fiore, fu la figura mistica-mente più elevata di tutte, anche se circondata di un alone di profetico enigma che an-cora oggi suscita discussioni vivaci. Il misticismo gioachimita preparò il terreno adun’altra fioritura monacale nel Mezzogiorno, quella degli ordini mendicanti, domeni-cano e francescano, che ebbero i loro santi pervasi di un singolare ardore missionario(i primi inviati da San Francesco d’assisi in “missione” nei paesi mussulmani e i primimartiri francescani furono calabresi); anche ad essi il popolo meridionale affidò lamaggior parte delle sue speranze, nelle loro virtù taumaturgiche trovò l’appagamentodella sua fede immaginosa, sino a che non sorse, sulla scena della vita e della religiositàmeridionale, il santo che sembrò compendiare tutti i precedenti e che ebbe, agli occhidel popolo, la superiorità sicura, tangibile di una azione diretta in sua difesa contro leviolenze e le frodi dei potenti, un’azione resa senz’altro persuasiva dal fatto ch’egliproveniva da quello stesso popolo, ne aveva condiviso tutti i dolori: San Francesco diPaola, il santo che è anche vostro, di voi Francesi, che entrò nella vostra storia comepiù tardi doveva entrarvi, egli pure umile accanto ai re e ai signori, San vincenzo de’Paoli. Il santo calabrese fu presto il santo per eccellenza, il santo antonomastico delpopolo meridionale, il mandato da dio per una missione di giustizia e di carità che,anche se non giunse ad abolire il male, diede per sempre ai poveri ed agli oppressi laconsolazione del suo aver osato, sempre e dappertutto, nella sua terra e in terra stra-niera, denunziare, rimproverare, ricondurre le anime dei superbi alla riflessione sulmale, sulla colpevole dimenticanza del precetto divino per cui dobbiamo amare il pros-simo come noi stessi. In questo senso il popolo lo sentì vicino a sé anche quando ne fucorporalmente lontano, perché gli ritenne affidata una missione universale di giustizia,come se egli portasse con sé l’immensa testimonianza dei suoi dolori, e sembrò com-pensarlo col comporre intorno a lui una leggenda di miracoli ingenuamente pittoreschiquale forse nessun santo mai ebbe, superiore a quella stessa di antonio da Padova cheormai da un secolo e mezzo correva per l’Italia ed il mondo.Potrete obiettarmi che tutto ciò che vi ho detto sinora è da dirsi anche di altri popoliche non sono il meridionale. Questa sete di giustizia che si sente appagata soltanto nelculto dei Santi (la Madonna è la madre dei Santi, soprattutto la loro ispiratrice in difesadegli umili. Essa che cantò di sé “respexit humilitatem ancillae suae”) e nell’attesa enella commozione gioiosa del miracolo evidentemente non è esclusiva del popolo me-ridionale; ma mi permetterete di credere che lo sia soprattutto di questo popolo, perragioni combinate di natura e di storia che forse in nessun altro hanno mai agito cosìpotentemente, di questa gente appassionata e immaginosa insieme, nella cui mentalitàagisce tutta, anche se inconsciamente, la forza di tradizioni antichissime.a questo punto immagino che desidererete sapere come la religiosità del popolomeridionale si manifesti e anche operi a riguardo dei due precetti essenziali del van-gelo, quello dell’amare dio sopra ogni cosa e l’altro dell’amare il prossimo come noistessi, i precetti sui quali dovrebbe, in riassunto, regolarsi tanto la vita morale degliindividui quanto la vita sociale, in obbedienza alle leggi scritte e a quelle non scritte,le leggi di quel “cuore” al quale, sempre secondo Pascal, dio si rende sensibile nellafede perfetta. alla prima parte della vostra richiesta risponderei richiamandomi aquanto vi ho già detto dei Santi e della Madonna, nel senso, cioè, del prevalere di unculto “per interpositam personam” ad un culto diretto e più ricco di intimità, anchequando si tratti di culto liturgico, e di quello che è tale per eccellenza, il culto eucari-

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stico e la Messa; non che Messa ed Eucaristia possano dirsi trascurate dal popolo me-ridionale in confronto a ciò che avviene in altri popoli, anzi è proprio l’opposto comepotreste vedere ogni domenica in qualsiasi città o paese della Calabria o della Pugliao di altre regioni del Mezzogiorno, ma è innegabile che un’anima meridionale noncolta e lasciata alle sue manifestazioni di fede più ingenuamente sentite vi apparirànella pienezza del suo essere religioso piuttosto dinanzi alla realistica rappresenta-zione del martirio di un Santo o dei dolori della Madonna che dinanzi a realtà di ca-rattere diverso, le quali esigano l’intervento del pensiero, della meditazione. lo stessoculto di gesù Cristo è, per il popolo meridionale, soprattutto quello del Cristo croci-fisso, forse più ancora quello del Cristo morto, dal corpo ruscellante di sangue.tutto ciò vi spiegherà il carattere di esteriorità festosa delle manifestazioni reli-giose meridionali, una specie di liturgia popolare aggiunta a quella ufficiale dellaChiesa e spesso preponderante su questa, che le si deve in qualche modo conformaree adattare. dovrete pensare ad altri motivi molto umani da aggiungere a quel primo,e cioè a quella esuberanza di immaginazione alla quale ho accennato, anzitutto, maanche a uno spirito di emulazione particolarmente attivo in poveri immaginosi e faciliad appassionarsi, ed infine ad una funzione di sollievo dalle fatiche quotidiane del la-voro dei campi, qualcosa simile a ciò che mi pare si possa trovare nei calendarii dellaromanità classica in quel mondo di agricoltori che, secondo l’espressione di un nostrogrande storico e interprete spirituale, gaetano de Sanctis, vivevano come un “contocorrente” di banca aperto in permanenza con le divinità. Potrà questo stato di cosemutarsi, con tutti gli sforzi che a questo fine stanno facendo da un pezzo i vescovi – especialmente i vescovi non meridionali che sono mandati nel Mezzogiorno quasi inmissione e debbono spesso combattervi dure battaglie non sempre vittoriose – e tantigiovani sacerdoti bene intenzionati di resistere alla forza di quello stesso ambientedal quale quasi tutti provengono. Io credo che sì, ma ci vorrà molto tempo, ci vorràsoprattutto un cambiamento di “costume” al quale non si può, d’altra parte, pensareai gravi pericoli che esso porterà con sé per la vita dello spirito, in senso cristiano. ri-cordo un vescovo piemontese, trent’anni fa, in una diocesi della Calabria, in lotta conla società locale, sino ad essere trascinato dinanzi ai tribunali: vinse, infine, e moltodenaro che andava a finire in fuochi artificiali là dove non esistevano asili infantili peri figli dei poveri fu meglio speso; morì poi esausto, e qualcosa rimase della sua opera,un principio di bene che forse un giorno darà tutti i suoi frutti.In quanto all’osservanza dell’altro precetto, voi stessi comprenderete come dovreidilungarmi assai, entrando in considerazioni riguardanti la vita sociale del Mezzo-giorno, ed anche la sua vita economica. Ne ho parlato a lungo in uno scritto pubblicatosul Bollettino della Società di San vincenzo de’ Paoli in Italia (“Il Samaritano”, n. X del1953) e mi permetto di rimandarvi ad esso, per il quadro, secondo le mie possibilitàforse abbastanza largo se non completo, della situazione: la quale, vogliate perdonarmil’insistenza, è qui più che mai di “costume”, con tutta la forza degli attriti e delle resi-stenze che le provengono da quella minuta gerarchizzazione di cui vi dicevo al prin-cipio, dal “familismo”che informa di sé tutta la vita sociale, dal modo generale diintendere la proprietà, che è identificata con l’onore personale e col familismo ed èdifesa perciò con una forza ed una tenacia che a noi non meridionali possa sembrareeccessiva. Badate però che la carità di abnegazione, di rinuncia, di dedizioned’un’anima meridionale, specialmente nella cerchia della famiglia, raggiunge non dirado vette di una sublimità alla quale noi non siamo abituati. vi dirò pure che nell’Italiameridionale abbondano, e si stanno facendo sempre più frequenti da qualche tempoa questa parte, iniziative di carità da parte di sacerdoti e di laici degne di profonda

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ammirazione; in esse prevale, il più delle volte, il carattere della individualità che portadi conseguenza il pericolo della instabilità e della provvisorietà: l’intervento del “mi-racolo”, riconosciuto o non riconosciuto dalla Chiesa, è, di solito, la condizione dell’af-fermarsi definitivo di tali opere (Pompei, San giovanni rotondo con Padre Pio,probabilmente la stessa Madonna siracusana delle lacrime ecc.), il loro successo inampio senso popolare. Così, accanto ad una “carità”, se possiamo dirla tale, di “con-cessione”, quasi di prudenza conservatrice, ci è dato anche consolarci alla vista di unacarità evangelica o vicina ad esserlo, ricavandone motivo di speranza per tutta l’ele-vazione spirituale di una società che viene faticosamente trasformandosi, per lo piùsenza avere una coscienza ben chiara di questa trasformazione.Il clero meridionale ha fatto grandi progressi, da alcuni decenni a questa parte, so-prattutto dopo l’istituzione, dovuta a San Pio X, dei grandi seminarii regionali nel Mez-zogiorno d’Italia e nelle Isole: progressi in fatto di scienza, di costume, di pietà: graveè la diminuzione delle vocazioni, sia nella borghesia, in ogni famiglia della quale “do-veva”, un tempo, esserci un prete, per il suo decoro, anche se questo prete non era poiil più intelligente dei figli (di solito, anzi, era l’opposto, giacché i figli più svegli eranodestinati alla magistratura ed alle professioni cosiddette “liberali”), sia nella classe deicontadini, donde, per lo più, uscivano i preti migliori; ma la qualità compensa in certomodo la quantità, mentre in questo senso provvedono anche non poco gli organi reli-giosi (primo forse fra tutti quello dei figli di San giovanni Bosco) più animati da spiritomissionario o almeno di attività cristianamente sociale. Non è facile l’opera di questoclero, soprattutto di fronte alla lotta politica aperta dal comunismo fra i contadini delMezzogiorno e di cui è grande parte l’equivoco della possibilità di conciliare comuni-smo e cattolicesimo, tenendo distinta l’economia da tutto l’insieme della vita dello spi-rito. Il contadino, attaccatissimo alla tradizione, di cui si è fatta una sua “cultura”morale ed estetica, acconsente assai volentieri all’equivoco, mettendo continuamentein grave difficoltà l’opera di educazione e di formazione del clero, il quale, a sua volta,è troppo spesso sviato dal “troppo umano” della lotta politica nelle sue manifestazionielettorali, e qualche volta anche nella sua opera sociale, pur benefica e anche richiestadalla miseria in mezzo alla quale egli vive e soffre, rischia di perdere il contatto conl’intimità delle anime. È da tenere presente anche la penetrazione che sta facendo incentri di emigrazione americana il protestantesimo, specialmente da parte dei “pen-tecostali”; il comunismo lascia fare, come diciamo noi, vedendo probabilmente in ciòun mezzo di lenta disgregazione che può tornargli utile.Per concludere, si può dire che ci sono nel popolo meridionale tutti i presuppostidi una religiosità intelligente, calda, certamente anche erronea, una religiosità, in-somma, sicura, che ha, per di più, un fondamento storico fra i più lontani e grandiosi;gli ostacoli e le deficienze nel più profondo senso cristiano derivano dalle condizioniarretrate di vita della società di cui questa religiosità è, io penso, l’espressione, nellasua ingenuità, più degna di attenzione e di caritatevole simpatia. Ringraziamentil’autore ringrazia l’associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia eil suo personale per averlo agevolato nel disporre del testo di Isnardi di cui al presentecontributo.

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Intellettuale, studioso, docente, giornalista. E un credente fervido.Lo storico calabrese Pietro Borzomati, studioso del movimento cat-tolico, della spiritualità e della pietà popolare, docente in diversi Ate-nei italiani e negli ultimi anni professore onorario di storiacontemporanea dell’Università per Stranieri di Perugia, dov’erastato preside della Facoltà di Lingua e cultura italiana, è nato a Ca-tona di Reggio Calabria, l’11 dicembre del 1933 ed è morto a Romaall’età di 81 anni il 29 settembre 2014.Ancora durante gli anni della formazione scolastica, ha intrapresol’attività culturale impegnandosi nelle organizzazioni cattoliche gio-vanili della sua terra d’origine. Dopo la laurea in Lettere all’Univer-sità di Messina, con il professor Rosario Romeo, ha inizialmenteintrapreso l’insegnamento presso le scuole medie statali di primo esecondo grado come docente di materie letterarie. Poi ha iniziato alavorare in ambito universitario, diventando, dall’anno accademico1960-61 al 1963-64, assistente volontario presso la cattedra di Sto-ria dei Trattati e Politica Internazionale della Facoltà di Scienze Po-litiche nell’Università di Messina, e dal 1963 al 1968 assistentevolontario presso la cattedra di Storia Moderna della Facoltà di Let-tere e Filosofia dell’Università di Perugia. Nel 1968 ha conseguito lalibera docenza in Storia del Risorgimento; dal gennaio 1969 al di-cembre 1972 è stato assistente ordinario presso la cattedra di Storiadei Partiti e dei Movimenti Politici nella Facoltà di Magistero del-l’Università di Salerno. Quindi, dal novembre 1972 al marzo 1977 èstato assistente ordinario di Storia Moderna e Contemporaneapresso lo stesso ateneo. Successivamente, dal 1977 al 1983, hasvolto un incarico simile presso la Cattedra di Storia Moderna I dellaFacoltà di Magistero dell’Università degli Studi di Roma. Al tempostesso, durante gli anni accademici dal 1968-69 al 1972-73 è statoprofessore incaricato di Storia del Risorgimento presso la Facoltà di

Note bio-blibliografiche su Pietro Borzomati

a cura di Elida Sergi

La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra ISBN 978-88-941045-4-7

Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati

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Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno. Dal 1974 al 1983, èstato professore incaricato stabilizzato di Storia Moderna presso laFacoltà di Magistero dell’Università “La Sapienza” di Roma; qui, dalmaggio 1983 all’ottobre 1990 è stato professore di ruolo, incardi-nato nella fascia degli associati, con l’insegnamento di Storia delMezzogiorno. Nel 1990 è stato nominato professore straordinariodi Storia Contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dovenel 1993 è stato confermato docente ordinario. Dal novembre 1995è stato professore ordinario di Storia Contemporanea presso l’Uni-versità per Stranieri di Perugia e preside della Facoltà di Lingua eCultura Italiana dello stesso ateneo.Oltre all’impegno accademico, Pietro Borzomati ha ricoperto variruoli dirigenziali in associazioni e istituzioni: è stato membro dellesettimane sociali dei cattolici italiani e del comitato scientifico delDizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia (1961-1981),del consiglio della Rivista Storica Calabrese, della Deputazione diStoria Patria per la Calabria e per l’Umbria, del Centro Studi Napo-leonici e dell’Istituto per la Storia del Risorgimento di Terni1.Dopo la pensione ha continuando fino all’ultimo il suo lavoro diricerca con l’attenzione e la passione che lo hanno sempre contrad-distinto.È sepolto, per sua espressa volontà, nel cimitero di Catona.Il lavoro di ricerca, tra spiritualità che diventa storia e attenzione agliultimiFormatosi alla scuola di grandi maestri come Giorgio e MassimoPetrocchi, Giuseppe De Luca e Gabriele De Rosa, nella sua lunga at-tività Borzomati ha sviluppato un’intensa produzione scientifica,particolarmente innovative. «Il panorama complessivo delle ricerchedi Borzomati si può dividere in alcuni grandi filoni – ricorda PaoloGheda – il movimento cattolico, il rapporto tra le componenti eccle-siali e la società civile, la vita religiosa con i suoi fondatori e istituti,le grandi figure della Chiesa e della santità universali; dall’altra

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1 Sulla vita di Borzomati si veda: PAOLO GhEDA, Profilo bio-bibliografico di Pietro Borzo-mati, in Società, Chiesa e ricerca storica. Studi di storia moderna e contemporanea in onoredi Pietro Borzomati, a cura di M. NARO, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2002.Brevi note anche in: Storici: è morto Pietro Borzomati, studioso spiritualità e pietà popolare,in «Adnkronos», 1 ottobre 2014.

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parte, i protagonisti minori, la storia degli “ultimi”, la vicenda degliemigranti e le esperienze della povertà»2.Il lavoro storiografico dello studioso calabrese secondo Ghedapuò essere inteso come la prosecuzione, una «logica evoluzionedell’impostazione di indagine sulla storia della spiritualità e dellapietà inizialmente intuita da Giuseppe De Luca e, quindi, appro-fondita metodologicamente da Massimo Petrocchi e Gabriele DeRosa. Una scuola che grazie a Borzomati è proseguita, agevolandola costituzione di un’équipe di ricercatori distribuiti nella Penisolache ha affrontato secondo questa metodologia la disamina diaspetti, momenti, protagonisti della storia religiosa e sociale con-temporanea». «Coerentemente con il suo impegno per la diffusione della storiacivile, religiosa e della spiritualità – prosegue lo studioso – Borzo-mati ha fondato e diretto alcune collane scientifiche presso autore-voli case editrici italiane, in cui hanno trovato sbocco le ricerche suee del gruppo di studiosi che a lui fa riferimento.Ma è soprattutto la vasta produzione scientifica personale a di-stinguere la sua attività di studioso: volumi, saggi, curatele e intro-duzioni, nonché un ricco numero di contributi segnalati suimportanti riviste specialistiche, quali, ad esempio, historica e Stu-dium».Tra i saggi di Borzomati si ricordano I Giovani cattolici nel Mez-zogiorno d’Italia dall’unità al 1948 (Edizioni di Storia e Letteratura,1970), Esperienze meridionali di santità tra Ottocento e Novecento(Laruffa, 1990), Chiesa e società meridionale. Dalla Restaurazione alsecondo dopoguerra (Studium, 1991), Le congregazioni religiose nelMezzogiorno e Annibale di Francia (Studium, 1992), Aspetti religiosie storia del Movimento cattolico in Calabria (1860-1919) (Rubbettino,1993), Giovanni Battista Scalabrini. Il vescovo degli emarginati (Rub-bettino, 1997), Eustachio Montemurro medico e prete. Un mistico delNovecento (Sei, 1997), La Calabria dal 1882 al 1892 nei rapporti deiprefetti (Falzea, 2001), “Le casse vuote”. Protagonisti della spiritualitàe della pietà meridionale (Rubbettino, 2006), Aspetti e momenti distoria della vita consacrata e della Chiesa nel Mezzogiorno (Sciascia,2006) e Lo studio, la pietà e il ricordo. Cataldo Naro studioso di storia(Sciascia, 2008). ha curato anche il volume La Calabria nei docu-

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2 P. ChEDA, Profilo bio-bibliografico cit.

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menti storici. Il Novecento (Falzea, 2000).Parlando del suo metodo e della sua ricerca lo stesso Borzomatiscriveva: «Negli anni dell’Università di Messina ebbi rapporti con in-signi docenti come Gino Cerrito, Rosario Romeo e Galvano DellaVolpe, studiosi laici che non nascondevano le loro perplessità ri-guardo ai miei interessi di studio sugli aspetti religiosi delle comu-nità e degli uomini. essi, comunque, avevano un profondo rispettoper quelle idee e mai insofferenza, anche perché amavo ripetere colConcilio Vaticano II che esiste un nesso molto vigoroso tra spiritua-lità, pietà ed impegno nel mondo»3.Borzomati giornalistaBorzomati era anche giornalista pubblicista. Era iscritto, infatti,all’Ordine dei Giornalisti, e dagli anni Sessanta ha sviluppato un’in-tensa attività di editorialista e collaboratore di vari quotidiani e pe-riodici, soprattutto cattolici, come L’Osservatore Romano, Avvenire,Jesus, Segnosette, Vita Pastorale, ma anche sulla stampa locale in Ca-labria e Umbria. «In questo contesto divulgativo si colloca anche lasue assidua collaborazione con l’emittente televisiva della Confe-renza Episcopale Italiana, Sat2000, in un ciclo di trasmissioni chehanno dato vita a numerosi ritratti della santità cristiana»4.Le testimonianze«I tanti anni di amicizia che mi legano a lui sono stati certamentesegnati dal comune impegno di studiosi di storia religiosa. Per lomeno fu così all’inizio. Erano i primi passi di quell’approccio storio-grafico italiano che indagava la dimensione religiosa intrecciarsi conla storia dei paesi, delle città, insomma con la vita della gente». Que-sto il ricordo di monsignor Vincenzo Paglia, presidente del PontificioConsiglio per la famiglia5. «Ci trovavamo dentro quella prospettiva di ricerca storica, ini-

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3 PIETRO BORzOMATI, Protagonisti e studiosi della spiritualità italiana, Centro Studi Cam-marata, San Cataldo, Caltanissetta-Roma, 1999, p. 10.4 P. ChEDA, Profilo bio-bibliografico cit.5 VINCENzO PAGLIA, Presentazione del libro "Scritti in onore di Pietro Borzomati", Pubbli-cato il 25 febbraio 2003 da redazione in: www.vincenzopaglia.it/index.php/ presenta-zione-del-libro-scritti-in-onore-di-pietro-borzomati.html

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ziata dal professor Gabriele De Rosa, che metteva in stretto rapportola vita religiosa con la vita sociale. Fu nel 1972 che si mise a puntola pubblicazione della rivista “Ricerche di Storia sociale e religiosa”dopo un decennio almeno di ricerche condotte sia al Nord che al Sud,negli archivi ecclesiastici (visite pastorali e libri parrocchiali), inquelli delle organizzazioni cattoliche, delle confraternite, e così oltre.Fu anche importante la comparazione tra il cattolicesimo del Norde il cattolicesimo meridionale come, appunto, appariva dallo scavoarchivistico». «Se per lui la ricerca storica è il riflesso della sua passione per laChiesa, questo tuttavia non gli ha impedito di coniugare bene l’im-parzialità dello storico, e quindi la scientificità dell’approccio allefonti, con la scelta del credente – prosegue Monsignor Paglia – è,anzi, l’unico modo per poter esercitare, con la passione del credentee con la laicità dell’approccio metodologico, il mestiere dello storiconel contesto contemporaneo. Non mi dilungo su questo importan-tissimo aspetto della ricerca di Borzomati, anche perché appare evi-dente in tutte le sue ricerche. Credo però sia opportuno ribadire cheanche la sua vita di storico è legata al servizio della Chiesa. E, ovvia-mente, deve essere un servizio, appunto, da storico».Diverso per iltaglio un articolo di Marco Impagliazzo, presidente della Comunitàdi Sant’Egidio e professore di Storia Contemporanea, che ricorda lostorico calabrese su Avvenire, il quotidiano della Cei, Conferenza epi-scopale italiana, all’indomani della sua morte6. Impagliazzo mettel’accento, tra le altre cose, su due aspetti del lavoro di ricerca di Bor-zomati: da un lato la spiritualità che fa storia, dall’altro l’attenzione,in un passaggio quasi alla storia sociale, al Sud e alle storie degli ul-timi, dei migranti, dei poveri: «Intellettuale, studioso, docente, uomodi Chiesa, ma soprattutto credente fervido e leale, Borzomati ha per-seguito, tra tanti impegni, un’intuizione centrale lungo tutto il suoitinerario di studi e insegnamento, dagli inizi all’Università di Mes-sina, dove conobbe don Giuseppe De Luca, a Salerno, Roma, Veneziae Perugia, tale intuizione è che la spiritualità e la santità conduconoall’azione civile, dunque fanno la storia. E questa storia va indagatae fatta conoscere, non con intenti agiografici o cronachistici, ma congli strumenti e la metodologia della ricerca storica, restituendolepiena dignità in ambito storiografico».

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6 MARCO IMPAGLIAzzO, Pietro Borzomati e la santità capace di fare la storia, in «Avvenire»,1 ottobre 2014.

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«L’altra grande passione di Pietro Borzomati – ricorda poi Impa-gliazzo - è stata il Sud. Il mezzogiorno d’Italia, le vicende della suaChiesa in tutte le sue componenti, laici, clero, episcopato, mondo re-ligioso e confraternitale, figure esemplari di contemplazione e di ca-rità vissuta. Un Sud che lo studioso calabrese amava, senzamitizzazioni o assoluzioni, nella sua contraddittorietà. Il suo Chiesae Società Meridionale. Dalla Restaurazione al secondo dopoguerra,apparso nel 1982 e riedito nel 1991, resta un punto di partenza im-portante per comprendere la realtà meridionale. In esso emerge ilrapporto tra le componenti ecclesiali e la società civile, e tratti dellastoria del movimento cattolico».«Molte, poi, sono state le personalità e i protagonisti di cui Bor-zomati ha ricostruito gli itinerari, attento a indagare le motivazionireligiose, ideali, spirituali alla base delle realizzazioni e del fare con-creto – sottolinea ancora Impagliazzo – tra essi Eustachio Monte-murro medico e prete. Un mistico del Novecento, come recita ilsottotitolo alla monografia del 1997, Carlo De Cardona, animatoredel movimento cattolico in Calabria tra 1900 e 1913, Annibale DiFrancia e le congregazioni religiose del mezzogiorno, Giovanni Bat-tista Scalabrini vescovo degli emarginati, don Divo Barsotti e altri,come quelli analizzati in Protagonisti e studiosi della spiritualità ita-liana (Rubbettino 2006). Storia sociale e religiosa, dunque, con unaspeciale attenzione ai protagonisti “minori”, alla storia degli “ultimi”,dei migranti, dei poveri».Un ricordo più “intimo”, sullo studioso e sull’uomo è quello chemonsignor Antonino Denisi ha fatto in memoriam di Borzomati sullaRivista Storica Calabrese, organo della Deputazione di Storia Patriaper la Calabria, di cui lo storico scomparso è stato a lungo vicepre-sidente, partecipando fino all’ultimo, anche con gravi problemi disalute, a tutte le iniziative e riunioni.Concludendo il ricordo dello studioso sulle pagine della RivistaStorica Calabrese, don Denisi scriveva così: «Non posso non sottoli-neare, ancora una volta, due aspetti fondamentali della personalitàdel prof. Pietro Borzomati: il suo amore alla Chiesa e la considera-zione con cui coltivava l’amicizia. L’attività di storico di Borzomati èlegata indissolubilmente al servizio della Chiesa. Si può affermareche la sua opera di studioso rimarrebbe incomprensibile senza pren-dere in considerazione questa devozione sincera e disinteressata. Epoi il culto dell’amicizia, costruendo una rete infinita di relazioni edi corrispondenze, che ti ritrovavi affianco nei momenti lieti e meno

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lieti della vita, espressi sempre con discrezione ed affetto efficace.Un’amicizia che nasceva dalla stima e dai canoni ideali di studio e difede, che finiva col coinvolgere le rispettive famiglie»7.BIBLIOGRAFIAVolumi

Un centro dell’Italia in sviluppo industriale. Opinione pubblica, stato religioso,classe politica e sociale, stampa a Terni dal 1840 alla fine del sec. XIX, Berti, Perugia1965.

La “Nova Juventus” in Italia e le origini del movimento cattolico in Umbria, An-tenore, Padova 1969.I “giovani cattolici” nel Mezzogiorno d’Italia dall’Unità al 1948, Edizioni di Storiae Letteratura, Roma 1970.Studi storici sulla Calabria contemporanea, Frama’s, Chiaravalle Centrale 1972. La Calabria dal 1882 ol 1892 nei rapporti dei prefetti, Editori Meridionali Riu-niti, Reggio Calabria 1974; Falzea Editore, Reggio Calabria 2001. Il movimento cattolico nell’Italia centrale, La Goliardica, Roma 1976.La Calabria nell’età contemporanea (ed altri studi), Editori Meridionali Riuniti,Reggio Calabria 1977.Prospettive di sviluppo per gli studi sul movimento sociale cattolico calabrese e

meridionale, in in Chiesa e società in Calabria nel secolo XX (raccolta di studi storici),a cura della DELEGAzIONE REGIONALE CALABRESE DEL MOVIMENTO LAUREATI DI A.C., ReggioCalabria 1978, 311-316.Tentativi di rinnovamento religioso dal 1900 al fascismo, Reggio Calabria, s.n.,[1978?].Carlo De Cardona ed il movimento cattolico in Calabria dal 1900 al 1913, Milano1979.Chiesa e società meridionale dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Stu-dium, Roma 1982; 19912.Movimento cattolico e Mezzogiorno, La Goliardica Editrice, Roma 1982. Amore e fedeltà al Papa. Padre Annibale, Rogazionisti, Roma 1988.Esperienze meridionali di santità tra ‘800 e ‘900, Laruffa, Reggio Calabria l990. Chiesa e società meridionale: dala restaurazione al secondo dopoguerra, Stu-dium, Roma 1991.Le congregazioni religiose nel Mezzogiorno e Annibale di Francia, Studium,Roma 1992.Annibale di Francia: la Chiesa e la povertà, Studium, Roma 1992.L’ex allievo di don Bosco tra Vangelo e realtà sociali, s.e., Vibo Valentia 1992.

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7 ANTONINO DENISI, In memoriam. Pietro Borzomati, in «Rivista storica calabrese», XXXV,2014, 311-314.

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Aspetti religiosi e storia del movimento cattolico in Calabria (1860-1919), Cin-que lune, Roma 1967; Rubbettino, Soveria Mannelli 19933. le pp. 105-142, 357-407 sono state riprodotte in Chiesa e società in Calabria nel secolo XX (raccolta distudi storici), a cura della DELEGAzIONE REGIONALE CALABRESE DEL MOVIMENTO LAUREATIDI A.C., Reggio Calabria 1978, 47-68, 181-208.

Itinerari spirituali nell’età contemporanea, Salvatore Sciascia Editore, Caltanis-setta-Roma 1993.I cattolici e il Mezzogiorno, Editrice Studium, Roma 1995.La questione meridionale. Studi e testi, SEI, Torino 1996.Eustachio Montemurro medico e prete. Un mistico del Novecento, SEI, Torino1997.Giovanni Battista Scalabrini. Il vescovo degli emarginati, Rubbettino, SoveriaMannelli 1997.Dalla Calabria al Messico. La vicenda spirituale e sociale di padre Vincenzo Idà.Presentazione di D. VENERUSO, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999.Protagonisti e studiosi della spiritualità italiana, Ed. Lussogrefica, S. Cataldo1999.La Calabria nei documenti storici. Il Novecento, Falzea Editore, Reggio Calabria2000.Una devozione italiana. Riflessioni sulla devozione a Santa Rita da Cascia, Edi-zioni Lussografica, San Cataldo 2000.Aspetti e momenti di storia della vita consacrata e della Chiesa nel Mezzogiorno,Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2006.“Le casse vuote”. Protagonisti della spiritualità e della pietà meridionale, Rub-bettino, Soveria Mannelli 2006.La società Dante Alighieri a Terni, cento anni di storia, Litostella, Terni 2007(con M. CORRADI).La Parrocchia di Catona dal Settecento ai nostri giorni, Rubbettino, SoveriaMannelli, 2009.Un sacrificio utile. Pastoralità di Antonio Ambrosanio, Edizioni Lussografica,San Cataldo 2010.Medaglioni di spirituali contemporanei, Edizioni Lussografica, San Cataldo2012.

Articoli e relazioni a congressi

Concessione della medaglia d’oro allo città di Reggio Calabria per meriti patriot-tici, «historica» 1961, 129-134; in BORzOMATI, Studi storici sulla Calabria contem-poranea... 71-81.

I cattolici calabresi e la guerra 19l5-19l8, in Benedetto XV, i cattolici e la primaguerra mondiale. Atti del Convegno di Studi, Spoleto 7-9 settembre 1962, a curadi G. ROSSINI, Ed. Cinque lune, Roma; Borzomati, Studi storici sulla Calabria con-temporanea... 83-145; ID., “Le casse vuote”... 29-78.

Processo dei liberali ad Antonio e Filippo Caprì liberali, «historica» 1963, 3-17;BORzOMATI, Studi storici sulla Calabria contemporanea.... 23-53.Nitti e la grande guerra, «historica» 1963, 120-135; BORzOMATI, Studi storici

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sulla Calabria contemporanea... 147-164.Nel 50° anniversario della morte di Francesco Acri, «Archivio Storico per la Ca-labria e la Lucania» 32-1983, 347-352.Per una storia della Chiesa in Calabria, «Parallelo 38», 399-409; BORzOMATI, Studi

storici sulla Calabria contemporanea... 195-209.La più recente problematica sul Movimento cattolico in Italia dopo l’Unità (1860-

1915), «Cattedra» 1968, 259-290; BORzOMATI, Aspetti e momenti di storia... 29-45,I «beni» della parrocchia di Catona nel tardo Settecento, «Rivista di Studi Saler-nitani» 1970,449-464; BORzOMATI, Studi storici sulla Callabria contemporanea...13-21.Per una storia dei partiti e dei movimenti politici in Umbria, in Prospettive di

storia umbra nell’età del Risorgimento. Atti dell’ottavo convegno di studi, Gubbio31 maggio-4 giugno 1970, Centro Studi Umbri, Perugia 1973, 271-298.Per una storia della devozione mariana in Calabria nell’età contemporanea, in

Chiesa e spiritualità nell’Ottocento italiano, Editrice Mazziana, Verona 1971; BOR-zOMATI, Studi storici sulla Calabria contemporanea... 171-174.Alle origini della rivolta di Reggio,in BORzOMATI, Studi storici sulla Calabria con-

temporanea... 215-220.Luigi Sturzo oratore sacro, in Luigi Sturzo nella storia d’Italia. Atti del convegnointernazionale di studi promosso dall’Assemblea Regionale Siciliana (Palermo-Caltagirone 26-28 novembre 1971),II, Roma 1979, 111-132; BORzOMATI, “Le casse

vuote”... 241-266.Diego Vitrioli e Francesco Acri in alcune corrispondenze inedite con il Ministro

della Pubbli-c-a Istruzione, in BORzOMATI, Studi storici sulla Calabria contempora-nea... 55-69.

Storiografia religiosa in Calabria e per la Calabria, in BORzOMATI, Studi storicisulla Calabria contemporanea... 211-214.

Popolarismo e socialismo in Calabria (1919-1924), in BORzOMATI, Studi storicisulla Calabria contemporanea... 165-169.

Per una storia della pietà nel Mezzogiorno d’Italia tra Ottocento e Novecento,in La società religiosa nell’età moderna. Atti del convegno di studi di storia socialee religiosa, Capaccio-Paestum 18-21 maggio 1972, a cura di F. MALGERI, Guida, Na-poli 1973, 613-632; BORzOMATI, La Calabria nell’età contemporanea... 161-191; ID.,Aspetti e momenti di storia... 7-28.

Il problema dell’«exequatur» per i vescovi delle diocesi del Sud: mons. Curcio ve-scovo di Oppido Mamertina, 1875-1877, Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità(1861-1878). Atti del IV Convegno di storia della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano1973, 93-100; in BORzOMATI, La Calabria nell’età contemporanea... 193-206.

La Democrazia Cristiana e la società meridionale nell’età degasperiana, «Civi-tas» 1975, 7-8, 1-13; BORzOMATI, La Calabria nell’età contemporanea... ; ID., “Le cassevuote”... 349-368.

Appunti per una storia delle riduzioni delle chiese e della soppressione delI’asseecclesiastico in alcune diocesi del Mezzogiorno d’Italia (1866-l867), in BORzOMATI,La Calabria nell’età contemporanea...

Reggio Calabria nel luglio del 1944, «historica» 28-1975, 145-150; in BORzOMATI,La Calabria nell’età contemporanea...

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Per una storia dello società calabrese all’indomani della seconda guerra mon-diale, in BORzOMATI, La Calabria nell’età contemporanea...

La provincia di Catanzaro nel 1945 in un rapporto riservato del prefetto FedericoSolimena, in BORzOMATI, La Calabria nell’età contemporanea)...

Luigi Sturzo oratore sacro, in BORzOMATI, La Calabria nell’età contemporanea...Per una storia dell’azione sociale della Chiesa e della vita consacrata agli inizi

del Novecento, in Il movimento sociale cattolico nell’Italia meridionale agli inizi delsecolo XX. Atti dell’incontro di studio, Taranto 11-12 novembre 1977, «Bollettinoper la storia del movimento sociale cattolico in Italia» 2 - 1978, 185-199; BORzOMATI,Movimento Cattolico e mezzogiorno... 27-46; ID., Aspetti e momenti di storia... 47-64.-Situazione religiosa e movimento cattolico nel Ravennate, in Il movimento cat-tolico italiano tra la fine dell’800 e i primi anni del ‘900. Il Congresso di Ferrara del1899, «Annuario dell’Istituto di storia contemporanea del movimento cattolicooperaio e contadino di Ferrara» 1977, 501-515; BORzOMATI, Movimento Cattolico emezzogiorno... 155-172.

La parrocchia in Calabria sotto l’aspetto storico-sociologico, in La comunità par-rocchiale luogo privilegiato di evangelizzazione e promozione umana. Atti del con-vegno interdiocesano, Catanzaro 25-26 aprile 1977, «Bollettino del clero»54-1977, 173-182.

Prospettive di sviluppo per gli studi sul movimento sociale cattolico calabrese emeridionale, in Il movimento sindacale cattolico in Italia negli anni della prima in-dustrializzazione (1900-1914), Incontro di studio, Brescia 27-28 aprile 1978, «Bol-lettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia»14-1979, 1-2, 45-50; BORzOMATI, Movimento Cattolico e mezzogiorno... 101-110.

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La spiritualità di A. De Gasperi, in BORzOMATI, “Le casse vuote”... 139-158.La pastoralità del cardinale Dell’Olio, in BORzOMATI, “Le casse vuote”... 159-168.Un grande vero Pastore d’anime, in BORzOMATI, “Le casse vuote”... 207-213.Misticismo e azione nella povertà, in BORzOMATI, Aspetti e momenti di storia... 81-84.Un eremita che vive nel mondo, in BORzOMATI, Aspetti e momenti di storia... 85-88.Gravi omissioni degli studiosi di fronte a protagonisti grandi o umili della “Que-

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spirituali... 43-55.Cataldo Naro. La preghiera come amicizia con i santi e interpretazione della vita

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L’Amico della Libertà primo giornale politico di Reggio Calabria, Cultura Cala-brese, Marina di Belvedere 2001.Albino Morera. L'uomo e il pastore nel contesto socio-religioso nella Diocesi di

Tempio-Ampurias, a cura di G. F. SABA E A. SETzI, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.F. Federici, Homo viator: il viaggio come risorsa educativa didattica, presenta-zioni di P. SERGI E P. BORzOMATI, Aracne, Roma 2005.U. PARENTE, Sui sentieri di Clotilde Micheli fondatrice delle Suore degli Angeli ado-ratrici della SS. Trinità; prefazione di A. AMATO, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.A. BELLINI, Mons. Luigi Drago: il «vescovo parroco», postfazione di P. GhEDA, Rub-bettino, Soveria Mannelli 2012.Direzione di collane“Storia e società” - La goliardica editrice, Roma.“Spiritualità e Promozione umana”, Rubbettino, Soveria Mannelli.“I contemplativi nel mondo”, Società Editrice Internazionale, Torino.Senza data

Liturgia e pietà popolare. Dimensioni, valori e problemi, in «Liturgia» n.s. qua-derno n. 1, 7-11.

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Domenico Lentini nella Chiesa e nella società meridionale, in «Quaderni lenti-niani», n. 2, 11-16.Madre Antonia Lalìa: una fondatrice domenicana mistica e missionaria nella Si-

cilia del Risorgimento e nella Roma politica di fine Ottocento e del primo Novecento,in Aa.Vv., Memorie e testimonianze sulla Serva di Dio Madre Antonia Lalìa fondatricedelle Suore Missionarie Domenicane di S. Sisto nel primo centenario della Congre-gazione (1893-1993), s.e., Roma s.d., 71-76.Scritti su e per Pietro BorzomatiA. LI VECChI, Pietro Borzomati storico meridionalista della religiosità, «Notiziariodel centro studi sulla cooperazione “A. Cammarata”, San Cataldo».C. NARO, Per un’interpretazione dell’opera storica di Pietro Borzomati, «La Chiesanel tempo» 17-2001, 1, 61-76.

Società, Chiesa e ricerca storica. Studi di storia moderna e contemporanea inonore di Pietro Borzomati, a cura di M. NARO, Salvatore Sciascia Editore, Caltanis-setta-Roma 2002.P. GhEDA, Pietro Borzomati: Profilo bio-bibliografico, in Società, Chiesa e ricercastorica... 25-53.J. D. DURAND, La lezione storiografica di Pietro Borzomati, «Notiziario del Centrostudi “Cammarata” - San Cataldo» gen. 2004, 18-23.V. PAGLIA, Ricerca storica e passione per la Chiesa, «Notiziario del Centro studi“Cammarata” - San Cataldo» gen. 2004, 29-34.

Società, Chiesa e ricerca storica. Studi di storia moderna e contemporanea inonore di Pietro Borzomati, a cura di M. NARO, Salvatore Sciascia Editore, Caltanis-setta-Roma 2002.D. VENERUSO, La storiografia di Massimo Petrocchi, Salvatore Sciascia Editore,Caltanissetta-Roma 2004.A. DENISI, In memoriam. Pietro Borzomati, «Rivista storica calabrese», XXXV,2014, 311-314.

Dall’elenco sono esclusi gli articoli sui quotidiani e sui periodici di divulgazionee le interviste. (con la collaborazione di Enzo D’Agostino e Daniela Tazza)

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2015Grafica Pollino - Castrovillari (CS)

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