L’ ANALISI...2017/02/04  · è la nazione», dichiarava Battisti. Ma la forca prima, «suprema...

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- 1 - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Viale Pasubio 5, Milano | www.fondazionefeltrinelli.it Approfondimenti | kit didattico “Cos’è la patria?” Materiale: Scheda PDF L’ ANALISI L’analisi porterà lo studente a prendere consapevolezza del significato di patria negli anni intorno alla Prima Guerra mondiale, e come questo concetto abbia subito una trasformazione notevole per gli anni successivi, anni in cui il concetto verrà esaltato ed estremizzato dai totalitarismi. ORA E MENZOGNA Come esasperare ed annullare l’idea che “si combatte per la patria” Ora. “Sia lode a Dio Che ci ha messi di fronte alla Sua ora, / ha colto la nostra giovinezza e ci ha svegliati dal sonno». L’idea che Rupert Brooke esprime in Peace, nel 1914, corrispondeva a un sentimento diffuso: che l’ora della guerra fosse l’ora della prova e del compimento per una generazione che viveva il proprio tempo come stasi e frustrazione. Sulla «Voce», nel settembre del 1914, Giuseppe Prezzolini commentava con queste parole la notizia che l’Italia non sarebbe entrata in guerra: «Si troverà in questo tempo o più tardi l’attimo che ci permetta questa prova? Mentre scriviamo temiamo che esso sia perduto, che non torni più, che vivremo tutta la vita con questa disillusione, amareggiati e sfiduciati» (La guerra tradita). L’ora della guerra è dunque l’ora decisiva per una generazione e assume un senso morale o esistenziale, ma insieme appare come l’ora del compiersi o del mancare della nazione. Lo stesso Prezzolini, il mese prima, aveva scritto: «Fummo, finora, una nazione aspirante al grado di grande. Oggi non si tratta neppur di questo ma di ben altro: si tratta di sapere se siamo una nazione» (Facciamo la guerra). E Cesare Battisti 1 intitola Ora o mai! il proprio libello irredentista di ottobre: ora o mai il Trentino sarà redento e tornerà alla nazione italiana. Così il sentimento di un momento decisivo e l’impulso ad agire di una generazione potevano essere sfruttati dalle retoriche nazionaliste: «Oggi sta su la patria un giorno di porpora», disse D’Annunzio a Quarto 2 , di sotto la statua dei Mille, e «se mai le pietre gridarono nei sogni dei profeti, ben questo bronzo oggi grida e comanda». 1 Vedi Intellettuali e Pace_scheda 1 “Cesare Battisti e il finis Austriae. Geografie della guerra e della (dis)integrazione nazionale” 2 Vedi Letteratura_scheda 1 “Il discorso di D’Annunzio a Quarto e le retoriche nazionaliste”

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    Approfondimenti | kit didattico “Cos’è la patria?” Materiale: Scheda PDF

    L’ ANALISI

    L’analisi porterà lo studente a prendere consapevolezza del significato di patria negli anni intorno alla Prima

    Guerra mondiale, e come questo concetto abbia subito una trasformazione notevole per gli anni successivi,

    anni in cui il concetto verrà esaltato ed estremizzato dai totalitarismi.

    ORA E MENZOGNA

    Come esasperare ed annullare l’idea che “si combatte per la patria”

    Ora. “Sia lode a Dio Che ci ha messi di fronte alla Sua ora, / ha colto la nostra giovinezza e ci ha svegliati dal sonno». L’idea che Rupert Brooke esprime in Peace, nel 1914, corrispondeva a un sentimento diffuso: che l’ora della guerra fosse l’ora della prova e del compimento per una generazione che viveva il proprio tempo come stasi e frustrazione. Sulla «Voce», nel settembre del 1914, Giuseppe Prezzolini commentava con queste parole la notizia che l’Italia non sarebbe entrata in guerra: «Si troverà in questo tempo o più tardi l’attimo che ci permetta questa prova? Mentre scriviamo temiamo che esso sia perduto, che non torni più, che vivremo tutta la vita con questa disillusione, amareggiati e sfiduciati» (La guerra tradita). L’ora della guerra è dunque l’ora decisiva per una generazione e assume un senso morale o esistenziale, ma insieme appare come l’ora del compiersi o del mancare della nazione. Lo stesso Prezzolini, il mese prima, aveva scritto: «Fummo, finora, una nazione aspirante al grado di grande. Oggi non si tratta neppur di questo ma di ben altro: si tratta di sapere se siamo una nazione» (Facciamo la guerra). E Cesare Battisti 1intitola Ora o mai! il proprio libello irredentista di ottobre: ora o mai il Trentino sarà redento e tornerà alla nazione italiana. Così il sentimento di un momento decisivo e l’impulso ad agire di una generazione potevano essere sfruttati dalle retoriche nazionaliste: «Oggi sta su la patria un giorno di porpora», disse D’Annunzio a Quarto2, di sotto la statua dei Mille, e «se mai le pietre gridarono nei sogni dei profeti, ben questo bronzo oggi grida e comanda».

    1 Vedi Intellettuali e Pace_scheda 1 “Cesare Battisti e il finis Austriae. Geografie della guerra e della (dis)integrazione nazionale” 2 Vedi Letteratura_scheda 1 “Il discorso di D’Annunzio a Quarto e le retoriche nazionaliste”

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    Verrà poi un’altra stasi, nelle trincee dentro le quali anche quei giovani che avevano creduto in un’ora decisiva finiranno sepolti per anni o per sempre. «Un breve soggiorno al reggimento – racconta Ernst Jünger nelle prime pagine di Nelle tempeste d’acciaio – era stato sufficiente a guarirci del tutto dalle vecchie illusioni. In luogo dei pericoli sperati, avevamo trovato il fango, la fatica, le notti di veglia, tutti i mali la cui sopportazione esigeva un eroismo poco confacente alla nostra natura».

    Menzogna. La retorica nazionalista e la propaganda interventista cantavano la gloria di combattere e morire per la patria, per spingere i giovani a prendere le armi, ma l’esperienza del fronte non si lasciava ridurre alle loro mistificazioni3. Se avessi visto la morte che io ho visto, scrive Wilfred Owen pensando agli interpreti di quella retorica e di quella propaganda, “non diresti con tutto questo zelo / A bambini ardenti di una gloria disperata, / La vecchia Menzogna: Dulce et decorum est / Pro patria mori”4. Morire sul fronte – nel fango, sotto le granate, soffocati dai gas – non è dolce né onorevole; la realtà non corrisponde alla sua immagine retorica; la tradizione che il verso di Orazio esemplifica non è più credibile. Già prima della guerra le menzogne della propaganda erano state riconosciute come tali. Nel maggio del 1915, su «La Voce», Giuseppe De Robertis aveva scritto: “Hanno falsificato la vita, come oggi falsificano la guerra. Dando apparenza di chi sa mai che eroismo solenne, imperiale” (La realtà e la sua ombra); e in agosto, pensando all’orazione di D’Annunzio a Quarto, aveva aggiunto: “D’Annunzio ha falsificato la realtà. […] Ha giocato d’impostura in nome dell’ora presente e dell’Italia”. Come De Robertis, tanti avevano riconosciuto da prima quelle che John Dos Passos, venuto in Italia come volontario della Croce Rossa Americana, nel 1918 avrebbe chiamato “l’allegra montagna di menzogne” del nazionalismo, della propaganda, delle classi dominanti e della loro cultura. Ma l’esperienza del fronte significò la smentita della realtà e fu una smentita radicale. Al primo fuoco, dice Paul Bäumer, protagonista e narratore di Niente di nuovo sul fronte occidentale, i discorsi dei loro maggiori, ai quali Baümer e i suoi compagni avevano creduto e che li avevano portati in guerra, quei discorsi di “patria” e “gioventù di ferro”, persero qualsiasi credibilità. Con essi si dissolsero l’autorevolezza di chi li aveva pronunciati e la fiducia dei giovani che li avevano ascoltati e questa rottura della fiducia, conseguenza estrema delle menzogne di prima, sarebbe stata un elemento essenziale della discontinuità segnata dalla guerra nella storia del Novecento.

    3 Vedi letteratura_scheda 2 “Scrivere per demistificare” 4 (Dulce et Decorum Est vv. 25-28; 1917-1918)

    Folla a Quarto, durante il discorso di D’Annunzio

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    TRADIMENTO

    Qualcuno sceglie la patria per cui combattere.

    I confini segnano il limite della giurisdizione

    e della sovranità d’uno Stato.

    Lungo le linee di confine gli Stati finitimi

    (dal lat. finis = confine)

    entrano in contatto fisico.5

    Correva l’anno 1915. Quando si pensa al momento dell’intervento italiano nella prima guerra mondiale, la

    memoria riporta quasi immediatamente al noto passaggio del Piave da parte “dei primi fanti il ventiquattro

    maggio”.

    Audio "La leggenda del Piave"

    In realtà, quell’attraversamento da parte dell’esercito in divisa regia, non

    è davvero il primo che si possa definire italiano, né sul piano militare né

    su quello politico, dentro il terreno internazionale del conflitto.

    Per alcune migliaia di italiani la guerra è, infatti, già iniziata nell’estate del

    1914, nelle fila del multinazionale esercito austro-ungarico,

    irreggimentati nei reparti mandati, fin dalla prima ora feroce di guerra, al

    macello sul fronte orientale.

    E’ un’accozzaglia di adriatici, con croati e sloveni, di cui si teme il

    tradimento e la diserzione e che si tiene d’occhio, o meglio si schiera

    come “carne da cannone”, con il disprezzo riservato a quelli che la

    propaganda definisce “nemici interni”.

    Immagine6

    Italiani austriaci, dunque, trentini e triestini in gran maggioranza, che vivono il conflitto prima di tutto sul

    proprio corpo, con la propria coscienza e il proprio sentimento nazionale. Infatti, lo scontento diffuso per le

    5 Martin Ira Glassner (trad. it., Romano Gasperoni), Manuale di geografia politica. Volume primo. Geografia e geopolitica

    dello Stato, Franco Angeli, Milano, 2004, p.96. 6 http://grandeguerra.comune.padova.it/category/archivio/

    http://www.lagrandeguerra.net/Audio/Leggenda%20Del%20Piave%20(Intera).mp3

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    condizioni di sudditanza delle minoranze dell’Impero e l’adesione linguistica e culturale alla vicina Italia,

    spingono volontari e irredentisti di ogni colore politico, ad attraversare le Alpi e diventare italiani a tutti gli

    effetti, ovvero, in tempo di guerra, a mezzo della divisa militare.

    Contro la neutralità sfruttatrice e attendista di Giolitti, infatti, contro la

    politica degli accordi segreti tra le diplomazie italiana e austriaca, e di fronte

    alle promesse segretissime di concessioni territoriali da parte della Gran

    Bretagna, poi sottoscritte nel Patto di Londra (26 aprile 1915), Battisti, ex-

    deputato trentino al Parlamento di Vienna, socialista internazionalista

    eppure irredentista convinto, proclama la necessità di questa guerra

    liberatrice per le nazionalità oppresse.

    Mazziniano e austro-marxista fuoriuscito, Battisti si fa promotore della

    liberazione delle minoranze dal giogo di un impero in via di disintegrazione;

    dall’estate del ’15 combatte negli alpini, portando addosso lo stigma del

    «senza patria», dell’«alto traditore», della spia.

    È, in effetti, nel punto di contatto tra Austria e Italia, che ogni italiano

    combatte innanzitutto una strenua e dolorosa battaglia di limite, di confine,

    tra il patriottismo e il sovversivismo, tra coscienza personale e sentimento collettivo di appartenenza, e

    per il futuro, tra mitizzazione nazionale e damnatio memoriae. Al di qua e al di là di quella linea-fronte del

    conflitto, questi italiani “sbagliati”, iconizzati nella figura da cartolina propagandistica del Battisti catturato,

    processato e impiccato per «alto tradimento e frode» dalla ex-patria austriaca (12 luglio 1916), testimoniano

    fisicamente il labile confine tra sentimento nazionale e nazionalismo radicale.

    Galleria di immagini disponibile su www.centenario1914-1918.it/it/foto/

    Figura 1 Fonte foto:www. treccani.it

    http://www.centenario1914-1918.it/it/foto/set/72157651105002019http://www.centenario1914-1918.it/it/foto/set/72157651105002019Galleria%20di%20immagini%20disponibile%20suhttp://www.centenario1914-1918.it/it/foto/

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    Così, in risposta all’imperativo categorico irredentista per un’Austria delenda, Battisti e tutti gli italiani

    austriaci, volontari e non, vengono additati come pietre di scandalo nazionale di entrambi i Paesi, dal primo

    “vero” anno di guerra e ben oltre la firma posta a Versailles sul confine austriaco disintegrato. Pietre che nella

    storia dell’Italia a venire, nella costruzione della retorica militarista fascista dell’ex-compagno socialista

    Mussolini, sono insieme pietre da lapide e pietre di lapidazione. Da un lato, cioè, nutrono il mito

    paternalistico delle origini fasciste nell’irredentismo battistiano; dall’altro, subiscono l’oblio e l’anonimato di

    caduti senza patria su un fronte dimenticato dal racconto della recente storia nazionale.

    «Fra l’uomo e l’umanità c’è un anello di congiunzione che non si può spezzare, né dimenticare: ed è la patria,

    è la nazione», dichiarava Battisti. Ma la forca prima, «suprema maestà dell’Austria» in declino, e il mausoleo

    poi, estrema pietrificazione dell’Italia nella sua storia recente, hanno operato per tutto il Novecento a

    scardinare ogni lembo di quella congiunzione dell’uomo alla sua umanità.

    video Cesare Battisti

    FUORI LA GERMANIA DALL’ITALIA

    (DETEDESCHIZZARE)

    Il complotto straniero: la Banca Commerciale d’Italia bollata come “la “tedesca

    d’Italia”, ovvero come esasperare il senso di patria contro lo straniero.

    Ogni guerra, più o meno combattuta, porta inevitabilmente con sé nuovi appelli all’autosufficienza

    economica, al dover “fare da sé”, al “chiudere le frontiere” al nemico. E ogni volta, altrettanto

    inevitabilmente, dietro alla retorica nazionalista dell’interesse nazionale si nasconde qualche interesse un

    po’ più “particolare”. La Grande Guerra rappresentò anche in tal senso il banco di prova di dinamiche che si

    ripeteranno, uguali a se stesse, a chilometri o decenni di distanza.

    Dietro alla campagna antitedesca contro la Banca Commerciale Italiana che si scatenò in Italia nella primavera

    del 1915 vi era qualcosa di più di una polemica contro un istituto bancario identificato con gli interessi del

    capitale tedesco in Italia.

    http://www.raistoria.rai.it/articoli/cesare-battisti-lirredentista/11987/default.aspx

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    Sulla banca gravavano sicuramente i

    sospetti derivanti dai decennali

    rapporti tra Joel e Giolitti, da cui

    breve era il passaggio ad identificare

    nell’istituto e negli interessi

    economici che rappresentava uno dei

    baluardi delle posizioni neutraliste-

    giolittiane.

    Ma non è un caso che l’intensificarsi

    della polemica coincida anche con

    una fase in cui, all’interno

    dell’industrialismo italiano, andò

    maturando la convinzione che solo un

    intervento in guerra del paese

    avrebbe

    potuto garantire quel rilancio economico e produttivo che la neutralità non era riuscita ad assicurare. E non

    è un caso che, nel dicembre del 1914 fosse stato fondato un nuovo istituto bancario, l’italianissima Banca

    Italiana di Sconto, che doveva necessariamente farsi largo in un terreno volenti o nolenti monopolizzato dalla

    Comit.

    Venuta meno l’illusione dei vantaggi della neutralità iniziò così a consolidarsi, all’interno dell’industrialismo

    italiano, un gruppo, che poteva contare in Confindustria sull’appoggio di Dante Ferraris (finanziatore anche

    de “L’Idea Nazionale”), e che annoverava tra le sue fila lo zoccolo duro dell’industria pesante italiana: l’Ilva e

    l’Ansaldo, nel settore siderurgico; la Edison, in quello elettrico; il gruppo meccanico e metallurgico torinese

    FIAT; tutti a svariato titolo interessati a liberarsi della presenza del capitale tedesco in Italia.

    Uno degli effetti più visibili della campagna antitedesca fu il processo di italianizzazione o

    detedeschizzazione a cui vennero sottoposte numerose industrie strumentalmente identificate come

    avamposti dell’imperialismo tedesco.

    Fu questo il caso della Dalmine, o meglio della Mannesmann di Dalmine – BG -, nata nel 1906, come filiale di un’azienda tedesca. Nel dicembre 1914 iniziò l’attacco mediatico all’industria specializzata nella produzione di tubi di acciaio senza saldatura. Con l’ingresso in guerra, l’allontanamento della Germania dall’Italia, subì ovviamente un’accelerazione.

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    1910 ca. sede degli uffici e della Direzione della Società Anonima Tubi Mannesmann,

    poi diventata, Dalmine.

    La guerra rappresentò in tal senso un momento di forte discontinuità nella storia di questa, come di molte altre industrie in Italia. Il personale straniero venne immediatamente richiamato in patria e i rapporti con la casa madre vennero interrotti; nel giugno del 1915 la guida dell’impresa venne affidata al nuovo amministratore delegato, Giovanni Rota. Nell’ottobre dello stesso anno lo stabilimento di Dalmine fu dichiarato ausiliario. Nel 1916 il consiglio di amministrazione decise l’acquisto di tutte le azioni che ancora si trovavano in mano straniera, attraverso l’intermediazione della Comit.

    Nell’ottobre del 1917, sempre tramite la Commerciale, la società venne incorporata dalla Altiforni, acciaierie e ferriere Franchi Gregorini, completando così l’italianizzazione con l’eliminazione anche della denominazione tedesca, ultimo baluardo rimasto a ricordare le origini “scomode” dell’azienda. Sotto l’ala protettiva degli ingranaggi della mobilitazione industriale, convertitasi alla produzione bellica, anche la Dalmine – liberatasi da ogni equivoco tedeschizzante – poteva ora contribuire alla vittoria del paese (decuplicando nel frattempo i suoi utili).