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L. Gaffuri | L. Darricau | C. A. Pulejo | E. Ghezzi | K. Brockman | S. Riganelli LA RIVISTA DI ELSA TRENTO Numero 27 Autunno 2017 Lex wiki > Diritto d’autore, pubblico do- minio e accesso al sapere > Dalla contumacia all’assenza > Pellicole di carta e inchiostro: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto > I prossimi eventi > Dal codice alla vite: il curioso percorso di Franco Moretti > L’opinione del Prof: Matteo Ferrari - La tutela dei vini di qualità nei mercati extraeuropei > Quelques éléments de compa- raison entre les vins bordelais et les vins du Trentin-Haut-Adige WINE LAW

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L. Gaffuri | L. Darricau | C. A. Pulejo | E. Ghezzi | K. Brockman | S. Riganelli

LA RIVISTA DI ELSA TRENTONumero 27 Autunno 2017

Lexwiki> Diritto d’autore, pubblico do-minio e accesso al sapere> Dalla contumacia all’assenza

> Pellicole di carta e inchiostro: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto> I prossimi eventi

> Dal codice alla vite: il curioso percorso di Franco Moretti> L’opinione del Prof: Matteo Ferrari - La tutela dei vini di qualità nei mercati extraeuropei > Quelques éléments de compa-raison entre les vins bordelais et les vins du Trentin-Haut-Adige

WINELAW

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Director ELSA Rivista: Simone Riganelli, Ludovica GaffuriImpaginazione: Simone Riganelli, Ludovica Gaffuri

Layout: Simone Riganelli, Ludovica GaffuriDirettore responsabile: Alessandro Zaltron

Dal codice alla vite Il curioso percorso di Franco Moretti

Nell’apprezzare il fascino che i nostri vini esercitano non solo in Italia ma anche fuori confine si riesce a comprendere perché sempre più negli ultimi anni il settore vitivinicolo si stia imponendo come settore chiave dell’economia italiana. La viticoltura è molto di più che un hobby per appassionati o un lavoro

per soli biologi, enologi o agronomi e richiede competenze in molti ambiti, non ultimo quello economi-co-giuridico. Si aprono infatti interessanti opportunità per coloro che intendono cimentarsi nel campo: ne discutiamo con Franco Moretti, laureato in giurisprudenza e direttore di stabilimento presso la casa

vinicola Sartori S.p.a. di Verona.

di Ludovica Gaffuri

Lei ha intrapreso un percorso particolare dopo la laurea in giurisprudenza, cosa l’ha spinta verso questa scelta?Inizialmente pensavo, come molti studenti di giuri-sprudenza, di completare il tirocinio e di dedicarmi alla libera professione. Ho però avuto l’occasione, di ricevere l’invito, e di superare la selezione, per l’ammissione ad un corso FSE (Fondo Sociale Eu-ropeo) in tema di gestione della qualità, sicurezza ed ambiente nelle PMI (Piccole Medie Imprese). Ho letteralmente scoperto un settore, al tempo stesso differente da quello della mia formazione, ma nel quale le competenze acquisite, in particolare nell’in-terpretazione ed applicazione delle norme, erano fondamentali. Ho poi iniziato a lavorare, ed appli-cando la teoria appresa, nelle attività quotidiane concrete, ho realizzato quanto mi piacesse lavorare in azienda, attività che, seppur in un ruolo diverso, svolgo ancora dopo quindici anni.

Com’è stato l’impatto con il mondo vitivinicolo?Con la massima sincerità, devo ammettere di es-sere stato molto fortunato, perché fra i settori che, durante il corso FSE, avevo considerato per un fu-turo impiego, l’industria agroalimentare, era uno di quelli che preferivo. Avere poi la possibilità di lavorare nell’ambito di una delle eccellenze del no-stro territorio, che stava e sta conoscendo succes-so e riconoscimenti a livello mondiale, mi ha dato l’entusiasmo e la spinta giusti per affrontare questa nuova esperienza.

Il lavoro in cantina richiede la conoscenza di no-zioni scientifiche? Come si è preparato?Ogni nuova attività richiede l’acquisizione di competenze, e di conoscenze specifiche. In realtà, soprattutto all’inizio, per me è stato importante seguire il flusso dei processi, e comprenderne il fun-zionamento. Quanto alle nozioni scientifiche, come accade quando ci si confronta con un processo o si-

stema complesso, è improbabile che una sola perso-na possegga le competenze necessarie per gestirlo, e quindi è opportuno lavorare in team, mettendo così assieme le conoscenze di più esperti. Da questo lavoro di squadra, abbiamo ottenuto due vantaggi: una visione d’insieme più approfondita, ed una con-divisione delle conoscenze che ha arricchito tutti i partecipanti.

Lavorare presso una cantina le permette anche di stare a contatto con la natura?Nel mio caso, l’attività lavorativa si svolge fonda-mentalmente in azienda: Casa Vinicola Sartori è un importante realtà produttiva, con ruoli specifici e ben articolati, per cui ci sono colleghi e collabora-tori che seguono le attività di campagna, e quindi hanno maggior occasione di “vivere la vigna”.

Svolgendo questo lavoro si hanno contatti con pa-esi europei ed extraeuropei?L’azienda per cui lavoro sviluppa dal 75 all’80% del proprio fatturato all’estero, vendendo i propri pro-dotti in una cinquantina di stati differenti. I contat-ti con operatori stranieri sono quindi frequenti, e spesso richiedono una buona padronanza dell’in-glese, anche tecnico. Mi permetto di sottolineare, soprattutto per chi sta iniziando a pensare al pro-prio futuro nel mondo del lavoro, che ancora oggi, il livello dell’inglese della maggior parte dei neo laureati è scolastico, mentre il padroneggiare questa lingua può essere titolo preferenziale nelle selezione di ruoli chiave da parte delle aziende.

Il mondo scientifico-tecnologico del settore viti-vinicolo evolve in fretta, secondo lei la legislazio-ne europea riesce ad aggiornarsi e stare al passo?Quello del vino, come altri settori della produzione alimentare, vivono una continua tensione fra tradi-zione e progresso. In campo giuridico, altri paesi, come ad esempio l’Australia, sulle stesse materie,

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Seguiteci su:

hanno fatto scelte normative e di controllo estre-mamente diverse da quelle italiane o dell’UE. Cre-do quindi che, sarebbe fondamentale che la nor-mativa, più che stare al passo, fosse semplificata ed armonizzata il più possibile: le aziende per essere competitive, devono potersi muovere in un conte-sto con regole certe e chiare, ed un continuo lavorio sulle norme non le aiuta certamente.

La sostenibilità ambientale acquista sempre una maggiore importanza, il sistema vitivinicolo ita-liano si sta rapidamente convertendo a queste nuove esigenze?Sebbene sia ovvio, la leva che sposta l’orientamento delle aziende è il mercato. Quindi, la sempre cre-scente sensibilità dei consumatori evoluti verso le tematiche della sostenibilità, favorisce l’attenzione dei produttori nei confronti di questi importanti aspetti.La differenza poi sta nell’approccio adottato: Casa Vinicola Sartori ad esempio, è da anni certificata SA8000, standard condiviso da poche migliaia di aziende al mondo, che garantisce la correttezza nei rapporti con i lavoratori al proprio interno, e lun-go la catena di fornitura; chi compie una scelta di questo tipo, lo fa prima di tutto perché crede che il benessere dei lavoratori coincida con il succes-so dell’azienda, e nel momento in cui lo comunica, non lo fa in modo autoreferenziale, ma sulla base di una certificazione rilasciata ad un ente terzo, che verifica semestralmente, su cicli di tre anni, il si-stema aziendale. Parliamo quindi di credere nella sostenibilità, non solo di vederla come l’ennesimo strumento di marketing.

L’Italia ha una grande tradizione vitivinicola, ri-tiene che si stia muovendo bene nella produzione e commercializzazione di vini di qualità?Oltre alla tradizione, in Italia ci sono moltissime realtà produttive d’eccellenza. Credo però che la nostra debolezza sia ravvisabile nella difficoltà che incontriamo nel fare sistema. La competizione glo-bale è fortissima, ed affrontarla singolarmente non

è pensabile. Consorzi e reti d’impresa sono buoni esempi di come, pur competendo fra loro, azien-de dello stesso settore possano collaborare, anche assieme alle università e alle amministrazioni, per essere vincenti sul mercato.

La possibilità di commercializzare il vino attra-verso molti canali diversi rappresenta un’oppor-tunità ma allo stesso tempo si moltiplicano le truffe, soprattutto su internet. L’attività di con-trasto a livello italiano ed europeo è abbastanza efficace secondo lei?Il problema è, effettivamente grave, e difficile da contrastare: il settore agroalimentare è uno dei più ricchi, e l’importanza delle denominazioni geo-grafiche, oltre a quella dei singoli marchi, accresce l’interesse ed il pericolo di truffe e contraffazioni. All’interno dell’Unione gli sforzi volti alla lotta alle truffe sono lodevoli, ma le difficoltà maggiori si incontrano sicuramente quando, per essere effica-ci, le azioni intraprese debbano essere appoggiate anche da entità extra-europee; qui la difficoltà di coordinazione, e gli interessi in gioco sono tali, da rendere spesso vani i tentativi di tutela.Credo che, una delle misure più efficaci per com-battere questi fenomeni, sia l’informazione e la formazione dei consumatori, che è però anche una delle più impegnative per tempi e costi da imple-mentare.

Alcuni paesi, come Cina e varie nazioni del Sud America, hanno iniziato ad occuparsi della col-tivazione e della produzione di vino; questa può essere un’occasione da cogliere per i nostri esper-ti o più in generale per paesi che hanno una gran-de tradizione vinicola?Come spesso si usa dire ogni cambiamento è occa-sione e pericolo al tempo stesso. La tipicità di una zona, non è fatta solo di suolo e condizioni clima-tiche, ma di tradizioni e persone: se si spera che il successo delle nostre denominazioni possa essere tutelato semplicemente applicando un’etichetta di provenienza, e si esporta conoscenza senza criterio, si può essere remunerati in prima battuta, ma se poi non si torna ad investire in innovazione e ricer-ca, il rischio è quello di creare competitors molto aggressivi sul medio periodo.

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L’opinione del Prof.La tutela dei vini di qualità nei mercati

extraeuropei

Chi si reca in un’enoteca all’estero o, più comodamente, chi dal divano di casa naviga su siti dedicati alla vendita di

vini avrà notato la presenza di prodotti che evocano, in modo più o meno diretto, nomi geografici tutelati in Europa come denomi-nazioni di origine protetta (DOP) o indica-zioni geografiche protette (IGP). I produt-tori stessi spesso lamentano il danno che l’industria vitivinicola soffre a causa dell’uso illegittimo di riferimenti geografici “no-strani”. Non è quindi un caso che una delle sfide giuridiche più importanti che la filiera vitivinicola si trova ad affrontare riguardi la protezione di DOP e IGP sia all’interno sia, soprattutto, al di fuori dei confini europei. La materia è caratterizzata da un complesso intreccio di norme nazionali, sovranazio-nali ed internazionali che rende difficoltoso individuare un percorso che tuteli efficace-mente le eccellenze vitivinicole europee.

Consapevole dell’importanza che il com-parto ha sia in termini economici che di im-magine, l’Unione europea ha implementato via via nel tempo una serie di strategie vol-te a rafforzare la protezione di DOP e IGP. In una prima fase ha negoziato, all’interno dell’Accordo multilaterale sulla proprietà intellettuale (c.d. Accordo TRIPS), l’intro-duzione di disposizioni che offrano una difesa per i prodotti vitivinicoli più incisiva rispetto a quella esistente per gli altri pro-dotti. L’art. 23 dell’Accordo TRIPS prevede infatti che le indicazioni geografiche dei vini (in cui rientrano anche DOP e IGP) ri-cevano una protezione tale per cui il nome geografico protetto non può essere utilizza-to per prodotti che non originano dall’area geografica evocata neppure se tale nome è accompagnato da espressioni quali “tipo”, “stile”, “metodo”, etc. o tramite cui, comun-que, si indichi la vera origine del prodotto. Esemplificando, un produttore statunitense non potrà impiegare in etichetta diciture come “Californian Teroldego” o “Teroldego

style”. Ciò differenzia, come si accennava, la tutela di cui godono i vini da quella di cui beneficiano gli altri prodotti: espressioni quali “Californian gorgonzola” o “Gorgon-zola style” sono infatti ammissibili ai sensi dell’Accordo TRIPS. In realtà, questo siste-ma di tutele, sulla carta idoneo a difendere in modo rigoroso i prodotti vitivinicoli di qualità, è contraddistinto da una serie di eccezioni che ne compromettono l’effica-cia. Ad esempio, eventuali marchi registrati prima del 15 aprile 1994 (data in cui l’Ac-cordo TRIPS è stato concluso), così come riferimenti utilizzati in etichetta che coin-cidano con indicazioni geografiche protette possono continuare ad essere utilizzati. Ciò significa, ritornando all’esempio prima ac-cennato, che un produttore statunitense può continuare ad utilizzare espressioni quali “Californian Teroldego” o “Teroldego style” purché abbia registrato tali espressioni come marchi prima dell’aprile del 1994 o le abbia comunque impiegate prima di tale data.

I vari tentativi avanzati dalle istituzioni eu-ropee volti a rimediare, a livello multilate-rale, alle deficienze presenti nell’Accordo TRIPS sono via via falliti e hanno portato ad immaginare una strategia che, invece di in-centrarsi su accordi multilaterali, faccia leva su trattati bilaterali. L’Unione europea ha così stipulato accordi bilaterali con gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, il Sud Africa e altri paesi che sono importatori di vini euro-pei oppure produttori di vini in concorrenza con quelli del vecchio continente. Il conte-nuto di questi accordi è piuttosto semplice. Nella maggior parte dei casi viene inserita una lista di indicazioni geografiche protet-te che i firmatari si impegnano a tutelare, a prescindere dal fatto che tali indicazioni sia-no già registrate come marchi o siano comu-nemente in uso. In questo modo l’Unione europea ottiene quella protezione (bilatera-le) di DOP e IGP che, in ragione delle ecce-zioni contenute nell’Accordo TRIPS, non è

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garantita sul piano multilaterale.

Muovendo da una prospettiva internazionale ad una compara-tistica, le diversità che caratteriz-zano i modelli a presidio dei vini di qualità utilizzati nei singoli ordinamenti rappresentano un dato che, lungi dal rappresentare semplicemente lo sfondo della complessa rete di accordi inter-nazionali ricordata, condiziona in modo profondo i contenuti di quegli stessi accordi. Il fatto che in molti paesi dell’area di common law DOP e IGP siano istituti pressoché sconosciuti, mentre in Europa rappresenta-no il fulcro del sistema di difesa delle eccellenze vitivinicole co-stituisce un dato che spiega in larga misura le difficoltà che l’U-nione europea incontra oggi nel difendere i propri vini al di fuori dei confini europei. Ciò non si-gnifica che paesi come gli Stati Uniti o il Canada non offrano

alcuna tutela al binomio quali-tà – origine territoriale; al con-trario, esistono specifiche forme di marchio, quali i collective marks o i certification marks, che permettono di registrare nomi geografici al fine di con-traddistinguere prodotti agro-alimentari o vitivinicoli in base alla loro origine. Tuttavia questi strumenti sono concettualmente ed operazionalmente differenti dalle DOP e IGP europee. Men-tre queste ultime rispondono ad una logica pubblicistica, da cui viene fatta discendere la loro protezione “forte”, i marchi col-lettivi e di certificazione sono marchi a tutti gli effetti e hanno, di conseguenza, tratti maggior-mente privatistici. Ciò significa che la loro tutela è limitata da una serie di variabili più ampia rispetto a quella rinvenibile nel caso di DOP e IGP.

Per l’Unione europea ricorrere

ad accordi bilaterali tramite cui tutelare le DOP e IGP più signi-ficative sul piano economico ha costituito, per molti versi, una scelta obbligata per superare l’impasse rappresentato non solo dalle molte eccezioni presen-ti nell’Accordo TRIPS, ma, più radicalmente, dalle diverse con-cezioni che i vari ordinamenti hanno delle indicazioni geogra-fiche. È difficile allo stato com-prendere quanto questa strategia si rivelerà vincente, tenendo an-che in considerazione il fatto che sta sempre più prendendo piede la distribuzione di vini tramite piattaforme on-line, mercati più difficili da controllare e sottratti in parte alle dinamiche regolati-ve nazionali.

MATTEO FERRARI, docente di “Diritto alimentare compa-rato” e “Diritto del vino” pres-so la Facoltà di Giurisprudenza

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Quelques éléments de comparaison entre les vins bordelais et les vins du

Trentin-Haut-Adigedi Léa Darricau

Pendant ces 5 mois passés ici, j’ai pu voir quelques dif-férences dans la manière de

vinifier et de conduire la vigne par rapport à ce que l’on m’avait ensei-gné à Bordeaux.

Lors de ma venue dans le Trentin en voiture depuis Bordeaux, je me suis trompée à la sortie pour pren-dre l’autoroute Modène-Vérone et j’ai pris la route nationale (que vous appelez la SS). C’est alors qu’au lieu de prendre 1h, j’ai pris 2h pour faire Vérone-Trento en voiture. Mais cette bêtise fut une vraie chance pour moi étudiante en viticulture! Le paysage que j’ai pu apercevoir m’a tout de suite stupéfaite. Je me suis arrêtée dès que je pouvais pour observer et photographier ce nouveau type de conduite de la vigne qui n’exi-ste pas en France: la pergola! A Bordeaux, mais également dans la plupart de la France viticole, la vi-gne est conduite en guyot. Le pied est plus bas et la production est également plus faible que sur per-gola. Le guyot permet de mécan-iser presque toutes les tâches dans

la vigne ce qui n’est pas le cas pour la pergola (à part le travail du sol et le désherbage). La pergola per-met de travailler debout, de ra-masser les grappes sans se baisser, c’est tout de suite beaucoup moins pénible pour le vigneron! Et il faut l’avouer, le paysage de pergola est vraiment magnifique sur ces bel-les montagnes. Mais ce qui m’a également surprise, ce sont les gros tuyaux noirs que l’on voit ac-crocher sur les poteaux: les tuyaux pour le système d’irrigation que l’on appelle le «goutte-à-goutte» en France. En effet, l’irrigation de la vigne en France est régie par le décret (pris par le Président de la République ou le Premier Ministre, c’est un texte en-des-sous de la loi mais au-dessus de l’arrêté) français n° 2006-1527 du 4 décembre 2006 qui stipule ses conditions de mise en oeuvre:- l’irrigation reste interdite pour tous les vins entre le 15 août et la récolte; - dans le cas de la production de vins de pays et de table (en Italie cela correspond aux IGT), l’irriga-tion est possible après la récolte et

jusqu’au 15 août;- pour les AOC (DOC en Italie), l’irrigation est autorisée après la récolte et jusqu’au 1er mai. Ce-pendant, l’interdiction peut être levée entre le 15 juin et le 15 août par le syndicat de défense de l’ap-pellation d’origine concernée qui effectue une demande de possibi-lité d’irrigation précisant la durée souhaitée de celle-ci auprès du directeur de l’Institut National des Appellations d’Origine (INAO) (l’organisme français qui délivre et gère les dénominations d’origine).

Cette législation a été mise en place de peur que les épisodes de surproduction de vin en France (qui ont eu lieu à la fin du 19ème et au début du 20ème siècle) ne surviennent de nouveau. Elles ont eu pour conséquences plusieurs crises sociales dans le Sud de la France à cause de la baisse trop importante du prix du vin due à la plus importante offre par rapport à la demande.

Je ne sais pas si cette réglementat-ion existe en Italie mais en Fran-

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di Léa Darricau

ce, la levée de l’interdiction est prise suivant le niveau des nappes phréatiques, des ruisseaux, rivières et fleuves et de la pluviométrie. Ici, dans le Trentin, de ce que j’ai compris, l’irrigation est pratiquée selon le choix du viticulteur… il n’y a donc pas de loi ou décret qui régule cette pratique et l’utilisation de l’eau. Il est vrai que le Trentin ne sem-ble pas manquer d’eau grâce à la fonte des neiges au prin-temps. Ceci explique les différences des vins produits dans le Trentin avec ceux produits à Bordeaux et ailleurs en France. J’ai eu des coups de cœur pour les vins blancs qui sont produit dans cette belle région qu’est le Trentin, assez aromatiques et avec des cépages originaux (Nosiola, Mul-ler Thurgau…). Les raisins blancs font de bons vins blancs même lorsque l’on produit beaucoup et qu’ils sont irri-gués mais pour les vins rouges c’est une autre histoire! Les vins rouges trentins pour moi manquent de structure et d’arômes. Ceci n’est l’avis que d’une étudiante en viticulture et œnologie de Bordeaux, je ne suis pas là pour donner des leçons. Je n’ai pas pu étudier la vinification trentine mais du point de vue de la viticulture, je pense que la raison principale est le rendement trop important, possible grâce au type de conduite de la vigne en pergola mais aussi de l’irrigation. En effet, apporter de l’eau à la vigne est utile à la vigne lorsqu’elle souffre de la sécheresse, mais trop d’eau entraîne des raisins plus gros donc des grappes plus gros-ses et surtout de la dilution (une diminution de tout par rapport à la teneur en eau): du sucre (et donc un plus faible degré alcoolique), des tanins (ces molécules qui donnent de la structure en bouche) et des anthocyanes (de la cou-leur) mais surtout des arômes!

Je termine cette petite comparaison par une anecdote que m’a dite une collègue et qui m’a choquée: les vignes sici-liennes sont moins irriguées que les vignes du Trentin! Je pense que cela montre bien la mauvaise gestion de l’eau dans le Trentin pour l’agriculture.

Alors amis viticulteurs Trentins, changez vos pratiques: dans une période où nous devons préserver nos ressour-ces, irriguez moins vos vignes, vous ferez de meilleurs vins rouges et elles seront moins sensibles aux maladies et donc vous traiterez moins! Vous ferez «d’une pierre deux coups» comme on dit en France!

Qualche elemento di confronto tra il vino di Bordeaux e il vino del Trentino - Alto Adige

Durante questi 5 mesi trascorsi qui, ho potuto notare qualche differenza nella maniera di fare il vino e di coltivare la vigna rispetto a quello che mi avevano insegnato a Bordeaux.

Nel viaggio per il Trentino, in auto da Bordeaux, mi sono sbagliata ed all’uscita invece di prendere l’autostrada Mode-na-Verona ho imboccato la superstrada. Invece di viaggiare per un’ora sola, ho impiegato due ore nella Trento-Verona. Ma questa svista ha rappresentato una vera opportunità per me, studentessa di viticoltura! Il paesaggio che ho potuto intra-vedere mi ha subito sorpreso. Mi sono fermata dove potevo per osservare e fotografare questo nuovo modo di coltivare la vite che in Francia non esiste: la pergola! A Bordeaux, come in molte altre parti della Francia vinicola, la vigna si coltiva a Guyot. La base è più bassa e la produzione è meno forte rispetto alla pergola. Il Guyot permette di meccanizzare pres-soché tutte le fasi di lavoro nella vigna, cosa che non accade nella pergola (ad esclusione della lavorazione del suolo e della fase di pulizia dalle erbacce). La pergola permette di lavorare in piedi, di raccogliere i grappoli senza chinarsi, ed è sicura-mente meno faticosa per il vignaiolo! E… devo confessarlo, il paesaggio della pergola è veramente magnifico tra queste belle montagne. Ma ciò che mi ha altrettanto sorpreso sono i grandi tubi neri che si vedono appesi ai paletti: i tubi neri per il siste-ma d’irrigazione che chiamiamo “goccia a goccia” in Francia. In realtà, in Francia l’irrigazione della vigna è disciplinata dal decreto n.1527 del 4 dicembre 2006 che stabilisce queste con-dizioni di messa in opera:

- L’irrigazione resta proibita per tutti i vini tra il 15 agosto e la raccolta;- Nei casi di produzione dei vini “de pays” e “de table” (che in Italia corrispondono agli IGT), l’irrigazione è possibile dopo la raccolta e fino al 15 agosto- Per gli AOC (DOC in Italia), l’irrigazione è autorizzata dopo la raccolta e fino al primo maggio. Tuttavia, il divieto può es-sere derogato tra il 15 giugno ed il 15 agosto. Il sindacato per la difesa della denominazione di origine interessata, può infatti promuovere una domanda di possibilità di irrigazione precisando la durata desiderata ed inoltrandola presso l’istitu-to nazionale per la denominazione d’origine (INAO).

Questa legislazione è stata adottata per evitare che episodi di sovrapproduzione di vino in Francia (avvenuti tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX) si verifichino nuovamente. A causa di queste sovrapproduzioni ci sono state diverse crisi sociali nel sud della Francia, poiché il prezzo del vino con-tinua a calare: l’offerta era in eccesso rispetto alla domanda.

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Non so se questa regolamentazione esista anche in Italia, ma in Francia la sospen-sione del divieto è concessa anche sulla base degli schemi delle falde acquifere, dei ruscelli, dei fossati, dei fiumi e dello studio delle piogge.Qui in Trentino, da quanto ho capito, l’irrigazione è praticata a scelta dell’agri-coltore… non c’è dunque una legge che regoli questa pratica e l’uso dell’acqua; è anche vero che in Trentino l’acqua non sembra mancare grazie alla neve che si scioglie in primavera. Questo spiega le differenze tra i vini prodotti in Trentino e i vini prodotti a Bordeaux e in altri luoghi della Francia. Sono rimasta molto sorpre-sa dai vini bianchi che sono prodotti in questa bella regione, abbastanza aromati-ci e provenienti da vitigni autoctoni (No-siola, Muller Thurgau,…). Le uve bianche producono dei buoni bianchi anche se si ha un’ampia produzione e irrigazio-ne ma per i rossi è un’altra storia! I vini rossi trentini, a mio parere, mancano un po’ di struttura e di aromaticità. Questa non è che l’opinione di una studentessa in viticoltura e enologia di Bordeaux, non sono qui per impartire lezioni! Non ho potuto studiare la vinificazione trentina ma dal punto di vista della viticoltura, credo che il motivo di tale mancanza sia il rendimento troppo alto, possibile gra-zie al modo di conduzione della vigna a Pergola ma anche grazie all’irrigazione. Sicuramente portare acqua alla vigna è utile affinché non soffra per la siccità, ma troppa acqua fa crescere acini più grandi e quindi grappoli più grandi, si ha quindi una diluizione dello zucchero (e quindi una gradazione alcolica minore), dei tan-nini (le molecole che donano struttura al palato) e degli antociani (le molecole responsabili del colore), ma soprattutto degli aromi!

Chiudo questo piccolo confronto con un aneddoto che mi ha riferito una collega e che mi ha scioccato: le vigne siciliane sono meno irrigate di quelle trentine! Credo che questo mostri con efficacia la gestione poco efficiente in Trentino dell’acqua in agricoltura.

Allora amici viticoltori trentini, cambiate le vostre pratiche: in un periodo in cui dobbiamo preservare le nostre risorse, irrigate meno le vostre vigne, farete dei vini rossi migliori che saranno meno sensibili alle malattie e potrete diminuire i trattamenti! Prendere due piccioni con una fava o vous ferez « d’une pierre deux coups », come si dice in Francia!

traduzione a cura di Ludovica Gaffuri

La stesura della tesi di laurea è forse la tappa più impor-tante del percorso accademico di uno studente: ci si confronta con una vastissima gamma di opinioni e di

dissertazioni e si diventa titolari, attraverso l’esercizio della scrittura, del diritto di dire la propria sull’argomento prescel-to.

L’attività di ricerca pone a sua volta capo ad un’altra impor-tante questione che attiene all’accesso alla conoscenza. Del resto come disse un tempo Bernardo di Chartres, siamo “nani sulle spalle dei giganti”. Con alcune sostanziali diffe-renze tra paesi di civil law e di common law, l’accesso alle idee trova una compiuta disciplina nell’ambito del diritto d’autore. Il diritto, benché se ne dica, non è un fenomeno puramente concettuale, avulso dalla realtà circostante, ma è, al contrario, una disciplina pratica, deputata alla risoluzione di problemi concreti.

Ebbene, il diritto d’autore non fa eccezione a questa regola. Volendo schematizzare quest’ordine di idee, senza pretese di esaustività e nei limiti imposti dal contesto in cui si scrive, è possibile individuare al riguardo due differenti posizioni.

Da un lato, v’è l’interesse di autori ed editori che si articola nella facoltà di sfruttare l’opera in termini economici (diritto patrimoniale) nonché nel diritto a rivendicarne la paternità, ad opporsi a modificazioni indesiderate che possano essere lesive della reputazione e dell’onore dell’artefice dell’opera originaria, a mantenere l’anonimato ed altresì a non proce-dere alla sua pubblicazione (diritto morale dell’autore).

Dall’altro lato, v’è l’interesse del pubblico al libero accesso alla conoscenza ed alla circolazione delle idee (pubblico do-minio). Il principale fine della disciplina del diritto d’autore consiste, o perlomeno dovrebbe consistere, in un equo bilan-ciamento di detti interessi.

Sennonché, alcune tendenze degli ultimi anni tese a raffor-zare la tutela del diritto d’autore rischiano di mettere in crisi il pubblico dominio e l’intero apparato della scienza e della ricerca, precludendo oltremodo l’accesso al sapere ed alla conoscenza. Eppure, a partire dalla seconda guerra mondiale, la scienza è cresciuta esponenzialmente, insieme al numero degli ope-ratori e delle istituzioni scientifiche; sono migliorati i sistemi di comunicazione e sono altresì aumentate il numero delle

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Diritto d’autore, pubblico dominio e accesso al sapere

di Carlo Alberto Pulejo

pubblicazioni e delle sedi editoriali. A questo genere di espansione non è tuttavia corrisposta un’altrettanta diffusione dell’informazione che è, al contrario, rimasta fortemente concentrata nelle mani di pochi grandi at-tori e gli sviluppi più recenti di internet non hanno mi-gliorato la situazione. Il fenomeno della digitalizzazione ha infatti favorito il deposito del sapere presso poche ed esclusive banche dati il cui accesso, oltre a comportare dei costi esorbitanti, risulta impossibile anche alle stes-se biblioteche spesso incapaci di sostenere i costi degli abbonamenti. A ciò si aggiungono inoltre le sempre crescenti difficoltà che incontrano docenti e ricercatori nell’insegnare e nel fare ricerca. Ad alcuni di essi, specie quelli provenienti dai paesi meno sviluppati, l’accesso alla conoscenza è addirittura precluso. È evidente come tutto ciò rallenti le potenzialità di avanzamento del pro-gresso scientifico, producendo dei danni enormi. Analizzato il problema non resta che indagarne le so-luzioni. Esiste cioè la possibilità di allentare la stretta morsa del diritto d’autore al fine di restituire al pubblico dominio il ruolo da protagonista che merita in seno al

mercato della creatività? Sono state al riguardo propo-ste varie alternative. Tra di esse spicca il movimento Open Access (OA) che si propone il fine di promuove-re la libera circolazione delle idee e l’utilizzo del sapere scientifico eliminando le barriere in entrata che sbarra-no l’accesso alla conoscenza. L’OA rispetta il copyright e, in particolare, il diritto di paternità degli autori e si articola in due forme fondamentali: da un lato v’è una modalità totalmente gratuita di accesso al sapere che si avvale della rete, dall’altro una differente tipologia, detta “Libre” che, accanto al diritto di accesso, concede alcune facoltà aggiuntive, garantite attraverso l’utilizzo di spe-cifiche licenze quali, ad esempio, le Creative Commons. Nel relativamente lontano 2006, Aaron Swartz si inter-rogava su quale fosse l’eredità più importante di un ac-cademico e la identificava, non nel fatto di primeggiare in una determinata disciplina ma nell’impegno teso a migliorare il sistema della conoscenza. È dunque possi-bile liberare la scienza dalle catene che la imbrigliano? La domanda resta aperta.

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PROFILI PROBLEMATICI E CRITICITÀ ALLA LUCE DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI STRASBURGO

di Eugenia Ghezzi

Nel 2014 il legislatore ha abolito la contumacia nel processo penale, am-

pliando la figura dell’assenza dell’imputato ed introducendo la possibilità di una sospensione del processo. In realtà tale modifica è stata definita in dottrina come una “truffa delle etichette” perché la figura dell’assenza dell’imputa-to è stata ampliata fino a consen-tire lo svolgimento del giudizio anche in casi nei quali non vi è una conoscenza certa – ma solo presunta – del processo.

Prima della riforma il regime del-la contumacia rendeva possibile la celebrazione di un processo anche nei confronti di colui che non aveva mai avuto conoscenza della citazione (contenuta nell’at-to di esercizio dell’azione penale), e nemmeno del procedimento. La contumacia, infatti, poteva essere dichiarata anche qualora non vi fosse la prova o la proba-bilità della conoscenza dell’avviso di fissazione dell’udienza preli-minare. Tuttavia, la disciplina del codice di procedura penale del 1988 presentava un aspetto problematico con riguardo alla figura dell’irreperibile: in que-sto caso, come nelle ipotesi di colpevole mancata conoscenza del processo e notifica dell’atto mediante consegna al difensore, il giudice non poteva apprezzare la probabilità della mancata co-noscenza e dunque il processo doveva proseguire in contumacia anche laddove vi fosse la certezza della mancata conoscenza della citazione.

Questo assetto normativo è stato oggetto di numerose condanne da parte della Corte di Strasbur-go che – pur ritenendo compati-bile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo il processo contumaciale – ha ravvisato una violazione del principio dell’equo processo di cui all’art. 6 CEDU.

In particolare deve menzionarsi il caso Sejdovic (2004), che die-de origine ad una c.d. sentenza pilota, e che censurò la disciplina italiana della restituzione nel ter-mine per impugnare. Per garanti-re un pieno ed effettivo esercizio del diritto ad essere presente al processo deve essere riconosciu-to al soggetto condannato in con-tumacia, venuto successivamente a conoscenza del procedimento o della sentenza, un rimedio attra-verso il quale ottenere una nuova statuizione nel merito dell’accusa consistente nella celebrazione di un nuovo giudizio, ovvero nella riapertura dello stesso; tale rime-dio doveva conseguire in manie-ra automatica, senza la necessità per l’istante di dover dare prova di non essersi volontariamente sottratto alla giustizia.

L’ordinamento italiano, infatti, consentiva la restituzione nel termine per impugnare all’im-putato che non avesse avuto ef-fettiva conoscenza della sentenza contumaciale, ma solo qualora tale ignoranza fosse incolpevole; nel caso dell’irreperibile, invece, la restituzione era subordinata alla prova della non volontaria sottrazione alla conoscenza del

processo.

Dopo la condanna nel caso Sej-dovic il legislatore è intervenuto con legge n. 60/2005 “ampliando” il rimedio di cui all’art. 175 c.p.p. nel senso di concedere la resti-tuzione in seguito ad una mera richiesta del contumace; con una “inversione dell’onere della pro-va” spettava all’autorità giudizia-ria dimostrare che vi fosse una conoscenza del procedimento. Anche tale strumento mostrava la sua problematicità perché con-trario all’economia processuale (dato che il processo avrebbe potuto essere caducato dopo la comparizione dell’imputato) e perché non consentiva una resti-tuzione piena ma soltanto la pos-sibilità di proporre gravame.

L’evoluzione normativa è prose-guita con la riforma del 2014 che – come preannunciato – ha abo-lito la contumacia ed introdotto l’alternativa tra la prosecuzione in assenza e la sospensione del processo. Ai fini dello svolgi-mento del processo in assenza dell’imputato è necessaria (e suf-ficiente) la conoscenza del pro-cedimento, che viene desunta da una serie di situazioni, i c.d. fat-tori sintomatici. Tali indici sono elencati nell’art. 420-bis c.p.p. e consistono nella dichiarazio-ne o elezione di domicilio, nella sottoposizione ad una misura cautelare, all’arresto o al fermo, nella nomina di un difensore di fiducia. Si tratta peraltro di una tipizzazione aperta, perché vi è una clausola di chiusura in base

DALLA CONTUMACIA ALL’ASSENZA

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alla quale può svolgersi il proces-so in assenza dell’imputato anche qualora risulti con certezza che lo stesso sia a conoscenza del proce-dimento ovvero si sia volontaria-mente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti dello stesso. Nel caso in cui non pos-sa presumersi tale cognizione dovrà, invece, essere disposta la sospensione (dopo che sia stato effettuato un tentativo di notifica personale “rafforzata” da parte della polizia giudiziaria).

Per “bilanciare” il meccanismo presuntivo della conoscenza del procedimento e per dare piena attuazione alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uo-mo il legislatore è intervenuto sui rimedi a disposizione dell’impu-tato che – pur a conoscenza del procedimento – abbia avuto con-sapevolezza dell’esistenza del pro-cesso solo successivamente. Tra questi vi sono la revoca dell’or-dinanza dichiarativa dell’assenza (se l’imputato compare in primo grado) e la possibilità di ottenere la celebrazione di un nuovo pro-cesso in primo grado in esito al giudizio di appello, al ricorso in cassazione o alla rescissione del giudicato.

La riforma del 2014 presenta al-cuni profili problematici, sia con

riguardo ai presupposti del giudi-zio in absentia, che in relazione ai rimedi restitutori. Gli indicatori tipizzati sono in grado di dimo-strare una effettiva conoscenza del procedimento, ma tali attività (come la nomina del difensore di fiducia) possono venire poste in essere nelle prime battute delle indagini preliminari. L’aspetto più critico è costituito dalla dop-pia presunzione, dato che dalla conoscenza del procedimento viene presunta quella del proces-so (e dunque della citazione). Se – da un lato – siffatti meccanismi presuntivi sono necessari a meno di non voler predisporre forme di notifica sempre personale degli atti, non può non essere eviden-ziata la rigidità con cui operano, che avrebbe potuto essere atte-nuata dalla previsione di un mar-gine di apprezzamento, a favore del giudice, per valutare la pro-babile conoscenza del processo (e disporre, dunque, la rinnovazio-ne della citazione).

L’altro aspetto problematico attiene al gravoso onere pro-batorio cui sono subordinati i rimedi a disposizione dell’im-putato: quest’ultimo deve infatti dare prova non solo della man-cata conoscenza del processo, ma anche dell’assenza di colpa. Una tale restrizione all’accesso ai

rimedi è suscettibile di generare un nuovo contenzioso europeo. Infatti considerando, alla luce della riforma, l’orientamento espresso dalla Corte di Strasbur-go nel caso Sejdovic, non può non porsi in evidenza il difficile onere probatorio che colui che è stato condannato in via definitiva deve soddisfare per poter accede-re al rimedio della rescissione del giudicato.

La recente riforma Orlando, ap-provata con legge n. 103/2017, ha inciso sulla disciplina del proces-so in absentia, senza tuttavia ri-solvere gli snodi più problemati-ci. La rescissione del giudicato ha subito una consistente modifica, in quanto la competenza è passata dalla Cassazione alla Corte d’ap-pello. Tale modifica, auspicata in dottrina, ha sgravato la Corte di cassazione da un elevato numero di ricorsi ed ha riportato il suo ruolo all’interno del sindacato di legittimità in quanto, doven-dosi pronunciare sulle richieste di rescissione diventava giudice del fatto perché il giudizio ne-cessitava di una fase istruttoria. Il difficile onere probatorio è ri-masto, però, a carico dell’istante e – se non sarà oggetto di un futuro intervento normativo – dovrà es-sere interpretato in maniera con-venzionalmente conforme.

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Pellicole di carta e inchiostro

L’idea di questa rubrica nasce dal desiderio di fornire un sostituto al consueto cineforum tematico che ELSA Trento ha proposto per anni agli studenti di giurisprudenza e non, una formula (quella di proiettare una serie di film che analizzano aspetti o problematiche del mondo giuridico e di commentarli poi insieme ad un docente o ad un professionista del settore) che si è sempre rivelata vincente, ma che quest’anno siamo stati costretti a non riproporre per l’alto numero di conferenze, cop, simulazioni e altri eventi da organizzare. Il cineforum quindi non si è preso un anno di pausa, ma si è semplicemente trasferito dal teatro Sanbàpolis al wikiLex!!

“Qualunque impressione fac-cia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano”.

Mi prendo la libertà di iniziare l’a-nalisi di questo film proprio con l’ultimo fotogramma prima dei titoli di coda: si tratta di una cita-zione di Franz Kafka che riassume perfettamente la tematica portante della pellicola firmata dal regista Elio Petri e dal suo sceneggiatore Ugo Pirro nel 1970.

La vicenda raccontata è tutta orien-tata alla stimolazione nello spet-

tatore di una riflessione intorno al potere, ai suoi effetti negativi su chi lo detiene, ma soprattutto agli effet-ti che esso genera nelle altre perso-ne, che si sentono inevitabilmente in soggezione di fronte al potere stesso e a chi lo detiene.

È inoltre la prima volta che nel cine-ma italiano viene fornita la rappre-sentazione di una Polizia violenta (a tratti spietata e machiavellica), de-bole e retrograda. Certamente tale visione è una diretta conseguenza della rivoluzione culturale del 1968 e certamente non è stata allora, e non è oggi, condivisa da tutti. Ma quel che importa non è tanto se la

sua descrizione corrisponda a real-tà o meno, quanto la rottura di un tabù, e il coraggio del regista di af-frontare un tema così scomodo con una tale serietà e lucidità.

Può il Direttore dell’Unità politi-ca della Polizia di una grande città compiere un omicidio ed essere per questo accusato, alla luce di prove schiaccianti, o risulterà sempre e comunque, grazie al ruolo che rico-pre nella società, al di sopra di ogni sospetto?

Il protagonista della pellicola non ha un nome, e tutti gli altri per-sonaggi si rivolgono a lui identi-

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ficandolo semplicemente con la posizione che ricopre nella Polizia (e proprio durante la vicenda nar-rata egli passa ad essere da capo della sezione Omicidi a capo della sezione Reati Politici), o chiaman-dolo “dottore” in segno di rispetto. Quest’aspetto è tutt’altro che un dettaglio: da un lato infatti, egli non è più un uomo a tutto tondo, ma si riduce ad essere soltanto lo specchio della sua immagine pub-blica, del ruolo di potere che ri-copre, del suo essere una persona onorevolissima e rispettabilissima (si pensi al primo colloquio con l’i-draulico). D’altra parte forse que-sta scelta potrebbe suggerire che il problema non sia soltanto nella singola persona che ha commesso il delitto, ma anche nel potere in sé, che in un certo senso è il vero re-sponsabile della deriva psicologica di un soggetto misero e instabile. Certamente il “dottore” è rappre-sentato come un uomo psicologi-camente debole, infantile, ma forse proprio in virtù di questa debolez-za, che egli tenta in ogni modo di occultare, la posizione pubblica e sociale da lui ricoperta lo ha defi-nitivamente inglobato e divorato.

Questo ha comportato lo svilup-po di una seconda personalità del “dottore”: sin dal momento stesso della commissione del terribile delitto si alternano nello stesso uomo due identità, una che agisce con l’ovvio intento di scampare alla giustizia, e l’altra che fa di tutto per mostrare al mondo la colpevolez-za del Direttore stesso, per rende-re palese che l’autore del delitto è proprio lui, sfidando apertamente il sistema e portando all’eccesso il suo desiderio di autoaffermazione. Questo alter ego, nei momenti in cui prende il sopravvento, disse-mina i luoghi del delitto di prove evidenti: il filo della cravatta az-zurra nell’unghia della vittima, le impronte digitali su tutto l’apparta-mento, l’impronta della scarpa im-pressa sul sangue, i gioielli rubati e riconsegnati alla questura, fino ai due atti più eclatanti, ovvero l’aver rivelato la propria colpevolezza ad

un passante (e l’essersi fatto poi ri-conoscere da lui in centrale) e la lettera di confessione. L’ossessione estrema del Direttore di fornire ai propri colleghi prove sempre più schiaccianti della sua colpevolezza lo porterà ad essere finalmente ac-cusato e processato o il ruolo da lui ricoperto nel sistema giudiziario e nella società lo scagionerà da ogni accusa? La risposta non viene for-nita, dal momento che la pellicola si chiude con un finale aperto, ma certamente essa non è tanto im-portante quanto il dubbio che tutta la vicenda instilla nello spettatore.

Quello che invece è mostrato chiaramente è la descrizione degli eccessi e degli abusi di potere per-petrati dal protagonista, e quindi per estensione dalla Polizia stessa. Un’immagine che come ho detto è certamente figlia del tempo in cui il film è stato scritto e girato, ma di cui non bisogna sottovalutare la portata rivoluzionaria nell’econo-mia della cinematografia italiana.

A tal proposito vorrei soffermarmi principalmente su due scene. La prima è quella dell’interrogatorio di due dei ragazzi sovversivi che hanno fatto esplodere un ordigno nella centrale e uno nella banca. In un momento precedente della pellicola, assistiamo al dialogo tra il questore e il direttore, in cui que-sti chiede di avere la disponibilità di tre appartamenti in città in cui poter interrogare personalmente i sospettati; la richiesta viene facil-mente assecondata in cambio del silenzio.

Come viene poi mostrato nelle scene successive, gli interrogatori svolti dal direttore sono violenti, sadici e molto simili a delle tortu-re, e non rispettano probabilmente nessuna delle garanzie che il codi-ce di procedura penale prevede a garanzia dei diritti dell’imputato.

Volendo citare rapidamente qual-che norma, ai due ragazzi non viene data la possibilità di sce-gliersi un difensore (art 96 cpp) e di conferire con esso (art 104 cpp), né la libertà morale e la facoltà di non rispondere (art 64 cpp). Inol-tre un agente della Polizia di Stato potrebbe svolgere un interrogato-rio, in veste di Polizia giudiziaria, solo a seguito dell’autorizzazione del PM e l’intero procedimento dovrebbe essere integralmente documentato (art 114bis cpp). A onor del vero, va detto che questa rapida carrellata normativa è trat-ta dall’attuale codice di procedura penale, entrato in vigore solo nel 1988, cioè 18 anni dopo l’uscita del film: è probabile quindi che le tute-le di cui potevano godere i sogget-ti sottoposti ad interrogatorio in quegli anni fossero diverse.

Appare in ogni caso evidente come nelle scene della pellicola in que-stione non ci sia alcun rispetto del-la dignità umana dei due ragazzi, valore ben più intuitivo e pregnan-te delle semplici norme procedu-rali (celebre la citazione “Tu non sei un cavallo! Tu sei un cittadino democratico!”), e di come si tratti invece di forme di abuso di potere.

di Kent Brockman

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Anzi, a voler essere più tecnici si potrebbe parlare forse di concus-sione, dal momento che il pubblico ufficiale concretizza il compimento di un atto o comportamento del proprio ufficio (l’interrogatorio), strumentalizzato però per perse-guire fini personali (in questo caso far ricadere i sospetti dell’omicidio sul giovane Antonio Pace), o forse di estorsione aggravata, dal mo-mento che in concreto le condotte poste in essere dal “dottore” durante l’interrogatorio rappresentano dei comportamenti palesemente ina-deguati e illeciti, e quindi diversi da quelli normativamente previsti per il compimento del proprio ufficio, ma supportati dalla posizione inti-midatoria dovuta al ruolo sociale e professionale ricoperto (art 61 cp).

La seconda scena sulla quale vor-rei soffermarmi è quella, celebre, del discorso tenuto dal “dottore” al momento dell’accettazione del suo nuovo incarico di capo della sezio-ne dei Reati Politici. Un discorso reso celebre dall’interpretazione – semplicemente pazzesca – di Gian Maria Volontà, e che vorrei ripor-tare qui parzialmente: “L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costi-tuite... L’uso della libertà, che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di espletare libera-

mente le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la cit-tà è malata; ad altri spetta il com-pito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!”. Un discorso, fortemente acclamato e applaudito dai colleghi del direttore, ma che è figlio di una concezione del diritto penale re-trograda, svilente e – lo dico aper-tamente – fascista. Nelle facoltà di giurisprudenza viene oggi inse-gnato che il diritto penale ha una doppia funzione: quella retributiva, volta a punire il colpevole, e quella preventiva, generale (impedire che altri soggetti commettano lo stesso delitto) e speciale (impedire che lo stesso soggetto delinqua di nuovo); non certo che il livello di civiltà di un popolo si misura nella severità e nell’asprezza delle sue pene!

Il potere privo di limiti trasforma l’Uomo nel servo di un Ideale, la Legge, quando dovrebbe essere quello stesso Ideale a servire l’Uo-mo: “Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo”, altro concetto oggi ana-cronistico, dal momento che è paci-fico che sia la legge a dover evolvere e a doversi adeguare alle esigenze di una collettività in continuo mu-

tamento, per il conseguimento del vero e autentico bene pubblico.

In questa breve analisi mi sono concentrato esclusivamente su ri-flessioni giuridiche e, in senso lato, sociologiche; il film è denso di ri-ferimenti culturali e artistici (da Bertolt Brecht a Wilhelm Reich, da Karl Marx a Franz Kafka, dal thril-ler politico all’americana al grotte-sco), e certamente potrebbe essere oggetto di analisi psicologiche più approfondite, ma non essendo que-ste materie di mia pertinenza, mi limito a quanto detto.

Completano il quadro uno straor-dinario Gian Maria Volontè, che fornisce una delle performance at-toriali migliori di sempre, ed Ennio Morricone, autore per questo film di alcune tracce talmente iconiche da essere anche oggi conosciute e ricordate da tutti.

“Una delle colpe della mia gene-razione è di non avere contribuito abbastanza alla costruzione di una società veramente democratica.”(Elio Petri)

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Gli appuntamenti di Novembre e Dicembre di ELSA Trento

acura diSimone

Riganelli

STEP DAYUn incontro informale per discutere dei tirocini retribuiti in Italia e nell’U-nione Europea offerti da ELSA Tren-to, in compagnia del VP Step e del Director Step!

> bar - ristorante “Il Simposio“> 22 novembre 2017> ore 18.00 - 19.30

Conferenza: Protezione del patrimonio culturale e diritti umani

> Facoltà di Sociologia> 12 dicembre 2017 > Orario e sala da definirsi

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RIVISTA DI ELSA TRENTOPeriodico dell’Associazione ELSA Trento

Registro Stampe del Tribunale n°1111 del 30.11.2002

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