LA BIBLIOTECA DELL’ARCHITETTO DEL RINASCIMENTO

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Padova 2008 Biblioteca Universitaria di Padova a cura di Renzo Fontana Pietro Gnan Stefano Tosato LA BIBLIOTECA DELL’ARCHITETTO DEL RINASCIMENTO Antichi libri di architettura della Biblioteca Universitaria di Padova

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Padova 2008

Biblioteca Universitaria di Padova

a cura di Renzo FontanaPietro GnanStefano Tosato

LA BIBLIOTECA DELL’ARCHITETTO DEL RINASCIMENTOAntichi libri di architettura della Biblioteca Universitariadi Padova

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Presentazione

Literarum et artium nutriti: tra libri di antichità, studi vitruviani e trattati di architettura del RinascimentoRenzo Fontana, Stefano Tosato

Schede

Tempo e fatica: l’enigma del frontespizio palladiano Renzo Fontana, Stefano Tosato

Nota bibliografica

Indice

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La bibLioTeca deLL’aRchiTeTTo deL RinascimenToAntichi libri di architettura della biblioteca Universitaria di Padova

Padova, Oratorio di San Rocco6 maggio –8 giugno 2008

© Copyright 2008Ministero per i Beni e le Attività CulturaliBiblioteca Universitaria di Padova

Direzione della mostraAlessandra De LuciaMirella Cisotto Nalon

Cura della mostra e del catalogoRenzo FontanaPietro GnanStefano Tosato

Segreteria organizzativaFrancesca Maria Tedeschi

Segreteria amministrativaDaniela CorsatoFranco ZanonMoreno Segafredocon la collaborazione di Cinzia BettinMoreno Rocco Segrafedo

AllestimentoSquadra allestimenti Servizio MostreSettore Attività CulturaliValter Spedicato (coordinamento)Gianni Bernardi Antonio BreggionLuca Galtarossa Giancarlo Guglielmo Moreno Michielan Franco Paccagnella Silvano Perin Claudio Spinello

PromozionePietro GnanRocco RoselliClara SaioniCon la collaborazione diDonatella Grandis

Riproduzioni fotografiche Loris Moro

Progetto graficoAntonio MichelonMarina PravatoErmes Turato

StampaGrafiche Turato sas, Padova

Con il contributo di

Comune di PadovaAssessorato alle Politiche Culturali e Spettacolo

Biblioteca Universitaria di Padova

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Con vero piacere presentiamo, dopo la mostra di disegni navali dello scorso anno, questo nuovo progetto espositivo, frutto della collaborazione tra la Biblioteca Universitaria e il Comune di Padova. L’occasione del quinto centenario della nascita del padovano Andrea della Gondola, universalmente noto col nome di Andrea Palladio, sembra quanto mai propizia per offrire alla cittadinanza, studiosi e semplici appassionati o curiosi, un’esposizione di antichi libri di architettura e antichità romane, scelti tra le raccolte della Biblioteca Universitaria. Così, accanto a splendide edizioni cinquecentesche, riccamente illustrate, del trattato del romano Vitruvio, “bibbia” degli architetti del Rinascimento, si potrà ammirare una galleria dei monumenti che furono oggetto di venerazione e di studio per quegli uomini accesi dai nuovi ideali umanistici, per finire con quei trattati (Serlio, Vignola, Palladio, Scamozzi) che fissarono i nuovi canoni della moderna architettura.

Siamo lieti che questa nostra iniziativa, posta sotto il patrocinio del Comitato per le celebrazioni del quinto cente-nario della nascita di Andrea Palladio istituito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, possa così arricchire il calendario delle manifestazioni previste per onorare la memoria del nostro grande concittadino.

Presentazione

Flavio ZanonatoSindaco di Padova

Monica Balbinot Assessore alle Politiche Culturali

e Spettacolo

Francesco AlianoDirettore della Biblioteca Universitaria di Padova

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Arte non mimetica, fondata sui principi della matemati-ca e della geometria, l’architettura godette assai per tem-po di uno statuto che ne marcava la distanza dalle arti so-relle, pittura e scultura, fondate anch’esse sul disegno, ma condannate da Platone nel decimo libro della Repubblica, a causa del loro carattere imitativo: arti del sensibile, e non dell’intelligibile.

Non sorprende perciò che l’architettura sia stata la prima tra le arti a emanciparsi dalla condizione meccani-ca. Del resto, geometria e matematica, con musica e astro-nomia, erano da sempre annoverate tra le arti liberali del Quadrivio. Lo riconosceva anche Federico da Montefeltro che, confermando con patente del 1468 Luciano Laurana “ Ingegnero e Capo di tutti li maestri” del palazzo di Urbi-no, così si esprimeva: “è la virtù dell’architettura fundata in l’arte dell’arismetrica e geometria, che sono delle sette arti liberali e delle principali, perché sono in primo gradu certitudinis e è arte di gran scienza e di grande ingegno da noi molto stimata e apprezzata”.

Era stato Leon Battista Alberti, dotto umanista, pri-ma che architetto, a sancire la nuova concezione della di-sciplina e il nuovo status dell’artefice. L’architettura è sem-pre meno questione di mera pratica, di empiria, e sempre più questione razionale, che chiama in causa la riflessio-ne teorica.

Alla tradizionale formazione di cantiere del mondo

gotico, basata sulla diretta trasmissione di nozioni tecni-che e stilistiche da maestri ad allievi, o al più col sussidio di raccolte di schizzi come quelli del Livre de portraiture di Villard de Honnecourt (XIII secolo), si venne affiancan-do e sostituendo lo studio dei monumenti dell’antichità e degli scritti d’architettura antichi e moderni.

Gli architetti rinascimentali impararono presto a mi-surarsi con i libri. All’inizio fu Vitruvio: il suo De architec-tura libri decem, composto tra il 27 e il 23 a. C, e risco-perto da Poggio Bracciolini nel 1416, fu subito conside-rato la bibbia degli architetti moderni, che sanciva tra l’al-tro il loro ruolo di intellettuali “literarum et artium nutri-ti”, per usare le parole dello stesso Vitruvio. Il confronto con questa fonte riverita e impervia, pubblicata più vol-te in latino, italiano e altre lingue lungo il Quattro e Cin-quecento, fu imprescindibile, a cominciare proprio da Al-berti, che su Vitruvio modellò liberamente il proprio De re aedificatoria, alla metà del Quattrocento.

Se il lavoro dell’architetto (il progetto) è fondamen-talmente un’attività intellettuale, basata sul calcolo e la re-gola – e dunque codificabile e trasmissibile per via teori-ca – il passaggio alla scrittura e al libro era esito inevitabi-le. Non meraviglia allora che, forti anche del modello vi-truviano, tanti architetti rinascimentali si siano cimentati nella trattatistica. Tanto più che la scoperta della stampa aveva enormemente allargato il pubblico dei lettori, costi-

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tuito non solo dagli architetti strettamente intesi, ma, per usare le parole di Palladio, da “tutti i belli ingegni che so-no desiderosi di edificar bene”.

Se già al tempo di Giotto un pittore poteva vedersi affidato un importante cantiere architettonico, dal Quat-trocento in poi il numero di coloro che abbracciavano la professione senza passare per il tradizionale apprendista-to crebbe considerevolmente. Bramante, Falconetto, Raf-faello, Peruzzi e Vasari, per fare solo qualche esempio, ap-prodarono all’architettura passando dalla pittura. Lo stes-so Brunelleschi non si era formato, ragazzo, in cantiere, e all’inizio della sua carriera non fu nemmeno architetto. Il discorso vale anche per Ghiberti, affiancato a Brunelleschi per la cupola di Santa Maria del Fiore, o per Sansovino, l’uno e l’altro scultori, o per Michelangelo e Bernini, al-l’inizio della loro attività pittori e scultori, ma gli esempi potrebbero continuare. Accedere alla progettazione archi-tettonica passando dalla pittura e dalla scultura (che vole-va dire, almeno a Firenze, disegno, e dunque idea) era an-zi considerato cosa conveniente, mentre lo era molto me-no accedervi venendo dalla pratica della carpenteria e del-la manovalanza edile. Per non dire di Alberti, modello per quei dilettanti di architettura, per lo più di origine aristo-cratica, che avevano una tradizione anche precedente in Italia, e che nel Cinquecento rispondono al nome di per-sonaggi, soprattutto veneti, come il padovano Alvise Cor-naro, il vicentino Giangiorgio Trissino e i veneziani Mar-cantonio e Daniele Barbaro. Ma vasto fu il novero di co-loro che si accostarono alle tematiche della disciplina di-battendo anche soltanto sul piano intellettuale e teorico all’interno di accademie o circoli eruditi.

Roma quanta fuit ipsa ruina docet: curiosità ed erudi-zione nelle guide archeologiche

Oltre alla trattatistica vera e propria, sia essa vitruvia-na o moderna, va tuttavia considerata quella ricca pub-blicistica antiquaria rivolta allo studio e alla divulgazio-ne delle memorie monumentali romane, oggetto, a parti-re dal Quattrocento, di un rinnovato interesse, ora più ora meno nutrito di rigore filologico. Destinata tanto ai romei quanto agli eruditi e agli “archeologi”, questa copiosa pro-duzione editoriale fu tenuta in buon conto, per ragioni evidenti, anche dagli architetti.

“Dov’è il teatro di Marcello? Dove sono i molti edifici innalzati su incarico di quell’imperatore [Augusto] in molti luoghi di Roma con così grande impegno e così ingenti spe-se? Cerca nei libri e troverai i loro nomi. Ma se oggi li cer-chi in Roma non troverai niente, o solo piccoli resti di tan-to imponenti edifici”. Così lamentava Petrarca.

Quasi in risposta alla deplorazione del poeta, il me-dico padovano Giovanni Dondi aveva iniziato a misurare i resti antichi dell’Urbe. E pochi decenni più tardi, artisti ed eruditi cominciarono a ricostruire sistematicamente la mappa e a restituire l’idea di quelle meraviglie.

Nella sua Vita di Filippo di Ser Brunellesco, architetto fiorentino, Antonio Manetti scrive che Brunelleschi, reca-tosi con Donatello a Roma per studiarne le vestigia, "vi-de el modo del murare degli antichi e le loro simmetrie, e parvegli conoscere un certo ordine di membri e d'ossa molto evidente” .

Insieme, i due fiorentini, secondo Manetti, rilevaro-no “grossamente in disegno quasi tutti gli edifici di Roma, e di molti luoghi circunstanti di fuori, colle misure delle

larghezze ed altezze […]. Ed in molti luoghi facevano ca-vare per vedere i riscontri de’ membri degli edifici, e la lo-ro qualità, se egli erano quadri, e di quanti anguli, o tondi perfetti, o ovati, e di che condizione”.

S’ inaugurava così un modo nuovo d’intendere l’ar-chitettura, basato sull’esperienza diretta delle rovine anti-che. Poco importa che in realtà Brunelleschi si accostasse agli esempi romani per trarne cognizioni tecnico-costrut-tive più che estetico-normative, e che per i propri edifici egli poi s’ispirasse a modelli del classicismo paleocristiano: d’allora in avanti il viaggio a Roma e lo studio diretto dei monumenti antichi sarebbe stato vissuto come un’esigen-za irrinunciabile da tutti gli architetti moderni.

Uno stesso abito mentale legava Brunelleschi ai cir-coli umanistici fiorentini, in particolare a quei grammati-ci e antiquari, come Niccolò Niccoli e Poggio Braccioli-ni, che, abbandonato il reverente ossequio alle auctoritates medievali, si erano accostati ai testi antichi con gli stru-menti agguerriti dell’epigrafia e della filologia, ripristinan-do con acribia apparentemente pedantesca le corrette gra-fie latine storpiate dalle corrive lessicografie medievali, e anche da Dante e dallo stesso Petrarca, pur venerato mae-stro di humanitas. In fondo, anch’egli, il grande poeta dei Trionfi e dell’Africa, tra i primi appassionati cultori delle antichità romane, non si era forse lasciato fuorviare dal-le leggende quando aveva interpretato la piramide Cestia come il sepolcro di Remo, nonostante l’ iscrizione ne atte-stasse la dedica a Caio Cestio Epulone? Se ne meraviglia-va Poggio, riportando la corretta iscrizione, resa quasi il-leggibile dalle erbacce che l’infestavano. Ripulire gli anti-chi marmi, e studiarli sulla scorta degli antichi autori fu il nuovo imperativo.

Il peso di questa svolta epocale, inaugurata ad un tempo da umanisti e artisti, si misura nelle trasformazio-ni che interessarono nel Quattrocento la letteratura pe-riegetica.

Durante il Medioevo i Mirabilia urbis Romae aveva-no accompagnato i pellegrini nel loro tour tra i luoghi di culto e le rovine della città, offrendo un succinto elenco di siti e vestigia degni di memoria, con in appendice catalo-ghi di reliquie e indulgenze: elenco con molti errori, come appunto il sepulchrum Remi, e varie fantasiose digressioni del tutto leggendarie (esemplari in questo senso, quelle sui Dioscuri o sul “cavallo di Costantino” ) .

Quando, quarant’anni dopo le prime esplorazio-ni di Brunelleschi e Donatello, il forlivese Flavio Biondo (1392-1463) divulgava i tre volumi della Roma instaura-ta (1443-46), il ritratto della città che ne usciva era mol-to diverso da quello dei Mirabilia medievali. Nel suo la-voro Biondo si era avvalso di epigrafia e numismatica, di testi antichi e medievali, utilizzando questi materiali come fonti per la conoscenza della topografia e dei monumenti, in stretta connessione con la diretta indagine archeologi-ca. Un progetto analogo era stato promosso in quegli anni anche dal pioniere della ricerca “sul campo”, Poggio Brac-ciolini, con il suo De fortunae varietate Urbis Romae et de ruina eiusdem descriptio, primo libro del più ampio De va-rietate fortunae.

Leon Battista Alberti (1404-1472) a sua volta veni-va realizzando nel quinto decennio del Quattrocento la Descriptio Urbis Romae, icnografia dell’Urbe, eseguita “ex mathematicis instrumentis”.

Le pubblicazioni sulla Roma antica s’infittirono nel Cinquecento. Si tratta in alcuni casi di guide popolari,

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come quelle di Lucio Fauno, di Lucio Mauro, di Luigi Contarini e di Bernardo Gamucci, architetto e antiqua-rio di San Gimignano, autore dei fortunati Libri quattro dell'antichità della città di Roma (1565), illustrati con silo-grafie del conterraneo Giovanni Antonio Dosi. Sono ope-re che riassumono e volgarizzano la Roma instaurata di Biondo, e nelle quali l’interesse più spiccatamente archeo-logico è in secondo piano.

In altri casi si tratta invece di opere d’impostazione scientifico-erudita, come nel caso di Andrea Fulvio e Mar-co Fabio Calvo i cui scritti riflettono il clima culturale della Roma di papa Leone X, connotato da un rinnova-to interesse per la restituzione archeologia dell’antica Ur-be. Il prenestino Andrea Fulvio (c.1470 -1527), autore nel 1513 del poemetto Antiquaria Urbis, descrizione in versi delle antichità romane, pubblicava nel 1527 le Anti-quitates Urbis, il suo più rilevante impegno, frutto anche delle esperienze condotte a fianco di Raffaello, incarica-to dal papa nel 1515 di disegnare la topografia della Ro-ma antica.

Alla morte di Raffaello (1520), non sarà però Fulvio a continuarne l’opera di rilevazione, ma il ravennate Mar-co Fabio Calvo (1440-1527), archeologo e antiquario, che aveva a sua volta collaborato con l’artista, fornendogli tra l’altro una traduzione del De architectura di Vitruvio, rimasta manoscritta. Il lungo impegno di Calvo è alla ba-se del Antiquae urbis Romae cum regionibus simulachrum pubblicato anch’esso nel 1527, l’anno del Sacco della città durante il quale persero la vita sia lui sia Fulvio.

Importante fu in particolare la Urbis Romae topo-graphia (1534) del lombardo Bartolomeo Marliano (c.1488-1566), arricchita nell’edizione del 1544 con

piante e tavole silografate, qualcuna a piena pagina, ripro-ducenti vari monumenti romani.

Il pittore e architetto napoletano Pirro Logorio, auto-re di tre famose piante di Roma antica, elaborò fra il 1550 e il 1560 l’opera Delle antichità di Roma, sorta di enciclo-pedia archeologica, di cui uscì a stampa soltanto il Libro delle antichità di Roma nel quale si tratta de’ circi, teatri e anfiteatri (1553).

La diffusione di questi testi, più volte ristampati, fu amplissima e non se ne deve sottovalutare il richiamo su-gli artisti, e in particolare proprio sugli architetti, se è ve-ro che personaggi come Palladio e Scamozzi si cimentaro-no a loro volta nella compilazione di guide di Roma, con l’evidente intenzione di cogliere anche le opportunità of-ferte da quel ricco mercato editoriale. Famosissima L’anti-chità di Roma di Andrea Palladio (1508-1580) pubblica-ta dapprima nel 1554, l’anno dell’ultimo viaggio dell’ar-chitetto a Roma, e poi innumerevoli altre volte, a testimo-nianza di un successo durato un paio di secoli. E’ lo stesso Palladio a dichiarare il suo debito nei confronti della let-teratura antiquaria e periegetica quando, nel proemio del suo libretto, accanto agli antichi scrittori (da Dionigi di Alicarnasso a Eutropio), cita come fonti i moderni Bion-do, Fauno, Fulvio, Marliano, Ligorio. “Ne mi sono con-tentato di questo solo - avverte Palladio nel proemio ai let-tori - , che ancho ho voluto vedere, et con le mie proprie mani misurare minutamente il tutto”. Prima del 1554, in effetti, Palladio era già stato quattro volte a Roma, dedi-candosi allo studio, misurazione e rilievo delle architettu-re antiche, di cui ci restano bellissimi disegni, non utiliz-zati tuttavia nella pubblicazione, priva di illustrazioni. A dispetto delle ambizioni e del favore di cui godette, il li-

bretto palladiano appare piuttosto disorganico; un’opera-zione riuscita a metà, si direbbe, più che uno strumento davvero nuovo. Nello stesso 1554 che vide la pubblicazio-ne de L’Antichità di Roma, Palladio dava alle stampe la De-scritione de le chiese, stationi, indulgenze e reliquie de corpi sancti, che sonno in la città de Roma, così completando in qualche modo l’itinerario della città secondo le tradiziona-li guide che mettevano insieme mirabilia antiche e devo-zioni cristiane.

Rispetto a Palladio, i Discorsi sopra l’antichità di Roma (1582) di Vincenzo Scamozzi sono lavoro certo più com-piuto, nel quale l’autore dispiega con dovizia la sua note-vole erudizione: l’opera, inoltre, è illustrata; i quattro di-scorsi nei quali si articola, infatti, sono accompagnati da quaranta tavole disegnate e incise da Battista Pittoni, che si era ispirato da vicino a quelle edite nel 1551 dal fiammin-go Hieronymus Cock, già modello anche per i paesaggi ro-vinistici di Paolo Veronese nella villa Barbaro a Maser.

Nel 1575, intanto, in occasione dell’anno santo, era-no apparsi I Vestigi dell'Antichità di Roma, un libro di 39 grandi vedute ad acquaforte dell’architetto, incisore e pit-tore francese Etienne du Perac (c.1520-1604). Le imma-gini pur protagoniste pressoché assolute, sono tuttavia cor-redate nel margine inferiore di didascalie che descrivono succintamente i vari monumenti. Insieme alle incisioni di Hieronymus Cock, il dossier di Du Perac si configura, per qualità artistica e fedeltà documentaria, come una delle raccolte iconografiche più belle nella storia dell’editoria antiquaria cinquecentesca.

Le competenze di Du Perac, a Roma dal 1559, ave-vano già avuto modo di manifestarsi con la pubblicazione nel 1574 della Urbis Romae Sciographia, ricostruzione to-

pografica della Roma antica, cui sarebbe seguita, nel 1577, la pianta della Roma moderna, la Nova urbis Romae de-scriptio.

Francese è anche l’erudito Louis de Montjosieu, lati-namente Demontosius, a Roma nel 1583 al seguito del du-ca di Joyeuse, e autore della rara opera Gallus Romae hospes. Ubi multa antiquorum monimenta explicantur, pars pristi-nae formae restituuntur, pubblicata nell’Urbe nel 1585, de-scrizione in cinque parti di alcuni dei principali monu-menti romani, compreso un excursus su pittura e scultura.

La sezione della mostra dedicata alle guide di Roma, si chiude con un’opera dei primi del Seicento, il Trattato nuovo delle cose meravigliose dell’alma città di Roma del servita lom-bardo Pietro Martire Felini (ante 1566-1613), pubblicata la prima volta nel 1610 e esposta in mostra nell’edizione del 1614, un’opera, nella quale l’autore, oltre alle consuete no-tizie sulle antichità, descrive più di 300 chiese, mostrandosi aggiornato sulle ultime novità edilizie e decorative.

Insieme e in parallelo al fiorire degli studi su Roma, anche in altre città iniziò a manifestarsi un più generale in-teresse per l’archeologia e per le memorie antiche munici-pali. Verona ebbe in questa rinascita un posto di assolu-to rilievo, in forza del suo ricco patrimonio di vestigia ro-mane. Il confronto con l’Urbe divenne un luogo comune: anche Flavio Biondo nella sua Italia Illustrata scriveva che Verona possedeva “un teatro così magnifico e bello che, toltone il coliseo di Roma non si trova facilmente un al-tro edificio simile”; senza contare che l’arco dei Gavi, ospi-tando l’iscrizione L.VITRVVIVS L. L. CERDO ARCHI-TECTVS, era ritenuto opera del celeberrimo autore del De Architectura. Se già nel Trecento si registrano significa-

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tive ricerche epigrafiche, è soprattutto a partire dal tempo delle appassionate perlustrazioni di Feliciano, Marcanova e Mantenga tra le rovine della villa di Catullo a Sirmione e delle descrizioni di tono encomiastico di Corna da Son-cino e di Panteo, che la città diventa una delle privilegia-te palestre per eruditi e architetti, prima di tutto veronesi e veneti. Veronese è Fra Giocondo, che nel 1511 darà al-le stampe il suo Vitruvius, corredato di illustrazioni. Ve-ronesi sono Falconetto, pittore e architetto di profonda cultura classica, disegnatore indefesso di antichità, a Po-la, Verona, Roma, e Sanmicheli e altri. Ma le antichità di Verona saranno fondamentali anche per la maturazio-ne dello stile di Palladio, che rileverà in bellissimi disegni i principali monumenti della città; e anche Peruzzi, Anto-nio da Sangallo e Serlio ci hanno lasciato vari fogli ripro-ducenti antichità veronesi, alcuni poi pubblicati a stam-pa, come nel caso di Serlio che li inserisce nel suo Terzo Libro nel 1540.

Consapevole esito di questa coscienza, nutrita di or-goglio patrio, è il De origine et amplitudine civitatis Vero-nae, pubblicato anch’esso nel 1540 dallo storico e giuri-sperito Torello Saraina in forma di dialogo: uno dei quat-tro interlocutori è il pittore locale Giovanni Caroto, auto-re delle stupende immagini che accompagnano l’opera e nelle quali i monumenti cittadini sono raffigurati ora nel-la loro condizione reale, ora, e per lo più, restituiti con va-riabile aderenza e tuttavia sempre a partire da dati archeo-logici e letterari, alla loro presunta originaria forma. Il fi-ne non è solo erudito: deplorando l’incuria del passato, e constatando le antichità “di giorno in giorno stare in non poco pericolo”, Saraina intende promuovere la conserva-zione e il restauro delle memorie cittadine.

Le incisioni di Caroto saranno riutilizzate dal pitto-re stesso nel suo De le antiquità de Verona, e nell’edizione postuma (1647) degli Antiquitatum Veronensium libri octo del veronese Onofrio Panvinio (1530-1568), erudito e storico agostiniano.

La splendida immagine del teatro romano di Verona disegnata da Caroto per l’opera di Saraina sarà ripresa an-che dal geografo tedesco Sebastian Münster (1488-1552) che la inserirà nella sua Cosmographia universalis, ponde-roso e fortunatissimo trattato di geografia riccamente il-lustrato con vedute urbane per lo più del tutto generiche, tranne alcuni casi come questo veronese.

Padova fin dall’epoca comunale e carrarese era stata culla di un precoce umanesimo, con connotazioni anche in questo caso di esaltazione politica e patria glorificazio-ne, basti pensare ad Albertino Mussato e alla sua tragedia “all’antica” Ecerinis, o all’allestimento della tomba del mi-tico fondatore della città, Antenore, alle medaglie di Fran-cesco II, e poi ad altri episodi e personaggi fino a Manten-ga e oltre. A dispetto di una così avvertita coscienza del va-lore dell’antichità, la città non poteva tuttavia contare su sopravvivenze monumentali romane significative. Manca perciò a Padova un’opera come quella di Saraina. Biso-gnerà attendere il Seicento per vedere illustrato, all’inter-no de Le origini di Padova (1625) dell’erudito locale Lo-renzo Pignoria (1571-1631), l’anfiteatro cittadino. Ri-dotta a pochi resti, all’arena sono dedicate alcune immagi-ni piuttosto grossolane, che non pretendono di fornire un esauriente resoconto archeologico dell’edificio.

Un discorso analogo vale per Vicenza. E’ tuttavia in-dicativo che delle quattro silografie, piuttosto approssima-

tive, a corredo de La historia di Vicenza di Giacomo Mar-zari nell’edizione del 1601 (la prima, del 1591, è priva di immagini), ben tre siano riservate ai pochi resti del teatro Berga, dell’acquedotto di Lobia e del “pozzo antico fatto dalla natura”, a testimonianza del significato speciale attri-buito alle vestigia dell’antichità, per quanto scarse.

Ben più ricche di memorie romane, Pola e Nîmes ri-chiamarono anch’esse l’attenzione di eruditi e architetti. Falconetto, come scrive Vasari, “andò a Pola d’Istria, so-lamente per vedere il teatro, anfiteatro ed arco che è in quella città antichissima”, e Serlio e Palladio ne pubbli-carono nei loro trattati i monumenti. Una ricognizione delle antichità di Pola è nella Portus et urbis Polae antiqui-tatum […] descriptio (1633) dell’architetto militare fran-cese Antoine de Ville (1596?-1657), progettista della cit-tadella che sovrasta l’abitato. Lo scritto, esposto in mostra nella raccolta Thesaurum Antiquitatum Italiae del Grae-vius, è illustrato con immagini dell’arena e del tempio di Augusto.

I monumenti di Nîmes furono studiati e pubblica-ti da Jean Poldo d’Albenas, nel Discours historial de l’an-tique et illustre cité de Nismes (1559 e 1560). I suoi punti di riferimento sono Vitruvio, Alberti e Philandrier, ma è sulla scorta di misurazioni e studi archeologici che egli ri-costruisce la pianta della città antica e ne esamina i famo-si edifici: la Maison carrée, il tempio detto “de la Fontai-ne”, la Tour Magne, il pont du Gard e l’anfiteatro. Bel-lissimo l’apparato iconografico, primo esempio di rileva-zione architettonica in Francia, cui s’ispirò anche Palladio per le tavole dei due templi oltralpini inserite nell’ultimo dei suoi Quattro Libri dell’architettura.

Di grande interesse, anche per le belle illustrazioni, è

il De amphitheatro (1584) dell’umanista fiammingo Joost Lips (Justus Lipsius) (1547-1606), studio monografico attento più ai riti che all’architettura, come confessa l’au-tore, ma che fornisce un ricco elenco delle arene a Roma e altrove, esaminandone partitamene alcune (oltre al Co-losseo, gli anfiteatri di Verona, Pola, Nîmes).

Alla scuola di Vitruvio

Per gli eruditi e gli architetti del Rinascimento i De archi-tectura Libri decem di Vitruvio furono una scoperta tanto entusiasmante quanto problematica.

Un’alta considerazione aveva sempre accompagnato il testo dell’architetto romano d’età augustea, noto anche durante Medioevo, per esempio allo storico carolingio del IX secolo Eginardo, e a Vincenzo di Beauvais, che, nel Duecento, aveva inserito il capitolo vitruviano sulla pro-porzione nella sua summa enciclopedica Speculum maius. Anche il pittore giottesco Cennino Cennini, autore del Libro dell’arte composto a Padova nel 1390, mostra di es-sere al corrente delle idee vitruviane. Fu tuttavia solo do-po il 1416, anno del rinvenimento di una copia del tratta-to da parte di Poggio Bracciolini nell’abbazia di San Gal-lo, che la conoscenza di Vitruvio si diffuse capillarmente in Italia e in Europa. Per qualche decennio l’opera circolò manoscritta. La prima edizione latina fu data alle stampe a Roma nel 1486, ma già il De re aedificatoria di Alberti, pur altra cosa, più moderna e originale del precedente vi-truviano (cui Alberti, anzi, non risparmia considerazioni critiche), vi deriva l’impostazione in dieci libri.

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Dopo la prima edizione romana, altre se ne ebbero, sempre in latino. Al di là della devozione tributatagli, il testo di Vitruvio presentava non pochi problemi di com-prensione, a causa di una terminologia spesso oscura e di riferimenti tecnici di ardua interpretazione. Per questo motivo, all’inizio, più degli architetti furono i filologi a interessarsene. All’impresa di chiarire le parti ancora oscu-re del testo, si era dedicata l’Accademia della Virtù, fonda-ta a Roma dal senese Claudio Tolomei . Problemi lessica-li, pur limitati al tema della casa, erano già stati affronta-ti con puntiglio esegetico dal letterato e poeta parmense Francesco Mario Grapaldi (c.1465-1515) nel De parti-bus aedium libri duo pubblicato a Parma nel 1494, che go-dette di notevole fortuna anche in Francia e Germania.

Ma il più poderoso tentativo di restituire una lettu-ra del testo meno scorretta e difficoltosa fu compiuto da Fra Giocondo da Verona (c. 1434-1515), con la pubbli-cazione, nel 1511, a Venezia, del Vitruvius, lezione am-piamente emendata del testo originale, corredata di 136 illustrazioni silografiche.

L’operazione era resa possibile dalle vastissime com-petenze del frate, epigrafista, archeologo e filologo ag-guerrito, ricercatore e editore di codici, e, al tempo stes-so, famoso ingegnere e architetto, esperto di idraulica, meccanica, matematica.

L’eccezionale apparato illustrativo andava molto al di là delle dieci immagini menzionate dallo stesso Vitruvio, tra le quali vi era la famosa figura dell’ homo ad quadra-tum et ad circulum, modello proporzionale per gli edifici nel loro insieme e nelle singole parti, in particolare le co-lonne e i relativi ordini Più volte disegnato e riprodotto a stampa fra Quattro e Cinquecento, tra gli altri da Leonar-

do nel celeberrimo foglio delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, l’uomo vitruviano riappare in una delle silogra-fie dell’edizione di Fra Giocondo. Il carattere strettamen-te funzionale delle immagini nel Vitruvio di Fra Giocon-do è rafforzato dalla presenza delle didascalie: il risultato è una sorta di silloge visual-testuale del poderoso e impe-gnativo trattato.

D’ora in avanti le immagini accompagneranno ob-bligatoriamente non solo le edizioni vitruviane ma tut-ta la trattatistica architettonica, consolidandone le fina-lità tecnico-pratiche accanto a quelle più squisitamente teoriche.

Straordinariamente ricco è anche il repertorio d’ im-magini della traduzione italiana del trattato (Di Lucio Vi-truvio Pollione De architectura libri dece traducti de lati-no in Vulgare) promossa dall’architetto e pittore milane-se Cesare Cesariano (1483-1543) seguace di Bramante, la prima in una lingua moderna, pubblicata a Como nel 1521, e preceduta in verità dalla traduzione di Calvo, che però era rimasta manoscritta. Famosa, anche qui, l’inter-pretazione dell’uomo vitruviano, inserito in una scacchie-ra, originata dalle misure del volto umano diviso in tre parti uguali da Vitruvio. Redatta con una certa fatica e lentezza, l’edizione di Cesariano è indicativa dell’ineludi-bile necessità di fare i conti con un pubblico di artefici e professionisti a disagio con il latino difficile dell’origina-le. Questa finalità didattica è confermata dal ridondante commento di marca enciclopedica che occupa, in caratte-re ridotto, a mo’ di glossa, i margini del testo. Il lavoro ri-sente della mentalità settentrionale, con ampie digressio-ni su temi specificamente locali come il duomo di Mila-no (cantiere al quale lo stesso Cesariano aveva collabora-

to) o la città ideale a pianta radiale immaginata da Filare-te, e con una propensione al decorativismo propria delle coeve architetture lombarde. L’edizione di Cesariano go-dette di grande fama e successo in Italia e fuori, e le sue illustrazioni furono utilizzate nelle edizioni di Vitruvio in Francia (1523, 1537, 1545), in Spagna (1526), in Belgio (1539) e in Germania (1545).

Il tema delle proporzioni, fondamentale tanto per gli architetti quanto per pittori e scultori, trovava in Vi-truvio, con il suo homo ad quadratum et ad circulum un paradigma di straordinaria efficacia, col quale si misura-rono gli artisti più diversi, da Ghiberti ad Alberti, a Fi-larete, a Francesco di Giorgio Martini, a Luca Pacioli, a Leonardo, e, fuori d’Italia, il tedesco Albrecht Dürer (1471-1528), il quale scriveva “vorrei raccontare co-me dovrebbe essere un uomo ben strutturato, e poi una donna, un bambino e un cavallo. Così potrai all’occa-sione misurare tutte le cose. Perciò ascolta innanzitutto cosa dice Vitruvio delle forme umane”. Alla teoria del-le proporzioni egli dedicò i Vier Bücher von menschlicher Proportion [Quattro libri sulle proporzioni umane] usciti postumi nel 1528, e poi a più riprese riediti, a testimo-nianza di un successo straordinario. In essi l’artista, par-tito da Vitruvio, finisce con l’ elaborare una complessa tecnica antropometrica volta a determinare le proporzio-ni non di un tipo ideale, classicamente inteso, com’era nella mentalità italiana, che non lo soddisfaceva, ma di differenti tipi, come è dato sperimentare nella moltepli-cità sempre sfuggente della natura.

Gli interessi per le novità teoriche e artistiche prove-nienti dall’Italia ebbero una precoce eco nella Francia di Jean Pélerin (latinamente noto come Pelerinus Viator), al

quale, anzi, spetta in assoluto la prima edizione a stampa di un testo sulla prospettiva, il De artificialis perspectiva, uscito a Toul nel 1505. L’attenzione per Vitruvio in Fran-cia, piuttosto tardiva invero, è legata invece al nome del-l’umanista e diplomatico Guillaume Philandrier (1505-1565), noto in Italia come Filandro, che si era accostato all’architettura grazie anche agli insegnamenti di Serlio, conosciuto a Venezia. Si trattò tuttavia di un’operazione rilevante, coronata da un notevole successo, anche inter-nazionale, apprezzata da teorici come Vignola, Barbaro e Scamozzi. La sua prima edizione del trattato vitruviano, accompagnata da commento, apparve nel 1544 a Roma (In decem libros M. Vitruvii Pollionis De architectura An-notationes), seguita da una seconda, uscita a Lione, nel 1552. Ampliata rispetto alla prima, in quest’ultima l’au-tore fa tesoro delle esperienze compiute nel suo secondo soggiorno romano (1547-1550), durante il quale, tra l’al-tro, ebbe modo di valersi dell’amicizia di Pirro Logorio che stava allora approntando una pianta della città.

Tre anni dopo la prima edizione delle Annotationes, usciva a Parigi la prima traduzione francese di Vitruvio (Architecture ou Art de bien bastir de Marc Vitruve Pollion) ad opera di Jean Martin, che si avvalse anche della volga-rizzazione dello spagnolo Diego de Sagredo (Medidas del Romano, uscita a Toledo nel 1526) della quale esisteva una traduzione francese.

L’edizione di Vitruvio che superò tutte le altre fu quella di Daniele Barbaro (1513-1570), I Dieci Libri dell’Architettura di M. Vitruvio, tradutti e commentati da Monsignor Daniele Barbaro eletto patriarca d’Aquileg-gia, data alle stampe nel 1556 a Venezia presso l’edito-re Francesco Marcolini, e poi nel 1567 presso Francesco

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de’ Franceschi. Opera monumentale, la traduzione e il commento del nobiluomo e prelato veneziano erano sta-ti realizzati in capo a una lunga preparazione e a dirette perlustrazioni e rilevazioni dei monumenti antichi, con-dotte nel viaggio a Roma compiuto insieme a Palladio nel 1554. La collaborazione di Palladio non si limitò a quest’occasione romana. L’architetto partecipò da vicino all’elaborazione dell’opera, sia fornendo le proprie spe-cifiche competenze professionali sia dispiegando il pro-prio sapere antiquario (aveva già visitato ben cinque vol-te l’Urbe, ritornando con un ricco dossier di disegni e nel 1554 aveva pubblicato L’Antichità di Roma) sia infi-ne realizzando alcune delle tavole a illustrazione del trat-tato, compreso il bel frontespizio. Oltre alla pianta degli edifici sono riprodotti alzato e sezione. Barbaro si pre-figge di approntare una traduzione del testo vitruviano filologicamente impeccabile (o in ogni caso superiore a quella di Cesariano e degli altri traduttori che l’aveva-no seguito, Durantino e Caporali, certo meno filologi-camente agguerriti ), e, insieme, di offrire un commento destinato ad attualizzarne i principi, in considerazione di un pubblico di professionisti e dilettanti.

Barbaro conosce la letteratura antica e la produzione trattatistica contemporanea, ne vaglia i risultati e se ne avvale: segue puntualmente il testo latino nella redazione di Fra Giocondo, ma si rifà anche alla traduzione di Ce-sariano e altri, anche stranieri, come Philandrier e De Sa-gredo, consulta le opere di Alberti, Serlio, Salviati, il cui trattatello sulla voluta ionica del 1552 era stato dedicato proprio a Daniele Barbaro.

Particolare cura viene riservata agli aspetti legati al-le implicazioni matematiche dell’architettura, tenute in

gran conto anche da Vitruvio, che aveva dedicato gli ulti-mi libri del proprio trattato alla costruzione degli orologi solari e alle macchine. Barbaro aveva assai cari questi te-mi, legati all’ottica, all’idraulica, all’astronomia, alla mec-canica, condividendone la passione con il milieu intellet-tuale gravitante intorno agli studi scientifici dell’universi-tà di Padova, da lui frequentata in gioventù e dove fortis-sima era stata e continuava ad essere la tradizione aristo-telica, che egli aveva assimilata profondamente, innesta-dovi tuttavia anche motivi d’origine platonica.

Meno fortunata fu l’edizione vitruviana dell’archi-tetto e ingegnere idraulico veneziano Giovan Antonio Rusconi (1500/1505 -1578). Intorno alla metà del Cin-quecento egli stava preparando i materiali da pubblica-re, comprese le silografie, per le quali l’editore Giolito aveva ottenuto nel 1553 il privilegio dal senato veneto. Doveva trattarsi, nelle intenzioni, di un apparato impo-nente, composto di trecento immagini. Tuttavia l’opera-zione s’incagliò, e un secondo tentativo nel 1570 rien-trò ben presto senza esiti. Solo nel 1590, a più di dieci anni dalla morte di Rusconi, i Giolito davano alle stam-pe l’opera col titolo fuorviante Della Architettura di Gio. Antonio Rusconi, Con Centosessanta figure Disegnate dal Medesimo, Secondo i precetti di Vitruvio. Si tratta di un assemblaggio di materiali assai poco coerente, nel quale prevale di gran lunga l’aspetto illustrativo, con brevi testi tratti dall’edizione di Barbaro e surrettiziamente inseriti dall’editore. Non vi mancò peraltro il favore del pubbli-co, giacché il lavoro poteva contare su immagini di no-tevole qualità.

Tra antico e moderno: i trattati di architettura nel-l’epoca della stampa

Il De re aedificatoria è l’ultima in ordine di tempo delle grandi opere di Leon Battista Alberti. Matteo Palmieri af-ferma che il trattato fu presentato a papa Niccolò V nel 1452, ma con ogni probabilità Alberti v’intervenne anche successivamente. E’ un lavoro della piena maturità, compo-sto quando l’autore era ormai prossimo alla cinquantina.

Il trattato albertiano risponde a uno spirito nuovo, non vuole essere un manuale tecnico (Alberti aveva esclu-so illustrazioni a corredo del testo), né, d’altra parte, in-tende rivolgersi ai professionisti, ma al pubblico dei com-mittenti colti (non a caso è scritto in latino), per con-sigliarli e indirizzarli nelle scelte: lo sforzo è di dare di-gnità letteraria e di pensiero a una materia, l’architettu-ra, ritenuta “commodissima” al viver pubblico e al priva-to, “agli huomini oltre modo gioconda” e “non ultima per dignità”, come recita il Prologo. Sarà tuttavia appannag-gio esclusivo dell’architetto la definizione progettuale del-l’opera, intesa dunque come sua integrale creazione: “cosa che sta nelle sue mani, egli ne può liberamente e a voglia sua molto bene disporre”.

Sebbene Alberti si ispiri a Vitruvio, l’opera non è né un’edizione né un commento a Vitruvio. La conoscenza dell’architettura antica dispiegata nel De re aedificatoria non si fonda solo su fonti scritte, ma è frutto di ricerche archeologiche condotte dallo stesso Alberti, che già aveva realizzato la Descriptio Urbis Romae. L’interesse per l’anti-co vi è pari a quello per il moderno. Questa stretta con-nessione fra antico e moderno è un dato che accompagne-rà tutta la successiva trattatistica architettonica, da Serlio

a Vignola a Palladio a Scamozzi e oltre, anche se con esiti molto diversi: normativi per alcuni (Vignola), sperimen-tali per altri (Serlio). L’antico offre la misura, la giusta pro-porzione, sta ai moderni tradurla e attualizzarla: la bellez-za (venustas) è “un concerto di tutte le parti accomodate insieme con proporzione e discorso […] di maniera che e’ non vi si possa aggiugnere o diminuire , o mutare cosa al-cuna, che non vi stesse peggio”. Firmitas (solidità), utilitas (funzionalità) e venustas (bellezza) sono i concetti attorno ai quali si organizza la materia del trattato albertiano. La sua fortuna non fu rapidissima. Circolò manoscritto fino alla pubblicazione, promossa da Bernardo Alberti, cugino di Leon Battista, nel 1485, oltre dieci anni dopo la morte dell’autore. La sua notorietà si diffuse soprattutto nel Cin-quecento, in un clima ormai assuefatto al verbo classici-sta, quando già il suo ruolo era diventato meno centrale: in ogni caso, sarà il modello albertiano a dare il tono al-la successiva pubblicistica architettonica, e a consacrare la fama del suo autore, celebrato dai trattatisti di ogni tem-po, che ne affiancheranno il nome a quello di Vitruvio.

Il trattatista più prolifico e sperimentale del Cinque-cento fu il bolognese Sebastiano Serlio (c.1480-c.1555), assai più noto per la sua attività teorica che per la sua pro-duzione architettonica, quantitativamente assai limitata. Dopo esperienze a Pesaro, Roma e Mantova si stabilisce a Venezia nel 1527-28. Nell’ambiente lagunare egli ha mo-do di mettere subito a profitto la sua attitudine alla didat-tica e alla divulgazione, pubblicando nel 1528, in qualità di “professor di Architettura”, come si definisce egli stesso, nove disegni raffiguranti elementi degli ordini architetto-nici, in collaborazione con l’incisore Agostino Veneziano. Il suo più ambizioso progetto è però una summa, in set-

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te libri, sulle “regole ne l’Architettura”. La scelta del nu-mero sette (e non il canonico dieci vitruviano e albertia-no), con tutte le implicazioni simboliche connesse, era le-gata, probabilmente, alle suggestioni derivategli dall’ami-co Giulio Camillo Delminio, filosofo e mago friulano im-pegnato nell’elaborazione di un trattato di mnemotecni-ca L’Idea del Theatro, pubblicato postumo nel 1550. Il primo dei libri serliani a essere stampato, nel 1537, a Ve-nezia presso Marcolini, è quello delle Regole, noto anche come Libro Quarto, nel quale sono trattati i cinque ordi-ni architettonici ed è annunciato il piano dell’intera ope-ra. Oltre a Vitruvio e agli esempi antichi, Serlio determi-na la morfologia degli ordini sulla scorta delle esperienze dell’architettura romana moderna, in primo luogo quella di Bramante e Raffaello, mettendo a punto un codice più ricco di quello di Vitruvio e più corretto di quello di Cesa-riano, ma non ancora così puntiglioso come il successivo di Vignola, destinato in ogni caso insieme a quest’ultimo ad affermarsi e durare per secoli anche grazie all’efficacia del corredo iconografico. E’ indicativo che Serlio cominci a segnare già in questa sua prima opera teorica, e fin dalla dichiarazione del frontespizio, una qualche distanza dal-l’integrale adesione a Vitruvio, distanza che culminerà ne-gli esiti inattesi e “eversivi” dell’Extraordinario Libro, pub-blicato in Francia nel 1551.

Se nel Quarto Libro, Serlio lascia spazio alla tempe-rata discrezionalità del progettista, al suo giudizio, il Ter-zo Libro ha un’ impostazione decisamente più prescrittiva, anche a causa del tema che vi è sviluppato, quello dell’ar-chitettura antica. Uscito a Venezia nel 1540, ancora per i tipi di Marcolini, e con uno stupendo frontespizio “rovi-nistico”, il richiamo all’ortodossia vitruviana vi torna pre-

potente, e, in suo nome, l’autore non risparmia di rileva-re polemicamente gli “errori” degli “architetti licenziosi”. Il libro infatti non si limita a riprodurre i disegni “ della maggior parte degli edificii [antichi] che sono a Roma, in Italia e fuori, diligentemente misurati”, ma prende in con-siderazione anche i moderni palazzi e chiese della Roma rinascimentale. Nel proprio lavoro Serlio fa uso dei rilievi (poi venduti all’antiquario Jacopo Strada), appartenuti al suo maestro Baldassarre Peruzzi che li aveva disegnati per un’opera sulle antichità romane mai pubblicata. La tratta-zione non si limita a Roma ma si allarga ad altri centri ric-chi di testimonianze archeologiche, come Ancona , Bene-vento, Spello,Verona, Pola e termina con una capitolo sui monumenti egizi.

Nel 1541 Serlio è chiamato da Francesco I di Francia a sovrintendere al cantiere del castello di Fontainebleau, che grazie alla presenza di una schiera di artisti italiani (Rosso, Primaticcio, Cellini, Niccolò dell’Abate) si avvia-va a diventare il modello del nuovo gusto rinascimentale nel paese d’Oltralpe.

Seguitando la sua impresa editoriale, l’architetto dà alle stampe nel 1545, a Parigi, il Primo Libro d’architettura e il Secondo Libro di perspettiva, in italiano e in francese, entrambi destinati, al pari degli altri, a un grande successo editoriale. Nel Primo Libro Serlio tratta della geometria, partendo dalla definizione euclidea di punto, linea, super-ficie, per passare poi a vari specifici problemi, per i quali chiama in causa più di una volta Dürer.

Nel Secondo Libro il tema è quello tradizionale del-la prospettiva, così fondamentale per tutto il Rinascimen-to. L’impostazione al solito è molto didattica ed empirica, l’architetto, a dispetto delle intuibili critiche degli esper-

ti, che mette in conto, si propone di spiegare le regole prospettiche nel modo più semplice. Nel breve scritto a chiusura del libro (il Trattato sopra le Scene) Serlio affron-ta l’importante tema del teatro, illustrando, anche sulla base di precedenti esperienze altrui (soprattutto di Peruz-zi) e proprie (aveva allestito un teatro di legno a Vicenza), la scena prospettica moderna, nelle tre tipologie: comica, tragica e satirica.

Sempre a Parigi, e sempre in italiano e in francese, esce nel 1547 il Quinto Libro, che si occupa delle “diver-se forme di Tempij Sacri secondo il costume Christiano, et al modo Antico”. La dedica a Margherita di Navarra, sorella di Francesco I, donna dalle idee religiose non con-formiste, e affermazioni come quella d’esordio nella quale Serlio dichiara che “i veri templij sono gli cuori de i pie-tosi Christiani, dentro de quali abita per fede Giesu Cri-sto Salvator nostro”, o quella finale “altre cose mi aspetta-no, forsi di più comodo e contentezza alla maggior parte de gli uomini”, hanno fatto sospettare possibili simpatie dell’architetto per il mondo dell’evangelismo. Il trattato, in ogni caso, non è la sua opera più felice: vi sono breve-mente descritte dodici tipologie chiesastiche, con netta prevalenza di quelle centriche (nove).

Nel 1551 a Lione viene pubblicato, in francese e ita-liano, l’ Extraordinario Libro, dedicato a Enrico II. Sem-pre oscillante tra i richiami all’ordine vitruviani e l’ in-tima propensione sperimentale e anti-dogmatica, l’archi-tetto qui si sbilancia decisamente a favore della seconda, dando vita a un’ opera sorprendente e quasi temeraria, de-stinata a incontrare le resistenze e la condanna del classi-cismo ortodosso di fine secolo, specificamente di Vincen-zo Scamozzi. Vi si tratta di un tema in realtà marginale,

le porte, per le quali Serlio, con piena coscienza, delibera-tamente propone un catalogo di cinquanta tipi (trenta di stile rustico, venti di stile “delicato”) che egli stesso defini-sce “licenze”, e di cui chiede venia agli “architetti fonda-ti sopra la dottrina di Vitruvio”, giustificandosi con l’esi-genza di assecondare il gusto francese (“Habbiatemi per iscusato di tanti ornamenti, di tante tabelle, di tanti car-tocci, volute & di tanti superflui; e habbiate riguardo al paese dove io sono”, dichiara l’architetto), ma che, ispira-ti a una fantasia sbrigliata e capricciosa, ben esprimono, in fondo, le inquietudini anti-normative di molta parte della moderna sensibilità manieristica:.

Il Sesto Libro, previsto nell’iniziale programma del 1537, avrebbe dovuto essere dedicato all’architettura do-mestica (“da la più vil casipola , o capannetta che voglia-mo dirla […] fino al più ornato palazzo di Prencipe, così per la villa come per la città”), ma ebbe un iter travagliato, con tre diverse redazioni scalate fra il 1541 e il 1553, nes-suna delle quali vide la stampa.

Il Settimo Libro, e ultimo, esce postumo a Francofor-te nel 1575 per iniziativa e con rimaneggiamenti dell’ar-chitetto e antiquario mantovano Jacopo Strada, a lungo attivo in Germania al servizio dei banchieri Fugger e del-le case d’Asburgo e di Baviera. Come dichiara nell’ Avvi-so alli lettori, Strada aveva acquistato il manoscritto e “le tavole disegnate” del Settimo Libro da Serlio a Lione nel 1550 (ma in realtà li ebbe dopo il 1552) e ora li pubblica-va con testo italiano e latino. Vi si esaminano i “molti ac-cidenti, che possono occorer’ al Architetto”, con osserva-zioni sul “ristorar case vecchie”, cioè in prevalenza edifi-ci gotici, da sottoporre a “riformatione” secondo i princi-pi classici di regolarità e simmetria; in altre parti del libro

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Serlio parla delle proprie personali esperienze nel cantiere di Fontainebleau, o descrive ville e palazzi, come la casa di Alvise Cornaro a Padova, pubblicando una pianta abba-stanza fedele dell’Odeo, e meno aderenti disegni di alzato e sezione. Nel 1584, a Venezia era data alle stampe un’edi-zione di Tutte l’opere d’architettura curata da Gian Dome-nico Scamozzi con un ricchissimo indice redatto dal fi-glio Vincenzo.

Jacopo Strada, nel Settimo Libro, riferisce di aver ac-quistato da Serlio anche il manoscritto e le tavole di quello che lui chiama impropriamente Ottavo Libro, riguardante la Castramentatio, vale a dire la ricostruzione dell’accam-pamento romano, secondo le indicazioni di Polibio, ma l’opera non fu mai stampata.

I libri di Serlio editi e riediti a Venezia, Lione, Pari-gi, Anversa, Basilea, Toledo, Francoforte, favorirono l’af-fermazione di un nuovo tipo di editoria trattatistica basa-ta molto sulle immagini, e contribuirono enormemente a diffondere i principi e il gusto dell’ architettura rinasci-mentale in Europa

Quasi in competizione con il Terzo Libro di Serlio, nel 1552 esce a Roma il Libro appartenente all’architettura del vercellese Antonio Labacco (c.1495 -1568), che ave-va partecipato, in qualità di disegnatore, agli scavi e rilie-vi di antichità condotti nell’Urbe dal suo maestro Anto-nio da Sangallo il giovane, col quale collaborò anche per il progetto di San Pietro pubblicandone a stampa i disegni fra 1546 e ’49, e da Baldassarre Peruzzi. Il Libro di Labac-co, accompagnato da un elegante frontespizio d’impron-ta marcatamente manierista, disegnato da Francesco Sal-viati, raccoglie una serie di grandi incisioni in folio, di al-ta qualità grafica, con brevi testi affiancati alle immagini.

Anche in questo caso, l’opera incontrò un amplissimo fa-vore di pubblico.

Ma fortuna e influsso straordinari, più di ogni altro scritto d’architettura del Cinquecento, ebbe la Regola del-li cinque ordini dell’architettura di Jacopo Barozzi (1507-1573), detto il Vignola dal luogo di nascita, pubblicata a Roma nel 1562. Più impegnato di Serlio nella diretta at-tività progettuale, al Vignola si devono importanti edifici a Bologna (Portico dei Banchi), Roma (villa Giulia, chie-se di Sant’Andrea sulla via Flaminia, Sant’Anna dei Pala-frenieri, del Gesù, destinata a diventare il modello delle chiese della controriforma), Piacenza e Caprarola (palazzo Farnese). Vignola enuncia il suo intento nella prefazione: si tratta di ridurre “sotto una breve regola facile, et spedita da potersene valere li cinque ordini di architettura […] ca-vandogli puramente dagli antichi tutti insieme, ne vi me-scolando cosa di mio se non la distribuzione delle propor-zioni fondata in numeri semplici senza havere a fare con braccia, ne piedi, ne palmi di qual si voglia luogo, ma solo ad una misura arbitraria detta modulo”. Vignola non ha l’ambizione di scrivere un trattato complesso come quello serliano o albertiano, ma di fornire uno strumento agile e di pronto utilizzo, quasi un semplice abaco,

Perciò, come e più che in Serlio e Labacco, nella Re-gola le immagini, di didascalica essenzialità, realizzate su una matrice di cuoio e accompagnate dalle misure modu-lari, assumono un ruolo assolutamente centrale e decisivo, poiché, per usare ancora le parole dell’autore, si potrà “in un’occhiata sola senza gran fastidio di leggere compren-dere il tutto e opportunamente servirsene”. I fogli della Regola spesso venivano rilegati insieme con il libro di La-bacco, del quale la Regola vignolesca costituiva quasi il na-

turale completamento, corrispondendo come argomenti l’uno al III Libro del Serlio, l’altra al IV. Il testo per la sua semplicità e didascalica efficacia, si affermerà subito come pratico manuale didattico, consultato in scuole e accade-mie fin dentro l’Ottocento.

Nel 1570, otto anni dopo la pubblicazione della Re-gola di Vignola, uscivano a Venezia I Quattro Libri del-l’architettura di Andrea Palladio (1508-1580), votati an-ch’essi a una enorme notorietà, forse meno capillarmen-te universale di quella di Vignola, ma in ogni caso di in-calcolabile portata, specialmente nell’Inghilterra del XVII secolo, dove, sui Quattro Libri, si fondò per impulso spe-cialmente di Inigo Jones, l’esperienza importante del pal-ladianesimo, destinata ad avere ripercussioni amplissime anche in America. Nel Proemio del trattato, appellando-si a Vitruvio e Alberti, Palladio intende proporsi implici-tamente come erede dei due fondatori della trattatistica architettonica, rispettivamente antica e moderna, ma an-che, implicitamente, come colui che li supera, forse rac-cogliendo in ciò un suggerimento del suo primo impor-tante mecenate e protettore, il nobile letterato e umanista vicentino Giangiorgio Trissino, protagonista, con L’Italia liberata dai Goti, della rinascita della tragedia regolare di stampo antico, il quale, dei due grandi teorici, pur ammi-ratissimi, aveva lamentato i difetti, incompletezza nel pri-mo, prolissità nel secondo. I Quattro Libri, ma Palladio ne aveva previsti altri, mai pubblicati, si presentano come un trattato agile e accessibile a un pubblico vasto, anche in virtù di un ricco apparato illustrativo.

Preceduti dall’impresa editoriale de L’ Antichità di Roma (1554) e seguiti dai Commentari di C. Giulio Cesa-re (1574), i Quattro Libri, imprimeranno il definitivo sug-

gello della dignità intellettuale alla straordinaria parabola del tagliapietra padovano Andrea di Pietro della Gondo-la, divenuto, col nome di Palladio, uno dei più celebrati architetti del suo tempo. Il nome Palladio, di classica ri-sonanza, gli era stato attribuito da Trissino, ed è in questo ambiente, intriso di sconfinata ammirazione per il mondo classico, che egli matura i propri ideali estetici. Tuttavia a dispetto dell’omaggio di prammatica al verbo vitruviano, egli in realtà vi si mostra sempre meno ossequiente, elabo-rando una lingua architettonica originale, tradotta in una lunga serie di capolavori, la cui conoscenza sarà divulga-ta proprio dal trattato. Ed è questo l’ aspetto più rilevante e in parte nuovo dei Quattro Libri. I vari edifici urbani e le ville realizzate nella campagna vi compaiono con pian-ta e prospetto, accompagnati da una breve descrizione: un pratico repertorio di tipi ed esempi, più che una registra-zione scrupolosa di articolati progetti e realizzazioni. Nel-la dedica al conte vicentino Giacomo Angarano, Palladio dichiara di voler “scriver gli avvertimenti necessarij, che si devono osservare da tutti i belli ingegni, che sono deside-rosi di edificar bene, e leggiadramente, et oltra di ciò di mostar in disegno molte di quelle fabriche che da me sono state in diversi luoghi ordinate, e tutti quelli antichi edifici c’ho finora veduti”: il trattato si rivolge dunque a un pub-blico non solo di architetti, ma anche, e prima, di inten-ditori e committenti. A questo proposito Palladio ricorda come, a Vicenza, “molti gentil’ huomini vi sono stati stu-diosissimi di quest’arte [architettura]” e li elenca con defe-renza, essendo stati pressoché tutti suoi clienti.

Nel Proemio al primo libro Palladio prefigura un pro-gramma più compiuto di quello poi effettivamente dato alle stampe, vi avrebbero dovuto figurare anche teatri, an-

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fiteatri, archi, terme, acquedotti, fortificazioni, che invece non videro mai la pubblicazione.

Il Primo Libro considera i materiali, le tecniche co-struttive connesse alle varie parti dell’edificio (muri, pa-vimenti, soffitti, porte, finestre, scale, coperti), e natural-mente i cinque ordini.

Il Secondo Libro tratta delle case dentro e fuori la cit-tà e “delle case antiche de’ Greci e de’ Latini”. Palladio dà ampio spazio ai propri progetti urbani e di villa.: vi tro-viamo illustrati, tra gli altri, i palazzi Chiericati, Da Porto, Thiene, Valmarana, Barbarano di Vicenza, e le molte ville sparse nel Veneto (in mostra si è ritenuto di esporre le pa-gine raffiguranti due ville del Padovano, quella di Mon-tagnana e quella di Piombino Dese, oltre alla celebre vil-la Almerico, o Rotonda, di Vicenza). Il Terzo Libro ha per tema le strade, i ponti (in mostra il progetto mai realizza-to per Rialto), le piazze, le basiliche, le palestre. Qui Pal-ladio ha modo di illustrare il ponte ligneo di Bassano e la famosa Basilica di Vicenza, alla quale dedica due splendi-de tavole.

Nel Quarto Libro, infine, “si descrivono e si figurano i Tempij Antichi, che sono in Roma, et alcuni altri, che sono in Italia, e fuori d’Italia”, e qui, l’architetto mette a frutto le competenze archeologiche acquisite con gli stu-di e i molti viaggi a Roma e altrove. Le bellissime incisioni silografiche che accompagnano tutto il trattato, disegnate dallo stesso maestro con straordinaria finezza, nel Quarto Libro si fanno più numerose, con grande abbondanza di immagini a tutta pagina.

Nello stesso anno in cui uscivano i Quattro Libri, Pal-ladio, insieme a Vignola, Vasari e Bertani, fu consultato dall’architetto milanese Martino Bassi (1542-1591) in-

torno a un contrasto su un problema prospettico attinente a un rilievo marmoreo all’interno del duomo di Milano, che lo opponeva al capomastro della fabbrica, Pellegrino Tibaldi. Le risposte degli architetti interpellati confluiro-no nei Dispareri in materia d'architettura et perspettiva con pareri di eccellenti e famosi architetti che li risolvono, pub-blicato dallo stesso Bassi a Brescia nel 1572, interessante perché ci offre un esempio “dal vivo” dei dibattiti artisti-ci e scientifici connessi alla teoria e alla pratica architetto-nica, e in particolare prospettica. Per pittori, scultori, ar-chitetti e scenografi del Cinquecento, la prospettiva con-tinuava infatti a essere scienza imprescindibile, della qua-le si esploravano le possibilità più sofisticate, fino a giun-gere nel secolo successivo alle straordinarie macchine tea-trali dei Bibbiena, o alle altrettanto e più straordinarie in-venzioni sceniche del pesarese Nicola Sabbattini (1574-1654), formatosi sugli studi prospettici del matematico Guido Ubaldi, e autore della Pratica di fabbricar scene e macchine ne’ teatri (1638).

Anche Daniele Barbaro s’era occupato di problemi prospettici, pubblicando nel 1568 La pratica della perspet-tiva. Opera molto utile a pittori, a scultori, e ad architetti, nella quale si era valso degli studi di Pacioli, Serlio, Com-mandino e soprattutto di Dürer. Al pari del suo commen-to a Vitruvio, anche quest’opera riscosse un favore straor-dinario. Tra le altre cose vi si divulga il modello di una ca-mera oscura con lente biconvessa.

Vignola a sua volta aveva preparato un lavoro ana-logo, Le due regole della prospettiva pratica, che tuttavia fu pubblicata solo nel 1583, postuma, per iniziativa di Igna-zio Danti. Già nel titolo quest’opera di Vignola, al pa-ri della precedente sugli ordini architettonici, si presenta

come un agile strumento pratico, senza tutta la sofistica-ta attrezzatura teorica di gran parte degli altri trattati pro-spettici dell’epoca.

Nel 1576 si pubblicava postuma L’Architettura del se-nese Pietro Cataneo, trattato in otto libri d’impostazio-ne enciclopedica e didattica, con un ricco apparato d’illu-strazioni. L’edizione dei primi quattro libri si era già avuta oltre vent’anni innanzi (I Quattro Primi Libri di Architet-tura, 1554). Nel primo si esaminano i diversi siti e pian-te delle città, e le fortificazioni; nel secondo, i materiali da costruzione; nel terzo gli edifici religiosi; nel quarto vari tipi di palazzi; nel quinto gli ordini, e qui l’autore pole-mizza con Serlio; il sesto libro tratta delle acque termali; il settimo è dedicato alla geometria e il settimo alla pro-spettiva.

L’Idea della Architettura Universale del vicentino Vin-cenzo Scamozzi (1548-1616), pubblicata a Venezia nel 1615, è di solito considerata l’epilogo della trattatistica architettonica del Rinascimento. Anche come architetto Scamozzi è l’erede della tradizione cinquecentesca, quella veneta, da Sansovino a Palladio: di Sansovino continuerà e porterà a termine le Procuratorie Nuove in Piazza San Marco a Venezia; di Palladio concluderà il Teatro Olimpi-co a Vicenza, con l’inserto delle illusionistiche scenogra-fie. Progettista prolifico, realizza opere come, tra le molte, villa Pisani a Lonigo, il Santuario delle Sette Chiese e villa Duodo a Monselice, il complesso di San Gaetano a Pado-va, il teatro di Sabbioneta, il duomo di Salisburgo.

In gioventù era stato a lungo a Roma e Napoli. Per preparare il suo trattato sull’architettura universale, viag-gerà poi in vari paesi, Germania, Ungheria, Francia, re-gistrando nel suo taccuino di disegni, con franca curiosi-

tà, anche le architetture gotiche, bandite senza appello dal suo orizzonte estetico, integralmente classicista.

Figlio di un architetto, Scamozzi ha una formazione accademica, fin dall’inizio saldamente e anzi quasi dog-maticamente ancorata ai principi teorici, in polemica più o meno scoperta con il lascito di Palladio, fatto sì di teoria ma anche profondamente innervato di esperienza pratica: “all’arte – scrive Scamozzi nell’Idea – conviene più il sa-pere e il conoscere le ragioni delle cose, che all’esperienza: essendo che l’arte ha cognitione universale, e l’esperienza solo degli accidenti particolari. Laonde noi reputiamo più dotti, e sapienti gli architetti che possiedono questa facol-tà con quei termini che ricerca l’arte, che quelli che ten-gono solo per via dell’esperienza; e tanto maggiore quan-to i primi acquistano le cose per via delle scientie, essendo che allora dagli universali vengono in cognizione de’ par-ticolari delle cose: onde sanno le cause che sono termini scientifici”. “Senza dubbio ritrovaremo – dichiara ancora Scamozzi – che l’Architettura non solo sarà Scientia […] ma fra le Scientie verrà a esser degnissima e meritissima d’ogni lode; posciache […] ella è sublime nella speculatio-ne; indubitata nelle dimostrationi; nobilissima per il sog-getto che tratta; eccellentissima per il metodo ch’ella tiene nel dimostrare, necessarissima al viver Politico e civile”.

Tuttavia Scamozzi è assai attento all’organizzazione del cantiere e al ruolo delle varie maestranze, riservando però all’architetto una posizione di intellettuale aristocra-tica superiorità. Nel 1584 insieme al padre cura la prima edizione completa dei libri di Serlio; due anni prima aveva dato ampia prova della propria cultura antiquaria e delle proprie ambizioni letterarie, pubblicando i Discorsi sopra l’antichità di Roma. Possedeva una ricca biblioteca (suo fu

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anche un manoscritto originale del trattato di Francesco di Giorgio), ben fornita di libri di architettura e di anti-chità: uno di questi, la Urbis Romae topographia di Barto-lomeo Marliano, nell’edizione del 1588, in 16°, è esposto in mostra, appartenendo oggi alla biblioteca Universita-ria di Padova.

L’Idea della Architettura Universale, progetto ambizio-so, a lungo accarezzato, fu pubblicata dall’autore solo l’an-no prima della morte. Era prevista in dieci libri, sul mo-dello di Vitruvio e Alberti, ma ne uscirono soltanto sei (in due volumi: I-III, VI-VIII), ciascuno di trenta prolissi ca-pitoli, con un “indice copiosissimo delle materie”. E’ in-dicativo della mentalità scamozziana il continuo rimando a definizioni e prescrizioni: un’impostazione quasi da trat-tato morale e filosofico. Naturalmente Scamozzi non tra-scura gli aspetti più direttamente inerenti la professione, con uno sguardo sempre molto ampio, rivolto non solo all’Italia, ma, sulla scorta delle sue esperienze di viaggio, anche all’urbanistica e all’edilizia di vari paesi europei.

Una quindicina d’anni dopo la pubblicazione del-l’Idea di Scamozzi, veniva dato alle stampe Della Archi-tettura (1629) del padovano Gioseffe Viola Zannini (1575/80-1631), architetto poco noto e apparentemen-te poco operoso, forse perché in realtà impiegato in ruoli subalterni. Formatosi nella bottega del padre, a sua volta proto, di lui ci resta un’importante pianta assonometrica di Padova (1599); fu anche pittore di soffitti, attività nella quale poté mettere a profitto le sue competenze prospetti-che e quadraturistiche.

Il trattato, in due libri (un terzo, sugli edifici pubbli-ci, era previsto ma non fu mai scritto), si stacca dalla tra-dizione delle grandi summe in sette o dieci libri, alla ma-

niera di Alberti, Serlio o Scamozzi. Stando a quanto l’au-tore stesso dichiara, il Della Architettura, nato come sorta di personale raccolta manoscritta di regole e procedimen-ti, sarebbe stato stampato per insistenza degli amici, che non si accontentavano di averlo in prestito. Naturalmente Viola Zannini deriva varie delle sue osservazioni dalla pre-cedente trattatistica, da Vitruvio, a Vignola , a Palladio, con una spiccata tendenza però a privilegiare gli aspetti più immediatamente pratici del mestiere, sin dalle prime pagine sulla geometria e sulla prospettiva, applicata alla pittura di scorcio in soffitti e volte .Questo pragmatismo è l’aspetto più interessante dell’opera, che offre un ricco repertorio di informazioni su materiali e tecniche: dai va-ri tipi di pietra (quasi elusivamente di cave locali o vene-te) mattoni, malte (fra cui la ricetta per i marmorini), me-talli, legname. Le illustrazioni, essenziali e accompagna-te per lo più dalle misure, sono molto abbondanti e con-corrono ulteriormente a connotare in senso tecnico-pra-tico il volume.

A fronte delle trattazioni enciclopediche e teoriche, già nel Cinquecento si erano affermati manuali speciali-stici, rispondenti a esigenze ben circoscritte. Al tema della misurazione, analizzato anche da Vitruvio nel libro VIII , e inserito di solito all’interno di più complessive summe matematiche, come quella di Luca Pacioli (1494), furo-no dedicati alcuni libri specifici, come, per ricordare so-lo i maggiori, quello di Niccolò Tartaglia (General trattato di numeri e misure, Venezia 1560) e quelli pressoché con-temporanei del fiorentino Cosimo Bartoli (1503-1572) e del vicentino Silvio Belli (?-1575), autori rispettivamente Del modo di misurar le distantie (1564), del Libro del mi-surar con la vista (1565). Bartoli, uomo di studi e attivi-

tà amplissimi, storico, letterato, accademico, diplomatico, è personaggio rappresentativo della cultura fiorentina di pieno Cinquecento. Partendo da Alberti, del quale aveva curato la pubblicazione dei Ludi Matematici e la traduzio-ne italiana del De re aedificatoria, egli ne sviluppa le idee conferendo al tema una veste autonoma.

Silvio Belli, “matematico eccellentissimo” come lo definì l’amico Torquato Tasso, era membro dell’Accade-mia Olimpica vicentina, dove leggeva il De Sphera del Sa-crobosco. Fu ingegnere attivo tra Vicenza, Venezia (vi eb-be la carica di proto alle acque) e Ferrara. Le sue compe-tenze, più specialistiche di quelle di Bartoli, gli consento-no di mettere a punto sistemi agrimensori, come la “mi-sura col tamburo”, ormai svincolati dalla tradizione trat-tatistica classica.

Nel 1564 usciva a Venezia anche la Descrittione et uso dell’holometro, traduzione italiana dell’originale francese, Usaige et description de l'holometre, pubblicato a Parigi nel 1555 dall’ingegnere Abel Foullon. Un’opera che merita di essere ricordata perché l’holometro, “necessario a quel-

li, che vogliono prontamente, et senza far alcuna ragione arithmetica sapere le distantie de' luoghi; misurar la terra; et tor in disegno paesi, et città”, come recita il titolo, era stato studiato anche da Daniele Barbaro che l’aveva inclu-so, insieme ad altri strumenti come l'astrolabio, il plani-sfero di Juan de Rojas, il bacolo, il torqueto, nel trattato De Horologiis describendis libellus, rimasto poi inedito.

Il progresso delle tecniche e della strumentazione le-gata al mestiere dell’architetto e dell’agrimensore è ulte-riormente documentato in mostra dal libro L’uso della squadra mobile che il padovano Ottavio Fabri pubblicava nel 1598 divulgando lo strumento da lui ideato, al tem-po stesso quadrante, quadrato geometrico e bussola, e de-stinato ai più vari tipi di misurazione (altezze, profondità, rilievo urbano e territoriale).

Al tema obbligato degli ordini architettonici è desti-nato infine l’archisesto, messo a punto dal vicentino Ot-tavio Revesi Bruti che ne trattò nel suo Archisesto per for-mar con facilita li cinque ordini d'architettura, pubblicato nel1627.

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Questa mostra è stata progettata e realizzata, in vista del grande appuntamento delle celebrazioni per il quinto centenario della nascita di Andrea Palladio, con scopi e li-miti ben precisi.

Innanzitutto presentiamo testi che provengono in-teramente dalla Biblioteca Universitaria di Padova, oggi non più dell’Ateneo patavino ma biblioteca statale della città, afferente al Ministero per i Beni e le Attività Cultu-rali, di cui è organo periferico. L’aver condiviso per tre se-coli la storia dell’Università (la biblioteca fu istituita nel 1629 dal governo veneto come “pubblica libraria” al ser-vizio di studenti e docenti) sino al 1908, quando ne fu se-parata per decreto, fu un fattore decisivo, pur tra alterne vicende, per il formarsi di un patrimonio ricchissimo, no-tevolmente accresciuto con le acquisizioni ottocentesche delle biblioteche delle corporazioni religiose soppresse.

Si comprende così come il lavoro di ricerca abbia consentito di individuare il materiale necessario e suffi-ciente all’allestimento di un’esposizione che si propone soprattutto fini divulgativi, nello spirito della valorizza-zione e promozione del patrimonio culturale, attività og-gi riconosciute come essenziali anche dalla più recente le-gislazione in materia; lavoro di ricerca, si diceva, reso più impegnativo dalla mancanza di uno specifico fondo di an-tichi testi di architettura, con la parziale eccezione del do-no di Angelo Minich (1883) che ne rivela una significa-tiva presenza, con tutta probabilità dovuta all’accumular-si di una variegata biblioteca di famiglia. Molteplici dun-que le vie di approdo dei testi alla Biblioteca Universitaria, con qualche sorpresa, come il volume con la nota di pos-

sesso di Vincenzo Scamozzi o quello annotato dal celebre librettista gluckiano Ranieri de’ Calzabigi.

Le più belle e importanti edizioni vitruviane del Cin-quecento e i più significativi trattati rinascimentali, pur con qualche inevitabile lacuna e anche se non sempre nell’ editio princeps, sono dunque presenti, e molte piacevoli sorprese ha riservato la caccia a trattati di antichità roma-ne e antiche guide di città, che costituiscono la prima se-zione espositiva. Una rinuncia programmatica, per i di-versi e ampi orizzonti che avrebbe aperto, incompatibili con i fini che eravamo proposti, ha riguardato i trattati di architettura militare o di aspetti troppo specifici (giardi-ni, acque ecc.).

Nello spirito che ha guidato i criteri di scelta sono state redatte anche le schede esplicative di ciascun volume esposto, che si propongono semplicemente come guida per il visitatore non superficiale, senza pretesa, ovviamen-te, di esaustività per la quale rimandiamo alla sterminata letteratura critica e alle grandi mostre monografiche degli ultimi anni (pensiamo, per fare nomi importanti, a Sca-mozzi, Vignola e Palladio, oggetto quest’anno della gran-de mostra allestita a Vicenza che emigrerà a Londra e ne-gli Stati Uniti d’America); allo stesso modo la bibliografia essenziale mira a segnalare testi di riferimento, nei quali si potranno trovare ulteriori copiose indicazioni.

Infine il saggio finale, frutto di un lungo lavoro di in-dagine, propone una lettura inedita del frontespizio del trattato palladiano I quattro libri dell’architettura del qua-le si è individuato il precedente iconografico.

Premessa dei curatori

schede

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Marco Fabio Calvo (o Calvi) nacque a Ra-venna verso il 1440 e morì a Roma nel 1527 durante il “sacco” della città ad opera dei Lanzichenecchi. Coltivò interessi archeolo-gici e antiquari e tradusse dal greco in lati-no il Corpus Hippocraticum. Collaborò con Raffaello ad un grandioso progetto di rico-struzione della topografia dell’antica Roma, illustrato nella famosa lettera di quest’ultimo – probabilmente rielaborata dal Castiglione - a papa Leone X e ad uso dell’Urbinate volga-rizzò il De architectura di Vitruvio.Frutto del sodalizio col sommo pittore (morto nel 1520) è ritenuto il Simulachrum, che è stato considerato la traduzione a stam-pa della pianta di Roma disegnata da Raf-faello e mai rintracciata, anche se l’imposta-zione arcaicizzante delle vedute sembra ben lontana dal suo stile e induce forti dubbi in proposito.Nel 1527 ne fu stampata una prima, rarissi-ma, edizione a cura di Ludovico Vicentino e cinque anni più tardi, riutilizzando le stesse matrici benché danneggiate durante il “sac-co”, Valerio Dorico poté rieditare l’opera, che consiste in una serie di tavole xilografi-che rappresentanti lo sviluppo urbano di Ro-ma e le quattordici regiones nelle quali Augu-sto la divise e rappresenta un complemento illustrativo alle Antiquitates urbis di Andrea Fulvio, anch’egli coinvolto nel progetto raf-faellesco, uscite in quello stesso anno 1527.

1. CALVI, Marco Fabio Antiquae vrbis Romae cum regionibus simulachrum.(Romae : Valerius Dorichus Brixiensis ... impressit, 1532 mense aprili)

La grande pianta mostra la Roma imperia-le con le trentaquattro porte di cui parla Pli-nio.

Pianta di Roma in epoca imperiae

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2. FULVIO, Andrea L'antichità di Roma di Andrea Fulvio antiquario romano, di nuouo con ogni diligenza corretta & ampliata... con le aggiuntioni di Girolamo Ferrucci romano, tanto intorno a molte cose antiche, come anche alle cose celebri rinouate & stabilite dalla santità di N.S. Sisto V. Aggiuntoui nel fine un'oratione dell'istesso auttore delle lodi di Roma, & gli nomi antichi & moderni di detta Roma ...In Venetia : per Girolamo Francini libraro in Roma all'insegna del Fonte, 1588.45.a.52

Andrea Fulvio (1470-1527), originario di Palestrina, fu discepolo di Pomponio Leto a Roma, dove esercitò l’attività di maestro di grammatica e lettere latine. Da Leto derivò l’interesse per l’archeologia, collezionando come lui epigrafi e altri materiali antichi. Nel 1513 compose Antiquaria Urbis, dedicata a papa Leone X, descrizione in versi dell’anti-ca Roma. Nel 1517 pubblicò Illustrium ima-gines, trattato sull’iconografia imperiale ri-costruita con l’ausilio di medaglie e monete. Intanto fin dal 1515 Raffaello aveva inizia-to su incarico papale la rilevazione della Ro-ma antica, valendosi nel 1519-20 anche del-la consulenza archeologica di Fulvio, il quale tuttavia alla morte del pittore (1520), si vi-de sopravanzato da Marco Fabio Calvo nel proseguimento dell’impresa. Nei primi mesi del 1527 Fulvio pubblicava la sua opera più importante le Antiquitates Urbis. In quello stesso anno non risultano più notizie sul suo conto, ed è probabile egli morisse nel Sac-co della città ad opera dei lanzichenecchi di Carlo V.Le Antiquitates Urbis, dedicate a papa Cle-mente VII, hanno come modello la Roma in-staurata di Flavio Biondo e si articolano in cinque libri: mura, porte, regioni della città (libro I); colli (libro II); fiumi, acque, terme, fogne, fori (libro III); archi, teatri, anfiteatri, circhi, portici, colonne ecc. (libro IV), basili-che, templi e altro (libro V).

Le Antiquitates godettero presto di un buon successo, come attesta anche la traduzione italiana di Paolo del Rosso, pubblicata la pri-ma volta nel 1543 a Venezia presso Tramezzi-no, e poi nel 1588 sempre a Venezia ma per i tipi dello stampatore Girolamo Francini.Le immagini in mostra raffigurano due ar-chi di trionfo, quello di Tito e quello di Set-timio Severo.

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3. MARLIANI, BartolomeoVrbis Romae topographia B. Marliani ad Franciscum regem Gallorum ... Adiecta priori eiusdem auctoris topographiae editioni in hoc opere sunt. Vrbis, atque insignium in ea aedificiorum descriptiones, compluràque alia memoratu digna ...(Romae : in aedibus Valerij Dorici, & Aloisij fratris, Academiae Romanae impressorum, mense Setembris 1544).41.a.24

Il milanese Bartolomeo Marliani (c. 1488-1566) fu attivo a Roma come erudito e studio-so di antichità, partecipando alle attività del-l’Accademia della Virtù fondata da Claudio To-lomei nel 1538 e impegnata tra l’altro nell’in-terpretazione dei passi più oscuri di Vitruvio. La Urbis Romae topographia segue la tradiziona-le descrizione per zone urbane, dal Campido-glio al Quirinale, nonché i ponti e le vie conso-lari, e ha come modelli Flavio Biondo e Andrea Fulvio. Pubblicato la prima volta nel 1534, in questa seconda edizione l’autore inserisce una pianta orografica e icnografica di Roma antica, tappa importante negli studi sull'antica topo-grafia della città, in quanto realizzata sulla base di rilievi aggiornati condotti appositamente per questa occasione. Dei monumenti e dei luoghi famosi, dal Circo Massimo alle colonne Traiana e Antonina, agli obelischi, al Marc’Aurelio, fino al Laocoonte e altre statue, l’autore fornisce un quadro dei ca-ratteri qualificanti e delle funzioni. Edifici e statue della città sono illustrati con belle silografie, alcune, come la sezione del Pan-theon esposta in mostra, tratte dal Terzo Libro di Serlio, edito quattro anni prima a Venezia,

4. MARLIANI, BartolomeoBartholomaei Marliani Urbis Romae topographia accurate, tum ex veterum, tum et iam recentiorum auctorum fontibus hausta....Venetiis : Apud Hieronymum Francinum bibliopolam in Urbe ad signum Fontis, 1588.86.b.248

Si tratta della terza edizione latina di questa fortunata guida archeologica, che il tipografo dedica a papa Sisto V omettendone però il no-me in questa prima tiratura, rimediando però prontamente all’errore in una successiva del-lo stesso anno.L’interesse dell’esemplare esposto risiede nel-la sua provenienza dall biblioteca personale di Vincenzo Scamozzi, come attesta la nota di possesso sul frontespizio.

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5. MÜNSTER, Sebastian Cosmographia vniuersale, nella quale secondo che n'hanno parlato i piu veraci scrittori, son designati i siti di tutti gli paesi. ... Raccolta primo da diuersi autori per Sebastiano Munstero, & dapoi corretta & repurgata, per gli censori ecclesiastici, & quei del Re catholico nelli paesi bassi, & per l'inquisitore di Venetia.In Colonia : appresso gli heredi d'Arnoldo Byrckmanno, 1575

Sebastian Münster (1488-1552), francescano passato alla Riforma, cosmografo e orientali-sta, insegnò ebraico a Basilea e curò un’edi-zione ebraica della Bibbia oltre che edizioni dei principali geografi antichi.La sua notorietà è dovuta soprattutto alla Cosmographia, pubblicata per la prima vol-ta in tedesco nel 1544 e in seguito tradot-ta in varie lingue e ristampata innumerevo-li volte, indubbiamente uno dei testi più let-ti e più diffusi nel Cinquecento. Si tratta di una grande enciclopedia geografica, con un imponente corredo illustrativo, che combina informazioni di prima mano con un ampio ricorso a fonti scritte antiche e medioevali. Il secondo e terzo dei sei libri cui è suddivi-sa sono dedicati ai paesi europei. Alla prima edizione italiana di Basilea del 1558 (cfr. n. 19) basata su quella latino-tedesca del 1550 accresciuta e arricchita di nuove vedute, se-guì la presente, “corretta & repurgata”, cau-tela indispensabile in epoca controriformisti-ca nei confronti di un autore che aveva aderi-to al protestantesimo.La pianta di Roma, silografia di Christoph Stimmer a cui è riferito il monogramma che compare in basso a destra, fu introdotta a par-tire dell’edizione basilense del 1550. Rispet-to al suo illustre precedente di area tedesca, la pianta di M. Wohlgemut e W. Pleydenwurff contenuta nel monumentale Liber Chroni-

carum di Hartmann Schedel (Norimber-ga 1493) vengono evidenziati alcuni monu-menti classici come le terme di Diocleziano e l’arco di Settimio Severo, in accordo con l’in-tensificarsi degli interessi per la topografia di Roma antica nel corso del secolo.

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7. GAMUCCI, Bernardo Le antichita della citta di Roma raccolte sotto breuita da diuersi antichi e moderni scrittori, per M. Bernardo Gamucci da San Gimignano: et con nuouo ordine fedelmente descritte, & rappresentate con bellissime figure ... In questa seconda editione da infiniti errori emendate & corrette da Thomaso Porcacchi. (In Vinegia : appresso Giovanni Varisco, & i compagni, 1569).

6. GAMUCCI, Bernardo Libri quattro dell'antichita della citta di Roma, raccolte sotto breuita da diuersi antichi et moderni scrittori, per M. Bernardo Gamucci da San Gimignano: con nuouo ordine fedelmente descritte, & rappresentate con bellissime figure ...In Venetia : per Gio. Varisco, e Compagni, 1565.

Dell’architetto e antiquario Bernardo Gamuc-ci, nativo di San Gimignano, mancano noti-zie biografiche oltre le poche desumibili da questa sua unica opera data alle stampe. Nel-la dedica a Francesco de’ Medici, infatti, l’au-tore si definisce “in così giovanile età”, men-tre il tipografo nella presentazione ne annun-cia nuove ed imminenti fatiche “di matemati-ca et d’altre ancora”.

L’opera, divisa in quattro libri e arricchita di numerose xilografie tratte dai disegni di Gio-vanni Antonio Dosi, anch’egli sangimignane-se, è redatta in forma di guida sulla scia di una tradizione ben radicata nel Cinquecento.L’immagine esposta rappresenta il teatro di Marcello, uno dei più antichi edifici per spet-tacoli giunto fino a noi, eretto per volontà di Augusto nel circo Flaminio.

Si tratta della seconda edizione dell’opera, curata dal letterato e storico aretino Tommaso Porcacchi.L’immagine esposta raffigura la celebre Colonna Traiana, innalzata a Roma nel 113 da Apollodoro di Damasco per ordine di Traiano, le cui imprese sono raffigurate nel fregi a spirale che la avvolge.

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8. GAMUCCI, Bernardo Le antichita della citta di Roma raccolte sotto breuita da diuersi antichi & moderni scrittori, per M. Bernardo Gamucci da San Gimignano: et con nuouo ordine fedelmente descritte, & rapresentate con bellissime figure ... In questa seconda editione da infiniti errori emendate & corrette da Thomaso Porcacchi.(In Vinegia : appresso Giouanni Varisco, & compagni, 1580).

Si tratta della terza edizione dell’opera curata come la seconda da Tommaso Porcacchi. Ne sarebbe seguita una quarta nel 1588.L’immagine esposta raffigura la piramide Cestia eretta tra il 18 e il 12 a.C. come sepolcro di Caio Cestio Epulone nei pressi dell’attuale Porta San Paolo.

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9. PALLADIO, AndreaL’antichità dell’alma città di Roma … Raccolta breuemente da gli auori antichi, e moderni.In Roma : appresso Guglielmo Facciotto, 1600.Ba.562.12.2

L’Antichità di Roma fu pubblicata da Palladio nel 1554, in occasione del suo quarto e ul-timo viaggio nell’Urbe, compiuto tra il feb-braio e il giugno di quello stesso anno assie-me a Daniele Barbaro e ad altri gentiluomini veneziani. Stando alla testimonianza di Giro-lamo Gualdo, Palladio aveva già soggiornato una prima volta a Roma nel 1541, con il suo protettore, il letterato Gian Giorgio Trissino, e poi lungamente tra il 1545 e il 1547, in compagnia ancora di Trissino e di altri due amici vicentini, il poeta Marco Thiene e il pittore Giovan Battista Maganza. Un altro viaggio è documentato nel 1549. Il reiterato pellegrinaggio romano, rispon-deva all’esigenza di un diretto contatto con le venerate antichità, per studiare, misurare rilevare piante e alzati, murature, colonne, capitelli di templi, basiliche, terme, teatri, archi trionfali, ponti, al fine di restituire, nel clima di acceso classicismo alimentato da uomini come Trissino e Barbaro, “i disegni di quegli edificij […] e ponere breuemente ciò che in essi mi è parso degno di considera-tione”, come scriverà lo stesso architetto nel Proemio dei Quattro Libri dell’Architettura.Il viaggio del 1554, il cui il primo frutto fu L’Antichità di Roma, era soprattutto finaliz-zato in realtà alle rilevazioni e allo studio de-gli antichi monumenti in vista dell’edizione dei Dieci Libri di Vitruvio, dati alle stampe nel 1556 da Barbaro con la collaborazione dell’amico architetto.

L’Antichità di Roma fu il primo scritto di Pal-ladio ad essere pubblicato, all’edizione roma-na ne seguì immediatamente una veneziana, e poi moltissime altre, in un crescendo di consensi che finì per consacrarne il ruolo di vademecum privilegiato del viaggiatore colto fino ben dentro il Settecento, quando l’opera poteva vantare ormai più di trenta edizioni.Sebbene il volumetto s’inserisca nella lun-ga tradizione dei Mirabilia Urbis medievali, largamente diffusi e divulgati nel Quattro-cento dalla nuova arte tipografica, Palladio ha tuttavia cura di emendare i molti errori e stravaganze che infarcivano le guide tradizio-nali, destinate più al pellegrino che al cultore di antichità, al quale invece esplicitamente il libro si rivolge: infatti, tralasciando gli edi-fici ecclesiastici, l’architetto si propone di descrivere in modo accurato e preciso le ve-stigia della Roma archeologica, “conoscendo quanto sia appresso ciascuno grande il desi-derio di intendere veramente le Antichità”. È la risposta nuova e aggiornata a un nuovo e aggiornato pubblico, fatto di intenditori e di amateurs, cresciuti all’ombra dell’ umane-simo e nutriti di filologico entusiasmo per l’antico. I precedenti erano quelli degli anti-quari e dei topografi, a cominciare da Flavio Biondo e dalla sua Roma ristaurata, grazie ai quali la consueta letteratura periegetica si sdoppia: un filone più popolare continua l’impostazione devota e più o meno ingenua dei Mirabilia, un altro, più rigoroso e colto,

se ne stacca per privilegiare l’archeologia. E’ il modello di Palladio, che per la sua ope-ra fece ricorso alle fonti antiche, da Dionigi d’Alicarnasso a Livio, Plinio, Plutarco, Ap-piano Alessandrino, Valerio Massimo, Eutro-pio, e agli antiquari moderni: Flavio Biondo, appunto, ma anche i più recenti Lucio Fauno, Andrea Fulvio, Bartolomeo Marliani, Pirro Logorio. “Ne mi sono contentato di questo solo - avverte nel proemio ai lettori - , che ancho ho voluto vedere, et con le mie pro-prie mani misurare minutamente il tutto”: testimonianza di un’attitudine “scientifica” che accompagna l’architetto e ne giustifica il coinvolgimento in quegli anni nel progetto dell’edizione vitruviana di Daniele Barbaro. Sempre nel 1554, e per i tipi dello stesso editore romano Vincenzo Lucrino, Palla-dio pubblica la Descritione de le Chiese, Sta-tioni, Indulgenze et Reliquie de Corpi Sancti, che sonno in la città de Roma, che in qualche modo integra il libro sull’Antichità, con un excursus sulle chiese romane e le connesse devozioni di ciascuna destinato ai pellegrini, ma che si distingue dalla consimile pubbli-cistica per l’attenzione riservata agli aspetti propriamente artistici.

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10. PALLADIO, AndreaLes antiquitez de la ville de Rome. Briefuement recueillies des Autheurs tant antiques, que modernes. ... Le tout traduict d’italien en françois, par Pompée de Launay.In Roma : appresso Guglielmo Facciotti : ad instanza di Giouan Senese in Piazza Navona, 1628.Appare con front. proprio di seguito a: Les merueilles de la ville de Rome. ... A Rome : par Guillaume Facciotti, 1628.85.b.240

11. PALLADIO, AndreaLes antiquites de la ville de Rome. Recueillies des autheurs tant antiques, que modernes. ... Le tout traduit d’ italien en françois par Pompée de Launay. Rome : sur l’ imprimé à Roma. Et à Rouen : de l’ imprimerie de Laurens Machvel, 1673.Appare con front. proprio di seguito a: Les merueilles de la ville de Rome. ... A Rome : sur l’ imprimé à Roma. Et se vendent à Rouen : chez Laurens Machvel, 1673.46.a.164

Si deve a Pompée de Launay la prima traduzione francese delle Antichità di Roma di Palladio, pubblicata ad Arras nel 1612 dallo stampatore Robert Naudhuy. Questa edizione del 1628, sempre con la traduzione di de Launay , illustrata, fu stampata a Roma da Guglielmo Facciotti.L’immagine esposta rappresenta Castel Sant’Angelo, in origine mausoleo di Adriano.

Edizione francese pubblicata a Rouen dallo stampatore Laurens Machuel con la traduzio-ne di Naudhuy: vi è aggiunta una lista sulle cose più rare e belle che si possono vedere nel viaggio da Parigi a Roma e una guida dell’iti-

nerario da Rouen a Roma e da Roma a Lo-reto.Le immagini esposte raffigurano l’arco di Co-stantino e il portico di Agrippa, ovverossia il Pantheon.

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12Raccolta o album di disegni d’architettura e d’ornatocart., mm 220 x 160, cc. 127, sec. XVI2

ms. 764

13. DU PÉRAC, ÉtienneI vestigi dell’antichità di Roma raccolti et ritratti in perspettiua con ogni diligentia da Stefano Du Perac parisino.In Roma : appresso Lorenzo della Vaccheria alla insegna della Palma, 1575.41.a.44

È un piccolo codice di 127 fogli, rilegato nell’Ottocento in mezza pelle. L’irregolarità della numerazione e il riconoscimento di almeno due diverse grafie ne ha evidenziato la natura composita, ipotesi suffragata anche dalla varietà dei soggetti raffigurati: rilievi di antichità, copie da trattati preesistenti, schizzi ed esercitazioni architettoniche e infine una sezione eterogenea relativa alla costruzione di macchine. La presenza di copie da altri due codici, uno attualmente a San Pietroburgo e l’altro alla Biblioteca Marciana, ha fatto ipotizzare una comune presenza in laguna, dove possono essere stati copiati nel presente manoscritto, mentre lo schizzo della tomba del giureconsulto padovano Marco Mantova Benavides nella chiesa degli Eremitani, opera di Bartolomeo Ammannati, fa ricondurre l’autore (o gli autori) dei disegni al suo ambito, se non addirittura supporre l’autografia dello scultore toscano.Tra i numerosi disegni di antichità si espone quello relativo al tempio di Minerva già nel lato di fondo del foro romano di Nerva, demolito nel 1604.

Il volume consta di quaranta fogli, il primo funge da frontespizio, nel secondo è ospitata la dedica a “Giacomo Buoncompagni gover-nator generale di Santa Chiesa”. Etienne du Perac (c. 1520-1604) vi palesa le proprie in-tenzioni e in particolare sottolinea che “sarà dunque utile il libro […] et grato, et accetto

agli studiosi dell’antichità per la diligenza che io ho usata in rappresentare fedelmente i residui della Romana grandezza”. Si affi-da poi all’ “autorità e virtù” del dedicatario perché possa favorire l’opera “bisognosa di molto lume” a causa dell’“oscurità del-l’auttore” (sic). In realtà, quando pubblica

il libro, Etienne du Perac è a Roma da ol-tre quindici anni, ed è noto se non altro per aver fornito la propria opera all’erudi-to veronese Onofrio Panvinio e aver dato alle stampe nel 1574 la pianta archeologica Urbis Romae Sciographia. Certo il mercato dell’editoria antiquaria era piuttosto affol-

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14. DU PERAC, EtienneI vestigi dell’ antichita di Roma raccolti et ritratti in perspettiua con ogni diligentia da Stefano Du Perac parisino ...In Roma : appresso Giambattista de Rossi milanese in Nauona, 1671. 35.c.9

Edizione seicentesca pubblicata dal milane-se Giovanbattista de Rossi e simile a quella del 1575, con immagini reincise. La prima veduta, raffigurante il Campidoglio, porta,

lato: nello stesso 1575 esce ad esempio per iniziativa di un altro francese, lo stampatore Antonio Lafreri (Antoine Lafréry), con il quale peraltro lo stesso Du Perac collabora, la raccolta iconografica Speculum Romanae Magnificentiae, che riunisce, incise da vari artisti, molte più immagini de I vestigi, non seguendo un’impostazione topografica e

non limitandosi agli edifici antichi ma in-serendone di moderni nonché un repertorio di statue.Du Perac, partendo dal Campidoglio, scan-disce il suo itinerario in trentanove tappe: in calce a ogni pagina una didascalia di poche righe fornisce le informazioni essenziali su-gli edifici e le rovine.

in alto, il ritrattino dello stampatore con la dicitura “Giombattista de Rossi Milanese in Navona”. In mostra è esposta una veduta di Porta Nevia o Porta Maggiore.

Non si tratta però di raffigurazioni di singoli monumenti, né tanto meno di ricostruzioni ideali, ma di vere e proprie vedute: imma-gini di grande qualità, paragonabili a quelle edite nel 1551 dall’incisore fiammingo Hie-ronymus Cock. La pagina esposta raffigura l’arco di Costan-tino sullo sfondo dell’arco di Tito.

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15. MONTJOSIEU, Louis deLudouici Demontiosii Gallus Romae hospes. Vbi multa antiquorum monimenta explicantur, pars pristinae formae restituuntur. Opus in quinque partes tributum.Romae : apud Ioannem Osmarinum, 1585.38.c.27

Non sono molte le notizie biografiche su Louis de Montjosieu, latinamente Demontosius, erudito francese nato nell’attuale dipartimento dell’Aveyron e morto alla fine del sedicesimo secolo. Tra gli avvenimenti salienti della sua vita deve essere annoverato il viaggio a Roma dove accompagnò nel 1583 il duca di Joyeuse e guadagnò la stima di papa Sisto V.Frutto del soggiorno romano è quest’opera, dedicata al papa, che ripagò l’autore con un privilegio di stampa decennale. È un trattato di antichità romane che, nelle cinque parti in cui è diviso, prende in considerazione: I. Gli obelischi, la piramide Cestia, l’arco di Giano e il Settizonio. II. Il Pantheon. III. La scultura. IV La pittura. V. Il Foro Romano. Opera sempre considerata rara (l’esemplare esposto appartenne al celebre librettista Ranieri de’ Calzabigi che con una nota sul frontespizio lo qualificò “rarissimus”), ebbe una certa fortuna come testimoniano le ristampe della terza e quarta parte nel De sculptura di Pomponio Gaurico, nell’edizione elzeviriana di Vitruvio (Amsterdam 1649) e nel nono volume del Thesaurus antiquitatum Graecarum del Gronovius (Amsterdam 1701).La tavola esposta raffigura il cosiddetto arco di Giano presso la chiesa di San Giorgio al Velabro, leggermente alterato nelle proporzioni e ancora provvisto di attico e coronamento demoliti nel 1830. Eretto nel IV secolo con funzioni commerciali e probabilmente

16. LIPSIUS, JustusIusti Lipsi De amphitheatro liber. In quo forma ipsa loci expressa & ratio spectandi. Cum aeneis figuris. Omnia auctiora vel meliora.Antuerpiae : ex officina Plantiniana, apud Ioannem Moretum, 1598.Segue con proprio front. a p. [57]: De amphitheatris, dello stesso A.28.b.8/3

Nato a Overijse nei pressi di Brussel, Joost Lips, latinamente Julius Lipsius (1547-1606), compì gli studi nel collegio gesuitico di Colo-nia, trascorrendo gli anni tra il ‘68 e il ’72 in Italia al seguito del cardinale Antoine Perrenot de Granvelle. In rapporto con alcuni dei mag-giori intellettuali del tempo, tra i quali, Mer-curiale, Montaigne, Scaligero, Paolo Manuzio, fu anche amico di Rubens, che lo ritrasse nel famoso I quattro filosofi della Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze. Insegnò nell’univer-sità di Jena prima, e in quella di Leida poi, ac-costandosi per qualche tempo al calvinismo. Tornato nei ranghi del cattolicesimo, assunse infine la cattedra di latino a Lovanio. Curatore dell’edizione critica di Tacito e di Seneca, pro-pugnò nel suo De constantia un ritorno a uno stoicismo di marca senechiana. Il De amphiteatro, pubblicato la prima volta nel 1584, in latino, testimonia l’interesse erudito di Lipsio per i più vari aspetti dell’antichità roma-na, interesse confermato da altre sue pubblica-zioni, tra le quali il De gladiatoribus (1582), il De militia romana (1595), il Poliorceticon (1596), il De magnitudine romana (1598). Sono temi, questi della milizia e dei gladiato-ri, che si ritrovano già per tempo nella cultura rinascimentale, condivisi anche da vari artisti. Del resto Vitruvio, che era stato architetto mi-litare, aveva dedicato il decimo dei suoi libri al problema della guerra e delle macchine a questo uso adibite. È indicativo che anche Palladio nel 1574-75 illustrasse con 42 incisioni i Commen-

tari di C. Giulio Cesare e ne avesse approntate 43 per un’edizione delle Storie di Polibio che non fu pubblicata o che, per fare il nome d’un pittore, Paris Bordon avesse dipinto un Combattimento di gladiatori (Kunsthistorisches Museum,Vienna), nel quale i personaggi agiscono sullo sfondo dei monumenti di Roma antica. Il testo di Lipsio è completato dal De amphi-theatris quae extra Romam libellus, con proprio frontespizio ma con paginazione continua, che tratta delle arene nel resto d’ Italia e altrove.Nell’introduzione al De Anphitheatro l’autore confessa che l’impegno - dodici giorni appena - gli è stato leggero e dilettevole; a guidarlo, di-chiara, è stato più l’interesse per i riti che quel-lo per l’architettura, e tuttavia non sono state trascurate “formas et imagines”, essendosi egli proposto di restituire “imago, facies, habitus” di tutte le arene, sia con la penna sia col pen-nello. In effetti l’opera è corredata da alcune pregevoli incisioni, attribuite a Pieter van der Borcht, collaboratore dell’editore anverse-se Plantin, ma in realtà dipendenti anche da stampe precedenti.I 22 capitoli del trattatello spaziano dai pro-blemi terminologici (cur amphitheatrum dic-tum, et cur cavea, cap. II) alle divinità cui gli anfiteatri erano consacrati (Dianae in primis, Iovi Latiari, sive Diti item Saturno, ecc., cap.IV); come fossero di legno all’inizio e di pietra in seguito (cap.V); le parti dell’anfiteatro (capp. VIII, IX); non mancano interessanti spunti sul-le scenografie (a mo’ di selva, di mare, con navi,

da identificarsi con l’Arcus divi Costantini ricordato dalle fonti nei pressi del Foro Boario – il nome moderno deriverebbe dal termine latino ianus che indica un passaggio coperto – è ricordato nella trattatistica cinquecentesca come arco, o tempio, di Giano.

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17. FELINI, Pietro Martire Trattato nuouo delle cose maravigliose dell’alma citta di Roma ornato di molte figure, nel quale si discorre di 300 e piu chiese composto da F. Pietro Martire Felini da Cremona ... Et hora dal sopraddetto F. Pietro Martire con diligenza corrette, ampliate, e con bellissimo ordine disposteIn Roma : per Bartolomeo Zannetti : ad istanza di Gio. Domenico Franzini, & heredi di Girolamo Franzini, 1615.

Il frate servita cremonese Pietro Maria Felini (ca- 1565-1613 si distinse nello studio della liturgia, della musica sacra, dell’archeologia e delle lingue. La conoscenza del tedesco ne favorì l’impiego in varie missioni oltralpe durante una della quali, alla Dieta di Regen-sburg, trovò la morte, probabilmente vittima della peste.La sua guida di Roma, qui nella seconda edi-zione, fu pubblicata nel 1610 e conobbe nel-la prima metà del Seicento varie ristampe e traduzioni in spagnolo e francese. L’autore, presentandola come rielaborazione e amplia-mento delle precedenti guide, si scusa di non averla perfezionata come avrebbe voluto a causa della “poca patienza di molti”, desidero-si di disporre di uno strumento attendibile e aggiornato. Ai monumenti antichi è dedicata la seconda parte, L’antichità figurate dell’alma città di Roma che rielabora la fortunatissima operetta di Andrea Palladio (cfr. n. 9-11)) Le illustrazioni esposte raffigurano Castel Sant’Angelo e il Settizonio.

cap. X); sull’ordine dei posti a sedere (cap. XIIII); sui velari (colorata ea fuisse, aliquan-do serica, aliquando purpurea auro distinta, capp. XVII-XVIII), ecc.Nel De amphitheatris quae extra Romam libel-lus, dedicato a Ortelio, l’autore ha modo, nel

proemio, di tributare un omaggio a Serlio. I capitoli sono sei, nel primo dei quali c’è un semplice elenco degli anfiteatri in Italia, Istria, Spagna, Gallia, mentre nei capitoli successivi si esaminano partitamene, e si illustrano me-diante incisioni, le arene di Verona, Pola, Nî-

mes e quelle di Douai la Fontane che lo me-ravigliano assai, ma che erano in verità delle cave con funzioni anche abitative.In mostra è esposta una tavola raffigurante l’interno di un anfiteatro, un’immagine ideale del Colosseo, con giochi gladiatòri nell’arena.

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18. PANVINIO, Onofrio Onuphrij Panuinij Veronensis Antiquitatum Veronensium libri VIII.Nunc primum in lucem editi variisque iconibus et antiquis inscriptionibus locupletati.[Padova] : typis Pauli Frambotti, 164842.a.6

Il veronese Onofrio Panvino (1530-1568), entrato undicenne nell’ordine agostiniano, fu a Roma nel 1549-50 e dal 1543 ottenne di vivere fuori dall’ordine, abitando presso il card. Farnese. Compì numerosi viaggi in Italia trovando la morte a Palermo, al seguito del cardinale, non ancora quarantenne. Erudito di vastissima cultura sacra e profana, ricerca-tore instancabile e autore di numerosi trattati di carattere storico-erudito, godette di grande fama e fu ritratto da Tiziano.L’opera su Verona, che traccia la storia della città delineando la biografia dei veronesi illu-stri e descrivendone i monumenti antichi con l’ausilio di un ricco apparato iconografico, rimase inedita sino all’edizione padovana del 1647 (di cui questa – in un esemplare pur-troppo privo del frontespizio - non è che una successiva emissione con qualche lieve modi-fica in corso di stampa) e fu ripubblicata altre due volte, nel 1658 e 1668.La presentazione del tipografo Paolo Frambot-to racconta le avventurose vicende della pub-blicazione dell’opera per impulso delle auto-rità civiche veronesi come atto di omaggio al loro concittadino verso questa sua “posthuma proles”, affidata dapprima alla cura di Paolo Malaspina a M.A. Clodio ai quali si aggiun-sero successivamente altri. Un ricco apparato illustrativo, in parte ripreso dalle illustrazioni del pittore veronese Francesco Caroto per il De origine et amplitudine civitatis Veronae del-

l’umanista Torello Saraina (1540) e in parte originale, ad opera di François Huret e di Gio-vanni Georgi, attivo a Padova tra il 1617 e il 1656, impreziosisce l’opera.L’arco dei Gavi, uno dei più bei monumen-ti romani della città scaligera, abbattuto dai Francesi nel 1805 e ricostruito nel 1932, su-scitò in epoca rinascimentale un vivo interes-se. Antonio da Sangallo e il Peruzzi ce ne han-no lasciato testimonianze grafiche; Sebastiano Serlio lo studiò con grande attenzione demo-lendo, sulla base di rilievi stilistici, l’opinione che lo voleva opera di Vitruvio sulla base di un iscrizione posta sul lato sinistro; Andrea Palladio, che lo menziona nei Quattro libri, ne lasciò alcuni disegni. Questa incisione segue fedelmente il model-lo del Caroto, che lo rappresentò in silografia nell’opera di Saraina e successivamente (1560) nell’opera che egli stesso volle pubblicare Le antichità di Verona.

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19. MÜNSTER, SebastianSei libri della cosmografia uniuersale, ne quali secondo che n’hanno parlato i piu ueraci scrittori son disegnati, i siti de tutte le parti del mondo habitabile & le proprie doti: ... Autore Sebastiano Munstero.([Basilea] : stampato a spese di Henrigo Pietro Basiliense, 1558 nel mese di marzo).88.b.2

Questa è la prima traduzione italiana della Cosmografia, che poté beneficiare delle ag-giunte dell’autore all’edizione del 1550 (cfr. scheda 5)Verona, dopo Roma, è senz’altro la città che attira maggiormente l’interesse di architetti e studiosi di antiquaria per l’imponente pre-senza di vestigia romane, fattore di sviluppo in loco di una ricca tradizione umanistica. Nel 1540, contemporaneamente al Terzo libro di Sebastiano Serlio (cfr. n. 41), che dà ampio spazio alle antichità veronesi, Torello Sarai-na consegna alle stampe nella città scaligera il suo De origine et amplitudine civitatis Vero-nae con le illustrazioni di Giovanni Caroto. Quest’ultimo, pittore fratello del più noto Giovanni Francesco, darà alla luce nel 1560 una sua propria opera intitolata Le antichità di Verona, traendo l’illustrazione raffigurante il teatro dall’opera precedente, ricostruzione del monumento secondo una visione ideale dell’antico, come dimostra un confronto con il precedente sobrio disegno di G. B. Sangallo degli Uffizi, posteriore al 1519. È ben noto anche l’interesse di Palladio per il manufatto, documentato da una serie di disegni oggi a Londra, considerati Al Caroto si rifà anche la silografia di Chri-stoph Stimmer che compare nell’opera di Münster solo a partire dell’edizione accresciu-ta uscita a Basilea nel 1550.

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20. LIPSIUS, JustusIusti Lipsi De amphitheatro liber. In quo forma ipsa loci expressa & ratio spectandi. Cum aeneis figuris. Omnia auctiora vel meliora.Antuerpiae : ex officina Plantiniana, apud Ioannem Moretum, 1598.Segue con proprio front. a p. [57]: De amphitheatris, dello stesso A.28.b.14/3

Nel De amphitheatris quae extra Romam li-bellus, séguito del De Anphitheatro (cfr. n. 16 e 26), Lipsio descrive le arene di Verona, Pola, Nîmes e “Devona” (Douai la Fontaine, nell’attuale dipartimento francese del Mai-ne-et-Loire). All’arena di Verona è dedicata

la tavola più bella, il cui prototipo va indivi-duato in una stampa di Enea Vico, utilizzata anche da Antonio Lafreri nel suo Speculum romanae magnificentiae del 1575, al quale il De amphitheatris sembra attingere.

21-22. PIGNORIA, Lorenzo Le origini di Padoua di Lorenzo PignoriaIn Padoua : appresso Pietro Paolo Tozzi, 1625.38.c.20; 177.c.53.1

Padova non può essere considerata tra le città che, per presenza di vestigia romane, attirarono l’attenzione degli architetti del Rinascimento. Come scrisse Cesira Gasparotto, “Il forestiere che visiti la nostra città conoscendone la storia dell’antico municipio patavino, patria di Tito

Livio e di Trasea Peto, deve provare un senso di delusione di fronte alla quasi assoluta man-canza di ogni rovina dell’età romana”. Tuttavia era ben documentata da una lunga tradizione la presenza in città di un anfiteatro, i cui pochi resti nei pressi della Cappella degli Scrovegni

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23-24. MARZARI, Giacomo La historia di Vicenza del sig. Giacomo Marzari fu del sig. Gio. Pietro nobile vicentino ... Nuouamente posta in luce, con due tauole, vna dei nomi de gli huomini; et l’altra delle cose piu notabili. Agiontoui, la citta, con alcune antichità che in essa si ritrouanno.In Vicenza : appresso Giorgio Greco, 1604 (In Venezia : appresso Giorgio Angelieri, vicentino, 1590).67.b.127; 177.c.49

Del poco noto Giacomo Marzari, vicentino, ci restano alcuni scritti, il più importante dei quali è La Historia di Vicenza, edita la prima volta nel 1591. L’opera, continuando il model-lo storiografico di Giovan Battista Pagliarini, cui, nel Quattrocento, si deve un’importante storia della città, ambisce a diventare, per usa-re le parole dell’autore, “il vero ritratto non più veduto dell’Historia della comune Patria e dei figliuoli suoi illustri”.La prima edizione è priva di illustrazioni, mentre questa seconda, del 1604, è correda-ta da cinque silografie raffiguranti una veduta della città,“il ponte di Santo Michiele Arco bellissimo” e, le altre tre, alcuni monumenti antichi: i resti del teatro Berga, “gli acquedoti luntani dui miglia, che portavano l’acque in la Città” e il “Pozo Antico fatto da la Natura”.Può sorprendere che manchino gli edifici pal-ladiani cui è legata oggi la fama della città, alcuni in verità ancora in fase di costruzione quando la seconda edizione dell’ Historia era data alle stampe, altri tuttavia già ben conno-tanti, ormai, il paesaggio urbano, ma eviden-temente il fascino e il prestigio dell’”antichità” erano ancora così assoluti da privilegiare i ru-deri, pur se modesti. Si deve ricordare, d’altra parte, che i resti del teatro Berga, cui è dedicata l’approssimativa illustrazione del n. 23, era stato oggetto di vivo interesse in loco e che lo stesso Palladio e Silvio Belli l’avevano rilevato. 177.c.49Quest’altra immagine (n. 24), di modesta

sono ricordati da Bernardino Scardeone nel De antiquitate urbis Patavii (1560). Il primo però che ne trattò estesamente fu Lorenzo Pi-gnoria in quest’opera.Lorenzo Pignoria (1571-1631), erudito ed antiquario padovano di famiglia modesta ma non poverissima, si formò presso le scuole gesuitiche e frequentò all’Università i corsi di filosofia del Piccolomini e dello Zabarella per approdare poi, ma senza conseguire la lau-rea, alla facoltà giurista. Ordinato sacerdote nel 1602, trascorse a Roma al servizio del ve-scovo Marco Cornaro due anni (1605-1607) decisivi per lo sviluppo dei suoi interessi an-tiquari e con l’ambiente romano conservò sempre stretti legami. A Padova, dove entrò nell’Accademia dei Ricovrati e fu sempre in collegamento con l’ambiente universitario, fu in rapporto con le personalità di maggior spic-co della cultura cittadina e, attraverso l’assidua frequentazione della casa di Giovanvincenzo Pinelli, con molti dotti europei; con Galileo strinse un’amicizia che, dopo la partenza da Padova, di quest’ultimo, continuò con una fitta corrispondenza. Coltivò numerosi inte-ressi, anche letterari, ma diede probabilmente il meglio di sé nella produzione storica e anti-quaria della quale si possono ricordare almeno l’ Antenore e Le origini di Padova, che al suo apparire scatenò lunghe diatribe perché vi era-no messe in dubbio tradizioni di patavinitas ormai consacrate.Pignoria, sulla scorta dei resti, incorporati nel palazzo romanico dei Delesmanini, poi Scro-vegni, demolito all’inizio dell’Ottocento e delle indicazioni fornite nel De amphitheatro del Lipsius (cfr. n. 16, 20 e 26), che non cita tuttavia quello padovano, ricostruisce la pian-

ta ellittica dell’anfiteatro e ne presenta quattro prospettive; qui (n. 21) è visibile la porta me-ridionale di accesso nel cui scorcio sembrano combattere due gladiatori; non fu però lo “zelo de’ nostri christiani antichi” a causare “la roui-na & distruttione di queste machine gigantee [...] sedie di crudeltà & d’abominatione” dove fu versato il sangue dei martiri, ma sicuramen-te l’opera devastatrice dei barbari. Secondo le indicazioni del De Amphitheatro di Justus Lipsius Pignoria presenta in que-st’altra immagine (n. 22) quelle che “per suo credere” erano le volte delle grotte nelle quali erano custodite le fiere per i combattimenti.

qualità come le altre quattro che corredano il testo, gli “acquedoti luntani dui miglia” di Lo-bia che servivano la città di Vicenza.

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25. VILLE, Antoine deAntonii Deville, Equitis Galli Portus et urbis Polae antiquitatum, ut et thynnorum piscationis descriptio curiosa ... Editio novissima, à multis erroribus correcta ... in Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae ... digeri alim coeptus cura & studio Joannis Georgii Graevii ... Tomi sexti pars tertia. Lugduni Batavorum, excudit Petrus Vander Aa, 172277.c.8

Antoine de Ville (1596-1658) fu un famo-so ingegnere militare al servizio del princi-pe Tommaso di Savoia, della Repubblica di Venezia per incarico della quale fortificò il porto di Pola e successivamente del cardinale Richielieu. Tra le sue opere godette di parti-colare reputazione il trattato Les fortifications apparso a Lione nel 1628 e più volte riedito. L’operetta su Pola fu pubblicata a Venezia nel 1633 con dedica al Doge mentre l’autore prestava la sua opera presso la Serenissima L’anfiteatro della città istriana era incluso già nel Cinquecento nel tour delle testimonian-ze archeologiche di età romana. Sebastiano Serlio ne offrì una sua ricostruzione di pian-ta e profilo nel Terzo libro dell’architettura e anche Palladio se ne interessò, citandolo nei Quattro libri e raffigurandolo in alcuni dise-gni oggi a Londra, in parte attribuiti anche al Falconetto. La pianta del Serlio è ripresa dal Lipsius (cfr. n. 16, 20 e 26) Nella pagina accanto è rappresentato il tem-pio di Augusto.

26. LIPSIUS, JustusIusti Lipsi De amphitheatro liber. In quo forma ipsa loci expressa & ratio spectandi. Cum aeneis figuris. Omnia auctiora vel meliora.Antuerpiae : ex officina Plantiniana, apud Ioannem Moretum, 1598.Segue con proprio front. a p. [57]: De amphitheatris, dello stesso A.Minich Misc. 1278/5.7

In questa immagine contenuta nel De amphi-theatris quae extra Romam libellus (cfr. n. 16 e 20), è illustrata l’arena di Nîmes, in Provenza. La città francese era famosa per la ricchezza delle sue vestigia romane ed era stata oggetto degli studi e dei rilievi di Jean Poldo d’Albenas pubblicati con bellissimo corredo iconografi-co nel Discours historial de l’antique et illustre cité de Nismes, del 1559-60.

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27. VITRUVIUS POLLIODe architectura in Cleonides. Harmonicum introductorium [in latino], trad. Georgius Valla. [Seguono:] Vitruvius, De architectura; Angelo Poliziano, Panepistemon; Lamia; Frontinus, De aquaeductu urbis Romae, P. I-IV.Venezia, Simon Bevilacqua, 3 VIII 1497.Sec. XV, 117

Vitruvio - l’autore di questo importantissimo trattato dell’antichità diventato nel Rinascimen-to la “bibbia” degli architetti - è un personaggio a dire il vero piuttosto misterioso: quel che sappia-mo della sua vita sostanzialmente ce lo racconta lui stesso nei pochi cenni autobiografici conte-nuti nel trattato.Egli fu un architetto e ingegnere romano vissuto nel I secolo a.C. e “Vitruvio” in realtà era il no-me della gens alla quale apparteneva: non paiono invece attendibili il cognome Pollione e i preno-mi Lucio e Marco attribuitigli posteriormente.In gioventù Vitruvio fu al servizio di Giulio Ce-sare (100-44 a.C.) e perciò doveva essere già an-ziano - e quindi ricco di esperienze e di cono-scenze - quando, all’incirca fra il 30 e il 20 a.C., scrisse il suo fondamentale trattato sull’architet-tura, dedicandolo all’imperatore Augusto.Come professionista fu ingegnere militare, esper-to nella costruzione di macchine belliche, non-ché ingegnere idraulico, responsabile degli ac-quedotti di Roma, come ci testimonia il coevo Frontino nel suo De aquaeductu urbis Romae.Della sua attività di architetto, invece, sappiamo solo che costruì la basilica di Fano, di cui non re-stano tracce, ma dalla descrizione che ce ne dà lui stesso si trattava di un edificio dalle propor-zioni molto rigorose: presentava infatti un salone rettangolare lungo il doppio della larghezza, cir-condato sui quattro lati da un portico largo un terzo della sala e costituito da colonne alte fino al tetto; a metà del salone si apriva su un lato l’absi-

de quadrata che ospitava la tribuna dei giudici.Se dunque la carriera di Vitruvio, pur interes-sante, non fu certo quella di uno dei più grandi architetti dell’antichità, egli ottenne fama impe-ritura presso i posteri grazie al suo trattato, poi-ché fu l’unico testo antico dedicato all’architet-tura che riuscì ad attraversare il lungo Medioevo e a raggiungere quasi indenne la modernità.Il De architectura è un trattato suddiviso in die-ci libri che affrontano via via tutte le problemati-che - statiche, funzionali ed estetiche - connesse con l’architettura; il linguaggio di Vitruvio, co-me si addice alla materia, è essenzialmente tecni-co ed egli per indicare tutti gli elementi costrut-tivi fa uso di una terminologia specialistica, talo-ra espressa in lingua greca.Gli argomenti trattati nei vari libri sono in bre-ve i seguenti:- libro I: generalità: l’architetto ideale (forma-zione teorico-pratica e sua cultura universale, sintesi di molte discipline); l’articolazione del-l’architettura: costruzione edilizia (pubblica e privata), gnomonica e ideazione di macchine; i requisiti fondamentali: stabilità, distribuzio-ne e bellezza (la famosa triade vitruviana: fir-mitas, utilitas, venustas); corrispondenza forma-funzione, soprattutto nel tempio (scelta dell’or-dine architettonico adatto alla divinità); fonda-menti di urbanistica: scelta del sito della città, costruzione delle mura, disposizione e orienta-mento delle strade e degli edifici pubblici;- libro II: origine ed evoluzione dell’umanità;

le costruzioni lignee primitive; tecnologia dei materiali costruttivi (argilla, sabbia, calce, poz-zolana, pietra); le murature (tipi e dimensio-ni); i legnami;- libro III: i templi (modularità e simmetrie); le proporzioni del corpo umano (l’uomo vitruvia-no: homo ad circulum et ad quadratum) esempla-ri per gli edifici sacri e misura di tutte le cose; le tipologie dei templi; le fondazioni; i colonnati;- libro IV: gli ordini architettonici (colonna do-rica, ionica e corinzia); origine degli ornamenti di colonne e trabeazioni; pronao e cella del tem-pio tuscanico;- libro V: gli edifici pubblici profani: foro, ba-silica, curia, teatro (con una lunga digressione sull’acustica e sui principi dell’armonia musi-cale da applicarsi alle costruzioni), terme, pa-lestre, porti;- libro VI: gli edifici privati (orientamento, pro-porzioni, scelta del sito, forma dell’atrio); le ca-se rustiche; la casa greca; principi statici e fon-dazioni;- libro VII: le finiture (pavimenti, rivestimenti, decorazioni); il problema dell’umidità; la pittu-ra murale (tecnica e stile); il marmo; i colori na-turali e artificiali;- libro VIII: gli impianti idraulici (metodi di re-perimento, di analisi della qualità e di condu-zione dell’acqua);- libro IX: nozioni di astronomia (struttura del-l’universo: sole, luna, pianeti, volta celeste), di astrologia e meteorologia, di gnomonica (meri-diane solari e orologi ad acqua);- libro X: la meccanica (definizione ed evoluzio-ne); meccanica civile (macchine per sollevare pe-si e per rialzare l’acqua, organo idraulico, odo-metro); meccanica militare (macchine belliche: scorpione, balista, catapulte, arieti, testuggini).Vitruvio dunque, sulla base degli scritti di archi-

tettura di vari autori greci dei secoli preceden-ti e di alcuni autori romani a lui coevi (opere tutte andate in seguito perdute), e inoltre della sua personale esperienza di architetto-ingegne-re, aveva compilato un trattato sistematico, in grado di offrire una formazione di base comple-ta per gli architetti del suo tempo.Ma l’opera di Vitruvio avrebbe esercitato un influsso ben oltre la sua epoca, sia nei seco-li della tarda romanità, sia lungo tutto il Me-dioevo, particolarmente in età Carolingia, gra-zie alle copie redatte dagli amanuensi nei mo-nasteri d’Europa.Di copia in copia il testo originario, già di per sé di difficile comprensione, perse in alcune parti la sua chiarezza, anche perché ad un certo pun-to si tralasciò di ricopiare i disegni illustrativi che in principio lo accompagnavano.Quando perciò nel 1416, nel fervore del nuovo clima umanistico volto ad un generale recupero della cultura classica, il toscano Poggio Braccio-lini ritrovò nel monastero di San Gallo una co-pia del trattato, considerate le oscurità del testo, la sua “riscoperta” piuttosto che gli architetti in-teressò dapprima i letterati e i filologi.Tuttavia nel corso del Quattrocento il testo vi-truviano venne studiato a fondo da alcuni ar-chitetti di grande cultura, cioè Leon Battista Al-berti, Francesco di Giorgio Martini e Filarete, che ne presero esempio per le loro opere, edi-fici e trattati.Infine, con l’avvento della stampa e delle prime edizioni del De architectura di Vitruvio, la cono-scenza approfondita di questo “testo sacro” del-l’antichità sarebbe diventata un compito impre-scindibile per ogni architetto al passo coi tempi.Fu però un interesse filologico più che architet-tonico a produrre le tre edizioni a stampa quat-trocentesche del testo vitruviano, dall’ editio

princeps romana (1486/87) curata da Giovan-ni Sulpicio cui seguì la fiorentina (ma per alcu-ni veneziana) del 1495/96; a quest’ultima si ri-fà la presente, con l’aggiunta del trattato di teo-ria musicale di Cleonide (II sec. d.C.) tradot-to dal greco in latino dall’umanista piacentino Giorgio Valla. Nonostante le ipotesi formulate, non è noto il curatore dell’edizione, che met-te insieme testi apparentemente così eterogenei, scelta che potrebbe forse trovare una spiegazio-ne nel ritratto ideale dell’architetto, tracciato da Vitruvio nel primo libro, per la cui formazione la musica e la filosofia (Lamia è un’introduzio-ne alla logica aristotelica) sono elementi impor-tanti insieme ad altre discipline.

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28. GRAPALDI, Francesco Mario De partibus aedium.[Parma], Angelo Ugoletti, [1494?].120.a.161

Non fu uno specifico interesse teorico o pro-fessionale per l’architettura a spingere l’uma-nista parmense Francesco Mario Grapaldo (1460-1515) alla composizione di quest’ope-ra. Di antica famiglia, fornito di una solida istruzione classica, dapprima notaio e succes-sivamente professore di belle lettere allo Stu-dio di Parma, ricoprì anche un importante ruolo politico nella vita della sua città tanto che come segretario dell’ambasceria parmense presso Giulio II ottenne dal papa l’incorona-zione poetica e una rendita.Il De partibus aedium, di cui questa è la prima edizione, è una sorta di enciclopedia di carat-tere antiquario che, partendo da un’accurata descrizione di tutte le parti costitutive del-l’abitazione, ne trae spunto per illustrare, sulla scorta dell’autorità dei classici ripetutamente citati, anche tutti gli oggetti ivi contenuti e le attività che vi si svolgono, non senza richiami all’attualità e all’esperienza personale. Consi-derato l’argomento, è ovvio che l’autorità di Vitruvio abbia una parte di rilievo, anche se un esplicito riferimento nel titolo comparirà solo nell’edizione postuma del 1516.Il successo dell’opera è attestato da più di una decina di edizioni successive in Italia e in Eu-ropa fino al pieno Settecento.

29. GRAPALDI, Francesco Mario Francisci Marii Grapaldi poetae laureati De partibus aedium addita modo, verborum explicatione, quae in eodem libro, continentur. Opus sane elegans, & eruditum, tum propter multiugam variarum rerum, lectionem cum propter M. Vitruuii & Cornelii Celsi, emacula-tas diciones, quae apud ipsos vel mendosae, vel obscurae, videbantur.(Impressum Parmae: per accuratissimos impressores Octauianum Saladum & Franci-scum Vgoletum ciues Parmenses : impensis Antonii Quintiani, die septimo Maii 1516).57.a.137

In questa quarta edizione parmense postuma l’opera, dopo le precedenti aggiunte di un Index verborum fu arricchita di un glossario esplicativo della terminologia usata, spesso ostica e ricercata e di difficile comprensione, con particolare riferimento a Vitruvio.Il frontespizio è ornato dal ritratto dell’auto-re nell’atto di scrivere, incoronato dall’alloro poetico conferitogli da papa Giulio II nel 1512.

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30. VITRUVIUS POLLIOM. Vitruuius per Iocundum solito castigatior factus cum figuris et tabula vt iam legi et intelligi possit.(Impressum Venetiis : sumptu miraque diligentia Ioannis de Tridino alias Tacuino, 1511 die XXII Maii).35.c.53

Questa interessante edizione tardocinquecen-tesca dell’opera di Vitruvio appare tanto bella quanto paradossale: infatti, mentre quel cele-bre trattato antico è pervenuto all’età moder-na privo delle originarie illustrazioni, questo strano libro non contiene il testo di Vitruvio, ma presenta invece - a suo commento - uno straordinario corredo di centosessanta bellis-sime immagini silografiche, accompagnate soltanto da brevi testi esplicativi.Pubblicata dodici anni dopo la morte dell’au-tore per volontà degli stampatori Giolito, que-sta curiosa edizione vitruviana senza Vitruvio rappresenta oggi un affascinante enigma nel contesto degli studi sull’editoria veneziana del XVI secolo.L’autore, Giovan Antonio Rusconi (1500/05-1578), apparteneva ad una famiglia di stampa-tori di origini milanesi trasferitasi a Venezia sul finire del XV secolo: dopo la morte del padre Giorgio (1522), egli fece una breve esperien-za giovanile di editore in società con il fratello Giovan Francesco, ma in seguito si dedicò al-l’attività di illustratore di libri per conto di altri tipografi, essendo particolarmente versato nel disegno artistico e nell’incisione su legno.Fu probabilmente la confidenza con il mondo dei libri a stimolare in Giovan Antonio inte-ressi di carattere scientifico: sappiamo infatti che negli anni trenta e quaranta fu discepolo del celebre matematico ed inventore Nicolò Tartaglia.Formatosi in tal modo una solida base cultu-

rale anche di tipo tecnico-scientifico, Giovan Antonio poté successivamente intraprendere un’intensa attività di architetto ed ingegnere, affermandosi presto come uno dei professio-nisti più validi e quotati della Venezia del Cin-quecento. Su incarico di varie magistrature della Serenissima egli eseguì numerose perizie per regolazioni idrauliche, fluviali e lagunari, e progetti per ristrutturazioni e sistemazioni di importanti edifici pubblici, quali la loggia di Brescia, il palazzo ducale o quello delle pri-gioni di Venezia. Rusconi lavorò anche per committenze private, ad esempio completò il palazzo Grimani di S. Luca, realizzò una vil-la Pisani al Lido, ideò un palazzo per Alvise Cornaro a Padova, costruì un bizzarro Teatro del Mondo, galleggiante ed effimero, per una festa nel bacino di S. Marco, fece vari altari e monumenti sepolcrali e partecipò, senza fortuna, al concorso per il nuovo tempio del Redentore.Tutte queste perizie e progetti videro molto spesso Rusconi collaborare, o competere, con i migliori architetti e artisti del suo tempo, quali Sanmicheli, Sansovino, Palladio, Da Ponte, Vittoria, Tintoretto ed altri.Negli anni quaranta, agli esordi della sua car-riera di architetto, Rusconi aveva studiato a fondo il trattato di Vitruvio: sappiamo anzi che ne aveva predisposto una traduzione, pro-babilmente commentata, che intendeva pub-blicare con il corredo di ben trecento illustra-zioni silografiche. L’opera era praticamente

pronta per i torchi nel 1552, ed il 29 marzo 1553 il Granduca di Toscana concedeva il pri-vilegio di stampa all’editore Gabriele Giolito, finanziatore dell’impresa.Ma l’atteso Vitruvio di Rusconi rimase allora inspiegabilmente inedito: l’opera, dopo forse un altro tentativo nel 1570, vide la luce solo nel 1590, ma come detto senza la traduzione vitruviana e con un apparato illustrativo quasi dimezzato, quanto basta però per far rimpian-gere davvero la mancata edizione completa.L’editore Giovanni Giolito de’ Ferrari, che aveva ereditato i legni per le silografie, decise infatti di pubblicarne una parte corredando-la con un testo esplicativo “redazionale”, non dovuto quindi al Rusconi, ma ad un anonimo compilatore che si basò sul Vitruvio di Daniele Barbaro, uscito com’è noto nel 1556 e riedito in formato ridotto nel 1567 e nel 1584.Le splendide tavole di Rusconi hanno un ca-rattere prettamente didascalico: esse infatti dovevano “spiegare visivamente” i vari passi del testo vitruviano e del relativo commen-to, cui dovevano rinviare le lettere alfabetiche presenti nei disegni.L’abile illustratore di libri emerge chiaramente nella predilezione di immagini con edifici in prospettiva o con scene di cantiere animate da operai abbigliati all’antica: un’iconografia dunque narrativa, ma di tono alto e di straor-dinaria qualità pittorica, sulla tradizione del Vitruvio di Cesare Cesariano piuttosto che di quelli di Frà Giocondo e di Daniele Barbaro.

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31. VITRUVIUS POLLIODi Lucio Vitruuio Pollione De architectura libri dece traducti de latino in vulgare affigurati: commentati: & con mirando ordine insigniti: per il quale facilmente potrai trouare la multitudine de li abstrusi & reconditi vocabuli a li soi loci & in epsa tabula con summo studio exposi-ti & enucleati ad immensa utilitate de ciascuno studioso & beniuolo di epsa opera. (Impressa nel amoena ... citate de Como : per magistro Gotardo da Ponte citadino milanese, 1521. 15. mensis Iulii).36.c.17

Nato a Milano nel 1483 Cesare Cesariano fu allievo di Bramante, ma ebbe anche una for-mazione umanistica, che potè approfondire nelle le università di Ferrara e di Pavia, dopo il forzoso av ; costretto ad abbandonare la città dopo la morte del padre, frequentò e lavorò come pittore a Reggio e Parma. Ritornato a Milano nel 1512 fu nominato, due anni dopo, ingegnere ducale, iniziando la traduzione illu-strata del De Architectura di Vitruvio, portata a termine e data alle stampe nel 1521. Si tratta della prima traduzione italiana di Vi-truvio ad essere pubblicata: infatti quella ap-prontata pochi anni prima da Fabio Calvo per Raffaello era rimasta manoscritta. Gravi controversie accompagnarono l’avven-turosa impresa. Il nobile erudito milanese Aloisio Pirovano e il comasco Agostino Gallo si erano infatti offerti, nel 1521, di promuove-re e finanziare la pubblicazione del lavoro, af-fidandone la stampa, prevista in 1300 copie, a Gottardo da Ponte in Como. Avevano inoltre affiancato a Cesariano due aiutanti, il coma-sco Benedetto Giovio e il bergamasco Bono Mauro. Tuttavia quasi alla fine del libro nono, il controllo editoriale fu sottratto a Cesariano, estromesso, forse anche per la sua lentezza, dal proseguimento del lavoro, e finito addirittura in carcere, mentre i due aiutanti e i promoto-ri portavano a compimento l’opera con i suoi materiali. Contro i soci che, nel frattempo, disconoscendone la vera paternità si erano attribuiti meriti e proventi della pubblicazio-

ne, Cesariano intentò una causa, risoltasi nel 1528 a suo favore.Pur debitore dell’edizione di Fra Giocondo, di dieci anni precedente, la prima illustrata, ma ancora in latino, Cesariano se ne distacca per le finalità. Le sue preoccupazioni non sono infatti tanto filologiche quanto volte ad attua-lizzare il lascito vitruviano per una riforma in senso moderno e bramantesco della tradizione architettonica lombarda, superandone l’ em-pirismo di matrice gotica.Ma la traduzione di Cesariano è tutt’altro che agile: egli si scontra con la difficoltà di decifra-re un lessico impervio e con l’ambizione di far sfoggio di un volgare dotto, dal forte accento latino, per di più infarcito di citazioni, abbre-viazioni, refusi, che gli valsero le critiche di un filologo votato all’interpretazione vitruviana come Claudio Tolomei, il fondatore della ro-mana Accademia della virtù.La traduzione è accompagnata da un ricchis-simo soverchiante commento che circonda, in carattere ridotto, il testo, con una prolife-razione enciclopedica dei più vari temi sug-geriti dalla lezione vitruviana: vi si trattano, accanto a problemi terminologici, ogni sorta di argomenti, dalla mitologia alla filosofia alla matematica alle tecniche alle arti a spunti au-tobiografici.Il commento, naturalmente, offre il destro a Cesariano di affrontare anche le questioni dell’architettura contemporanea, dall’appli-cazione dei concetti vitruviani di ortografia e

icnografia alla pianta e all’alzato del duomo di Milano, alle sue esperienze d’ingegneria mi-litare, ai temi dell’urbanistica, con l’illustra-zione della città ideale vitruviana ispirata alla Sforzinda di Filarete: a tutti questi argomenti l’autore dedica varie tavole incise. Come in Fra Giocondo anche in Cesariano l’apparato iconografico è infatti molto abbon-dante, con belle silografie, più accurate però di quelle dell’edizione del frate veronese. Si confronti ad esempio la figura dell’uomo ad quadrtum e ad circulum inserito in uno spazio quadrettato, che diventa elemento modulare di progettazione, grazie al quale ottenere quel-la simmetria ed euritmia, fuse da Cesariano in un unico concetto (simmetrie euritmiate), che conferiscono all’edificio razionalità e decoro. Nelle illustrazioni delle tipologie templari Cesariano applica i concetti dell’architettura antica a organismi che sono in realtà quelli dell’edilizia religiosa del suo tempo, corretta in senso classico, con gli ordini che si appog-giano a facciate di chiese di stile lombardo. La traduzione di Cesariano, riproposta da Francesco Lutio Durantino a Venezia nel 1524 e da Giovanni Battista Caporali a Perugia nel 1536 (ne pubblicò solo i primi cinque libri), sarà eclissata dalla fondamentale traduzione commentata di Daniele Barbaro del 1556.

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32. DÜRER, AlbrechtDi Alberto Durero ... Della simmetria de i corpi humani, libri quattro. Nuouamente tradotti dalla lingua latina nella italiana, da M. Gio. Paolo Gallucci salodiano. Et accresciuti del quinto libro, nel quale si tratta, con quai modi possano i pittori, & scoltori mostrare la diuersità della natura de gli huomini, & donne, & con quali le passioni, che sentono per li diuersi accidenti, che li occorrono. Hora di nuouo stampati ...In Venetia : presso Domenico Nicolini, 1591.105.a.19

Pochi temi appassionarono gli artisti del Rina-scimento come quello delle proporzioni. Solo la prospettiva fu al centro di altrettanto inte-resse. Proporzioni e prospettiva competevano tanto alla pittura quanto alla scultura e all’ar-chitettura. Si trattava di determinare i rapporti matematici intercorrenti tra le varie parti del corpo umano (o di un animale), al fine del-la rappresentazione artistica, ma, anche, sulla scorta di Vitruvio, di stabilire in base ai rap-porti delle membra del corpo umano i rappor-ti che dovevano legare tra loro armonicamente le varie parti di un edificio.Questa concezione antropometrica dell’ar-chitettura fu fondamentale per gli artefici e i teorici del Rinascimento. Nel suo trattato Vitruvio aveva fatto della figura umana il cen-tro generatore del quadrato e del cerchio. E il tema sarà ripreso da molti artisti e in partico-lare proprio dagli architetti e dai teorici del-l’architettura del Rinascimento. Le questioni proporzionali furono al centro delle medita-zioni tra gli altri di Alberti, Pacioli, Leonardo e Dürer, che ne scrissero.Dürer in particolare attribuiva a questo tema un’importanza decisiva, al punto dal dedi-carvi, come Pacioli, uno specifico e corposo trattato, i Vier Bücher von menschlicher Propor-

tion [Quattro libri della proporzione umana]. Pubblicato postumo nel 1528, poco dopo la morte dell’artista, in duplice edizione tedesca e latina (De symetria partium in rectis formis humanorum corporum libri), è il più notevole dei suoi libri e quello destinato a un maggior seguito.Dürer anziché determinare delle proporzioni ideali, indaga la natura per individuarvi non un’ astratta tipologia d’uomo ma più tipolo-gie: ne elabora quasi una trentina, uomini e donne di corporatura differente, e bambino.Pubblicata a Venezia nel 1591, la traduzione italiana esposta in mostra fu curata da Gio-vanni Paolo Gallucci da Salò, matematico, astronomo, medico, interessato anche a studi di prospettiva.Si tratta della prima traduzione italiana dei Vier Bücher, fatta però non dal tedesco ma dall’ edizione latina. Gallucci nell’introduzio-ne fa l’elogio della pittura, arte superiore a tut-te le altre, liberali comprese; all’inizio del libro Gallucci aggiunge un breve capitoletto con la “vita di Alberto Durero” e, in appendice, un quinto libro “nel quale s’insegna in qual modo possano pittori e scultori con lineamenti e co-lori spiegare gli affetti del corpo e dell’animo […] secondo l’opinione dei filosofi e poeti”.

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33. PHILANDRIER, Guillaume <1505-1565>Gulielmi Philandri ... In decem libros m. Vitruuij Pollionis de architectura annotationes ... cum indicibus graeco & latino locupletissimis.Parisiis : apud Iacobum Keruer, uia ad diuum Jacobum sub duobus Gallis, 1545.86.a.216

Sebbene assai meno conosciuta della famosis-sima Regola delli cinque ordini d’architettura apparsa a Roma nel 1562, quest’opera di Vi-gnola sulla prospettiva pratica, pubblicata po-stuma, ebbe comunque una notevole fortuna.Jacopo Barozzi (Vignola, 1507-Roma, 1573), detto appunto il Vignola dal nome della citta-dina natale presso Modena, in gioventù aveva studiato a Bologna pittura e architettura in un momento in cui si andava affermando il nuo-vo gusto per il quadraturismo, cioè per una pittura decorativa caratterizzata da finte archi-tetture viste in prospettiva: è probabile quindi che il suo interesse per quest’ultima risalga al-l’epoca della formazione giovanile quale pitto-re prospettico.Affermatosi poi come uno dei più grandi ar-chitetti italiani del Cinquecento, Vignola pro-seguì comunque gli studi sulla prospettiva per tutta la vita e li condensò in un testo più volte perfezionato, ma ancora inedito al momento della morte.L’ultima versione del manoscritto venne così affidata dal figlio di Jacopo, Giacinto, al dotto padre domenicano Egnazio Danti (Perugia, 1536-Alatri, 1586), esperto matematico e co-smografo, celebre tra l’altro per aver sovrin-teso su incarico del papa l’esecuzione delle splendide carte geografiche d’Italia dipinte nella Galleria Vaticana.Maestro nello Studio di Bologna, Danti aveva già dato alla luce varie pubblicazioni di carat-tere scientifico, tra le quali La prospettiva di

34. VUTRUVIUS POLLIOM. Vitruvii Pollionis De architectura libri decem, ad Caes. Augustum, omnibus omnium editionibus longe emendatiores, collatis veteribus exemplis. Accesserunt Gulielmi Philandri Castilionii ... annotationes castigatiores, & plus tertia parte locupletiores. Adiecta est epitome in omnes Georgij Agricolae de mensuris & ponderibus libros eodem autore ...[Lugduni] : apud Ioan. Tornaesium typorg. Reg. Lugd., 1586.2.b.35

Euclide (Firenze, 1573), ed aveva inoltre gran-de competenza, teorica e pratica, in materia di pittura e architettura: era quindi senza dubbio la persona giusta cui affidare il compito di cu-rare l’edizione del manoscritto sulla prospetti-va di Vignola.

Questo trattato si presenta come un’opera di particolare eleganza anche se affronta un argo-mento squisitamente tecnico: vi sono illustrate infatti le caratteristiche costruttive e le moda-lità d’impiego di uno strumento denonimato “archisesto”, utile per disegnare con facilità gli ordini architettonici e gli altri elementi deco-rativi propri dello stile classico.Ottavio Revesi Bruti (ca.1575-1640), che ne fu l’autore, era un nobile vicentino con spic-cati interessi per l’architettura civile e militare, cui si dedicava ovviamente per “diletto”, ma in maniera tutt’altro che dilettantesca.Anzi, come architetto realizzò diverse opere di pregio: palazzo Revesi a Brendola (fine sec. XVI); le porte dell’arsenale di Vicenza (1600 e 1620), di cui resta quella dal possente bugna-to che oggi dà accesso al giardino del teatro Olimpico; ancora a Vicenza lo splendido arco

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35. VITRUVIUS POLLIOI dieci libri dell’architettura di M. Vitruuio. Tradotti & commentati da mons. Daniel Barbaro eletto Patriarca d’Aquileia, da lui riueduti & ampliati; & hora in piu commoda forma ridotti.In Venetia : appresso Francesco de’ Franceschi senese & Giouanni Chrieger alemano compagni, 1567.39.b.70

Daniele Barbaro impersona in maniera esem-plare la figura rinascimentale del nobile dilet-tante di architettura, che si accosta alla disci-plina munito di una sofisticata strumentazio-ne filologica, archeologica, filosofica e scien-tifica, e in particolare è espressione di quella particolare congiuntura politico-culturale che aveva visto una parte del patriziato veneziano impegnata in un’opera di rinnovamento cul-turale ed estetico marcatamente connotato in senso scientista e classicista. Uomo di vasta esperienza anche pubblica, era stato amba-sciatore in Inghilterra fra il 1549 e il 1551 in-traprendendo poi la carriera ecclesiastica (sarà patriarca eletto di Aquileia), per le sue com-petenze teoriche nel campo artistico assunse importanti responsabilità nelle scelte decorati-ve e iconografiche di Palazzo Ducale a partire dalle sale dei Dieci, ornate fra 1553 e 1555 da Ponchino, Veronese e Zelotti.I suoi interessi per l’architettura furono abba-stanza precoci. Il lavoro per l’edizione italia-na commentata dei Dieci libri di Vitruvio (la quarta, preceduta da quelle di Cesariano, Du-rantino e Caporali), prese avvio già nel 1547, come Barbaro stesso ci rivela, e fu poi prose-guito in particolare con il viaggio compiuto a Roma nel 1554 in compagnia di Palladio, che rilevò i monumenti della città e collaborò strettamente all’allestimento dell’opera. I frut-ti di questa comune esperienza si riconoscono soprattutto nei primi cinque libri.A differenza di Cesariano che aveva usato per

il proprio commento la glossa, fiancheggian-te il testo di Vitruvio, Barbaro adotta il siste-ma…………………..Il frontespizio raffigura un arco di trionfo, si-mile a quello di Traiano ad Ancona: lo ornano al centro la Regina Virtus, ai lati Geometria e Astronomia, e, nella parte superiore, Architet-tura, Matematica, Musica e Retorica, laddove l’architettura risulta ormai pienamente pro-mossa al rango di arte liberale.Il Vitruvio di Barbaro è al tempo stesso un’ope-ra filologica di traduzione e interpretazione del testo latino sulla scorta anche delle infor-mazioni attinte dall’archeologia, e un trattato di architettura pressoché autonomo, nel quale l’autore amplia notevolmente il tema origi-nario aggiornandolo e integrandolo alla luce della sua notevole cultura classica e scientifica. È questa infatti la funzione del ricchissimo e puntualissimo commento che accompagna la traduzione e consente a Barbaro di intratte-nersi sui temi che gli erano più cari e di mani-festare i suoi ideali estetici. Così, ad esempio, rifacendosi ai precedenti di Pomponio Gaurico, Filandro e al “buon Alberto Durero”si dilunga assai sulle propor-zioni, perché “ciò che ci diletta e piace, non per altro ci diletta e piace, se non perché in sé tiene proportionata misura e moderato tem-peramento”.Nella trattazione dei templi assume particolare importanza l’apparato illustrativo approntato da Palladio, con nitide tavole incise raffigu-

ranti gli edifici in pianta, sezione e alzato. Nel Sesto Libro il commento di Barbaro si concentra tra l’altro sui palazzi e sulle con-nesse proposte di nuove e più moderne tipo-logie anche a Venezia. Mentre il settimo ha per tema le finiture.L’attitudine scientifica, frutto delle esperien-

ze maturate nel periodo della frequentazio-ne dello Studio di Padova, trova compiuta espressione nell’Ottavo e nel Nono Libro, dove Barbaro ha modo di affrontare con straordinaria ampiezza i temi prediletti del-l’idraulica, della geometria e dell’astronomia, dilungandosi anche sulla costruzione degli

orologi solari e ad acqua. Mentre nel Decimo Libro egli ha modo di ragionare sulle mac-chine, belliche e no, affiancando anche in questo caso a problematiche di natura tecni-ca, come la progettazione di pompe idrauli-che, interessi più squisitamente teorici legati agli studi di fisica.

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36. VITRUVIUS POLLIOI dieci libri dell’architettura di M. Vitruuio, tradotti, & commentati da monsig. Daniel Barbaro Patriarca d’Aquileia, da lui riueduti, & ampliati; et hora in questa nuoua impressione per maggior comodità del lettore, le materie di ciascun libro ridotte sotto capi ...In Venetia : appresso Alessandro de’ Vecchi, 1629.63.b.51

37. RUSCONI, Giovanni Antonio Della architettura di Gio. Antonio Rusconi, con centosessanta figure dissegnate dal medesimo, secondo i precetti di Vitruuio, e con chiarezza, e breuità dichiarate libri dieci.In Venetia : appresso i Gioliti, 1590.57.a.43

Questa interessante edizione tardocinquecen-tesca dell’opera di Vitruvio appare tanto bella quanto paradossale: infatti, mentre quel celebre trattato antico è pervenuto all’età moderna pri-vo delle originarie illustrazioni, questo strano libro non contiene il testo di Vitruvio, ma pre-senta invece - a suo commento - uno straor-dinario corredo di centosessanta bellissime im-magini silografiche, accompagnate soltanto da brevi testi esplicativi.Pubblicata dodici anni dopo la morte del-l’autore per volontà degli stampatori Gioli-to, questa curiosa edizione vitruviana senza Vitruvio rappresenta oggi un affascinante enigma nel contesto degli studi sull’editoria veneziana del XVI secolo.L’autore, Giovan Antonio Rusconi (1500/05-1578), apparteneva ad una famiglia di stampa-tori di origini milanesi trasferitasi a Venezia sul finire del XV secolo: dopo la morte del padre Giorgio (1522), egli fece una breve esperien-za giovanile di editore in società con il fratello Giovan Francesco, ma in seguito si dedicò al-l’attività di illustratore di libri per conto di altri tipografi, essendo particolarmente versato nel disegno artistico e nell’incisione su legno.Fu probabilmente la confidenza con il mondo dei libri a stimolare in Giovan Antonio interessi di carattere scientifico: sappiamo infatti che ne-gli anni trenta e quaranta fu discepolo del cele-bre matematico ed inventore Nicolò Tartaglia.Formatosi in tal modo una solida base culturale anche di tipo tecnico-scientifico, Giovan Anto-nio poté successivamente intraprendere un’in-

Edizione di non particolare pregio, dedicata dallo stampatore De Vecchi a mons. Sforza Ponzione arcivescovo di Spalato. Il frontespi-zio che riproduce quello dell’edizione venezia-na del 1584, si trova sul verso del terzo foglio

non numerato e riprende, in controparte e con modifiche, quello vasariano usato da Cosimo Bartoli per l’edizione torrentiniana de L’Archi-tettura di Leon Battista Alberti del 1550.

tensa attività di architetto ed ingegnere, affer-mandosi presto come uno dei professionisti più validi e quotati della Venezia del Cinquecento. Su incarico di varie magistrature della Serenis-sima egli eseguì numerose perizie per regolazio-ni idrauliche, fluviali e lagunari, e progetti per ristrutturazioni e sistemazioni di importanti edifici pubblici, quali la loggia di Brescia, il pa-lazzo ducale o quello delle prigioni di Venezia. Rusconi lavorò anche per committenze private, ad esempio completò il palazzo Grimani di S. Luca, realizzò una villa Pisani al Lido, ideò un palazzo per Alvise Cornaro a Padova, costruì un bizzarro Teatro del Mondo, galleggiante ed effimero, per una festa nel bacino di S. Marco, fece vari altari e monumenti sepolcrali e parte-cipò, senza fortuna, al concorso per il nuovo tempio del Redentore.Tutte queste perizie e progetti videro molto spesso Rusconi collaborare, o competere, con i migliori architetti e artisti del suo tempo, qua-li Sanmicheli, Sansovino, Palladio, Da Ponte, Vittoria, Tintoretto ed altri.Negli anni quaranta, agli esordi della sua car-riera di architetto, Rusconi aveva studiato a fondo il trattato di Vitruvio: sappiamo anzi che ne aveva predisposto una traduzione, pro-babilmente commentata, che intendeva pub-blicare con il corredo di ben trecento illustra-zioni silografiche. L’opera era praticamente pronta per i torchi nel 1552, ed il 29 marzo 1553 il Granduca di Toscana concedeva il pri-vilegio di stampa all’editore Gabriele Giolito, finanziatore dell’impresa.

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38. ALBERTI, Leon BattistaLeonis Baptistae Alberti Florentini viri clarissimi Libri de re aedificatoria decem. Opus integrum et absolutum diligenter recognitum … Venundanus Parrisijs: in sole aureo vici sancti Iacobi (Parisius : in sole aureo vici diui Iacobi impressum : opera magistri Ramboldt & Ludouici Hornken, 1512).57.a.110

Leon Battista Alberti (1404-1472) è figura chiave della trattatistica rinascimentale. Di nobile famiglia fiorentina esiliata a Genova, egli poté contare su un’educazione letteraria di prim’ordine. Studiò a Padova alla scuola uma-nistica di Gasparino Barzizza e si addottorò in diritto a Bologna nel 1428, prendendo gli or-dini sacri e diventando pochi anni più tardi abbreviatore apostolico: a Roma potrà com-piere, a contatto con i monumenti antichi e le rovine, esperienze fondamentali per la matu-razione dei suoi ideali classicisti.Autore di commedie, poesie, libri e opuscoli scientifici e storici, tra i quali le Intercenales, i tre libri Della Famiglia, il Momus, , il Theoge-nius, i Ludi matematici, scriverà anche tre trat-tati sulla pittura, la scultura e l’architettura, frutto oltre che delle sue conoscenze antiqua-rie anche della fondamentale esperienza delle rivoluzionarie novità fiorentine negli anni di Brunelleschi (al quale dedicherà il trattato sul-la pittura), Donatello e Masaccio.La sua concezione dell’architettura come atti-vità intellettuale, fondata innanzitutto su co-gnizioni matematiche, letterarie e archeolo-giche, sganciata dalla diretta pratica del can-tiere, segna uno spartiacque storico fonda-mentale rispetto alla tradizione medievale. Il De re aedificatoria, presentato a papa Nic-colò V nel 1452, ma perfezionato anche in seguito, ebbe diffusione manoscritta fino al 1485, quando per iniziativa di Bernardo Al-

Ma l’atteso Vitruvio di Rusconi rimase allora inspiegabilmente inedito: l’opera, dopo forse un altro tentativo nel 1570, vide la luce solo nel 1590, ma come detto senza la traduzione vitruviana e con un apparato illustrativo quasi dimezzato, quanto basta però per far rimpian-gere davvero la mancata edizione completa.L’editore Giovanni Giolito de’ Ferrari, che aveva ereditato i legni per le silografie, decise infatti di pubblicarne una parte corredando-la con un testo esplicativo “redazionale”, non dovuto quindi al Rusconi, ma ad un anonimo compilatore che si basò sul Vitruvio di Daniele Barbaro, uscito com’è noto nel 1556 e riedito in formato ridotto nel 1567 e nel 1584.Le splendide tavole di Rusconi hanno un ca-rattere prettamente didascalico: esse infatti do-vevano “spiegare visivamente” i vari passi del testo vitruviano e del relativo commento, cui dovevano rinviare le lettere alfabetiche presenti nei disegni.L’abile illustratore di libri emerge chiaramente nella predilezione di immagini con edifici in prospettiva o con scene di cantiere animate da operai abbigliati all’antica: un’iconografia dun-que narrativa, ma di tono alto e di straordinaria qualità pittorica, sulla tradizione del Vitruvio di Cesare Cesariano piuttosto che di quelli di Frà Giocondo e di Daniele Barbaro.I soggetti raffigurati nelle tavole, seguendo l’ordine dei Libri dieci di Vitruvio, descrivono via via le mura urbiche, le costruzioni lignee primitive ed evolute, le tecniche costrutti-ve delle murature, le proporzioni umane e i monumenti antichi (soprattutto i templi), le dimensioni delle colonne, gli elementi decora-tivi, gli accorgimenti ottici, gli ordini dorico, ionico, corinzio e composito, l’origine lignea dell’architectura, l’allestimento del cantiere, l’esecuzione di fondazioni, pavimenti, solai, volte, intonaci, tinteggiature e finiture varie,

per concludere con i vari tipi di macchine.Si espongono le pagine 70 e 71 del Libro quar-to, dove sono rappresentate le colonne dorica, ionica e corinzia ed una raffigurazione dell’ori-gine vitruviana del capitello corinzio, con la ce-sta di vimini, la tavoletta e le foglie di acanto.

berti, cugino di Leon Battista, fu stampato a Firenze da Nicolò di Lorenzo Alemanno, con lettera accompagnatoria di Poliziano e dedi-ca a Lorenzo il Magnifico. L’opera è suddivisa in dieci libri come in Vitruvio, al quale Alber-ti s’ispira, ma gli argomenti non coincidono e l’ordine dei libri è diverso. Il primo libro tratta dei “lineamenti” (il progetto generale): dove collocare l’edificio, tipi di pianta, muri, tetti, scale; il secondo esamina i materiali (qualità di legni, pietre, mattoni, calce, e anche tempo meteorologico più adatto alla messa in opera); il terzo considera come “mandare ad effetto la fabbrica”, dunque le modalità di costruzio-ne (fondazioni, tecniche per muri, volte, tetti, pavimenti); il quarto libro ha per tema le ope-re pubbliche e l’urbanistica (“trattato univer-sale” lo chiama Alberti); il quinto elenca gli edifici in rapporto ai vari tipi di committen-ti: dalla reggia, alla rocca, ai palazzi delle ma-gistrature fino alle ville; il sesto libro verte su-gli ornamenti; il settimo sull’ “ornare i sacri luoghi”(l’architettura templare); l’ottavo sugli ornamenti degli edifici pubblici profani; il no-no sugli ornamenti degli edifici privati; il de-cimo sul restauro. La scelta del latino per il De re aedificatoria postula un pubblico selezionato di intendito-ri colti, e infatti sappiamo della circolazione manoscritta del trattato alla corte papale, in quella di Urbino, in quella d’ Ungheria, pres-so i Medici. “Vorrei che quanto fusse possibi-

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39. ALBERTI, Leon BattistaDe re aedificatoria libri decem Leonis Baptistae Alberti Florentini ... quibus omnem architectandi rationem dilucida breuitate complexus est. Recens summa diligentia capitibus distincti, & a foedis mendis repurgati, per Eberhardum Tappium Lunensem ....Argentorati : excudebat M. Iacobus Cammerlander Moguntinus, 1541.84.b.87

le tu t’ingegnassi d’avere a fare con prencipi delle città splendidissimi e di fabbricare desio-si” (Libro IX), raccomanda Alberti al virtua-le architetto. Da parte sua egli mise in prati-ca il proposito, lavorando per i Rucellai a Fi-renze, per Sigismondo Pandolfo Malatesta a Rimini, nella chiesa di San Francesco trasfor-mata nel mausoleo del principe (il cosiddetto tempio malatestiano), a Ferrara per gli Este, a Mantova per i Gonzaga. È un atteggiamen-to che segna il passaggio dalla mentalità e dal-le esigenze del mondo comunale a quello cor-tigiano. Tuttavia l’ideale estetico albertiano ri-fugge ogni ostentazione, aspirando a un ordi-ne razionale, alla discrezione e alla mediocri-tas: “finalmente t’ ammonisco – scrive Alberti – che non ti metti a fare opera insolita, e non più veduta”. Il valore dell’edificio risiede nel-la concinnitas.L’edizione esposta in mostra è la seconda la-tina, dopo quella fiorentina del 1485:fu pub-blicata a Parigi nel 1512 dagli stampatori Ber-thold Rembolt e Ludwig Hornken e curata da Geoffroy Tory, letterato, editore e incisore francese, régent, allora, del collège de Coque-ret dell’università di Parigi.

Terza edizione latina del trattato albertiano, priva, come le precedenti, di illustrazioni, fu stampata a Strasburgo nel 1541 per i tipi di Jacob Cammerlander e curata dall’umanista tedesco Eberhard Tappe.

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40. ALBERTI, Leon BattistaI dieci libri de l’architettura di Leon Battista de gli Alberti fiorentino … Nouamente da la latina ne la volgar lingua con molta diligenza tra-dotti.In Vinegia : appresso Vincenzo Vaugris, 1546.Minich 47

41. SERLIO, SebastianoIl primo [-quinto] libro d’architettura di M. Sabastiano Serlio bolognese.(In Venetia: per Pietro de Nicolini de Sabbio : ad instantia di Melchiorre Sessa, 1551).111.b.8

Questa veneziana del 1551 è la prima edizione in un solo volume dei cinque libri di Serlio pubblicati separatamente negli anni preceden-ti a Venezia e a Parigi.Com’è noto, la pubblicazione dei sette libri di architettura di Sebastiano Serlio non seguì un ordine progressivo. Il primo libro a essere edi-to fu in realtà il Quarto, uscito a Venezia nel 1537 per i tipi di Francesco Marcolini, non però col titolo di Libro Quarto, ma con quello di Regole generali di architetura [sic] sopra le cinque maniere de li edifici, cioe, thoscano, dori-co, ionico, corinthio, et composito, con gli esem-pi dell’antiquita, che, per la maggior parte con-cordano con la dottrina di Vitruvio. Tuttavia lo stesso Serlio, annunciando il piano dell’opera, fin dall’inizio prevista in sette libri, assegnava il quarto posto a questo, dedicato al fonda-mentale tema degli ordini architettonici.A ciascun ordine corrisponde un capitolo nel quale Serlio, esaminati colonna e trabeazione (con tutti gli elementi specifici: base, capi-tello, fregio), passa a elencare porte, camini, edifici privati e pubblici aventi caratteristiche riferibili a quell’ordine architettonico.Nel 1540, sempre a Venezia, e sempre per i tipi di Marcolini, Serlio pubblicava la sua se-conda opera, il Terzo Libro […] nel qual si figurano, e descrivono le antiquita di Roma, e le altre che sono in Italia, e fuori d’Italia. Qui insieme all’ ampio catalogo di antichità roma-ne (templi, teatri, anfiteatri, terme, archi di trionfo), accompagnate da splendide silogra-

fie, l’autore ha modo di illustrare anche alcuni edifici moderni, come il tempietto di San Pie-tro in Montorio di Bramante, i vari progetti per il San Pietro Vaticano, villa Madama di Raffaello, il Belvedere Vaticano e la villa na-poletana di Poggioreale.Il Primo Libro d’Architettura (in realtà terzo in ordine di pubblicazione) esce in uno stes-so volume con il Secondo Libro di Perspettiva nel 1545 in Francia, dove Serlio si era stabilito nel 1541 e dove sarebbe morto, a Lione, nel 1554. A pubblicare i due libri, in edizione bi-lingue italiana e francese, è lo stampatore pa-rigino Jean Barbé. Il Primo Libro tratta i temi della geometria, il secondo di prospettiva, argomenti, confessa lo stesso Serlio, piuttosto aridi benché necessari, e in ogni caso “poco grati a la magior parte de gli uomini”, perciò, egli ha deciso di pubblicare prima il Libro Quarto “che furono le cinque maniere de li edificj molto necessarie”, e poi il Terzo per la “piacevolezza de varij e belli edificij” e la con-seguente possibilità di formarsi un “giudicio nella mente per saper fare elettione del bello”.Il Quinto Libro […] nel quale se tratta de di-verse forme de Tempii sacri secondo il costume Christiano e al modo Antico fu pubblicato a Parigi nel 1547 in italiano e francese. Già nel Terzo Libro Serlio aveva illustrato alcune im-portanti chiese di Roma, ma l’argomento ora è trattato più ampiamente, anche se non sem-bra più di tanto appassionarlo.In ogni caso, la

Si tratta della prima traduzione italiana del De re aedificatoria, ad opera del modenese Pietro Lauro. Nella dedica al conte Bonifacio Bevi-lacqua, Lauro, dopo aver fatto una difesa del volgare, definisce Alberti “dottissimo auttore, forse il migliore e il più eccellente di quan-ti mai e antichi e moderni n’hanno trattato [di architettura]”. Aggiungendo “qui avrei da dirle de la sua dottrina cose maravigliose, per dimostrare che ne Vitruvio ne altri architetti hanno così perfettamente ne con tanta chia-rezza, come fa egli, de la teorica e prattica di quella scientia ragionato”.Anche questa edizione, come le precedenti la-tine è priva di illustrazioni, che invece corre-dano in buon numero la traduzione di Co-simo Bartoli, pubblicata a Firenze nel 1550, presso Lorenzo Torrentino, e la prima tradu-zione francese, a opera di Jean Martin, pub-blicata a Parigi per i tipi di Jacques Kerver nel 1553, che utilizza in abbondanza le immagini dell’edizione bartoliana.

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42. SERLIO, SebastianoExtraordinario libro di architettura di Sebastiano Serlio, architetto del re christianissimo. Nel quale si dimostrano trenta porte di opera rustica mista con diuersi ordini, & venti di opera dilicata di diuerse specie con la scrittura dauanti, che narra il tutto.In Venetia : appresso GioUambattista Marchio Sessa fratelli, [1561].35.c.15

La prima edizione italiana dell’Extraodinario Libro di Serlio si ebbe a Venezia nel 1557, sei anni dopo l’editio princeps stampata a Lione da Jean de Tournes nel 1551, in francese e ita-liano.Il libro non faceva parte dell’originario pro-gramma del trattato serliano, donde il nome di Extraordinario. La “straordinarietà”, tutta-via, non risiede solo in questo, ma, ancor pri-ma e più, nella radicale e davvero clamorosa smentita dell’ortodossia vitruviana e classici-sta, di cui il libro è portatore.In realtà già in precedenza, anzi fin dalla sua prima opera, le Regole generali d’architettura, del 1537, note anche come Quarto Libro, Ser-lio, pur facendo professione di fedeltà a Vitru-vio, si ritaglia margini di libertà, com’era in fondo nelle sue corde di sperimentatore.Il libro raccoglie cinquanta incisioni raffigu-ranti altrettanti portali, trenta di stile rustico e venti di “opera delicata”. Le didascalie sono a parte, all’inizio del libro.Nella dedica al “christianissimo re Henrico”, vale adire Enrico II di Francia, Serlio ricor-da la genesi dell’opera: “in questa solitudine di Fontanableo [Fontainebleau]dove sono più fiere che huomini”, scrive, gli “cadde ne l’animo di voler formare in apparente disse-gno alcune porti [sic] alla Rustica, miste però a diversi ordini cioè Toscano, Dorico, Ionico, Corinthio e Composito […] e andai tanto avanti che ne feci fino al numero di XXX qua-

si trasportato da un furore architettico. Ne mi accontentai sentendomi abbondare nove fan-tasie ne l’intelletto, ch’io mi deliberai di farne fino al numero di XX di opera dilicata, pure di diversi ordini, per satisfare a più appetiti di huomini”. Nel proemio ai lettori, Serlio scrive che la ragione del suo essere stato “così licentioso” si deve al fatto che “la maggior parte de gli huomini appetiscono il più delle volte cose nuove” e soprattutto che molti desiderano nell’edificio qualche spazio “per porvi lettere, armi, imprese e cose simili: altri istoriette di mezo rilevo o di basso”, o ancora teste anti-che e moderne. A questo fine l’architetto ha usato varie “licentie”, rompendo architravi, fregi, cornici, fasciando colonne, servendosi però, tiene a precisare, “di l’autorita di alcune antichita Romane”. Serlio sa bene di aver radicalmente derogato dalle buone regole classiche e perciò retorica-mente si scusa con gli “architetti fondati sopra la dottrina di Vitruvio” per tante stravaganze, ma lo si compatisca considerando che egli vive in Francia.Il primo portale, quello per Ippolito d’Este a Ferrara, è all’origine di tutta l’opera, come dichiara Serlio, poiché essendo da molti am-mirato e volendone copia “di qui nacque […] ch’io incominciassi tal fatica”.La porta esposta in mostra è la XXIX di quelle di stile rustico. Così la descrive Serlio: “le sue

dedica proprio di quest’opera a Margherita di Navarra, sorella del re, e spirito religiosamente inquieto, non è casuale. Le tipologie chiesasti-che presentate da Serlio sono dodici, numero allusivo agli apostoli: la grande maggioranza è a pianta centrale, da quella circolare all’ ova-le, pentagonale, esagonale, ottagonale, a croce greca. L’ edizione veneziana in un solo volume dei primi cinque libri fu curata da Melchiorre Sessa e affidata ai torchi di Pietro de Nicoli-ni da Sabbio. Vi sono omesse naturalmente le versioni francesi originariamente presenti nei libri I, II e V. I frontespizi sono gli stessi delle precedenti edizioni (quella del Quarto è ripe-tuta anche per il Quinto). Spetterà a Sessa anche la prima pubblicazione italiana, nel 1557, dell’Extraordinario Libro, edito originariamente a Lione nel 1551 in ita-liano e francese, nonché varie altre riedizioni dei primi cinque libri.

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43. VIGNOLA Le Regole de’ cinque ordini di architettura civile di M. Jacopo Barozzio da Vignola corredate dalle aggiunte fattevi nell’edizione romana dell’anno 1770 dagli architetti Gio. Battista Spampani e Carlo Antonini … Ed in questa ultima edizione napolitana ricorrette, ed accresciute di una dissertazione intorno ai medesimi ordini architettonici.Napoli : presso Vincenzo Orsini : a spese di Michele Stasi, 1795.Minich 1155

Quest’edizione della Regola, pubblicata a Napoli nel 1795, è testimonianza tra le in-numerevoli della straordinaria fortuna che accompagnò il trattato di Vignola (1507-1573) fino al Sette e all’Ottocento, tanto che se ne contano più di cinquecento edi-zioni italiane e straniere. Il successo si era già manifestato vivente l’autore, che ne era egli stesso meravigliato. La ragione di tanto favore risiede nell’impostazione schematica e didascalica della materia e soprattutto nel-le immagini, altrettanto efficaci, nelle quali si esprimono anche le doti di disegnatore di Vignola, che aveva iniziato la sua carriera come pittore e “prospettico”.L’editio princeps del 1562 (Regola delli cin-que ordini dell’architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola), pubblicata a Roma direttamente dall’autore, constava di soli trentadue fogli, compreso frontespizio, pri-vilegio, dedica al cardinale Alessandro Far-nese e proemio ai lettori. Nel proemio Vignola chiarisce i suoi inten-ti: offrire una regola pratica e, “lasciando da parte le cose de’ scrittori, dove nascono differenze fra loro non piccole”; partire, per ciascun ordine, da concreti modelli “che al giudizio commune appajono più belli” (Vignola fa l’esempio del teatro di Marcel-lo per il dorico), apportando, sulla base di confronti con altri campioni dello stesso sti-le, quelle piccole correzioni eventualmente

necessarie. La parte scritta occupa le pagine iniziali, mentre le altre sono dedicate alle illustrazioni incise su cuoio, corredate dal-le misure modulari che le accompagnano, di modo che come l’autore sottolinea “ogni mediocre ingegno, purchè abbia alquanto di gusto dell’arte, potrà in un’occhiata sola senza gran fastidio di leggere comprendere il tutto e opportunamente servirsene”. L’edizione napoletana del 1795 riprende quella romana del 1770, curata dagli ar-chitetti Giovan Battista Spampani e Carlo Antonini e da essi arricchita, come recita il frontespizio, da un saggio sulla geometria, un commento al testo, il parallelo delle pro-porzioni degli ordini “secondo il vario siste-ma de’ principali architetti”, un vocabolario dei termini architettonici e le due Regole di prospettiva pratica dello stesso Vignola.L’immagine esposta è quella della sequenza canonica dei cinque ordini: tuscanico, dori-co, ionico, corinzio e composito.

colonne sono Doriche, li suoi capitelli misti di Dorico e Corinthio, la pilastrata intorno la porta è Corinthia, per gl’intagli; e così è lo Ar-chitrave, il Fregio e la Cornice. Tutta la porta è circondata di rustico, come si vede. Quanto all’ordine bestiale, non si può negare, che, es-sendovi qualche sassi fatti da natura, che han forma di bestie, che non sia opera bestiale”.Lo ”scandalo” dell’Extraordinario stava tutto nel fatto di essere un libro, anzi parte di un trattato, e in quanto tale capace di conferire un pur ambigua legittimazione a tendenze “li-cenziose” in realtà già da tempo presenti nelle concrete esperienze dell’architettura cinque-centesca, da Giulio Romano in avanti.

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44. PALLADIO, Andrea <1508-1580>I Quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio. Ne’ quali dopo un breue trattato de’ cinque ordini, & di quelli auertimenti, che sono piu necessarij nell fabricare; si tratta delle case priuate, delle vie, de i ponti, delle piazze, de i xisti, et de’ tempij.In Venetia : appresso Dominico de’ Franceschi, 1570 [i.e. Venezia : Pasquali, 1768?].144.a.75

Pubblicata dodici anni dopo la morte dell’au-tore per volontà degli stampatori Giolito, que-sta curiosa edizione vitruviana senza Vitruvio rappresenta oggi un affascinante enigma nel contesto degli studi sull’editoria veneziana del XVI secolo.L’autore, Giovan Antonio Rusconi (1500/05-1578), apparteneva ad una famiglia di stampa-tori di origini milanesi trasferitasi a Venezia sul finire del XV secolo: dopo la morte del padre Giorgio (1522), egli fece una breve esperien-za giovanile di editore in società con il fratello Giovan Francesco, ma in seguito si dedicò al-l’attività di illustratore di libri per conto di altri tipografi, essendo particolarmente versato nel disegno artistico e nell’incisione su legno.Fu probabilmente la confidenza con il mondo dei libri a stimolare in Giovan Antonio interessi di carattere scientifico: sappiamo infatti che ne-gli anni trenta e quaranta fu discepolo del cele-bre matematico ed inventore Nicolò Tartaglia.Formatosi in tal modo una solida base culturale anche di tipo tecnico-scientifico, Giovan Anto-nio poté successivamente intraprendere un’in-tensa attività di architetto ed ingegnere, affer-mandosi presto come uno dei professionisti più validi e quotati della Venezia del Cinquecento. Su incarico di varie magistrature della Serenis-sima egli eseguì numerose perizie per regolazio-ni idrauliche, fluviali e lagunari, e progetti per ristrutturazioni e sistemazioni di importanti edifici pubblici, quali la loggia di Brescia, il pa-lazzo ducale o quello delle prigioni di Venezia. Rusconi lavorò anche per committenze private,

ad esempio completò il palazzo Grimani di S. Luca, realizzò una villa Pisani al Lido, ideò un palazzo per Alvise Cornaro a Padova, costruì un bizzarro Teatro del Mondo, galleggiante ed effimero, per una festa nel bacino di S. Marco, fece vari altari e monumenti sepolcrali e parte-cipò, senza fortuna, al concorso per il nuovo tempio del Redentore.Tutte queste perizie e progetti videro molto spesso Rusconi collaborare, o competere, con i migliori architetti e artisti del suo tempo, quali Sanmicheli, Sansovino, Palladio, Da Ponte, Vittoria, Tintoretto ed altri.Negli anni quaranta, agli esordi della sua car-riera di architetto, Rusconi aveva studiato a fondo il trattato di Vitruvio: sappiamo anzi che ne aveva predisposto una traduzione, pro-babilmente commentata, che intendeva pub-blicare con il corredo di ben trecento illustra-zioni silografiche. L’opera era praticamente pronta per i torchi nel 1552, ed il 29 marzo 1553 il Granduca di Toscana concedeva il pri-vilegio di stampa all’editore Gabriele Giolito, finanziatore dell’impresa.Ma l’atteso Vitruvio di Rusconi rimase allora inspiegabilmente inedito: l’opera, dopo forse un altro tentativo nel 1570, vide la luce solo nel 1590, ma come detto senza la traduzione vitruviana e con un apparato illustrativo quasi dimezzato, quanto basta però per far rimpian-gere davvero la mancata edizione completa.L’editore Giovanni Giolito de’ Ferrari, che aveva ereditato i legni per le silografie, decise infatti di pubblicarne una parte corredando-

la con un testo esplicativo “redazionale”, non dovuto quindi al Rusconi, ma ad un anonimo compilatore che si basò sul Vitruvio di Daniele Barbaro, uscito com’è noto nel 1556 e riedito in formato ridotto nel 1567 e nel 1584.Le splendide tavole di Rusconi hanno un ca-rattere prettamente didascalico: esse infatti dovevano “spiegare visivamente” i vari passi del testo vitruviano e del relativo commen-to, cui dovevano rinviare le lettere alfabetiche presenti nei disegni.L’abile illustratore di libri emerge chiaramente nella predilezione di immagini con edifici in prospettiva o con scene di cantiere animate da operai abbigliati all’antica: un’iconografia dunque narrativa, ma di tono alto e di straor-dinaria qualità pittorica, sulla tradizione del Vitruvio di Cesare Cesariano piuttosto che di quelli di Frà Giocondo e di Daniele Barbaro.I soggetti raffigurati nelle tavole, seguendo l’ordine dei Libri dieci di Vitruvio, descrivono via via le mura urbiche, le costruzioni lignee primitive ed evolute, le tecniche costrutti-ve delle murature, le proporzioni umane e i monumenti antichi (soprattutto i templi), le dimensioni delle colonne, gli elementi decora-tivi, gli accorgimenti ottici, gli ordini dorico, ionico, corinzio e composito, l’origine lignea dell’architectura, l’allestimento del cantiere, l’esecuzione di fondazioni, pavimenti, solai, volte, intonaci, tinteggiature e finiture varie, per concludere con i vari tipi di macchine.Si espongono le pagine 70 e 71 del Libro quar-to, dove sono rappresentate le colonne dorica, ionica e corinzia ed una raffigurazione dell’ori-gine vitruviana del capitello corinzio, con la ce-sta di vimini, la tavoletta e le foglie di acanto.

Questa interessante edizione tardo-cinquecentesca dell’opera di Vitruvio appare tanto bella quanto paradossa-le: infatti, mentre quel celebre tratta-to antico è pervenuto all’età moderna privo delle originarie illustrazioni, questo strano libro non contiene il testo di Vitruvio, ma presenta invece - a suo commento - uno straordinario corredo di centosessanta bellissime immagini silografiche, accompagnate soltanto da brevi testi esplicativi.

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45-46. PALLADIO, Andrea <1508-1580>L’ architettura di Andrea Palladio diuisa in quattro libri ne’ quali, dopo vn breue trattato de’ cinque ordini, et di quelli auertimenti, che sono piu necessarij nel fabricare; si tratta delle case priuate, delle vie, dei ponti, delle piazze, dei xisti, et de tempij.In Venetia : appresso Marc’Antonio Brogiollo, 1642.Minich 1115; Minich 1157

Questa interessante edizione tardocinquecen-tesca dell’opera di Vitruvio appare tanto bella quanto paradossale: infatti, mentre quel cele-bre trattato antico è pervenuto all’età moder-na privo delle originarie illustrazioni, questo strano libro non contiene il testo di Vitruvio, ma presenta invece - a suo commento - uno straordinario corredo di centosessanta bellis-sime immagini silografiche, accompagnate soltanto da brevi testi esplicativi.Pubblicata dodici anni dopo la morte dell’au-tore per volontà degli stampatori Giolito, que-sta curiosa edizione vitruviana senza Vitruvio rappresenta oggi un affascinante enigma nel contesto degli studi sull’editoria veneziana del XVI secolo.L’autore, Giovan Antonio Rusconi (1500/05-1578), apparteneva ad una famiglia di stampa-tori di origini milanesi trasferitasi a Venezia sul finire del XV secolo: dopo la morte del padre Giorgio (1522), egli fece una breve esperien-za giovanile di editore in società con il fratello Giovan Francesco, ma in seguito si dedicò al-l’attività di illustratore di libri per conto di altri tipografi, essendo particolarmente versato nel disegno artistico e nell’incisione su legno.Fu probabilmente la confidenza con il mondo dei libri a stimolare in Giovan Antonio inte-ressi di carattere scientifico: sappiamo infatti che negli anni trenta e quaranta fu discepolo del celebre matematico ed inventore Nicolò Tartaglia.

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47. SCAMOZZI, Vincenzo Dell’idea della architettura uniuersale, di Vicenzo Scamozzi architetto veneto … Novamente stampato, ed in quest’ultima edizione accresciuto d’un curioso trattato del sesto ordine dell’architetturaIn Venezia : per Girolamo Albrizzi, 1714.34.c.2

Quando Vincenzo Scamozzi (1552-1516) si forma, l’ambiente vicentino è ormai da tempo connotato da una cultura architettonica classi-cista che porta il sigillo di Palladio. Sarà con la sua lezione che Scamozzi farà i conti, misuran-dosi inevitabilmente e non senza conflitti con il lascito del suo illustre predecessore. Come Palladio anche Scamozzi scriverà un libro sulle antichità di Roma (I discorsi sopra l’Antichità di Roma, 1582) e come Palladio, anche Scamoz-zi comporrà un trattato L’Idea dell’architettura universale (1615). Nell’una e nell’altra opera l’ambizione è quella di superare i precedenti palladiani.L’Idea dell’architettura universale era stata pen-sata dapprima in dodici libri, ridottisi poi a die-ci, secondo la canonica ripartizione vitruviana e albertiana. Il progetto, già accarezzato a partire dal 1590-91, è quanto mai ambizioso, propo-nendosi di illustrare l’architettura “universale” e fondandosi su una concezione rigorista della materia, trattata come una disciplina “scien-tifica”, influenzato in questo anche dal clima scientista ed enciclopedico dell’età di Galileo.Per concretizzare il suo proposito di illustrare l’architettura “universale”, Scamozzi fra il 1599 e il 1600 compie un viaggio di studio di nove mesi in Ungheria, Germania e Francia, regi-strando nel suo taccuino le cose che lo avevano incuriosito e soprattutto, in consonanza con le finalità documentarie del viaggio, prendendo nota delle architetture viste: quasi tutti edifici gotici francesi, tradotti in una quindicina di di-segni, con piante, alzati e sezioni,.

L’originario progetto editoriale non sarà mai realizzato: il trattato infatti comprende solo i libri I, II e III , costituenti la prima parte, origi-nariamente in un tomo, e i libri VI,VII e VIII, che compongono la seconda parte, anch’essa in un tomo.Nell’edizione qui esposta, stampata nel 1714 a Venezia da Girolamo Albrizzi, che aveva già pubblicato una prima volta l’opera nel 1694, il trattato è riunito in un unico volume diviso in due parti. In entrambe le scadenti edizioni di Albrizzi vengono riadattati i materiali della Ti-pografia Contarini di Piazzola sul Brenta, che nel 1687 aveva realizzato una ristampa dell’edi-tio princeps, acquisita da Albrizzi.Nel primo libro l’autore dà alcune definizioni: sull’architettura e sull’architetto (quale debba esserne il ruolo, le virtù, la cultura), passando poi in rassegna vari temi generali pertinenti al mestiere: dalla geometria alle proporzioni del corpo umano al disegno, per soffermarsi quindi a elencare le tipologie degli edifici, a lodare l’ar-chitettura antica, e, per finire, spiegando come l’architetto debba gestire il cantiere, i rapporti con le maestranze (da trattarsi con degnazione aristocratica) e con i committenti.Il secondo libro considera le caratteristiche dei vari climi e dei siti, di quali scegliere e quali fug-gire, dei paesi più o meno adatti all’insediamen-to, delle acque, dell’aria, dei venti (comprese le etimologie), poi delle città e delle fortezze.Nel terzo libro Scamozzi affronta il tema della casa. S’inizia dagli antichi, dalle case dei Greci e dei Romani, per passare subito a “quello che

si aspetta in generale a’ Palazzi de’ principali Signo-ri d’Italia, come Roma, Napoli, Genova e Milano e anco qui in Venetia”, e alle tipologie dei palazzi si-gnorili in Spagna, Francia, Germania e Polonia. Sca-mozzi riserva la parte più importante di questo libro alle proprie realizzazioni. Come aveva fatto Palladio nel Secondo Libro, anch’egli qui dispiega un campio-nario delle proprie architetture, prevalentemente di villa. A differenza di Palladio però che nelle tavole dei Quattro Libri inserisce il prospetto e la pianta degli edifici nello spazio neutro della pagina bianca, Scamozzi documenta anche l’intorno, con le strade, i corsi d’acqua, i ponti, e dà il disegno dettagliato dei giardini, nonché l’orientamento e le misure in piedi dell’edificio.Nel sesto libro Scamozzi prende in esame gli ordini architettonici, ribadendo, contro “alcuni, che dopo Vitruvio hanno trattato differentemente degli or-dini”, che questi “deono esser cinque, e non più”. Fu questo, tra i sei libri, quello che più contribuì a diffondere anche fuori d’Italia la notorietà di Sca-mozzi.Il settimo libro tratta dei materiali da costruzione, pietre, malte, legnami, metalli; anche qui tuttavia Scamozzi non si limita a fornire indicazioni su tipi, qualità, tecniche di lavorazione, ma fa sfoggio di erudizione enciclopedica, accennando anche ad ar-gomenti come la “ generatione delle pietre ne’ monti e ne’ mari e per via di congelatione”.Nel libro ottavo Scamozzi esamina le varie incom-benze necessarie all’edificare: dalle fondamenta, ai porti, alle palificazioni, alle mura, porte, finestre, ca-mini, volte, e altro ancora fino agli obelischi, al pon-te di Cesare sul Reno, alle strade, alle macchine.

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48. VIOLA ZANINI, Giuseppe <m. 1631>Della architettura di Gioseffe Viola Zanini padouano pittore et architetto. Libri due ne’ quali con nuoua simmetria, & facolta si mostrano le giuste regole dei cinque ordini di detta architettura, & osseruationi de’ piu eccellenti architetti, che in quella habbiano dato ammaestramenti ... In Padoua : appresso Francesco Bolzetta, 1629.43.c.107

Questo trattato di architettura è probabil-mente l’ultimo in ordine cronologico della grande stagione rinascimentale: a lungo giu-dicato severamente o addirittura dimenticato dalla critica, solo di recente se ne è colto il valore innovativo e pionieristico di manuale a carattere tecnico-pratico, intimamente legato alla civiltà costruttiva veneta, e in particolare padovana, del primo Seicento.L’autore, Giuseppe Viola Zanini (Padova, 1575/80-ivi, 1631), fu abile cartografo, pitto-re quadraturista ed architetto.Apparteneva ad una famiglia di costruttori: il nonno era muratore e il padre ebbe l’inca-rico di proto della città di Padova negli ulti-mi decenni del Cinquecento; è lecito quindi presumere che l’apprendistato di Giuseppe sia avvenuto lavorando presso il padre.Ma il vero maestro di Viola Zanini sembra sia stato il nobile padovano Vincenzo Dotto (1572-1629), un personaggio molto interes-sante anche se tuttora poco studiato: esperto geografo e cartografo, Dotto fu anche un no-tevole architetto, autore di varie opere a Pado-va e nel territorio, dove mostra di saper coniu-gare schemi palladiani e stilemi seicenteschi.Viola Zanini esordì giovanissimo pubblican-do nel 1599 una dettagliata pianta topografi-ca della città di Padova.In seguito la sua attività fu quella di pittore di prospettive: sappiamo ad esempio che dipinse con quadrature i soffitti della sacrestia della chiesa di S. Biagio a Vicenza, delle sale della

casa Fracanzani ad Este, dell’aula dell’Orato-rio di S. Spirito e della sala degli esercizi caval-lereschi dell’Accademia Delia a Padova, opere tutte andate purtroppo distrutte.L’unica opera architettonica ideata da Viola Zanini, oltretutto attribuitagli soltanto alla fine del Settecento, è il palazzo Cumano a Padova, iniziato attorno al 1628 e rimasto incompiuto, probabilmente per la morte del-l’architetto avvenuta nel 1631 a causa della peste: l’impostazione dell’edificio rispetta le regole classiche, ma manifesta un gusto già barocco.La prematura scomparsa di Viola Zanini a poco più di cinquant’anni con ogni proba-bilità ne stroncò agli esordi la futura carriera di architetto, che egli si era finalmente aperto proprio grazie alla pubblicazione del trattato.Dunque, diversamente da quelli di Palladio e Scamozzi, il trattato di Viola Zanini non con-densa le conoscenze teoriche e pratiche matu-rate dopo una lunga esperienza di architetto: vi manca infatti, oltre all’illustrazione delle antichità, anche l’esposizione di eventuali progetti e realizzazioni architettoniche dovuti all’autore.L’opera - edita anche per incitamento dal maestro Vincenzo Dotto - è divisa in due libri (ne erano previsti tre): il primo è dedicato ai materiali e alle tecniche costruttive, il secon-do alla teoria e alla pratica dei cinque ordini dell’architettura.Relativamente modesto, per quantità e qua-

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49. BARBARO, DanieleLa pratica della perspettiua … Opera molto vtile a pittori, a scultori, & ad architetti.In Venetia : appresso Camillo, & Rutilio Borgominieri fratelli al segno di S. Giorgio, 1568.75.b.43

Barbaro dunque avverte che tratterà quella parte della prospettiva “la quale da Greci è detta Scenographia”, la più utile agli artisti. Il trattato consta di nove parti: la prima consi-dera i “principij e fondamenti della Perspetti-va”, la seconda le piante (icnographia), la terza l’alzato (ortohgraphia), con rappresentazione dei solidi geometrici, la quarta le scene teatrali (scenographia), con rappresentazione prospet-tica delle architetture, e così via prendendo in esame i lumi e le ombre, le proporzioni e gli scorci del corpo umano, fino agli “instrumen-ti per porre le cose in Perspettiva, a commodi-tà di molti i quali vogliono la pratica solamen-te”, divulgando anche il modello di una came-ra oscura con lente biconvessa. Nel suo lavoro Barbaro si avvale degli scritti di altri “prospettici”, come Pacioli, Commandi-no, Serlio, Dürer, riproponendo anche alcune delle loro illustrazioni: in particolare egli trae dal Secondo Libro di Serlio le tre immagini del-la scena tragica, comica e satirica.

lità, è l’apparato illustrativo, consistente in novantatre tavole silografiche.Al primo libro - dopo la dedica, la prefazione e la tavola dell’indice analitico - è premesso un curioso cenno sulle origini dell’architettura, seguito da due succinte trattazioni dei princi-pi della geometria e della prospettiva, desunti dalle opere di Sebastiano Serlio, Daniele Bar-baro e Cristoforo Sorte: interessante è però la descrizione dell’utilizzo della prospettiva nel-l’ideazione delle quadrature per i soffitti delle sale, che prevede anche la soluzione a punti di fuga multipli.Particolarmente importante è il primo libro di Viola Zanini dedicato al magistero costrut-tivo del suo tempo, argomento che anticipa la letteratura tecnica che si andrà affermando proprio nel corso del Seicento: interessanti sono ad esempio le considerazioni statiche sul-la forma degli archi e sull’impiego dei tiranti metallici, oppure l’esposizione delle modalità di assemblaggio di centine e capriate lignee, di esecuzione di pavimenti in terrazzo vene-ziano, di intonaci a marmorino, di coperture a lastre di piombo, e così via.

Il contenuto del secondo libro, ispirato alle teorie di Vitruvio, Alberti e Palladio, costitui-sce in verità una stanca ripresa della precetti-stica degli ordini: il sistema esposto da Viola Zanini venne preso in considerazione, sottoli-neandone debiti e limiti, dal francese Roland Fréart de Chambray, che lo mise a confronto con quello dell’Alberti e degli altri maggiori trattatisti del Rinascimento nel suo Parallèle de l’architecture antique et de la moderne (Paris 1650).Il trattato di Viola Zanini ebbe un’ampia dif-fusione: ne accennano nelle loro opere, spes-so però con giudizi molto critici, tra gli altri Guarino Guarini (1678), Alessandro Pompei (1735), Francesco Milizia (1785) ed Angelo Comolli (1792); il primo ad esprimere un pieno apprezzamento del trattato del pado-vano fu invece, curiosamente, il neoclassico Leopoldo Cicognara (1821), che lo giudicò «ripieno di ottime nozioni in ogni teoria, e in ogni pratica dell’arte».Si espongono le pagine 284-285 del Libro se-condo, con due tavole illustrative dell’ordine toscano associato agli archi di opera rustica.

Il sottotitolo recita “Opera molto utile a Pittori, Scultori e ad Architetti”, e in effetti quello di Barbaro aspira a essere un pratico vademecum per gli artisti più che un trattato puramente teorico.L’autore aveva annunciato già nei suoi com-mentari a Vitruvio l’intenzione di scrivere, con l’aiuto dell’esperto veneziano Giovanni Zamberti, un trattato sulla prospettiva in cin-que parti, giacché gli sembrava dai pittori “es-ser sprezzata la fatica, ma lodata l’opera della perspettiva, ammirano il ben fatto, fuggono lo studio di fare”. Nel Proemio della Pratica egli ritorna sul tema: nonostante la prospettiva sia molto utile ai pit-tori, agli scultori e agli architetti, essa gli appare trascurata, “per non dire sprezzata e quasi fug-gita […] da quelli a i quali è più necessaria”.“I pittori de i nostri tempi – lamenta – altri-menti celebri, e di gran nome, si lasciano con-durre da una semplice pratica […] e nelle carte in iscritto niuno precetto si vede dato da loro”.

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50. SABBATINI, NicolaPratica di fabricar scene ne’ teatri di Nicola Sabbattini da Pesaro gia architetto del serenissomo dica Francesco Maria Feltrio della Rouere vltimo signore di Pesaro. Ristampata di nouo coll’aggiunta del secondo libro.In Rauenna : per Pietro de’ Paoli, e Gio. Battista Giouannelli stampatori camerali, 1638. 66.b.100

L’architetto e scenografo pesarese Nicola Sab-batini (1574-1654), attivo alla corte di Urbi-no, inventore di sofisticate macchine sceniche per creare effetti visivi e sonori, è l’autore di quest’opera, oggi rara e ricercata. La Pratica, profondamente differente dalla trattatistica precedente ispirata a Vitruvio e alle regola tea-trali aristoteliche propugnate dal Castelvetro, è il primo trattato moderno del genere, che affronta i problemi del palcoscenico, quali le mutazioni di scena e l’illuminazione, con mente sgombra dagli ideali del Rinascimento e dall’ossequio all’antico. La base teorica pog-gia sulla teoria prospettica elaborata alla fine del Cinquecento da Guidubaldo del Monte, architetto, studioso di astronomia, meccani-ca e matematica, disciplina che insegnò dalla cattedra dell’ateneo patavino. Nella prefazione dello stampatore al lettore si legge infatti: “Se brami nondimeno vedere la più fine teorica di quella pratica, ricorri all’Alchimede d’Italia, e leggi il sesto libro della prospettiva dell’illu-strissimo sig. Guido Baldo de i marchesi del Monte, di cui si gloria l’autore l’essere stato buon discepolo”.Questa seconda edizione, arricchita del secon-do libro, segue la prima dell’anno precedente. Le illustrazioni esposte raffigurano l’illumina-zione della scena teatrale, rispettivamente dal fondo e, soluzione raccomandata, di lato.

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51. BASSI, Martino Dispareri in materia d’architettura, et perspettiua. Con pareri di eccellenti, et famosi architetti, che li risoluono. Di Martino Bassi milanese.In Bressa : per Francesco, & Pie. Maria Marchetti fratelli, 1572.Ba.257.9

Questo libretto apparentemente mo-desto affronta invece temi di grande rilievo, come il rapporto tra lo stile classico e quello gotico, o come il fon-damentale problema della percezione visiva dell’opera d’arte, vale a dire del-la prospettiva: anzi, a quest’ultimo ri-guardo l’opuscolo rappresenta, come a suo tempo osservò acutamente Pa-nofsky, «l’esempio più sorprendente e interessante della serietà con cui nel Rinascimento si discuteva della posi-zione del punto di vista nella super-ficie del quadro e del rapporto con la posizione dello spettatore».

L’autore, l’architetto milanese Martino Bas-si (Seregno, 1542/48-Milano, 1591), nel cor-so della sua pur breve esistenza diresse impor-tanti cantieri per fabbriche ecclesiastiche a Mi-lano e in Lombardia nella seconda metà del Cinquecento: egli lavorò infatti a S. Vittore al Corpo (1567-88), a S. Maria presso S. Cel-so (dal 1570), a S. Lorenzo a Mortara (1573), a S. Maria della Passione (1573), a S. Loren-zo Maggiore, di cui ricostruì la severa cupola ottagona impostandola sulle preesistenze (dal 1575), quindi alla Certosa di Pavia (1578), a S. Maria della Rosa (dal 1579) a S. Fedele, al duomo di Lodi, al santuario di Rho, a S. Ma-ria del Paradiso (1590) ed altrove.Il suo stile architettonico lo dimostra erede del-la tradizione bramantesco-solariana, sulla qua-le innestò - moderandone peraltro la spegiudi-catezza inventiva e decorativa - i nuovi moti-vi manieristici introdotti a Milano attorno alla metà del secolo da Galeazzo Alessi e da Pelle-grino Tibaldi.Il libello del Bassi intendeva polemizzare pro-prio contro Tibaldi, che nel 1567 era stato no-minato architetto dell’opera del duomo di Mi-lano grazie all’appoggio dell’arcivescovo cardi-nal Carlo Borromeo.Infatti i lavori avviati da Pellegrino all’interno del duomo avevano suscitato molte opposizio-ni: le contestazioni, elencate in un memoriale presentato dal Bassi alla fabbriceria nel 1569, non sortirono però effetti, data l’influenza del Borromeo.Martino allora, raccolte sull’argomento le au-

52. VIGNOLA Le due regole della prospettiua prattica di M. Iacomo Barozzi da Vignola, con i commentari del reuerendo padre maestro Egnatio Danti dell’ordine de’ predicatori mattematico dello Studio di Bologna.In Bologna : per Gioseffo Longhi, 1682.68.b.13

Sebbene assai meno conosciuta della famosissi-ma Regola delli cinque ordini d’architettura ap-parsa a Roma nel 1562, quest’opera di Vignola sulla prospettiva pratica, pubblicata postuma, ebbe comunque una notevole fortuna.Jacopo Barozzi (Vignola, 1507-Roma, 1573), detto appunto il Vignola dal nome della citta-dina natale presso Modena, in gioventù aveva studiato a Bologna pittura e architettura in un momento in cui si andava affermando il nuovo gusto per il quadraturismo, cioè per una pittu-ra decorativa caratterizzata da finte architetture viste in prospettiva: è probabile quindi che il suo interesse per quest’ultima risalga all’epoca della formazione giovanile quale pittore pro-spettico.Affermatosi poi come uno dei più grandi archi-tetti italiani del Cinquecento, Vignola proseguì comunque gli studi sulla prospettiva per tutta la vita e li condensò in un testo più volte per-fezionato, ma ancora inedito al momento della morte.L’ultima versione del manoscritto venne così affidata dal figlio di Jacopo, Giacinto, al dot-to padre domenicano Egnazio Danti (Perugia, 1536-Alatri, 1586), esperto matematico e co-smografo, celebre tra l’altro per aver sovrinteso su incarico del papa l’esecuzione delle splendi-de carte geografiche d’Italia dipinte nella Gal-leria Vaticana.Maestro nello Studio di Bologna, Danti aveva già dato alla luce varie pubblicazioni di caratte-

re scientifico, tra le quali La prospettiva di Eu-clide (Firenze, 1573), ed aveva inoltre grande competenza, teorica e pratica, in materia di pit-tura e architettura: era quindi senza dubbio la persona giusta cui affidare il compito di curare l’edizione del manoscritto sulla prospettiva di Vignola.Infatti, uscito a Roma nel 1583 con il titolo Le due regole della prospettiva pratica, il trattato di Vignola, accompagnato dall’ampio commento scientifico di padre Egnazio, si affermò subito come l’opera di riferimento in materia: nume-rose furono quindi le ristampe, nel 1611, 1635, 1644, 1682 (a quest’ultima appartiene l’esem-plare in mostra) e così via.Nel curare l’edizione, Egnazio intanto vi an-tepose una biografia del Vignola «Architetto, e prospettivo eccellentissimo», ove ricorda fra l’altro che «sì come egli fu il primo Architetto di quel tempo, così fu sepolto nella più eccel-lente fabbrica del mondo», cioè nel Pantheon.Nella prefazione, poi, il dottissimo domeni-cano citò praticamente tutti gli autori italiani e stranieri che fino ad allora si erano occupati di prospettiva - Piero della Francesca, Alberti, Leonardo, Dürer, Viator, Commandino, Pe-ruzzi, Serlio, Cousin, Du Cerceau, Cataneo, Barbaro ed altri ancora - dimostrando peraltro nei suoi «commentari» al testo vignolesco di conoscerne a fondo le rispettive formulazioni teoriche.Dopo una lunga introduzione di carattere

torevoli opinioni dei più «eccellenti et famo-si architetti» d’Italia - e si tratta di Andrea Pal-ladio, Jacopo Vignola, Giorgio Vasari e Gio-van Battista Bertani -, pubblicò il tutto a Bre-scia nel 1572.Oggetto di contestazione erano in particola-re l’adozione, da parte di Tibaldi, di un’am-bientazione illusionistica con due punti di vi-sta prospettici in un rilievo con l’Annunciazio-ne collocato sopra la porta settentrionale della cattedrale, poi la scelta di disporre attorno al battistero un colonnato quadrato a larghi in-tercolunni ed infine la decisione di sistemare lo «scurolo» (cripta) e il coro sovrastante con una soluzione architettonica non in armonia con lo stile della chiesa.Il libretto contiene anche alcuni disegni che il-lustrano le scelte di Tibaldi e le soluzioni alter-native proposte dal Bassi.Per lo più favorevoli a quest’ultimo - ma con differenti sfumature: pienamente a favore Pal-ladio, più moderati Vignola e soprattutto Va-sari, evasivo infine Bertani - i pareri dei grandi architetti interpellati sono comunque di gran-de interesse, poiché essi vi esprimono le rispet-tive concezioni estetiche.Anni dopo, scomparso nel frattempo il cardi-nal Borromeo (1584), Bassi otterrà infine la sua rivincita sul rivale Tibaldi: quest’ultimo in-fatti nel 1587 verrà sostituito nella prestigiosa carica di architetto del duomo proprio da Mar-tino Bassi. Si espone l’illustrazione raffigurante il rilievo dell’Annunciazione del Duomo di Milano.

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53. VIOLA ZANINI, GioseffeDella architettura di Gioseffe Viola Zanini padouano pittore, & architetto, libri due ne’ quali con nuoua simmetria, & facoltà si mo-strano le giuste regole dei cinque ordini di detta architettura, & osseryationi de’ più eccellenti architetti che in quella habbiano dato ammaestramenti … Et in questa seconda impressione consacrata … In Padova : per Giacomo Cadorino, 1677.Minich 531

Il trattato di Viola Zanini ebbe un discre-to successo, come dimostra questa riedizione del 1677 (stranamente replicata nel 1678) che presenta ben poche modifiche rispetto all’edi-zione originaria del 1629: la dedica del secon-do libro passò all’inizio del primo e vi si ag-giunse una nuova dedica, mentre si adottò per il secondo libro una paginazione separata.L’unica variante di rilievo in questa riedizione fu l’inserimento in calce al volume di un trat-tatello sul modo di eliminare il fumo nei ca-mini: una curiosa ma utile appendice dovu-ta ad Andrea Minorelli, pubblico perito della città di Padova.Si espone la p. 26 che mostra una delle bel-le tavole dedicate all’illustrazione della costru-zione grafica di una prospettiva architettoni-ca ideata per un soffitto, cioè all’invenzione di una ardita quadratura da osservare dal sot-to in su.

scientifico sulla teoria della visione e sui fon-damenti della prospettiva, dovuta quasi intera-mente a Danti (il cui testo in corpo piccolo si distingue facilmente da quello in corpo mag-giore di Vignola), il trattato prosegue, sempre accompagnato dalle dotte «annotazioni» di Egnazio, con l’esposizione della «Prima regola della prospettiva» di Vignola, corrispondente alla “costruzione legittima” albertiana, e poi della sua «Seconda regola», cioè il metodo del punto di distanza, di più pratica applicazione soprattutto nella restituzione in prospettiva di elementi architettonici, quali loggiati e volte, o piedistalli, basi e capitelli di colonne.Il testo accoglie numerosissime silografie con i disegni geometrici del Danti e tre belle inci-sioni in rame, due delle quali desunte forse da disegni originali del Vignola (lo spaccato di un tempio circolare a cupola cinto da un colon-nato e visto in prospettiva, l’immagine e l’uso di uno strumento di rilevazione), la terza illu-strante un’ardita quadratura prospettica.In calce al volume, prima dell’indice finale delle cose notevoli, Egnazio volle inserire tre pagine dedicate a illustrare due soluzioni di scale a chiocciola, citando nel testo vari esempi di sca-le di questo tipo dovute ai più famosi architetti, quali Bramante, Michelangelo e Vignola.Si espone la pagina 129 che illustra il modo di rappresentare in prospettiva un portico coperto con volte a crociera.

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54. BARTOLI, Cosimo Del modo di misurare le distantie, le superficie, i corpi, le piante, le prouincie, le prospettiue, & tutte le altre cose terrene , che possono occorrere a gli huomini, secondo le vere regole d’Euclide, & de gli altri piu lodati scrittori.In Venetia : per Francesco Franceschi Sanese, 1564.Minich 533

Il fiorentino Cosimo Bartoli (1503-1572) fu a lungo al servizio dei Medici, ricevendone però solo tardi incarichi stabili: dal 1560 fu segreta-rio del cardinale Giovanni e dal 1562 fin quasi alla morte agente di Cosimo I a Venezia. In giovane età, rifugiatosi a Roma in seguito alle vicende politiche fiorentine, aveva dimostrato interesse per l’architettura, la matematica e le discipline umanistiche e successivamente si de-dicò a studi letterari, in particolare a Dante e alla valorizzazione della lingua fiorentina. Nel 1550 pubblicò in Firenze la sua traduzione del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti.Per questo trattato di matematica applicata, dedicato a Cosimo I de’ Medici, l’autore sce-glie la lingua volgare avendo come obbiettivo la chiarezza e l’utilità per i suoi destinatari. Il frontespizio, di gusto chiaramente toscano, è ripreso da quello del volgarizzamento albertia-no del 1550, benché rovesciato, e nel 1584 viene utilizzato da Francesco de Franceschi anche per ripubblicare l’edizione vitruviana di Daniele Barbaro già apparsa per i tipi dl Marcolini.L’iilustrazione dimostra il modo di misurare le reciproche distanze di oggetti posti in alto con l’uso dell’astrolabio, il più diffuso strumento di misurazione nel Medioevo e nel Rinasci-mento.

55. BARTOLI, Cosimo Del modo di misurare le distantie, le superficie, i corpi, le piante, le prouincie, le prospettiue, & tutte le altre cose terrene, che possono occorrere a gli huomini, secondo le regole d’Euclide, & de gli altri piu lodati scrittori.In Venetia : per Francesco Franceschi sanese, 1589 107.a.13

Ristampa della precedente edizione di cui mantiene, data a parte, il frontespizio.L’illustrazione presenta un altro esempio di misurazione di oggetti posti in alto mediante l’uso dell’astrolabio.

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56. FABRI, OttavioL’vso della squadra mobile con la quale per teorica et per pratica si misura geometricamente ogni distanza altezza, e profondità, s’impara a perticare, liuellare, et piglare [!] in disegno, le città, paesi, et prouincie. Il tutto con le sue dimostrationi intagliate in rame. Da Ottauio Fabri data in luce.In Venetia : appresso Francesco Barilleti, all’insegna del Mondo, 1598.90.c.89

Scarseggiano le notizie biografiche sul pado-vano Ottavio Fabri,che nella dedica dell’opera al nobile Curio Boldieri “di Venetia il dì pri-mo Aprile 1598” si sottoscrive “ingegnero pu-blico” (se ne conoscono alcune mappe e rilievi cartografici); tra i sonetti encomiastici a lui dedicati che precedono l’opera figura quello del celebre architetto Giovan Battista Aleotti detto l’Argenta. Da un’altra dedica, al nobile trevisano Giovanni Francesco Gandino, risul-ta chiaro che l’invenzione dello strumento di cui si tratta è in realtà da attribuirsi al padre di quest’ultimo, Marcantonio, traduttore di Frontino, Senofonte e Plutarco ed eccellente matematico, nonché esperto di architettura militare a cui la morte improvvisa impedì di divulgare il suo ritrovato, compito assunto dal Fabri.Il manuale godette di una buona fortuna, come testimoniano le tre successive stampe padovane del 1615, 1670 e 1673.La squadra mobile, ingegnoso ritrovato al tempo stesso quadrante, quadrato geometrico e bussola, era destinato ai più vari tipi di mi-surazione (altezze, profondità, rilievo urbano e territoriale).

57. FABRI, OttavioL’ vso della squadra mobile con la quale per teorica, & pratica si misura geometricamente ogni distanza, altezza, e profondita; s’impara a perticare, liuellare, & pigliare in disegno le citta, paesi & prouincie. Il tutto con le sue dimostrationi intagliate in rame. Da Ottauio Fabri data in luce.In Padova : appresso Pietro Bertelli, 1615.84.b.104

Questa seconda edizione (la prima padovana) del manuale di Fabri (cfr. n. 56) segue la pri-ma veneziana, da cui riprende l’elegante fron-tespizio inciso.

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58. FOULLON, Abel Descrittione, et vso dell’holometro. Per saper misurare tutte le cose, che si possono veder coll’occhio cosi in lunghezza, & larghezza; come in al-tezza, & profondita. Ritrouato per Abel Fullone ...In Venetia : appresso Giordano Ziletti, al segno della Stella, 1564.107.b.105/2

Abel Foullon (ca. 1513-1563), valet de cham-bre del re di Francia Enrico II, è l’inventore dell’olometro, un ingegnoso strumento per rilevamenti architettonici e topografici for-mato da una tavola graduata sormontata da una bussola con a lato due regoli di precisione muniti di visori e basato sul principio della triangolazione trigonometrica.

59. BELLI, Silvio Libro del misurar con la vista di Silvio Belli vicentino. Nel quale s’insegna, senza trauagliar con numeri, a misurar facilissimamente le distantie, l’altezze, e le profondita con il Quadrato Geometrico, e con altri stromenti, de’ quali in ogni luogo quasi in un subito si puo prouedere. Si mostra ancora una bellissima uia di ritrouare la profondita di qual si uoglia mare; & un modo industrioso di misurar il circuito di tutta la terraIn Venetia : per Domenico de’ Nicolini, 156584.b.93

Silvio Belli, nato a Vicenza tra il primo e il secondo decennio del Cinquecento e morto poco dopo il 1579, è designato da alcune fonti antiche come matematico e architet-to e incluso addirittura tra i grandi architetti vicentini della sua epoca e avvicinato a Palladio come esem-pio di ingegno autodidatta, benché del suo talento architettonico non rimanga nessuna testimonianza, se non si vogliono prendere in conside-razione i disegni contenuti in questo

Il trattato Usage et description de l’holometre apparve a Parigi nel 1555, in traduzione ita-liana a Venezia nel 1564 e in versione latina, curata da Nicolas Stoup, nel 1577 a Basilea.Dopo una dettagliata descrizione dello stru-mento e di tutte le parti che lo compongono, una serie di illustrazioni ne esemplifica l’uso.

manuale. Fu tra i fondatori dell’Accademia Olimpica, ricoperse la carica di ingegnere comunale a Vicenza, di “proto delle acque” a Venezia e di ingegnere ducale di Alfonso II d’Este a Ferrara, conosciuto e stimato dal Tasso.L’operetta si propone di insegnare una tecni-ca della misurazione che “si faccia senza l’ar-te de’ numeri, onde divuene ancor piu facile [...] il qual modo fin’hora, per quel ch’io sap-pia, non è stato trattato da niun’altro” e possa

compiersi sia con l’ausilio di uno strumento denominato “quadrato geometrico”, sia con mezzi di fortuna.A questa prima edizione, dedicata al patrizio vicentino Valerio Chiericati, ne seguirono al-tre due, sempre a Venezia, nel 1566 e 1570. Le illustrazioni esemplificano la misurazio-ne di una distanza tra due punti da un terzo punto di osservazione sia con l’uso del qua-drato geometrico che ricorrendo ad un tam-buro militare (o ad una tavola piana).

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60. REVESI BRUTI, OttavioArchisesto per formar con facilita li cinque ordini d’architettura, con altri particolari intorno la medesma professione. Del signor Ottavio Revesi Bruti gentilhuomo vicentno.(In Vicenza : appresso gli heredi di Domenico Amadio, 1627).79.b.11

Questo trattato si presenta come un’opera di particolare eleganza anche se affronta un argomento squisitamente tecnico: vi sono il-lustrate infatti le caratteristiche costruttive e le modalità d’impiego di uno strumento de-nonimato “archisesto”, utile per disegnare con facilità gli ordini architettonici e gli altri ele-menti decorativi propri dello stile classico.Ottavio Revesi Bruti (ca.1575-1640), che ne fu l’autore, era un nobile vicentino con spic-cati interessi per l’architettura civile e milita-re, cui si dedicava ovviamente per “diletto”, ma in maniera tutt’altro che dilettantesca.Anzi, come architetto realizzò diverse opere di pregio: palazzo Revesi a Brendola (fine sec. XVI); le porte dell’arsenale di Vicenza (1600 e 1620), di cui resta quella dal possente bugna-to che oggi dà accesso al giardino del teatro Olimpico; ancora a Vicenza lo splendido arco d’ingresso al Campo Marzio (1608), malau-guratamente demolito nel 1938; gli sono stati inoltre attribuiti alcuni palazzi vicentini, tra cui quello del vescovado, rimaneggiato nel-l’Ottocento; a lui si devono anche un piano per la fortificazione della città berica (1630) e un progetto per il soffitto della cattedrale (1637); infine gli spetta una bella riproduzio-ne del proscenio del palladiano teatro Olim-pico incisa nel 1620.Sembra però che il vicentino Revesi Bruti, an-ziché guardare ai vicini modelli di Palladio e

di Scamozzi, curiosamente preferisse ispirar-si alle architetture di Serlio e Sanmicheli, in particolare quelle di stile più severo e milita-resco.Come teorico, oltre all’Archisesto pubblicato nel 1627, Revesi Bruti lasciò inediti un Di-scorso sopra la fortifficazione [...] di Vicenza (1630) e un trattato su Li due reguli scenografi-ci. Nuova inventione per mettere espeditamente in prospettiva, a conferma delle sue capacità nell’ideazione di stumenti utili all’architetto e all’ingegnere professionista.Nell’Archisesto - dopo la dedica al vesco-vo di Vicenza cardinale Federico Corner, la premessa ai lettori dove si accenna all’utili-tà dello strumento e l’introduzione in cui si spiega la maniera di fabbricarlo - segue per ben cento pagine esatte la serie delle tavole che illustrano via via i cinque ordini archi-tettonici (toscano, dorico, ionico, composi-to e corinzio) e le corrispondenti tipologie di porte, archi, nicchie, intercolunni ecc.: a fronte di ciascuna tavola vi è il testo esplica-tivo, che descrive le operazioni da farsi con lo strumento per poterla correttamente e facil-mente disegnare.Si espone l’elegante frontespizio dell’opera, dov’è appunto raffigurato in prospettiva l’Ar-chisesto posato su di un tavolo, con sopra un compasso aperto sul quale svolazza un nastri-no col motto: «FIRMA EX MOBILIBUS».

Nel 1956 la Biblioteca del Museo Correr di Venezia, nell’ambito della normale attività di incremento delle proprie raccolte, acquistava nel mercato antiquario un foglio sciolto di pergamena decorato su una facciata con una splendida miniatura veneziana risalente al XVI secolo (fig. 1)1.

Si trattò indubbiamente di un acquisto felice e, come subito vedremo, non soltanto per l’alto valore intrinseco del prezioso dipinto.

Non si è finora notato, infatti, come la sua fastosa cornice architettonica corrisponda quasi ad verbum a quella della bella silografia che orna il frontespizio del celeberrimo trattato I Quattro Libri dell’Architettura di Andrea Palladio, pubbli-cato per la prima volta a Venezia dallo stampatore Domenico de’ Franceschi nel 1570 (fig. 2).

L’analogia formale tra queste due sontuose incorniciature architettonico-scultoree è talmente stringente da comportare necessariamente un rapporto di dipendenza2.

Ed ecco dunque il primo problema: è più antica la miniatura oppure il frontespizio palladiano?Diciamo subito che riteniamo più antica la prima: qui di seguito ne daremo le motivazioni ed in particolare avanze-

remo l’ipotesi che la miniatura risalga all’anno 1539. Ma già gli aspetti più immediatamente legati allo stile rendono del tutto improbabile una datazione della miniatura agli anni settanta del Cinquecento, o dopo ancora.

Ma procediamo con ordine.Il foglio membranaceo misura attualmente cm 26,3x19,5, ma in origine doveva avere delle dimensioni un po’ più

grandi, poiché i quattro bordi mostrano chiaramente di essere stati ritagliati proprio a filo dell’immagine miniata3.

1. Venezia, Biblioteca del Museo Correr (d’ora in poi: BMCVe), ms. classe III, 1099. Acquistata il 10 marzo 1956 per 103.000 lire dall’antiqua-rio Oreste Licudis - uno degli abituali fornitori di opere d’arte ed oggetti antichi per il Museo tra gli anni quaranta e sessanta del Novecento - questa importante miniatura costituisce una delle ultime acquisizioni effettuate nel secolo scorso per arricchire il cospicuo fondo manoscritti classe III del Correr, che raccoglie circa 1100 tra commissioni e promissioni ducali, giuramenti di procuratori e capitolari: cfr. ivi, Registro acquisti, 2362, e Libro delle classi I-VI, classe III, 1099. Si ringrazia la direzione,

2. Pare opportuno precisare che l’analogia formale tra le cornici architettoniche della miniatura Correr e del frontespizio palladiano è stata rico-nosciuta una decina d’anni fa da Stefano Tosato, che poi però, in attesa di approfondimenti, ha via via rinviato la pubblicazione di uno studio ap-posito; soltanto nel 2007, avvicinandosi il V centenario della nascita di Palladio, ne ha discusso con Renzo Fontana e di comune accordo si è deciso di affrontare in collaborazione la complessa ricerca sull’argomento: questo saggio a quattro mani (abbozzato da Tosato e rivisto da Fontana) ne pre-senta i risultati.

3. La rifilatura dei bordi attorno alla miniatura risale ad un’epoca ignota, ma sicuramente antecedente l’acquisto del foglio da parte del Museo

Tempo e fatica: l’enigma del frontespizio palladianoRenzo Fontana, Stefano Tosato

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Fig. 1. Antiporta miniata del disperso volume di una commissione ducale veneziana del sec. XVI: con ogni probabilità si tratta della commissione del doge Pietro Lando al patrizio Tommaso Contarini, inviato ambasciatore straordinario a Costantinopoli nel giugno del 1539.Venezia, Biblioteca del Museo Correr

Fig. 2. Frontespizio de I quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio (1508-1580), pubblicato per la prima volta a Venezia dallo stampatore Domenico de’ Franceschi nel 1570.Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana

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In ogni caso va subito precisato che un accurato esame diretto della miniatura non solo ne garantisce l’autenticità, ma ci assicura anche che essa fu interamente eseguita - sebbene, riteniamo, non altrettanto interamente ideata: sull’importante questione dovremo poi ritornare - da un unico esperto miniatore veneziano, che al momento rimane purtroppo ignoto4.

Il documento è quasi del tutto privo di iscrizioni5: esso ci “parla” quindi essenzialmente attraverso la sua complessa raffigurazione miniata, sulla cui lettura perciò dovremo ora necessariamente intrattenerci.

Nell’immagine, entro l’esuberante cornice architettonica simile a quella di un altare barocco, si svolge - proprio come sul palco di un teatrino, con un ampio drappo bruno disteso a mo’ di quinta sullo sfondo - una scena con quattro impor-tanti personaggi riuniti all’interno di una sala vivacemente pavimentata a scacchi bianco-rossi e bianco-neri.

I quattro personaggi sono ben riconoscibili grazie alle vesti e ai loro attributi: al centro c’è il papa, con tiara e pasto-rale, assiso in cattedra sopra due alti gradini marmorei; lo affiancano, in piedi, alla sua destra l’imperatore, con scettro e corona, e alla sinistra il doge, con il tradizionale corno e la mozzetta d’ermellino; di fronte alle tre alte autorità allineate è inginocchiato un patrizio veneto, con ampia toga verde-azzurra foderata d’ermellino e stola rosso porpora ricamata d’oro. Quest’ultimo è raffigurato nell’atto di ricevere dalla mano del doge un bel volumetto chiuso, caratterizzato da una coperta finemente decorata d’oro e da una cordicella con appeso forse un piccolo sigillo.

Com’è ovvio si tratta di una scena puramente allusiva e non della “fotografia” di un incontro realmente accaduto.L’immagine si riferisce infatti a una commissione affidata dalla Repubblica di Venezia al patrizio ginocchioni: tuttavia

doveva trattarsi di un incarico assolutamente eccezionale. Infatti, a differenza delle consuete commissioni ducali, dove il doge, ma più spesso il patrono san Marco, la Vergine, o la stessa allegoria femminile di Venezia, sono raffigurati nell’atto di consegnare il volume contenente il testo dell’investitura, in questa, oltre al doge sono presenti addirittura il papa e l’im-peratore, i quali - il primo con il gesto di benedizione, il secondo con il solo apparire - sembrano entrambi implicitamente

Correr. Poiché in origine - come si dirà - la miniatura doveva costituire l’antiporta di una commissione ducale, la rifilatura potrebbe essere avvenu-ta già al momento dell’asportazione del foglio dal volume: infatti, una volta distaccato il foglio ritagliandolo lungo il margine sinistro, si rese poi ne-cessario per centrare l’immagine miniata rifilarne tutti e quattro i bordi bianchi (eliminati forse anche perché deteriorati, oppure segnati con timbri o note di possesso); sul margine superiore del foglio questa infausta operazione ha causato la perdita delle estremità degli attributi delle tre allegorie femminili poste sulla sommità della cornice architettonica, cioè al centro la punta della spada della Giustizia e ai lati le punte dei rami di palma del-le due Glorie.

4. L’intera miniatura appare eseguita da una stessa mano e in un’unica fase, non mostrando segni di integrazioni o manomissioni di epoca po-steriore; essa nel complesso si presenta oggi in discreto stato di conservazione tranne alcune zone, danneggiate da perdite di colore dovute ad abra-sioni, piccoli strappi o piegature del foglio, oppure interessate da lievi alterazioni cromatiche causate dall’umidità o dal naturale deterioramento di alcuni pigmenti.

5. In realtà osservando attentamente la miniatura si rileva una brevissima iscrizione nel bas-de-page: all’interno del cartiglio centrale, a destra dello stemma, sul fondo rosso scuro purtroppo caratterizzato proprio in quest’area da diffuse lacune di colore, si notano infatti - tracciate in oro nello spa-zio compreso tra due rosette dorate (simmetriche delle due rosette ben visibili sull’altro lato del cartiglio, a sinistra dello stemma) - tre lettere alfabe-tiche capitali disposte a triangolo, due sopra affiancate e una sotto centrata; pur con qualche incertezza ci sembra di leggere la scritta «VO/I∙»: non ci è noto il significato di questa iscrizione, ma forse si tratta dell’abbreviatura di un motto votivo-elogiativo, oppure della sigla dell’ingoto miniatore.

avvallare l’alto compito assegnato al patrizio prescelto.In ogni caso è chiaro che in origine questa splendida miniatura costituiva proprio l’antiporta del libro della commis-

sione ducale che vediamo in mano al doge. Mentre però la miniatura, asportata in passato dal volume a causa della sua bellezza, è poi fortunatamente pervenuta al Museo Correr, il libro con il testo della commissione risulta oggi purtroppo disperso.

Tuttavia nei preziosi registri ufficiali delle antiche magistrature della Serenissima - conservati all’Archivio di Stato di Venezia - si possono ritrovare fedeli trascrizioni di moltissime commissioni ducali: per datare la nostra miniatura sarebbe quindi sufficiente ricollegarla al testo della relativa commissione, che come detto doveva costituire un incarico del tutto eccezionale, connesso cioè con un importante avvenimento storico coinvolgente anche il papa e l’imperatore.

E che l’occasione fosse straordinaria lo confermano del resto, oltre alla particolarità della scena raffigurata, le stesse caratteristiche formali e dimensionali della miniatura, che la configurano nel suo genere come un hapax, per non dire un vero e proprio unicum: di regola, infatti, i libri delle commissioni ducali, e quindi anche i fogli miniati che ne costituivano antiporte e frontespizi, avevano un formato compreso tra i cm 21÷26 di altezza e i cm 14÷20 di larghezza, dimensioni mediamente inferiori, quindi, rispetto a quelle della nostra miniatura; e anche la sua struttura formale, con quella magni-fica edicola tutta dorata che inquadra prospetticamente una scena d’impostazione teatrale, si distacca nettamente dai tipici schemi tradizionalmente in uso nelle miniature delle commissioni veneziane del Cinquecento6.

6. La bibliografia sulla miniatura veneziana del Cinquecento è ormai abbastanza estesa e in particolare esistono vari saggi sull’ornamentazione miniata delle commissioni ducali: va peraltro rilevata la mancanza a tutt’oggi di un’opera approfondita e sistematica su quest’ultimo argomento; qui di seguito diamo comunque l’elenco dei principali studi da noi consultati: E.A. Cicogna, Commissione data dal doge di Venezia Leonardo Loredan a Jacopo Marin che nel 1519 andava podestà a Portogruaro, giuntevi notizie intorno le commissioni ducali [...], in Documenti storici inediti pertinenti alla città di Portogruaro, ivi 1851 (rist. anast., ivi 1982), in part. p. 9-27 (premessa Ai leggitori cortesi); C. Foucard, Della pittura sui manoscritti di Vene-zia, “Atti dell’Imp. Reg. Accademia di Belle Arti in Venezia”, 1857, p. 27-147; D.R. Bratti, Miniatori veneziani, “Nuovo Archivio Veneto”, n.s., 1 (1901), t. 2, p. 70-94; R. Bratti, Arte retrospettiva: miniature veneziane, “Emporium”, 25 (1907), p. 187-199; M. Levi D’Ancona, Miniature venete nella collezione Wildenstein, “Arte Veneta”, 10 (1956), p. 25-36, in part. p. 36; N. Borin, La miniatura a Venezia, “Giornale Economico”, 42 (1957), p. 111-114; M. Levi D’Ancona, Jacopo del Giallo e alcune miniature del Correr, “Bollettino dei Musei Civici Veneziani”, 7 (1962), n. 2, p. 1-23; G. Mariani Canova, La decorazione dei documenti ufficiali in Venezia dal 1460 al 1530, “Atti dell’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti” (Classe di scienze morali, lettere ed arti), 126 (1967-68), p. 319-334, tav. I-VII; G. Mariani Canova, Profilo di Benedetto Bordon miniatore padovano, “Atti dell’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti” (Classe di scienze morali, lettere ed arti), 127 (1968-69), p. 99-121, tav. I-XXI; M.A. Gukovsky, Un manoscritto veneziano del sec. XVI nella biblioteca dell’Ermitage di Leningrado, “Arte Veneta”, 33 (1969), p. 220-221; G. Mariani Canova, La minia-tura veneta del Rinascimento, 1450-1500, Venezia 1969; G.M. Zuccolo Padrono, Postilla attorno ad Alessandro Merli, “Arte Veneta”, 33 (1969), p. 221-223; G.M. Zuccolo Padrono, Miniature manieristiche nelle commissioni dogali del II° Cinquecento presso il Museo Correr, “Bollettino dei Mu-sei Civici Veneziani”, 14 (1969), n. 2, p. 4-18; G.M. Zuccolo Padrono, Il maestro “T°.Ve” e la sua bottega: miniature veneziane del XVI secolo, “Arte Veneta”, 25 (1971), p. 53-71; G.M. Zuccolo Padrono, Sull’ornamentazione marginale di documenti dogali del XVI secolo, “Bollettino dei Musei Ci-vici Veneziani”, 17 (1972), n. 1-2, p. 3-25; Miniature dell’Italia settentrionale nella Fondazione Giorgio Cini, a cura di G. Mariani Canova, Vicenza 1978, in part. p. 64-65, cat. 110-111, e p. 72-73, cat. ms.6-ms.7; Una città e il suo museo. Un secolo e mezzo di collezioni civiche veneziane, cat. del-la mostra (Venezia, 1988), a cura di M. Gambier, “Civici Musei Veneziani d’arte e di storia. Bollettino”, 30 n.s. (1986), n. 1-4, p. 147-159, schede

TEMpO E FATICA: L’ENIgMA DEL FRONTESpIzIO pALLADIANORENzO FONTANA STEFANO TOSATO

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Ordunque, volendo risalire al testo della commissione, dobbiamo partire dalle informazioni forniteci dalla nostra im-magine miniata: il che significa innanzitutto stabilire l’identità dei quattro personaggi che vi sono raffigurati.

L’elemento da cui prendere le mosse è ovviamente lo stemma, uno scudo d’oro a tre bande d’azzurro, in bella evidenza al centro del bas-de-page, il medesimo stemma è ripetuto in piccolo anche sulla coperta dorata del volumetto consegnato dal doge, anche se il miniatore, qui, ha tralasciato, o si è scordato, l’azzurro. Forma e colori rimandano senz’altro all’arma Contarini: l’identità del nostro personaggio andrà dunque cercata tra i componenti di quell’illustre famiglia veneziana. Che tuttavia, come le altre grandi casate lagunari, era articolata in parecchi rami e contava innumerevoli personaggi. Qua-le, dunque, tra i tanti, è il nostro Contarini?

E subito dopo: quali i nomi del papa, dell’imperatore e del doge ritratti nella miniatura?Il nostro prezioso foglio, quando entrò a far parte delle raccolte del Correr, per ragioni di conservazione venne protetto

racchiudendolo tra due piatti di cartoncino e su quello anteriore venne applicato all’esterno un cartiglio con la seguente dicitura dattiloscritta: «Miniatura di Commissione ducale, contemporanea e in rapporto alla Lega, del 1537 tra Venezia, l’Impero e la Santa Sede, contro i Turchi. - Rappresenta il Doge Andrea Gritti che, alla presenza dei suoi collegati Papa Paolo III° e Carlo V°, consegna a Gasparo Contarini il volume della Commissione. - / Gasparo Contarini, veneziano 1483-1542, illustre uomo di Stato, ambasciatore presso Carlo V° e presso la Curia romana e, infine, Cardinale».

Che in questa iniziale scheda di catalogazione qualche cosa non tornasse, dovette apparire evidente a Sinding-Larsen, il primo studioso a interessarsi - sia pure marginalmente - della nostra miniatura: egli infatti, accennandovi in una noterella del suo libro Christ in the Council Hall del 1974, pur concordando con la scheda museale nell’identificare due dei quattro personaggi nel doge Andrea Gritti e nel patrizio Gasparo Contarini, ritenne tuttavia di dover anticipare la data del do-cumento di circa un decennio, riferendolo all’incarico affidato a Contarini dal Senato veneto nel 1528 «as extraordinary envoy to the Holy See»7.

Il problema di cui forse si era accorto Sinding-Larsen è infatti che Gasparo Contarini - senz’altro una delle personalità più importanti nella Venezia della prima metà del Cinquecento e a quel tempo sicuramente l’esponente più illustre del suo casato8 - nel 1535 era stato inaspettatamente creato cardinale da papa Paolo III: egli dunque, in quanto cardinale di

IV.14-39 (di A. Dorigato); G. Mariani Canova, La miniatura a Venezia dal Medioevo al Rinascimento, in Storia di Venezia. Temi: l’arte, a cura di R. Pallucchini, II, Roma 1995, p. 769-843; L. Armstrong, Studies of Renaissance Miniaturists in Venice, London 2003; Dizionario biografico dei mi-niatori italiani, secoli IX-XVI, a cura di M. Bollati, Milano 2004.

7. S. Sinding-Larsen, Christ in the Council Hall. Studies in the religious iconography of the Venetian Republic (Acta ad Archeologiam et Artium Historiam pertinentia), Roma 1974, p. 178 nota 7 (anziché la sua segnatura, come riferimento per individuare la miniatura viene qui usato il nume-ro del vecchio negativo fotografico: «Mus. Correr, phot. 5696»).

8. La bibliografia su Gasparo Contarini è vastissima, ma citiamo i testi base: E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, II, Venezia 1827, p. 226-241, iscr. 5; G. De Leva, Della vita e delle opere del cardinale Gasparo Contarini, “Rivista periodica dei lavori della I.R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Padova”, 12 (1863), n. 23-24, p. 47-97; Regesten und Briefe des Cardinalis Gasparo Contarini (1483-1542), a cura di F. Dittrich, Braunsberg 1881; F. Dittrich, Gasparo Contarini, 1483-1542. Eine monographie, Braunsberg 1885; O. Ferrara, Gasparo Contarini et ses missions, Paris 1956;

Santa Romana Chiesa, nel 1537 non avrebbe potuto ricevere alcun incarico ufficiale dalla Repubblica di Venezia; infatti - e a conferma - il Contarini effigiato nella miniatura non presenta né abito, né attributi cardinalizi.

Perciò, tenendo per fermo che si trattasse di Gasparo Contarini e considerato che questi nel 1528 venne effettivamente inviato dalla Serenissima quale ambasciatore (invero stabile, cioè “ordinario” e non “straordinario”) presso la Santa Sede9, Sinding-Larsen ipotizzò che la miniatura si riferisse alla commissione consegnata a Gasparo in quella occasione; peraltro questa ipotesi implicherebbe che il papa rappresentato nell’immagine miniata debba essere riconosciuto non più in Paolo III, salito al soglio pontificio nel 1534, bensì nel suo predecessore Clemente VII, papa sin dal 1523; invece gli altri due personaggi si riconfermerebbero in Carlo V, imperatore dal 1519 ma incoronato ad Aquisgrana nel 1520, e in Andrea Gritti, che fu doge di Venezia dal 1523 al 1538.

Nel 1984 Lionello Puppi, nel contesto di un suo saggio dedicato all’iconografia del doge Gritti, prendendo in con-siderazione accanto ai famosi ritratti di Tiziano, Tintoretto e di altri artisti (nonché a varie sculture e medaglie), anche la nostra miniatura, la definiva «Commissione del 1528 a Gasparo Contarini», accogliendo dunque l’interpretazione del Sinding-Larsen, e ne ribadiva l’«eccezionalità entro la tradizione iconografica di siffatti documenti», pubblicandone una riproduzione integrale in bianco e nero10.

In seguito, la miniatura fu riprodotta in altri libri (sia nella sua interezza sia parzialmente, in bianco e nero o a colori), ma in realtà per semplice scopo ornamentale e talvolta con l’aggiunta di insostenibili didascalie11.

G. Fragnito, Contarini, Gasparo, voce del Dizionario biografico degli italiani (d’ora in poi: DBI), 28, Roma 1983, p. 172-192; G. Fragnito, Gaspa-ro Contarini, un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988; Gaspare Contarini e il suo tempo, atti del convegno (Venezia, 1985), a cura di F. Cavazzana Romanelli, Venezia 1988; E.G. Gleason, Gasparo Contarini. Venice, Rome, and Reform, Oxford 1993.

9. Gasparo Contarini fu ambasciatore ordinario della Repubblica di Venezia presso il papa Clemente VII dal giugno 1528 al febbraio 1530. Il te-sto della commissione ducale, datato 23 maggio 1528, si legge in Archivio di Stato di Venezia (d’ora in poi: ASVe), Senato, Deliberazioni, Secreti, reg. 53, c. 41r-43v; le lettere autografe inviate da Contarini al Senato durante la legazione (dal 27 maggio 1528 al 5 novembre 1529) si conservano, rile-gate in un grosso volume, alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia (d’ora in poi: BNMVe), mss. it. VII, 1043 (=7616); la relazione finale del-l’ambasceria, letta da Contarini in Senato l’8 marzo 1530, si conserva in numerose trascrizioni manoscritte (ad esempio in BNMVe, mss. it. VII, 899 (=8845), c. 1-12; o in BMCVe, Archivio Morosini-Grimani, ms. 379, c. 1-8) ed è già stata pubblicata in Relazioni degli ambasciatori al Senato, edite da E. Albèri, s. II, vol. III, Firenze 1846, p. 255-274.

10. L. Puppi, Iconografia di Andrea Gritti, in “Renovatio urbis”. Venezia nell’età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di M. Tafuri, Roma 1984, p. 216-235: sulla miniatura, p. 224, 233 note 43-44, e fig. 6: «Anonimo miniatore, Commissione a Gasparo Contarini (Venezia, Museo Correr)».

11. Cfr. Venezia e la Germania, Milano 1986, p. 142, fig. 144 (riproduzione integrale in bianco e nero), la didascalia recita: «Miniatore anoni-mo, Commissione a Gasparo Contarini. Venezia, Museo Correr»; Venezia e la Spagna, Milano 1988, p. 13, fig. 5 (bella riproduzione integrale a colori), didascalia a p. 12: «Il doge Andrea Gritti consegna a Gasparo Contarini - ambasciatore presso Carlo V dal 1521 al 1528 - il volume della Commissione Ducale alla presenza degli alleati papa Sisto V e l’imperatore Carlo V. Venezia, Biblioteca del Museo Correr»: in realtà Gasparo Contarini fu ambasciatore veneto presso Carlo V dal 1521 al 1525 (vedi sotto, nota 22) e poi di nuovo durante la pace di Bologna, tra l’ottobre 1529 e il febbraio 1530, men-tre Sisto V fu papa negli anni 1585-90, quando ormai il Gritti, Contarini e Carlo V erano scomparsi da decenni; F. Gligora-B. Catanzaro, Storia dei papi e degli antipapi da San Pietro a Giovanni Paolo II, S.l. 1989, II, p. 848, fig. [a] (riproduzione parziale in bianco e nero), didascalia: «Il doge Andrea Gritti consegna a Gaspare Contarini il volume della Commissione Ducale alla presenza di Sisto V e Filippo di Spagna. Venezia, Biblioteca

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A questo punto tuttavia dobbiamo osservare che anche l’interpretazione di Sinding-Larsen, per più ragioni, costituisce di fatto un’ipotesi non sostenibile: infatti, l’immagine dell’imperatore Carlo V sull’antiporta miniato della commissione di un oratore veneto inviato alla corte papale è priva di giustificazioni.

Perché è vero che risulta oggi disperso il volume originale della commissione, consegnato a Gasparo Contarini il 23 maggio 1528 alla vigilia della sua partenza per Orvieto (dove il papa Clemente VII era riparato all’indomani del Sacco di Roma del 1527), ma, fortunatamente, di quella commissione si conserva la fedele trascrizione in un registro dell’antico Senato veneto12.

Ebbene, nel documento sono elencati i compiti che Contarini avrebbe dovuto svolgere quale ambasciatore ordinario presso la Santa Sede: trattare della delicatissima questione della recente occupazione veneta delle città pontificie di Raven-na e Cervia, che il papa intendeva gli venissero assolutamente restituite e Venezia invece voleva conservare; e convincere il papa ad aderire alla «liga» antimperiale, che avrebbe visto gli stati italiani, la Francia e l’Inghilterra coalizzati contro Carlo V, al fine di scongiurare il pericolo di un predominio spagnolo in Italia.

Come si vede, la contraddizione tra il contenuto di questa commissione - che lascia intravedere accese controversie fra il doge, il papa e l’imperatore - ed il messaggio visivo trasmesso dalla miniatura - che viceversa dà l’idea di una perfetta unità d’intenti fra le medesime autorità - non potrebbe essere più stridente, e induce necessariamente a escludere ogni legame tra i due documenti.

Del resto nel 1994 Gaetano Cozzi, proprio ragionando intorno al messaggio visivo della nostra miniatura nel preambo-lo di un suo rilevante contributo sulla storia di Venezia dal Rinascimento al Barocco, ritenne opportuno posticipare la data del foglio «verso il finire del 1529», allorquando cioè lo stesso Gasparo Contarini, all’epoca ancora oratore veneto presso la curia pontificia, veniva inviato dalla Serenissima «a rappresentarla a Bologna dove, dopo tanti anni di guerre, si sarebbe finalmente negoziata la pace tra la Repubblica, il papa Clemente VII e l’imperatore Carlo V»13.

Cozzi pensava infatti che la particolare disposizione dei personaggi rappresentati nella miniatura - ove «l’imperatore e

del Museo Correr»: oltre a quanto già notato su Sisto V, si aggiunga che Gritti e Contarini erano già scomparsi da quindici anni quando, nel 1556, Filippo II diventò imperatore, avendo il padre Carlo V abdicato in suo favore; Storia di Venezia, dalle origini alla caduta della Serenissima, IV: Il Ri-nascimento. Politica e cultura, a cura di A. Tenenti-U. Tucci, Roma 1996, p. 779, fig. 7 (riproduzione parziale a colori): «Particolare della commis-sione del doge Andrea Gritti a Gasparo Contarini. 1537. Venezia, Museo Correr, ms. cl. III. 1099 (Foto Böhm, Venezia)»: in questo caso sono stati semplicemente riproposti i dati della scheda museale; inoltre è ovviamente possibile, per non dire probabile, che la miniatura sia stata riprodotta an-che in altre pubblicazioni.

12. Vedi sopra, nota 9.13. G. Cozzi, Venezia dal Rinascimento all’Età barocca, in Storia di Venezia, VI: Dal Rinascimento al Barocco, a cura di G. Cozzi-P. Prodi, Ro-

ma 1994, p. 3-125: p. 3. Sulle complesse trattative della pace di Bologna e sul ruolo svolto in quell’occasione da Gasparo Contarini, costituisce an-cora referenza fondamentale la dettagliata cronistoria scritta a suo tempo dal futuro doge Nicolò Da Ponte (1491-1585), ma pubblicata soltanto nel-l’Ottocento: cfr. N. Da Ponte, Maneggio della pace di Bologna, tra Clemente VII, Carlo V, la Repubblica di Venezia e Francesco Sforza, 1529, in Rela-zioni degli ambasciatori, p. 141-253.

il doge figuravano sullo stesso piano, rispettivamente a destra e sinistra del papa, il quale, assiso su di un trono, sovrastava nettamente sia l’uno che l’altro» - rendesse questa immagine «emblematica» della concezione della Serenissima circa i mu-tui rapporti di potere tra il pontefice, cui senza dubbio «toccava il primo posto», e l’imperatore e il doge, collocati invece più in basso, ma entrambi su un «ideale piano di parità»: o meglio questa, secondo l’interpretazione di Cozzi, era proprio quella ideale gerarchia tra i poteri che Venezia - inviando appunto in sua rappresentanza l’esperto ambasciatore Gasparo Contarini - auspicava venisse riconfermata al congresso di Bologna, salvo poi restarne parecchio delusa, visto che in quella sede le clausole della «pace d’Italia» furono stabilite essenzialmente dal papa e dall’imperatore14.

Secondo Cozzi, insomma, la nostra miniatura in origine «ornava la commissione membranacea che Gasparo Contarini recava con sé» mentre si portava all’incontro di Bologna in nome della Repubblica di Venezia15.

In effetti, una ducale del 22 ottobre 1529, ordinava a Gasparo Contarini, allora a Rimini al seguito del papa nella tappa di avvicinamento al capoluogo emiliano, di partecipare all’imminente «convento di Bologna» col ruolo appunto di rap-presentante ufficiale della Serenissima16. Quella ducale era accompagnata da alcuni importanti documenti, che servivano proprio a conferire una piena ufficialità alla missione: vi erano allegate infatti le lettere «credenziali» da presentare all’im-peratore ed inoltre una «instructione» ad uso dello stesso ambasciatore, dov’erano riassunte le direttive cui doveva attenersi nelle trattative e le condizioni stabilite nel precedente trattato di pace del 1523; però il principale allegato - sempre in data 22 ottobre 1529, ma scritto in latino e sottoscritto dal doge in persona - era il vero e proprio «mandato [...] exteso in ampla et opportuna forma», con cui si investiva ufficialmente l’oratore Gasparo Contarini del potere di «trattar et concluder essa pace» in Bologna per conto della Repubblica di Venezia17.

Com’è ovvio la nostra miniatura avrebbe dovuto ornare quest’ultimo documento: si dà il caso però che proprio questo «mandato» sia oggi conservato in originale all’interno di quella curiosa collezione di atti con firme autografe di dogi, messa assieme nell’Ottocento da quell’infaticabile raccoglitore di manoscritti che fu Emmanuele Antonio Cicogna18.

Ebbene, questo documento non consiste in un volume, bensì in un unico foglio rettangolare in pergamena di cm 34x47, col testo latino scritto in orizzontale soltanto su una facciata e firmato in calce di pugno del doge Andrea Gritti, mentre sull’altra facciata è segnato il monogramma del cancelliere ducale, che era allora Nicolò Sagandino; il foglio si

14. Cozzi, Venezia dal Rinascimento, p. 3-sg.15. Ivi, p. 7.16. Il testo della ducale si conserva trascritto in ASVe, Senato, Deliberazioni, Secreti, reg. 53, c. 218r-219v.17. I testi del «mandato» e della «instructione» allegati alla ducale sono trascritti di seguito a quest’ultima in ivi, c. 219v-220v.18. BMCVe, ms. Cicogna, 3797/26. Nelle sue ampie raccolte il Cicogna conservava inoltre, sempre in originale, trenta lettere ducali - tra cui

quella accompagnatoria del nostro «mandato» - inviate negli anni 1528-30 a Gasparo Contarini ambasciatore a Roma: purtroppo però tali lettere risultano oggi disperse (cfr. ivi, ms. Cicogna 3477/4, ove mancano appunto i numeri 1-30); lo stesso Cicogna ne aveva riassunto il contenuto e tra-scritto alcuni passi in un fascicoletto di poche pagine intitolato Sunto e brani di alcune ducali scritte dal 27 luglio 1528 al 21 gennaio 1529 (1530) al-l’ambasciatore veneto in Roma Gasparo Contarini (ivi, ms. Cicogna 2989/4).

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presenta oggi più volte ripiegato, ma forse in origine veniva chiuso a rotolo: in ogni caso vi era legato con una cordicella il tipico sigillo ducale in piombo, andato poi purtroppo perduto19.

Ora, è facile capire che la nostra miniatura, originariamente inserita a far da antiporta nel volume di una commissione ducale, risulta essere assolutamente incompatibile, per dimensioni e per formato, con il mandato spedito a Contarini20: insomma, è oggettivamente impossibile che i due documenti potessero andare in qualche modo uniti assieme.

E dunque, anche la suggestiva interpretazione del Cozzi viene a scontrarsi con un ostacolo insormontabile.In sostanza tutte le ipotesi sulla miniatura avanzate sino ad oggi, e quindi anche le relative datazioni al 1537, 1528 e

1529, di fatto non reggono alla prova dei documenti: come superare l’impasse?Il problema in realtà è che finora - sulla scia della vecchia scheda museale - tutti gli studiosi hanno dato per scontato che

il Contarini della miniatura fosse il celebre Gasparo21: ma le contraddizioni sin qui evidenziate depongono decisamente a sfavore di questa identificazione, alla quale poi si oppongono due ulteriori motivazioni.

Innanzitutto, se è vero che la famiglia di Gasparo aveva come stemma quello “base” dei Contarini che ritroviamo nella miniatura - cioè uno scudo d’oro a tre bande d’azzurro, come sopra ricordato - è però altrettanto vero che egli nel 1525, rientrando in patria dopo aver svolto per cinque anni l’incarico di oratore veneto presso Carlo V22, poteva fregiare il suo stemma personale dell’aquila imperiale: è noto infatti che la Serenissima «permetteva agli ambasciatori d’innestare nelle

19. Nella parte conclusiva del testo è scritto espressamente che il mandato, oltre alla firma autografa del doge («manus proprie subscriptione»), do-veva anche essere munito del tipico sigillo ducale in piombo («bulla nostra plumbea pendente»): ancor oggi infatti sul margine ripiegato della perga-mena si notano i due piccoli fori ov’era legata la cordicella con il sigillo appeso.

20. A rigore si deve qui precisare che il 22 novembre 1529 venne inviato a Gasparo Contarini un secondo mandato ufficiale in sostituzione del primo, poiché i rappresentanti del papa e dell’imperatore avevano richiesto per l’appunto una «reformation del mandato», cioè alcune modifiche al suo testo: di questo secondo mandato, e della ducale accompagnatoria, ne conserviamo oggi la fedele trascrizione (in ASVe, Senato, Deliberazioni, Se-creti, reg. 53, c. 230v-232r), ma non il documento originale spedito a Contarini, e tuttavia non v’è alcuna ragione per ritenere che le sue caratteristi-che formali e dimensionali fossero diverse da quelle del mandato primitivo. Com’è ovvio fu poi il secondo mandato ad essere trascritto, assieme alle altre analoghe procure, in allegato al documento finale della pace di Bologna (23 dicembre 1529), controfirmato dai rappresentanti del papa, dell’im-peratore, del re d’Ungheria, del duca di Milano e della Repubblica di Venezia: cfr. ASVe, Secreta-Miscellanea atti diplomatici e privati, b. 55, n. 1787 e 1790 (al n. 1794, quietanza di Carlo V a Gasparo Contarini, rilasciata a Bologna il 16 gennaio 1530: cfr. ASVe, Aspetti e momenti della diplomazia veneziana, cat. della mostra documentaria, Venezia 1982, p. 56-57, scheda 158).

21. Nel marzo del 2004 in una saletta del Museo Correr furono esposte al pubblico alcune miniature di commissioni ducali, tra cui anche la nostra, che in quella occasione era accompagnata dalla seguente didascalia: «Miniatura di commissione del doge Andrea Gritti [Biblioteca del Mu-seo Correr, ms. Classe III, 1099] / Il doge Andrea Gritti, alla presenza di Papa Paolo III e l’imperatore Carlo V, consegna il libro al destinatario del-la commissione»: non venne qui precisata l’identità del destinatario, forse perché ci si accorse delle difficoltà che impediscono di riconoscerlo in Ga-sparo Contarini.

22. Gasparo Contarini fu ambasciatore ordinario della Repubblica di Venezia presso l’imperatore Carlo V dal marzo 1521 al luglio 1525. Le let-tere autografe inviate da Contarini al Senato durante la legazione (dal 23 marzo 1521 al 28 luglio 1525) si conservano, rilegate in un grosso volume, in BNMVe, mss. it. VII, 1009 (=7447); la relazione finale dell’ambasceria, letta da Contarini in Senato il 16 novembre 1525, è stata pubblicata in Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, raccolte, annotate ed edite da E. Albèri, s. I, vol. II, Firenze 1840, p. 9-73.

proprie arme gentilizie quelle della casa sovrana, presso la quale aveano risieduto»23. Al contrario lo stemma Contarini della miniatura non presenta l’aquila: se si trattasse veramente di Gasparo, l’assenza di tale simbolo araldico risulterebbe molto strana e ciò a maggior ragione in una immagine ufficiale in cui è raffigurato Carlo V in persona.

In secondo luogo la fisionomia del Contarini effigiato nella miniatura - dal viso allungato e il naso a goccia, la barba folta e i lunghi capelli scompartiti da una riga centrale con l’attaccatura bassa sulla fronte - appare molto diversa da quella ben nota di Gasparo - dal volto ossuto e il naso robusto, la barba e i capelli ricci, ma fortemente stempiato e con un ciuffo solitario al centro sopra l’ampia fronte -, quale possiamo vedere ad esempio nel busto marmoreo scolpito per volontà dei suoi nipoti attorno al 1563 (cioè una ventina d’anni dopo la morte del cardinale) e collocato sulla sua tomba nella cappella di famiglia nella chiesa della Madonna dell’Orto a Venezia24.

A questo punto, con ogni ragionevolezza, sembra opportuno dover svincolare la nostra miniatura dalla pur carismatica figura di Gasparo Contarini, e ricercare un altro autorevole personaggio, appartenente al medesimo casato, che in quello stesso torno d’anni abbia ricevuto una commissione ducale di straordinaria rilevanza.

Esclusi ben presto alcuni nomi per cause oggettive25. la nostra attenzione si è dapprima rivolta ad un Marcantonio

23. F. Mutinelli, Lessico veneto, Venezia 1851, p. 24, sub voce «Ambasciatori». Una conferma della presenza dell’aquila imperiale nello stemma di Gasparo Contarini ci viene dall’albero di famiglia riportato nelle famose genealogie venete di Barbaro-Tasca (cfr. ASVe, Miscellanea Codici, I, Sto-ria veneta, reg. 18: M. Barbaro-A.M. Tasca, Arbori de’ patritii veneti, 2, p. 466), dove infatti accanto al nome del cardinale è disegnato il suo stemma personale, che presenta l’arma base di famiglia inserita sul petto di un’aquila a due teste e ad ali spiegate, a sua volta sormontata dal tipico cappello cardinalizio: le dignità dell’aquila bicipite e del cappello cardinalizio vennero conseguite da Gasparo rispettivamente nel 1525 e nel 1535.

24. Sul busto di Gasparo Contarini, attribuito dapprima ad Alessandro Vittoria e poi a Danese Cattaneo ma in effetti di autore ignoto, cfr. T. Martin, Alessandro Vittoria and the portrait bust in Renaissance Venice. Remodelling antiquity, New York 1998, p. 158, cat. 69, e tav. 142. La fisiono-mia di Contarini nel busto trova piena conferma in altri ritratti cinquecenteschi di Gasparo, ad esempio nella bella miniatura disegnata entro clipeo nel codice marciano Origine delle famiglie nobili venete risalente al settimo decennio (BNMVe, mss. it. VII, 105 (=7732), c. 12v), oppure nel dipinto di fine secolo - ma desunto da un originale della celebre galleria di ritratti costituita dallo storico Paolo Giovio (1483-1552) nella sua villa sul lago di Como - già appartenuto ai patrizi Emo di Venezia ed oggi conservato al Museo Civico di Padova (La quadreria Emo Capodilista. 543 dipinti dal ‘400 al ‘700, testi di D. Banzato, Roma 1988, p. 94, cat. 125), o ancora nella nota incisione seicentesca (riprodotta ad esempio in Storia di Venezia, IV, p. 783, fig. 8) dovuta al fiammingo Franz van den Wyngaerde (1614-1669), che disegnò un volto talmente caratterizzato da far supporre una sua de-rivazione da un ritratto autentico di Contarini.

25. Sono stati presi in considerazione, e presto esclusi, i seguenti patrizi appartenenti a diversi rami del casato Contarini: un fratello di Gasparo di nome Tommaso (ca.1488-1578), eletto nel novembre 1534 ambasciatore a Carlo V: questi però non era ancora partito quando, nell’ottobre 1535, rinunciò all’incarico per incompatibilità con la recente nomina del fratello a cardinale, e pertanto non ricevette alcuna commissione (su di lui, vedi Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, II, p. 241-242, iscr. 6; R. Derosas, Contarini, Tommaso, in DBI, 28, p. 300-305; un suo ritratto, contrastan-te col volto della miniatura, è nel busto del Vittoria collocato sulla sua tomba nella cappella di famiglia alla Madonna dell’Orto: cfr. Martin, Ales-sandro Vittoria, p. 133-135, cat. 32, e tav. 98); quindi un Francesco (1477-1558), ambasciatore presso Carlo V negli anni 1540-41: ma questi, espo-nente del facoltoso ramo Contarini di S. Trovaso detti «dai Scrigni», aveva ereditato dal padre Zaccaria - già ambasciatore al re di Francia Carlo VIII e poi all’imperatore Massimiliano I - anche uno stemma inquartato e caricato di aquile e gigli, cioè ben diverso da quello della miniatura (vedi M. Barbaro-A.M. Tasca, Arbori de’ patritii veneti, 2, p. 454-455; comunque, su costui cfr. G. Gullino, Contarini, Francesco, in DBI, 28, p. 161-164);

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Contarini (ca.1485-1546), che svolse l’incarico di ambasciatore ordinario presso l’imperatore negli anni 1531-36 e poco dopo presso il papa negli anni 1537-3926: fu infatti proprio questo Contarini a sottoscrivere per conto della Serenissima gli atti ufficiali di formazione della cosiddetta “Lega Santa”, la famosa coalizione costituita a Roma l’8 febbraio 1538 tra il papa Paolo III, l’imperatore Carlo V e la Repubblica di Venezia, al fine dichiarato di intraprendere congiuntamente una guerra difensiva ed offensiva contro il principale nemico dell’occidente cristiano, ovverosia il sempre più aggressivo impero ottomano27.

L’ipotesi che in origine la nostra miniatura avesse decorato una speciale commissione ducale consegnata a Marcantonio Contarini, per investirlo appunto dell’autorità di rappresentare la Serenissima nell’occasione della formazione della Lega Santa, in effetti sembrava corrispondere molto bene alla surriferita descrizione contenuta nella vecchia scheda museale: basterebbe infatti sostituirvi il nome del Contarini - Marcantonio anziché Gasparo. L’anno 1537 risulterebbe infatti cor-retto, a maggior ragione se inteso more veneto, cioè includente i primi due mesi del 1538.

Sennonché, a ben vedere, anche per Marcantonio sussistono esattamente le stesse difficoltà già incontrate per Gaspa-ro.

In primo luogo infatti - proprio come Gasparo alla pace di Bologna del 1529 - anche Marcantonio Contarini, in quan-to oratore veneto accreditato presso il papa sin dal gennaio 1537, nel febbraio 1538 potè sottoscrivere gli atti costitutivi della Lega in virtù dello specifico «mandato amplo», e della connessa «instruttione», speditigli a Roma da Venezia il 19 ot-tobre 1537 quali allegati di una normale lettera ducale28: egli dunque in quella circostanza non ricevette una nuova speciale

infine un Alessandro (1486-1553), che durante la guerra della Lega Santa contro i turchi del 1538-39 fu nominato capitano generale da mar della flotta veneziana: ma anche quest’ultimo va escluso, perché il Contarini della miniatura non indossa né le vesti, né gli attributi propri di quella carica militare ed inoltre presenta uno stemma e una fisionomia in contrasto con il blasone e il busto di Alessandro visibili nel r mmaaggio è o non porta a della ralcio circolare suo artistico monumento sepolcrale eretto nel 1555-58 nella basilica del Santo a Padova, dove lo stemma in particolare mostra l’arma base di famiglia incorniciata da un ramoscello circolare da cui spuntano alcune foglie, il tutto inserito al centro di uno scudo che nella simbo-logia araldica apparirebbe dorato (sull’importante monumento, con il busto dovuto a Danese Cattaneo, cfr. Le sculture del Santo a Padova, a cura di G. Lorenzoni, Vicenza 1984, p. 226-227, fig. 298; C. Davis, Il monumento Contarini al Santo di Padova, in Michele Sanmicheli. Architettura, lin-guaggio e cultura artistica del Cinquecento, a cura di H. Burns, C. L. Frommel, L. Puppi, Milano 1995, p. 180-195 e 306-313; M. Rossi, La poesia scolpita. Danese Cattaneo nella Venezia del Cinquecento, Lucca 1995, p. 143-145; Martin, Alessandro Vittoria, p. 36-39 e tav. 43; sul personaggio, in ogni modo, cfr. A. Baiocchi, Contarini, Alessandro, in DBI, 28, p. 72-74).

26. Su questo Marcantonio Contarini, detto il “filosofo”, uno dei più colti ed autorevoli ambasciatori e rettori veneti della prima metà del Cin-quecento, cfr. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, VI, 1853, p. 307-308, nota 5; A. Ventura, Contarini, Marcantonio, in DBI, 28, p. 237-241.

27. Le copie ve:neziane degli atti ufficiali costitutivi della Lega Santa, redatte su pergamene di grande formato ed autenticate con le firme e i si-gilli dei rappresentanti delle potenze cristiane collegate - tra cui appunto l’oratore veneto Marcantonio Contarini, che vi si qualifica come cavalie-re («eques»), titolo ottenuto nel 1536 al termine dell’ambasceria presso Carlo V (Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, VI, p. 307, nota 5; Ventura, Contarini, Marcantonio, p. 240) -, si conservano oggi in ASVe, Secreta-Miscellanea atti diplomatici e privati, b. 57, n. 1827 e 1828 (al n. 1826, co-pia cartacea).

28. I testi della ducale accompagnatoria e della «instruttione», senza però quello del «mandato», sono trascritti in ASVe, Senato, Deliberazioni,

commissione confezionata in forma di volume, bensì appunto solamente un «mandato», cioè un documento consistente, di regola, in un unico foglio membranaceo di grande formato, incompatibile quindi con la nostra miniatura.

Inoltre sin dal 1536 anche Marcantonio, conclusa a sua volta una quinquennale ambasceria presso Carlo V, poté fre-giare il suo blasone personale dell’aquila imperiale, in questo caso inscrivendola in piccolo al centro della solita arma base dei Contarini29 lo possiamo constatare, infatti, osservando quel suo vistoso ed elegante stemma in pietra esistente sulla facciata del palazzo del podestà di Padova, nello spigolo sporgente verso piazza delle Erbe, postovi quasi a sigillo della ra-pida ricostruzione cinquecentesca dell’edificio promossa appunto da Marcantonio quale podestà della città euganea negli anni 1539-4130. Ma allora, se questi fosse stato proprio il Contarini che cerchiamo, perché nel bas-de-page della miniatura - che dovremmo datare al 1537 - non ritroviamo la medesima insegna con l’aquila inscritta?

Disponiamo infine di un paio di ritratti di Marcantonio, raffigurati in due medaglie commemorative risalenti al 1530 e al 154031: vi riconosciamo - soprattutto nell’effige più tarda, particolarmente accurata nella caratterizzazione fisionomica realistica piuttosto che idealizzata del personaggio - un volto ben diverso da quello del Contarini ritratto nella miniatura, sia per la totale assenza della barba, sia per i lineamenti più robusti e rotondeggianti, gli occhi piccoli e il naso corto.

Anche per Marcantonio sembra dunque preclusa la possibilità di un’identificazione con il nostro misterioso Contari-ni.

Insomma, siamo ritornati di nuovo al punto di partenza. Sospendiamo per il momento la ricerca del Contarini e consideriamo le altre tre personalità, allo scopo di verificare

sino a che punto sia accettabile l’identificazione dell’imperatore in Carlo V, del papa in Paolo III e del doge in Andrea Gritti, secondo la lettura che ci viene proposta dalla vecchia scheda museale.

È vero che non è possibile pretendere dai piccoli volti raffigurati in una miniatura - necessariamente approssimativi, per quanto accurati - una perfetta aderenza alle fattezze dei personaggi reali, tanto più che l’ignoto miniatore sicuramente disegnò quei visi non ritraendoli dal vero, ma ispirandosi a stampe allora circolanti con i ritratti (spesso poco affidabili) di quelle illustri personalità, e magari completando poi le figure in base a notizie risapute e semmai con un po’ di fantasia.

Se dunque in un ritratto, particolarmente nel caso della miniatura, la fisionomia del personaggio generalmente non può costituire una prova sufficiente per una sua sicura identificazione, la maggiore o minore congruenza tra un volto miniato e i ritratti certi di un dato personaggio mantiene comunque un valore, se non dimostrativo, per lo meno indicativo.

Per Carlo V, Paolo III e Andrea Gritti a dire il vero disponiamo di un’iconografia sin troppo ricca e variata, al punto che

Secreti, reg. 58, c. 74r-75v.29. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, VI, p. 307, nota 5; Ventura, Contarini, Marcantonio, p. 240.30. L’iscrizione del cartiglio posto sotto allo stemma recita infatti: «M. ANT. CONTAREN. EQ. / praetor incredibili / celeritate a funda-

mentis / excitavit / MDXLI».31. Le due medaglie sono riprodotte e schedate in P. Voltolina, La storia di Venezia attraverso le medaglie, Venezia Mestre 1998, I, p. 324-325,

n. 277 (anno 1530), e p. 366, n. 317 (anno 1540).

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talvolta risulta persino difficile riconoscere il medesimo personaggio nei numerosi ritratti che lo raffigurano.Tuttavia, per quanto riguarda Carlo V e Paolo III, se ci limitiamo a considerare alcune effigi a stampa risalenti al quarto

decennio del Cinquecento - per l’imperatore si veda soprattutto la bella incisione di Barthel Beham del 153132, oppure la splendida silografia di Giovanni Britto databile al 1532-3333, entrambe poi riprese in incisioni di Agostino Veneziano degli anni 1535-3634; e per il papa, particolarmente un’incisione del 1536 che lo ritrae con la tiara, eseguita dallo stesso Agostino Veneziano35, ma forse desunta anch’essa da un stampa di poco precedente -, si deve riconoscere che vi sono delle notevoli affinità tra questi ritratti e i volti dell’imperatore e del papa rappresentati nella miniatura: dove appunto Carlo V compare con un viso un po’ idealizzato che ne attenua il famoso prognatismo, ma al contempo ne riproduce fedelmente «barba e capelli biondi tendenti al rossiccio»36, mentre Paolo III esibisce quel suo robusto naso leggermente aquilino, quel-le sopracciglia marcate e quella lunga barbetta bianca che ritroviamo anche, ad esempio, nel celeberrimo ritratto di questo papa eseguito da Tiziano nel 1543 ed oggi esposto alle Gallerie Nazionali di Capodimonte a Napoli37.

Diverso è invece il discorso per il doge Gritti: infatti l’abbondante iconografia di cui disponiamo38, sia pur con una

32. Cfr. H.E. Wethey, Tiziano ed i ritratti di Carlo V, in Tiziano e Venezia (convegno internazionale di studi, Venezia, 1976), Vicenza 1980, p. 287-291: p. 289 e fig. 152.

33. Cfr. P. Dreyer, Tizian und sein Kreis: 50 venezianische Holzschnitte aus dem berliner Kupferstichkabinett Staatliche Museen Preussischer Kultur-besitz, Berlin [1971], p. 49, cat. 15, e fig. 15; Tiziano e la silografia veneziana del Cinquecento, (catalogo della mostra, Venezia, 1976), a cura di M. Muraro-D. Rosand, Vicenza 1976, p. 121, cat. 57, e fig. 57. La silografia del Britto è datata «verso il 1536» dal Wethey, Tiziano ed i ritratti, p. 289, ma anticipata al 1532-33 da K. Oberhuber, Titian woodcuts and drawings: some problems, in Tiziano e Venezia, p. 523-528: p. 525-526 e 528, che la ritiene precedente e modello dei due ritratti di Carlo V incisi da Agostino Veneziano nel 1535 e 1536 (vedi nota seguente).

34. Incisioni riprodotte in The illustrated Bartsch, 27, formerly volume 14 (part 2): the works of Marcantonio Raimondi and of his school, a cura di K. Oberhuber, New York 1978, p. 172, n. 499 (incisione del 1536, che riprende in controparte quella del Beham del 1531), e p. 197-198, n. 524-I-II (due incisioni, del 1535 e 1536, che riprendono la silografia del Britto del 1532-33, la seconda incisione con l’aggiunta della corona imperiale).

35. Incisione riprodotta in ivi, p. 196, n. 523.36. Wethey, Tiziano ed i ritratti, p. 289. Va qui osservato che Carlo V in tutti i suoi ritratti ufficiali indossa sempre «il collare dell’Ordine Borgo-

gnone del Vello d’Oro» (ivi, p. 287), che sembrerebbe invece mancargli nella nostra miniatura: in realtà, guardandola bene si nota che l’imperatore vi indossa due collane d’oro, una più lunga con appeso un medaglione rosso, ed una un po’ più corta, alla quale appunto con ogni probabilità era appeso il Toson d’Oro, oggi purtroppo scomparso perché la miniatura proprio in questo punto presenta un’abrasione che ha causato una perdita di colore.

37. Cfr. P. Rossi, Ritratto di Paolo III, in Tiziano, cat. della mostra (Venezia-Washington, 1990), Venezia 1990, p. 246, cat. 34, fig. a p. 247.38. Per una rassegna, volutamente non esaustiva, di dipinti, sculture e medaglie con l’effige grittiana, cfr. Puppi, Iconografia di Andrea Gritti. Ri-

trattini del Gritti, in verità generici, ci sono poi nel citato codice marciano del secondo Cinquecento Origine delle famiglie nobili venete, a c. 28v, e nell’opera di F. Manfredi, Il ritratto della città di Venetia e l’effigie di tutti li dogi, Venezia 1598; un’effige un po’ più attendibile - perché desunta dal ritratto ufficiale eseguito da Domenico Tintoretto per la sala del Maggior Consiglio in palazzo ducale (su cui cfr. U. Franzoi, Storia e leggenda del pa-lazzo ducale di Venezia, Venezia 1982, p. 248, scheda. 375,XXV,36F, e p. 455, fig. [b]) - è nell’incisione edita in F. Macedo, Elogia poetica in Serenissi-mam Rempublicam Venetam, Patavii 1680, c. 88v, che a sua volta fu imitata nella litografia di Antonio Nani inserita nell’opera Storia dei dogi di Vene-zia corredata dei 120 ritratti de’ medesimi, Venezia 1857, II, n. 77 (ora riprodotta anche in C. Rendina, I dogi, storia e segreti, Roma 1984, p. 285).

certa flessibilità nell’interpretazione fisionomica del personaggio39, ci mostra sempre - immancabilmente - un uomo vigo-roso ed energico40, dal volto fiero e severo, con gli occhi piccoli ma vivacissimi nel piglio penetrante dello sguardo, e con una barba bianchissima tenuta corta e uniforme lungo la mandibola, da orecchio ad orecchio41; insomma, un’immagine veramente molto lontana da quella offertaci dalla miniatura, dove si vede un vecchio doge ricurvo su sé stesso, pallido in volto, con i grandi occhi stanchi, le sopracciglia ondulate ed una lunga barba grigia.

È vero che il Gritti morì vecchio di ottantatré anni nel 1538, ma pure i suoi ritratti più tardi sostanzialmente ne ripeto-no l’immagine consueta42: sicché, anche ammettendo che la miniatura risalga agli anni estremi della sua lunga vita, sembra strano che in una illustrazione ufficiale come questa il miniatore, a dispetto dell’iconografia tradizionale di questo doge, ce lo raffiguri invece con le inedite sembianze di un vecchio ormai stanco e affaticato, se non proprio già decrepito.

In verità questa incongruenza potrebbe risolversi in modo molto semplice ipotizzando che quello ritratto nella minia-

39. A titolo esemplificativo si confrontino le differenti sembianze assunte dal Gritti in due celebri capolavori, l’uno databile verso il 1525, gene-ralmente attribuito al Catena ma talora al Pordenone, ed oggi conservato alla National Gallery of Art di Londra (cfr. E.M. Dal Pozzolo, Appunti su Catena, “Venezia Cinquecento”, 31, 2006, p. 5-104: p. 73, 76 e 75 fig. 55), e l’altro, forse del 1545 circa e quindi postumo, dovuto invece al Vecel-lio, ed ora esposto alla National Gallery of Art di Washington (cfr. D.A. Brown, Ritratto del doge Andrea Gritti, in Tiziano, p. 252-254, cat. 37, fig. a p. 253): eppure, non sembra esserci dubbio, si tratta sempre del doge Gritti.

40. La proverbiale vigoria fisica del Gritti, mantenuta fino a tarda età, costituisce una costante ribadita da tutti i suoi biografi, a partire da quel-li a lui contemporanei quali Paolo Giovio (1483-1552), Nicolò Barbarigo (1534-79) ed altri (se ne ragiona in Puppi, Iconografia di Andrea Gritti, in part. p. 216-219), fino agli scrittori più recenti: cfr. A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, p. 235-246; G. Ben-zoni, Gritti, Andrea, in DBI, 59, Roma 2002, p. 726-734.

41. Sono questi i caratteri essenziali che rendono inconfondibile l’immagine del doge Gritti anche nella produzione miniaturistica a lui coeva: si vedano in particolare le due miniature - con scene molto simili per soggetto ed impostazione: San Marco seduto che consegna il codice delle leggi al doge Gritti inginocchiatogli di fronte, ambedue visti di profilo; però diverse per ambientazione: un sereno paesaggio naturale l’una, un bel loggiato in prospettiva l’altra - che ornano due esemplari (l’uno cartaceo, l’altro membranaceo) del Libro d’oro vecchio, ossia Capitolare del Maggior Consiglio, entrambi risalenti al 1529 ed oggi conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia: cfr. ASVe, Cartografia, disegni, miniature delle magistrature venezia-ne, catalogo della mostra documentaria, Venezia 1984, p. 18, scheda 3 (esemplare cartaceo: il foglio miniato è riprodotto a p. 75 e il particolare in co-pertina) e p. 21, scheda 11 (esemplare pergamenaceo: il foglio miniato si può vedere riprodotto in Storia di Venezia, VI, Roma 1994, p. 801, fig. 1; e il particolare nella sovracoperta del libro “Renovatio urbis”. Venezia nell’età di Andrea Gritti); oppure anche il frontespizio miniato della Commissione di Andrea Gritti a Stefano Trevisan inviato podestà a Cavarzere, oggi al British Museum di Londra (Zuccolo Padrono, Il maestro “T°.Ve”, p. 54, 56 e fig. 79), in cui il consueto profilo del doge appare «realisticamente ritratto entro un medaglione al centro della pagina» (ivi, p. 56).

42. L’aspetto del Gritti ormai anziano è probabilmente riconoscibile nel doge raffigurato nel telero della Consegna dell’anello, dipinto da Paris Bor-don nel quarto (per qualcuno nel quinto) decennio del Cinquecento per la sala dell’albergo della veneziana Scuola grande di San Marco ed oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (sul dipinto, cfr. P. Humfrey, Paris Bordon e il completamento del ciclo narrativo nell’albergo della Scuola Grande di San Marco, in Paris Bordon e il suo tempo. Atti del convegno internazionale di studi (Treviso, ottobre 1985), Treviso 1987, p. 41-46; L. Puppi, La “con-segna dell’anello al doge. Anatomia di un dipinto, in Paris Bordon, p. 95-108; G. Mariani Canova, Paris Bordon: problematiche cronologiche, in Paris Bordon, p. 137-157; G. Scirè Nepi, I capolavori dell’arte veneziana: le Gallerie dell’Accademia, Venezia 1991, p. 165, scheda 85), oppure anche nella pala della Madonna col Bambino in trono, quattro santi e il doge come donatore, eseguito da Ludovico Fiumicelli nel 1536 per la chiesa degli Eremitani di Padova, dove tuttora si conserva (cfr. P. Humfrey, The altarpiece in Renaissance Venice, New Haven-London 1993, p. 124, fig. 108).

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tura non sia il Gritti, bensì il suo comunque anziano successore Pietro Lando, eletto doge nel gennaio 1539 a settantasette anni, e poi a causa della malferma salute faticosamente rimasto in carica per sei anni, cioè fino alla morte nel 154543.

Se consideriamo infatti le raffigurazioni note del doge Lando - una bella silografia di Giovanni Britto databile all’in-circa al 154144, l’affidabile ritratto postumo presente in un telero votivo dipinto verso il 1582 da Jacopo Tintoretto e aiuti per la sala del Senato in palazzo ducale45, ed infine - all’incirca coevo e molto simile a quest’ultimo - il ritratto ufficiale che Domenico Tintoretto eseguì per la sala del Maggior Consiglio, in sostituzione di quello perduto di Tiziano46 - bisogna ammettere che la fisionomia di quell’anziano doge - dal volto svigorito e fiacco, gli occhi rigonfi, le sopracciglia ondulate, il naso lungo e dritto e la barba voluminosa - si avvicina moltissimo a quella del vecchio doge effigiato nella miniatura.

In definitiva, dai vari raffronti iconografici ci vien suggerita, almeno come ipotesi, la seguente terna di nomi per i nostri personaggi: Carlo V, Paolo III e Pietro Lando; il che significa restringere al breve arco cronologico del dogado di quest’ul-timo - che va dal 1539 al 1545, come già ricordato - la data presunta di esecuzione della nostra miniatura.

Ma in quegli anni vi fu poi un Contarini che ricevette una commissione ducale di eccezionale rilevanza?Effettivamente sì: e si tratta del patrizio Tommaso Contarini (ca.1459-1554), discendente dal ramo dei Santi Apostoli

ma residente nella parrocchia di San Pantalon: un personaggio oggi praticamente sconosciuto e che invece al suo tempo fu uno dei più importanti politici e diplomatici veneziani, esperto in particolare nei rapporti con l’Oriente47.

43. Sul doge Lando, e sulle sue precarie condizioni di salute specialmente negli ultimi anni del dogado, cfr. Da Mosto, I dogi di Venezia, p. 246-250; M. Dal Borgo, Lando, Pietro, in DBI, 63, Roma 2004, p. 459-461. Sul perduto monumento sepolcrale, ove era una statua-ritratto del doge do-vuta a Pietro Grazioli da Salò, cfr. A. Markam Schulz, The funerari chapel of doge Pietro Lando in Sant’Antonio di Castello, Venice, in L’attenzione e la critica. Scritti di storia dell’arte in memoria di Terisio Pignatti, a cura di M.A. Chiari Moretto-A. Gentili, Padova 2008, p. 141-150, 477 fig. 1-2.

44. Cfr. Dreyer, Tizian und sein Kreis, p. 55-56, cat. 29, e fig. 29. La stampa del Britto è forse esemplata sul ritratto ufficiale del doge Lando es-eguito da Tiziano nel 1539 per la sala del Maggior Consiglio e andato distrutto nel famoso incendio del palazzo ducale del 1577.

45. Sul telero Cristo morto sorretto da angeli, adorato dai dogi Pietro Lando e Marcantonio Trevisan con i loro santi protettori, eseguito dal Tintoretto in sostituzione di un precedente telero di analogo soggetto compiuto da Tiziano nel 1556 e bruciato nell’incendio di palazzo ducale del 1574, cfr. R. Pallucchini-P. Rossi, Tintoretto. Le opere sacre e profane, Milano 1982, I, p. 222, cat. 423, e II, fig. 538; Franzoi, Storia e leggenda, p. 141, scheda 196,XV,2P; W. Wolters, Storia e politica nei dipinti di palazzo ducale. Aspetti dell’autocelebrazione della Repubblica di Venezia nel Cinquecento, Vene-zia 1987 (ed. orig. ted., Stuttgart 1983), p. 132 e fig. 113; T. Pignatti, Pittura, in U. Franzoi-T. Pignatti-W. Wolters, Il palazzo ducale di Venezia, Treviso 1990, p. 225-363: p. 313 e fig. 284; E. Bianchi-N. Righi-M.C. Terzaghi, Il palazzo ducale di Venezia, Milano 1997, p. 30-31.

46. Cfr. Franzoi, Storia e leggenda, p. 249, scheda 376,XXV,37F; il ritratto è riprodotto in L. Pelliccioni di Poli, Storia della famiglia Landi patrizia veneta, Roma 1960, p. [3] (dove però viene attribuito a Jacopo Tintoretto, padre di Domenico). Di scarsa attendibilità sono invece i ritrat-tini del doge Lando presenti nel codice Origine delle famiglie nobili venete, a c. 32v, e in Manfredi, Il ritratto della città di Venetia; più utile è inve-ce l’incisione in Macedo, Elogia poetica, c. 89v, ripresa nella litografia del Nani in Storia dei dogi di Venezia, II, n. 78 (riprodotta in Rendina, I do-gi, p. 293).

47. Su questo Tommaso Contarini, e sulla sua famiglia, cfr. Barbaro-Tasca, Arbori de’ patritii veneti, 2, p. 464; BNMVe, mss. it. VII, 15 (=8304): G.A. Cappellari Vivaro, Campidoglio veneto, ms. sec. XVIII, 1, c. 290r (alla data «1509», per Tommaso) e 291r (alla data «1538», per il figlio Ago-stino); Cicogna, Delle inscizioni veneziane, II, p. 243-244; e l’ottima voce di R. Derosas, Contarini, Tommaso, in DBI, 28, p. 295-300.

Trascorsa la giovinezza e la prima maturità dedicandosi alla mercatura nei porti levantini, questo Contarini intraprese poi una lunga carriera nella vita pubblica: fu console veneto a Damasco in Siria nel 1505-09 e ad Alessandria d’Egitto nel 1510-13, poi fu bailo a Costantinopoli nel 1519-22 e vi tornò come ambasciatore nel 1527-28 e ancora nel 1533-34; fu anche componente di due delegazioni straordinarie di oratori veneti, inviate l’una a Roma nel 1523-24, per felicitarsi con il nuovo papa Clemente VII, e l’altra a Napoli nel 1535-36, per congratularsi con l’imperatore Carlo V tornato allora dalla vittoriosa impresa di Tunisi48; svolse inoltre l’incarico di luogotenente a Udine nel 1532-33, mentre nei periodi di permanenza a Venezia, soprattutto dopo il 1523, ebbe a rivestire quasi tutti i ruoli nei massimi organi di governo della Serenissima.

Scoppiata infine nel 1537 la guerra contro l’impero ottomano, nell’estate del 1539 Tommaso «dovette ancora affron-tare un’ultima, difficilissima missione diplomatica»49: quella appunto che qui specialmente ci interessa.

La vicenda si inscrive in una congiuntura tra le più critiche della storia di Venezia nel corso del Cinquecento, poiché la Serenissima venne allora a trovarsi proprio al centro di un grave conflitto tra l’Europa cristiana e l’Oriente musulmano: una guerra che causò una notevole mobilitazione di forze militari, senza però che si giungesse mai ad un grande scontro risolutivo, e che invece nei suoi risvolti diplomatici assunse i connotati di un vero e proprio intrigo internazionale50.

Il conflitto, iniziato nell’estate del 1537 con un aspro ma infruttuoso assedio turco all’isola veneziana di Corfù, conti-nuò poi con modesti successi da ambo le parti, sicché la situazione sembrava favorire un ritorno alla pace, così importante per il fiorire dei commerci col Levante: e invece il Senato veneto, sia pur per pochi voti, decise di proseguire le ostilità.

Ciò probabilmente perché in quel momento si stavano creando in Europa i presupposti per la costituzione - formaliz-zata infatti l’8 febbraio 1538 a Roma - della già ricordata Lega Santa: una coalizione promossa e capeggiata da papa Paolo III, cui aderirono l’imperatore Carlo V, che rappresentava anche il fratello Ferdinando re dei Romani, e appunto il doge di Venezia, che in quell’ anno era ancora Andrea Gritti; i collegati auspicavano poi che entrasse presto nella Lega anche il “cristianissimo” re di Francia Francesco I, una volta pacificatosi con Carlo V.

Nei propositi iniziali, insomma, si trattava di attuare una nuova grande crociata contro gli infedeli: nelle capitolazioni

48. Il bel racconto del viaggio per quest’ultima ambasceria si legge nell’opera El viazo da Napoli de li clarissimi oratori alla Cesarea Maestà di Car-lo quinto imperatore: m. Tomà Contarini, m. Marco Foscari, m. Zuan Dolfin, m. Vicenzo Grimani, 1535, pubblicata dal R. Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Venezia celebrandosi il VII° centenario della fondazione della R. Univerità di Napoli (1224-1924), Venezia 1924.

49. Derosas, Contarini, Tommaso, p. 299.50. Sul conflitto veneto-ottomano del 1537-40 - oltre ai documenti ufficiali delle varie magistrature veneziane conservati all’ASVe - le fonti prin-

cipali consistono nelle narrazioni inedite scritte da due veneziani dell’epoca, cioè Nicolò Zen, la cui incompiuta Storia della guerra veneto-turca del 1537 è alla BNMVe, mss. it. VII, 2053 (=7920), e soprattutto Antonio Longo, i cui lunghi Commentarii della guerra del 1537 tra sultan Suliman si-gnor de Turchi et la Serenissima Signoria di Venetia ci sono pervenuti attraverso numerose trascrizioni, ben tredici soltanto alla BNMVe, ad es. il codice del sec. XVI: mss. it. VII, 533 (=8811). Sull’argomento si veda comunque: S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, Venezia 1857, p. 23-66; e la sintesi di G. Gullino, Le frontiere navali, in Storia di Venezia, IV, p. 13-111: 100-105, con ulteriori rinvii bibliografici nelle note a p. 110-111.

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segrete della Lega si era persino stabilito, in caso di vittoria, come spartire i territori dell’annientato Impero turco51.In realtà le cose andarono ben diversamente: Francesco I firmò a Nizza il 18 luglio 1538 una tregua con Carlo V ma di

fatto non aderì alla Lega, e la grande flotta cristiana - lentamente allestita a Corfù per il ritardato arrivo del comandante in capo Andrea Doria - andò poi incontro all’insuccesso della cosiddetta battaglia della Prevesa del 27 settembre di quell’ anno: una vittoria mancata - pare per volontà dello stesso Doria, cui Carlo V avrebbe impartito istruzioni segrete in tal senso, per non favorire un’affermazione navale veneziana - che finì per assumere il significato di una vera sconfitta.

Compresa l’inaffidabilità della Lega cristiana, Venezia cercò allora di avviare immediate trattative di pace col Turco.E infatti il 10 aprile 1539 venne letta in Senato una relazione di Lorenzo Gritti - uno dei figli naturali dell’ormai

defunto doge Andrea - appena rientrato da Costantinopoli, dov’era andato ufficialmente per affari privati: costui, ben co-nosciuto e introdotto alla corte di Solimano il Magnifico, era riuscito ad ottenere dall’imperatore ottomano una tregua di tre mesi nella guerra in corso, e ciò per consentire a Venezia di inviare alla Porta un ambasciatore straordinario incaricato di trattare la pace in nome dei «Principi Confederati» della Lega; la tregua decorreva dal 20 marzo e scadeva perciò il 20 giugno seguente, ma sarebbe stata prorogata non appena l’ambasciatore veneto fosse entrato in territorio turco52.

Non c’era tempo da perdere: il giorno dopo, 11 aprile 1539, il Senato nominò immediatamente il «Solenne Ambassa-tor nostro al Signor Turco» e la scelta cadde - quasi inevitabilmente - sull’anziano patrizio Pietro Zen,53 un personaggio di grandissimo prestigio, ben noto ed amato alla corte ottomana per avervi trascorso molti anni in qualità di bailo e oratore veneto, ed inoltre sempre dichiaratosi pubblicamente contrario al conflitto contro i turchi, al punto che era stato tacciato quale infedele e traditore della patria dai più accesi fautori della guerra54.

Poiché l’organizzazione dell’importante ambasceria avrebbe richiesto un po’ di tempo, il Senato ordinò intanto a Lo-renzo Gritti di ritornare subito alla Porta per annunciare a Solimano l’accettazione della tregua (e cercare anzi di prorogar-ne la durata), l’avvenuta sospensione delle armi e l’imminente arrivo di Zen in veste di ambasciatore straordinario: ricevuta la sua «commissione» ducale e la relativa «instructione», Gritti ripartì per Costantinopoli il 16 aprile 153955; e di tutto ciò vennero informate dai rispettivi oratori veneti le corti alleate di Roma, Austria e Spagna, nonché quella di Francia, che

51. Vedi sopra, nota 27.52. ASVe, Senato, Deliberazioni, Secreti, reg. 60, c. 9r.53. Ivi, c. 9r-v.54. Su Pietro Zen (ca.1458-1539) quale figura di spicco della diplomazia veneziana nei rapporti con l’Oriente nel primo Cinquecento, cfr. R.

Fulin, Itinerario di Pietro Zeno oratore a Costantinopoli nel MDXXIII compendiato da Marino Sanuto, “Archivio Veneto”, t. XXII, 12, 1881, p. 104-136; F. Lucchetta, L’”affare Zen” in Levante nel primo Cinquecento, “Studi Veneziani”, 10, 1968, p. 109-219; sulla famiglia e sul palazzo di Pietro Zen, indagati quali esempi di un’attenzione veneziana verso il mondo islamico e orientale tra XV e XVI secolo, cfr. E. Concina, Fra Oriente e Occi-dente: gli Zen, un palazzo e il mito di Trebisonda, in “Renovatio urbis”: Venezia nell’età di Andrea Gritti, p. 265-290; E. Concina, Dell’arabico. A Vene-zia tra Rinascimento e Oriente, Venezia 1994.

55. ASVe, Senato, Deliberazioni, Secreti, reg. 60, c. 9v-13v.

tentava allora di svolgere un ruolo di mediazione tra i due schieramenti belligeranti, la Lega e il Turco56.Già il 17 aprile il Senato sollecitava poi la partenza di Zen, stanziando i denari necessari per la sua legazione,57 ed il

24 gli consegnava il lungo e dettagliato testo della sua «commissione» ducale: dalla lettura di questo documento emerge chiaramente la straordinaria importanza del compito assegnato all’oratore veneto, poiché questi avrebbe dovuto trattare le tregue generali con l’Impero ottomano non solo per conto della Serenissima, ma anche «per li Principi Confederati», ovverosia per l’intera Lega Santa58.

Pietro Zen avrebbe dovuto partire entro quella settimana, ma la lunga preparazione dell’ambasceria - bisognava provve-dere i regali da presentare e le quindici persone del seguito - fece slittare la partenza probabilmente alla metà di maggio59.

Scadendo la tregua il 20 giugno, era urgente che l’oratore veneto entrasse in territorio turco per prolungarne la durata: sbarcato quindi a Cattaro in Dalmazia, Zen proseguì via terra fino a Sarajevo, nella Bosnia ottomana, ove giunse ai primi del mese, ma qui purtroppo l’ottantunenne ambasciatore fu colto da un grave malore e vi morì il 25 giugno 1539.

Frattanto il Senato veneto - informato delle condizioni disperate di Zen dal suo segretario Piero De’ Franceschi - già il 14 giugno aveva provveduto ad eleggere un nuovo ambasciatore: e stavolta si tratta proprio del nostro Tommaso Contari-ni, la cui carriera si presentava forse un po’ meno brillante, ma veramente molto simile a quella del suo sfortunato collega, e pertanto in quel medesimo giorno venne consegnata a Contarini una «commissione» ducale assolutamente identica - «mutatis mutandis» - di quella ricevuta neanche due mesi prima da Zen60.

La partenza del nuovo oratore era prevista entro quattro giorni, ma presumibilmente avvenne attorno al 25 di giugno61: via mare Contarini avrebbe raggiunto Spalato e di lì via terra Sarajevo, per prendere il posto di Zen ormai defunto.

Il seguito della vicenda ai nostri fini non interessa: basterà dire che nel frattempo Solimano aveva concesso una proroga della tregua di altri tre mesi, per interessamento ancora di Gritti, morto poi a Costantinopoli il 5 agosto; che l’oratore veneto Contarini - giunto finalmente nella capitale ottomana il 18 agosto - non riuscì a concludere la pace, in particolare per l’intransigenza turca nel pretendere la cessione dei porti veneziani di Nauplia e Malvasia in Morea; e che, nonostante l’arrivo alla Porta nell’aprile 1540 del nuovo oratore Alvise Badoer per trattare col Turco una pace separata dalla Lega, Venezia alla fine capitolò accettando il 2 ottobre seguente la consegna delle due fortezze e il pagamento di forti tributi62.

56. Ivi, c. 14r-20r.57. Ivi, c. 20r.58. Ivi, c. 21r-23v.59. Sicuramente Pietro Zen era ancora a Venezia il 3 maggio, quando in vista della sua partenza si ordinò ai giudici veneziani di sospendere qual-

siasi pendenza legale che lo riguardasse per tutta la durata dell’ambasceria: cfr. ASVe, Collegio, Notatorio, reg. 24, c. 8r-v.60. ASVe, Senato, Deliberazioni, Secreti, reg. 60, c. 34v-35r.61. In una ducale del 29 giugno si afferma infatti: «[...] havemo espedito il dilettissimo nobil nostro Thoma Contarini il qual già alcuni giorni è

partito, sì che si pol creder che la suspension preditta dille arme habi a perseverare etiam da poi li tre mesi [...]»: ivi, c. 42r.62. Sulle lunghe e sfortunate trattative veneziane per giungere alla pace col Turco, cfr. Gullino, Le frontiere navali, p. 104-105; e vedi sopra, no-

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Va detto però che un esito così disastroso delle trattative all’inizio non era stato sicuramente previsto dalla Serenissima: infatti la commissione affidata dapprima a Zen e poi a Contarini, semmai era «rivelatrice della convinzione che si potesse tornare senza particolari concessioni alla situazione precedente il conflitto»63.

Ora, per tornare finalmente - dopo questa lunga digressione storica - alla nostra miniatura, tutto lascia ritenere che essa in origine decorasse proprio la commissione ducale consegnata nel giugno 1539 all’ambasciatore Tommaso Contarini.

Vi è infatti una perfetta corrispondenza fra il testo di quella commissione e il messaggio visivo della miniatura: in effetti chiamando ora per nome i vari personaggi, notiamo schierati uno accanto all’altro l’imperatore Carlo V, il papa Paolo III (posto al centro perché «arbitro» della Lega) e il doge Pietro Lando, il quale ultimo consegna il libro della commissione a Tommaso Contarini, inviato da Venezia a trattare la pace col Turco anche in nome degli altri «Principi Confederati».

E proprio questo ruolo di Contarini quale ambasciatore non solo per conto della Serenissima, ma anche della Lega, consente di spiegare la strana mancanza del leone marciano tradizionalmente presente sul fastigio delle miniature delle commissioni ducali: nel nostro caso invece vi campeggia l’allegoria femminile della Giustizia affiancata da due Glorie, evidentemente per buon auspicio dell’importante missione diplomatica.

Adesso finalmente tutto sembra tornare, ma esistono invero due questioni che destano qualche perplessità.La prima riguarda l’aspetto del Contarini effigiato nella miniatura.Purtroppo non conoscendo altri ritratti di Tommaso non ci è possibile stabilire confronti, ma sappiamo che egli nel

1539 aveva all’incirca ottant’anni, mentre il Contarini della miniatura sembra essere più giovane: alcuni fatti ed un paio di testimonianze ci assicurano però che Tommaso godette fino a tardissima età di ottima salute e che il suo aspetto era straordinariamente giovanile.

Intanto, dopo la pur faticosa e fallimentare legazione turca, la carriera di Tommaso continuò ai vertici dello Stato anco-ra per diversi anni: nel 1543 egli fu eletto procuratore di San Marco64, nel 1545 concorse al dogado65, e «per tredici anni, dal 1539 al 1552, fu ininterrottamente membro del Collegio come savio del Consiglio»66.

ta 50.63. Derosas, Contarini, Tommaso, p. 299.64. Il codice membranaceo con il suo giuramento quale procuratore di San Marco de citra, datato 16 marzo 1543, è alla BNMVe, mss. lat. V,

96 (=2250) ed è ornato da un bel frontespizio miniato che presenta in alto il leone marciano, ai lati san Michele e san Tommaso (allusivi ai nomi del padre e suo) e in basso lo stemma personale, identico a quello base dei Contarini che ritroviamo anche nella nostra miniatura: uno scudo d’oro a tre bande d’azzurro.

65. Da Mosto, I dogi di Venezia, p. 252.66. Derosas, Contarini, Tommaso, p. 299. Va qui osservato che Contarini nella miniatura indossa una veste azzurra con stola rossa, che è appun-

to l’abito tipico di uno dei sei Savi del Consiglio; inoltre la fodera di ermellino e l’assenza della cintura in vita indicano che si tratta di una veste esti-va (Mutinelli, Lessico veneto, p. 5): come detto Tommaso Contarini partì per la sua ambasceria verso la fine di giugno del 1539.

Se poi i pascià turchi già nel 1533 si erano stupiti che l’anziano Contarini potesse sopportare i disagi di un’ambasceria67, molto più importante risulta la testimonianza del dotto umanista veneziano Giambattista Egnazio, il quale nel capitolo De senectute del suo libro De exemplis illustrium virorum Venetae Civitatis uscito nel 1554 - cioè nell’anno stesso della morte dell’ormai novantacinquenne Tommaso Contarini - ancora celebrava la sua vecchiaia come esempio di straordinaria vita-lità68.

La seconda perplessità concerne il tempo assai ristretto - grossomodo una decina di giorni - fra l’incarico e la partenza di Contarini: si direbbe troppo poco perché egli potesse preoccuparsi di far eseguire una così bella miniatura a ornamento della propria commissione ducale, per quanto si debba rammentare che di norma il lavoro veniva affidato alle solite ben colaudate botteghe di miniatori.

Ma ora, anche ammesso per ipotesi che la nostra interpretazione sia corretta, rimane il problema fondamentale: per quali vie la cornice architettonica della nostra miniatura del 1539 giunse ad ornare - con lievi ma significative modifiche: vi ritorneremo tra poco - lo splendido frontespizio dei Quattro libri di Andrea Palladio pubblicati nel 1570?

Indagando su Tommaso Contarini e sulla sua famiglia di fatto non è emerso alcun legame diretto col grande architetto: il patrizio veneziano nel 1538 possedeva è vero - assieme ad altre modeste proprietà - un centinaio di campi in quel di Camisano Vicentino69, ma non ci risulta che Palladio sia mai stato coinvolto in imprese edilizie in quella località.

Più interessante risulta invece la notizia che nel 1539-40 fu podestà a Vicenza Agostino Contarini, figlio di Tommaso, e che la sua relazione di fine mandato dell’11 aprile 1541 - edita nell’Ottocento 70- verte tutta sull’analisi dei progetti delle nuove fortificazioni urbane elaborati a suo tempo da Bartolomeo d’Alviano e dal Duca di Urbino: noi infatti sappiamo che proprio in quegli anni fu direttamente implicato nelle questioni inerenti l’irrealizzato ammodernamento delle mura di Vicenza Giangiorgio Trissino, e forse anche lo stesso Palladio71, allora agli esordi della sua eccezionale carriera.

67. Derosas, Contarini, Tommaso, p. 298.68. Val la pena di riportare integralmente il paragrafo su Contarini: I.B. Egnatii viri doctissimi De exemplis illustrium virorum Venetae Civitatis

atque aliarum gentium, Venetiis 1554, cap. XII: «De senectute», p. 281: «De Thoma Contareno»: «Omissis aliquot, qui ad divi Nicolai aedem degunt, quo-rum unus centesimum decimum septimum agit annum, alter tertium decimum & centesimum integris corporum membris, & sensu satis parato: clarissimi viri memoriam Thomae Contareni divi Marci procuratoris celebrarim, quem quotidie videmus maximis & amplissimis honoribus functum scalas subeun-tem, omnique ex parte corporis & animi valentem, bonitateque in primis insignem, qui sextum et nonagesimum aetatis annum agat. quis igitur huius aeta-tem & plures in eo virtutes non admiretur & laudet? Deus opt. max. faxit, ut superstes apud nos diutius agat».

69. Cfr. ASVe, Savi alle decime, b. 139, Dorsoduro, condizione n. 669.70. Cfr. [A. Contarini, Relazione sulle fortificazioni di Vicenza, Venezia 1877] (Nozze Rossi-Bozzotti). In precedenza, nel 1538, Agostino aveva

svolto l’incarico di «sopracomito di galera nell’armata contro turchi» (Cappellari Vivaro, Campidoglio veneto, vol. 1, c. 291r) e successivamente fu podestà di altre città: a Chioggia nel 1548, a Bergamo nel 1551 e a Brescia nel 1557-58; sposatosi nel 1554, morì senza discendenza entro il 1566.

71. Per un’attribuzione a Palladio di un disegno relativo alle mura di Vicenza databile agli anni quaranta del Cinquecento, cfr. G. Zorzi, Un di-segno di Andrea Palladio per la Rocchetta di Vicenza, in Studi in onore di Antonio Bardella, a cura della figlia Marcella, Vicenza 1964, p. 187-196, tav. 1 f.t.

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Un contatto fra l’architetto e i nostri Contarini fu dunque possibile, ma onestamente si tratta di un’ipotesi molto de-bole. Volendo, non mancherebbero tuttavia altre più suggestive possibilità, per quanto del tutto ipotetiche e virtuali. Una ci sembra particolarmente intrigante, chiamando in causa proprio quel Pietro Zen al quale Contarini era subentrato nel grave compito di trattare la pace col Turco.

È possibile infatti che non soltanto il testo, ma anche la miniatura della commissione di Tommaso Contarini ricalcasse fedelmente - «mutatis mutandis», ovviamente - quella consegnata in precedenza all’ambasciatore Pietro Zen.

Questo potrebbe spiegare intanto la rapidità di esecuzione della miniatura per Contarini: utilizzando disegni prepara-tori già pronti l’ignoto miniatore avrebbe potuto replicare quella già dello Zen, cambiandovi solo stemma e ritratto.

Inoltre Tommaso Contarini, personaggio autorevole in campo politico-diplomatico, non risulta altrettanto interessan-te nel campo del mecenatismo artistico: la miniatura che orna il suo giuramento come procuratore di San Marco del 1543, per quanto bella, appare del tutto tradizionale72.

Di ben diversa levatura culturale risulta invece la figura di Pietro Zen, che proprio in quegli anni stava ultimando la ricostruzione del grande, interessantissimo palazzo di famiglia posto sulla fondamenta dei Crosechieri a Venezia: lo aveva ideato il figlio Francesco intendente di architettura, probabilmente anche con il consiglio di un famoso architetto e teorico allora abitante a pochi passi dalla residenza degli Zen e di questi amicissimo, vale a dire Sebastiano Serlio73.

Pietro Zen stimava moltissimo Serlio, tanto che nel testamento del 1538 consigliava i figli di ascoltare per il comple-tamento del palazzo di famiglia «la opinion di messer Bastianello»74.

Ora, considerato lo stile palesemente serliano dell’incorniciatura architettonica della nostra miniatura, piacerebbe pensare che possa essere stato proprio Pietro Zen a richiedere a Serlio il disegno di una tale cornice, fornendolo poi alla bottega di un bravo miniatore, il quale lo avrebbe riprodotto su pergamena aggiungendovi la parte figurata centrale, per farne l’antiporta della commissione Zen; operazione poi dallo stesso miniatore ripetuta anche per Tommaso Contarini.

Questa ipotesi potrebbe trovare un’ indiretta conferma nell’evidente differenza di stile esistente appunto nella minia-tura tra la cornice architettonica - talmente avanzata per l’epoca da sembrare un’invenzione barocca, impostata oltretutto su un’ardita prospettiva centrale - e la parte figurata nel mezzo, dagli sgargianti colori ma priva di profondità e anzi con evidenti errori di prospettiva proprio in quel vivace pavimento a scacchi.

Se così fosse (ma lo ripetiamo, allo stato dei fatti, si tratta di ragionamenti che non possono contare, su elementi documentari), allora la miniatura che ispirò il frontespizio palladiano non sarebbe quella sin qui esaminata di Tommaso Contarini, bensì quella ipoteticamente quasi identica che doveva decorare l’analoga commissione Zen: infatti il contatto tra la famiglia di Pietro Zen e Andrea Palladio è praticamente diretto.

72. Vedi sopra, nota 64.73. Sul palazzo Zen ai Crosechieri, ci limitiamo a rinviare a Concina, Dell’arabico, p. 15-26; sull’amicizia tra gli Zen e Sebastiano Serlio: ivi, p.

18; L. Olivato, Per Serlio a Venezia: documenti nuovi e documenti rivisitati, “Arte Veneta”, XXV (1971), p. 284-291.74. Passo citato in ivi, p. 18.

Si pensi all’amicizia esistente tra lo storico Nicolò Zen (1515-65), nipote ed erede culturale di Pietro, e Daniele Bar-baro: quest’ultimo nel 1556 pubblicò presso Francesco Marcolini la sua famosa edizione dei Dieci libri dell’architettura di M. Vitruvio, abbellita con le splendide tavole di Palladio, mentre nel 1558 Nicolò Zen pubblicò due sue operette presso il medesimo Marcolini, il quale vi firmò le dedicatorie a Barbaro ricordando appunto l’amicizia tra questi e Nicolò Zen75.

Ma non basta, perché Caterino Zen (1544-98), figlio di Nicolò e quindi pronipote di Pietro, era all’incirca coetaneo e primo cugino di Jacopo Contarini (1536-95), con il quale inoltre condivideva interessi scientisti proprio negli anni in cui Palladio fu in stretta amicizia con Jacopo ed ospite presso il suo palazzo di San Samuele, dove il grande architetto ebbe agio di predisporre - guarda caso - proprio le bozze dei suoi Quattro libri usciti nel 1570.

Per ora tuttavia, in mancanza di prove, non ci sembra lecito insistere troppo su questa affascinante ipotesi di una matri-ce serliana per la cornice architettonica della miniatura e - di conseguenza - anche per quella del frontespizio palladiano.

Su quest’ultimo, pur riprodotto in migliaia di pubblicazioni, l’attenzione degli studiosi curiosamente non si è quasi mai soffermata e comunque in passato lo si è generalmente ritenuto frutto di un’ invenzione e di una scelta sostanzialmente estranee a Palladio76. Recentemente si è addirittura ipotizzato che il frontespizio dei Quattro libri sia opera di Giorgio Vasari, poiché questi incontrò Palladio a Venezia poco prima dell’uscita del trattato e ideò alcuni frontespizi ritenuti stilisticamente avvicinabili a quello palladiano77: ma in questa proposta proprio l’aspetto stilistico sembra essere il meno convincente, poiché i frontespizi vasariani appaiono come dei rilievi in cui scultura e architettura sono fuse assieme, con una netta preponderanza della prima sulla seconda, mentre il frontespizio palladiano mostra una vera e propria struttura architettonica indipendente dall’apparato scultoreo, il quale vi si addossa e sovrappone per solo ornamento.

Il frontespizio di Palladio presenta semmai qualche vaga affinità con quelli dei trattati di Antonio Labacco (1552), di

75. Cfr. [N. Zen], Dell’origine di Venetia, et antiquissime memorie de i barbari, In Venetia, per Francesco Marcolini, 1558; [N. Zen], Dei com-mentarii del viaggio in Persia di m. Caterino Zeno il K., In Venetia, per Francesco Marcolini, 1558.

76. Ad esempio secondo R. Pane (Andrea Palladio, Torino 19612, p. 77) il frontespizio del trattato di Palladio, nella sua «barocca composizione», rispondeva ad «una esigenza di gusto pubblicitario, dovuta certamente all’editore de’ Franceschi e non all’autore», tanto più che lo studioso rilevava una «opposizione, più che estraneità formale, tra i frontespizi dei Quattro libri ed il contenuto degli stessi»; non diversamente L. Puppi (Bibliografia e letteratura palladiana, in Mostra del Palladio. Vicenza / Basilica Palladiana, Milano 1973, p. 171-190: 177, didascalia della fig. 191) osserva che l’im-magine del frontespizio palladiano «è da ritenere inventata da un esecutore, che resta da identificare, certo formato nell’officina, e sulla tradizione illu-stre, del Marcolini»; più sfumata la posizione di J.S. Ackerman (Palladio: in che senso classico?, Prolusione al XXXV Corso sull’architettura di Andrea Palladio, Vicenza 1993, p. 10), che fra gli esempi di «defezione di Palladio da regole da lui stesso stabilite» cita appunto il «frontespizio de I Quattro Libri dell’Architettura caratterizzato dalla presenza di timpani spezzati coronati da morbide volute», aggiungendo con ironia di non sapere «se sia stata pretesa dall’editore o se tale soluzione dipenda piuttosto dal fatto che le pagine di frontespizio non devono far defluire l’acqua piovana» e concluden-do comunque che tale scelta «rivela in Palladio un atteggiamento tendenzialmente dialettico rispetto alle regole da lui prescritte».

77. H.C. Dittscheid, Architectura im Banne der Virtus. Das Titelblatt von Andrea Palladios «Quattro libri dell‘architettura» (1570): ein Werk Gio-rgio Vasaris? in Sprachen der Kunst. Festschrift für Klaus Güthlein zum 65. Geburtstag, a cura di L. Dittman-C. Wagner-D. von Winterfeld, Worms 2007, p. 57-66.

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Jacopo Vignola (1562)78, di alcune tarde edizioni di Serlio (1566 e 1584)79 e dei Discorsi sopra l’antichità di Roma di Vin-cenzo Scamozzi (1583), dove il tema in sostanza è quello del portale, o edicola, o altare, visti in prospettiva centrale, con i frontoni ad arco (intero o spezzato) sorretti ai lati da colonne singole o binate, ed ornati con simmetria da varie statue allegoriche80.

Ma di fatto l’unica vera referenza per il frontespizio palladiano va ormai riconosciuta nella nostra splendida miniatu-ra.

È legittimo chiederci però se fu veramente Palladio a trasformare quell’immagine miniata in frontespizio architettoni-co, o se invece l’operazione sia di tipo meramente editoriale e si debba quindi al tipografo, o al suo “grafico” di fiducia.

Ebbene, confrontando attentamente frontespizio e miniatura non resta il benché minimo dubbio: il frontespizio pre-senta infatti tutta una serie di modificazioni rispetto alla miniatura chiaramente finalizzate a “correggerne” l’architettura, che soltanto un progettista dall’occhio ben allenato avrebbe potuto e saputo effettuare. Intanto le proporzioni d’insieme, nettamente più slanciate, poi l’inserimento di binati di lesene che proiettano sul muro di fondo i binati di colonne in pri-mo piano, l’aggiunta delle mensoline canoniche nella cornice dell’ordine corinzio, ed infine l’allineamento a quest’ultima della cornice aggettante del trono della «REGINA VIRTUS»81: tutto rivela la consumata esperienza di un professionista della cultura e del livello di Palladio, abituato quotidianamente a fare i conti con questioni di grammatica architettonica.

Palladio dunque non “ricopiò” pedissequamente la miniatura, ma - pur rispettandone l’impostazione - la “reinterpretò” da par suo per ricavarne lo splendido frontespizio del suo fondamentale trattato di architettura.

A lui stesso, a nostro avviso, spetta anche in buona parte la rielaborazione delle statue e dei rilievi allegorici che ornano la grande edicola architettonica.

In alto le due Glorie e la Giustizia presenti nella miniatura diventarono nel frontespizio due Fame con al centro la «REGINA VIRTUS», che venne perciò a coincidere con una variante della marca tipografica dello stampatore Domenico de’ Franceschi visibile anche più in basso - sotto al cartiglio centrale con il titolo del trattato - nell’ovale all’interno della elaborata cornice affiancata da due erme, nonché nel colophon del volume.

78. C. Thoenes, La “Regola delli cinque ordini” del Vignola (1981), in Idem, Sostegno e adornamento. Saggi sull’architettura del Rinascimento: dise-gni, ordini, magnificenza, Milano 1998, p. 77-107.

79. M. Vène, Bibliographia serliana. Catalogue des éditions imprimées des livres du traité d’architecture de Sebastiano Serlio (1537-1681), Paris 2007, in part. p. 170, «Encadrement G» (1566), e p. 173, «Encadrement J» (1584), quest’ultimo caratterizzato da un’edicola dalle forme curiosamente molto simili a quelle dell’altare dei Merciai nella chiesa di San Giuliano a Venezia, eretto nel 1579-84 da Francesco Smeraldi e con sculture di Vittoria.

80. L’analogia in particolare del frontespizio palladiano con i «fastosi altari» della Controriforma è già stata riconosciuta da F. Barberi, Il fronte-spizio nel libro italiano del Quattrocento e del Cinquecento, Milano 1969, I, p. 131. Per un tentativo di restituire in proiezioni ortogonali l’edicola dise-gnata in prospettiva centrale nel frontespizio di Palladio, cfr. O. Carpenzano, Notizia preliminare di uno studio condotto su alcuni frontespizi dei trat-tati di architettura, “XY. Dimensioni del disegno”, 10, 1996, n. 27-28, p. 72-77.

81. Un riferimento antico per la cornice architettonica della miniatura, in particolare per la struttura a binati di colonne corinzie e per la decora-zione della trabeazione, ci sembra vada individuato nell’arco dei Sergi di Pola, monumento peraltro notissimo anche a Palladio.

Davanti ai binati di colonne Palladio dispose poi le classiche figure della Geometria e dell’Architettura, allegorie d’ob-bligo sulla “copertina” di un trattato come il suo82.

In basso, infine, il bel cartiglio centrale, eliminato lo stemma (Contarini o Zen che fosse), servì ad accogliere le note tipografiche, mentre ai lati, nei riquadri dei piedistalli, il grande architetto con lievi modifiche conferì alle allegorie pre-senti nella miniatura - un vecchio sdraiato, ignudo e barbuto, con un’asta e un’anfora rovesciata, d’incerto significato; una donna distesa con una corona d’alloro in mano, evidentemente allusiva ancora alla Gloria - un nuovo significato: il vec-chio, perdute l’asta e l’anfora, acquistò le ali e una bilancia, diventando così il Tempo, ove però «le bilancie [...] dimostrano che il tempo è quello che agguaglia et aggiusta tutte le cose»83; il tempo galantuomo, insomma, che alla fine premia chi veramente merita; la giovane donna, persa la corona, afferra ora il corno di un giovenco, mentre con l’altra mano indica la pagina di un libro aperto, significando quindi la Fatica, laddove «col libro si dimostra la fatica della mente», mentre «quella del corpo si rappresenta per lo significato del giovenco»84.

Tempo e Fatica, dunque: «perché di me stesso non posso prometter altro, che una lunga fatica, e gran diligenza, & amore», ci assicura infatti Palladio nel Proemio a i lettori del suo trattato85.

In definitiva, la sapiente rielaborazione della cornice architettonico-scultorea della miniatura per ricavarne il magnifico frontespizio dei Quattro libri, a nostro avviso, non può essere attribuita ad altri che a Palladio.

E qui si pone allora il vero enigma: perché questo starordinario architetto - inventore geniale ed infaticabile disegnato-re, che oltretutto per il Vitruvio pubblicato nel 1556 dal dotto amico Daniele Barbaro aveva eseguito ex novo non soltanto molte delle belle tavole, ma anche l’elegante frontespizio ispirato ad un arco trionfale antico - per il frontespizio del suo fondamentale trattato di architettura decise invece di ispirarsi alla cornice di una miniatura risalente a trent’anni prima?

Certo, alla domanda si potrebbe rispondere molto semplicemente: «perché quella cornice è bella»; così come bello dev’essere sembrato il frontespizio palladiano a diversi artisti d’epoca posteriore, che a loro volta ne presero ispirazione per comporre i loro frontespizi, fossero o no destinati a opere d’argomento architettonico: per fare qualche esempio, si con-frontino con quello palladiano i frontespizi de Le iardin du roy di Pierre Vallet, del 1608 (fig. 3), o dei Tabernacoli diversi novamente inventati di Giovan Battista Montano, del 1628 (fig. 4), o delle Istorie memorabili de suoi tempi di Alessandro Ziliolo, del 1642 (fig. 5), o persino del The book of common prayer nell’edizione di Londra del 1662 (fig. 6).

Se però consideriamo che la cornice della miniatura, per quanto rielaborata e personalizzata da Palladio, mantiene nel suo frontespizio un’impostazione sia grafica sia architettonica ben lontana dallo stile di quel grandissimo architetto (una struttura vista in prospettiva centrale e un arco spezzato addirittura coi riccioli), bisogna ammettere che l’enigma, almeno per ora, rimane.

82. Thoenes, La “Regola delli cinque ordini”, p. 95.83. C. Ripa, Della novissima iconologia, Padova 1625, p. 663.84. Ivi, p. 220.85. A. Palladio, I quattro libri dell’architettura, Venezia 1570, I, p. 6.

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Fig. 3. Frontespizio della raccolta Le iardin du roy del ricamatore Pierre Vallet (1575-post 1657) e del botanico Jean Robin (1550-1629), pubblicata per la prima volta a Parigi a cura del Vallet nel 1608: l’incisione è siglata in basso a destra «J.J.f.L.».Pisa, Biblioteca Universitaria

Fig. 4. Frontespizio della raccolta Tabernacoli diversi novamente inven-tati dell’architetto milanese Giovan Battista Montano (1534-1621), pubblicata postuma a Roma nel 1628 a cura dell’allievo Giovan Bat-tista Soria (1581-1651), cui probabilmente spetta l’invenzione del frontespizio.Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana

Fig. 5. Frontespizio dell’opera Delle istorie memorabili de suoi tempi dello scrittore veneziano Alessandro Ziliolo (fine sec. XVI-metà XVII), nell’edizione stampata a Venezia da Giovan Antonio Giuliani nel 1642: l’incisione è siglata in basso a destra «G.T.».Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana

Fig. 6. Frontespizio dell’opera The book of common prayer, nell’edizione stampata a Londra nel 1662 dai tipografi reali: l’incisione è firmata in basso «D. Loggan sculp.», spetta cioè al giovane incisore inglese David Loggan (1634-1692).

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L. Armstrong, Il maestro di Pico: un miniatore veneziano del tardo Quat-trocento, «Saggi e memorie di storia dell’arte», 17 (1990), p. 7-39

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Finito di stampare nel mese di maggio 2008presso Grafiche Turato, Rubano (PD)tel. 049 630933 e-mail: [email protected]