Krill 02 Fuga

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Immaginario

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La parola fuga risuona da ogni parte. Ogni viaggio, come ogni atto creativo è, in un certo senso un fuggir via... Intanto nel quotidiano, ciascuno è impegnato nella ricerca delle proprie personali evasioni...tutto lascia pensare che siamo in costante, spasmodica ricerca della luce verde con la scritta escape.

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Immaginario

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Il trucco consiste nel prevedere le azioni degli av-versari. A lungo andare, anche nei sistemi più comples-si, ci si abitua e – ripetendo la stessa scena più volte – si riesce a superare il livello senza particolari proble-mi. Si procede, come nella vita, per tentativi, prove ed errori. Una differenza, però, c’è ed è fondamentale: non si muore veramente.

Solitamente in pochi momenti della nostra vita pos-siamo vivere l’esperienza della morte senza morire re-almente. Tra questi, vi sono i sogni e il videogioco. Nel primo caso, l’esperienza della vita in un “altro-mondo” ha impressionato l’uomo sin dai tempi antichi: al chiu-dere degli occhi e con l’inizio del riposo, lo sguardo viene proiettato in altri ambienti, osservati e interagiti con i sensi della mente.

Il videogioco, in questo senso, sembra offrire un’esperienza simile. Ovviamente qui siamo consci e i nostri sensi agiscono nel reale, ci muoviamo, guar-diamo e sentiamo fisicamente. Eppure impersoniamo un’altra persona, all’interno di un altro ambiente, en-trambi senza concretezza alcuna ma effetto di algoritmi matematici, assemblaggio di pixel e script.

L’impersonare “altri da noi” ha assunto, nel tempo, diverse declinazioni: il teatro, ad esempio, lo ha definito come “stile Stanislavskij”, la psicologia si esprime nei termini di “tecnica dello psicodramma di Moreno”, nelle tribù antiche è associabile alla “reincarnazione”, nella dimensione informatica è conosciuto come “avatar”. Dopotutto anche Shakespeare aveva scritto come, nel-la propria vita, l’essere umano reciti un ruolo, anzi più di uno, e la sua vita si svolge su quell’enorme palco che è il mondo: tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti…

E vi è anche il gioco, per l’appunto; uno di quei processi fondamentali che concorre nella costruzione dell’essere umano. Attraverso di esso l’uno immagina di essere altro e, a volte, un terzo. Dal fingersi indiani o cowboys, a poliziotti o astronauti, a supereroi o fa-mosi personaggi dello sport. Questi erano, un tempo, immaginari comuni. Oggi, invece, al gioco si aggiunge la dimensione video che muta profondamente, sul pia-no fisico soprattutto, il senso di immedesimazione del giocatore. Con esso l’uomo non deve più immaginare di essere altro; non ha bisogno di costruire nella sua mente la scena e il ruolo, dacché vi è uno schermo che lo fa per lui. In questo senso, il videogioco si potrebbe considerare come l’estensione della nostra immagi-nazione. Anche se, val la pena ricordarlo, nella nostra mente siamo noi a immaginare e a decidere chi siamo e dove siamo; nel videogioco questi sono elementi che ci vengono forniti, pre-confezionati, da altri individui, ov-vero i programmatori.

Ad ogni modo, l’individuo si immedesima in un per-sonaggio che vede in uno schermo e che può gestire come fosse il proprio corpo o, per dirla con McLuhan (Understandig Media, 1964), estensione del proprio corpo. L’immedesimazione in un personaggio, ora visi-bile e non più immaginato, con la sua storia e le sue caratteristiche. Ci si sottrae per un “momento” (la cui durata è relativa al livello di immedesimazione e coin-volgimento che l’utente assume nel gioco) alla vita quo-tidiana per entrare in un’altra vita, in un altro-mondo, abbandonando la propria identità e impersonandone una nuova. Così come nel sogno, quindi, la mente si libera dalla debolezza del corpo, fugge dalla vita rea-le per intraprendere un nuovo percorso, senz’altro per nulla pericoloso.

Questo tipo di esperienza ci porta a ragionare su

REALTÀ AUMENTATE: VIDEOGAMES TRA SIMULAZIONE ED ESPERIENZADario De Notaris

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due sfere in particolare: quella della simulazione e quella della rappresentazione della realtà, all’interno del mondo video-ludico. Normalmente, assistere ad un evento prevede due modalità di fruizione: una, compre-sente nello spazio e nel tempo, ovvero – ad esempio – il sedere sugli spalti dello stadio durante lo svolgimento di una partita; un’altra, compresente solo in un tempo, fruita attraverso gli schermi televisivi, in una diretta che – per quanto live – non è del tutto in tempo reale. In riferimento al tempo, infatti, potrebbe essere più oppor-tuno esprimersi nei termini di “indeterminazione”, con “in un…”, piuttosto che di “determinazione”, con “nel…” tempo. Quello che può sembrare un vezzo terminolo-gico appare, invece, intriso di un’importante condizio-ne che ci permette di valutare il grado di esperienza mediata dallo schermo. Il concetto di esperienza – e quindi il rapporto tra rappresentazione e simulazione – potrebbe, infatti, differire in base alle generazioni che, oggi, possono essere raccolte sotto le definizioni di di-gital natives e digital immigrants. I nativi digitali sono i nati nel pieno boom dei nuovi media e di Internet. Co-loro che hanno costruito la propria identità nel corso degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e si ritrovano, oggi, ad interagire con i nuovi media con la stessa facilità con la quale si potrebbe aprire una por-ta. Gli immigrati digitali sono, per contrasto, coloro che hanno vissuto il passaggio dai vecchi ai nuovi media, formando così la propria identità sugli schemi dei me-dia analogici. Possono riscontrare difficoltà nell’usare i media digitali. Se, nel caso dei nuovi media, costoro sono i primi ad assumere un ruolo maggiormente attivo sui contenuti e sugli strumenti, nel caso dell’esperien-za reale sembra che i ruoli si invertano. L’esperienza mediata dallo schermo appare quasi trasformare le suddette due terminologie generazionali in altrettante nuove: real natives e real immigrants. Possiamo così riscontrare la presenza dei “nativi reali”, ovvero coloro che sono cresciuti con i vecchi media e, soprattutto, hanno affrontato un’esperienza diversa del mondo. La suddetta partita di calcio l’hanno vista direttamente allo stadio o, al massimo, ascoltato la cronaca alla radio, immaginando le azioni raccontate dallo speaker. Per conoscere i luoghi avevano necessità di muoversi fisi-camente così come, secoli fa, si usavano le cartografie per descrivere i posti che i mercanti, i navigatori e gli esploratori visitavano. Le attuali generazioni sono, inve-ce, gli “immigrati reali”; coloro che fanno esperienza del mondo principalmente attraverso uno schermo.

Ed oggi lo schermo diventa sempre più sottile, rendendo meno evidente la separazione tra mondo e altro-mondo. Per decenni si è parlato delle esperienze effettuate attraverso i nuovi media e, in particolare, at-traverso il computer, come “realtà virtuali”. La “realtà vir-

tuale” è stata utilizzata soprattutto per fare riferimento a quegli ambienti ricostruiti completamente al computer, all’interno dei quali l’individuo può interagire con ogget-ti che non hanno alcuna concretezza fisica. In questo caso, il computer si frappone tra i nostri sensi e il mon-do, ingannando i primi e creando un proprio mondo. Si indossano degli occhiali che – più della televisione – sostituiscono pienamente il nostro campo visivo; si indossano cuffie che ci isolano dal mondo reale e ci offrono suoni di una nuova immediatezza. Si indossa-no, infine, guanti che ci consentono di interagire con la simulazione del reale. In questi anni si sta diffonden-do una diversa modalità di realtà: quella aumentata. Il principio che distingue la realtà virtuale dalla “realtà au-mentata” è insito proprio nel luogo nel quale si verifica l’esperienza e l’interazione. Nel caso della realtà virtua-le è l’individuo che entra nel mondo del computer, nel digitale. In quello della realtà aumentata è il computer che entra nel mondo dell’individuo. Guardo un edificio e, utilizzando un terzo occhio, ottengo informazioni su di esso: cosa è, chi vi abita, quanto è alto, ecc. Il terzo occhio è, ça va sans dire, uno schermo. Portatile. Di discrete dimensioni. È il cellulare, strumento omni-me-diale per antonomasia: ci consente di portare sempre con noi una foto/video-camera, un’agenda, una casella di posta, un navigatore web, un Gps e – se lo avessi-mo dimenticato – un telefono. Inquadrando con la fo-tocamera un luogo, il cellulare si collega ad Internet e scarica le informazioni ad esso legate, sulla base delle nostre coordinate Gps.

Proviamo ad applicare il principio della realtà au-mentata ai videogiochi. Non siamo noi ad entrare nel mondo del videogioco quanto il videogioco ad entrare nel nostro mondo. Questo passaggio potrebbe fonda-re le sue origini in giochi come Myst (1993), nei quali l’identità del giocatore coincideva con quella del perso-naggio (che, di fatto, non veniva mai mostrato) e – nel corso dell’avventura – interagiva con ambienti e perso-ne “reali”: non vi era né la simulazione né la rappresen-tazione di un ambiente o di un personaggio, in quanto entrambi erano nella loro forma fisica tradizionale. Si interagiva come se, seduti in una sala cinematografica, si potessero fermare gli attori proiettati sullo schermo e discutere con loro. Il legame tra videogioco e cinema si è stretto sempre più negli ultimi anni, influenzandosi reciprocamente. In ogni caso, però, l’interazione avvie-ne attraverso periferiche, strumenti terzi e mediatori tra noi e il gioco. Siano essi un mouse, una tastiera, un joypad o lo stesso schermo. Il percorso verso l’aboli-zione di questa mediazione – la quale rende, di fatto, l’interazione “non reale” – ha portato allo sviluppo di console ludiche come la Wii della Nintendo, nella quale il movimento del joypad da parte del giocatore si tra-

sforma nel movimento del personaggio, con uno stretto legame tra azione e reazione. Inoltre, il giocatore non è più seduto, ma è in piedi e si muove. In questo modo, quindi, è possibile usare il joypad come fosse una rac-chetta da tennis. Periferica che, in altri giochi, può as-sumere anche le fattezze di una chitarra o una batteria, consentendoci di suonare la canzoni dei Beatles e di al-tri artisti, seguendo sullo schermo la combinazione dei pulsanti da premere. Ma, come è evidente, vi è ancora un’intermediazione tra il giocatore e il gioco, essendovi comunque un joypad (seppure di forma differente). La sua abolizione è annunciata, invece, dal Progetto Natal della Microsoft, previsto per la fine del 2010.

In questo caso il giocatore non avrà alcun joypad. Da un punto di vista videoludico sarebbe egli stesso la periferica. Dal punto di vista dell’interazione umana, invece, il giocatore non ha bisogno di estensioni del proprio corpo perché può agire nell’ambiente di gioco attraverso i gesti. Grazie alla presenza di piccole video-camere poste sullo schermo, i movimenti del giocatore vengono catturati dalla console di gioco che li trasmet-te all’interno dell’ambiente ludico. Il videogioco non lo separa più dalla realtà, offrendogli un personaggio da interpretare in un altro-mondo con comportamenti e azioni pre-programmate. Ora è l’individuo stesso che interagisce in prima persona non come se stesse ma stando nel gioco. Potremmo dire, riprendendo Mano-vich (The Language of New Media, 2001), che non è più solo la cultura ad essere transcodificata quanto lo stesso corpo umano. L’unione tra questo sistema di

interazione e il livello di fedeltà grafica degli ambienti di gioco (e non simulazioni di questo) consente di au-spicare un’esperienza ludica davvero reale. In questo caso, infatti, non vi sarebbe più differenza tra “nativi rea-li” e “immigrati reali”, in quanto il processo di esperienza non sarebbe più simulato. Ovviamente sarà veicolato da un computer che, però, non farebbe altro che offrire al nostro campo visivo un secondo spazio dimensionale rispetto a quello nel quale effettivamente ci troviamo. Siamo fisicamente nella nostra casa e i nostri sensi ne percepiscono i suoni e gli odori. Ma siamo, allo stesso tempo, in una sala riunioni del nostro ufficio, in quanto i nostri sensi ne percepiscono i suoni e le immagini. Così come accade nella realtà aumentata, nel nostro spazio visivo si interseca un altro spazio visivo. Il rischio potrà essere semmai, come è accaduto con la Rete, che la sovrimpressione di informazioni visive si trasformi in un sovraccarico del nostro spazio d’azione, rendendo diffi-cile distinguere non tra ciò che è reale e ciò che non lo è (dacché i due spazi godrebbero delle stesse proprie-tà), quanto tra ciò che è analogicamente con noi e ciò che è digitalmente con noi.

Se la realtà è una costruzione sociale e non vi è più distinzione con la sua rappresentazione, allora anche gli ambienti digitali contribuiranno a definirla.

E forse, sarà difficile distinguere il punto di partenza e quello di arrivo nella fuga della nostra mente.

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FUGGIRE?/FALSO MOVIMENTOMarco Petroni

“Stavi voltando l’angolo della strada quando ti ho visto, piove non è il massimo quando ti piove in testa e sui vestiti eppure ci ho provato lo stesso e adesso....” Siamo nel 1977, è l’anno in cui Bernard Marie Koltes, drammatur-go francese licenzia il suo personale e sballato omaggio alla fuga. Un monologo inquieto, profondamente tragico e notturno. Ora come allora siamo alla ricerca di spazi di libertà che ci liberino dalla schiavitù della rappresentazione sostituendo all’ansia prestazionale uno slancio del pensiero, un vagabondaggio dell’immaginazione. Nessuna di-stanza avvolge pensiero e parola nella istantanea continuità tra concetto e immagine, si va alla ricerca di un dise-gno in/visibile capace di svelare uno spazio rinnovato dove abitare incerti tra nascondimento e rivel/azione. Essere o non essere. to be or not to be. Un mondo in perenne movimento velato nel suo divenire e sorprendente nel suo manifestarsi. Imprendibile e imprevedibile appare l’arte della fuga. Ironica e disincantata, terribile e leggera, cinica e inumana, la fuga brucia i luoghi, si manifesta in uno sguardo, irridente è il suo passaggio.

Come Totò, con la sua faccia è mappa, mappina/straccio di Napoli, così chi fugge. Badate bene, non sfugge al destino del proprio atletico vagare.

Perchè proprio Napoli? Capitale della fuga lo è da sempre, una metropoli senza corpo. Visibile e invisibile si confondono sovrastati

dal vulcano, icona dello sguardo. Apparente stato di quiete dove tutto ribolle, dalle pentole incrostate del ragù della domenica alla caffettiera di latta pronta a vomitare o’ cafè. Chi non è nato a Napoli, come me, non ha diritto di cittadinanza ma gode nell’esserne travolto. Agito nella fuga. Il clamore dell’essere, punto d’incontro e tensione tra mondi. Gilles Deleuze e Alain Badiou si scontrano e si incontrano all’ombra del Vesuvio. Frammentazione della fuga, nessun punto di approdo. Il mondo sta per finire, l’insieme delle immagini, la rappresentazione ha superato il numero delle creature viventi. Per sempre. Occorre indugiare, l’attesa della decisione rimane a distanza. Sempre in guardia si gira in tondo come anima in pena. La fuga vive, è autonoma nel suo farsi strada a gomitate. Situazio-ni che obbligano al movimento. Come l’estate del Salento. In preda al vento del giorno si sceglie in quale mare (Adriatico? Ionio?) nascondersi. Immersi nel risveglio della potenza, della natura. A sud, a sud. Non si sfugge dalle proprie radici, ci si imbatte, nella fuga perenne del non inizio. Sulla spiaggia giacciono i resti smantellati della gran-de fuga. Stracci, vestiti umidi e l’odore forte della notte in mare. Al buio, nel traffico continuo, di sponda in sponda, di storia in storia, di fuga in fuga. Transiti senza volto trasformati in terribile anonima potenza.

La tristezza del futuro sta tutta nel prendere coscienza della perdita.Ormai non si può contare su altri che su se stesso.L’invito al viaggio, come si può intuire, è in gran parte immaginario, tutt’al più, in tempi di gravi crisi, si può

essere risparmiati ma mai immuni.....

FUGGIRE?

Rifiuto assoluto a rimanere ciò che siamo, prede di una realtàperformativa ingovernabile che regna all’insegna del tutto è uguale.Desiderio impellente di sperimentare nuove possibilità d’incontro,nuove modalità di composizione/scomposizione delle diversemanifestazioni del reale. Movimento affermato nelle sue valenzevitali, in cui l’importante è fare la differenza. Pensare il mondointerrogandolo, smascherando vissuto/i. Svelamento della nostraprimitiva complicità col mondo.Transito, passaggio, scorrimento alla ricerca di una sempre rinnovatainattualità. La caduta come fuga, allo sprofondo, nel tentativo.Corpi e territorio, intreccio di relazioni, affetti, scambi sociali ed economici cheattengono tanto ai corpi quanto al territorio costruisconoun ambiente permeabile a mutazioni continue. E’ notte di pensierisciolti, in salita su per via San Sebastiano, nel centro storico diNapoli. Il sonno può aspettare un’ultima traccia, un’ultima svolta asinistra nel ventre di Napoli, città mallarméiana, che si nega ad ogniprofumo. Li vivo, quei fiori/vicoli maè proprio dal taglio che li determina, che nasce, inscindibilmente, laloro singolarità e la loro idealità. Panni stesi verso Piazzetta Nilo.Tutta la differenza consiste nel fatto che non èil vederli che ne fonda l’idea nel pensiero, ma l’averli visti,vissuti. Napoli è città del passato perpetuo. Visitazione: l’idea diciò cheavrei vissuto o compreso, permane in quanto passa. Organizzare ilpassaggio con tocco leggero. Impossibile. Ecco, Napoli non disponesullo stesso piano ma implica, avvolge. Chirurgia del popolare,educazione stradale. Falso Movimento.Questione tortuosa, difficile. L’Idea è visitazione.Così viene trasmesso il pensiero che ogni strada, ogni angolo di Napoli è unainterruzione dell’idea di città. Napoli in/gabbia. C’è un’idea perchéc’è uno spazio di composizione, ec’è passaggio perché questo spazio si sposta, o si mostra, come tempoglobale.

FALSO MOVIMENTO

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RITORNO ALL'UMANO Paolo Parisi

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La sposa corre senza prendere fiato.Si arrampica lungo un sentiero nascosto da alberi, terra, rovi e rami secchi.Corre sola, tra le pendici di una montagna abbandonata dal tempo.Corre sola.Nessuno dietro di lei ad inseguirla. Solo tanti pensieri, gli unici ai quali cerca di sfuggire.La sposa corre. E accelera. Il cuore le esplode, i polmoni sono aridi.Non c’è tempo per fermarsi. Tutta la sua vita è lì, nel tramonto di un giorno di fine estate, in un sentiero scosce-

so, tra le pendici di una montagna abbandonata dal tempo, tra i pizzi e i tulle di un abito color seppia, già vecchio prima ancora di poter nascere.

La sposa corre e non ha paura che il sentiero possa finire. Finire sul mare. Finire nel vento. Finire bruciato dal sole che s’addormenta, piano, in un giorno che annuncia l’autunno.

La sposa corre e non ha alcuno sposo ad accompagnarla.Lei è fuggita, ma nessuno vuole riprenderla. Corre troppo veloce ed è troppo avanti. Lascia lembi del suo abito

color seppia, appartenuto ad un tempo in cui tutto era vissuto in bianco e nero; e continua a correre sola, senza voltarsi, infangandosi e impolverandosi. Perché non vuole essere bianca, né pura.

Fa male. Ma le è rimasta solo la corsa in un luogo sconosciuto, tra le pendici di una montagna infestata dal tempo, priva di ogni accenno di civiltà, lontano dall’umanità, così vicina ad un segreto.

Arranca e piange, ma sorride. Tutti sono andati via. Non c’è rimasto nessuno ad aspettarla. Lei era lì, in piedi, stralcio di una vita che fugge, a sorreggere il peso di un mondo che non le appartiene.

Così corre. E corre via. Si ferisce tra i rami, stringe con dolce rabbia il suo abito color seppia, nato antico, vissuto antico, fatto solo per morire.

No. Lei non rimarrà. Lascia indietro le sue scarpe non più bianche e continua a correre scalza.E poi arriva. La fine del sentiero tra le pendici di un monte vissuto nel tempo eterno ed effimero di una corsa.

La fine del sentiero è lo strapiombo sul mare blu. Lei sorride. Vuole continuare la corsa. Volare. Rimanere come ha sempre voluto essere. Vestita di un abito sporco, avvolta dalla terra e dalla polvere.

Ma stavolta non sarà sola. La sposa sorride ancora, sorride all’infinito che il tramonto ormai sul finire sta illumi-nando da sotto il mare. Guarda i bagliori rossi e il cielo viola. Tra poco non ci sarà più nulla. Solo lei e la sua corsa in un sentiero sospeso che porta ad un luogo che non c’è, in un tempo immobile, sgretolato come i sassi di una frana.

Il tempo immobile in uno spazio liquido. Si immagina a galleggiare come un fiore, a mantenere lo stesso colore e lo stesso candore nonostante la salsedine, piccola dea delle creature viventi, protettrice di navi che invocano l’avventura. Si immagina a galleggiare con il sorriso e gli occhi aperti e vivi, prima di trovare la pace assoluta nel buio sconfinato del fondale, dove il tempo non esiste e nemmeno lo spazio. Solo, una vita incontaminata, invisibile e infinita. Si immagina dimora di una vita feroce.

Lei lo è già, dimora di una vita feroce. Apre gli occhi. Non immagina più il fondale, né le navi che partono alla ventura. Lei non cadrà, né deciderà di volare nel tramonto ormai finito che ha lasciato spazio alla notte leggera. Lei lo sa, la sua corsa ora continua da un’altra parte.

Sorride alla notte e sospira alla luna. Porta una mano sul ventre e sente palpitare qualcosa.Chiude gli occhi, la sposa continua a correre.

LA SPOSA CORREVeronica Mondelli

È un palpito, un brivido, un’inquietudine senza nome. È qualunque cosa che rompe il sentiero stabili-to per inseguire un movimento. Come in On the Road di Kerouac: “Let’s go. Where are we go man? I don’t know, but we gotta go”. Via, via da qui, andiamo! Lì dove il mondo sempre si reincanta.

La fuga accende metafore spaziali e temporali. Evo-ca percorsi, passaggi, fluttuazioni e transiti. Si fugge dal dato, ci si incammina verso nuovi orizzonti, si va’. Da tempo immemorabile genera sogni, utopie, miti, ge-nealogie e leggende. Fantasie di evasione. Promesse di felicità. Lusso arcaico. Bellezza. Fuga: una polifonia di suoni da inseguire. Corsa veloce, movimento rapido. Passaggio del tempo, corso delle stelle. Un oceano di significati connessi all’idea di vitalità e di movimento. E di godimento! La radice etimologica di fuga è il san-scrito bhuj - corrispondente al greco pheýgõ e al latino fugio - che significa “piegare”, “curvare”, ma anche “go-dere” e “gioire”. Una festa di ricreazione per schivare l’irrigidimento, la stasi, evitare la morte. Flettere. Curva-tura dello spazio-tempo. Uno spostamento fatale che genera la scintilla da cui scaturisce in grazia la gioia creativa, il pensiero visionario, la conoscenza, la poesia.

Ma quale è lo statuto della fuga nello spazio imma-teriale della rete? Può darsi ancora fuga negli spazi elettronici della comunicazione globale informatizzata? Viviamo in ambienti sintetici generati da macchine, con-nessi a persone, culture, luoghi a temporalità sincretica dove l’informazione è navigabile e la comunicazione in-dossabile. Strani spazi, senza orizzonti, né punti di fuga, dove si sviluppano immense praterie di segni: una psi-cogeografia di dati da collegare, riscrivere, attraversa-re, piegare e curvare - direttamente sulla superficie del-le nostre interfacce. Si fugge il dato, si riscrive il codice. Diventa possibile costruire ponti di ipotesi, sentieri di possibilità, passaggi, stazioni di cambio tra culture e

saperi radicalmente diversi. E dire quel che accade tra loro. Sex appeal del sincretismo!

Il corpo stesso si fa luogo, territorio, panorama. Morbida interfaccia di carne e byte su cui si ‘intramano’ strati semiotici, biologici, tecnologici. Strati su strati. Byte e carne. Brividi elettrici. Punto magico dove anche il tempo si incammina e torna ad essere erratico, tra-sversale, plurale, indeterminato. Perché la comunicazio-ne informatizzata genera aperture nel piano della realtà. Moltiplicandola. Mondi disposti a strati, come cipolle, realtà dentro realtà. Una topologia dinamica che ger-moglia incessantemente al pulsare dell’immaginazione, del pensiero, delle invenzioni, delle relazioni. Psichede-lica eleganza! Uno spazio disordinato, caotico, ricco di storie, conflitti, frizioni, grammatiche, graffi e saperi. Dove la fuga è ancora transito, erranza, attraverso pa-norami di logica, orizzonti di senso, universi di problemi. Per pura golosità di vivere. Campi di tende nere sotto le stelle del deserto. Vie carovaniere e piste segrete che formano linee di flusso e visioni, filosofie e culture. Segni e portenti. Linee di sogno. Dove è la cultura ad essere la natura, lo spazio, l’orizzonte, il punto di fuga.

On the Road: “Dove andiamo?” – “Non lo so, l’im-portante è andare”.

Fuga verso luoghi in cui le parole non sono domesti-che, né addomesticabili e rimangono sempre allo stato selvaggio. Dove le metafore si fanno assolute, audaci, vive. Tanto ardite da essere ebbre, erranti, fuori di sé, ol-tre le fantasie private, soggettive. Parole che fanno cor-po perché spingono alla condivisione: erotiche giunture come sottili linee di fuga su cui possiamo scorrere, sci-volare, andare e tornare.

Questo spazio si esplora attraverso modalità sensi-bili. I sensi tornano ad essere l’unico ragionevole mezzo

EROTICHE ERRANZEOrnella Kyra Pistilli

Giorno di primavera.Portando il carico avanti e indietroFra questo mondo e l’altro.(Sonoko Nakamura)

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di informazione. Uno stile tattile che privilegia la vicinan-za, la concretezza, la quotidianità, la corporeità. Perché il nomadismo psicosensoriale genera forme di solida-rietà concreta e mondi immaginali in cui è possibile abitare, interagire, reinventare e reincantare il mondo. L’immaginazione apre nuovi orizzonti cognitivi. La fuga fa sconfinare la mente. La fa aprire, eccedere, transitare attraverso nuovi ordini di complessità e di possibilità. Principio di godimento del mondo e realizzazione di sé. Una dimensione mentale che ha scelto il trasferimento come identità, lo spostamento come luogo, il mutamen-to come punto di vista e punto di fuga (Alfano Miglietti). Uno sfuggire tattico. Ex-fugere. Come rivela il prefisso latino ex (fuori) presente nell’etimo, fuoriuscire, espan-dersi, rivelarsi e insieme sottrarsi, scivolarsi: stillare! Sempre sulla strada, sotto un cielo di stelle elettriche, con il sacco a pelo, lo zaino in spalla e un taccuino su cui scrivere.

BIBLIOGRAFIA

Kerouac, J., (1955) 2003, On the Road, New York, Penguin Books; tr. it. 2006, Sulla strada, Milano, Mondadori. Monier Monier-Williams, 2005, A Sanskrit English Dictionary, Delhi, Motilal Banarsidass Publishers.

No! No! No! - urla Kieron, al cellulare - Il servizio di sicurezza fa schifo! Liberati subito di loro, Shauna, e non discutere.

Mi guardo in giro. La stanza d’albergo non è male, il letto comodo, le bevande ottime, la droga di prima qualità e c’è una finestra enorme. Posso ammirare lo spettacolo del Sunset Boulevard pieno di macchine, formiche di metallo che sfrecciano a grande velocità, sullo sfondo un cielo color mestruo. Unica nota stonata (stonata per Kie-ron, non per me): un pazzo ha cercato di uccidermi, senza riuscirci. È stato bloccato da un paio di gorilla samoani assunti da poco dalla casa discografica, tipi che farebbero vedere le stelle a una intera cellula di terroristi islamici. L’hanno portato via, ora se la vedrà con lo staff. Io osservo il panorama, immobile, silenzioso. Kieron sta sbraitando ancora.

Ti richiamo dopo - dice poi a Shauna - quando termina il suo personale concerto di urla.Intanto mi sono avvicinato allo specchio. Cosa vedo? Un viso pallido e scheletrico. Capelli tinti di rosso. Lenti

a contatto fucsia. Il volto di Zack Space, la rockstar più famosa ed eccentrica degli ultimi dieci anni. Osservo una maschera. Io non esisto. Io non sono veramente qui. Io voglio fuggire. Io sto già fuggendo.

Come ti senti? - chiede Kieron ancora agitato.Tranquillo.Beato te!Lo ignoro per un secondo o due, almeno ci provo. Non è colpa sua. Fa parte dell’ingranaggio. Porta occhiali

scuri anche se qui dentro non servono. Veste di nero come un satanista improvvisato. Si ossigena i capelli. Ma il manager di una rockstar deve avere una certa immagine. Si crea troppi problemi, lo so; del resto, non ha le idee chiare. Oppure finge? E se è così, perché? Solo io so cosa sta realmente accadendo. Ma non lo dirò a nessuno. Perché sono stanco. Sono stufo. Ne ho abbastanza di questa esistenza da imbecille. Voglio scappare.

Studi di registrazione. Concerti. Interviste radiofoniche. Interviste televisive. Droghe. Alcol. Sesso. Eccessi di tutti i tipi. Sono il vostro idolo. Sono la vostra ragione di vita. Mi amate. Mi adorate. Ma non mi conoscete. Io non esisto. Sono solo un personaggio. Un prodotto di mercato. Zack Space, l’alieno rock’n’roll venuto da Marte. Aprite le gambe. Un’altra stronza rockstar vi prenderà, vi disprezzerà e voi non capirete mai un cazzo di niente. Voi mi desiderate. Io, invece, vi odio. Non saprete mai quanto.

Ti sei calmato? - chiedo a Kieron mentre mi distendo sul letto e sniffo un po’ di coca.Calmato???Mi hai capito benissimo.Senti, un pazzo ha cercato di ucciderti e tu… tu…Già. Io. Cerca di non urlare, se possibile. Mi dai il nervoso. E poi… non è una novità, credo. È già la terza volta

che succede. Sbaglio?No. Non sbaglio. Solo che evidentemente ho a che fare con un gruppo di falliti. La storia della mia vita. Non

riescono ad ammazzarmi.Quando fai così… - inizia a dire Kieron.Risparmiami la tiritera, per favore. Non è successo niente, no?La tua incolumità è importante!La coca mi arriva direttamente in testa. Bella botta. Per un istante chiudo gli occhi, immagino asteroidi che

esplodono nel cosmo. Vorrei esplodere anch’io.La mia vita è importante… - dico poi lentamente - Non per me. O per te. O per quei deficienti della casa di-

scografica…

Sergio L. Duma

ROCK’N’ROLL KILLING

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Ma…Ma niente. Morta una rockstar se ne fa un’altra. E del resto le rockstar rendono di più quando crepano, non lo

sapevi? Pensa a John Lennon. A Freddie Mercury. A Kurt Cobain. I loro dischi si vendono più di prima…Tu sei fuori, Zack.Sicuro. Ma ti sto dicendo la verità.Be’, finiscila con le fesserie! Devo pensare alla tua sicurezza, mi pagano per questo e…E allora renditi utile. C’è una biondina…Una biondina? Dove?Nell’atrio dell’albergo, credo. Le ho parlato prima. Vuole divertirsi con me. Portala qui.E come faccio a trovarla??? Lì c’è una marea di biondine!Oh, ma questa la troverai facilmente… ha un ragno tatuato in fronte…Che schifo…De gustibus… hai presente?Non ti lascio solo.Ci sono i due babbei fuori da questa stanza. Vuoi farmi il favore di levarti dalle scatole, almeno per un po’ ???E lui obbedisce. Sa ancora farlo, in certe circostanze.Un tempo la mia vita era diversa. Vivevo in una piccola cittadina del Midwest. Non ero niente di eccezionale.

Uno come tanti. Uno che nessuno notava, in verità. I miei genitori erano tipi qualsiasi, brave persone, molto sem-plici. Ora non mi rivolgono più la parola e ne hanno tutte le ragioni. La mia vita era fatta di scuola, di pomeriggi silenziosi, di amicizie qualunque, di fumetti e di McDonald’s. Tutto qui. Ogni tanto un po’ di fumo, è vero; e un po’ di sesso da teenager. E poi… poi arrivò il rock’n’roll. Formai una band e scoprii che cantare mi piaceva. Voglio diventare una rockstar, pensai; sarà lo scopo della mia vita; la mia possibilità di fuga dalla normalità. Che imbecille. Non sapevo. Non sospettavo. Voi mi amate. Io vi odierò sempre.

Quando mi trasferii a Los Angeles, dopo aver abbandonato il college, decisi di impegnarmi davvero. Inventai una nuova identità, un mix di alieno e di bizzarro fenomeno da baraccone. Creai Zack Space, la rockstar venuta da Marte. Niente di originale, è vero. Del resto, l’originalità non esiste più. Comunque, incominciai a farmi notare nei club. Lentamente, trovai il mio pubblico.

Ricordo ancora il giorno del provino. Mi agitavo sul palco, cercando di essere convincente, tentando di non pensare all’emozione. Seduti in platea, tre tipi alti, eleganti, intenti a fumare sigari costosi, mi osservavano come schiavisti che valutano la merce. Tre dirigenti di una importante casa discografica. Uomini d’affari o mafiosi, non c’era differenza. In quel momento erano divinità implacabili, le Parche che tessevano la tela, avevano potere di vita e di morte, potevano manipolare il mio destino. Cosa che fecero. Sei nostro ragazzo, dissero quando smisi di cantare. Con la giusta strategia, sarai la nuova gallina dalle uova d’oro. E il mio agente e l’addetto stampa e il re-sponsabile dell’immagine e una miriade di altri stronzi mi dissero che la mia biografia non andava bene, era troppo banale per una rockstar. Trasformarono mio padre in un ubriacone violento che mi picchiava in continuazione. Era un impiegato, invece. Onesto e dignitoso. Fecero di mia madre una tossica che si vendeva al miglior offerente. Era un’ottima persona, una brava donna di casa. Stravolsero la mia esistenza, la offesero con i loro sigari cubani, con le loro parole stampate sui giornali o pronunciate nel corso di tante conferenze stampa. Io lo permisi. Confermai tutto. Ogni vomitevole menzogna. Ogni lurida bugia. Perché volevo il successo.

Rammento l’espressione addolorata nel volto di mia madre. L’offesa stupita negli occhi di mio padre. Li avevo rinnegati. Ero fuggito dalla mia esistenza originaria. E non provavo vergogna. Non ancora. Lo feci per voi. Voi che mi adorate. Io, invece, vi odio.

E il successo arrivò. Denaro. Sesso. Lusso. Macchine costose. Abiti firmati. Ville. Orge. Droghe. E contratti. Dischi. Concerti affollati, negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Viaggi in jet privati. Sorrisi. Adulazioni. Adorazioni. Offerte cinematografiche. Videoclips. Tutto veloce. Sempre più veloce.

Ma mi accorsi di qualcosa. Nell’aria, intorno a me, c’era una malattia insidiosa. Il nome di quella malattia era: celebrità. Mi entrava nelle vene come droga letale. E mi trasformava. Lo capivo dallo sguardo delle persone che mi rivolgevano la parola: giornalisti untuosi, fans arrapate, ammiratori scatenati. Loro non mi amavano in quanto persona. Amavano la maschera. Zack Space, l’alieno di Marte. Amavano un bluff. Un prodotto studiato a tavolino e venduto a un pubblico di imbecilli. Desideravano un essere inesistente. Perché io non sono mai esistito. Io sono fuggito. Zack non esiste, non lo capite, razza di deficienti???

E capii che la mia vita era una menzogna. Una farsa. Trasmessa in televisione, raccontata sui giornali, esibita in uno stadio affollato. Non avevo ottenuto niente. Avevo perduto tutto. L’identità. La stabilità interiore. L’equilibrio

psicologico. Le emozioni. Io non esisto. Sono davvero un extraterrestre, un alieno confuso che non ha niente in comune con voi. E mi imbottisco di droghe e tutto diventa irreale, sempre più irreale, giorno dopo giorno, e non posso continuare così, non voglio, non ce la faccio, devo scappare. Perché vi odio. E voi invece mi amate.

Il pubblico è come il cancro, mi disse una volta un collega. Ti divora dentro. Ti consuma. Ti ruba la vita. Gli ammiratori si riproducono come cellule malate. E tu non ci puoi fare niente. Non esistono terapie. Nessuna fottuta soluzione. Già, nessuna fottuta soluzione. Lo ripetevo sempre, un tempo. Era una forma di alibi. Giustificava lo schifo delle mie azioni innominabili. Quella ragazza giapponese che ho quasi ucciso nella stanza di un albergo di Tokyo, ero troppo sconvolto, la coca mi aveva fatto impazzire. Quella studentessa di Yale morta durante una delle mie feste, piena di alcol e di farmaci. Agonizzava e io ridevo e non facevo nulla per aiutarla. Quel ragazzino che ho torturato e picchiato a sangue nell’intimità di una villa parigina, semplicemente perché mi andava di farlo. Ho fatto anche di peggio. Perché sono un alieno, mi dicevo; non un essere umano. Sono Zack Space, il mostro proveniente da Marte.

Poi un giorno mi guardai attentamente allo specchio e il marciume che avevo dentro, l’alienazione, la follia, si manifestarono di colpo. E piansi. Non piangevo da un secolo. Non posso vivere così, mi dissi, non voglio più vivere, questo gioco è troppo marcio e corrotto, non ne vale la pena, non mi conviene, devo andare via.

Nel corso della mia carriera ho conosciuto gente di tutti i tipi. E ciò include la peggiore risma esistente in questo pianeta andato a male. Criminali. Assassini. Rifiuti di ogni sorta. Presi la decisione in fretta, quindi. Tutto avvenne in una casa di West Hollywood. Un tipo mascherato sedeva di fronte a un uomo che non descriverò né nominerò. Il tizio mascherato estrasse una fotografia di Zack Space dalla tasca interna della giacca, dicendo:

- Questo è il ragazzo.L’altro disse: - Zack Space. L’alieno. Il marziano. La sua musica non è male. Un tipo difficile, però. Circondato

sempre da un sacco di persone.Ma i tuoi uomini sono professionisti, no?Ovvio. Chiedilo al fantasma di Kennedy. Ma non sono nemmeno a buon mercato.Il denaro non è un problema.Immagino.E allora?Allora cosa?Accetti o no?Ho molti collaboratori. Infiltrati in parecchi ambienti. Anche in quelli discografici, se è per questo.Ottimo.Frena. Ci sono cose che non mi sono ancora chiare…E quali sarebbero?Le tue motivazioni, per esempio. Perché Zack Space deve morire?Sono affari miei. Se non vuoi l’incarico, dillo subito. Troverò qualcun altro.Il suicidio non sarebbe più facile?Il suicidio?Già.Lo ha già fatto Kurt.D’accordo… del resto, non mi interessa capire la psicologia dei miei clienti. Ma di che si tratta? Di sindrome

da personalità multipla? O una fuga psicogena?Io…Lascia perdere. Pagamento anticipato. E ho bisogno di sapere ogni cosa su Zack Space. I movimenti. I pro-

grammi futuri. Tutto ciò che ha a che fare con il suo entourage. Gli agenti. Le guardie del corpo. Roba del genere.E fu così che iniziò. Ma le cose non andarono come previsto. È forse colpa vostra, bastardi? Perché mi volete

vivo, lo so. Io, invece, vi ucciderei tutti quanti, se solo potessi.Il primo tentativo avvenne durante un concerto. Ma l’imbecille non riuscì a colpirmi, e meno male che era pro-

fessionista! Ottenni un sacco di pubblicità extra. Ma non era quello che volevo.Il secondo tentativo fu un altro insuccesso. Stavolta mi trovavo a un party. Trent Reznor mi diceva qualcosa

che non capivo. Courtney Love era ubriaca marcia e rompeva le scatole un po’ a tutti. Marilyn Manson diceva in continuazione: - Qui c’è un cazzo di caldo! Qui c’è un caldo del cazzo! - e Twiggy, il suo bassista, farfugliava qual-cosa sul whisky e sullo speed. Ozzy Osbourne rideva e basta. E Billy Corgan si guardava intorno con aria smarrita, sembrava fumato. Top model anoressiche, groupies eccitate e ragazzi imbambolati giocavano a fare le creaturine

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festaiole, aspettavano lo sballo, desideravano emozioni forti. E qualcuno sparò all’improvviso. Non colpì il sotto-scritto, però. Lo bloccarono subito. Morì un cretino qualunque. Altra pubblicità extra.

E arriviamo al terzo tentativo. Un quarto d’ora fa, sono rientrato in albergo. E ho percepito una serie di movi-menti frenetici, non ho capito bene, qualcuno mi ha spinto via in fretta, mentre sentivo l’ennesimo colpo di pistola. Risultato: sono ancora vivo. Ci sarà altra pubblicità. Maledetti incapaci. Non sanno nemmeno uccidere qualcuno. Non sanno nemmeno uccidere me. Zack Space, la rockstar proveniente da Marte. Quella che voi amate. Mentre io vi odio.

Come ti chiami?Tiffany.È il tuo nome vero?Fa differenza?No. È bello, comunque. Mi piace.Grazie, Zack.Il tempo scorre. La ragazza è entrata in camera. Il ragno tatuato sulla fronte è intrigante. Si è già spogliata, è

distesa accanto a me, è carina, ha un bel corpo, ogni tanto le accarezzo i capelli lunghi e biondi.Fai parte dell’organizzazione? – chiedo.Sì.Sei più furba degli altri…Cerco di esserlo. Fingere di essere una fan è servito.E il ragno? Che significa?Niente.Niente?Poteva rendere convincente il travestimento. Ho pensato che una tua fan dovesse necessariamente essere

stravagante. E cosa c’è di più stravagante di un tatuaggio in fronte?Devo dartene atto.E poi posso sempre fare l’operazione al laser. Dopo.Come mai eri qui?Sono la riserva. Il boss te l’ha detto al cellulare, no? E’ stata un’ottima pensata. Non fallirò, a differenza dello

sfigato di prima.Che facciamo?Non so. Ti posso uccidere anche subito, se ti va. Oppure…Oppure?Sono nuda, no? E non fare quella faccia. Non sono mai stata con un personaggio famoso. I killer sono sensibili

al fascino delle persone di successo, come chiunque altro…Lo immagino. È questa la tragedia. Ma io sono solo un inganno. Zack Space non esiste. Non è mai esistito.

Ecco perché voglio fuggire.Sta per dire qualcosa ma la interrompo, dicendo: - Non prendertela ma… non mi va… sei molto attraente…

ma non ti trovi qui per questo.Come vuoi. Mi faresti almeno un autografo?Scherzi?No.Incredibile. Sono tutti a caccia di autografi. Persino i sicari.Io… va bene. Ma poi, per favore, agisci in fretta. Ne ho abbastanza.Voglio andarmene. Voglio scappare da questa vita. Vi odio, bastardi. Vi detesto.Lei si allontana e io chiudo gli occhi. Vorrei volare. Vorrei essere davvero un alieno. Vorrei nascondermi in un

altro pianeta. E sento il rumore secco dello sparo.La ragazza è morta. Giace sul pavimento, in un lago di sangue. Io sono accovacciato sul letto, nudo. I due

gorilla osservano il cadavere impassibili. E lo stesso vale per Kieron. Si avvicina a me e, con un tono di voce che non ho mai sentito prima, dice: - Vestiti.

Ma…Vestiti, ho detto. E finiscila con le fesserie. Mi sono stufato.Che significa?Significa che so tutto. L’ho sempre saputo. Tu hai assoldato i killer. Oppure l’ha fatto un’altra parte della tua

personalità. Conoscevo i tuoi movimenti. E i movimenti degli assassini. Per questo motivo siamo sempre riusciti a proteggerti, capisci?

Poi, senza darmi il tempo di replicare, mi dà un pugno in pieno viso. Sento il calore del sangue che mi scorre sul volto.

Idiota! - mi apostrofa - Non puoi fare quello che ti pare, fattene una ragione… morire… che assurdità! Non puoi scappare! I tuoi tentativi di fuga sono patetici!

Ma…Ma niente! Fai parte dell’ingranaggio, ti piaccia o no. Lo hai voluto tu. E non puoi tornare indietro. In questo

momento il tuo decesso sarebbe inutile.Inutile?Cresci. Il mercato è l’unica cosa che conta oggi. E tu sei un prodotto di mercato. Adesso vendi bene. E conti-

nuerai a farlo. Prima o poi, quando l’interesse del pubblico diminuirà… be’, allora potrai ucciderti. Forse ti ucciderò io, così non faremo tanta fatica… in questo modo, la tua immagine entrerà per sempre nel mito e i tuoi dischi venderanno in continuazione… del resto, lo abbiamo già fatto con Kurt.

Ma è disumano.Certo. Che ti aspettavi? È un ambiente disumano. Non lo avevi capito? Vedi, per noi non c’è niente di sacro,

non ci fermiamo di fronte a nulla. Abbiamo sfruttato gli ultimi avvenimenti e guarda quanta pubblicità ne hai ricava-to! I dischi di Zack Space si vendono come il pane!

Nei suoi occhi c’è esaltazione. E follia. Nemmeno lui è umano. È colpa vostra. Avete corrotto me. Avete corrotto lui.

Come… come lo sapevi?È stato facile. Ti sei rivolto a un boss. Ma quel boss lavora anche per noi.Assurdo.Forse. Ma ci siamo messi d’accordo. Ora vestiti, è tardi.Tardi?Hai un concerto. E il pubblico non aspetta. Il pubblico non ama aspettare. E se ne frega delle tue manfrine. Non

vuole un bamboccio piagnone e debole che corteggia la morte. Desidera solo Zack Space, la rockstar trasgressi-va. Il prodotto. Il personaggio. Non la persona autentica.

Voi. Voi mi amate. Io vi odio. Vi auguro tutto il male di questo mondo.È già tutto organizzato, mi dice Kieron mentre la limo ci porta allo stadio, e siamo già andati avanti con il tempo.Guardo il paesaggio livido di Los Angeles dal finestrino. C’è un sole malato. Strade affollate. Palme mosse

dal vento. Ragazzi e ragazze che sembrano usciti da un telefilm falso. Tutto ciò che vedo è artificiale. È un mondo alieno. Io non sono veramente qui. Sto assistendo a uno spettacolo televisivo osceno e sporco.

Organizzato?Inizierai il tour tra una settimana. Stati Uniti. Europa. Giappone.Non ce la faccio. Non ne ho la forza.Ti daremo tutte le droghe che ti servono. Il successo, del resto, è una pasticca che ti brucia il cervello.Fottiti, Kieron.E poi registrerai il nuovo album. Rock’n’Roll Killing.Rock’n’Roll Killing?Esatto.Avete scelto anche il titolo?Già. E le canzoni si riferiranno agli avvenimenti degli ultimi tempi. Mi sembra giusto. Sarà un successo. Fidati.Che posso dire? Che posso fare? Niente. E devo ringraziare voi per questo, maledetti. Il tempo scorre. Il concerto è andato bene. E il pubblico era in visibilio. Ho ricevuto almeno cinquanta profferte

sessuali in camerino. Ho preso camionate di droghe e sono intontito. Non esisto. Non mi conoscete. Non sono veramente qui. Non sono Zack Space. Sono un buffone qualunque. E adesso nessuno mi lascia più solo, neanche al cesso. Sono prigioniero. Come un palestinese in un campo di profughi. Il successo è un lager mentale e il pub-blico il mio Fuhrer personale. Non c’è scampo. Non esistono vie di uscita. Sono entrato in questa prigione e non sapevo niente, non sospettavo. E non posso fuggire.

E adesso dovreste vedermi. Un relitto che piange come un bambino, disteso su un letto enorme, in un albergo il cui costo di pernottamento corrisponde all’intero debito nazionale dell’Argentina. Ho in mano il cellulare. Mi trema la mano. Sto selezionando un numero telefonico. Un numero che conosco bene e che ricordo ancora, dopo tutto

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questo tempo.Pronto?Mamma?Chi parla?Sono io… Nicholas…Non conosco nessun Nicholas.Ti prego, mamma……Mamma?…Mamma, per favore, parlami……E nessuno mi parlerà. Nessuno vuole parlare con Nicholas. Nicholas non è famoso. Nicholas non è una rock-

star galattica. Non è Zack Space, l’alieno venuto da Marte. Non è quello che voi volete. Voi. Bastardi. Maledetti. Mi amate, lo so. Io, invece, vi odio. E vi odierò sempre. Perché non meritate altro. Anche se non lo sapete. E non lo saprete mai. Non saprete mai un cazzo di niente. Coraggio. Preparatevi. Tenetevi pronti per lo sballo. Aprite le gambe. Sto arrivando. Tanto non esisto. Sono una maschera. Sono il vostro prodotto di mercato. Amatemi. Com-pratemi. Masturbatevi pensando a me. Potete farlo. E che possiate morire tutti quanti, maledetti. Perché ho cercato disperatamente una via di fuga e non sono riuscito a trovarla.

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Intermezzo

Intermezzo

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Ritratti

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QUALÈ L’ ALTRA FACCIA DELL’ AVVENTURA DI ULISSE, ARCHETIPO DELL’ ASTUZIA E DELLA FUGA? FORSE IL VUOTO DI ATTESE CHE IL VIAGGIATORE LASCIA DIETRO DI SÈ. E’ QUELLO CHE CI MOSTRA IL SURREALE RACCONTO DI MARIO PERROTTA IN CUI I VIAGGI DELL’EROE ASSENTE VENGONO NAR-RATI DA UN VECCHIO PESCATORE DALL’ AURA DI MAGO, DI QUELLI CHE SANNO ASCOLTARE LA VOCE DELLE ONDE, CHE GUARDANO L’ORIZZONTE E SANNO COME PLACARE LE TEMPESTE. I PIANI DELLA STORIA SI MOLTIPLICANO, IL MITO SI INTRECCIA ALLE VICENDE DEI NOSTRI GIORNI, PER PAR-LARE DI PARTENZE E SOLITUDINI, E COSì ITACA DIVIENE UN VILLAGGIO DEL SALENTO, TELEMACO È PRECISAMENTE UN FIGLIO DEL NOSTRO SUD QUALCHE ANNO FA, CHE COME TANTI IL PADRE LO HA GODUTO POCO O NULLA. IN QUESTA RIVISITAZIONE DEL MITO OMERICO PERROTTA PROSEGUE LA SUA PERSONALE INDAGINE NELLA MEMORIA MERIDIONALE, COMINCIATA CON ITALIANI CINCALI E LA TURNATA, OPERE DEDICATE ALLE STORIE D’EMIGRAZIONE. ANCHE QUI L’ESPERIMENTO È LIN-GUISTICO, OLTRE CHE NARRATIVO, PERCHÉ GIOCA CON UNA PROSA SORPRENDENTE, AI CONFINI TRA DIALETTO E LINGUA COMUNE.

IL BRANO CHE SEGUE È UN LIBERO ADATTAMENTO TRATTO DALL’OPERA TEATRALE ODISSEA.

(Musica di piazza, sagra del paese. Telemaco, entra in sala. Ai musici) Maestri: buonasera! L’hai mai guardato il mare? Non “visto”, ma “guardato”? Sì? Eh! E quando l’hai guardato, che hai pensato? Non lo sai? Non ti ricordi? Riflettici!

Io glielo ho chiesto all’Antonio, l’Antonio delle cozze, e l’Antonio mi ha detto così: “Io sono come a te, aspetto sempre qualcosa che arriva dal mare”. Qualcosa che arriva dal mare... (gli sovviene un qualcosa e cita fin dove può a memoria, l’incipit: “Parlami o Musa dell’uomo dal multiforme ingegno, etc…”)

ANTONIO DELLE COZZE

L’ Antonio delle cozze vive da sempre sopra il mare, ai limiti del mare, su una spiaggia abbandonata a se stessa, dove troneggia un capanno chinu di cozze e una sdraia. Assettatu su quella sdraia l’Antonio apre cozze per chi passa, se passa, altrimenti se ne rimane lì, in silenzio, a guardare.

Dicono che nessuno l’ha mai visto alzato da quella sdraia piazzata di fronte al mare. Ma io invece l’ho visto alzarsi, un giorno che ero bambino. Era cielo di tempesta che veniva dal mare. Il mare s’era fatto a strisce: ancora verde verso la riva, poi azzurro

cchiù avanti, poi blu, di quel blu che richiama l’abisso del nero e poi nero. Io, tra le cannazze al di qua della spiag-gia, me ne stavo al riparo dal vento e guardavo i botti di luce lontani sul mare. Sapevo che tra poco quei botti ci sarebbero stati addosso, ma tanto nessuno mi avrebbe reclamato, che mia madre erano già anni che non usciva di casa e oramai si era abituata al mio vagabondare tra il paese e il mare.

ASPETTO QUALCOSA CHE ARRIVA DAL MAREMario Perrotta

Vedendo il nero avanzare, dal cielo, dal mare, dentro la mia testa pensavo: “Antonio! Alzati e cammina. Sbri-gati Antonio, Alzati e cammina” e l’Antonio si alza; due passi verso la riva e poi, tira una linea per terra col piede... Poi dal capanno prende ‘nna chilata di cozze e torna a sedere. Mentre l’onda è sospesa, Antonio apre cozze e l’aspetta. Come quella si butta ringhiando, mordendo la riva, Antonio butta una cozza di là dalla linea. L’acqua si spacca, s’arresta davanti alla linea e rimane murata, mentre il resto, dai lati, si scarica addosso alla spiaggia che quasi scompare, lasciando all’asciutto solo lo spazio tra Antonio e la linea, Antonio compreso. Quando l’acqua si ritira violenta, l’Antonio, senza neanche guardare indietro, mi fa segno di andare, di raggiungerlo all’isola fatta di linea, di cozze e di sdraia. Mentre il mare carica dal fondo una nuova mazzata, non ci penso due volte e mi butto!

Antonio, com’è che si ferma per aria il mare?- Viene a mangiare.- A mangiare il mare?!?- Sì... (silenzio) Non lo vedi che apre la bocca? Te’... (getta una cozza. Silenzio) Io ci tiro la riga, no? E lui sa a

ddu s’ha fermare e a ddu invece può purtare danni. Altrimenti niente cozze!- Come “niente cozze”?- A questo, al mare, ci piacciono le cozze! Pieno ne è, che potrebbe mangiare in eterno. Ma con tutta la forza

che tiene, ca ti ribalta navi, te squarta cristiani e ti suca città intere sane sane, non è mai riuscito ad aprire una coz-za. Allora io ce le apro e ce le do a mangiare. Lui però si sente svilito a farsi imboccare da me e allora fa tutto ‘sto casino per dimostrare chissàccosa! Comunque: io lascio fare a lui e lui lascia fare a me, questo è il patto. Basta che nessuno dei due passa la riga...

- E che ci guadagni? - Aspetto qualcosa che arriva dal mare.

LA MADRE, LUI E LA GUERRA

(Telemaco sposta lo spazio con il corpo, crea situazioni riempiendo vuoti. Ora in casa dietro le persiane chiu-se di una finestra)

Tutto il paese ci passa, di sotto a queste imposte asserragliate!Ogne ggiurnu qui sotto è processione. Oramai tutti lo sanno. Sì! Vengono in gita pure dagli altri paesi! “Andia-

mo a vedere a Donna Speranza”! Mia madre è donna di silenzio, di quel silenzio che può parere pure dolore, quel dolore senza pianto, senza

capelli strazzati, senza veli neri, quel dolore che c’abbiamo dentro, fatto solo di silenzio, che delle volte però, pesa cchiù delle parole. Mia madre è Speranza.

Si chiuse in casa a sperare va’ te ricordi quant’anni fa. E da allora vive nella penombra di queste persiane che dietro ci puoi guardare ma da fuori fanno muro.

Dice mia madre che stiamo ‘spettandouomo fatale, di corpo regale,ambito, lodato,sparito, rapito,svanito, bramato, chiamato papà!

Dice che è bello a guardarlo, che è bello:pare nu ddiu addisceso dal cielo,petto all’infuori, pieno di peloma dolce di cuore che pare un babà.

Che babà stu papà,mo’ ci sape a ddu cazzu sta!

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Ieu nu’ sacciu nienti!Io non so niente!Mia madre dice che aspettiamo a Lui, dice. Lui? “Lui” chi, ci faccio. Lui e basta! Signora, mi scusi una doman-

da, ma lei l’ha mai visto a questo Lui? No?!? Però mia madre dice che aspettiamo a Lui, e vediamo... (al musico anziano) Maestro, ci illumini: lei l’ha mai visto questo Lui? Niente. Nessuno l’ha visto qui dentro. Eh! E manco io. Però mia madre dice che aspettiamo a Lui. E va bene, aspettiamo!

Dice che un giorno ‘sta guerra spicciàu:rientrarono tutti!... Scasciàti, distrutti!Contorti, distorti, ritorti,

rientravano i forti serrati in reparti.Tornarono i corti, gli storti, gli aborti,passando deserti, sbarcando nei porti...Tranne quell’uomo chiamato papà!

Dico, Signora, va bene la guerra, ma poi si torna, no? Tutti gli altri o tornàra o morsero. E se morsero pure tornàra! In una cascia mortuaria magari, ma tornàra. In una barella, in una cassetta con dentro un bracciale, ‘nna collana, un pezzo di divisa, un dito, ‘nna gamba, ‘nna ‘recchia, un telegramma, due parole, una testimonianza! Tutti, qui al paese, hanno riavuto un pezzo di padre all’indietro; un avanzo di marito; uno scemo di guerra dentro casa, ‘nna medaglia alla memoria! Comunque: ieu nu’ sacciu nienti! Io non so niente!

Io, quando questo Lui sparì, non c’ero. E se c’ero... speravo!

IL MARE

- Antonio? Ma tu come le sai tutte queste cose?- Me le dice il mare... Quello, il mare, è così grande perchè tiene dentro tutte le storie di chi l’ha attraversato,

di chi l’ha anche soltanto sfiorato... Nessuno era mai tornato a quella riva; nessuno, una volta sbarcato, aveva po-tuto lasciare quell’isola... Tuo padre, scendendo su quell’isola, fece una scelta. E il mare se ne innamorò. Da quel momento, decise di tenerlo più possibile con sé. E lo sbatte ora a una vanna ora all’altra e con le onde lo bagna di continuo, per rubargli tutte le albe che ha veduto e gli incontri che ha passato.

Aaaah, mannaggia lu mare, lu mare, lu mare. Lu mare ci curpa ci nu’ torna! Dice Antonio ca lu mare ci curpa! Mannaggia lu mare... (Telemaco balla, racconta, suda. Senza più freni)

Dice così che è andata, Signora. Dice Antonio che il mare ci colpa se non torna. Dice Antonio che presa l’aveva la strada del ritorno, ma di incredibili tempeste affrontò l’assalto. Va bene! Lu mare. Mannaggia lu mare! Lu mare, lu mare, lu mare. Scusate eh?! (al popolo che si manifesta nuovamente per strada) Popolo di curnuti! Venite a sentire pure voi, venite! Così vi levate il pensiero! (conquistato il centro della piazza) Mamma?! Mamma, apri ‘sta fenescia e senti! Mamma!? Lo so che sta lì dietro... Apri! Dai, che ‘stasera è spettacolo gratuito!

Dice Antonio, Signora, dice che vide innumerose albe sul mare e innumerose terre toccò, sempre cchiù lonta-ne.... Ah lu mare, lu mare, lu mare... Dice Antonio, Signora, che il mare è lusinghieru...

Comu le fimmene!

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Quaranta giorni a bordo della motonave cargo Grande Europa, colosso galleggiante che trasporta-va automobili e mezzi pesanti d’ogni tipo. Gomito a gomito con i trenta uomini di un equipaggio diviso tra filippini e italiani. Dalla Danimarca al Portogallo, da Bristol a Cipro, sino in Turchia..Quindici porti, quin-dici scenari per osservare un paesaggio veemente che ti domina tra mare e ferraglie. Il mio sguardo in-discreto si posa sui chiaroscuri della vita a bordo: giovani seamen si adoperano nella quotidiana lotta contro le durezze e gli imprevisti della navigazione, ciascuno in compagnia della proprie solitudini.

Lavoro e dopolavoro si intersecano fino a perde-re i limiti e divenire un vivere comune. Chiacchiere fuggenti, accennati sorrisi quietano i rapporti e ga-rantiscono una pace apparente in una vita di totale condivisione.

Ho cercato di bloccare con la fotografia il loro presente lontano dalla terra di origine, dalle famiglie, con cui restano in contatto tramite saltuarie comuni-cazioni che recapitano a ciascuno frammenti di ansie ed emozioni.

Intorno a loro, in un susseguirsi rapido e sempre nuovo, scorrono le immagini di luoghi da osservare e poi scordare. In un crocevia di ricchezza e povertà, si contrappongono storia, stili e culture. Profumi, ru-mori, orizzonti, migliaia di luci, macchine, container e mezzi di ogni tipo arricchiscono e distinguono questi luoghi contemporanei. Ciminiere, navi, pontili, termi-nal e raffinerie illuminate a giorno fanno da sceno-grafia nelle fredde o calde notti dei più grandi porti commerciali d’Europa.

MAREGGIATASimone Massafra

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Ho incontrato il fascino della calligrafia persiana in una frase graffitata sui muri rossi dei portici di Bologna, pura bellezza dell’eleganza di segni che celavano per me, donna occidentale, un significato misterioso.

È il 1994 quando la video-artista iraniana Shirin Ne-shat raggiunge la fama mondiale con Women of Allah, lavoro fotografico composto di ritratti in bianco e nero che rappresentano i volti, i piedi, le mani (le uniche parti scoperte del corpo “velato”) su cui Neshat trasferisce in elegante Farsi (la calligrafia persiana moderna), i ver-si ribelli d’amore di poetesse iraniane, perché, spiega l’artista “la grafia è la voce della foto, che rompe il silen-zio delle donne ritratte”.

Cresciuta in Iran, Shirin Neshat ha studiato in Cali-fornia dove si è trasferita nel 1974; al rientro in Iran ha subito lo shock culturale di una società completamen-te trasformata in Repubblica islamica dove alle donne è stato imposto di velarsi con il chador nero: da qui l’urgenza di rappresentarne la condizione, urgenza per la quale ha dovuto abbandonare l’Iran poiché il gover-no percepisce gli artisti come una minaccia in quanto scuotono pericolosamente gli animi delle persone.

Il chador, quale caratteristica che definisce il mondo islamico, ha impegnato le donne musulmane in un’im-magine di sostanziale diversità: nemmeno il guardaroba multietnico di Barbie, unico nella sua enorme varietà ha potuto includerlo, come osserva nei suoi saggi Farra-neh Milani, docente di letteratura persiana presso l’Uni-versità della Virginia.

Il chador sostanzialmente è una forma di protezione per la donna braccata che tenta di sfuggire alla esi-stenza limitata che è costretta a vivere nella società islamica.

La mortificazione del corpo femminile “velato” del mondo islamico, si specchia nell’opposta mercificazio-ne del corpo femminile “svelato” del mondo occidentale (le veline nostrane dell’universo mediatico) restituendo-ci un desolante quadro di rappresentazione di genere.

Ho incontrato l’artista al Mambo (Museo d’arte Mo-derna) di Bologna in occasione dell’uscita in sala del

suo primo lungometraggio Donne senza uomini, Leone d’Argento 66 Mostra del Cinema di Venezia.

Mi ha detto che la scelta del mezzo cinematografico è diventato per lei un percorso necessario, seppur fati-coso -non avendo sufficiente esperienza del linguaggio narrativo- poiché il cinema raggiunge un pubblico molto ampio e questo è funzionale al suo lavoro di artista di denuncia sociale.

Il film è ambientato in Iran nel 1953, dove sullo sfon-do tumultuoso del colpo di stato appoggiato dalla CIA, i destini di quattro donne confluiscono in uno splendido giardino di campagna dove trovano indipendenza, con-forto e amicizia.

L’idea narrativa del film sta nella fuga onirica delle quattro protagoniste che compone il nucleo dell’opera: esiste un dualismo tra il mondo magico rappresentato contrapposto al realismo politico dei fatti storici e poli-tici del 1953.

L’abbandono della narrazione realistica (i quattro destini oppressi delle protagoniste) e l’ingresso in una dimensione para-onirica (il giardino, reminiscenze bu-nueliane) è funzionale a esprimere la discrasia tra come potrebbe essere e non è, funzionale a farci vagheggiare un mondo possibile che purtroppo non sarà.

Le protagoniste si ritrovano in una villa fuori Tehe-ran, dove simbolicamente creano una comunità fondata sulla reciproca cura e sulla solidarietà. La regista mette in scena il desiderio legittimo di essere vivi e lo localizza in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio, ma con dop-pio registro viene anche rappresentata la realtà, che è altra, diversa, asfissiante, con l’arrivo dei militari pronti a ribadire l’ordine maschile, teocratico, islamico, che è l’essenza del potere bulimico, mai pago e opprimente.

Lo stato della donna racconta lo stato dell’umani-tà calpestata (non è un caso che il film sia dedicato a tutti coloro che hanno combattuto per la democrazia in Iran), racconta l’ingiustizia che purtroppo prevale.

È nel ritrarre un mondo bucolico, bello, protettivo, nel raccontare il rifugio dell’anima delle protagoniste nel magico giardino, la regista mette in campo tutto il suo background di fotografa, con cromatismi e scelte estetiche raffinate; oltre ad una splendida fotografia e a un gusto peculiare per i tagli delle inquadrature e le profondità di campo, c’è la colonna sonora di Ryuichi

VERSI RIBELLIPaola Mastropietro

Sakamoto. Donne senza uomini è davvero un bel film, un canto

disperato dedicato a chi lotta nella consapevolezza che il mondo non è per nulla un luogo confortante.

Donne senza uomini (Zanan-e Bedun-e Mardan), di Shirin Neshat, Germania/Austria/Francia, 2009, 95 minuti

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MIGRATION AS MUTATIONAndrea Franceschi e Giacomo Beccari

Andrea Franceschi [www.ec2.it/andreafranceschi] e Giacomo Beccari [www.ciclostilearchitettura.me] sono archi-tetti laureati presso l’Università degli Studi di Ferrara. Dopo una migrazione a Madrid sono tornati a Bologna dove continuano ad osservare transumanze architettoniche.

È DA QUANDO SIAMO TORNATI DALLA NOSTRA FUGA LAVORATIVA A MADRID CHE CI INTERROGHIA-MO SUL CONTINUO MIGRARE DEGLI ARCHITETTI ITALIANI ALL’ESTERO.

In che paese vi trovate? SPAGNA, ops, CATALUNYA…Da quanti anni vi trovate lì? 6 più o meno, Alice ha 4 anni, Martino 2, si 6.Da quante persone è composto il vostro studio? Un numero variabile, lavoriamo in rete e sul www. Cosicché le squadre

cambiano in relazione al progetto. Comunque fissi tra la sede di Barcellona e Roma ora siamo 10; tra ingegneri, agronomi, architetti, e tecnici per le realizzazioni possiamo arrivare a 20.

Perché vi siete trasferiti? Un giorno, con le prime piogge di settembre, stanchi della paralisi ro-

mana, ce ne andammo con poche provviste in cerca di avventura e Barcel-lona fu una meta facile e attraente.

Cosa mancava in Italia che vi ha suggerito questa scelta? Dunque, sintetizzando: diciamo che ci sono due possibili interpretazioni

e forse sia l’una che l’altra sono conseguenze delle stesse, cioè intrecciate. La prima: in Italia manca, a nostro avviso, una cultura contemporanea, una preparazione di fondo in grado di apprezzare e capire un modo particolare di porsi di fronte alla questione architettonica e urbanistica dei nostri giorni. In Italia si specula economicamente, come ovunque, ma senza buoni fini, proprio perché non si specula intellettualmente in maniera adeguata. Vo-gliamo dire che le realtà interessanti, seppur esistenti, sono scollegate fra loro e materialmente non hanno alcun potere nell’opinione pubblica, perché la gestione, l’amministrazione e la politica, le ignora a causa d’incompeten-za o semplicemente di arroganza e arretratezza. L’Italia si è provincializzata, sembra che i nostri amministratori da un certo punto in poi abbiano smesso di leggere, di informarsi, o semplicemente di viaggiare. Sembrerebbe che non siano a conoscenza dei processi di cambiamento che hanno caratteriz-zato in questi ultimi 40 anni le metropoli europee e le discipline che ne stu-diano i fenomeni di dinamica urbana e strategia territoriale. Pensate solo al fatto che Roma, la nostra capitale, ha due linee di metropolitana nel 2009; non è mai divenuta metropoli, non ha mai consentito spostamenti veloci, dislocazione di servizi, multipolarità eccetera. Siamo 40 anni indietro e non sembra neanche che ci sia la volontà di recuperare attraverso l’esplosione delle nuove tecnologie.

La seconda: la nostra generazione ha un rapporto con l’Europa diverso rispetto alle precedenti. Noi ci sentiamo europei non italiani, viviamo da dentro il fenomeno dell’immigrazione culturale, che non è più considerabile tale, per il semplice fatto che l’Europa è la nostra nazione o meglio il nostro paese di origine. Le differenze culturali sono il pane quotidiano di studio e riflessione; Nabito (un neologismo nato dalla crasi tra la negazione non ed il verbo abitare), rielabora le proprie radici e le proprie origini, NON ABITA o

Nabito [www.nabit.it] Alessandra Faticanti (Roma 1975), Roberto Ferlito (Roma 1973) Nabito è uno studio multidisciplinare con base operativa a Barcellona, ma attivo in Italia, Francia e Spagna. I suoi componenti lavorano ad un confronto tra le diverse culture architettoniche, mettendone in luce similitudini e differenze. L’obiettivo è una ridefinizione del processo elaborativo e progettuale che è alla base dell’architettura e dell’urbanistica, favorendo l’emersione di una nuova cultura dell’abitare capace di rendere conto delle diverse problematiche sociali ed economiche della città contemporanea. Nabito, vincitore di diversi concorsi internazionali, ha conseguito nel 2006 l’importante riconoscimento europeo Nouveaux albums des jeunes architectes Paris, concesso dal Ministero della Cultura Francese.

MI|GRA|ZIÓ|NE S.F.

1 il migrare e il suo risultato.

2a ts antrop., spostamento da un luogo a un altro di un popolo, di una nazione, di una tribù alla ricerca di migliori condizioni di vita.

2b ts sociol., emigrazione, provvisoria o definitiva, da un luogo a un altro di una parte significativa della popolazione attiva, causata da ragioni economiche.

3 ts zool., spostamento compiuto da alcune specie animali e determinato da vicende stagionali, necessità alimentari o riproduttive. [def. dizionario De Mauro Paravia]

Fatto curioso è che nella classifica dei migliori studi italiani under 40, stilata dal sito www.newitalianblood.com, solo tre studi su dieci risiedono in Italia. Cosa manca al nostro paese perché l’architettura contemporanea possa svilupparsi? O al contrario cosa possiede l’Italia da non favorire adeguatamente l’architettura rispetto agli altri paesi europei tanto da incentivare la fuga dei suoi giovani progettisti?

Lo abbiamo chiesto direttamente a tre studi che hanno scelto di mettersi in gioco in un altro paese, lo stesso che ha accolto noi per un breve periodo: la Spagna.

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NEOABITA, espande i propri confini, li diffonde; proprio per questo il nostro lavoro è legato all’Italia, al mediterra-neo, a Roma e alle sue peculiarità, invisibili agli occhi degli amministratori. Molti elementi come il colore, il rapporto con la piazza pubblica, con la prepotenza della vegetazione, con lo spazio colonizzabile, con il vuoto urbano, con il foro, con l’altimetria, con il paesaggio, con le invenzioni tipologiche, con la sovrapposizione degli stili e la rivolu-zione barocca… sono presenti in tutte le nostre architetture. Ce ne siamo accorti a Barcellona e non a Roma. noi crediamo che esiste la possibilità di riscrivere una geografia diversa attraverso un transnazionalismo vero, auten-tico. Le radici culturali devono essere pensate come fattori in grado di innescare nuovi orizzonti di crescita e non come elementi utili a schiacciare, isolare, mantenere un vecchio status quo autoreferenziale.

Cosa possiede il paese in cui siete che in Italia manca? FRESCHEZZA, POSSIBILISMO, DINAMISMO, CORAGGIO, AVVENTURA, SERVIZIO E ORGANIZZA-

ZIONE, SENSO CIVICO, SENSO DI APPARTENENZA CULTURALE, RILASSATEZZA, DISINVOLTURA, PRO-GRESSISMO CULTURALE E SOCIALE.

Cosa dovrebbe cambiare? Dovrebbe cambiare l’atteggiamento verso le nuove generazioni. Si dovrebbe dare loro una fiducia che oggi in

Italia non è concessa.Consigli per giovani architetti italiani? Beh... consigliamo di scappare! Nel senso positivo del termine, ovviamente... esplorate l’Europa, respiratene il

fermento culturale. Insomma, come dite voi: migration as mutation?

In che paese vi trovate? Catalogna, Spagna.Da quanti anni vi trovate lì? Circa 9.Da quante persone è composto il vostro studio? Lo studio Fondarius ha tre soci, Alessandra, Federico e Marc, due migranti italiani e uno stanziale catalano, ma

questi non contano o contano poco, quelli che contano sono i giovani che passano di qui e si fermano qualche mese e con il loro entusiasmo ci contagiano. Grazie a loro riusciamo a rinnovare dentro di noi l’entusiasmo degli inizi, continuando ad avere gran voglia di fare gli architetti, cosa di questi tempi piuttosto complicata e poco gra-tificante..

Perché vi siete trasferiti? Ragioni diversissime, anche dall’architettura e dal lavoro, mi piace credere che la gente si muova anche per

altre questioni. Io per esempio ho seguito Alessandra, che già era a Barcellona a fare uno stage da Bohigas e con cui ha collaborato diverso tempo.

Cosa mancava in Italia che vi ha suggerito questa scelta? In Italia non mi mancava nulla, lavoravo e mi divertivo abbastanza, al contrario di molti architetti che scappano,

ho scelto di migrare per motivi legati al cuore e non al lavoro. Di fatto manteniamo contatti e lavori in Italia.Cosa possiede il paese in cui siete che in Italia manca? Si vive meglio che a Napoli, città che amiamo e da cui veniamo entrambi.Cosa dovrebbe cambiare? Tutto o nulla.Consigli per giovani architetti italiani?Siamo giovani architetti italiani, attendiamo consigli!!!

fondaRIUS [www.fondarius.com] Federico Calabrese (Napoli 1972), Alessandra Faraone (Napoli 1977) e Marc Tomas (Barcellona 1970).Lo studio fondaRIUS nasce nel 2002 ricevendo in dote il ricco background di esperienze professionali maturato dai singoli componenti all’interno di grandi studi di architettura (Lapeña-Torres, MBM Arquitectes, etc.). Lo studio è concepito come struttura flessibile e orizzontale. Negli ultimi anni ha partecipato a numerosi concorsi di architettura nazionali ed internazionali vincendo, fra gli altri, il primo premio per la riqualificazione del centro storico di Torraca (Italia), la Biblioteca Municipale di Pistoia (Italia) e la Piazza Mercades di Barcellona.

Un padiglione e un giardino.Finalista medaglia d’oro all’architettura italiana 2009. Selezionato PREMIO ROSA BARBA BIENNALE DEL PAESAGGIO 2008 BARCELLONA.

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LE FUGHE NON SI LIMITANO SOLO A QUESTI POCHI ESEMPI. MIGRAZIONI E MUTAZIONI CONTINUANO CON APPROFONDIMENTI SUL BLOG [ECOSISTEMAURBANO.ORG/MIGRATION-AS-MUTATION].

APRÈS TOUT VINCENNES: TRACCE DI UN’UNIVERSITÀ “DIFFERENTE”Giovanni Carrozzini

“Signor Ministro,ho fatto un sogno…L’Università di Vincennes non è

sbucata dal nulla, come un miracolo. È stata piuttosto la concretizzazione di una nebulosa, i cui contorni si erano lentamente disegnati grazie all’effervescenza in-tellettuale della primavera del 1968.

Di questa germinazione di idee, ebbi percezione tramite i contatti che intrattenevo allora con i numerosi animatori dei gruppi di riflessione e soprattutto con due giovani assistenti confermati della Sorbona, Hélène Ci-xous e Pierre Dommergues, che sarebbero ben presto divenuti miei fidati collaboratori, aiutandomi, per tutto il corso dell’estate successiva, ad ordinare tutti gli ele-menti necessari per quest’esperimento.

Era – me ne ricordo con precisione – lunedì 5 ago-sto 1968 quando, una volta che le cose mi si fecero più chiare, decisi di incontrare Edgard Faure, per interes-sarlo a questo progetto, che mi sembrava decisamente imprescindibile”.1

Dalle parole di Raymond Las Vergnas, allora De-cano onorario della Sorbona e presidente dell’Institut d’Aglais (che funse da nucleo storico e polo d’aggre-gazione durante i processi che favorirono la nascita di Vincennes), emerge, seppur frammentariamente, il ca-rattere peculiare che, sin dalle sue origini, distinse la sede di Paris VIII dalle altre sedi della Sorbona.

Come pure segnala Las Vergnas, Vincennes fu, in primo luogo, ‘un esperimento’, i cui elementi interagenti si distaccarono progressivamente da quel comune hu-mus fertile che constava delle ceneri, ancora bollenti, del maggio francese, attualizzandone concretamente i potenziali tesi e non ancora concretizzatisi.

Una facoltà differente già a partire dalla sua collo-cazione, sorta di riscatto per un passato che, per quel

luogo, era stato teatro di reclusioni e condanne: circa due secoli prima, infatti, le prigioni buie e malsane di Vincennes avevano ‘ospitato’ uno degli spiriti più irre-quieti e ostinati che l’Epoca dei Lumi avesse mai ge-nerato e alimentato, ovvero quello del ‘Divin Marchese’ De Sade.

E Vincennes di questa sua differenza fece ‘ariete di sfondamento’ contro lo stantio e incartapecorito acca-demismo dei luminosi Amphithéatres: come rileva a tal proposito Gilles Deleuze, Vincennes fu la culla di una nuova metodologia di ricerca e d’insegnamento, votata, in primo luogo, all’esaltazione delle originarie, ma non meno misconosciute, interconnessioni fra i saperi, con-trastando così con la diffusa vulgata per la quale l’ac-quisizione di uno statuto epistemologico da parte di un settore implicherebbe la sua decisiva separazione dalle indagini condotte negli altri ambiti della conoscenza:

“A Vincennes – osserva infatti il Nostro – la situa-zione è un’altra.

Un professore, per esempio di filosofia, parla in pre-senza di un pubblico costituito, seppur a livelli differenti, da matematici, musicisti – di formazione classica o pop – di psicologi, di storici, etc. Ora, piuttosto che ‘mettere fra parentesi’ le altre discipline, per meglio accedere a quella che intendono venga loro insegnata, gli uditori si aspettano dalla filosofia qualcosa che per esempio servirà loro personalmente o che si accordi con le al-tre attività che svolgono. La filosofia li riguarderà non in funzione del loro livello in questa specifica tipologia del sapere – può riguardarli anche se sono semplicemente dei principianti – ma direttamente in funzione della loro occupazione, ovvero delle altre materie o materiali dei quali sono già in possesso. È dunque nel loro interesse che gli uditori si aspettano qualcosa da questo inse-

Self Arquitectura [www.selfarquitectura.eu]Giacomo Delbene (Genova 1973), Giovanna Carnevali (Borgomanero 1974) dirigono un gruppo multidisciplinare di giovani professionisti che hanno deciso di unire le proprie eterogenee esperienze con l’obiettivo prefisso di affrontare ogni incarico professionale come occasione di sperimentazione e di ampliamento dei propri settori di conoscenza.

Biblioteca municipale. Sitges (BCN), Spagna. 2008.

In che paese vi trovate?Spagna.Da quanti anni? 12.Da quante persone è composto il vostro studio? 5.Perché vi siete trasferiti?Desiderio di dare continuità alla traiettoria di formazione già intrapresa

(programmi di dottorato presso la UPC), accesso ad esperienze professio-nali stimolanti.

Cosa mancava in Italia che vi ha suggerito questa scelta? L’accessibilità ad incarichi di spessore, la serietà della ricerca universi-

taria, la serietà delle pubbliche amministrazioni.Cosa possiede il paese in cui siete che in Italia manca? Serietà della formazione professionale, maggiore trasparenza nel si-

stema di assegnazione degli incarichi pubblici, garanzia di continuità nel processo di sviluppo delle commesse da parte del committente pubblico.

Cosa dovrebbe cambiare in Italia?Molte cose, dal recupero di una ricerca universitaria seria (non inquina-

ta da nepotismi o dal marketing commerciale di quanti usano le cattedre per alimentare i propri studi professionali), ad una trasparenza nella gestio-ne dei concorsi pubblici (sistematicamente ingessata da lobbies di potere consolidato).

Consigli per giovani architetti italiani? Avere il coraggio di lasciarsi alle spalle quello che non è giusto accettare.

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gnamento. L’insegnamento della filosofia, in tal modo, si accorda direttamente con la domanda del sapere: in cosa la filosofia può servire a dei matematici o a dei musicisti, anche e soprattutto quando non si occupa direttamente di musica o di matematiche. Tale insegna-mento non si configura semplicisticamente come cul-tura generale: risulta infatti pragmatico e sperimentale, sempre al di là dei suoi stessi confini, proprio perché gli uditori sono invitati ad intervenire in funzione dei propri bisogni o dei loro contributi”.2

Incisivi furono d’altra parte quei diciott’anni d’inse-gnamento della filosofia condotti abilmente da Deleuze presso Vincennes; come rileva in merito Soulié, in un breve quanto denso articolo del 1988 che testimonia la fervente eredità dei suoi contributi:

“Con i suoi corsi, Gilles Deleuze afferma di aver ca-pito sino a che punto la filosofia necessiti, non solo di una comprensione filosofica, attraverso i concetti, ma anche di una comprensione non filosofica, attraverso percetti e affetti”.3

Era questa, prima di tutto, una battaglia culturale ispirata da un nuovo senso di libertà, attivo, collabora-tivo e costruttivo, piuttosto che formale, individualistico e per ciò stesso solo fintamente emancipativo; coglien-done le principali istanze di rinnovamento, l’allora diret-tore del Dipartimento di Filosofia di Vincennes François Châtelet, puntualizzava:

“ritengo che questo modo di concepire l’insegna-mento della filosofia corrisponda alla filosofia viva di oggi, ‘quella che si muove nell’elemento della libertà’ si direbbe in gergo. È pur vero, tuttavia, che, allo stesso tempo, si sta affermando una filosofia scolastica, che pretende di essere una disciplina, nel doppio significa-to di ordine istituito e pedagogia autoritaria. La prima inventa, la seconda amministra. Non è affatto raro im-battersi in un filosofo del passato che abbia cominciato con la prima e si sia in seguito lasciato irretire dall’altra.

Ora, che triste società sarebbe quella che, col pre-testo di rassicurarci, non lasciasse alcuna opportunità all’invenzione, accontentandosi di una filosofia scolasti-ca, che appassisce rapidamente, per lasciare spazio a tecniche di pianificazione e di dominio”.4

Un’idea diversa di cultura, dunque, quella soste-nuta e propugnata a Vincennes, con la proficua col-laborazione di studenti e docenti, uniti ma mai confusi nell’adempimento dei loro rispettivi compiti di rinasci-ta del sistema universitario e formativo in genere: una cultura, quella costruita alacremente a Vincennes, che

reperisce nel sens du Tout e nell’homme totale le sue ragioni esistenziali. Una cultura che, ispirandosi, appun-to, alle ragioni di una filosofia viva, che si muove e lotta nella libertà, intravede nel disciplinarismo e nella sepa-razione delle ricerche di settore una sorta di ‘lobotomia dell’insegnamento’ contro cui occorre resistere lottan-do, in modo organizzato, ma soprattutto argomentato.

Alain Badiou, Etienne Balibar, Roland Barthes, François Châtelet, Noam Chomsky, Hélène Coxous, Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Dario Fo, Michel Fou-cault, Félix Guattari, Jacques Lacan, Jean-François Lyotard, Herbert Marcuse, Michel Serres, Iannis Xena-kis….sono questi i nomi di alcuni dei numerosi pensa-tori che si avvicendarono nelle aule di Vincennes, con atteggiamenti personali, spesso in contrasto fra loro e con le stesse idee-guida di quella realtà, come nel caso di Lacan, succubo di una vera e propria aggressione verbale pubblica da parte degli studenti presenti al suo seminario del 1969 a Vincennes, che lo accusarono di alimentare vaniloqui sofistici per meri interessi venali di cattedra, inducendolo, non senza una manifesta dose di rabbia, ad abbandonare il luogo, pronunciando, a denti stretti:

“voi [gli studenti] interpretate il ruolo che spetta agli iloti di questo regime. Sapete cosa vuol dire questa parola? Ve lo spiegherà questo stesso regime che vi sussurra “Guardate come si divertono!”. Ecco. Bene. Per oggi vi saluto. Bye. E con questo ho finito”.5

Una lotta quella di Vincennes che non risparmiava nessuno e nessuno proteggeva, come nel caso della ‘triste sorte’ che toccò a Ricoeur, vittima di un attacco personale che gli costò il lancio di un sacco d’immon-dizia in faccia:

“Ricoeur – si ricorda in un volantino dell’epoca, ri-vendicato dal Comité de base “Quand c’est insuppor-table on ne supporte plus” – si è preso un sacco di spazzatura in bocca: prof, vi prenderete la merda ogni volta che cercherete di esercitare le vostre mansioni da sbirri, controllori e osteggiatori. Vi si soffocherà”.6

Vincennes: un luogo in cui l’opposizione ad ogni

forma di quiete volgare, di supina accettazione del con-trollo e di malsana gestione di un potere escludente e dis-integrante si traduceva, in prima istanza, in una decisiva condanna di quelle meccaniche coartanti che si reperiscono, ancor oggi, in certi gruppuscoli di bu-rocrati, “piccoli dittatori” satolli e ingordi di un’ignoran-za da colletto bianco e stirato e posto-fisso-garantito, come pure si nota nella breve trascrizione dell’interven-to di Michel Foucault ad una delle numerose riunioni

che fungevano da sfondo concreto per i tanti dibatti-ti e confronti che animavano le aule di Paris VIII. Una burocrazia, quella denunciata e, al contempo, temuta da Foucault che, saldamente ancorata alle sue garan-zie d’infallibilità, continuava ad agire indisturbata, no-nostante le significative svolte introdotte ‘nel sistema’ dalle lotte sessantottine; una burocrazia che cercava affannosamente di reclutare le sue schiere anche fra gli stessi agitatori dell’esperienza-Vincennes, etichettati duramente (ad ennesima dimostrazione di quella critica sempre vigile che circolava in quei corridoi) ‘scimmie sapienti’, ma che, in realtà, palesavano le spiacevoli conseguenze di una struttura del silenzio, della men-zogna e dell’ipocrisia che trovava, fra alcuni colleghi di Foucault, infallibili alleati per la causa del ‘deve cambia-re tutto perché nulla cambi’. Notava, infatti, a tal propo-sito Foucault, non senza un’esplicita dose di sarcasmo e rammarico:

“Signori,io non posso permettermi di chiamarvi Compagni,

perché sono anch’io una canaglia.Devo ammettere che tutti i professori sono un cu-

mulo di rifiuti.Sono sempre in ritardo? ebbene, in realtà, non

fanno altro che esercitare la professione di coltivare il ritardo. Il Movimento reale che sopprime le condizioni vigenti assegnerà loro un colpo mortale: è per questo motivo che lavorano al mantenimento della situazione vigente.

La merce che fabbrichiamo è la menzogna colta: è per questo motivo che lo STATO CI PAGA ed è di que-sta menzogna che quelle scimmie sapienti dei nostri studenti sono avidi, per poterne diventare apprendisti all’interno di tutti quei partiti e gruppetti burocratici che intendono svecchiare il capitalismo.

Siamo tutti pensatori garantiti dallo Stato, ma devo ammettere che la nostra più meritoria attività benevola,

1. Aa. Vv., Vincennes. Une aventure de la pensée critique, sous la direction de Jean-Michel Djian, Préface de Pascal Binczak, Flammarion, Paris 2009, p. 32, trad. it. mia.2. Idem, p. 122, trad. it. mia. Si precisa che il testo del succitato intervento deleuziano ha trovato ulteriore trad. it. nel volume, di recente pubblicazione, dal titolo Gilles Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1977, a cura di Deborah Borca, Introduzione di Pier Aldo Rovatti, Einaudi, Torino 2007.3. Idem, p. 49, trad. it. mia.4. Ibidem, trad. it. mia.5. Idem, p. 69, trad. it. mia.6. Idem, p. 70, trad. it. mia.7. Idem, p. 71, trad. it. mia.8 René Schérer-Geoffroy de Lagasnerie, Après tout. Entretiens sur une vie intellectuelle, Cartouche, Paris 2007, p. 45, trad. it. mia.

in realtà, è stata quella, da cinquant’anni a questa par-te, di cercare di occultare la vera storia del movimento operaio, le sue manifestazioni più grandiose: Cron-stadt, Torino 1920, la Comune di Spartakus e infine Barcellona 1936-1937.

Me ne vergogno, ma questa vergogna non farà di me un rivoluzionario;

Signori vi saluto”.7

Può dunque solo essere frammentaria e jazzistica la modalità di richiamarsi a quest’esperienza, cercando, così, ove possibile, di riprodurre quel trionfo dell’illogi-co che per certi versi fu Vincennes, se naturalmente per logica s’intende l’instaurazione di un ottundente siste-ma di regole forzate e derealizzanti, atte, piuttosto che al reperimento di un senso, all’istituzionalizzazione dello stesso. D’altro canto, “parlare di Vincennes”, oggi, non significa fare uno sterile esercizio di memoria: a poco serve ricordare se questo non mira a cambiare. Trop-pe ‘giornate della memoria’ senza altrettante coscienze che del ricordo facciano azione. D’altra parte, per dirla con le parole del ‘temuto Schérer’, che della lotta alla convenzione algida e irragionata fece ragione di scrit-tura e pensiero:

“Fin troppo spesso, mi capita di constatare che un numero crescente di persone finisce per accettare tut-to senza protestare in alcun modo, sebbene alle volte non sia affatto d’accordo, favorendo così la costituzio-ne di un vero e proprio dispositivo di controllo. Il potere si esercita così per via di una sorta di auto-censura, una specie di micro-sociologia del potere che si origina dal basso […]. Fortunatamente, sussistono pure delle forme di esplicita resistenza a questa discutibile situa-zione, […] [e] si constata comunque la presenza di un gran numero di giovani che intendono rinnovare il ‘68, che se ne interessano, che lo rivivono interiormente, cosa che di certo non può non rassicurarci”.8