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言葉 KOTOBA PAROLA TESTO MEDIAZIONE VOLUME 1 INTERPRETAZIONE MEDIAZIONE TRADUZIONE

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言葉KOTOBA

PAROLA – TESTO – MEDIAZIONE

VOLUME 1

INTERPRETAZIONE – MEDIAZIONE TRADUZIONE

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Kotoba

Collana della Scuola Superiore di Mediazione Linguistica di Varese

Comitato Scientifico

Hans Drumbl (Bolzano)Susanna Marino (Milano)Bernd Sieberg (Lisbona)

ISBN: 978-88-905948-2-3ISSN: 2039-5612

© 2012 I.L.S.I.T. SrlVia Cavour 3021100 VareseItalia

http://kotoba.ssml.va.it

Prima edizione: 2012

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INTERPRETAZIONE – MEDIAZIONE TRADUZIONE

a cura di Ernst Kretschmer

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INDICE

1. IntroduzioneErnst Kretschmer ................................................................. p1

2. Manuale di traduttologia comunicativa. Un approccio multidisciplinare alla traduzioneRaffaele Carlettini e Laurent Carsana ................................ p8

3. Umanesimo e testoIrene Colacurto-Straßer e Luisella Magnani ...................... p27

4. Ser y estar. Usos y equivalencias en italianoCarmen Selles de Oro .......................................................... p39

5. Schwarzwälder KuckucksuhrenMartina Luisetto .................................................................. p51

6. Die Körpersprache in der interkulturellen Kommunikation. Ein Überblick über die italienische und deutsche GestikMartina Cristofori ............................................................... p66

7. Language learning with corpora in a multilingual working environmentRenata Zanin ....................................................................... p99

8. Terakoya: L’insegnamento della scrittura nel Giappone del periodo Edo (1603–1868)Susanna Marino .................................................................. p110

9. Task und TextErnst Kretschmer ................................................................ p124

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Ernst Kretschmer

INTERPRETAZIONE – MEDIAZIONE – TRADUZIONE. INTRODUZIONE. RIFLESSIONI SUL METODO

Kotoba, è la traslazione in caratteri latini del sostantivo giapponese che significa “parola”. È il titolo della nuova collana della Scuola Superiore di Mediazione Linguistica di Varese. Il primo volume presenta una raccolta di saggi che illustrano la molteplicità e la varietà delle dimensioni della “parola”. Se il “nome”, come sostiene Socrate nel Cratilo di Platone, è un “organon” (388 A), ovvero uno strumento, che serve a denominare le cose del nostro mondo, la “parola” può essere considerata in modo più generale come uno strumento con cui gli uomini comunicano sulle cose del mondo. In riferimento poi alla seconda definizione di natura linguistica che Platone propone nel Cratilo (387 B), ovvero che il dire sia una “praxis”, un “atto” quindi, come traduce Maria Luisa Gatti1, o una “azione” secondo Gino Giardini,2 si può aggiungere che quest’atto o quest’azione si compie in ambiti comunicativi diversi. La collana Kotoba si prefigge l’obiettivo di contribuire alla comprensione della natura dello strumento “parola” nei vari contesti dell’azione comunicativa. La mediazione linguistica come disciplina accademica e come professione pratica favorisce una prospettiva interlinguale e interculturale sui vari contesti dell’azione comunicativa. Questa prospettiva si manifesta sia nella scelta delle tematiche, sia delle lingue stesse in cui si presentano i diversi contributi: oltre all’italiano vi saranno contributi in l’inglese, francese, spagnolo e tedesco. L’impostazione interdisciplinare della collana risponde alla natura profondamente interculturale della mediazione linguistica. Per questa ragione la collana offre il proprio spazio non solo a studi linguistici e letterari ma anche a quelli della filosofia e della sociologia, della storia, dell’economia e giurisprudenza, solo per nominare alcune delle discipline che si occupano del complesso fenomeno della cultura. Nel vasto contesto disciplinare della mediazione linguistica la collana si apre infine a diverse tipologie discorsive: oltre al classico saggio scientifico-accademico, che ne rappresenterà comunque il nucleo centrale, si prevedono anche contributi di carattere giornalistico e letterario. Il primo volume di Kotoba contiene diversi contributi di linguistica, di critica letteraria, di traduttologia e glottodidattica raccolti in un titolo che fa riferimento a tre modi di affrontare l’atto del dire. Con l’interpretazione, la mediazione e la traduzione si presenta un ordine categoriale che va dal generale al particolare. Il concetto di interpretazione comprende quello

1 Platone (2000), 138. 2 Platone (2011), 235.

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della mediazione che, a sua volta, racchiude quello della traduzione. Ogni traduzione di un testo è sempre un atto di mediazione ed entrambe, in quanto tali, sono sempre anche atti d’interpretazione. Nei termini di una prospettiva pragmatico-didattico si può sostenere che per diventare un abile mediatore o traduttore bisogna imparare l’”arte” dell’interpretazione come abilità di base. Che cosa sia l’arte dell’interpretazione e in che cosa consista, è una domanda assai difficile e per questo continuamente dibattuta sin dall’antichità quando si cercava di interpretare le opere di Omero ed Esiodo, considerate sì canoniche per il loro valore formativo e religioso ma ormai lontane e di difficile comprensione. Nacque così l’arte dell’„allegoresi“, un metodo interpretativo con cui si oltrepassava il senso letterale di un testo per arrivare al suo messaggio astratto. Così Cratete di Mallo, fondatore della Scuola di Pergamo nel II secolo a. C., era convinto di aver ritrovato nei testi di Omero, interpretandoli allegoricamente, tutte le conoscenze delle scienze naturali. Dalla Scuola di Pergamo e dal suo principio interpretativo dell’allegoresi si sviluppò nel corso dei secoli un sistema metodologico complesso e sofisticato che si applicò innanzitutto ai testi sacri della bibbia e che trovò la sua massima differenziazione e precisazione concettuale nelle riflessioni di Agostino. Nella sua Doctrina

christiana (397-426), l’opera più influente dell’intero medioevo sull’arte dell’interpretazione, Agostino distingue quattro piani del significato che si troverebbero in un testo: il senso storico o letterale risulta direttamente dalla norma linguistica generale; quello allegorico apre la dimensione figurata che va oltre la norma; il senso morale o tropologico esprime un teorema o una dottrina morale e quello anagogico riguarda infine il paradiso e la vita eterna. Si notano chiaramente gli stretti legami tra i princìpi interpretativi del medioevo e la teologia. Per arrivare a principi interpretativi fondati su una razionalità prettamente scientifica, bisognava aspettare fino alla seconda metà dell’Ottocento quando si formano nel contesto della discussione sulla distinzione tra scienze naturali e scienze umane. Nella sua Einleitung in die Geisteswissenschaften del 1883 – Introduzione alle scienze dello spirito nella traduzione di Gian Antonio De Toni – lo storico e filosofo Wilhelm Dilthey paragona le scienze naturali e quelle umane dal punto di vista metodologico. Dilthey sostiene che le scienze naturali riescono a “spiegare” i fenomeni della natura sulla base del principio della causalità lineare, che la caratterizza in modo assoluto. La descrizione poi di certe regole e leggi può affidarsi ai risultati verificati attraverso procedure sperimentali. La cultura umana, secondo Dilthey, è invece troppo complessa per poter essere spiegata solo con le leggi della causalità. I fenomeni culturali si devono “comprendere” attraverso l’interpretazione. E mentre le scienze naturali sviluppano la loro metodologia nel fornire spiegazioni sulla base degli esperimenti condotti, le scienze umane producono le loro spiegazioni seguendo il modello ermeneutico. Dilthey stesso, che si trova tra i più influenti promotori dell’ermeneutica, si rifà esplicitamente a Friedrich Schleiermacher che ne può essere considerato uno dei padri. Pur rifacendosi alle riflessioni teoriche di Christian Wolff e Friedrich Ast, fu Schleiermacher a gettare le basi teoriche alla metodologia ermeneutica, metodologia al centro della quale si colloca l’idea del “circolo ermeneutico”: la comprensione di un fenomeno nella sua totalità, ovvero “il tutto” (“das Ganze”), presuppone la conoscenza di ogni costituente, “il singolo” (“das Einzelne”), da cui esso è composto. Nello stesso tempo, però, l’individuazione dei singoli elementi

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presuppone una visione del tutto. In tal modo, in un processo di interpretazione si passa continuamente, in un movimento circolare, dal tutto ai singoli elementi e da questi al tutto. Se si vuole, per esempio, “comprendere” cosa sia il “romanticismo tedesco” si devono conoscere le opere che lo costituiscono. A sua volta, per poterle riconoscere come romantiche si deve avere un’idea generale del “romanticismo”. Sul fatto che la metodologia ermeneutica si applichi ai testi, Schleiermacher, filologo e teologo, non ha dubbi. Il suo interesse tuttavia si rivolge al tipo di testo a cui può essere applicata. Nella prima delle due conferenze tenutesi a Berlino nel 1829 davanti all’Accademia prussiana delle scienze Schleiermacher cerca una risposta a tale questione, sviluppando la sua argomentazione con cauta precisione. Confrontandosi prima con Christian Wolff, che definisce l’ermeneutica “un organo della scienza dell’antichità”3, allarga il concetto, affermando che essa “non si occupa solamente dell’ambito classico […] ma svolge la sua opera dovunque vi sia uno scrittore”. 4 Il primo oggetto dell’ermeneutica è quindi l’opera estetica. Basandosi poi sulla riflessione che il lettore impara anche “da testi scritti che non hanno un valore spirituale nemmeno molto elevato”5 e che, talvolta, sono tuttavia difficili,

Schleiermacher conclude: “l’ermeneutica non deve essere limitata unicamente a produzioni letterarie”.6 Un ulteriore oggetto di studio ermeneutico è quindi per lui qualsiasi testo scritto, dalla lettera privata alla notizia giornalistica, dal saggio scientifico alle istruzioni d’uso. Con l’ultimo passaggio Schleiermacher supera infine i confini del testo scritto: l’applicazione dell’ermeneutica “non dipende in alcun modo dallo stato del discorso, fissato dalla scrittura e rivolto all’occhio” ma vale anche “in tutti quei casi in cui ci siano pensieri o sequenze di pensieri che dobbiamo percepire mediante le parole”,7 dunque anche quelle pronunciate oralmente. Il terzo oggetto dell’ermeneutica è quindi costituito dai testi della lingua parlata. L’ermeneutica si applica, per riassumere il ragionamento di Schleiermacher, a tutti i tipi di testo, quello letterario e non letterario, scritto e orale, a tutti i testi insomma nei confronti dei quali il lettore o l’ascoltatore si pone il problema della comprensione. Sempre nella prima conferenza del 1829 Schleiermacher descrive poi la percezione ermeneutica della struttura semantica di un testo, partendo, nella sua visione, dal più piccolo elemento di esso, e cioè dal significato della singola parola:

Se una parola è conosciuta secondo il suo valore linguistico generale, quale parte di questo valore linguistico rientri in quella precisa occorrenza e quali parti sono invece da escludere viene stabilito solo dalle altre parti della stessa proposizione e precisamente e innanzitutto da quelle alle quali essa è legata in modo organicamente più prossimo: ciò vuol dunque dire che la parola è compresa come parte a partire dal tutto, come singolo elemento a partire dalla totalità.8

3 Schleiermacher (1996), 411. 4 Schleiermacher (1996), 415, 417. 5 Schleiermacher (1996), 419. 6 Schleiermacher (1996), 419. 7 Schleiermacher (1996), 420. 8 Schleiermacher (1996), 451. „Ist ein Wort seinem allgemeinen Sprachwerthe nach bekannt: so wird doch nur durch andere Theile desselben Satzes und zwar zunächst nur durch diejenigen, mit denen es am nächsten organisch verbunden ist, bestimmt, welcher Theil dieses Sprachwerthes in die gegebene Stelle fällt und welche

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In modo analogo il principio ermeneutico si applica anche alla comprensione della proposizione. Anch’essa, da parte sua, ha un suo “valore linguistico” che risulta dalla sua composizione sintattica. Il suo significato concreto, però, si può comprendere solo se si considerano le altre proposizioni che si trovano intorno a essa e con cui forma un contesto discorsivo comune:

Infatti, nello stesso modo in cui, nella proposizione, la parola è un singolo elemento e una parte, anche la proposizione è tale nel più ampio contesto del discorso.9

Lo stesso principio vale per la comprensione globale: non la si ottiene se si considera solo l’insieme delle proposizioni del testo. Per coglierne il senso va considerato “come parte a partire dal tutto, come singolo elemento a partire dalla totalità”, e queste totalità possono essere diverse e assumere diversi livelli e dimensioni. Se si considera La signorina Scuderi (Das Fräulein von Scuderi) che E.T.A. Hoffmann pubblicò nel 1819, si possono ipotizzare diverse “totalità” a cui appartiene nella sua qualità di testo: la raccolta I Confratelli di

Serapione (Die Serapionsbrüder), in cui si trova assieme ad altri 20 racconti. Fa poi parte dell’intera opera letteraria dell’autore che a sua volta forma una totalità con le opere di carattere figurativo come disegni e dipinti. Il racconto, ancora, è da interpretare all’interno della biografia dell’autore nonché all’interno del romanticismo, vale a dire il periodo storico in cui è stato scritto, e in riferimento al contesto del genere letterario del racconto: la sua comprensione si arricchisce sia nella prospettiva della tecnica novellistica di cui, nel Trecento, si è servito Boccaccio, sia in quella del giallo che nasce nel 1841 con Murders in the Rue

Morgue di Edgar Allan Poe. L’esempio della Signorina Scuderi, scelto casualmente, mostra che i contesti e i livelli immaginabili per l’applicazione della regola ermeneutica sono numerosi se non infiniti. È Schleiermacher stesso che afferma:

Per quanto ciò sia chiaro e anche suscettibile di essere confermato da parecchi esempi, è altrettanto difficile rispondere alla domanda fino a che punto ci si possa elevare con l’applicazione di questa regola.10

La scelta del contesto come parte dell’interpretazione ermeneutica dipende fondamentalmente dal rapporto tra interprete e testo o, meglio, dal suo “dialogo” con il testo, per utilizzare il concetto sviluppato, nel 1960, da Hans Georg Gadamer in Verità e metodo (Wahrheit und

Methode). Nel breve saggio Sul circolo ermeneutico (Vom Zirkel des Verstehens) che precede l’opera magna di un anno, Gadamer sintetizza il processo dell’interpretazione del testo in questi termini:

Chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un

auszuschließen sind, das heißt also, es wird als Theil aus dem Ganzen als Einzelnes aus der Gesamtheit verstanden“ (450). 9Schleiermacher (1996), 453. „Denn wie das Wort im Satz ein einzelnes ist und ein Theil, so auch der Satz im größeren Zusammenhang der Rede“ (452). 10 Schleiermacher (1996), 453. „So deutlich dies aber ist und auch noch durch mehrere Beispiele bestätigt werden könnte: so schwierig ist die Frage, wie weit man mit Anwendung dieser Regel hinaufsteigen könne, zu beantworten“ (452).

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significato del tutto. E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate. La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo.11

Il contesto interpretativo in cui l’interprete legge un testo dipende quindi dalle sue “attese”, ovvero dal suo “progetto” di lettura. È un progetto che è destinato a mutare in base a nuove informazioni e suggestioni del testo ed è così soggetto a continue revisioni – conferme o modifiche. Il modo in cui tuttavia prende forma il tale progetto è strettamente connesso alla soggettività dell’interprete. Un elemento decisivo nella sua conformazione è il punto di partenza della lettura, vale a dire il giudizio non ancora messo alla prova dal contatto col testo, ovvero, in questo senso specifico, il suo “pregiudizio” (“Vorurteil”)12, in cui si rispecchiano le esperienze fatte nella sua situazione storico-biografica. Nel caso specifico dell’interpretazione come mediazione il progetto di lettura di un testo assume dimensioni particolari. Il mediatore, oltre alle proprie attese nei confronti del senso del testo, prende anche in considerazione le attese delle persone a cui l’atto di mediazione è indirizzato. Il suo compito è simile a quello dell’insegnante che interpreta per gli allievi un testo nella loro lingua comune: lo fa con successo se riesce a individuare le loro attese e a tenerle in considerazione nel suo approccio interpretativo. Nella mediazione l’interpretazione si complica: il destinatario appartiene, per forza di cose, a una comunità linguistica diversa rispetto a quella da cui proviene il testo. Perciò, oltre alla pluralità e la diversità delle attese e dei “pregiudizi” che si devono alle caratteristiche particolari di ogni individuo, alle sue conoscenze ed esperienze personali, il mediatore deve anche tener conto di quei “pregiudizi” che, in qualche modo, sono dovuti all’appartenenza linguistica del destinatario e alla sua cultura. Se si condivide la convinzione di Humboldt e dello stesso Schleiermacher “che, in sostanza e nell’intimo, pensiero ed espressione siano interamente la stessa cosa”,13 e cioè che parlare due lingue diverse significa anche pensare in due modi diversi, allora spetta al mediatore individuare e prendere in considerazione le differenze nella percezione e nella visone del mondo che determinano i rispettivi “pregiudizi” nei confronti di un dato testo. Riferito in particolare alla traduzione di un testo scritto, Schleiermacher inquadra questo compito nell’ottica della distanza tra scrittore e lettore: il compito del mediatore-traduttore è quello di avvicinare l’uno all’altro, e per quanto riguarda le possibili vie che si possono intraprendere per arrivarci, Schleiermacher conclude:

A mio avviso, di tali vie ce ne sono soltanto due. O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore. Le due vie sono

11 Gadamer (1972), 313 seg. „Wer einen Text verstehen will, vollzieht immer ein Entwerfen. Er wirft sich einen Sinn des Ganzen voraus, sobald sich ein erster Sinn im Text zeigt. Ein solcher zeigt sich wiederum nur, weil man den Text schon mit gewissen Erwartungen auf einen bestimmten Sinn hin liest. Im Ausarbeiten eines solchen Vorwurfs, der freilich beständig von dem revidiert wird, was sich bei weiterm Eindringen in den Sinn ergibt, besteht das Verstehen dessen, was dasteht“ Gadamer (1993), 59 seg. 12 “Di per sé, pregiudizio significa solo un giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti gli elementi obiettivamente rilevanti” Gadamer, 317 seg. 13 Schleiermacher (1993), 167.

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talmente diverse che, imboccatane una, si deve percorrerla fino in fondo con il maggiore rigore possibile.14

Come sottolineano Apel e Kopetzki, le due vie con cui Schleiermacher anticipa la distinzione contemporanea tra “source oriented” e “target oriented” non sono da intendersi nel senso di una rigorosa esclusione reciproca a livello teorico ma, nel più ampio contesto della sua filosofia della storia che svelano le loro potenzialità in una certa situazione storica.15 L’interpretazione della famosa citazione di Schleiermacher non può neanche portare alla conclusione che la traduzione ideale sarebbe, alla fine, quella in cui le posizioni dello scrittore e del lettore coincidono. Sempre in Sui diversi metodi del tradurre Schleiermacher afferma infatti in modo più flessibile che il suo ideale di una traduzione sarebbe quello in cui si sente ancora, in qualche maniera, la provenienza straniera dell’originale, ovvero, un “diffuso sentimento di estraneità” (“Gefühl des Fremden”),16 che può solo nascere in una distanza indefinibile tra la lingua e la cultura dello scrittore e quelle del lettore. Ritornando un’ultima volta a Gadamer, questo sentimento di estraneità si presenta anche alla luce del “pregiudizio”. Uno degli elementi costitutivi del dialogo ermeneutico con il testo è la consapevolezza dell’interprete del proprio “orizzonte”. Il bravo interprete si rende conto delle sue esperienze, fatte nella sua situazione storica particolare all’interno della sua cultura particolare, perché sono queste che condizionano il suo “pregiudizio”, il suo “progetto” di lettura nonché il modo di elaborarlo. Il sentimento di estraneità è la manifestazione dell’esperienza stessa dell’interprete di essere diverso dall’autore del testo che sta interpretando. Visto così, questo sentimento è inerente a qualsiasi processo ermeneutico. È sempre il testo dell’altro che si interpreta, spesso lontano nello spazio e nel tempo. Sono sempre le interpretazioni degli altri con cui si confronta la propria interpretazione in quel circolo continuo che caratterizza le metodologie delle scienze umanistiche e che le distingue da quelle delle scienze naturali.

Bibliografia

Apel, Friedmar / Kopetzki, Annette (2003), Literarische Übersetzung, 2. Aufl., Stuttgart, Weimar: Metzler (Sammlung Metzler 206). Dilthey, Wilhelm (1974), Introduzione alle scienze dello spirito, trad. e a cura di Gian Antonio De Toni, Firenze: La Nuova Italia. Gadamer, Hans Georg (1993), Vom Zirkel des Verstehens (1959), in: Gesammelte Werke, Bd. 2, Hermeneutik: Wahrheit und Methode, 2. Ergänzungen, Register, 2. durchges. Aufl., Tübingen: Mohr, 57-65. Gadamer, Hans Georg (1972), Verità e metodo, trad. da Gianni Vattimo, Milano: Fabbri. 14 Schleiermacher (1993), 153. „Meines Erachtens giebt es deren [Wege] nur zwei.Entweder der Uebersezer läßt den Schriftsteller möglichst in Ruhe, und bewegt den Leser ihm entgegen; oder er läßt den Leser möglichst in Ruhe und bewegt den Schriftsteller ihm entgegen. Beide sind so gänzlich von einander verschieden, daß durchaus einer von beiden so streng als möglich muß verfolgt werden […].“ In Störig (1973), 47. 15 Apel/Kopetzki (2003), 89. 16 Schleiermacher (1993), 151; Störig (1973), 54.

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Hoffmann, E.T.A. (1996), La signora Scuderi, trad. da Maria Paola Arena, Napoli: Morano. Hoffmann, E.T.A. (1969), I Confratelli di Serapione, trad. da Carlo Pinelli, Torino: Einaudi. Platone (2000), Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Milano: Bompiani. Platone (2011), Tutte le opere, a cura di Enrico V. Maltese, terza ediz., Roma: Newton Compton. Schleiermacher, Friedrich (1973), Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens (24. Juni 1813), in: Das Problem des Übersetzens, hrsg. von Hans Joachim Störig, Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 38-70. Schleiermacher, Friedrich (1993), Sui diversi metodi del tradurre, trad. da Giovanni Moretto, in: Siri Nergaard (a cura di), La teoria della traduzione nella storia, Milano: Bompiani, 143-179. Schleiermacher, Friedrich (1996), Ermeneutica, testo tedesco a fronte, a cura di Massimo Marassi, Milano: Rusconi.

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Raffaele Carlettini e Laurent Carsana

MANUALE DI TRADUTTOLOGIA COMUNICATIVA. UN APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE ALLA TRADUZIONE

L’Uomo controlla la natura

non tramite la forza, bensì

con la comprensione.

Jacob Bronowski

1. Introduzione

Gli studi in campo traduttologico sono al momento ancora fermi a Dopo Babele di George Steiner (1984). Questo ha fatto nascere in noi la necessità di sviluppare un nuovo modello di approccio alla traduzione, non solo dal punto di vista filosofico, ma soprattutto dal punto di vista prettamente pragmatico, di trasposizione. Un simile lavoro si è reso necessario perché ci siamo accorti che, in definitiva, gli ormai datati approcci traduttivi non potevano più soddisfare in alcun modo le mutate esigenze esegetiche rese imprescindibili dal modello comunicativo globale sviluppatosi negli ultimi vent’anni. Pertanto, abbiamo considerato opportuno affrontare la traduzione non più sul modello classico del rapporto locutore interlocutore analizzando semplicemente la fisicità e la metafisicità del messaggio; ma abbiamo creduto che fosse opportuno spostare l’attenzione sull’intera interazione tra locutore e interlocutore, nonché affrontare anche i processi creativi e comunicativi insiti nei due interagenti. Tale apertura di vedute su di un mondo che si è già rivelato ben più complesso e articolato di quanto non lo si fosse considerato sino a oggi, ha permesso, in ultima analisi, di aprire nuove porte su mondi limitrofi, ma pur sempre attinenti all’universo della traduttologia. Infatti, oltre a comprendere i meccanismi che sottendono al messaggio e alla volontà del locutore, si è reso necessario affrontare anche il modo in cui il medesimo interlocutore reagisce e agisce di fronte a un messaggio sempre più elaborato e sempre meno semplice da decodificare. Ancor più, il Manuale di traduttologia comunicativa si pone altresì l’obiettivo di considerare il traduttore stesso come interagente: dapprima, come interlocutore privilegiato del locutore; in seconda istanza, come nuovo trasmettitore di un messaggio che è, nei fatti, impregnato non solo dalle conoscenze del locutore originario, ma anche da quelle del traduttore medesimo.

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Inoltre, è logico pensare che non ci si poteva in alcun modo esimere dal ragionare su di argomentazioni quale la scrittura e su ciò che spinge l’individuo a scrivere, narrare, descrivere e vivere il mondo che lo circonda e le emozioni che lo accompagnano – così come ampiamente spiegato nell’introduzione stessa e che di seguito riportiamo per intero.

2. L’arte del tradurre e del mediare

Diciamoci la verità. Tutti quelli che amano scrivere sono in realtà dei masochisti. Ognuno di noi partorisce uno scritto grazie alla propria essenza paterna, o materna che sia, e lo espone brutalmente alle critiche positive o negative del pubblico – dal lettore all’esperto della vivisezione filosofica. Il fatto poi che una critica sia favorevole o contraria, è solamente un diversivo per coloro che non hanno una vera e propria volontà d’apprendimento. A questi, infatti, non interessa il messaggio contenuto negli scritti – dalle poesie alle novelle, dai racconti ai romanzi. Tali persone sono solamente degli spettatori senza presenza culturale; però, hanno in sé un vastissimo potere discriminatorio: sono il famoso campione degli studi di marketing, che la maggior parte delle volte si esprimono a favore degli specchietti per le allodole. In effetti, quei libri che contengono nozioni infantilistiche senza valore, sono sempre quelli ben accetti e più venduti. Questo è il loro compito: rendere gravidi i portafogli di chi non conta. Ma cosa è rimasto di Montaigne, o di Sartre, o di Hemingway? Cosa è rimasto di Balzac, o di Chaucer? E di moltissimi altri della Letteratura? Pressoché nulla. Ormai, la Letteratura, quella vera, è cosa per pochi intimi, appassionati e studiosi come il sottoscritto. Solo per noi, pochi giovani, che non demordiamo e lasciamo ordini nelle librerie di tutta Italia per poter avere libri, veri capolavori, che potremo leggere solo dopo mesi di attesa. Rendiamoci altresì conto che può anche capitare di dover attendere alcuni anni per un libro di narrativa, figuriamoci se si tratta di poesie. Tutto questo non farà certo piacere ad alcuni editori e tanto meno al grande pubblico ipocritamente disfattista. Perciò, che fare? Forse ci si dovrebbe rassegnare come molti consigliano; ma la coerenza e la passione non permettono di abiurare la coscienza. Allora si deve essere decisi a continuare nella ricerca di testi grandiosi, come già lo sono stati i Saggi di Montaigne, o altri testi fondamentali per una maturazione continua – come L’essere e il nulla di Sartre - per rendere travagliatamente illuminata la nostra beata ignoranza. Sappiamo bene che la poesia è la voce intima della nostra anima – quella del poeta – che si rivolge, che comunica con tutte quelle altre anime altrettanto sensibili da recepirne il messaggio. Questo distacco da parte della gente (e che è presente anche nella società moderna; nonostante le innumerevoli iniziative editoriali, la poesia viene ascoltata e assimilata da soli amici intimi e noti) ha portato alcuni spiriti geniali, particolarmente sensibili all’atto comunicativo, a risentirne più degli altri. Non a caso, due di queste menti illuminate, Guido Morselli e Giorgio Manganelli, hanno messo sotto accusa questa apatìa generalizzata attraverso due romanzi e non con limpidi versi di denuncia.

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Il primo di questi romanzi è Dissipatio H. G. di Morselli, uno scritto basato su di una visione fantastica di ciò che è la solitudine dell’individuo nella società moderna. I momenti culminanti in cui troviamo una riflessione completa della vita reale nel romanzo, sono quelli caratterizzati dalle pause che portano l’autore/protagonista a pensare su ciò che avviene, o meglio, è avvenuto, intorno a lui. Una particolare attenzione la pongo al momento in cui egli, io narrante, si ritrova innanzi a una vetrina del centro. Qui, si può carpire quanto un individuo è solo: guarda attraverso la vetrina di un negozio e la scena pare essere bloccata nelle due dimensioni temporali; quella temporale vera e propria da una parte, con i volti e i corpi dell’apatìa fatta persona che lo attraversano o vi si soffermano un poco per poi svanire ancora una volta; e quella fittizia del romanzo, ove la sparizione pressoché totale del genere umano (Dissipatio Humani Generis, Dissipamento del Genere Umano) accentua ancor più la solitudine provata. Nel caso, invece, de La palude definitiva di Manganelli, abbiamo la visione allegorica sia della società, sia della solitudine. Il protagonista all’inizio del romanzo risente in modo particolare del peso delle futilità quotidiane, tanto che, reclamato a furor di popolo nella mondanità, preferisce sfuggire a tale aberrante realtà: egli cerca di sfuggire al susseguirsi di menzogne sulle quali la società intorno a lui vive e di cui si nutre (ciò che egli stesso definisce “colpa”), cerca di portare se stesso in una dimensione comunicativa con gli altri basata sulla reale convivenza. Al contrario, gli eventi portano il protagonista a un’analisi di quella società che pur continuando nella sua evoluzione, resta sempre uguale: una “palude definitiva” appunto. Nel tentativo di sfuggire a una apatìa sociale conclamata, il protagonista/autore si rifugia nell’unico posto che sente come luogo veramente sicuro per se stesso: la propria casa, il proprio io. In questo luogo di rifugio, nonché faro dal quale poter affrontare e portare avanti le proprie riflessioni, l’autore si accorge che l’unico fedele compagno di sventura che ancora non lo ha abbandonato, pur mantenendo un rapporto distaccato, è il cavallo. Questo è un cavallo assai particolare, che non rappresenta un vero e proprio animale, bensì un mezzo che oggi è entrato nella vita di tutti: l’automobile. In effetti, l’animale/veicolo rappresenta il mezzo (non si può dire se pubblico o privato, ma poco importa) con il quale sfugge alla società disfattista; ma rappresenta anche il mezzo che lo accompagnerà nell’ultimo suo viaggio (il carro funebre) verso l’inferno dell’apatìa completa (il cimitero; luogo assai tormentato come si può leggere dalla descrizione che ne fa l’autore), luogo in cui spera di trovare il cavaliere (Dio; un suo simile nel romanzo, probabilmente per sensibilità d’animo) che lo possa aiutare a combattere la solitudine imperante di questa società. In conclusione, vi è solo da rimarcare il fatto che sia Manganelli, sia Morselli, sono due autori che hanno lasciato in eredità due testi sui quali una più ampia riflessione in tali termini è ben auspicabile. Questo è opportuno anche per il fatto che entrambi gli autori, obliati nelle loro esistenze solitarie, hanno scelto il suicidio come estremo atto di sfuggita e liberazione interiore. A tal proposito, vi è solo da aggiungere che l’assunto “l’uomo è un animale sociale”, che appare all’inizio di ogni manuale di diritto, fa sorridere per l’estrema superficialità che denota nei confronti della realtà quotidiana attuale. Insomma: oggi, forse l’uomo è solidale, ma

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sicuramente non è sociale perché manca di comunicatività interpersonale non basata su scambi relazionali fittizi. Poniamo ora, come dato di fatto, che il testo possa essere la voce della nostra anima: non ci stupirà il fatto che si riesca a comprendere Autori anche se questi scrivono testi fortemente soggettivi e/o poetici. Ecco allora sorgere un problema. Essendo in realtà il testo la rappresentazione della voce della nostra anima, non si ha traduzione quando si comprende il testo anziché quando si trascrivono equivalenze di senso? In effetti, colui che traduce è colui che comprende l’intimo significato dei testi, quindi si dovrebbe parlare di traduzione quando vi è comprensione e non quando si propongono equivalenze di senso in una seconda lingua. Come spiega Gusty Herrigel ne Lo zen e l’arte di disporre i fiori, le parole altro non sono che dei piccoli punti di riferimento che ci aiutano a rimanere sulla retta via verso il significato. Perciò, ecco spiegato il motivo per il quale, ad esempio, un poeta – e solo un poeta – può tradurre le poesie. Tenendo quindi presente la caratteristica più importante del testo, e cioè i simboli, possiamo allora concordare – almeno in parte – con ciò che Walter Benjamin scrisse a proposito del traduttore nei suoi scritti filosofici. Nel saggio Il compito del traduttore, Walter Benjamin pone l’accento su un fatto di per sé intrinseco del lavoro del traduttore. Egli, infatti, afferma che il mero trascrivere equivalenze di senso non è il vero tradurre, quindi che la traducibilità di un testo non risiede nel fatto che esso contenga un significato che possa essere riferito in un’altra lingua attraverso la trasposizione delle parole che lo indicano nel testo; perciò, in realtà, la traduzione è una forma. Secondo Benjamin, quindi, la traduzione è una forma; una forma che, come l’Autore stesso riferisce, non risiede nell’espressione scritta in cui si è rielaborata una equivalenza di senso, bensì la traduzione ha di per se stessa un senso e un valore più aulici. In effetti, in questo saggio si viene a mettere in primo piano il fatto che le migliori traduzioni siano quelle che nella forma espressiva sono distanti dall’originale, in modo tale da riprodurre il significato implicito del messaggio di partenza nello stesso modo in cui esso viene espresso nell’originale. In tal modo, come riferisce lo stesso Benjamin, il traduttore glorifica e rispetta il testo originale. Perché il traduttore per rendere giusta gloria all’originale deve staccarsi dall’originale stesso? Per il semplice motivo che il significato che viene tradotto, e quindi la traduzione medesima, sono un’espressione dell’io; e per questo motivo, sono una forma in cui l’io supremo – quello più spirituale (l’anima?) – viene a manifestarsi. Perché l’Autore è fervidamente convinto di ciò che afferma? La risposta non è semplice da comprendere senza l’aiuto di un esempio: la torre di Babele. Come tutti sanno, non si sa dove la torre di Babele finisca poiché la cima della torre stessa, sempre che ce ne sia una, si perde tra le alte nubi del cielo: questo è un segno che lascia presagire qualcosa di infinito. Proviamo ora a immaginare l’interno di questa torre: rotonda con una fessura in cima, che naturalmente non si può riconoscere, la quale lascia entrare un raggio luminoso – che può rappresentare perfettamente sia la luce della Conoscenza, sia Dio medesimo. A questo punto, immaginiamo l’interno della torre diviso da una serie di raggi che

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delimitano le lingue, le culture che esse esprimono e le religioni. Ora possiamo ben notare come all’esterno della torre tutte queste entità siano delimitate fortemente dalle mura interne (i raggi): possiamo anche notare, invece, che questa netta distinzione tende a sparire più ci si avvicini al centro, e quindi al raggio di luce. Perciò: il testo originale e le equivalenze di senso nelle altre lingue, le scorgiamo all’esterno della torre (naturalmente su piani differenti), mentre il significato che l’ha generato sta nel mezzo (la luce). In conclusione, il fulcro della torre è il significato che in sé non ha motivo di essere spiegato, perché la propria ragion d’essere risiede nell’essenza della vita, e che non necessita di un codice linguistico in cui essere spiegato poiché la vita non abbisogna di una lingua per spiegarsi; bensì, necessita che il proprio manifestarsi sia vissuto. A questo punto, abbiamo un nuovo processo di desublimazione che porta all’espressione scritta in una lingua differente da ciò che definiamo scritto originale (ma in entrambi i casi i codici si esprimono solo ed esclusivamente attraverso i simboli poetici). L’ultima domanda che bisogna ora porsi è: il nuovo testo è possibile che sia completamente libero da qualsivoglia restrizione posta dall’originale? Naturalmente, questo non è possibile per una semplice ragione: il significato non necessita di una lingua bensì d’essere vissuto, ma sono sempre le parole a inviarci sulla via del significato. Ecco perché le equivalenze di senso sono necessarie per lasciare, anche, il significato – che ormai sarebbe più giusto definire essenza – implicito, poiché spetta all’anima di ciascuno di noi tradurre. Quindi, i severi canoni restrittivi della lingua chiudono alla ragione, cioè alla codifica e decodifica, l’esplicitarsi dell’essenza, e permettono alla traduzione di essere un processo insieme aulico e alto pur sempre esplicitato attraverso le forme ammalianti della “langue” o della “parole”. Dunque, una vera traduzione è quella poetica poiché utilizza la “langue” che è sì un codice, ma è quello poetico, mentre la “parole” indica il significato nascosto, ma presente attraverso le parole, che sono l’essenza della poesia – e quindi dell’individuo in quanto tale. Ma c’è altro: dobbiamo notare che c’è un fatto molto importante che mette in discussione la traduzione. Essendo il testo che noi chiamiamo traduzione, un testo che rappresenta l’incontro di due poetiche che dànno vita a una poetica a sé stante, in realtà il processo che noi definiamo come tale è, invece, la comprensione del testo; e quindi, è la trasposizione in una cultura diversa da quella del poeta tradotto che, nella torre di Babele di cui sopra, altro non è che il manifestarsi della “Illuminazione” della nostra anima attraverso un processo di sublimazione e desublimazione culturale e spirituale perenne. Dobbiamo ora prendere in considerazione, come ultima cosa riguardante questo saggio, la visione utopistica legata alla figura dell’anfora. Questa, secondo Benjamin, rappresenta la Verità assoluta che ancora è negata all’uomo; questo fatto, l’autore tedesco, lo spiega attraverso la suddivisione dell’anfora in cocci combacianti. Tali cocci altro non sono che le lingue presenti sul pianeta – e il loro convergere in un unico punto porta alla comprensione della Verità. Ma come ho già esposto precedentemente, questa è una visione meramente utopistica; poiché per completare l’anfora, e quindi per giungere alla Verità assoluta e suprema, non solo le lingue dei testi poetici e delle loro traduzioni devono convergere assieme in un unico fulcro: oltre alle lingue, anche le filosofie, le religioni e ogni altra cosa dell’Universo deve

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congiungersi in un unico punto. L’anfora, quindi, sarà completa quando materialismo e spiritualismo saranno fusi unitamente nell’unico fulcro possibile: la Verità. Naturalmente, affinché ciò avvenga, l’uomo dovrebbe conoscere perfettamente tutte le lingue, tutte le culture, tutte le religioni e tutte le filosofie: cioè, l’uomo si dovrebbe trasformare in una divinità in terra. Impossibile. Ecco perché, questa visione dell’anfora è utopistica. Infatti, anche l’uomo più progressista rimarrà sempre un conservatore (in questo contesto) rispetto alla Verità assoluta e suprema. Prima di tutto, perché l’uomo è tradizionalista, molto legato alle proprie radici; poi, egli non necessita della Verità. All’uomo serve soltanto un perché qualsiasi – a ciascuno la sua verità, o come scriveva Pirandello: Così è (se vi pare!). In più, dobbiamo ricordarci che la vita non abbisogna di nessun tipo di codice linguistico ma di essere vissuta, perché è solo attraverso l’esperienza diretta dei fatti e del pensiero che il Senso ha ragion d’essere. Ponendo sotto una nuova luce il saggio di Benjamin, possiamo quindi, ad esempio, constatare che il vecchio adagio “bisogna essere poeti per tradurre poesia”, acquista un valore reale. Questo valore, però, non è dato dal fatto che il poeta può tradurre qualsivoglia poesia di qualsivoglia poeta straniero, poiché questo equivarrebbe ad affermare che il poeta è una divinità in terra, una persona sovrannaturale che riesce a comprendere tutto e tutti. Se tale teoria fosse esatta, allora avremmo decretato la morte della poesia – e di noi stessi come genere umano perché possessori delle conoscenze complete per poter dare un senso definitivo e unico dell’esistenza. In effetti, un poeta riesce a tradurre meglio le opere di un altro poeta solo se il primo riesce a essere in sintonia con il pensiero del secondo. Ecco, allora, Mounin venirci incontro e affermare che “una compiuta traduzione poetica diviene possibile quando il poeta traduttore viene incontro al poeta tradotto per analogia di temperamento, di indole e di concezione del mondo”1. Perciò, un poeta traduttore riesce in questo modo a evolversi, poiché va ad approfondire la propria visione delle cose e di se stesso non contrastando la propria poetica, bensì amalgamandola con quelle parti di approfondimento, nuove, introdotte dall’altro poeta – quello tradotto. Questo, se vogliamo, può apparire come un circolo vizioso poiché un terzo poeta straniero potrà tradurre il secondo, il quale, nel frattanto, avrà non solo acquisito nuove conoscenze, ma le avrà anche in parte sviluppate. Tutta questa saggezza interiore, pertanto, andrà ad ampliare le conoscenze dell’ultimo arrivato. In questo modo, noi oggi vediamo e affermiamo che la Cultura universale è in continuo mutamento; e grazie anche alle nuove tecnologie sempre più veloci che permettono una evoluzione più ampia, profonda e rapida, impensabile anche solo a inizio o comunque nella prima metà del secolo scorso. Riflettendo attentamente sulla traduzione, ci si deve porre l’obiettivo di comprendere cosa sia. Ebbene, oggi ci si potrebbe ritrovare a sostenere che in realtà non esiste la traduzione – e ne spiego subito il motivo. Sappiamo bene che la poetica di un Autore tradotto va a fondersi con la poetica di un Autore traduttore, dando così vita alla poetica della traduzione del testo nella lingua d’arrivo. Ora, il

1 Mounin (1965), 159.

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problema che ci si presenta è il seguente. Sapendo che la concezione del divenire umano si basa sulla molteplicità interiore, siamo pertanto spinti a presupporre un pellegrinaggio, sempre interiore, verso quella unità suprema che è l’anima. Sapendo poi che il testo è la voce trascritta dell’anima, bisogna chiedersi se allora esiste veramente la “traduzione”. Perché chiederselo? Perché il ragionamento verte su quel principio, il quale pone l’accento sul fatto che una poetica va a integrare, nel bene o nel male, in positivo o in negativo, la poetica di chi studia e traduce. Ma se la poetica dell’Autore tradotto si fonde con la poetica dell’Autore traduttore, in realtà, non si avrà più una poetica di un testo tradotto; bensì, si avrà una terza poetica, più approfondita, di un testo non più tradotto, ma riscritto – anzi: scritto. Senza un Autore definito, ma riconducibile a quel lume che ispira ogni anima. Tale ragionamento, quindi, porta solo a un logico punto di arrivo: la “traduzione” non esiste. Per tale motivo, è impossibile che questa possa essere circoscritta in una forma definita e definitiva. Perciò, ciò viene erroneamente definito col termine di traduzione quando in realtà risulta essere poetica. E questo è palesemente assurdo. In conclusione, non si può fare altro che concordare con quanto afferma Gusty Herrigel in Lo

zen e l’arte di disporre i fiori:

Le parole non sono altro che punti di riferimento per orientarsi verso il significato più profondo. È detto: “Chi parla non sa, chi sa non parla”.2

Guarda caso, anche Leopardi scriveva: “Occorre essere poeti soprattutto per tradurre non traducendo.”3 I punti di riferimento sono, allora, le “paroles” saussuriane che contraddistinguono il testo dalle “langues”, ovvero dai codici. Scrisse Hermann Hesse: “La saggezza non è comunicabile. La saggezza che un dotto tenta di comunicare ad altri, ha sempre un suono di pazzia.”4 Credo opportuno concludere questa parte di excursus teorico con una riflessione sulle parole scritte dal premio Nobel per la Letteratura nel 1946. Infatti, sino a questo momento, si è affermato che se rapportiamo il pensiero di Benjamin non più al traduttore generico, bensì all’Autore traduttore, abbiamo notato come il valore intrinseco del testo sia divenuto l’elemento base per l’avvio alla trasposizione del significato in un’altra lingua. Ancora una volta – come sosterrebbe Mounin – chi trionfa è l’artista, cioè colui che si prodiga per una traduzione del testo fedele al significato e non alla mera letteralità. Infatti, in una società come quella odierna, il poeta porta l’attenzione, là dove vi sia, sul significato delle opere – e quindi sulla saggezza che l’autore pone in primo piano. Naturalmente, come ci ricorda Hesse, l’artista ha un’arma che utilizza ogni volta che compone versi: non a caso, egli scrive attraverso una complessa simbologia che gli permette di mascherare la saggezza. Quindi, il poeta comunica il proprio sapere senza comunicarlo palesemente: esso è il testo nascosto, o meglio il significato della poesia (un significato che grazie al suo significante, i versi, va a collocarsi in un dialogo d’apprendimento che l’artista

2 Herrigel (1991), 109. 3 Leopardi (1991), 17. 4 Hesse (1973), 26.

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ha portato e porterà avanti per tutta la vita: sia nei confronti degli altri, sia nei confronti di se stesso). Ecco, perciò, che per quanto riguarda qualsivoglia testo, il vero tradurre risiede nella comprensione extralinguistica dell’opera stessa. E grazie alle tecnologie di comunicazione sempre più avanzate, sempre più veloci, ecco che si può parlare solo di Cultura, unica a tutto il mondo e a tutti. Questo, perché la globalizzazione della Cultura universale è giunta molto prima di ogni altro tipo di globalizzazione. Che il valore extralinguistico del testo sia ben più importante da riproporre nel testo in lingua d’arrivo è dato anche, e soprattutto, dal fatto che l’Autore del testo si esprime all’interno di una Cultura data; pertanto, qualsivoglia suo testo veicolerà tratti caratteristici della sua Cultura e del momento in cui Egli scrive e tali peculiarità, non a caso, sono le espressioni figurate. Le espressioni figurate sono quelle parti interne alle frasi che arrecano sempre qualche difficoltà al traduttore. Come riporta il professor Georges Misri dell’Università di Aleppo in Siria in un rimando a Marianne Lederer, questo accade perché tali espressioni sono “delle espressioni intermedie tra ‘langue’ e ‘parole’; esse sono per metà ‘langue’ poiché il loro significato non diviene ma è predeterminato; e per metà sono ‘parole’ poiché enunciano un’idea e non un’ipotesi di significato”.5 Come tradurle? Misri indica la via migliore da seguire, basandosi sugli effetti che tali espressioni figurate provocano sul traduttore quando sono espresse in lingua di partenza. A questo punto, secondo Misri, il traduttore è in grado di poter riconoscere gli elementi che fanno parte di ciò che definisce le “componenti comunicative”, e gli elementi che fanno parte del “bagaglio comunicativo”. Quest’ultimo fa parte delle “componenti comunicative” di cui sopra, inoltre rappresenta tutto ciò che – giudicato traduzionalmente pertinente – deve riapparire nella formulazione dell’espressione in lingua d’arrivo. Giunti a tale conclusione, ci resta da spiegare e da capire quali sono gli elementi obbligatori facenti parte del “bagaglio comunicativo”. Secondo lo studio del professor Misri, questi elementi obbligatori sono quattro: l’elemento informativo; l’elemento gerarchico; l’elemento collocativo; l’elemento di conformità. È evidente che qualsiasi tipo di enunciato ha in sé contenuto una “informazione”, indipendentemente dal fatto che sia questo un’espressione figurata oppure altro. Per quanto riguarda lo studio che si sta portando avanti, l’elemento informativo è quella parafrasi dell’enunciato che ci permetterà di giungere poi a una traduzione. Tale elemento, però, non deve essere confuso con il significato probabile dell’enunciato figurato: il primo è il risultato della parafrasi dell’espressione nel discorso; il secondo può essere considerato come la parafrasi della stessa espressione, ma in lingua. Questi possono anche essere identici in alcuni casi, ma non sempre tale regola – se così può essere definita – è rispettata. E questo è l’elemento informativo. Per quanto riguarda l’elemento gerarchico, tutti quanti sappiamo che il significato di un enunciato può essere riportato nel discorso attraverso più registri linguistici. Ebbene, gli elementi dell’enunciato che ci permettono di identificare il registro linguistico (standard,

5 Misri (1986), 64.

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famigliare, volgare, popolare, letterario, ecc.), sono quelli che ci permettono di identificare e collocare il discorso nella scala gerarchica degli stessi registri linguistici. Quando si traduce un’espressione figurata è sempre meglio utilizzare un altro enunciato di eguale significato in lingua d’arrivo. Questo dà vita all’elemento collocativo, poiché le parole di un’espressione figurata di tale tipo compaiono sempre collocati nelle stesse posizioni. Quindi, le parti interne di tali enunciati hanno una collocazione ben precisa, impossibile da cambiare. Per quanto riguarda l’elemento di conformità, tale elemento è importante poiché serve per poter riconoscere la correttezza di un enunciato figurato nella lingua d’arrivo. Esso, infatti, permette al traduttore di comprendere e di elaborare l’espressione in lingua d’arrivo secondo i canoni linguistici di conformità, cioè di poter correttamente rielaborare in un’altra lingua l’espressione figurata in esame. In conclusione, però, dobbiamo anche ricordarci di alcune componenti facoltative, che comunque interessano da vicino la traduzione di queste espressioni figurate. Questi sono gli elementi formali, come, ad esempio, la fonetica – tutto ciò che è legato alla forma -, quindi il susseguirsi di suoni simili all’interno dell’enunciato (questo è assai importante per quanto riguarda la restituzione di allitterazioni e di onomatopee nelle traduzioni di poesia); gli elementi narrativi o poetici tipici e unici, in qualche modo, dei singoli testi da tradurre; e, infine, gli elementi socio-culturali, cioè tutti quegli elementi che fanno parte della cultura e della società nei quali è immersa la vita dell’Autore, nonché la vita del suo traduttore. Una volta che avremo tenuto nella dovuta considerazione questi elementi, allora – e solo allora – saremo in grado di tradurre le espressioni figurate con il minor margine d’errore. In un certo senso, tutto il lavoro di traduzione si fonda, come abbiamo visto, anche sulla capacità del traduttore medesimo di mediare tra due Culture distinte, la prima dell’Autore che viene tradotto; mentre, la seconda, è quella del traduttore stesso. Pertanto, mediare un messaggio da una lingua di partenza in una lingua d’arrivo è sintomo dell’attenzione che una qualsivoglia Cultura pone nei confronti di un’altra in modo tale da aprirsi a un confronto diretto con gli altri, al di fuori di se stessa per non ritrovarsi a implodere su se stessa. Ma per poter accedere ai testi nella loro interezza è necessario per un qualsiasi traduttore compiere uno sforzo per comprendere il significato del testo e il suo senso. Infatti, sino a questo momento, sono state esposte tutte delle serie di concetti dando, però, quasi per scontato, il carattere fondamentale per la comprensione di un qualsivoglia testo: il significato. In ogni istante, questa parola è tornata a risuonare nelle nostre orecchie senza che alcuno spiegasse cosa fosse in realtà. Ecco giunto il momento di farlo. Tale decisione è data dal fatto che il concetto medesimo di significato è strettamente legato a un valore momentaneo, univoco e universale, e al tempo stesso in perenne mutamento. In effetti, esso è legato ad almeno quattro livelli di struttura testuale (mono, micro, media e macro testualità) che si fondono in un “unicum”, da un lato, col testo scritto e, dall’altro, col messaggio veicolato. La mono testualità è il significato primario, il primo contatto con l’animo dell’Autore. Essa è composta dalla singola parola, dal singolo vocabolo. Il suo compito è quello di ricevere il

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lettore, accompagnarlo nei primi passi durante il suo inoltrarsi nei meandri più profondi del testo. La mono testualità ha l’ingrato compito di accattivarsi o allontanare il lettore, a seconda, naturalmente, dei gusti del ricevente stesso. La micro testualità è rappresentata dall’insieme di ogni vocabolo e quindi si tratta della poesia stessa, la quale unisce le singole mono testualità per dare vita a un significato più ampio e grandioso. Eccoci, allora, attraversare lo specchio superficiale delle mono testualità per raggiungere il primo livello introspettivo: il contatto coi sentimenti. Quando noi riusciamo a comprendere che vi è uno o più sentimenti che attraversano il componimento in esame, ecco allora che ci spingiamo verso la lettura di altri testi dell’Autore in corso di studio. Quando riusciamo a carpire non solo i sentimenti già espressi dall’Autore nello scritto precedente, ma riceviamo il sentore che vi sia anche il suo credo – che viene poi attestato grazie all’appoggio di uno studio minuzioso del primo testo – ecco che allora nasce la media testualità. Cioè, noi non abbiamo più un significato di partenza basato sulla superficie dizionaristica, bensì abbiamo la poetica dell’Autore. Naturalmente, si tratta di una poetica generalizzata, con una visione dell’Autore stesso generalizzata poiché tale poetica è a sua volta di superficie. Quando poi attraverso lo studio di tutti gli scritti dell’Autore, o per lo meno della maggior parte di essi, vedremo che il poeta si divide in tanti “io”, che comunque vengono testimoniati dai vari componimenti/comportamenti poiché fanno tutti capo all’”io supremo”, cioè l’anima, allora saremo dinanzi alla macro testualità. Ecco sorgere allora l’anima in tutta la sua maestosità. Allora, e solo allora, inizieremo a conoscere e impareremo a conoscere. Naturalmente, noi stessi. E questo perché tutti quanti gli individui, nella loro diversità, fanno capo al caposaldo fondamentale della vita e dell’essenza della razza umana: l’essere nulla, ma pur sempre essere. Proviamo a fare un esempio pratico di quanto esposto.

Sono una stella del firmamento che osserva il mondo, disprezza il mondo e si consuma nel proprio ardore.

Sono il mare di notte in tempesta il mare urlante che accumula nuovi peccati e agli antichi rende mercede.

Sono dal vostro mondo esiliato di superbia educato, dalla superbia frodato, sono il re senza corona.

Sono la passione senza parole senza pietra del focolare, senz’arma nella guerra, è la mia stessa forza che mi ammala.

(Hermann Hesse, Sono una stella, 1899)6

6 Hesse (1992), 11.

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Voglio portare un esempio pratico per dimostrare, e meglio spiegare, i quattro livelli strutturali del significato. Per farlo, ho scelto questa poesia di Hesse – anche perché è quella che più si presta a una comprensione definitiva. Prendiamo in considerazione la mono testualità del verso III “si consuma”. Questa è anche la parola chiave di tutta la poesia, è il fulcro stesso che permette alle altre parole di ruotare attorno al proprio senso primario, ampliandolo e aggravandolo. Quindi, vediamo il primo significato che abbiamo incontrato: “si consuma” indica un qualcosa che va scemando, scomparendo pian piano il tempo trascorre, un qualcosa che sta svanendo. Questo svanire, è rapportato nella micro testualità dallo scomparire lento e continuo, inesorabile, rappresentato dalla “stella del firmamento”. Tale secondo significato, altro non è che la rappresentazione della condizione umana; esso porta a confrontare l’esperienza vitale di una stella con l’esperienza vitale di un essere umano. Sono una stella è un componimento che rileva anche un primo abbozzo a una poetica filosofico spirituale. Ma per accorgerci meglio di tale fatto, dobbiamo attendere prima il Der

Steppenwolf (Il lupoo della steppa) del 1919 e, quindi, il Siddharta del 1922. Nel primo romanzo, Hesse comincia a esporre una prima prova della pluralità interiore attraverso il teatrino finale. Qui, abbiamo il personaggio principale, Helmut Haller, che viene sottoposto, forse dalla fantasia ispirata dalle droghe, a varie situazioni apparentemente reali. Ed è proprio prima di una di queste situazioni che egli scopre la pluralità dell’”io”: quando si trova dinanzi allo specchio deformante. Nel Siddharta, invece, si parte già da una pluralità interiore dovuta al fatto che il personaggio è indiano credente, quindi è già parte integrante delle proprie credenze vedersi come un insieme di “io” interiori. La novità risiede nel fatto che il protagonista ricerca quell’unità, l’anima, che sta alla base d’ogni esistenza (la media testualità). Tornando ora alla poesia dalla quale è partito il nostro ragionamento, possiamo notare come quella pluralità e quell’”io” supremo siano già presenti. Infatti, se torniamo a guardare il testo, possiamo vedere come Hesse disponga e sentenzi i vari “io” descrivendosi nei modi più svariati. Questo, però, porta a una unità, rappresentata attraverso il titolo Sono una stella che in realtà denota l’anima stessa del poeta. In tal modo, poi, si unisce e va a completare quelle parti dell’anima presenti nei due romanzi, portando così alla macro testualità. Una volta appurato cosa sia il significato, dobbiamo ora chiarire cosa sia il senso. Esso, infatti, viene sempre confuso, e cosa ancora peggiore sostituito, con il significato stesso. Il senso rappresenta l’essenza stessa del genere umano (e non dell’individuo) in quanto rappresenta la Conoscenza. Ricordiamo a tal proposito ciò che spiegammo quando prendemmo in considerazione la Torre di Babele per meglio esporre la teoria d Walter Benjamin. In quell’occasione, venne scritto che la Conoscenza – o Dio stesso, se vogliamo – era rappresentato dal fascio di luce interno alla torre stessa. Il senso è, quindi, l’insieme completo delle filosofie, delle credenze, degli usi, delle consuetudini, dei credo religiosi e non di ciascun Autore – tutte cose che fanno in modo che ci sia sempre uno studio continuo, su noi stessi, attraverso le varie sfaccettature che presenta la nostra vita quotidiana.

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In conclusione, è logico dedurre che il senso è quel passo in più verso l’ultima sublimazione spirituale e filosofica, un processo che pone un’intermediazione tra la singola macro testualità degli autori e l’universalità nella quale si raggruppano. Non a caso, il senso rappresenta ciò che per l’uomo è sconosciuto fino all’ultimo della sua vita – o per lo meno, questo è ciò che ci è dato credere dalle nostre credenze -, cioè la vita di ognuno di noi su questa terra, fatto comune a ogni essere umano vivente e pensante. Perciò, credo che sia utile da oggi in poi non utilizzare più, anche nel linguaggio quotidiano, le parole “significato” e “senso” per determinare un solo concetto, bensì due che in realtà sono completamente diversi. Perché un traduttore deve avere una preparazione così profonda e peculiare? La risposta a tale domanda è denotata nella deontologia stessa del buon traduttore. Infatti, al traduttore è richiesto un grado di preparazione tale da poter affrontare al meglio delle sue possibilità, l’incarico delicato per il quale viene chiamato a operare. In effetti, non è un caso che la deontologia professionale del traduttore sia particolarmente severa: egli ha il dovere della probità, della dignità, del decoro, della lealtà e della correttezza, ma ha persino il dovere della diligenza, dell’indipendenza, della competenza e dell’aggiornamento professionale. Se i primi cinque doveri principali del traduttore dovrebbero essere scontati, è altresì vero che gli ultimi quattro, devono essere particolarmente sottolineati. Diligenza, indipendenza, competenza e aggiornamento professionale permettono al traduttore di essere meglio apprezzato per le sue qualità operative, nonché d’essere sempre aggiornato sui movimenti evoluzionistici delle lingue di sua competenza. Per quanto concerne l’aggiornamento professionale, il traduttore deve porre particolare cura alla propria cultura generale e specialistica, ma deve anche curare la propria preparazione in campo linguistico, sia per le lingue straniere, sia per la propria lingua madre. Non si dà per scontato la preparazione nella propria lingua madre perché, nel caso dell’italiano, si possono ampiamente notare deficienze conoscitive: dall’utilizzo dell’accento grave (è, cioè, caffè) all’uso dell’accento acuto (perché, poiché, affinché), dall’utilizzo dell’apostrofo (si scrive “un po’” e non “un po'”) all’uso della “d” eufonica (che si utilizza esclusivamente per separare suoni vocalici uguali: “ed eventualmente”, ma mai e poi mai “ed oggi” – si tratta di un errore grammaticale gravissimo!). Tutti questi obblighi nascono anche dal fatto che il traduttore potrebbe essere chiamato, o meglio, precettato, dall’autorità giudiziaria per svolgere il ruolo a favore di un indagato o di un imputato straniero. Ciò che i futuri traduttori devono sapere è che il loro ruolo, in tale ambito, è regolamentato dall’articolo 373 del Codice Penale, il quale prevede la condanna alla reclusione da due a sei anni per mancata traduzione. Ma che cos’è la mancata traduzione? Per mancata traduzione si intende qualsiasi errore commesso dal traduttore e che, come conseguenza, comporti una dichiarazione o la stesura di un atto formale che non corrisponde, in tutto o anche solo in parte, alla realtà dei fatti in oggetto. Pertanto, un errore di traduzione comporta uno stravolgimento più o meno grave rispetto al documento in lingua originale, comporta per il traduttore che ha compiuto la mancata traduzione la conseguente condanna; e comporta, inoltre, l’impossibilità per il traduttore medesimo di poter continuare nella professione.

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Ecco perché l’aggiornamento professionale è importantissimo per qualsiasi buon traduttore; ed ecco perché i casi di mancata traduzione, grazie a una rigidissima deontologia, sono casistiche rarissime da riscontrare. Però, tutto questo non deve affatto scoraggiare il futuro traduttore, né per quanto riguarda un possibile incarico presso l’autorità giudiziaria, né per un eventuale cumulo di lavoro d’aggiornamento; bensì, deve viverla come una sfida atta a migliorare, a dare il meglio,… a essere il meglio.

3. Struttura procedurale d’approccio al processo traduttivo

Tra le principali critiche che possono essere mosse alla neonata scienza della mediazione linguistica è la precaria solidità della teoria pratica o meglio della struttura applicativa utile alla nascita di un processo traduttivo efficace. Quando uno studente o un praticante mediatore si avvicina a quest’ambito si ritrova da subito confrontato a una moltitudine di inferenze professionali capaci di demoralizzare e ostacolare il percorso d’apprendimento professionale. In primis, deve focalizzare la sua attenzione sui possibili sbocchi professionali che lo attenderanno al termine della sua preparazione. Già in questa sede si delinea una dicotomia tra la figura del “Mediatore Linguistico” e quella del “Mediatore Culturale”. Comunemente, le due caratterizzazioni vengono accomunate, se non fuse, in un’unica entità. Strutturalmente, però, la figura del traduttore o mediatore linguistico non sarebbe esclusivamente portata a un impegno socio-culturale, potrebbe farlo ma non appare come sbocco primario, lo dimostra anche la presenza di un albo professionale distinto e strutturato. La figura del mediatore culturale7, invece, ha necessità di una base linguistica forte, utile non solo a permettergli di svolgere un operato corretto, ma anche per meglio cogliere le peculiarità

7 A tal proposito, necessita una precisazione la differenza tra i due ambiti paralleli e complementari della mediazione: quello linguistico e quello culturale. In merito a quest’ultimo, val la pena citare la ricerca di Valentina Albertini e Giulia Capitani: “La mediazione linguistico-culturale nasce in Italia verso l’inizio degli anni Novanta, inizialmente come risposta creativa e spesso auto-organizzata alle necessità di presa in carico poste dall’ utenza straniera agli operatori dei servizi pubblici (scolastici, sanitari, sociali) di alcune grandi città del Nord (principalmente Torino e Milano, prime mete dei flussi migratori che hanno interessato il nostro paese). [...] Prima di affrontare il tema delle modalità organizzative dei servizi di mediazione, però, vale la pena cercare di fare il punto rispetto al quadro normativo nell’ambito del quale necessariamente si muovono i mediatori e chiunque si occupi del tema. La prima apparizione del termine ‘mediatore linguistico-culturale’ in un testo normativo risale al 1990: si tratta della circolare del Ministero dell’Istruzione n°205 (26 luglio 1990), ‘Accoglienza ed integrazione scolastica degli alunni stranieri’, che parla dell’impiego di mediatori madrelingua per agevolare la comunicazione nell’ambito scolastico e i rapporti scuola-famiglia. I mediatori non sono ulteriormente descritti, né se ne definiscono ruoli e competenze. Bisogna attendere il 1998, con il DLgs. 286/98 (‘Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero’), per ritrovare in un testo di legge cenni alla figura del mediatore linguistico culturale. Gli art. 36 e 40 citano esplicitamente il ricorso a mediatori culturali, ipotizzando anche la soluzione operativa, che diverrà in effetti quella più frequente, di convenzioni tra gli enti pubblici e associazioni del privato sociale. Quello che preme sottolineare è che per la prima volta si parla di mediatori ‘qualificati’, sottintendendo che a svolgere tale funzione non possono essere volontari improvvisati, ma professionisti titolari di uno specifico percorso formativo; l’ambiguità resta comunque, laddove tra un articolo e l’altro la terminologia spazia da ‘mediatori

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culturali, a cui lui dovrebbe legare il proprio lavorare. In questo caso, le normative sono molto più esili e ancora in fase di crescita. L’idea del processo che subisce un testo che deve esser tradotto può essere esposto in questa schematizzazione molto semplice: Lo spazio d’intersezione presenta l’operato di un Mediatore, là dove esso è in grado di applicare i nove passi necessari per una traduzione efficace. La principale difficoltà che può essere riscontrata nell’eseguire una traduzione linguistica, risiede nell’eterno dilemma relegato all’ambito: “soggettività” – “oggettività”.8 Questa precisazione potrebbe però anche sminuire le capacità interpretative di un mediatore, dato che in esso sono presenti tutte le nozioni e le capacità utili a ottenere un buon risultato.9 La domanda che nasce spontanea è: “qual è l’istanza più importante che un mediatore dovrebbe rispettare affinché il testo tradotto sia fedele all’originale?” Osservando i titoli presenti nei cataloghi specialistici di traduzione si possono annoverare diverse collane capaci di presentare testi proposti come soluzioni alla mancanza di una teoria universale applicativa del concetto traduttivo. Ad esempio, la collana Traduttologia, dell’editore Hoepli10offre una serie di testi mirati a un uso specifico e quindi legati a una serie di glossari linguistici, mentre altri testi tendono a una presentazione generalista dell’arte della traduzione, comunque spesso basata su esperienze personali e professionali. Il problema non trova, quindi, facilmente soluzione se non affrontato attraverso una ramificazione del concetto di mediazione linguistica. Troppo spesso viene definita fondamentale la sola ridistribuzione di senso a partire dalla traduzione dei singoli termini, qualificati’ a ‘mediatori interculturali’ senza che se ne specifichi l’eventuale differenza. La successiva evoluzione della normativa nazionale in materia di immigrazione (legge 189/2002, la cosiddetta ‘Bossi-Fini’) non introduce novità rilevanti sul tema. A livello di normativa nazionale, quindi, la figura del mediatore culturale resta caratterizzata da una forte precarietà e confusione nelle definizioni” Albertini/Capitani (2010), 16-19. 8 Eco (2003). 9 Arduini/Stecconi (2007). 10 Riferimento al portale web http://www.hoepli.it.

Lingua o contesto

d’approdo

Lingua o contesto d’origine

Applicazione metodica dei nove passi di traduzione da parte del mediatore

Linea temporale in cui il testo di partenza viene sottoposto prima a un’analisi del Mediatore, vengono applicate poi le diverse tecniche di traduzione per ottenere in fine un testo identico nella sostanza, ma non nell’aspetto.

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richiedendo quindi un semplice operato “input” – “output” laddove il mediatore debba usare tutto il suo “know-how” per rimanere il più possibile fedele al testo originale. Ma come dimostrano le fallimentari qualità delle decine e decine di siti web operanti in maniera automatica, e offerenti un servizio di traduzione letteraria, si può capire quanto non sia solo un problema di glossari, termini, dizionari o sensi ad articolare il panorama dell’arte della traduzione, bensì una visione poliedrica e composita di un evento linguistico/comunicativo. La volontà è quindi quella di proporre non tanto una teoria sostitutiva di altre, bensì un nuovo approccio metodico, più strutturato, capace di supplire ai buchi nozionistici lasciati da altri manuali. Fondamentalmente, l’integrazione di un pensiero più strutturato, aiuterebbe molto alla gestione di glossari e testi diversi, facendo sì che l’operato dei mediatori possa diventare più regolare e indirizzabile. Quest’ultimo punto non è da trascurare, perché rappresenta una grande parte delle problematiche che si possono riscontrare dopo l’avvenuta presentazione di una traduzione. La classica obiezione: “ma io intendevo, io avrei desiderato più, sarebbe stato meglio fare…” a fronte di una mediazione appena letta, potrebbe essere evitata se prima del lavoro si evidenziassero quali entità meta-linguistiche esaltare. Dare la possibilità di discutere in maniera settoriale delle volontà traduttive di un concetto linguistico, potrebbe aiutare esponenzialmente sia i professionisti traduttori, sia i mandanti dell’operato.

4. Schema di interpretazione e applicazione metodica nel processo di mediazione

Il seguente schema ripropone visualmente i nove procedimenti, non tanto di verifica, ma bensì di creazione del testo tradotto.

Ritmo Cadenza e bioritmica

testuale

Fluidità Ricomposizione

testuale e concordanza

Senso Linguistico Segno e senso ,

dizionario, contenuto

Colore Sensazione

generale testuale

Retorica Strutture

linguistiche elaborate

Senso Comunicativo Rapporti tra Mittente -

Destinatario

Aspetto Lunghezza,

forma, battute

Registro Tono e

accessibilità

Sistema socio-linguistico

Usi, costumi e provenienza

TESTO

TRADUZIONE

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La chiave di lettura di questo schema è da ricondurre a un pensiero di “traduzione a corollario”, cioè ogni procedimento di mediazione linguistica scritta, ogni testo che verrà prodotto non sarà una nuova creazione da attribuirsi al mediatore, ma una traslazione testuale da una lingua/contesto a un altro. Come già affrontato precedentemente, il concetto della sostituzione testuale può essere bypassato ricordando costantemente che ogni “testo” vada trattato nell’intento di ottenere una “traduzione” che possa offrire una scientifica “fedeltà” d’applicazione di tutti i vari “steps” che analizzeremo singolarmente più avanti. Infatti, come se fossero diverse stazioni all’interno di una catena di montaggio, il testo può e deve subire tutta una serie di analisi e riscrizioni tali da permettere la nascita di un testo definitivo uguale nella sostanza, ma non necessariamente nell’aspetto. Lo schema presenta un totale di nove istanze ritenute fondamentali per il conseguimento di un risultato ottimale e soprattutto rispettoso dell’oggetto linguistico in analisi. Il cuore stesso dello schema, rappresentato da una sorta di puntatore, accoglie l’oggetto da tradurre e al tempo stesso ne richiede un approccio fedele, perché solo così si rispetterebbe l’oggetto linguistico. Il rispettare, il comprendere11, l’analizzare sono azioni chiave per avere la giusta prospettiva analitica nei confronti di un testo, uno “speech” o una emissione vocale che una volta prodotta rappresenta una struttura viva12, contingente e bisognosa di comprensione. 11 Derrida (1987). 12 Citando un passaggio di Carmine di Martino in Il problema della traduzione, a partire da Jaques Derrida: “La traduzione, per Derrida, non è mai stata un problema fra gli altri. Essa è un altro nome della decostruzione, ovvero dell’esperienza: l’esperienza è traduzione. Tradurre o decostruire è aprirsi all’altro, lasciarlo venire, esporsi alla sua venuta, si tratti di un testo o di un arrivante. La traduzione - come la decostruzione -, prima di essere una operazione o una pratica determinata, specifica, identificabile, è ciò che avviene, lo si sappia o no, giacché ciò che avviene è sempre attraversato, de-istituito (cioè istituito e a un tempo destituito nella sua presunta autonomia) da un movimento di differenza, di scambio, di sostituzione, di trasferimento, che non può essere arrestato in nessun punto (è quello che Derrida ha cercato di mostrare in tutta la sua opera). La differenza, il transfert, il passaggio, la traduzione (da un testo all’altro, da una parola all’altra, da un gesto all’altro) non è preceduta dalla presenza a sé di qualcosa (un testo, una lingua, un mimica) che sarebbe già se stesso fuori di essa. La traduzione non si annuncia cioè come una operazione seconda, che si aggiunge eventualmente, accidentalmente, alla storia di una lingua, di un testo, poiché ogni lingua e ogni testo non sono caduti dal cielo già fatti, sono essi stessi in posizione di traduzione e di risposta, vale a dire originariamente indebitati e anticipati da altro (timido accenno a una possibile genealogia del linguaggio che interpreti il passaggio dal pre-linguistico al linguistico come traduzione). Già all’interno di ogni lingua e di ogni testo la traduzione, il trasferimento, lo scambio sono necessariamente all’opera: come farebbero altrimenti una lingua, un testo a significare? Non vi è insomma che transfert, traduzione, metaforizzazione, contaminazione, debito e rapporto all’altro: il rapporto all’altro è all’origine. Ma è meglio non abusare delle parole e procedere, per quanto possibile, in maniera argomentativa. Se l’esperienza è traduzione, nei termini accennati, che cosa significa tradurre, nel senso di quella pratica determinata che tradizionalmente chiamiamo traduzione? […] Quelli che chiamiamo i testi di Derrida intendono dunque rimarcare, in tutti i modi, che il compito del traduttore è impossibile. Ciò, ed è questo che si tratterà di comprendere, non per inibire la traduzione, ma, al contrario, per affermarne la improrogabile, insanabile, necessità: la traduzione è necessaria proprio in quanto è impossibile. Non si tratta di una provocazione (o forse sì, è anche una provocazione). Possiamo dire così, in maniera forse più urbana: la traduzione è possibile, anzi necessaria, proprio perché la traduzione assoluta è impossibile. Questa impossibilità è allora una chance, non una condanna, una semplice negazione. Essa è la condizione di possibilità stessa della traduzione, ciò che mantiene aperto il desiderio, la domanda, l’urgenza, la necessità, la possibilità della traduzione. L’impossibilità della traduzione (vera, propria, definitiva, universale) è la possibilità della

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Aldilà delle singole peculiarità linguistiche sulle quali spesso ci si concentra, le diverse entità formanti la struttura cellulare di un testo necessitano di esser studiate come analogamente farebbe un meccanico nel riparare un motore utilizzando come unico strumento uno schema dei vari impianti. Ogni mediatore dovrebbe sempre vedere chiaramente le diverse potenzialità e difficoltà che ogni entità testuale offre ai suoi occhi, capendo per tempo su quali dover prestare più attenzione ed eventualmente a quali dedicare maggior peso. Lo schema proposto vuole anche visivamente mostrare quali siano le entità più rilevanti e quelle che hanno più corpo nel processo traduttivo. In verde vengono evidenziati i tasselli fondamentali per poter affermare di essere intenti nella produzione di un testo tradotto: il senso linguistico, il senso comunicativo e il senso socio-linguistico. Queste tre realtà sono cardine nel processo di comprensione di un oggetto e nella ridistribuzione dei valori in esso celati. Non prestare attenzione alle volontà di uno scrittore, alle peculiarità del suo scritto e al contesto socio-geografico di provenienza equivale a un ineluttabile fallimento. Ancora, basti pensare agli orrori proposti dai traduttori automatici on-line, che propongono testi tradotti solo sulla base di concordanze di elementi singoli terminologici. Come verrà esteso nei prossimi capitoli, la complessità del percorso comunicativo, richiede necessariamente una condivisione. Il concetto di “condivisione” potrebbe essere ritenuto chiave per la buona riuscita di un esercizio di mediazione. Lo snobbare un testo, il non leggerlo accuratamente, il non capirlo a fondo, il non ricercare informazioni su di esso, il non interessarsi al suo “background”, alla vita dell’autore, ai destinatari, e a tutta una lunga serie di implicazioni renderebbe il lavoro inefficace. Comunemente, la gran parte dei traduttori provetti rimangono ancorati alla credenza che il senso linguistico sia la struttura regina e che tutte le altre siano di minore importanza, se non nulle. Notoriamente, però, ciò che interessa di più a uno scrittore o a qualsiasi emittente di pensieri e concetti, è legato al senso ed esso rappresenta e racchiude un’intenzione comunicativa. Se ne denota, quindi, che “senso comunicativo” e “linguistico” devono forzatamente procedere a braccetto e non possono essere esclusi dai processi di mediazione. Ovviamente, è possibile tradurre un testo e trasmetterne il senso comunicativo parafrasandolo con termini lontani da quelli ricercati dall’autore, ma si presuppone che

traduzione, della esperienza del traduttore. Questa im-possibilità non è quindi il semplice contrario del possibile. Essa si oppone, ma altrettanto si consacra alla possibilità. Ammettendo che ciò sia sufficiente a richiamare la strana logica che lega il possibile all’impossibile (che Derrida formalizza e mette alla prova a tutti i livelli dell’esperienza), se ne può evincere il diverso e più profondo rapporto che occorre riconoscere fra traducibilità e intraducibilità. Rifiutandosi a quella semplificazione che vorrebbe suggerire al riguardo la scelta, l’esclusione, l’aut-aut, bisogna dire, nella prospettiva appena delineata, che vi è traduzione solo là dove e finché vi è intraducibilità. Traducibilità e intraducibilità non sono dunque semplicemente opposte, non si lasciano neutralizzare nello schema di una pura esteriorità. Contrariamente a quanto si sarebbe tentati di affermare, bisogna dire che si può (si deve, è necessario) tradurre, vi è da-tradurre, soltanto perché vi è intraducibilità. Questa non è allora ciò che vieta la traduzione, bensì ciò che la comanda, la esige, vale a dire ciò che richiede la traduzione stessa che interdice, che ad un tempo la prescrive e la limita, impedendone la consumazione totale, totalizzante, mantenendola quindi aperta al suo a-venire: non si può smettere di tradurre. Se vi è (ancora) da tradurre, dunque, è perché la traduzione è impossibile. Poiché la traduzione non può darsi una volta per sempre e una volta per tutte, necessita di essere praticata senza sosta: l’intraducibile è l’avvenire e la risorsa di ogni traduzione” Di Martino (2007), 67-81.

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quest’operato non sia una mediazione ma una trascrizione, un mutamento non consono per essere preso a esempio. Delle altre sei istanze presenti, quattro sono legate al contesto linguistico classico, richiedendo attenzione quindi alle forme di registro, ritmo e aspetto. Basti per un attimo pensare a scritti poetici magnifici per la loro ritmica musicale, od opere più complesse come sonetti. Se una traduzione fosse richiesta, dovrebbe assolutamente rispettare tali strutture a meno che il mandante stesso non richieda il contrario. Di esse si parlerà ampiamente nella seconda parte del manuale, mentre la quarta rappresenta il grande mondo della retorica e delle possibili sfaccettature che essa implica contestualmente a ogni lingua presa in esame. Fortemente studiata, viene spesso proposta in bigini e sunti linguistici per evitare ai malcapitati mediatori fragorosi “misunderstanding” o reali perdite di senso. Il nostro intento è quello di proporne uno studio leggermente più metodico del normale, cercando di mostrare le logiche che guidano il mondo della retorica, in particolare della regina delle figure, ovvero la “metafora”. Le ultime due entità dànno un respiro più ampio, osservando gli oggetti in analisi da un’angolatura più totalitaria. La fluidità ne vuole controllare il risultato finale, come un “quality manager” controlla che la filiale produttiva abbia prodotto un risultato coerente e soddisfacente, capace di riproporre nella sua interezza lo stesso “concept” dell’originale. Mentre il colore ne caratterizza l’anima, quasi a voler disegnare un’emotività voluta dall’autore, che debba esser riscritta dal mediatore. Spesso capita di leggere un libro e vedersi catapultati in un mondo lontano, segnato da colori, suoni, emozioni, reazioni che lasciano dentro al lettore strascichi profondi, gusti che vengono connotati con energie cromatiche. Lo schema vuole in definitiva ridisegnare il corollario di tutte le strutture da affrontare nel processo di traduzione e nel corso delle pagine dell’intero Manuale, i diversi esempi e le teorie proposte servono proprio ad aumentare la consapevolezza e la conoscenza di tutte queste entità.

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Bibliografia

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Irene Colacurto-Straßer e Luisella Magnani

UMANESIMO E TESTO

I. L’Umanesimo-del-Testo

La filologia è l’arte che insegna a leggere bene, a leggere in profondità, guardandosi avanti e indietro, lasciando porte aperte, con mani e con occhi delicati. Così Friedrich Nietzsche definiva la filologia. L’esercizio critico rivolto al Testo nella prospettiva filologica contribuisce al formarsi della coscienza storica, che non è mero sguardo volto all’indietro, bensì Consapevolezza del passato, costruttrice di identità e personalità nel presente.

Provenienza quale Presenza

L’esercizio critico rivolto al Testo è in primo luogo uno sguardo critico verso se stessi nella Consapevolezza-e-Responsabilità dell’Agire Umano.

Memoria, quale Identità Gesto, quale Presenza e Opportunità

Confrontarsi con l’Altro significa costruire la propria identità, come sosteneva Machiavelli. Confronto quale incontro di quell’Azione di Edificazione. Essere Amico (philos) della Parola (logos) è rispondere alla omogeneità fra le cose della realtà e la mente umana.

L’Umanità nella Realtà-della-Parola

I Greci ci hanno insegnato che la mente è perfettamente in grado di capire la realtà razionale e in questo modo, come diceva Socrate, di conoscere se stessi. Il patrimonio che ci ha lasciato Roma è il Diritto, il coordinamento dei rapporti d’esperienza tra gli uomini. Il Cristianesimo

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ha posto il problema del prodigarsi a favore del Prossimo, la Caritas, il guadagnarsi la salvezza agendo nel Bene. Ecco che il patrimonio del nostro passato aiuta nella ricerca di Sé e nella Con-Vivenza, agendo bene per sé e per l’Altro. Lo studio umanista degli antichi non era mera erudizione, bensì ricerca della propria identità culturale nella consapevolezza dell’umana condizione. L’Umanesimo attribuiva particolare importanza alla vita attiva, alla socialitas (lo scambio con l’altro nella ricerca del bene comune), alla libertà quale fondamento per il fiorire della civiltà e alla dignità dell’uomo, quale valore alla base di ogni rapporto tra gli uomini e di ogni azione dell’uomo. Attraverso l’Agere et intelligere, l’umanista è artefice del proprio destino. Può elevarsi in quanto essere perfettibile, ponendosi sempre in cammino verso la propria realizzazione. L’elevata misura dell’Educazione dell’uomo si trova nello spazio e nel tempo della dimensione letteraria, poetica, unitamente alla dimensione dell’immaginazione. Con l’umiltà etica della ricezione, l’uomo si mette nelle Vesti dell’autore del Testo letterario, guarda il mondo con gli occhi dello stesso, lo guarda con gli occhi dell’Altro. Il senso di un’opera aiuta a comprendere il senso di sé.

Il Sé, nel Possibile dell’Umana Fatica Il Sé, nell’opportunità dell’Umano Agire

Studiare un testo è Amare un testo. È conoscere il suo Nascere, il suo “Entstehen”, l’inizio del suo Stare. Significa anche comprenderne il Divenire, il suo “Werdegang”, il suo Andare-al-fine-di-Essere, nonché il suo “Erhaben”, il suo andare verso il Sublime, verso l’Eccellenza eccelsa. La storia di un testo è tradizione-e-trasformazione, come sosteneva Spinoza. Comprendere un testo è anche coglierne il Cuore, che non ha età, che si può leggere da più angolature per inoltrarsi nelle sue più remote nature, fondere così gli infiniti orizzonti del suo senso. Comprendere un testo è verderne le Verità, le Virtù, le molteplici possibilità di Bellezza. Il Tralucere uno scritto, tra-lucere, tra-sportare luce, è, innanzi tutto, esserne lettore entusiasta, libero nella fruizione, libero nell’emozione d’animo che spinge all’Azione. Azione quale Produzione-di-Autenticità del testo d’origine nella lingua d’Accoglienza, lingua che sa accogliere l’Umanesimo del produrre il Vero-del-Testo. La lingua dimora nella coscienza del parlante, cresce e muta col mutare della coscienza dello stesso, ed è in continuo Divenire, mossa dal desiderio di armonia dell’uomo e dal suo tendere verso il Bello. Il bisogno innato di comunicare, ma anche la ricerca della Parola-Giusta, della parola chiara, spinge l’uomo al suo Bel-Dire, Dire Bene, Dire nel Vero. La lingua non è la somma di singoli segni, bensì un sistema complesso, un tessuto di segni, strutturato ed organizzato secondo un determinato principio (lat. textum = tessuto, testo). Scoprire questo principio e trovarne la bellezza è possibile. Entrando nella Profondità-del-Testo.

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Immergersi in uno scritto non vuol dire affaticarsi. È, invece, “scendere ripetutamente in mare, scoprendo ogni volta nuove luci e colori”1 La pluralità di segni di una lingua diventa, nell’atto di scrivere, Unità, Disegno. Il tessuto diventa Testo. Nell’atto di tradurre, che è ugualmente movimento, ma in un’altra direzione, il testo si apre in tessuto, mostra la profondità dei propri Possibili-di-senso, è spazio da accedere, Evento-di-Senso. Il linguaggio è diventato messaggio. Il testo tradotto è testo tessuto in rilievo, è rilevanza di senso, Eleganza. È Umana Fatica, è Compiutezza e Compostezza di infinita Apertura.

così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giú dentro e di fòri,

sopra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva.

(Purg. XXX, 28-33)

Nei versi di Dante è la Natura a dare alla parola la giusta postura. La Natura-della-Parola, la cultura della Parola-Futura, senza età, Grandezza nella poesia. La Natura è simbolo di libertà nella creatività, attività infinita di un conoscere che nasce nel quotidiano. Il Vero della Natura è senza tempo. Il reale e il simbolico si incontrano nel Testo: “Tiefsinnige Symbolik”, ovvero Senso del Simbolo nel suo profondo Essere. La spazialità (dentro, in giù, fòri), il movimento (saliva, ricadeva), l’immanenza (mani, cinta d’uliva) e la trascendenza (angeliche, candida) si incontrano nell’Unità del Disegno. L’apparizione, che per sua natura perdura un momento, è diventata immagine compiuta e composta. Quadro senza tempo. L’emozione di un attimo e di un uomo solo è contemplazione senza fine e senza tempo, Bellezza-di-Senso per tutti i Lettori.

So kam in einer dichten Blumenwolke, die aus Engel Händen dort entströmte und niederregnete nach allen Seiten,

im weißen Schleier mit Olivenzweigen dort eine Frau, in einem grünen Mantel und einem Kleide von der Flammen Farbe.2

Nella versione tradotta si nota la responsabilità di una traducibilità quale Abilità, Puntualità umanistica della Verità, nella Verità, grazie alla Verità. Per imparare a tradurre un testo bisogna, innanzi tutto, imparare a Tra-Lucere il testo, a vedere la luce che esso irradia in tutte le pieghe del suo tessuto, nel suo vissuto. Osservare, quasi scrutare, il testo in tutto il suo spazio di lettura, nelle possibilità e probabilità di senso che esso contiene: dall’impatto visivo d’insieme, alle dimensioni di contenuto, di messaggio, fino all’entrare nella singola parola, nella sua grammatica, nel suo significato comune e in 1 Magris/Alessandro Baricco (2008). 2 Schurr-Lorusso (2007), 156.

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quello più nascosto. La prima terzina in lingua tedesca inizia con “So”, una parola che fa riferimento, come il corrispettivo italiano “così”, a qualcosa di precedente. Nella lingua tedesca, però, è anche la precisazione di un punto stabile, un punto fermo di partenza, un Allora-Ecco-Dunque, dal quale parte l’immagine che segue. Con “In einer dichten Blumenwolke” la timidezza della lingua italiana diventa in tedesco certezza di vera pienezza, ove “dicht” è spessore, presenza quasi materiale di qualcosa che in italiano è leggerezza, inconsistenza. La quasi-trasparenza della nuvola di fiori in lingua italiana diventa in tedesco un giocoso senso-nel-controsenso: le nuvole, che per loro natura sono fatte d’acqua, assumono il carattere di spessore, concretezza, impermeabilità. ”Engel Hände” sono mani angeliche, dove l’Angelo è presenza, in quanto Sostantivo che ha sostituito l’aggettivo italiano. “Engel Hände”, pronunciato a voce alta, sembra volerci ricordare un passato di Grandezza filosofica-e-musicale in Germania. ”Dort” è punto fermo, precisazione di una posizione, è un “lì” che in italiano non compare. Verrà ripetuto ancora nel sottolineare l’urgenza tedesca di voler precisare un indove, un ove, un dove, un luogo tanto definito da essere quasi riempito di mistero. Il non-esserci, nell’esserci. “Dort” viene ripetuto con un ritmo di eleganza. Due bottoncini sul tessuto di testo poetico. Spazi in uno Spazio. Spazio di Spazi. In questo tessuto di poesia, entro le fibre di questo tessuto di poesia, si confeziona in lingua tedesca la bellezza d’Abito. Se in italiano si legge sotto verde manto, in lingua tedesca la preposizione sotto si è aperta all’abbraccio del tessuto di color del verde che custodisce il corpo della donna. Ne è la custodia e il custode. Non è solo punto di spazio, la preposizione sotto, bensì è un entro lo spazio, è lo spazio stesso. Il telaio della scrittura in lingua tedesca tesse l’immagine dell’Abito entro le pareti del manto. L’Abito è posto in rilievo, viene mostrato nel tessuto Tedesco in “einem Kleide von der Flammen Farbe”. L’abito color della luce della fiamma è custodito dal manto, ed insieme custodiscono il corpo di donna. Il “dort” illumina questo tessuto di testo; lo illumina in così elevata misura, che il Lettor Sensibile in questo ritratto di donna, dai toni caldi e preziosi come smeraldi, vede nel “dort”, spazio di luce, gli stessi occhi della donna ritratta.

Ritratto di Grātia.

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“Niederregnen”, il piovere della nuvola di fiori riempie in tedesco il testo di intensità, di rilevanza tangibile. L’immagine sfumata della lingua italiana diventa in tedesco presenza concreta, esistente. “In giù dentro e di fòri” è tradotto con “nach allen Seiten”, meno preciso dell’italiano, ma nella sua vaghezza ugualmente espressione di totalità spaziale, di riempimento dello spazio circostante in tutti i suoi angoli. Il non-preciso, il non-dire che è Completezza, Compostezza, Compiutezza. “Kleide” traduce l’aggettivo-participio “vestita”. È l’Abito, la presenza, la centralità dell’immagine. L’Abito che il corpo abita. L’uso di preposizioni ed avverbi in lingua italiana rendono il testo fluente e melodico. La lingua tedesca, sintetica nel suo uso di sostantivi e nomi composti, offre immagini più complesse nelle loro dolcezze. La loro “Wohllaut” è armonia. I nomi composti nella lingua

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tedesca sono fiori-di-pensieri che fioriscono nel loro senso, nel loro consenso, nel loro senso più pieno.

Pienezza-di-scrittura.

Una sola parola tedesca porta in sé rilevanza, eleganza, padronanza di sé, perché c’è in essere la certezza di essere portatrice di un senso di rilievo. Rilevanza-di-Senso. Il colore di fiamma viva si arricchisce ancor più d’intensità nella traduzione tedesca. Nell’assonanza “Flammen Farbe” le due F maiuscole convertono il colore in Presenza, Vicinanza, Contorno geometrico e Suono. La “non presenza” della dimensione di poesia in lingua italiana, l’assenza di parola, diventa presenza-assoluta-della-stessa in lingua tedesca.

II. L’UMANESIMO-DELLA-TRADUZIONE

Un buon traduttore è una persona che non ha mai fatto abbastanza esprerienza per svolgere bene il proprio lavoro; un’altra lingua, un’altra laurea, un altro anno all’estero, altri cinquanta o sessanta libri e sarà pronta a cominciare a fare bene il proprio lavoro. Ma quel giorno non viene mai; non perché il traduttore sia incompetente o inesperto, non perché il lavoro del traduttore sia inferiore agli standard, ma perché un bravo traduttore vuole sempre sapere di più, vuole sempre avere fatto altre esperienze, non si sente mai del tutto soddisfatto del lavoro appena finito. Le aspettative stanno eternamente uno o tre passi avanti alla realtà, e tengono il traduttore eternamente inquieto alla ricerca di altre esperienze.

Douglas Robinson E la ricerca continua, il continuo voler sapere, l’eterna inquietudine, ciò che fa del mestiere del traduttore una passione. Il traduttore è Maestro-della-Parola, egli svolge il suo ministero nel mistero dello Spazio-di-Parola, poiché la Traduzione è Azione-entro-la-Parola. Il vedere, il sentire, l’assaporare la Dimensione del Senso è la sua Azione d’Emozione. Poiché la Parola è Relazione, la Parola è Promessa. Laddove, infatti, c’è l’Uomo c’è anche l’Altro, il suo interlocutore, colui che attende che la Parola venga mantenuta. E’, infatti, con la promessa che l’Uomo dà una delle più alte espressioni di stima di se stesso3. Il Traduttore,

3 Paul Ricoeur, (1913-2005), filosofo francese, influenzato da Husserl, ha approfondito i temi dell’ermeneutica accostandosi ad Heidegger e Gadamer. L’identità personale quale fedeltà alla parola data è uno dei suoi temi ricorrenti. Per Ricoeur nella costituzione dell’identità personale la presenza dell’Altro è imprescindibile, non solo nell’atto narrativo del parlare all’altro, bensì già nell’atto del pensare. Già a partire dal pensiero l’uomo si

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l’Interprete, il Mediatore Linguistico, ovvero lo studioso della lingua e prima ancora della Parola vive la grande opportunità di essere non solo Tecnico, ma anche Umanista-della-Parola, Umanista-della-Traduzione. Egli conduce, dal latino “traducere”, la Parola da una lingua all'altra portando non solo un messaggio di contenuto ed uno di forma, ma anche quello dell'Osare-Oltre il Testo, per far emergere la Luce, il Vero, il Bello del Testo Stesso. Il Traduttore sa anche “tralucere”, ovvero illuminare il Testo della sua Verità più profonda. Interpretare il testo significa “curare” il testo stesso e rispettarne l’humanitas, ovvero, secondo la concezione heideggeriana, ricondurre la Parola alla sua essenza, alla sua umanità4. Il tradurre porta, comporta, apporta una grande responsabilità: quella di “condurre” la Parola da una lingua all’altra, portando non solo un messaggio di contenuto ed uno di forma, ma anche quello di Osare-Oltre, nell’Oltre del Testo, superando col Cuore e con lo Sguardo i limiti della Ragione, entrare nelle Regioni del Senso più profondo, più puntuale, più attento. Il Pane del Testo che nutre e sa ancor più nutrire nella Dimensione del Testo-Tradotto, prodotto sui paradigmi dell’Umanesimo. Dignità e Personalità del Testo dell’Autore con il Suo Traduttore, quale Umanista della Traduzione, nell’integrità e centralità della Sua-Persona. Il Testo vola con due Ali, quella del suo Autore E quella del suo Traduttore. Il traduttore si trova davanti ad una tentazione irresistibile, ad una gioia, una gioia festiva, quella di entrare nella Parola in punta di piedi e di trovarvi un mondo. Il mondo del Testo. Il mondo della Parola-Stessa. L’impossibilità di raggiungere la “traduzione perfetta” non deve scoraggiare il Traduttore dall’entrarvi e portarvi il proprio mondo5. Il fine non è la traduzione perfetta, bensì la Perfezione-Etica dell’Operato, il massimo sforzo dell’uomo per avvicinarsi all’Eccellenza- sente legato all’altro. “L’attribuzione all’altro è tanto primitiva quanto l’attribuzione a se stessi. Non posso significativamente parlare dei miei pensieri, se non posso, nello stesso tempo, attribuirli potenzialmente ad un altro da me” Ricoeur (1993), in: D’Acunto (2009), 86. E ancora:“È perché qualcuno conta su di me, attende da me che io mantenga la mia promessa, che io mi sento legato” Ricoeur (1994), in: D’Acunto (2009), 86. 4 La parola “humanitas” è stata formulata per la prima volta nella repubblica romana ed è nata dall’incontro di quella civiltà con i valori della civiltà greca, sulla base del valore della dignità umana e di quello della pace civile. In seguito il concetto di humanitas si è trasformato nel tempo a seconda delle diverse concezioni di libertà e di natura che l’uomo ha sostenuto nelle varie epoche. Il cristianesimo, per esempio, riconosce l’humanitas nel fatto che l’uomo è figlio di Dio e la sua vita è solo il passaggio verso l’al di là. L’umanizzazione del mondo è, in senso cristiano, possibile perché il mondo stesso è consegnato all’uomo come un testamento leggibile, scritto per l’uomo fin dall’inizio. La concezione marxista, invece, ha ricondotto l’humanitas al vivere dell’uomo in società. Secondo Heidegger per umanismo “si intende in generale la preoccupazione che l’uomo diventi libero per la sua umanità e trovi in ciò la sua dignità. L’umanismo è diverso a seconda della concezione della libertà e della natura dell’uomo. Ugualmente sono diverse anche le vie che portano alla sua realizzazione […]. Per quanto queste forme di umanismo possano essere differenti nel fine e nel fondamento, nel modo e nei mezzi previsti per la rispettiva realizzazione, nella forma della dottrina, nondimeno esse concordano tutte nel fatto che l’humanitas dell’uomo è determinata in riferimento a un’interpretazione giá stabilita della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nel suo insieme” Heidegger (1995), 42. 5 In teoria la traduzione perfetta non esiste nemmeno nell’ambito della stessa lingua. Alcune parole, per esempio, possono assumere nel corso del tempo significati completamente diversi. È il caso dell’inglese “husband”: oggi la parola si tradurrebbe senza rischio di fraintendimenti con “marito”, ma in inglese arcaico significava “capitano d’armamento”. L'adeguatezza di una traduzione dipende da molti fattori. Ne fanno parte quelli culturali, situazionali, temporali, geografici. Essa è insomma materia di negoziazione.

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del-proprio contributo. La meta è possibile solo grazie all’attenzione, alla cura, alla precisione, alla pazienza e al Rispetto del Testo quale Organismo Vivente e punto di partenza dell’Esperire. Il nostro vivo interesse percorre gli itinerari del modello interlinguistico e intersemiotico e tende a cercare l’Umanesimo-della-Parola al fine di portare alla superficie il suo possibile d’Esistere nel contorno e nel contesto in cui la parola stessa Abita-nel-suo essere-Abito che riveste l’Uomo. Il richiamo all’Umanesimo cristiano di Dante, che ha come riferimento i rapporti Dio-uomo e uomo-donna, è quasi imprescindibile nella sua Veste di altissimo esempio nell’universalità, grazie alle sue tematiche di fondo che sono sempre state di interesse comune e continuano ancor oggi a muovere, commuovere, rimuovere l’Animo dell’Umanità. L’universalità dei temi danteschi è senza tempo, è l’In-Sempre che contiene il non-Tempo. È senza Spazio, perché Diviene lo Spazio Stesso che contiene l’Uomo. Lo spazio di Parola. La Realtà-Tematica dell’opera dantesca, al di là dell’importanza scientifica, è di grande attualità. Ancor più è argomento di solenne interesse nella Dimensione del nostro Presente, laddove l’esistenza umana si realizza attraverso le libere scelte, in particolar modo le scelte che riguardano i rapporti umani6. La presenza femminile è fondamentale nell’opera dantesca. La donna possiede doti di ispiratrice e di curatrice. Come sostiene Dante, la donna ha nello sguardo virtù simili a quelle delle mani di Ananía, il quale aveva curato l’Apostolo Paolo, non più vedente, appoggiando le mani sui suoi occhi.

[…] perché la donna che per questa dia Region ti conduce, ha ne lo sguardo La virtù ch’ebbe la man d’Ananía.

Denn jene Herrin, die dich führt durch diese göttliche Region, hat in dem Blicke die Kraft, die Ananias Hand besessen.7

La ricerca del senso più profondo della vita da una parte e il ruolo centrale della donna dall’altra, costituiscono non solo due delle chiavi di lettura dell’opera dantesca, ma sono due tra i temi di rilevanza universale più essenziali. Anche il tema della libera facoltà dell’uomo di scegliere se realizzare o non-realizzare il senso più profondo della vita attraverso l’Amore e attraverso il Sapere, l’Amore-per-il-Sapere non è solo ricorrente nell’opera di Dante, ma è ancor oggi di grande attualità e urgenza, un’emergenza nell’Esistenza,

6 “L’esistenza umana si realizza nei suoi equilibri e nella destinazione finale in una trascendenza che è anche compimento, realizzazione in cui gioca un ruolo decisivo la libertà. È in questo spazio di libertà che il rapporto uomo donna acquista fondamentale rilevanza. […] Ma proprio per la sua inattualità la prospettiva dantesca diventa attuale come testimonianza di un ruolo specifico, insostituibile della presenza femminile con le sue capacità di ispirazione, di tonalità affettiva e simbolica […]” Rigobello (2007), in: Schurr-Lorusso (2007). 7 Dante, Paradiso, XXVI, 10-12, traduzione a cura di Anna Maria Schurr-Lorusso (2007), 178.

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Man könnte die heute nicht selten geäußerte Frage stellen: Sind Dantes Jenseitsvorstellungen und sein Bild der Frau noch aktuell und zeitgemäß? Sind sie für den aufgeschlossenen, aufgeklärten Zeitgeist noch annehmbar […]8?

L’esistenza umana si realizza anche nella ricerca del Sapere a cui tutti gli uomini sono spinti per natura. La ricerca del Sapere eleva l’anima e la riempie di gioia profonda. „Siccome la scienza rappresenta l’ultimo perfezionamento della nostra anima e la gioia più alta, ecco che siamo per natura destinati a desiderarla”9. Nel Sapere deve essere presente la gentilezza dell’Accoglienza nel Silenzio dell’Arte dell’Ascolto, quale Evento d’Incontro con la Dimensione di Conoscenza. Il Testo, il Quadro, la Scultura sono comunque movimento della natura del Pensiero, di quel Pensiero che diventa Sentiero da percorrere nelle O-r-e-d-e-l-T-e-m-p-o. Il parallelo tra l’interpretazione di un quadro e di un testo poetico sta nell’articolare un’esperienza non discorsiva, un impatto immediato da mediare, incomunicabile da comunicare. Interpretare un quadro ed interpretare un testo hanno la stessa responsabilità nei confronti dell’apparire. Anche la parola, infatti, possiede elementi non dicibili, non visibili, i quali, come un’immagine che all’improvviso appare, ci presenta una Sorpresa-Inattesa. Come un quadro che lascia solo intravedere, anche la parola poetica mostra ciò che non si vede in apparenza, spinge a guardare Oltre l’apparire. La parola poetica dice ciò che c’è di ulteriore nelle cose. Così come l’osservatore si avvicina e si allontana da un quadro per averne il massimo delle suggestioni, così la parola è un continuo alternarsi di piani visivi diversi, di limite e di infinitezza. Anche nell’interpretazione di un quadro si parla di “traduzione”, ovvero di spiegazione del quadro attraverso le parole. Tradurre è sentire quel desiderio ma anche quel peso, quel farsi carico della responsabilità di scorgere nella parola qualcosa che solo a sprazzi appare, curvi sul vocabolario e sul foglio ancora bianco. Il mestiere del traduttore non dà certezze, lascia sempre dei dubbi. L’unico conforto è dato dall’atto stesso del tradurre, attività che non spiega, bensì dispiega, dischiude. Come è possibile attualizzare-nell’Applicare il Dire di ieri nell’Esperire dell’oggi? Sarà la Dimensione Linguistica che Accoglierà questo Studio iniziante verso la sua azione di Applicazione nella Traduttologia. La traduttologia è lo studio delle Verità, delle Virtù, delle Beltà di un tradurre che diventa un produrre l’autenticità del Testo d’Origine nella lingua d’Accoglienza, lingua che sa accogliere l’Umanesimo del produrre il Vero-del-Testo. La verità di un testo, però, non è unica. Ciò che è il vero per l’autore non coincide sempre con il vero del lettore. Autore e Lettore, nonché Traduttore, possono essere distanti nel tempo, nello spazio, distanti per ideologia, per appartenenza culturale. Il traduttore dà la propria interpretazione, scegliendola tra una molteplicità di possibili, e cercando nel testo la Verità-

8 Schurr-Lorusso (2007), Vorwort, I. “Ci si potrebbe porre la domanda, che oggi non è rara, se le considerazioni dantesche sull’aldilà e la sua immagine della donna siano per l’odierno spirito del tempo, emancipato ed aperto, ancora attuali e al passo con i tempi.” 9 Schurr-Lorusso (2007), 123 seg. “Da nun die Wissenschaft die letzte Vervollkommung unserer Seele bildet und unser höchstes Glück in sich begreift, so sind wir naturgemäß alle der Sehnsucht nach ihr unterworfen“.

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della-Parola, quel Qualcosa che va oltre i limiti di tempo e spazio del testo. La Verità-della-Parola è ancora più profonda e va cercata con Puntualità e Responsabilità etica. Ogni scrittura ha Bisogno di Apertura-verso-per-entro, perché è la Natura che dà alla parola la giusta postura, la Natura della Parola, la Cultura della Parola Futura, l’Umanesimo della Lettera, nella Responsabilità di una Traducibilità quale Abilità, Puntualità Umanistica nella Verità. La Responsabilità-e-Puntualità del Tradurre, nell’Umanesimo il Vero, è saper Scrivere-entro-la-Scrittura. Dove dimorano la Purezza, la Gentilezza, la Dolcezza del Conoscere, se non nell’Uomo che all’Opera accede in pienezza? È la Filosofia-della-Scrittura che l’Uomo deve saper abitare al fine di accedere agli spazi del mondo, in pienezza. Un testo È come una stanza, lo spazio di una Stanza-che-respira, È il respirare proprio di Colui che l’ha costruita che dà vita alla Stessa, Organismo Vivente. È nel saper che l’Opera è un Organismo Vivente che l’Uomo deve saper lasciar co-accadere tutti gli eventi propri dell’Opera nel suo Esistere. È il saper accedere alla Dignità dell’Opera che dà vita all’Opera nel suo essere luce per l’Altro. È il modo, la moda, la condotta, il porsi al proprio Sé e all’Altro, nell’Abito della Conoscenza, nell’Abitare il Conoscere. L’Opera vede la luce grazie all’Agire del suo Autore. Ma chi dà luce all’Opera nel corso del suo vivere, nel corso del suo Esser-Ci? È Colui che la vive nel portarla alla luce del mondo, è il Traduttore che, nell’Umanesimo del suo Esperire, nel Traducere sa anche Tralucere l’Evento Originale dell’Opera portando il Lettore a conoscere il lievito primario del senso, la sua ordinatio, dispositio, simmetria, eurythmia, il suo decor vitruviano, la sua distributio al fine di vivere in pienezza la compositio. Nell’abilità della traduzione di un Testo c’è la Personalità-in-Azione. È dal profondo rispetto per la Dignità Umana che Dante trae il suo Amore-per-l’Umanità, la sua “humanitas”. “Egli ha tentato di avvicinare l’uomo al Regno dei cieli.”10.

[…] E la virtù che lo sguardo m’indulse, del bel nido di Leda mi divelse, e nel ciel velocissimo m’impulse. (Par. XXVII, 88-99)

L’uomo trova la massima realizzazione della propria humanitas nella gioia della vita eterna, ma anche nell’attuazione delle proprie facoltà umane nella vita terrena. L’intelletto e la forza mistica negli occhi della donna – la sua musa – elevano il pellegrino terreno Dante e lo fanno crescere nell’amore. Altrettanto succede al lettore, pellegrino terreno, il quale, grazie alla forza creativa che si sprigiona dalle parole, si eleva e cresce nella propria creatività, spinto e incoraggiato dalla propria volontà, poiché Creatività-è-Volontà. Il cammino dell’uomo è razionale e relazionale, quindi affettivo. Grazie agli affetti e all’amore, egli cresce umanamente ed intellettualmente.

10 „Er hat den Versuch unternommen, den Menschen dem Himmel näher zu bringen“ Schurr-Lorusso (2007), 320.

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È l’Epifania dell’Uomo nel suo Evento d’Essere nella Cultura, per la Cultura, entro la Cultura, Natura d’Umanesimo. L’uomo è custode di entrambe le Realtà, entrambe le Dimensioni: al fine di accedere alle vette della dimensione più solenne, non deve rinunciare alla gioia terrena nella sua eccedenza-di-senso più elevata. L’alta misura del senso. La sensibilità intellettuale del Traduttore eleva il testo accedendo alle sue verità più nascoste e profonde, senza mai privarlo del suo intimo respiro. Poiché il testo è Organismo vivente.

[…] Und jene Kraft, die mir der Blick gewährte, hat mich vom Neste Ledas losgerissen und mich zum schnellsten Himmel hingetrieben11.

Dopo aver studiato con attenzione la traduzione propostaci dalla Professoressa Schurr-Lorusso, nonché valutato tutte le emergenti modulazioni che la traduttrice ci propone e ci concede, anche noi osiamo con gioia farci carico del peso delle parole e delle frasi. Ai nostri occhi si apre uno spazio interpretativo all’Aperto che chiede di essere colmato con la libera espressione. In questo Studio, che si propone non solo nella dimensione speculativa, Bensì Anche-e-Soprattutto nella dimensione Filosofia-Estetica-Umanistica, si cerca di rispondere ai quesiti su cosa sia l’Umanesimo-della-Traduzione, se ci sia l’attualità o forse anche l’urgenza nel cercare l’Umanesimo-della-Parola, laddove tutti gli itinerari linguistici sembrano essere stati percorsi, e, infine, in quale modo si possa Osare-ad-Andare-Oltre-i-limiti-di-traducibilità-della-Parola, nell’Amare la Parola Stessa. Tutto si accoglie, se ci si immerge nella scrittura, trovando, nel rispetto e nell’ammirazione, motivazioni e continuazioni. Torniamo all’originale dantesco e alla traduzione della Professoressa Schurr-Lorusso e accediamo al testo alla ricerca di quel QualcosA che Già il testo propone e il Lettore ne vuole essere pieno fruitore. In pienezza. Quel Lettore-ermeneuta del tessuto-di-testo.

[…] E la virtù che lo sguardo m’indulse, del bel nido di Leda mi divelse, e nel ciel velocissimo m’impulse. (Par. XXVII, 88-99)

[…] Und jene Kraft, die mir der Blick gewährte, hat mich vom Neste Ledas losgerissen und mich zum schnellsten Himmel hingetrieben.

Con “zum schnellsten Himmel” la traduttrice ci porta, infatti, ad un impossibile proprio del cielo, impossibile che comunque vuole essere considerato. Il non-esserci della virgola

11 Schurr-Lorusso (2007), 180. La traduttrice precisa, inoltre, che si tratta qui di un “Kristallhimmel”, di un cielo di cristallo.

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nell’originale dantesco - tra “ciel” e “velocissimo” – porta ad un esserci-di-più nella scrittura tedesca. La sincope della virgola porta il Lettore a maggior libertà e a meno contingenza, nel suo stupore di leggere l’aggettivo “velocissimo” coniugato al cielo. L’occhio dell’ermeneuta si ferma sulla mancata virgola e la interpreta come un’apertura nel suo orizzonte dischiudendo l’impensabile: può il cielo esser velocissimo? Velocissimo è il cielo con un carico di nubi, velocissimo si muoverà su di noi minacciandoci di pioggia scrosciante. Velocissimo è il cielo quando il dì e la notte si confondono. Nella fusione tra notte e giorno, il cielo diventa stratificato, si muta. L’azzurro del cielo pomeridiano si converte nell’immediatezza nel rosso infuocato del tramonto, avvolto e coinvolto dal buio della notte, che già tende al dì. Velocissimo è il cielo quando, aprendosi all’improvviso, converte il suo carico di nubi in un carico di luci azzurre. Velocissimo è il cielo in quanto profondissimo, dove la sua profondità è una misura incalcolabile ed inconoscibile alla mente umana, la quale, Però, si lascia coinvolgere ed avvolgere, oltre il tempo e lo spazio, in questo Tutto-Misterioso. Il “velocissimo” ciel è il cielo che chiama l’uomo a sé, senza pensare, senza esitare. La chiamata del cielo è immediata. È quella raffinatezza divina che chiama l’uomo in ogni angolo del tempo, in ogni angolo dello spazio. Il “ciel velocissimo” è il cielo nel suo dischiudersi, nel suo primissimo esser-Ci, nell’Essere Universale, nel suo in-the-Beginning, voce iniziante dell’Assoluto che chiama a sé il Mondo. Sei motivazioni possibili per accedere al volto della traduzione, incontrarlo, conoscerlo, al fine di dare luce e rilievo alla condotta di “schnellsten” che anticipa “Himmel” nella sua Meraviglia-di-Senso. Bibliografia D’Acunto, Giuseppe (2009), L’etica della parola, Pisa: ETS. Heidegger, Martin (1995), Lettera sull’umanismo, Milano: Adelphi. Magris, Claudio / Baricco, Alessandro (2008), La civiltà dei barbari, in: Corriere della Sera, 7 ottobre, 44 seg. Ricoeur, Paul (1993), Sé come un altro, Milano: Jaca Book Ricoeur, Paul (1994), Persona, comunità e istituzioni, Milano: Feltrinelli. Rigobello, Armando (2007), Dante, la donna e l’umanesimo cristiano, in: L’Osservatore

Romano, 29-30 ottobre. Schurr-Lorusso, Anna-Maria (2007), Das Bild der Frau im dichterischen Werk von Dante, Neuried: ars una.

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Carmen Selles de Oro

SER Y ESTAR.

USOS Y EQUIVALENCIAS EN ITALIANO

1. Introducción

Uno de los primeros escollos que el estudiante extranjero y, más concretamente, el

estudiante italiano, encuentra cuando afronta el estudio de la lengua española, está

constituido por el uso de los verbos copulativos ser y estar. Efectivamente, la alternancia de

los dos verbos, que constituye uno de los elementos más expresivos del español, resulta a

menudo incomprensible para todos los que en su sistema linguístico conocen la presencia de

un sólo verbo copulativo.

Dado el carácter fuertemente idiomático de estas construcciones – de hecho es muy

improbable que un hispanohablante, aunque tenga poca instrucción, se equivoque en su uso-,

es útil afrontar el tema teniendo en cuenta tanto los aspectos gramaticales como los aspectos

semánticos, y considerando que, a menudo, el uso de uno u otro verbo corresponde a una

percepción particular de la realidad más que a la realidad misma.

Pueden resultar clarificadoras a este propósito algunas consideraciones de carácter general

sobre la naturaleza de ambos verbos.

Los verbos ser y estar se denominan copulativos porque su función es la de servir de nexo

entre sujeto y predicado; la oración atributiva expresa, por tanto, una cualidad del sujeto.

Dicha cualidad se puede indicar mediante un adjetivo “Este pescado está fresco” o frase con

función adjetiva “El es de Milán”; mediante un pronombre “Mario es ése”, mediante un

infinitivo “Esto es vivir”, etc. . .

Suele considerarse como primer elemento diferenciador entre ambos verbos, el carácter

permanente y objetivo de las cualidades enunciadas por ser, frente al carácter subjetivo y

temporal de las cualidades expresadas con estar. La naturaleza del verbo ser es la de

expresar la atemporalidad, lo inmutable, independientemente del marco temporal en que se

realiza la acción; las frases construidas con estar, en cambio, dado el carácter circunstancial

del verbo, poseen una mayor concreción.

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Esta consideración, válida en la mayor parte de los casos, no explica, sin embargo, frases

como “Pedro está muerto”. / “Pedro è morto”. o “María está siempre alegre”. / “Maria è

sempre allegra”. Puede resultar útil la aplicación del siguiente criterio diferenciador

propuesto por Gili Gaya:

Usamos en español estar cuando pensamos que la cualidad es resultado de un

devenir, un werden o un become, real o supuesto. Basta con que, al enunciar

una cualidad, haya en nuestro pensamiento una leve suposición de que ha

podido ser causada por una acción o cambio, por algún devenir, para que

empleemos el verbo estar. 1

También el aspecto, es decir, la clase de acción verbal, determina el uso de uno u otro verbo.

Decimos que un verbo tiene aspecto imperfectivo cuando la acción en él expresada no

necesita un término, como por ej. dormir, sentir, esperar, saber. . . Los verbos perfectivos,

en cambio, se realizan cuando la acción llega a su término, por lo tanto cuando la acción

llega a su plenitud, se acaba. Son verbos perfectivos dormirse, decir, romper. . .

El verbo ser tiene aspecto imperfectivo, mientras que estar es perfectivo. Esta cualidad

determina en gran parte, como se verá más adelante, el uso de uno u otro verbo con el

participio pasado.2

Por otra parte, ser y estar no se limitan a un uso atributivo, en diferentes casos tienen un uso

predicativo; es decir, ya no sirven como nexo para expresar una cualidad del sujeto, sino que

enuncian un fenómeno, centrando la acción en el verbo. El uso más frecuente es el del verbo

estar para indicar la presencia o la permanencia, en frases como “Estoy en casa”. / ”Sono a

casa”, o “Estoy en cama desde hace dos días”. / ”Sono a letto da due giorni”.

Dada la complejidad y extensión del tema, se tratarán en este trabajo los usos más comunes

de ambos verbos, fijando los criterios con una orientación de carácter práctico.

2. Usos de ser y estar y equivalencias en italiano. I valores

atributivos

2. 1 ser y estar con adjetivo

El verbo ser se utiliza para indicar las cualidades objetivas, permanentes, inherentes al sujeto

e independientes de la experiencia propia. El verbo estar indica las cualidades que no son

permanentes, que dependen de las circunstancias o de la experiencia o percepción subjetiva.

El uso de uno u otro verbo dependerá de cómo el hablante quiere expresar la acción.

1 Gili Gaya (1980), 46. 2 También habrá que considerar el carácter imperfecto o perfecto de los tiempos. Son imperfectos los tiempos

simples de la conjugación excepto el pret. indefinido. Son perfectos los tiempos compuestos y el pret.

indefinido.

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Ejemplos:

• “El cielo es azul” (el color azul está considerado universalmente el color del cielo).

• “Mi hijo Juan es muy alto” (considerando la altura media de los niños, Juan está por

encima de la media).

• “María es muy guapa” (responde a los cánones de belleza).

Este tipo de estructuras no presentan problemas de traducción en italiano porque usan el

mismo verbo auxiliar:

• “Il cielo è azzurro”.

• “Juan è molto alto”.

• “Maria è molto bella”.

Esas mismas frases con el verbo estar dejan de ser categorías objetivas:

• “Hoy el cielo está azul” (Hoy está particularmente azul).

• “Juan está muy alto” (Ha crecido mucho o es muy alto para la edad que tiene).

• “María está muy guapa” ( La he encontrado muy guapa, pero eso no implica que sea

guapa).

En italiano habrá que especificar este matiz añadiendo cualquier elemento que lo concrete:

• “Oggi il cielo è molto azzurro” (Si no hubiera adverbio de tiempo habría que añadirlo).

• “Juan è molto alto per la sua età ”.

• “María è molto bella in questo periodo” o bien, dependiendo del contexto: “Ho trovato

Maria molto bella”.

En función del criterio expuesto, algunos adjetivos podrán ir sólo con el verbo ser y otros

con el verbo estar.

Van con ser los adjetivos de nacionalidad, de religión, los que expresan la ideología y la

naturaleza del sujeto. Estos casos coinciden con el uso en italiano.

Ejemplos:

• “Mis abuelos son argentinos”. / “I miei nonni sono argentini”.

• “Este libro es muy voluminoso”. / “Questo libro è molto voluminoso”.

• “Pedro es comunista”. / “Pedro è comunista”.

Van con estar los adjetivos que indican circunstancias externas al sujeto como limpio / sucio,

vestido / desnudo, calzado / descalzo. . . En italiano se usa el verbo essere.

Ejemplos:

• “El coche está muy sucio, hay que lavarlo”. / “La macchina è molto sporca, bisogna

lavarla”.

• “En la playa la gente suele estar descalza”. / “Al mare la gente di solito è scalza”.

Los adjetivos que indican la profesión, la actividad, el cargo, van con ser, como en italiano.

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Ejemplos:

• “Mi padre es médico”. / “Mio padre è medico”.

• “¿Quién es el Ministro de Economía?” / “Chi è il Ministro dell’Economia?”

Podemos, sin embargo, encontrar las mismas estructuras expresadas por medio de estar de +

nombre:

• “Mi padre está de médico”.

• “¿Quién está de Ministro de Economía?”

Estas construcciones adquieren un marcado carácter temporal y de concreción, que a

menudo suele ir expreso:

• “Mi padre está de médico en el Hospital Clínico”. / ”Mio padre fa il medico

nell’Ospedale Clinico”.

• “¿Quién está de Ministro de Economía con este gobierno?” / “Chi è il Ministro

dell’Economia in questo governo?”

Los adjetivos que con el verbo ser indican el carácter, con estar indican el estado físico o

anímico. En este último caso suele haber una especificación o limitación temporal, que

resuelve generalmente el problema de la traducción en italiano.

Ejemplos:

• “Pepita es una chica bastante alegre, pero en este periodo está triste porque se ha dejado

con su novio”. / “Pepita è una ragazza allegra ma in questo periodo è triste perché si è

lasciata con il suo fidanzato”.

• “Estoy contento porque me ha tocado la lotería”. / “Sono felice perché ho vinto al

lotto”.3

Se puede fijar como regla general que a la pregunta “¿Cómo es?” / “Com’ è?” se responderá

con ser, mientras que la pregunta “¿Cómo está? / ¿Come sta?” se responderá con estar (en

italiano el uso de stare se limita a bene y male, mientras que en español se utiliza con todos

los adj. que indican un estado. )

Ejemplos:

• “Estar enfermo” / “essere malato”; “estar cansado” / “essere stanco”; “estar loco” /

”essere pazzo”; “estar asustado” / “essere spaventato”, etc. . .

En algunos casos el adj. expresado con ser corresponde en italiano al participio presente,

mientras el adj. expresado con estar corresponde al participio pasado. El adj. expresado

por ser, como su correspondiente italiano con part. presente, pueden aplicarse a contextos no

relacionados con el carácter.

3 En español el adj. “feliz” va siempre con ser y se utiliza para indicar una situación duradera, por ej. “ser feliz

en el matrimonio, en la vida. . . ” El adj. “contento”, al contrario, va siempre con estar .

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Ejemplos:

• Ser aburrido / Essere noioso

Estar aburrido / Essere annoiato

• Ser divertido / Essere divertente

Estar divertido / Essere divertito

• Ser molesto / Essere fastidioso

Estar molesto / Essere infastidito

Si en español existe el participio presente, irá siempre con ser:

Ejemplos:

• Ser satisfactorio / Essere soddifacente

Estar satisfecho / Essere soddisfatto

Hay algunos adjetivos que cambian de significado según se construyan con ser o estar. He

aquí algunos de los más frecuentes:

• “Ser listo” / ”Essere furbo o sveglio”

“Estar listo” / ”Essere pronto”

• “Ser despierto” / “Essere sveglio” (carattere)

“Estar despierto” / “Essere sveglio” (non addormentato)

• “Ser atento” / “Essere gentile, considerato”

“Estar atento” / “ Prestare attenzione”

• “Ser bueno” / “Essere una brava persona”

“Estar bueno” / “Essere sano, attraente” ! Essere utile” ! “Avere buon sapore” ! “Essere

di buona qualità” ! “Essere ben conservato” (riferito al cibo)

• “Ser malo” / “ Essere una cattiva persona”

“Estar malo” / “Essere malato” - “Essere dannoso” ! “Avere un brutto sapore” ! “Essere

di cattiva qualità” ! “Essere andato a male” (riferito al cibo)

• “Ser católico” / ”Essere cattolico”

“No estar católico” / “Non sentirsi bene di salute”

• “Ser negro” / “Essere di colore nero o di razza negra”

“Estar negro” / “Essere arrabbiato nero ” ! “Essere molto abbronzato”

• “Ser parado” / “Essere una persona noiosa, timida”

“Estar parado” / “ Essere fermo” ! “Essere disoccupato”

• “Ser limpio” / “Essere una persona pulita”

“Estar limpio” / “Essere pulito, risultato di pulire o lavarsi” ! “Essere poco

sporchevole” ! “Essere senza soldi” ! “Non avere precedenti penali”

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2. 2 ser y estar con sustantivo

Se usa ser con sustantivo (o pronombre sustantivado) para identificar al sujeto:

Ejemplos:

• “¿Quién es Juan? Es ése de ahí”. / “Chi è Juan? E’ quello lì”.

• “¿Qué es esto? Es un invento mío”. / “Cosa è questo? E’ un mio invento”.

Estar con sustantivo forma frases hechas, que se acercan al modismo:

Ejemplos:

• “Estoy pez en economía”. / “No so niente di economia”.

• “Esta chica está cañón”. / “Questa ragazza è molto bella”.

• “Estoy mosca porque no llama”. / “Sono arrabbiato perché non telefona”.

2. 3 ser y estar con formas no personales del verbo.

2. 3. 1. Ser y Estar + participio

Sin entrar en la discusión de si estas estructuras son voz pasiva o estructuras atributivas 4, lo

cierto es que presentan dificultades de uso y de traducción. Intentaremos aclarar la cuestión

estableciendo algunos criterios de orden práctico.

2. 3. 1. 1 Ser + participio

Con “”ser + participio” se expresa la acción, por eso suele llamarse a esta estructura pasiva

de acción. La frase “El actor fue muy admirado por el público”, indica lo mismo que “El

público admiró al actor”, cambia sólo el punto de vista. Se usa con todos los tiempos de los

verbos imperfectivos.

Ejemplo:

• “La obra de Cervantes es admirada en todas las épocas”. / “L’opera di Cervantes è

ammirata in tutte le epoche”.

Con el presente e imperfecto de los verbos perfectivos adquiere un significado muy

concreto:

a) costumbre:

“La verja es abierta por el encargado”. / “Il cancello è aperto dall’incaricato”.

b) descripción momentánea de la acción:

4 Ved. García Yebra (1982), Marcos Marín (1984)

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“En este momento es cerrada la sede electoral”. / In questo momento è chiusa la sede

elettorale”. (La traducción literal es ambigua en italiano, dado que, si no hay un contexto

específico, se podría entender no como que en ese momento la sede se cierra, sino como que

ya se encuentra cerrada. Una traducción más exacta sería “In questo momento si chiude la

sede elettorale”).

2. 3. 1. 2 Estar + participio.

Esta estructura expresa el resultado de una acción o de un proceso, por eso se suele

denominar pasiva de estado.

Si transformamos los ejemplos anteriores con estar, veremos el cambio de significado: “La

verja está abierta” indica cómo se encuentra la verja en el momento en que se sitúa el

hablante, independientemente de cuándo y de quien ha realizado la acción. También la frase

“En este momento está cerrada la sede electoral” indicaría el estado de cierre, no el momento

o la acción de cerrar.

En italiano no existe una diferenciación entre ambos verbos, que se traducen siempre con

essere. Se podría especificar, sin embargo, el aspecto estativo traduciendo: “Il cancello si

trova chiuso”, “In questo momento la sede elettorale si trova chiusa”.

Estar + participio se usa preferentemente con verbos perfectivos y reflexivos (El verbo ser

no admite este último tipo de verbos), pero no se puede usar con las formas compuestas de la

conjugación ni con pret. indefinido.

Ejemplos:

• “El niño estaba dormido”. / “Il bambino era addormentato”.

• “Las uvas están maduras”. / “Le uve sono mature”.

Dado el carácter resultativo y durativo de estar +participio, a menudo a las formas simples

de estar les corresponde una forma compuesta de ser.

Ejemplos:

• “La casa fue pintada la semana pasada”. / ”La casa `stata dipinta settimana scorsa”. (Se

expresa la acción en pasado en el momento de su realización).

• “La casa está pintada desde la semana pasada”. / ”La casa dipinta da settimana scorsa”.

(Se expresa el resultado presente de una acción pasada junto al valor durativo)

2. 3. 2. Estar + gerundio

Esta estructura expresa la acción durativa o en proceso, y no puede llevar nunca el verbo ser.

Corresponde a la forma italiana “essere + gerundio”.

Ejemplo:

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• “Estoy estudiando desde hace dos días para el examen”. / “Sono due giorni che sto

studiando per l’esame”.

2. 3. 3 Ser + infinitivo

No es posible utilizar estar en esta estructura.

Ejemplo:

“Esto es vivir”. / “Questo è vivere”.

2. 3. 4. Estar + preposición + infinitivo

Estas estructuras orientan la acción hacia el futuro.

Estar para + infinitivo: indica la inminencia de la acción:

“El tren está para llegar”. / “Il treno sta per arrivare”.

Estar por + infinitivo tiene dos usos:

a) indicar una acción que todavía no ha sido realizada:

“Este ejercicio está por hacer”. / Questo esercizio è da fare”.

b) indicar las ganas de hacer algo junto a una intencionalidad todavía no claramente

definida:

“Estoy por empezar a aprender chino”. / “Mi è venuta voglia di iniziare a imparare il cinese”.

Estar en+infinitivo indica la intencionalidad:

“Pedro está en venir”. / “Pedro ha intenzione di venire”.

2. 4. Valores Predicativos

2. 4. 1 Expresión del tiempo con Ser y Estar.

El verbo ser expresa la hora:

“Eran las tres cuando empezó el partido”. / ”Erano le tre quando iniziò la partita”.

La fecha se expresa generalmente con el verbo ser, pero es posible expresarla también con

estar.

Ejemplos:

• “Hoy es martes trece de junio”. / ”Oggi è martedì tredici giugno”.

• “¿A cuántos estamos hoy? Estamos a trece de junio”. / “Quanti ne abbiamo oggi? Ne

abbiamo tredici”.

Se usa el verbo ser en general con las expresiones de tiempo:

“Es pronto todavía”. / “E’ ancora presto”.

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Es posible encontrar, sin embargo, una alternancia con el verbo estar con los meses y las

estaciones. En este caso el verbo estar, no pierde su carácter locativo:

Ejemplos:

• “Es otoño”. / “E’ autunno”.

• “Estamos en otoño”. / ”Siamo in autunno”.

2. 4. 2. Ser con el sentido de ocurrir, tener lugar, existir.

Ejemplos:

• “La clase es en el aula dos”. / “La lezione è nell’aula due”.

• “El éxito constituía su única razón de ser”. / “Il successo costituiva la sua unica

• ragione di essere”.

• “¿Qué será de nosotros?” / “Che ne sará di noi?”

2. 4. 3. Ser como enlace.

Tiene valor enfático y el verbo va siempre en tercera persona.

Ejemplos:

• “Aquí es donde le conocí”. / “E’ qui che l’ho conosciuto”.

• “Es por eso por lo que me gusta”. / ”E’ per quello che mi piace”.

2. 4. 4 Estar para indicar una situación o posición material o figurada (equivale a los verbos

hallarse, encontrarse, permanecer).

Ejemplos:

• “La nación está en un momento muy difícil”. / “La nazione è in un momento molto

difficile”.

• “En este momento estamos en Milán”. / “In questo momento siamo a Milano”.

• “Estoy todo el día de pie por mi trabajo”. / “Sono tutto il giorno in piede per il mio

lavoro”.

• “Estamos a seis grados bajo cero”. / “Siamo a dieci gradi sotto zero”

2. 4. 5. Estar para expresar ausencia o presencia:

“¿Está Pedro en casa? No, no está”. / “C’è Pedro in casa? No, non cè”.

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2. 4. 6. Ser y Estar con la preposición de+ sustantivo.

Se usa ser de + sustantivo para indicar el origen, la nacionalidad, la propiedad, la materia, la

procedencia.

Ejemplos:

• “Esta porcelana es de China”. / “Questa porcellana viene dalla Cina”.

• “Ese coche no es mío, es de mis padres” / “Quella macchina non è mia, è dei miei

genitori”.

• “Esta mesa es de madera”. / “Questo tavolo è di legno”.

Se usa estar de + sustantivo en expresiones que indican una situación temporal o transitoria

(En el apartado 1 se ha tratado su uso con las profesiones).

Ejemplos:

• “Estar de vacaciones”. / ”Essere in vacanza”.

• “Estar de moda”. / “Essere di moda”.

• “Estar de paso”. / “Essere di passaggio”.

2. 4. 7. Ser y Estar para indicar cantidad y precio.

El precio suele indicarse son ser, pero en las cantidades sujetas a variaciones continuas de

precio es frecuente utilizar estar :

Ejemplos:

• “¿Cuánto es? Son veinte euros”. / ” Quant’è? Sono venti euro”.

• “¿A cuánto está hoy la pescadilla? Está a veinte euros”. / “Quanto viene il nasello?

Viene venti euro”.

La cantidad se expresa con ser cuando es fija, con estar cuando se refiere a un momento

concreto, por eso en este último caso suele haber algo que especifique la circunstancia o el

tiempo:

• “Somos treinta alumnos en clase, pero hoy estamos veinticinco” / “Siamo trenta alunni in

classe, ma oggi siamo in venticinque”.

2. 5 Impersonalidad con ser y estar

Suele usarse casi siempre ser en las expresiones impersonales con adjetivo:

• “Es necesario, es bueno, es importante, es útil. . . ” / “E’ necessario, è buono, è

importante, è utile. . . ”

En pocos casos se utiliza estar:

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• “Está claro, está demostrado, está bien, mal. . . ” / “E’ chiaro, è dimostrato, è bene,

male…”

2. 6 Expresiones idiomáticas

Con Ser:

• “Ser uña y carne” / “Essere culo e camicia”

• “Ser culo de mal asiento” / “Essere una persona irrequieta, che non rimane per molto

nello stesso posto”

• “Ser un cero a la izquierda” / “Essere una persona che non conta niente”

• “Ser un plomo” / “Essere molto pesante”

• “Ser un bicho raro” / “Essere una persona di carattere o abitudini strane”.

• “Ser un hombre de pelo en pecho” / “Essere una persona coraggiosa o forte”

• “Ser un hueso” / “Essere molto severo” (Riferito soprattutto al contesto scolastico)

• “Ser coser y cantar” / “Essere molto facile” (Riferito a quello che si deve fare)

• “Ser un manirroto” / “Avere le mani bucate”

Con Estar:

• “Estar patas arriba” / “Essere sotto sopra”

• “Estar por los suelos” / ”Essere a terra”

• “Estar para el arrastre” / “Essere stanco morto”

• “Estar a dos velas” / “Essere al verde”

• “Estar a la que salta” / “Essere in allerta”

• “Estar en las nubes” / “Avere la testa tra le nuvole”

• “Estar por las nubes” / “Essere molto caro”

Estar hecho(a, os,as) + nombre

Hay muchas construcciones con esta estructura, que tiene valor enfático, y en la que

el sustantivo tiene un carácter figurado. Expresan una valoración personal sobre alguien o

sobre sí mismo con un matiz de exageración o ironía :

• “Estás hecho un atleta”. / “Sembri un atleta”.

• “Está hecho un león”. / “E’ forte come un leone, sembra un leone”.

• “Estoy hecho polvo”. / ”Sono distrutto” (fisicamente o moralmente).

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Bibliografía

García Yebra, Valentin (1982), Teoría y Práctica de la Traducción, 2 vol. , Madrid: Gredos.

Gili Gaya, Samuel (1980), Curso Superior de Sintaxis Española, Barcelona: Vox.

Marcos Marín Francisco A. (1984), Curso de Gramática Española, Madrid: Cincel.

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Martina Luisetto

SCHWARZWÄLDER KUCKUCKSUHREN

1. Einleitung

„Im Schwarzwald. Köhler, Kirsch und Kuckucksuhren“1, dieser Buchtitel weist darauf hin, dass der Schwarzwald nicht nur eine durch düstere Wälder, hohe Berge, schäumende Wasserfälle, idyllische Täler geprägte Region im Südwesten Baden-Württembergs ist, sondern auch ein Gebiet mit zahlreichen, märchenhaften Traditionen, zu denen die Herstellung der berühmten Kuckucksuhren zählt. Der weltweiten Massenfertigung zum Trotz werden sie dort von den Uhrmachern noch immer handwerklich hergestellt. Anlass für diesen Beitrag ist die Erstellung eines deutsch-italienischen Glossars, das die Haupttypen und die wichtigsten Teile der traditionellen Schwarzwälder Kuckucksuhren zusammenfassen soll. Dieses wird zu einem späteren Zeitpunkt als Ganzes veröffentlicht werden. Im Beitrag selbst wird der historische Kontext vorgestellt, in dem die Schwarzwälder Kuckucksuhren und die mit ihnen verbundene Terminologie entstanden.2 Ferner wird am Beispiel des Terminus „Schlossscheibe“ in die Methodik eingeführt, die bei der Erstellung des Glossars verwendet wurde, sowie die Problematik der Äquivalenz erörtert. Auslöser für mein Interesse an der Terminologie zu den Schwarzwälder Kuckucksuhren war die Begegnung mit einem jungen Uhrmacher. Während eines Aufenthalts in Deutschland besichtigte ich nämlich in Schonach die weltgrößte Kuckucksuhr, die in den drei Jahren von 1977 bis 1980 vom Uhrmacher Josef Dold in Form eines Häuschens gefertigt wurde (Abbildung 1). An der Tür begrüßte Jürgen Dold, Sohn des Uhrmachers, die Touristen und erklärte ihnen die Funktionsweise der von seinem Vater gebauten Kuckucksuhr. Nach einem Gespräch mit ihm erfuhr ich von den Schwierigkeiten, auf welche die deutschen Uhrmacher stoßen, wenn sie die italienischen Äquivalente für die deutschen Benennungen der Bauteile der Kuckucksuhren suchen. Das Problem besteht insbesondere darin, dass in den Sprachen Deutsch und Italienisch kein Glossar über die Terminologie der Grundbegriffe der

1 Mangold (2007). 2 Zugrunde gelegt wurden dabei vor allem Graf (2007) und Kahlert (2007).

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Schwarzwälder Kuckucksuhren vorhanden ist. Deshalb ist das Ziel des vorliegenden Beitrags, sowohl den Zugriff auf die relevanten Begriffe und deren entsprechende deutsche und italienische Benennungen als auch eine schnelle Einarbeitung in das gesamte Fach zu ermöglichen. Als Zielgruppe ist sowohl an deutsche als auch italienische Uhrmacher gedacht, an Übersetzer, die z.B. die vielfältige deutsche Fachliteratur ins Italienische übersetzen sollen, sowie an interessierte Laien, die sich einen Überblick über die deutsche und italienische Terminologie der Schwarzwälder Kuckucksuhren verschaffen möchten.

Abbildung 1: Die weltgrößte Kuckucksuhr in Schonach

1.2. Die Schwarzwälder Kuckucksuhren zwischen Klischees und Aberglauben

1.2.1. Die Uhrmacherei im Schwarzwald

Wenn es um Kuckucksuhren geht, sind viele davon überzeugt, dass sie in der Schweiz erfunden wurden. Das ist eine verbreitete, und dennoch falsche Vorstellung, weil Kuckucksuhren zwar sowohl in der Eidgenossenschaft als auch in anderen Ländern heutzutage verkauft werden, sie aber im süddeutschen Schwarzwald zum ersten Mal erschienen. Das Klischee der mit einem Vogelautomaten in Form eines Kuckucks ausgestatteten Uhr als schweizer Erfindung wurde wahrscheinlich schon durch den 1880 erschienenen Roman A Tramp Abroad verbreitet, in dem der amerikanische Schriftsteller Mark Twain die schweizer Stadt Luzern als die Heimat der Kuckucksuhr erwähnte. In Wirklichkeit wurden die Kuckucksuhren aus den früheren Schwarzwälder Uhren entwickelt, weil die Uhrmacherei im Schwarzwald eine lange Tradition hat. Die ersten Uhren waren aus Holz und hatten einen an einer Schnur aufgehängten glatten Stein als Antrieb. Meistens waren sie mit Glasglocken ausgestattet, die die Stunden anzeigten, und ihre Laufdauer betrug höchstens 12 Stunden. Umstritten bleibt aber, wann die ersten Schwarzwalduhren gefertigt wurden und ob eine einfache Eisenuhr in Holz nachgebaut oder eine auswärtige Holzuhr als Vorbild verwendet wurde. Trotzdem war bereits das 18. Jahrhundert von großer Bedeutung für die Herstellung der Schwarzwälder Uhren, insbesondere der Holzuhren, weil sich die Holzuhrmacherei in dieser Zeit zwar in einigen Kantonen der Schweiz, in verschiedenen Gegenden Österreichs sowie in Franken, Böhmen und in der Lausitz nachweisen lässt, aber

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nur im Schwarzwald hölzerne Uhren in großen Stückzahlen für überregionale Märkte gefertigt wurden. Kennzeichnend für die Epoche vor 1850 war die hausgewerbliche Produktion in kleinen Werkstätten im Wohnhaus, meist in der Wohnstube. Dieser Sachverhalt führte zur Entstehung einiger Legenden, darunter die Geschichte der Schwarzwälder Uhrmacher, die im Sommer ihre im Winter selbst gefertigten Uhren in der Umgebung vertrieben. Wegen der schnell wachsenden Uhrenproduktion des Schwarzwaldes und wegen des florierenden Handels mit Schwarzwalduhren fast in aller Welt trennten sich Produktion und Verkauf schon frühzeitig. Daraus entwickelte sich die Figur des Uhrenhändlers, auch Uhrenträger genannt (Abbildung 2), der Uhrwerke, abgenommene Schilder sowie das übrige Zubehör und Werkzeug auf einen hölzernen Rucksack, die sogenannte „Krätze" (Abbildung 3), stapelte und sie dann nicht nur in angrenzenden Dörfern und Städten, sondern in der ganzen Welt verkaufte. Eine solche weltweite Verbreitung des Verkaufs und des Rufs der Schwarzwälder Uhren wird auch durch Kirchenbücher belegt, wo sich viele kurze Notizen über den Tod von Schwarzwälder Uhrenhändlern in England und Polen, in Ungarn und Frankreich, in Russland und Spanien befinden. Darüber hinaus weist eine amtliche Erhebung von 1842 diese ambulanten Händler in vier Weltteilen und in 23 europäischen Ländern nach.

Der wachsende Geschäftsumfang führte zu Transportproblemen; außerdem benötigten die auswärtigen Händler ein breites Sortiment verschiedenartiger Uhren, aber das Problem bestand darin, dass sich die Uhrmacher häufig auf bestimmte Sorten spezialisierten. So bekamen Großhändler, im Volksmund „Packer“ genannt, eine neue Aufgabe: Sie sollten bei verschiedenen Uhrmachern kaufen, die Sendungen zusammenstellen, sie in große Kisten verpacken und ins Ausland versenden. Dieser rasche Wachstum ging bis Mitte der 40er Jahre des 19. Jahrhunderts weiter. Danach geriet die Schwarzwälder Uhrmacherei in eine Krise. Um sie zu überwinden, wurde 1850 die Großherzoglich Badische Uhrmacherschule in Furtwangen gegründet, deren Zweck die Entwicklung neuer Uhrentypen, das Heranführen der Uhrmacher an den anderenorts erreichten Stand der Technologie sowie die Modernisierung des Äußeren der Schwarzwalduhren war. Obwohl die meisten Uhrmacher nicht bereit waren, ihre herkömmliche Produktionsweise zu ändern, war der Übergang zu fabrikmäßigen

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Verfahren bei der Bestandteilefertigung die Hauptvoraussetzung für ihr Überleben. Daher nahm die Zahl der Schwarzwälder Uhrenfabriken zu, die, wie früher die hausgewerblichen Uhrmacher, nun weite Teile der Welt mit den berühmten Schwarzwalduhren versorgten.

1.2.2. Vom Holz- zum Metallwerk

Die Uhren, die man heute als typische Schwarzwalduhren betrachtet, bestehen aus einem mit Blumen bemalten Bogenschild, hinter dem das Uhrwerk mit Geh- und Schlagwerk liegt, angetrieben von zwei an einer Schnur oder Kette aufgehängten Gewichten. Obwohl das Gehäuse, d.h. das Äußere, von Kuckucksuhren eine besondere Entwicklung erlebte, war der Veränderungsprozess des Uhrwerks dieser Uhren im Laufe der Jahrhunderte derselbe wie bei allen anderen Schwarzwälder Uhren. Am Anfang wurden für das Uhrwerk nur zwei Materialien benötigt: Holz und Eisendraht. Hölzerne Radachsen, auch Radwellen genannt, liefen in hölzernen Platinen. Daraus leitete sich der Begriff „holzgespindelt“ ab. An einem Ende erhielt die Holzspindel ein schon frühzeitig bei Schwarzwalduhren verwendetes Laternentrieb, d.h. ein Trieb aus kreisförmig angeordneten Drahtstiften, deren Begrenzung ein rundes Holzscheibchen bildete. In die Drahtstifte griff das nächste Rad des Uhrwerks ein, und darüber wurde die Kraft übertragen. „Holzgespindelt“ bedeutete also, dass die Drahtstifte des Triebs in vorgebohrten Löchern im Holz steckten. In der zweiten Hälfte des 18. Jahrhunderts wurden nach und nach hölzerne Bestandteile durch metallene Bauteile ersetzt. Nicht nur das Steigrad, in das die Hemmung eingreift und das daher stark beansprucht ist, wurde aus Messing gefertigt, sondern auch die anderen Zahnräder. Deshalb verbreitete sich damals auch der Begriff „messinggespindelt“, der auf Räder mit stählernen Achsen hinwies, auf denen die Drahtstifte des Laternentriebs zwischen zwei Messingscheiben steckten. Obwohl nach 1840 hölzerne Zahnräder relativ selten wurden, kann die Annahme, dass holzgespindelte Uhren älter als messinggespindelte sind, nicht als sicher gelten: Ebenso wie es schon in den ersten Jahrzehnten des 19. Jahrhunderts messinggespindelte Schwarzwalduhren gab, so wurden auch noch nach 1860 Messingräder auf Holzachsen hergestellt.

1.2.3. Die umstrittene Geschichte der Kuckucksuhr

Wie oben bereits erwähnt, tauchten in letzter Zeit Zweifel am Schwarzwälder Erfindungsmonopol auf Holzuhren auf. Das hat besonders die weltweit als Inbegriff der typischen Schwarzwalduhr betrachtete Kuckucksuhr betroffen. Die Frage, wann und von wem die berühmteste und beliebteste Schwarzwälder Uhrensorte erfunden wurde, bleibt nämlich noch offen, da sich sogar die Einschätzungen der zwei wichtigsten Frühchronisten der Schwarzwalduhren, Pater Franz Steyrer und Pfarrer Markus Fidelis Jäck, in diesem Punkt widersprechen. Steyrers Geschichte der Schwarzwälder Uhrmacherkunst vom Jahr 1796 ist zu entnehmen, dass die Kuckucksuhr keine Erfindung des Schwarzwaldes sei, da die Einführung der

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Kuckucksuhrenherstellung dadurch erfolgt sein soll, dass die Schwarzwälder Uhrenhändler Joseph Ganter und Joseph Kammerer um das Jahr 1742 einen böhmischen Handelsmann, der hölzerne Kuckucksuhren verkaufte, auf ihrer Handelsreise trafen. Diese Neuheit soll die beiden so sehr begeistert haben, dass sie sie nach ihrer Rückkehr den Uhrmachern Michael Dilger und Matthäus Hummel darstellten, welche somit begannen, die gleichen Kuckucksuhren nachzumachen. Diese für die Schwarzwälder Uhrmacherei unbequeme Theorie wurde 1826 durch Jäck in seinem Tryberg verworfen; in dieser Schrift wird nämlich die Erfindung der Kuckucksuhr dem Schwarzwälder Franz Anton Ketterer aus Schönwald zugeschrieben, der anfangs der 1730er Jahre eine Uhr mit einem sich bewegenden Vogel verfertigte, welcher mit seinem Kuckuck-Ruf die Stunde verkündete. Darüber hinaus darf nicht ausgeschlossen werden, dass die ersten hölzernen Kuckucksuhren, ebenso wie die Holzuhren, nach dem Vorbild von frühen Metalluhren hergestellt wurden. Das könnte eine um das 17. Jahrhundert datierbare von Wilhelm Schneider3 beschriebene eiserne Kuckucksuhr beweisen. Trotz der oben erwähnten Unbestimmtheit über den Ursprung lässt sich die Erfolgsgeschichte der Kuckucksuhr in die drei Jahrhundertschritte 1650, 1750 und 1850 einteilen.4 Einigen Quellen ist zu entnehmen, dass der Mechanismus für den Kuckucksvogel im Laufe des 17. Jahrhunderts bereits bekannt war: Der Gelehrte Athanasius Kircher beschreibt in seinem Handbuch zur Musik Musurgia Universalis von 1650 eine mechanische Orgel mit verschiedenen Figurenautomaten, darunter auch einen mechanischen Kuckuck. Einige Jahre später schlug der italienische Architekt Domenico Martinelli vor, den Kuckucksruf für die Anzeige der Stunden zu verwenden. Spätestens ab diesem Zeitpunkt breitete sich die Herstellung der Kuckucksuhr bis in den Schwarzwald aus, wo die Uhr schnell heimisch wurde. Darauf weist insbesondere die Bemerkung des Präfekten des Vatikanischen Archivs, Grafen Giuseppe Garampi, hin: Während einer Reise durch Südwestdeutschland fiel ihm 1762 auf, dass die Holzuhren in jener Gegend in sehr großen Mengen hergestellt wurden und dass man sie erst Mitte des 18. Jahrhunderts vervollkommnet und damit begonnen hatte, sie mit dem Ruf des Kuckucks auszustatten. Es war aber während des 19. Jahrhunderts, in dem sich die Kuckucksuhr im Schwarzwald am stärksten entwickelte. Diese Entwicklung betraf nicht die Konstruktion und das Funktionsprinzip der Uhr, sondern hauptsächlich ihr Aussehen, das sich entsprechend den wandelnden Gehäuseformen der Schwarzwälder Holzuhren änderte.

1.2.4. Die Entwicklung der Gehäuseform der Schwarzwälder Kuckucksuhr

Kuckucksuhren unterscheiden sich von allen anderen Uhrentypen insbesondere wegen ihres Uhrwerks. Entscheidend ist bei solchen Uhren der zu bestimmten Zeitpunkten automatisch ausgelöste Kuckucksruf, der ertönt, wenn die über zwei Pfeifen liegenden und mit diesen verbundenen Blasebälge durch Drähte angehoben werden, sich mit Luft füllen und dann kurz nacheinander durch ihr Eigengewicht wieder zurückfallen. Erwartet wird außerdem, dass sich

3 Vgl. Schneider (1989). 4 Vgl. Graf (2007).

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der Automatenvogel synchron zum Ruf bewegt. Im Laufe der Jahrhunderte sind einige Änderungen aufgetreten, vor allem was das Aussehen des Kuckucks und die Anordnung der Pfeifen und des Geh- und Schlagwerks betrifft: Bei frühen Schwarzwälder Kuckucksuhren war der Vogel ziemlich groß und besaß noch keine beweglichen Flügel, wenn auch bei den mit besonderer Sorgfalt hergestellten Uhren gelegentlich natürliches Gefieder. Darüber hinaus wurde damals der Kuckucksruf nur selten allein zur Stunden- und Halb- oder Viertelstundenangabe verwendet, öfter wurde er durch Schlag auf eine Glas- oder Metallglocke und später auf eine Tonfeder, d.h. einen spiralförmig gebogenen Stahldraht, begleitet. Hinsichtlich der Anordnung von Geh- und Schlagwerk waren diese am Anfang hintereinander gelagert, wobei das Gehwerk stets vorne lag. Daher hieß das Werk solcher Kuckucksuhren „eckig“, während die später entwickelten Uhrwerke mit nebeneinander gelagerten Geh- und Schlagwerk „breit“ genannt wurden. Von hinten gesehen lag in diesem Fall das Gehwerk auf der rechten und das Schlagwerk auf der linken Seite und damit wurde die Stabilität der gesamten Uhr erhöht, da sich nun die Antriebsgewichte und das Schild näher an der Wand befanden. Auch die Pfeifen befanden sich damals nicht in der üblichen senkrechten Anordnung rechts und links des Uhrwerks, sondern sie lagen waagerecht über dem Werkdach. In Bezug auf die äußere Gestalt der Kuckucksuhren kann man verschiedene Phasen feststellen. Die vor 1780/90 hergestellten Uhren können als eine Gruppe behandelt werden; in diesem Fall handelt es sich um sehr individuelle Ausführungen, die zu einer eher experimentellen Phase gehören, bei denen aber ein gemeinsames Element zu erkennen ist, d.h. das Schild, das aus einem mit unterschiedlichen Dekorationen verzierten Holzbrett besteht und vor dem Uhrwerk liegt. Das erste richtig verbindliche Design für die Schwarzwälder Kuckucksuhr kam ab 1780/90 mit der Entwicklung der lange als Schwarzwalduhr schlechthin betrachteten und bis zur Mitte des 19. Jahrhunderts dominierenden Lackschilduhr auf. Dieser Uhrentyp war durch ein nahezu quadratisches Brett für das Zifferblatt und einen aufgesetzten Halbbogen, der mit den Zwickeln die Dekoration trug, gekennzeichnet. Der Erfolg der Lackschilduhr beruhte jedoch nicht auf der Form ihres Schildes, sondern auf ihrer Dekoration. Dabei wurde das Holzbrett normalerweise mit einer Bleiweißgrundierung versehen, auf die dann mit kräftigen Farben gemalt wurde. Anschließend wurde das Schild lackiert. Die am häufigsten dargestellten Dekorationselemente auf Lackschilduhren waren Blumen und später Säulen, die den Ziffernring flankierten und als Stütze für den Halbbogen gesehen werden konnten. Bei Lackschild-Kuckucksuhren befand sich der Kuckuck im Bogen, mitten in der Dekoration, und sein Türchen war oft Teil des Bildes. Kuckucksuhren mit Lackschildern wurden aber höchstwahrscheinlich wegen ihres hohen Preises nur in kleinen Mengen produziert. Der Siegeszug der Schwarzwälder Kuckucksuhr begann erst Mitte des 19. Jahrhunderts, als neue Gehäuseformen entworfen und geschnitzte Kuckucksuhren in massenhafter industrieller Fertigung hergestellt wurden. Parallel entwickelten sich drei Grundformen: Rahmen-Kuckucksuhren, Biedermeier-Kuckucksuhren und vor allem Kuckucksuhren in Bahnhäusle-Gehäusen, die innerhalb weniger Jahre die anderen Formen vom Markt verdrängten und als Souvenir beliebt wurden.

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Im 19. Jahrhundert erlebte die Schwarzwälder Uhrmacherei eine starke Krise, auf die der Direktor der Großherzoglich Badischen Uhrmacherschule dadurch reagierte, dass er die „vaterländischen Künstler und Kunstfreunde“ im September 1850 zu einem Wettbewerb für ein zeitgemäßes Uhrendesign aufrief, das die als bäurisch und altmodisch geltenden Lackschilduhren ersetzen konnte. Daran nahm auch der Karlsruher Architekturprofessor und Baurat Friedrich Eisenlohr (1805-1854) teil. Da er damals für die Planung der Hochbauten der badischen Staatsbahn verantwortlich war, ließ er sich für seinen Entwurf von der besonderen Gestalt der Bahnwärterhäuschen der Rheinlinie (Abbildung 4) inspirieren und zeichnete eine Gehäuseform, die aus einem quadratischen oder rechteckigen Korpus mit einem stumpfwinkligen, gleichschenkligen Dreieck als Dach bestand, im Gegensatz zu heutigen Kuckucksuhren aus hellem Holz war und mit schlichten, flachen, symmetrisch angeordneten Weinlaubornamenten verziert war (Abbildung 5). Den Kuckuck mit seinem Türchen setzte Eisenlohr in den Giebel des Häuschens. Bald danach, gegen 1860, entfernte sich das Bahnhäusle5 von dieser ursprünglich strengen Form und entwickelte sich zu dem heutzutage bekannten Gehäuse mit plastischer Schnitzerei, deren Motive aus dem Wald, aus Flora und Fauna stammen und am häufigsten Tierfiguren wie Hirschköpfe, Eichhörnchen, Auerhähne, Schwalben, Adler, Gämsen oder Hühner darstellen. Unter den geschnitzten Motiven aus der Pflanzenwelt war Weinlaub am beliebtesten, aber auch Eichenblätter, Tannenzweige und Edelweißsterne waren vertreten.

Abbildung 4: Entwurf Friedrich Eisenlohrs für Bahnwärterhäuschen. Landesmuseum für Technik und Arbeit, Mannheim

5 Laut Helmut Kahlert (vgl. Kahlert 2002) wurde das Wort „Häusle“ statt „Häuschen“ vom badischen Kulturhistoriker Adolf Kistner in die Fachsprache eingeführt. In seiner Schrift Die Schwarzwälder Uhr aus dem Jahr 1927 verwendete er die Benennung „Bahnhäusle“ allerdings nur, um sich auf die von Eisenlohr entworfene neue Gehäuseform der Kuckucksuhren zu beziehen (siehe Kistner 1927, 130).

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Abbildung 5: Entwurf Friedrich Eisenlohrs für die erste Bahnhäusleuhr

Außerdem entstanden zu dieser Zeit zahlreiche Bahnhäusleuhren, die neben dem Kuckuck mit zusätzlichen Automaten ausgestattet waren. Großen Bekanntheitsgrad hatte die Kuckuck-Wachtel-Uhr (Abbildung 6), bei der drei Uhrwerke in einer rechteckigen Platinenanordnung nebeneinander gestellt wurden: in der Mitte das Gehwerk, rechts das Schlagwerk zur Steuerung des Wachtelrufs und links das Schlagwerk zur Steuerung des Kuckucksrufs. Während der Kuckuck üblicherweise die Stunden ausrief, schlug die Wachtel die Viertelstunden durch eine einzelne Pfeife. Beide Vogelfiguren wurden auf zwei getrennten Metallbügeln zu zwei separaten Türen geführt, bewegten Flügel und Schnabel und wippten mit der Bewegung der Blasebälge.

Abbildung 6: Kuckuck-Wachtel-Uhr

Bei Bahnhäusle-Kuckucksuhren mit Echo (Abbildungen 7 und 8) hingegen traten zwei Kuckucksvögel zwar durch zwei verschiedene Türchen hervor, wurden aber auf denselben Metallbügel gesetzt und von demselben Schlagwerk gesteuert, damit der zweite Kuckuck mit zwei kürzeren Pfeifen nach dem ersten den Echoruf ausführte.

Abbildung 7: Gehäuse einer Bahnhäusle-Kuckucksuhr mit Echo

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Abbildung 8: Werk zur Uhr der Abbildung 7

Im Laufe des Jahrhunderts wurden neben dem Kuckuck auch andere Automaten zur Stundenanzeige eingesetzt, darunter Soldaten oder Tiroler in den sogenannten Trompeteruhren (Abbildung 9), bei denen sich aus anfänglich nur zwei unterschiedlichen Tonhöhen schließlich ganze Melodien mit fünf und mehr Pfeifen und mehreren spielenden Figuren entwickelten.

Später wurden auch Tischuhren mit Kuckuck hergestellt, die wegen ihrer Form nicht mit Gewicht-, sondern mit Federaufzug ausgestattet waren. Es war schließlich Johann Baptist Beha, der 1862 damit begann, Bahnhäusle-Kuckucksuhren mit geschnitzten Zeigern und Gewichten in Form von Tannenzapfen herzustellen, womit noch heute der Tourismus im Schwarzwald gezielt wirbt.

1.2.5. Der Kuckuck: Ein umstrittener Vogel

Es ist noch nicht bekannt, warum genau der Kuckuck als Hauptautomat für die betrachtete Uhrenart ausgewählt wurde; sicher ist aber, dass es sein auffälliges, einfach nachzuahmendes

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Rufen und seine eigenartigen Verhaltensweisen waren, die die Menschen auf ihn aufmerksam machten und zur Entstehung von Geschichten voller Aberglauben führten. Der Kuckuck ist ein besonderer Vogel, weil viele Arten Beispiele für Brutschmarotzertum zeigen. Das Kuckucksweibchen legt jeweils ein Ei ins Nest einer anderen Vogelart und wirft ein darin liegendes Ei hinaus, damit die unfreiwilligen Wirtsvögel das Brüten seines Eies übernehmen. Aus dieser Eigenschaft entwickelte sich die Benennung „Kuckucksmutter“, die verwendet wird, um eine schlecht sorgende Mutter zu bezeichnen. Weitere Sprüche stützen sich auf die Verhaltensweise des jungen Kuckucks, der noch nackt und blind instinktiv das Nest zu leeren beginnt, indem er die anderen Eier und Jungvögel hinausschiebt. Besonders aus der Vorstellung, wonach er, groß und flügge geworden, seine Ziehmutter auffrisst oder zu Tode beißt, entwickelte sich die Redensart „undankbar wie ein Kuckuck“ und wahrscheinlich auch die Idee seiner Beziehung zum Teufel. Weltweit verbreitet sind auch Sprüche, die den Kuckuck wegen seiner Unfähigkeit oder Faulheit, ein eigenes Nest zu bauen, als den dümmsten Vogel schlechthin darstellen; deswegen sang man von Napoleon nach seinem Sturz: „Da haben die Russen den Adler verjagt / Und haben aus ihm einen Kuckuck gemacht“. Von großer Bedeutung bezüglich der Funktion des Kuckucksautomaten in den Kuckucksuhren sind besonders die im Handwörterbuch des deutschen Aberglaubens in großer Anzahl zu findenden Vorstellungen über die Bedeutung des Rufens dieses Vogels, das für die Zukunft vorbedeutend sei. Insbesondere könne die Zahl der Kuckucksrufe die Zahl der Lebensjahre verkünden, so wie es in einer Geschichte erzählt wird, wonach sich eine todkranke alte Frau geweigert habe, zu sterben, weil der Kuckuck ihr noch fünf Lebensjahre angekündigt habe. Außerdem könnten Mädchen ihren Heiratstermin aus der Zahl der Kuckucksrufe herausfinden und bei vielen Wiederholungen sollten sie Monate statt Jahre zählen. Darüber hinaus seien sowohl der Anfangsbuchstabe des Namens des zukünftigen Ehepartners als auch die Zahl der zu erwartenden Kinder daraus zu entnehmen. Abschließend kann man feststellen, dass auch der Volksglaube dazu beigetragen hat, dass der Kuckuck als Hauptautomat der Kuckucksuhr ausgewählt wurde. Dessen Aufgabe ist es, die Stunden oder, so wie es von Adolf Kistner ausgedrückt wurde, „wieviel vom Tage übrig ist“ anzukünden.6

2. Beispiel für den terminologischen Eintrag

Zur Verdeutlichung des systematischen Aufbaus des geplanten Glossars wird im Folgenden der terminologisch Eintrag „Schlossscheibe“ vorgestellt.

6 Vgl. Kistner (1927), 40.

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Eintrag Schlossscheibe Termine chaperon

Grammatische

Angaben:

S., f., s. (-n) Categoria

grammaticale:

s., m., sing.

Definition Rad des Schlossscheiben-Schlagwerks, das innerhalb des Zahnkranzes eine Art Reif hat, der in verschieden lange und konstant wachsende Segmente eingeteilt ist, die den verschieden langen Stundenschlägen genau entsprechen. In Ruhestellung liegt einer der beiden Sperrhebel (Fallen) in einer der Aussparungen zwischen diesen Segmenten. Werden die Fallen nun vom Zeigerwerk aus angehoben, kann sich die Schlossscheibe synchron zum Räderlauf des Schlagwerks in Bewegung setzen. Das Schlagwerk läuft – oder die Uhr schlägt – so lange, wie das Reifsegment den Sperrhebel angehoben hält bzw. bis dieser wieder in die nächste Lücke „fallen“ kann.

Definizione Grande ruota mossa dal ruotismo della suoneria che compie la propria rotazione in 12 ore esattamente. Il contorno di questa ruota è provvisto di 78 divisioni e presenta dei profondi intagli a distanze successive di 1. 2. 3… fino a 12 divisioni. La profondità degli intagli su tale ruota è sufficiente perché i punti di arresto siano abbastanza allonta- nati da permettere alla ruota delle caviglie di dare i colpi voluti. Quando è stato battuto il numero di colpi voluto, l’estremo della leva di arresto ricade in un nuovo intaglio.

Quelle vgl. Schaaf 1995, S. 26 Fonte cfr. Garuffa 1931, pp. 303, 304

Kontext Der Name (Schlossscheiben-

Schlagwerk) kommt von einem besonderen Rad, der Schlossscheibe, auf der Reihenfolge und Anzahl der Schläge in Form von

Contesto La ruota chaperon è un vero quadrante orario e se le ore fossero segnate presso gli intagli, il numero indicato nella parte superiore di essi

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Erhebungen und Einschnitten gespeichert sind. Die Einschnitte, in die der Hebel einfällt, wenn der Schlagvorgang beendet werden soll, liegen zwischen 1 und 2 Uhr recht nahe beieinander, zwischen 11 und 12 Uhr hingegen sind sie weit voneinander entfernt angeordnet.

corrisponde- rebbe sempre al numero di ore che l’orologio ha suonato.

Quelle Kahlert 2007, S. 57 Fonte Garuffa 1931, p. 304

Sinonimo ruota partitoria

• Schlossscheibe – chaperon Die deutsche sowie die italienische Benennung weisen auf das charakteristischste Rad des Schlossscheiben-Schlagwerks hin, welches durch seine Erhebungen und Einschnitte die Anzahl der Schläge bestimmt. Bezüglich der italienischen Benennung „chaperon“ wird die Aussage von Eberhard Tanke bestätigt, nach der häufig neue Fachwörter auch aus fremden Ursprüngen mit oft kuriosen Interpretationsverzerrungen geprägt werden.7 „Chaperon“ ist nämlich ein französisches Wort, das ursprünglich u.a. einen ehrbaren älteren Mann bezeichnete, der in der Vergangenheit ein Mädchen bzw. eine junge Frau beim Spazierengehen begleitete und auf sie aufpasste. In der französischen Sprache wurde dann das Wort terminologisiert und dazu verwendet, die Schlossscheibe des Schlagwerks herkömmlicher Kuckucksuhren zu bezeichnen. Das bestätigen Thierry Lantz, französischer Uhrmacher und Besitzer eines Uhrengeschäfts in Sulz unterm Wald, und Pierre Osouf, Fachmann des insbesondere Pendeluhren vertreibenden Geschäfts „La Maison de la Pendule“ im Norden Frankreichs. Man kann also vermuten, dass sich die italienische Benennung daraus ableitete, dass das damit bezeichnete Rad – fast wie die Figur des Chaperon – den Schlagwerkmechanismus „überwacht“ und dafür sorgt, dass die richtige Anzahl von Stundenschlägen ausgeführt wird. Während diese Assoziation die Funktion des betreffenden Rads erklärt, kann dagegen ein Hinweis auf seine Form, und insbesondere auf die Form des ganzen Schlossscheiben-Schlagwerks, in einer weiteren Definition von „Chaperon“ als eine runde Kappe mit einem hängenden Stoffstreifen, die im Mittelalter von Frauen und Männern getragen wurde, gefunden und durch die folgenden Abbildungen veranschaulicht werden.

7 Vgl. Graham (1995), 103.

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Porträt von Philipp dem Guten, der den Chaperon trägt

(Rogier van der Weyden, ca. 1450)

Schlossscheiben-Schlagwerk bzw. „suoneria a chaperon“

Trotz der umstrittenen Etymologie wurde die Benennung „chaperon“ dem synonymen Terminus „ruota partitoria“ vorgezogen, weil sie von einigen Dozenten für Uhrmacherei, darunter Enrico Mazzola des C.A.P.A.C. in Mailand, als die technisch korrekteste sprachliche Bezeichnung zum betreffenden Begriff bestätigt wurde und weil sie bei den Fachleuten nicht so umstritten ist wie ihr durchaus geläufiges und daher im vorliegenden Glossar auch terminologisch analysiertes Synonym, das bei den Fachleuten und in der Fachliteratur noch die Varianten „ruota partiora“, „ruota spartiore“8 sowie „ruota spartitore“ aufweist.

3. Schwierigkeiten bei der Ermittlung der Äquivalenz

Anhand des für mehrsprachige Terminologiearbeiten zentralen Begriffs von Äquivalenz werden an dieser Stelle die größten Schwierigkeiten zusammengefasst, auf die ich bei

8 Siehe z. B. Pozzoli (1957), 45.

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Erstellung des Glossars gestoßen bin. Erörtert werden dabei auch die wichtigsten bei der Erarbeitung der einzelnen Einträge vorgenommenen Ausschließungen. Äquivalenz bezieht sich auf verschiedensprachliche Benennungen, die denselben Begriff bezeichnen. In diesem Zusammenhang erweist sich daher ein interlingualer Vergleich als unentbehrlich, damit man nicht zu Fehlschlüssen kommt. Anhand eines Beispiels wird im Folgenden zu zeigen versucht, dass der Vergleich zwischen den Definitionen von vermeintlich äquivalenten Benennungen den absoluten Vorrang bei der Ermittlung der Äquivalenz haben muss, weil falsch zugeordnete Benennungen dadurch erkennbar werden. Das war der Fall bei dem nach sorgfältigen Überprüfungen gestrichenen terminologischen Eintrag „Kettenrad – tamburo“. Aus dem Vergleich zwischen den Definitionen der deutschen und der italienischen Benennung ergab sich ein hoher Äquivalenzgrad bezüglich der Funktion, weil jeweils eine Kette oder ein Seil über beide Räder geführt werden. Allerdings wiesen die Strukturen nach einem Gespräch mit einigen Experten und nach weiteren Untersuchungen einen wesentlichen Unterschied auf: Während das Kettenrad exakt zu den Gliedern einer Kette passt, die über das Rad läuft, stellt die italienische Benennung ein ausgekerbtes Rad dar, das keine Kette führt, sondern ein Seil, das in den eingeschnittenen Kerben einliegt und auf das Rad gewickelt bzw. abgewickelt wird.9 Man stellt dabei fest, dass man nur durch eine sorgfältige Überprüfung der angegebenen Definitionen eine falsche Zuordnung vermeiden kann. Der betrachtete Eintrag wurde schließlich gestrichen, weil keine Angaben zu einer im Italienischen äquivalenten Benennung von „Kettenrad“ vorhanden waren. Im Allgemeinen trat das Äquivalenzproblem bei fast allen terminologischen Einträgen auf, insbesondere weil nur wenige sich unmittelbar mit dem Sachgebiet befassende Quellen auf Italienisch vorhanden sind und weil sich die übrigen verfügbaren italienischen Quellen auf die übergeordneten Begriffe von mechanischen Uhren und Pendeluhren beziehen und daher, im Gegensatz zu den deutschen Primärquellen, Sekundärquellen sind. Dazu werden beispielsweise – wie die Experten bestätigten – die verschiedenen Räder von Kuckucksuhren in der italienischen Sprache manchmal einfach als „erstes Rad“, „zweites Rad“ usw. benannt. Das erwähnte Äquivalenzproblem wurde besonders im Eintrag zum Gehwerk erkennbar: Der deutschen Benennung wurde zuerst der italienische Terminus „movimento“ zugeordnet; allerdings wurde dieser später durch die Benennung „treno del tempo“ ersetzt, nachdem Fachleute zurate gezogen worden waren und sie auf das gebräuchliche, für Kuckucksuhren wesentliche Paar „treno del tempo“ und „suoneria“ bzw. „treno della suoneria“ hingewiesen hatten. Derselbe Grund liegt bei der Ersetzung des am Anfang als Vorzugsbenennung gewählten italienischen Diminutivs „catenella“ durch den geläufigeren Terminus „catena“ im terminologischen Eintrag zur deutschen Benennung „Kette“ vor.

9 Vgl. dazu Garuffa (1931), 27 f.

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Bibliographie

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Martina Cristofori

DIE KÖRPERSPRACHE IN DER INTERKULTURELLEN KOMMUNIKATION. EIN ÜBERBLICK ÜBER DIE ITALIENISCHE UND DEUTSCHE GESTIK

1. Einleitung

„Der Körper ist der Handschuh der Seele, seine Sprache das Wort des Herzens.“1 So lautet eine der berühmtesten Aussagen über die menschliche Körpersprache. Das Zitat stammt nicht, wie man zuerst glauben könnte, von einem Linguisten, sondern von dem österreichischen Pantomimen Samy Molcho. In seinem Buch Körpersprache betrachtet er die Körpersprache als eine Art zu kommunizieren, die der Mensch erlernen und stets verbessern kann.2 Molchos Buch deutet an, wie weit die Studien zur Körpersprache und im weiteren Sinn auch der nonverbalen Kommunikation gefächert sind. Sie umfassen zahlreiche Disziplinen, welche seit der Zeit des antiken Roms danach streben, diese höchstkomplizierte menschliche Äußerung zu deuten. Der vorliegende Beitrag gliedert sich wie folgt: Eine kurze Einführung in die nonverbale Kommunikation ist notwendig, um die Körpersprache bzw. die Gestik im Besonderen in einen allgemeinen Kontext zu stellen. Danach wird die Gestik näher betrachtet: Die verschiedenen Theorien und Beispiele werden analysiert, besonders mit Rücksicht auf einen interkulturellen Vergleich zwischen Italien und Deutschland.

2. Die nonverbale Kommunikation

If language is the key to the core of a culture, nonverbal communication is indeed the heart of each culture.3

Mit dieser Aussage klärt Stella Ting-Toomey – Professorin für Menschliche Kommunikation an der California State University – die außerordentliche Wichtigkeit des Nonverbalen in der zwischenmenschlichen Kommunikation bzw. Interaktion. Wenn sie äußert, die nonverbale

1 nach: http://www.saarland.ihk.de/ihk/down/koerpersprache.pdf (8.2.12). 2 Molcho (1994). 3 Ting-Toomey (1999), 120.

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Kommunikation sei das Herz jeder Kultur, meint sie, dass die Körpersprache die Grundlagen des „kulturellen Seins des Menschen“ prägt. Die Gesamtheit kommunikativer Verhaltensweisen, die außerhalb der Sprache vorkommen, wird als „nonverbale Kommunikation“ oder „nichtverbale Kommunikation“ bezeichnet. Manche Forscher verwenden lieber die Bezeichnung „Körpersprache“, die „jedoch nur einen Teil des nichtverbalen Bereichs abdeckt.“4 Im Folgenden wird auf die Körpersprache verwiesen werden, wenn von einem bestimmten Bereich der nonverbalen Kommunikation die Rede ist. Sonst wird im Allgemeinen von nonverbaler Kommunikation gesprochen.

2.1. Die Bedeutung der nonverbalen Kommunikation

Im Laufe der Zeit wurden zahlreiche Definitionen dessen gegeben, was man mit dem Begriff „nonverbale Kommunikation“ meint. Die Linguisten und Semiotiker sind einmütig der Auffassung, dass das Nonverbale ein wichtiges Instrument der Bedeutungsvermittlung in der zwischenmenschlichen Kommunikation darstellt: Ohne es wäre die Interaktion im Grunde unvollständig. Das wird durch mehrere Untersuchungen bestätigt. Schon 1955 berichtet Birdwhistell, dass drei Viertel der Bedeutung jeder menschlichen Interaktion durch das Nonverbale begreifbar ist.5 Zudem stellt Balboni in den 90er Jahren fest, dass der Mensch seinen Gesprächspartner mehr beobachtet als er ihm zuhört. Er meint damit, dass 70-80% der Informationen bzw. der Inputs aus der Beobachtung anderer kommen.6 Auch Ingelore Oomen-Welke kommt in ihrer Arbeit Körpersprachen und Extrasprachliches verschiedener

Kulturen in Welt, Schule und Unterricht zu demselben Schluss.7 Dass die nonverbale Kommuniktion eine unverzichtbare Ergänzung der verbalen Kommunikation ist, kann mit Britta Bürger so zusammengefasst werden:

Die verbale Sprache vermittelt Fakten, während die Körpersignale die Bedeutung übermitteln. Körpersprache offenbart Anzeichen innerer Befindlichkeiten oder interpersoneller Einstellungen.8

Die nonverbale Kommunikation spielt eine bemerkenswerte Rolle in der Vermittlung von Botschaften und der Verständigung unter Menschen. Aber das wurde in der Vergangenheit nicht immer so gesehen.

2.2. Die Erforschung der nonverbalen Kommunikation

Die zentrale Stellung der menschlichen nonverbalen Kommunikation kann anhand des folgenden Beispiels verdeutlicht werden. Was unterscheidet Neugeborene und kleine Kinder am meisten von Erwachsenen? Die Art und Weise, Worte aussprechen zu können.

4 Heringer (2004), 76. 5 Ting-Toomey (1999), 115. 6 Balboni, nach: http://www.irre.toscana.it/sell/resources/competenzacomunicativa.htm . 7 Schober / Rosenbusch (2003), nach: http://jaling.ecml.at/pdfdocs/articles/korpersprachen.pdf . 8 nach: http://www.netdoktor.de/ratschlaege/fakten/korpersprache.htm .

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Neugeborenen fehlt nämlich der verbale Teil der Kommunikationsfähigkeit. Sie kommunizieren mit Händen, Füßen und Gesichtsausdrücken, d.h. nonverbal. Diese Form der menschlichen Entwicklung kann auf die allgemeinere Entwicklung der Menschheit zurückgeführt werden: Die nonverbale Kommunikation entstand früher als die Kommunikation mit sprachlichen Mitteln. Deshalb stellt sie „vermutlich die älteste Form zwischenmenschlicher Verständigung“9 dar. Einer der ersten, die sich mit dem Nonverbalen beschäftigten, war der Zürcher Pfarrer Johann Caspar Lavater. 1775 begründete er die Physiognomie, deren Hauptpunkt ist, dass die „Oberfläche des Menschen“ Informationen über ihn mitteilt. Lavaters Hypothese stimmt, so behaupten die Forscher heutzutage, aber zur Zeit Lavaters führte diese Entdeckung mehr zur Intuition und Spekulation als zu wissenschaftlicher Forschung.10 Diese entwickelt sich erst nach 1872 dank Darwins Evolutionstheorie. Er versucht, die menschlichen Körperbewegungen zu verstehen, und die ihnen entsprechende Gefühle zu erklären. Sein Forschungsbereich ist wahrscheinlich zu eng (wenn man ihn mit der heutigen Weite vergleicht), aber er kommt zu dem richtigen Schluss, dass manche Körperbewegungen (z. B. das Kopfnicken und -schütteln) „als stammesgeschichtliche Anpassungen zu verstehen“ sind.11 Im 20. Jahrhundert finden neue Entwicklungen auf dem Feld des Nonverbalen statt. Zwei Wege kreuzen sich dabei. Auf der einen Seite ermöglicht die revolutionäre Computer-Technologie die Entwicklung von Systemen, welche die präzise Analyse und die Messbarkeit der nonverbalen Phänomene erleichtern.12 Auf der anderen Seite führen die neuen Techniken der Ethnologie, die in den 1990er Jahren eingeführt wurden, dazu, das Nonverbale von einem interkulturellen Standpunkt aus zu betrachten. Die Hauptfrage ist dabei: Welche nonverbalen Phänomene sind als universell anzusehen, wenn es sie überhaupt gibt? Und welche sind kulturell geprägt? Das ist ein heikles Thema, und jeder Forscher – sei er Linguist, Soziologe, Psychologe oder Anthropologe –, der sich damit beschäftigt, gliedert das Feld anders.13 Es geht deshalb um ein vielfältiges und aus verschiedenen Disziplinen entstehendes Gebiet, welches in der gegenwärtigen Gesellschaft großes Interesse weckt.

2.3. Bereiche und Funktionen der nonverbalen Kommunikation

Kirsten Strüver, Dozentin an der Volkshochschule und Trainerin für Körpersprache, fasst die Funktion der nonverbalen Kommunikation auf die folgende Weise zusammen:

9 Werner Stangl, Professor für Psychologie und Pädagogik in Linz, nach: http://arbeitsblaetter.stangl-taller.at/KOMMUNIKATION/KommNonverbale.shtml . 10 Ebda. 11 Werner Stangl nach: http://www.techfak.uni-bielefeld.de/ags/wbski/lehre/digiSA/KommIntelligenz/chalman_thiel.pdf (8.2.1012) 12 Heringer (2004), 76. 13 nach: http://arbeitsblaetter.stangl-taller.at/KOMMUNIKATION/KommNonverbale.shtml ; Heringer (2004), 76.

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Verhalten, Arm- und Beinhaltung, Ausdruck der Augen, Mundwinkel oder Hände verraten unsere Gedanken, Ängste und Begierden – sie zeigen unser Seelenleben.14

Ting-Toomey unterscheidet fünf Eigenschaften der nonverbalen Kommunikation.

1. Das Nonverbale ist ein analoges Signal, das eine Bedeutung übermittelt. 2. Es wird über verschiedene Kanäle gesendet. 3. Es wird vom Empfänger sofort gespürt. 4. Es wird vom Empfänger „verstanden“. 5. Es kann sowohl absichtlich als auch unabsichtlich gesendet werden.15

Man könnte sogar behaupten, dass die nonverbale Äußerung „wahrer“ und „ehrlicher“ als die verbale Nachricht ist. Die meisten Forscher sind nämlich der Meinung, dass der Körper unter keinen Umständen lügt, obwohl der Mensch ab und zu gleichzeitig versucht, seine Gefühle oder Meinungen verborgen zu halten. Er schafft das in der Tat nicht:

Ausdrucksforscher sind sich sicher: Die Botschaft, die der Körper aussendet, genießt größeres Vertrauen, als die, die aus dem Munde kommt.“

Vor allem gibt die nonverbale Kommunikation dem Menschen die Möglichkeit, die Nachrichten der gesprochenen Sprache besser zu verstehen. Wenn es der Fall ist, bedeutet es, dass das Nonverbale etwas äußern kann, das die Sprache mit Worten nicht schafft. Wenn das Gesprochene und das Nonverbale sich aber widersprechen (das kommt häufiger vor, als man denkt), macht das Nonverbale deutlich, dass der Sender etwas „Falsches“ gesagt hat. Das bringt mit sich, dass der erste Eindruck, den ein Mensch macht, mehr durch sein „So-Sein-und-Verhalten“ als durch sein „So-Sprechen“ hervorgerufen wird: „Ausdruck erzeugt Eindruck“, sagt Sabine Asgedom.16 Das Problem ist aber, dass das Nonverbale schwerer zu beherrschen ist als das Verbale, da den Menschen einige Teilgebiete der nonverbalen Kommunikation nicht bewusst sind. Die anerkannteste Klassifikation der nonverbalen Kommunikation wurde 1972 von Michael Argyle definiert. Der englische Sozialpsychologe gilt als Pionier der Erforschung nonverbaler Ausdrucksformen.17

• Kinesics: Erforschung der Körpersprache im Allgemeinen.

• Proxemics: Räumliche Dimension der nonverbalen Kommunikation, Territorial- und Distanzverhalten und die Nähe der Partner in der Interaktion.

• Orientierungswinkel: Dieses Teilgebiet analysiert, wie ein Mensch seinen Partner in der Kommunikation betrachtet, und was für eine Beziehung er zu ihm haben will.

• Äußere Erscheinung eines Menschen: z. B durch Kleidung und Schmuck.

• Haltung: die Art und Weise, wie man während der Interaktion steht oder sitzt.

14 nach http://www.brillanti-momenti.de/html/Bilder/juma.pdf . 15 Ting-Toomey (1999), 116. 16 nach http://www.saarland.ihk.de/ihk/down/koerpersprache.pdf . 17 Heringer (2004), 76; http://www.psico.univ.trieste.it/fac/mdida2/Lezione3.ppt und http://www.daz-daf.de/htm/daf/nonverbal.html .

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• Kopfbewegungen: besonders das Kopfnicken und -schütteln.

• Mimik: Es ist eines der wichtigsten Teilgebiete der nonverbalen Kommunikation, da das Gesicht die zuverlässigsten Signale über menschliche Emotionen aussendet.

• Gestik: kommunikative Bewegungen von Händen, Armen, Füßen und Beinen.

• Blickkontakt: Häufigkeit, Dauer und Richtung des Blickes in den unterschiedlichen Kulturkreisen.

• Paralinguistik: Sprechtempo, Lautstärke und die Rolle der Stille.

Weitere von Argyle nicht einbezogene Teilgebiete sind:

• die taktile Kommunikation, welche die körperlichen Interaktionen durch Berührungen untersucht;

• die Chronemik bzw. die Erforschung der zeitlichen Dimension in der (interkulturellen) Kommunikation: Damit meint man etwa die Auffassung von Tempo und Pünktlichkeit.18

Allen Teilgebieten der nonverbalen Kommunikation können eine oder mehrere Funktionen zugeschrieben werden, die Ting-Toomey auf die folgende Weise zusammenfasst.19

1. Nonverbale Signale spiegeln die Identität des Menschen wider, denn „nonverbal cues serve as the markers of our identities.“20

2. Nonverbale Signale äußern die Gefühle und das Verhalten in der zwischenmenschlichen Interaktion besonders durch Mimik und Gestik.

3. Nonverbale Kommunikation dient der erfolgreichen Durchführung der Interaktion. Das ist eine der Hauptfunktionen der Gestik.

4. Das Nonverbale spielt eine bedeutende Rolle dabei, ob und wann ein Mensch einen guten oder schlechten Eindruck bei seinem Gegenüber macht. Haltung und äußere Erscheinung bestimmen, ob ein Mensch attraktiv ist oder nicht.

Von diesen Voraussetzungen aus eröffnet sich dem US-amerikanischen Soziologen Erving Goffman eine neue Perspektive. Nach seiner Meinung ist

die Beherrschung und das Verständnis einer gemeinsamen Körpersprache ein Grund dafür [...], eine Ansammlung von Individuen als Gesellschaft zu bezeichnen.21

Wie wir später sehen werden, wenn wir die Gestik näher betrachten, ist diese Aussage nur zum Teil richtig. Den Einwand formuliert uns Argyle. Er meint, es sei sehr schwierig, eine Gruppe von Menschen aufgrund ihrer Beherrschung und ihres Verstehens einer gemeinsamen Körpersprache als Gesellschaft anzusehen, weil die Menschen sich aufgrund ihrer Persönlichkeit unterschiedlich verhalten, auch wenn sie „demselben Kulturkreis“ angehören. Auf der einen Seite gibt es Menschen, die ihre sprachliche Interaktion mit einer stark ausgeprägten und sehr expressiven nonverbalen Kommunikation unterstützen oder sie durch diese unter Umständen sogar ersetzen. Die verbale Äußerung wird durch Gestik, Mimik und 18 nach http://www.daz-daf.de/htm/daf/nonverbal.html . 19 Ting-Toomey (1999), 116-127. 20 Ting-Toomey (1999), 117. 21 nach: http://arbeitsblaetter.stangl-taller.at/KOMMUNIKATION/KommNonverbale.shtml .

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Betonung unterstrichen. Auf der anderen Seite gibt es Menschen, deren nonverbale Expressivität verborgen bleibt. Argyle gibt dafür eine soziopsychologische Erklärung:

Solche Unterschiede stehen im engen Zusammenhang mit Empathie, Mitgefühl, beruflichem Erfolg, persönlicher Erfahrung und Selbstkontrolle sowie mit körperlich-geistiger Gesundheit. 22

Nicht nur die kulturelle Zugehörigkeit beeinflusst die Art der nonverbalen Kommunikation eines Menschen. Das muss man vor allem in Hinblick auf die interkulturelle Kommunikation unbedingt beachten.

2.4. Das Nonverbale in der interkulturellen Kommunikation

Heringer fasst die schwierige Problematik der interkulturellen Kommunikation sehr präzis zusammen:

[...] beim Gespräch zwischen Personen verschiedener Kulturen, treffen unterschiedliche kulturspezifisch geprägte Weltsichten aufeinander – wobei die Partner sich zumeist dieser Unterschiede nicht bewußt sind, sondern ihre eigene Sichtweise für „normal“ halten und stillschweigend davon ausgehen, der andere sehe die Welt genauso wie er selbst. [...] Oft merkt man erst an offenkundigen Mißverständnissen, daß hier etwas „nicht stimmt“, daß Meinen und Verstehen sich nicht decken.23

Diese Verallgemeinerung gilt natürlich auch für den spezifischen Fall der nonverbalen Kommunikation bzw. der Körpersprache:

Soviel steht fest: Wo wir die Körpersprache nicht mehr selbstverständlich verstehen, fühlen wir uns verwirrt und fremd.24

Die Aufgabe ist nun zu verstehen, warum es so ist. Das Nonverbale steht ebenso wie die Sprache im engen Zusammenhang mit der Kultur, der ein Mensch angehört (unter Berücksichtigung der vorher genannten individuellen Unterschiede). Und genauso wie die so genannten „semantischen Primitiva“, d.h. eine geringe, aber bedeutsame Anzahl sprachgemeinsamer Merkmale, sich nach der Theorie des sprachlichen Universalismus in allen Sprachen der Welt erkennen lassen, gibt es manche nonverbalen Merkmale, die universal zu sein scheinen. Relativismus und Universalismus der Sprache gehen daher Hand in Hand mit dem Relativismus und dem Universalismus des Nonverbalen.25 Dies zweiseitige Phänomen zeigt sich in seiner ganzen Stärke und Intensität in der gegenwärtigen Gesellschaft, wo sich Angehörige verschiedener Kulturen immer häufiger treffen und miteinander umgehen. In dieser Art interkultureller Begegnung spielen ja kulturabhängige und -unabhängige Verhaltensweisen eine nicht zu unterschätzende Rolle.

22 Argyle (2002), nach: http://arbeitsblaetter.stangl-taller.at/KOMMUNIKATION/KommNonverbale4.shtml . 23 Heringer (2004), 35. 24 nach: http://www.magic-point.net/fingerzeig/grundlagen-deutsch/kommunikation/koerperspr/koerperspr.html . 25 Ting-Toomey (1999), 119 f.

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Die wissenschaftliche Forschung über das Nonverbale im interkulturellen Austausch ist sehr jung und konzentriert sich in der Regel auf die Missverständnisse und die Vorurteile, die daraus entstehen und zu weiteren meistens sozialen Problemen führen können.26 Das geschieht in den meisten Fällen, weil ein Mensch mit einem sich weiterentwickelnden „Kulturstock“ aufwächst, der kulturspezifisch und konventionalisiert ist. Es geht um ein Orientierungssystem, das Kulturstandards wie Normen, Regeln, Festsetzungen und Übereinkünfte enthält.27 Das bringt mit sich, dass der Mensch bewusst oder unbewusst der Meinung ist, dass seine „nonverbalen Bausteine“ die gute und richtige Körpersprache darstellen, während die Merkmale fremder Kulturen als die schlechte und falsche Körpersprache angesehen werden.28 „Es gibt [in der Tat] keine gute oder schlechte Körpersprache“29, es gibt nur Unterschiede, die man weder positiv noch negativ bewerten sollte. Das Schwierigste in diesem Bereich ist genau, vorurteilsfrei zu sein. Nicht nur lassen sich unterschiedliche nonverbale Signale in den unterschiedlichen Kulturen erkennen, sondern demselben nonverbalen Signal können eventuell unterschiedliche, wenn nicht entgegensetzte (Be-)Deutungen in den unterschiedlichen Kulturkreisen zugeschrieben werden: Die Gefahr eines falschen Verstehens verstärkt sich sehr.30 Das wird von einer Tatsache verschlimmert, die Oomen-Welke hervorhebt:

„Von den Angehörigen anderer Kulturen jedoch werden andere non- und extraverbale Äußerungen sehr bewusst wahrgenommen, und dies umso mehr, je unterschiedlicher die einzelnen Verhaltensweisen zu den ihnen vertrauten Verhaltensweisen sind.“31

Diese Wahrnehmung führt dann zur weiteren Verstärkung der Vorurteile. Abschließend ist eine genauere Angabe über die universalen nonverbalen Äußerungen notwendig, um Missverständnisse zu vermeiden. Die Universalität eines nonverbalen Signals in allen Kulturen der Welt ist noch lange nicht verständlich. So hat das Lachen überall ungefähr dieselbe Bedeutung, aber wann, wo, wie und unter welchen Umständen wir lachen, wird von unserem kulturellen Hintergrund bestimmt.

Deswegen gibt es auch keine natürliche Sprache der emotionalen Gestik auf die wir uns im Umgang mit Fremden verlassen könnten.32

26 nach: http://home.arcor.de/bognas/grundlagen.htm . 27 nach: http://nibi ni.schule.de/~iakm/Materialen/wahrlich.pdf . 28 Heringer (2004), 146. 29 nach: http://www.brillanti-momenti.de/html/Bilder/juma.pdf . 30 nach: http://jaling.ecml.at/pdfdocs/articles/korpersprachen.pdf . 31 Ebda. 32 nach: http://nibi ni.schule.de/~iakm/Materialen/wahrlich.pdf .

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3. Die Gestik

3.1. Die Gestik als Kommunikationsmittel

Ursprünglich stammt das deutsche Wort „Geste“ aus dem Lateinischen „gestus“, welches für „Gebärdenspiel, Mienenspiel“ steht.33 Im Laufe der Zeit hat sich die Bedeutung des Wortes in den früher germanischen, später deutschsprachigen Ländern weiterentwickelt bzw. geändert. Gebärdenspiel und Mienenspiel ordnet man nämlich einem anderen Teilgebiet der nonverbalen Kommunikation zu: der Mimik. Mit dem Begriff „Gestik“ meinen die Forscher tatsächlich etwas anderes. Die Gestik erfasst ein sehr breites und verwickeltes Studienfeld, das Forscher und Wissenschaftler mit den unterschiedlichsten Definitionen zu klären versucht haben. Einige sehen Gestik in einem weiteren Sinne als Körpersprache an. Demgemäß lauten die Definitionen aus der Encyclopedia Americana und von Adam Kendon, einem der einflussreichsten Forscher im Bereich der Gestik und Betreuer des FU Gesture Project34:

[Gestik ist] jede bewusste oder unbewusste Körperbewegung, außer den Vokalisierungsbewegungen, durch die wir entweder mit uns selbst oder mit anderen kommunizieren.35

[Gestik ist] die Körperhandlung nichtsprachlicher Art, mit der Absicht etwas zum Ausdruck zu bringen.36

Wie gesagt, schließen diese Definitionen auch die Mimik, die Gebärdensprache, die religiösen und rituellen Gesten usw. mit ein. Paola Celentin definiert Gestik sogar als „linguaggio dei gesti di fine utilitaristico.“ Die Gesten werden deshalb meistens intentional eingesetzt und dienen den verschiedensten kommunikativen Bedürfnissen. Hier ist aber die Gebärdensprache auch miteinbezogen.37 Für die Ziele dieses Beitrags werde ich mich auf die Definition der Gestik im engeren Sinne beschränken:

Gestik im engeren Sinne umfasst das semiotische Ausdruckspotential des menschlichen Körpers mittels der Arme, der Hände und des Kopfes.38

33 nach: http://www.techfak.uni-bielefeld.de/ags/wbski/lehre/digiSA/KommIntelligenz/chalman_thiel.pdf . 34 Das FU Gesture Project, seit 2001 von Cornelia Müller betreut, stellt einen wichtigen Beitrag zur Forschung über Gestik dar. Die Grundlagen des Projektes kann man auf folgender Webseite finden: http://www.berlingesturecenter.de/berlingestureproject/fugestureproject.html . 35 Encyclopedia Americana, nach: http://www.techfak.uni-bielefeld.de/ags/wbski/lehre/digiSA/KommIntelligenz/chalman_thiel.pdf . 36 Kendon, nach: http://www.techfak.uni-bielefeld.de/ags/wbski/lehre/digiSA/KommIntelligenz/chalman_thiel.pdf . 37 nach http://www.comunicobene.com/contenuto/cnv.html . 38 Ebda.

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Mit Gesten wendet sich der Mensch an seinen Empfänger, sodass eine Geste auch „als eine Handlung [angesehen werden kann], die einem Zusehenden ein optisches Signal übermittelt.“ Geste ist deswegen nach Meinung Margarete Payers eine „beobachtete Handlung.“39

3.1.1. Gestik und Sprache

Gestik wird als ein unerlässliches Kommunikationsmittel betrachtet, denn der Mensch erlernt sie wie er erlernt, mit seiner Muttersprache umzugehen: Nachahmung ist der Schlüssel zur Beherrschung beider. Bewusst oder unbewusst werden Gesten mit der Sprache gelernt. David McNeill40 hat eine der bedeutendsten Analysen von Gesten durchgeführt. Er ist der Auffassung, dass Gestik und Sprache „ein zusammenhängendes System“ sind.41 Obwohl die Gestik früher als die Sprache in der biologischen menschlichen Evolution entstanden ist, sind die beiden zu unersetzbaren und nicht auswechselbaren Einheiten der zwischenmenschlichen Kommunikation geworden: Sie haben sozusagen den gleichen Wert. Sehr interessant ist die Perspektive Winfried Nöths. Die Gestik ist als ritualisiertes Verhalten erst entstanden, als der Mensch seine Hände befreit hat, d.h. als „unsere hominiden Vorfahren von Vierfüßern zum aufrecht gehenden Homo erectus entwickelten.“42 Die befreiten Hände sind langsam das wichtigste Kommunikationsmittel der Menschheit geworden, bis die verschiedenen Völker der Welt ihr eigenes System der nonverbalen Kommunikation erschaffen haben. Diese Entwicklung verlief parallel zur Evolution der Sprachorgane. Dies hat die Innenstruktur des menschlichen Gehirns selbstverständlich beeinflusst. Da die Gehirnareale für das Verbale und Nonverbale nahe beieinander liegen, stimmen die meisten Forscher darin überein, dass Gestik „maßgebend für die Evolution der Sprache beigetragen“ hat.43 Es ergibt sich daraus, dass die zwei Hauptgebiete der menschlichen Kommunikation sich parallel geformt, und sich zu konkreten und logischen Systemen entwickelt haben. Dieses Phänomen hat dazu geführt, dass sie sich unvermeidbar gekreuzt haben, indem jedes System sich seine „festen Muster“ erschaffen hat.44

3.1.2. Die Klassifikationen der Gesten

Es wurde schon von der Weite des Studienfeldes der Gestik gesprochen. Anhand dieser Feststellung wird man sich dessen bewusst, dass die Diversifizierung der Forschung über dieses Thema zu dem Ergebnis geführt hat, dass das Feld von den verschiedenen Forschern immer wieder anders gegliedert wurde. Aufgrund ihrer „wissenschaftlichen Herkunft“ und

39 nach: http://www.payer.de/kommkulturen/kultur042.htm . 40 Er ist Professor für Psychologie an der University of Chicago und betreut das Center for Gesture and Speech

Research: http://mcneilllab.uchicago.edu/ . 41 nach: http://www.techfak.uni-bielefeld.de/ags/wbski/lehre/digiSA/KommIntelligenz/chalman_thiel.pdf . 42 nach: http://www.techfak.uni-bielefeld.de/ags/wbski/lehre/digiSA/KommIntelligenz/chalman_thiel.pdf . 43 Ebda. 44 Ebda.

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ihrem Interesse haben sie den Gesten unterschiedliche, mehr oder weniger ausführliche Klassifikationen zugeschrieben. Im Allgemeinen unterscheiden sich die Gesten in sprach- oder redebegleitende und sprach- oder redeersetzende Gesten. Wie das Wort schon verstehen lässt, sind sprachbegleitende Gesten diejenigen, die eine verbale Äußerung beim Sprechen begleiten bzw. unterstützen. Sie werden meistens spontan eingesetzt, besonders wenn sie Emotionen des Sprechers ausdrücken oder Objekte nachbilden, die der Sprecher beim Gespräch beschreibt. Anders gesagt, mittels dieser Handbewegungen zeichnet der Sprecher seinen inneren Gemütszustand und seine Ansicht der äußeren Welt nach. Die begleitenden Gesten werden auch mit dem Begriff „Gestikulation“ gekennzeichnet.45 Auf Italienisch werden sie „gesti accompagnatori“ genannt.46 Die sprachersetzenden Gesten ersetzen das Verbale in der Kommunikation, indem sie einen bestimmten Inhalt ausdrücken. Sie werden vom Sender willkürlich eingesetzt, und der Empfänger kennt die Bedeutung und die Umstände, unter denen sie benutzt werden können bzw. dürfen. Diese Gesten können mit den Worten einer Sprache verglichen werden: Sie haben eine feste Bedeutung, sind konventionalisiert und kulturspezifisch und haben ihren Wortschatz. Es gibt viele Kennzeichnungen des Begriffes: gestische Embleme, autonome oder symbolische Gesten, Gesten-Wörter.47 Im italienischen Wissenschaftsbereich werden sie „gesti autonomi“ genannt.48 Auch wenn diese Klassifikation grundsätzlich sehr wichtig ist, um eine allgemeine Ansicht vom Teilgebiet der Gestik zu bekommen, ist sie jedoch auch sehr vag. Die Feinheiten und Unterschiede zwischen den zahlreichen Arten von Gesten bleiben in dieser Aufgliederung verborgen. Diese Lücke wurde erst 1969 von den US-amerikanischen Psychologen Paul Ekman und Wallace V. Friesen ausgefüllt. Ihre Klassifikation der Gesten wird allgemein anerkannt. Nach Ekman und Friesen sind Gesten auf folgende Weise aufgegliedert.49 Illustratoren („Gesti illustratori“). Sie stehen „in Verbindung mit der gesprochenen Sprache“50 und beziehen sich auf Verhaltensweisen. Ihre Funktion ist, die sprachlichen Äußerungen zu verdeutlichen und das Gesagte hervorzuheben. Ting-Toomey betont: „illustrators [...] are used to complement or illustrate spoken words.“51 Beispiele sind die Zählgesten, die Zeigegesten oder das rhythmische Taktschlagen. Illustratoren werden mit den redebegleitenden Gesten assoziiert. Deshalb stellen sie die Gestikulation eines Menschen dar.

45 nach: http://www.daz-daf.de/htm/daf/nonverbal.html . 46 Poggi/Caldognetto (1997), nach: http://lup.lub.lu.se/luur/download?func=downloadFile&recordOId=1331449&fileOId=1331450 . 47 nach http://www.daz-daf.de/htm/daf/nonverbal.html . 48 Poggi/Caldognetto (1997), nach: http://lup.lub.lu.se/luur/download?func=downloadFile&recordOId=1331449&fileOId=1331450 . 49 Ting-Toomey (1999), 123-126, nach: http://home.arcor.de/bognas/grundlagen.htm , http://www.psico.univ.trieste.it/fac/mdida2/Lezione3.ppt , http://www.techfak.uni-bielefeld.de/ags/wbski/lehre/digiSA/KommIntelligenz/chalman_thiel.pdf . http://www.tu-chemnitz.de/phil/leo/rahmen.php?seite=r_kult/ruda_reimann.php . 50 nach http://www.techfak.uni-bielefeld.de/ags/wbski/lehre/digiSA/KommIntelligenz/chalman_thiel.pdf . 51 Ting-Toomey (1999), 124.

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Adaptoren / Manipulatoren („Gesti di adattamento”). Sie dienen dem Menschen dazu, die eigenen physischen und psychischen Bedürfnisse zu befriedigen, indem er auf einen inneren oder äußeren Stimulus reagiert. Weil hier die Rede von Stimuli ist, ist klar, dass diese Gesten unbewusst sind und meistens keine kommunikative Bedeutung haben. Weiterhin werden Adaptoren auch verwendet, um interpersonale Kontakte zwischen den Gesprächspartnern zu entwickeln und zu unterhalten. Beispiele sind: sich am Kopf kratzen, Selbst- oder Fremdberührungen oder nervöses Zucken. Embleme („Gesti emblematici“). Sie werden intentional eingesetzt und oft verwendet, um eine bestimmte Nachricht mitzuteilen. Sie beinhalten nämlich eine „semantische Bedeutung“, die der Empfänger dekodiert und versteht, weil es sich um in einem Kultur- und Sprachraum bestimmte konventionalisierte kommunikative Gesten handelt. In den meisten Fällen ersetzen sie die Sprache und sind mit einem Wort oder einer Umschreibung übersetzbar. Mit den Wörtern von Ting-Toomey:

They have a direct verbal referent and can substitute for the words that they represent (e.g., the nonverbal peace sign, the hitchhike sign, etc.).52

Andere Beispiele für Embleme sind: den Vogel zeigen, das Anhalterzeichen oder die verschiedenen Begrüßungsgesten. Im Vergleich zwischen Italien und Deutschland werde ich mich vor allem mit diesen Gesten befassen.

Regulatoren („Gesti regolatori“) können wie folgt definiert werden:

[...] tendono a controllare il flusso della conversazione e possono inoltre indicare, a chi parla, se l’ascoltatore è interessato o meno a quanto sta dicendo.53

Damit meint man, dass Regulatoren den Interaktionsverlauf zwischen den Gesprächspartnern regeln. Sie werden meistens unbewusst eingesetzt und werden gleichzeitig mit Blickkontakt und Distanzverhalten verwendet. So kann etwa der Sprecher seinem Zuhörer durch eine Handbewegung und ein Kopfnicken das Wort erteilen. Affektdarstellungen („Indicatori dello stato emotivo”). Diese Kategorie enthält nicht nur Gesten, sondern auch Mimik, Stimme und Körperhaltung, durch die der Sprecher seine Gefühle gegenüber seinem Partner und dem Gespräch mit ihm offen äußert. Es geht um „teils spontane, teils konventionalisierte Gefühlsausdrücke“54, welche die klinische Psychologie als Mittel der Befriedigung eigener Bedürfnisse beschreibt. Das Lachen, die Nase rümpfen oder die Faust ballen sind Beispiele von Affektdarstellungen. Desmond Morris schlägt im Jahre 1977 in seinem Buch Manwatching eine weitere detaillierte Klassifikation der Gesten vor.55 Er unterteilt die menschlichen Gesten in zwei große Gruppen. 52 Ting-Toomey (1999), 123. 53 nach: http://www.psico.univ.trieste.it/fac/mdida2/Lezione3.ppt . 54 nach: http://www.tu-chemnitz.de/phil/leo/rahmen.php?seite=r_kult/ruda_reimann.php . 55 Morris (1977), 24-35 – nach: http://www.payer.de/kommkulturen/kultur042.htm , http://www.psico.univ.trieste.it/fac/mdida2/Lezione3.ppt .

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• Primäre Gesten. Sie werden nur verwendet, um der zwischenmenschlichen Kommunikation eine Bedeutung zu geben. Jede Geste hat einen „semantischen Inhalt“, welcher einer erfolgreichen Kommunikation dient.

Sekundäre / Beiläufige Gesten („Gesti accidentali“). Morris beschreibt sie als „Handlungen mit unbeabsichtigter Aussagekraft.“56 So haben Niesen, Gähnen, Husten, Liegen, Sitzen usw. eine andere nicht-kommunikative Bedeutung. Trotzdem geben sie Informationen über die Gefühle und die Stimmung des Sprechers weiter. Sekundäre Gesten können auch zu primären Gesten werden, wenn der Sprecher sie absichtlich einsetzt, weil er damit etwas Bestimmtes übermitteln will. Z. B. hustet jemand, weil er die Aufmerksamkeit der anderen auf sich lenken will. Morris nennt diese Variante „stilisierte beiläufige Gesten.“ Die primären Gesten lassen sich nach Morris in weiteren sechs Kategorien unterteilen. • Ausdrucksgesten („Gesti espressivi“). Es geht vorwiegend um die Gestikulation bzw. die

sprachbegleitenden Gesten. • Mimische Gesten („Gesti mimici“). Es sind Handlungen bzw. Handbewegungen, mit

denen der Sprecher Objekte oder Personen nachbildet. Das Schlüsselwort ist die Imitation. • Schematische Gesten („Gesti schematici“). Payer definiert sie als „standardisierte Kürzel

von imitierenden Gesten.“57 Die Nachbildung eines Tiers wird etwa durch ein Handzeichen stilisiert (die Hörner stehen für Stier). Diese Gesten sind sehr kulturspezifisch.

• Symbolische Gesten („Gesti simbolici“). Sie drücken Gefühle, Stimmungen und Meinungen aus. Sie sind deshalb abstrakter als die mimischen und schematischen Gesten, die auf etwas Konkretes hinweisen. Beispiele sind die Zeichen für „die Daumen drücken“ oder „du spinnst.“ Symbolische Gesten entsprechen den Emblemen (Ekman / Friesen).

• Technische Gesten („Gesti tecnici“). Sie werden von Fachleuten und Spezialistengruppen in bestimmten Bereichen benutzt. Als Beispiel nennt man so die Zeichen für die Verkehrsregelung, von Feuerwehr- und Seeleuten usw.

Kodierte Gesten („Gesti codificati“). Es geht um „Sprachen“, die auf formalen Signalsystemen basieren. Die Handzeichen für Zahlen und die Taubstummensprache sind Beispiele kodierter Gesten. Bevor wir fortfahren, möchte ich unterstreichen, dass die Klassifikationen von Ekman/Friesen und Morris die wichtigsten und deutlichsten sind. Auf sie werde ich mich stützen, wenn ich mich auf die nächsten Klassifikationen und den Vergleich Italien-Deutschland beziehe. Emanuela Magno Caldognetto und Isabella Poggi unterscheiden die Gesten von einem anderen Gesichtspunkt aus. 58 Sie reden von „gesti coverbali.“ Aber sie bezeichnen nicht nur die sprachbegleitenden Gesten mit diesem Begriff, sondern auch die symbolischen Gesten, die sowohl bei Ekman/Friesen als auch bei Morris Bestandteile der sprachersetzenden Gesten sind. Im übrigen entwerfen sie eine sehr, wenn nicht zu detaillierte Klassifikation. So

56 nach: http://www.payer.de/kommkulturen/kultur042.htm . 57 nach: http://www.payer.de/kommkulturen/kultur042.htm . 58 Poggi/Caldognetto (1997), nach: http://lup.lub.lu.se/luur/download?func=downloadFile&recordOId=1331449&fileOId=1331450 .

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unterscheiden sie etwa zwischen „gesti mimici“ und „gesti pantomimici“ (die ersten bilden den äußeren Referent, die zweiten die Bedeutung nach), „gesti pittografici“ und „gesti illustratori“ (die ersten sind ähnlich wie die „gesti mimici“, die zweiten wie die „gesti pantomimici“), „gesti deittici“ und „gesti spaziografici“ (die ersten können ohne den entsprechenden äußeren Zusammenhang nicht eingesetzt werden, während die zweiten mit dem oder ohne den entsprechenden Zusammenhang erscheinen können) usw. Die zwei Wissenschaftlerinnen erkennen auch verschiedene Arten und Weisen, wie man beim Sprechen gestikuliert. Ich werde mich nicht bei einer nähen Beschreibung dieser Zeichenkategorien aufhalten, weil mein Beitrag die lexikalischen bzw. symbolischen Gesten oder Embleme im Besonderen behandelt. Abschließend möchte ich die Aufmerksamkeit auf eine interessante Theorie lenken, die 1988 von Els Oksaar ausgearbeitet wurde. Sie hat den Begriff „Behaviorem“ im Rahmen ihrer Kulturemtheorie erfunden und ihn mit der Gestik in Verbindung gebracht. Mit „Behaviorem“ meint sie eine Gesamtheit von verbalen, para- und nonverbalen Ausdrucksweisen, die stark kulturell abhängig sind und deshalb unterschiedliche Bedeutungen in den unterschiedlichen Kulturkreisen haben können. In diese Gruppe ist natürlich auch die Gestik einbegriffen.59

3.1.3. Die Funktionen der Gesten

Nun, da die wichtigsten Klassifikationen aufgelistet worden sind, ist ein Überblick über die Funktionen der Gesten notwendig. Es müssen die folgenden Fragen geklärt werden: Warum bedient sich der Mensch der Gesten beim Sprechen? Was für kommunikativ-pragmatische Eigenschaften unterscheiden die nonverbale Sprache der Gestik und die verbale Äußerung? Obwohl die Wissenschaftler zu verschiedenen Klassifikationen gekommen sind, mit denen man die Gesten kategorisiert, sind sie sich eins über die Rolle, welche die Gestik in der Kommunikation spielt. Zunächst setzt der Mensch Gesten ein, um das Verbale zu begleiten bzw. zu unterstützen oder zu ersetzen. Es wurde von dieser Trennung schon gesprochen. Aber es sei hier daran erinnert, dass die Gesten sehr unterschiedliche Eigenschaften und Funktionen aufgrund dieser Unterscheidung haben können. Zum einen werden die redebegleitenden Gesten meistens mit der Gestikulation assoziiert. Zum anderen sind die redeersetzenden Gesten die eigentlichen Gesten, die sehr stark kulturell ausgeprägt sind. Es ergibt sich daraus, dass diese körperlichen Verhaltensweisen komplexere Funktionen haben. Eine der Voraussetzungen für das Verstehen der Rolle der Gestik ist, dass der Mensch die Gesten sowohl willkürlich als auch unwillkürlich verwendet. Payer meint damit, dass eine Geste

[…] von Seiten des Sendenden als Signal gewollt sein [kann] (wenn z.B. jemand jemand anderen herbeiwinkt), [oder] es kann zufällig geschehen (wenn z.B. jemand niest).60

59 nach http://jaling.ecml.at/pdfdocs/articles/korpersprachen.pdf . 60 nach http://www.payer.de/kommkulturen/kultur042.htm .

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Das muss berücksichtigt werden, besonders wenn die Rede von der Gestik in der interkulturellen Kommunikation ist. Anhand dieser unerlässlichen Voraussetzungen erkennt Celentin drei Hauptfunktionen der Gesten in der zwischenmenschlichen Kommunikation.61 Gesten dienen dem Sprecher als Verstärkung dessen, was er mit Worten sagt. Die Gestik unterstützt, bestätigt und bekräftigt das Gesagte: Jemand sagt „Ja“ und nickt gleichzeitig mit dem Kopf. Gesten stellen eine unabsichtliche Bestätigung oder Infragestellung dar. In diesem Fall verrät eine Geste die entsprechende und gleichzeitig vorkommende verbale Äußerung. Da, wie schon gesehen, das Nonverbale vertrauter und zuverlässiger als das Verbale ist (der Körper lügt nicht), verlässt sich der Empfänger auf den Körperausdruck und nicht auf das Gesagte seines Partners: Jemand sagt „Ja“ und schüttelt gleichzeitig den Kopf. Das wird vom Sender mit Absicht getan, und der Empfänger hat dann Zweifel daran, weil das Gesagte und das Getane sich widersprechen. In den meisten Fällen stimmt die nonverbale Äußerung mit der wirklichen Meinung des Sprechers überein. Gesten werden auch als eine Rückkoppelungsquelle bzw. Feedback-Quelle angesehen. Die Mimik spielt in diesem Fall manchmal auch mit. Diese Funktion steht im Gegensatz zur vorherigen, weil die Geste der verbalen Behauptung nicht widerspricht, sondern sie ergänzt. Eine Geste kann etwas hinzufügen, das mit Worten nicht geäußert wird. Es fällt mir folgendes Beispiel ein. Zwei Gesprächspartner treffen eine Vereinbarung miteinander; Bevor sie sich verabschieden, zwinkert der eine dem anderen zu. Diese Geste fügt der konkreten Vereinbarung möglicherweise die folgende Mitteilung hinzu: „Wir zwei haben uns verstanden“, „Sag niemandem etwas davon“ usw. Caldognetto und Poggi gliedern die Funktionen der Gestik in der zwischenmenschlichen Kommunikation in fünf Gruppen auf.62 „Gesti con funzione ripetitiva“ („Wiederholungsfunktion“). Die Geste unterstützt, bestätigt und bekräftigt das gesprochene Wort, das gleichzeitig beim Sprechen vorkommt. Anders gesagt, wiederholt die Geste das, was der Sprecher auch sprachlich sagt. „Gesti con funzione aggiuntiva“ („Zusatzfunktion“). Die Geste gibt eine zusätzliche Information, die der Sprecher mit der verbalen Mitteilung nicht äußert. In dieser Art von Interaktion ergänzen das Verbale und das Nonverbale einander. „Gesti con funzione sostitutiva“ („Ersatzfunktion“). Fällt etwa dem Sprecher ein Wort nicht ein, kann er versuchen, es mit Hilfe der Gesten zu erklären. „Gesti con funzione commentativa“ („Erläuterungsfunktion“). Die Bedeutung der Geste entspricht der Bedeutung der verbalen Äußerung nicht, sondern sie kommentiert sie auf einer stillen aber viel sagenden Weise. Das vorher erwähnte Beispiel des Zuzwinkerns erklärt diese Funktion am besten.

61 nach http://www.comunicobene.com/contenuto/cnv.html . 62 Poggi/Caldognetto (1997), nach: http://lup.lub.lu.se/luur/download?func=downloadFile&recordOId=1331449&fileOId=1331450 .

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„Gesti con funzione contraddittoria“ („Widerspruchsfunktion“). Die verbale und die nonverbale Mitteilung werden gleichzeitig gesendet, aber sie widersprechen sich. Das Wahre wird jedenfalls von der Geste dargestellt. Zusammenfassend sind hauptsächlich zwei Funktionen der menschlichen Gesten zu erkennen. Erstens erleichtern sie die Kommunikation und das Verständnis zwischen den Gesprächspartnern, wenn sprachlicher Ausdruck und Geste übereinstimmen. Wenn das nicht der Fall ist, und zwar wenn die Geste im Gegensatz zur entsprechenden sprachlichen Äußerung steht, erschwert das ein wenig die Kommunikation. Aber normalerweise haben die Gesprächspartner keine großen Schwierigkeiten, den richtigen Sinn zu begreifen, wenn sie demselben Kulturkreis angehören. Schwierigkeiten und Missverständnisse treten auf, wenn die Sprecher Vertreter unterschiedlicher Kulturen sind.

3.2. Die Gestik in der interkulturellen Kommunikation: die Grundlagen

Eine ganz zentrale Frage nonverbalen Verhaltens ist, inwieweit diese Körperbewegungen oder Gesichtsausdrücke intentional eingesetzt und als solche empfangen werden. Wie oft senden wir ein Signal, das nicht wahrgenommen wird, oder tun unbewusst etwas, das als Zeichen interpretiert wird?63

Das ist meines Erachtens der kritische und dialektische Ansatz, den die Menschen übernehmen sollten, wenn sie sich mit einer interkulturellen Begegnung beschäftigen. Gesten spielen dabei eine sehr wichtige Rolle, die überhaupt nicht unterschätzt werden kann. Es sei daran erinnert, dass hier von den Emblemen (Ekman/Friesen) oder symbolischen Gesten (Morris) die Rede ist, d.h. von jenen Gesten, die absichtlich, auch wenn spontan, eingesetzt werden und eine stark kulturell ausgeprägte „semantische Bedeutung“ mit sich bringen. Dieses sind die Gesten, welche die größten Probleme bei einer interkulturellen Kommunikation bereiten. Missverständnisse und negative Vorurteile entstehen, weil der Mensch, als Angehöriger einer bestimmten Kultur, die nonverbalen Sitten und Gebräuche der anderen Kulturen nicht oder nicht ausführlich kennt und beherrscht. Der „Kulturstock“ der anderen ist ihm unbekannt und fremd. Aus den Arbeiten, die ich gelesen habe, ergibt sich, dass „schon die erste Begegnung zwischen Fremden [Konfliktpotential birgt].“64 Jede Kultur hat ihre eigene Art und Weise, wie man sich mit den Händen begrüßt. Aufschlussreich (und lustig) ist etwa der folgende Witz:

Ein Cowboy und ein Indianer treffen sich in der Prärie. Der Indianer hebt beide Hände und zeigt mit dem Zeigefinger auf den Cowboy. Der Cowboy macht das Peace-Zeichen. Der Indianer formt mit beiden Händen ein Dreieck, daraufhin schüttelt der Cowboy den Kopf und bewegt eine Hand schlängelnd vorwärts.

63 nach: http://www.daz-daf.de/htm/daf/nonverbal.html . 64 nach: http://nibi ni.schule.de/~iakm/Materialen/wahrlich.pdf .

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Dann trennen sich die beiden. Zuhause angekommen, erzählt der Cowboy seinen Freunden, er hätte einen brutalen Indianer getroffen, der ihm drohte: „Hände hoch, oder ich schieße!“ Auf seine eigene Friedensbezeugung hin hatte ihm der Indianer mit „Hau bloß ab!“ geantwortet, ihn dann aber ziehen lassen. Der Indianer erzählt zu Hause, er habe einen bleichgesichtigen Idioten getroffen, der, nach dem Namen gefragt, „Flussziege“ geantwortet hatte.65

Obwohl das nur ein alter Witz ist, lässt er deutlich verstehen, dass solche Situationen sehr häufig vorkommen können. Normalerweise erzählt man übliche und bekannte „Situationsmuster“ in Witzen, so dass alle den richtigen Sinn begreifen und mitlachen können. Gestik und die daraus entstehenden Missverständnisse bei einer interkulturellen Interaktion sind Teil des menschlichen Alltagslebens: Die Sprecher setzen Gesten ein, wenn sie sich begrüßen, sich etwas geben oder nehmen und wenn sie feiern, essen, trinken, lachen, trauern, usw. Zudem haben sie unzählige Gesten für Freude, Bewunderung, Schlafen, Enttäuschung, Verachtung, Freundschaft, Unwilligkeit, Liebe, usw.. Für all diese Situationsdefinitionen stehen den verschiedenen Kulturen der Welt eine Menge Gesten zur Verfügung. Ein interkultureller Austausch kann zwei mögliche Wege gehen. Auf der einen Seite stellen wir uns vor, dass zwei Gesprächspartner mehr oder weniger ein ähnliches Orientierungssystem im Kopf haben, was die Gestik angeht. Wenn sie keine gemeinsame Sprache sprechen, aber ähnliche Gesten verwenden, können die beiden sich verstehen. Die Gestik gilt deswegen als Hilfsmittel. Auf der anderen Seite stellen wir uns vor, dass die zwei Gesprächspartner eine gemeinsame Sprache beherrschen oder auch nicht und keinen gemeinsamen Gesten-Wortschatz haben. Das vereinfacht die Sache nicht. Die Gestik ist kein Hilfsmittel mehr, sondern wird als konkretes Hindernis angesehen.66 Das Ziel ist es nun, zu verdeutlichen, warum die Sprecher sich meistens im zweiten Fall befinden. „Andere Länder, andere Sitten“ ist ein Spruch, der auch für das Teilgebiet der Gestik gilt. Einige Gesten bestehen nur in einem bestimmten Kulturkreis (am bekanntesten ist „la mano a borsa“ der Italiener), während andere in verschiedenen Kulturen existieren, aber dort eventuell ganz unterschiedliche Bedeutungen haben (das Ringzeichen in den USA, Japan, Brasilien, Russland, Griechenland und Frankreich ist ein Beispiel für Gestenpolysemie).67 Die Sprecher kommen zu einer interkulturellen Begegnung mit ihrem „Kulturstock“, d.h. mit der Gesamtheit ihrer „körperlichen Kulturstandards“, welche die eigene Ansicht des Gesprächspartners beeinflussen. Wenn ein Sprecher eine Geste des anderen beobachtet, interpretiert er sie von seiner „kulturellen Weltansicht“ aus. Das passiert, weil der Mensch die Neigung hat, „den Bedeutungsgehalt von Gesten […], die wir aus unserer eigenen Kultur kennen, auf die fremde [zu] übertragen.“68 Gesten sind von Kind auf stufenweise zu erlernen. 65 nach: http://www.wienerzeitung.at/themen_channel/wz_reflexionen/kompendium/169116_Sprechende-H-und-aumlnde.html . 66 nach http://nibi ni.schule.de/~iakm/Materialen/wahrlich.pdf , http://home.arcor.de/bognas/grundlagen.htm . 67 Ausführliche Beispiele von Gesten in der Welt finden Sie auf die Webseiten: http://www.comunicobene.com/contenuto/cnv.html , http://www.psico.univ.trieste.it/fac/mdida2/Lezione3.ppt - Siehe auch Ting-Toomey (1999), 124. 68 nach http://nibi ni.schule.de/~iakm/Materialen/wahrlich.pdf .

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Der Mensch erlernt ihre Bedeutung (die Art und die Häufigkeit ihrer Ausführung), die Situation, den Ort und die Zeit, wo er sie in seiner Gesellschaft verwenden darf. Am Ende dieses unbewussten Vorgangs sind die Gesten internalisiert bzw. verinnerlicht, und der Mensch setzt sie spontan ein, meistens ohne darüber nachzudenken: Seine Körpersprache ist ihm selbst meistens unbewusst. Die Folge eines derartigen mental-körperlichen Verfahrens in einem interkulturellen Austausch ist offenbar. Der Sprecher sieht seine Gesten als normal an, aber bemerkt sofort diejenigen seines Empfängers und fühlt sich verwirrt, weil er sie nicht versteht.69 Georg Auernheimer, Pädagoge an der Universität Köln, spricht sogar von einer Enttäuschung der Erwartungen des Kommunikationspartners. Das daraus hervorgehende Gefühl ist eins von Missachtung oder Distanz dem Gesprächspartner gegenüber.70 Schlimmstenfalls entstehen auch Vorurteile. Nordeuropäer etwa „consider that the use of too many hand gestures is distracting, rude and undisciplined“, wenn sie mit Südeuropäern, die sich so verhalten, zu tun haben.71 Als Lösung dieser Schwierigkeiten schlagen die Wissenschaftler folgende Strategien vor. Erstens ist das Wissen um die „körperlichen Kulturstandards“ der anderen notwendig, damit man die Gesten des Gesprächspartners richtig versteht und interpretiert. Das ist aber praktisch unmöglich: Wie kann man die Gesten aller Kulturen der Welt kennen? So zeitigt eine andere Strategie bessere Resultate. Eine offene Mentalität zu haben, das ist der Schlüssel zum interkulturellen Verständnis. Wissenschaftler meinen damit folgende Persönlichkeitsmerkmale: Einfühlungsvermögen, Sympathie, Verständnisfähigkeit, Akzeptanz, Neugierde, Konfliktbereitschaft, Unsicherheit, Zweifel und die Gewissheit, dass es Unterschiede gibt. Wenn der Mensch diese Unterschiede bei der Gestik erkennt, und darauf achtet, möglicherweise mehrdeutige Handbewegungen nicht einzusetzen, kann er mit den genannten Persönlichkeitsmerkmalen eine erfolgreiche interkulturelle Interaktion erreichen. Der Mensch sollte nach der Sensibilisierung für die „Behavioreme“ anderer Kulturen streben und einen Bewusstwerdensprozess durchlaufen.72 Natürlich ist das sehr schwierig. Trotzdem sollte man es versuchen, damit die interkulturelle Kommunikation vorurteilsfrei verlaufen kann. Die Gestik der Welt ist höchst verwickelt, wenn wir daran denken, dass ca. 700.000 Körperbewegungen (hier werden auch die Gesichtsausdrücke – die Mimik – mitgezählt) gezählt wurden.73 Jeder von diesen Gesten wird eine willkürliche Bedeutung zugeschrieben, die von der einzigartigen Geschichte und Entwicklung einer Kultur und ihrer Bevölkerung abhängt. Die Gesten stellen daher „un sistema di segni condivisi“ mit ihren Werten innerhalb eines Kulturkreises dar.74 Alessandro Falassi, Anthropologe an der Universität Siena, gibt eine genaue Erklärung der Funktion der Gestik:

69 nach http://home.arcor.de/bognas/grundlagen.htm . 70 nach http://www.niederoesterreich-sozialarbeit.at/homepagenobds/Freithofer%20Auernheimer-Artikel.htm . 71 Ting-Toomey (1999), 124. 72 nach http://jaling.ecml.at/pdfdocs/articles/korpersprachen.pdf . 73 nach http://www.kid-gelnhausen.de/pdf/temp/workshop_8.pdf . 74 nach http://www.comunicobene.com/contenuto/cnv.html .

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Complessivamente, oggi il linguaggio del gesto viene considerato come un codice culturale carico di significato: coloritura o vernacolo, testo o cotesto, lingua o parola, norma o trasgressione, il gesto è insieme inscindibile di lingua e cultura, e serve ad intenderle compiutamente entrambe.75

Eine Theorie wurde sogar aufgestellt, welche die Gestik mit der Religion zusammenhängt. Der britische Historiker Peter Burke behauptet, dass Gesten in den protestantischen Ländern weniger als in den katholischen Ländern eingesetzt werden.76 Das könnte zum Teil auch richtig sein. Allerdings erklärt diese Theorie nicht, warum es große Unterschiede innerhalb eines einzigen Landes bzw. einer Kultur gibt. Auf der einen Seite sind daher die Vertreter der Theorie, nach der diejenigen, die die gleiche Sprache sprechen, auch die gleichen Gesten verwenden. Auf der anderen Seite stehen diejenigen, die das als einen unmöglichen Zustand ansehen. Ihrer Meinung nach unterscheiden sich Gesten auch von Subkultur zu Subkultur (Nord-Süd, Männer-Frauen, Erwachsene-Jugendliche, soziale Herkunft usw.).77 Wir werden dieses Thema bezüglich des Vergleichs Italien-Deutschland näher betrachten. Auf jeden Fall erweist sich die Gestik aus wissenschaftlicher Sicht als ein höchstkompliziertes Forschungsgebiet, das zu zahlreichen manchmal entgegensetzten Ergebnissen geführt hat.

3.3. Ein interkultureller Vergleich: Deutschland und Italien

So weit wurde die Funktion der Gestik als Verständigungs- und Missverständnismittel in der interkulturellen Begegnung besprochen. Nun, da man sich dessen bewusst ist, was mit Gestik und ihren Verwicklungen im interkulturellen Austausch gemeint ist (und was für Gesten hier am meisten betrachtet werden), können wir uns einem konkreten Vergleich widmen, und zwar dem zwischen der deutschen und der italienischen Art und Weise, die eigenen Arme und Hände beim Sprechen zu bewegen. Ich werde den Vergleich folgendermaßen durchführen. Zuerst wird einer theoretischen Einführung in die deutsche und italienische Gestik Raum gegeben, besonders unter Berücksichtigung der Theorie Hofstedes und die Arbeiten Morris‘ und Diadoris. Den theoretischen Grundlagen folgt die Praxis: Ein allgemeiner in Kategorien unterteilter Überblick über die deutschen und italienischen Gesten wird durchgeführt. Ähnlichkeiten und Unterschiede werden hervorgehoben.

3.3.1. Eine theoretische Einführung in die deutsche und die italienische Gestik

In seiner Forschung über die verschiedenen Völker und Kulturen der Welt unterscheidet Hofstede u.a. die individualistischen Länder von den kollektivistischen Ländern: Individualismus vs. Kollektivismus. Anhand ihrer Zugehörigkeitsgruppe wird den Ländern ein Zahlenwert zugeordnet, der dem jeweiligen Individualismus- oder Kollektivismus-Niveau entspricht. Sowohl Deutschland als auch Italien zählen zu den individualistischen Ländern.

75 Falassi, nach Diadori (1990), 12. 76 nach http://www.tu-chemnitz.de/phil/leo/rahmen.php?seite=r_kult/ruda_reimann.php . 77 nach http://www.payer.de/kommkulturen/kultur042.htm , http://www.flechsig.biz/003DLR.pdf .

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Jedoch bestehen ziemlich große Unterschiede zwischen den zwei europäischen Ländern/Kulturen. Das Individualismus-Niveau Deutschlands ist 67, während das Individualismus-Niveau Italiens 76 ist.78 Italien scheint daher individualistischer zu sein. Ting-Toomey versucht, die Ergebnisse Hofstedes auf die Gestik anzuwenden.79 Sie folgt der Unterscheidung zwischen den kollektivistischen und den individualistischen Ländern. Als Angehörige einer sehr individualistischen Kultur, schätzen Italiener die offene Äußerung eigener spontaner Gefühle und Emotionen beim Sprechen. Diese Spontaneität bezieht sich auch auf die „gespürte Freiheit“, unzählige Gesten oft einzusetzen. Italiener fühlen sich wohl, wenn sie spontan sprechen und sich bewegen können. Auf der anderen Seite stehen die Deutschen, die einer weniger individualistischen Gesellschaft bzw. Kultur angehören. Bei ihnen ist das Nonverbale verhaltener. Sie versuchen meistens, den Ausdruck der eigenen Gefühle zurückzuhalten, weil sie eine unangenehme Reaktion des Gesprächspartners „befürchten.“ Dieses unterschiedliche Verhalten spiegelt sich in der allgemeinen und verbreiteten Auffassung wider, dass die Italiener gewöhnlich viel mehr Gesten als die Deutschen einsetzen. Italiener sind weltweit bekannt, weil sie auch nur mit Händen kommunizieren und sich untereinander mühelos verstehen können: Sie sind „ein stark gestikulierendes Volk.“80 Bei ihnen dienen Gesten dazu, die sprachliche Mitteilung zu begleiten, zu unterstreichen, zu unterstützen und zu ersetzen, oder „Dinge, die man nicht offen sagt, auszudrücken.“81 All die Funktionen der Gesten bzw. der Embleme (auch symbolische oder lexikalische Gesten genannt) entfalten sich im italienischen nonverbalen Verhalten, so dass man sogar behaupten kann, dass die Interaktion zwischen italienischen Gesprächspartnern „multimodal“ erfolgt.82 Das Gleiche kann von der deutschen Art und Weise, die Hände zu bewegen, nicht gesagt werden. Die Deutschen sind zurückhaltender, was die Verwendung von Gesten betrifft. Die Wissenschaftler sind der Meinung, dass die Deutschen sich lieber einer direkten und sachlichen Ausdrucksweise bedienen, die kaum Handbewegungen vorsieht.83 Die Gründe, weshalb solche Unterschiede sich feststellen lassen, sind gar nicht einfach zu entdecken. Die Kultur ist dafür verantwortlich: Das ist leichter zu behaupten als wissenschaftlich zu erklären. Wie schon gesagt, sind die wissenschaftlichen Forschungen über die Gestik zu verschiedenen, manchmal sich widersprechenden Ergebnissen gekommen, obwohl der Ansatzpunkt immer die Kultur ist. Die Theorie von Burke wurde schon eingeführt. Durch die Reformation haben sich die protestantischen Länder zu Gesellschaften/Kulturen entwickelt, die wenig die Gesten einsetzen. Im Gegensatz dazu sprechen die katholischen Kulturen gerne mit Händen. Wenn man den Grundlagen dieser Theorie folgt, ist Deutschland ein kaum gestikulierendes Volk, während Italien ein stark gestikulierendes Volk ist. Im Grunde ist das richtig. Der Fehler dieser zu verallgemeinernden Theorie ist jedoch, dass Deutschland auch katholisch ist.

78 nach http://www.clearlycultural.com/geert-hofstede-cultural-dimensions/individualism/ . 79 Ting-Toomey (1999), 120-125. 80 nach http://www.tu-chemnitz.de/phil/leo/rahmen.php?seite=r_kult/ruda_reimann.php . 81 nach http://eu-community.daad.de/ci_cz_ik0.0.html . 82 nach http://www.tu-chemnitz.de/phil/leo/rahmen.php?seite=r_kult/ruda_reimann.php . 83 nach http://www.berater.de/Fachartikel/list .

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Eine weitere Hypothese hat sich im Laufe der Zeit entwickelt und weiter verstärkt. Sie teilt die Kulturen der Welt in zwei Gruppen auf. Zur einen zählen Südeuropäer, Südamerikaner und Araber: Ihre Gespräche sind emotional, expressiv und mit unzähligen Gesten betont. Zur anderen gehören Nordeuropäer und Asiaten: Sie „prefer quiet gestures when speaking.“84 Dieser „quiet gestures“ bedienen sich z.B. die Deutschen. Es ist klar, dass man es auch in diesem Fall mit einer wahrscheinlich übertriebenen Verallgemeinerung zu tun hat. Die Wirklichkeit ist in der Tat komplexer. Die Hypothese von einer Globalisierung der Gestik bzw. der „nonverbalen Beziehungen“ in der Welt ist allein schon im Fall von Italien und Deutschland, zwei geographisch nahen Ländern, auszuschließen. Trotz der wachsenden Globalisierung durch die Medien, berichtet Ulrich Zeuner der Universität Dresden, dass national-kulturelle Unterschiede nur oberflächlich verschwunden sind. Wenn man sie näher betrachtet, erscheint ihr gesamtes Bild. Sie sind da, und man sollte sie nicht vernachlässigen.85 Besonders in Bezug auf Italien ist von regional-kulturellen Merkmalen die Rede. So weit ich in meiner Recherche herausgefunden habe, drücken die Wissenschaftler der ganzen Welt ihre Überraschung aus, wenn sie die Heterogenität der italienischen Gesten zu verstehen versuchen. Die Untersuchung von Roland Posner ist hierfür exemplarisch. Im Gegensatz zur Theorie Goffmans („gleiche Sprache, gleiche Gesten“), können für ihn unterschiedliche Gesten durchaus der gleichen Sprache entsprechen. Als Beispiel nennt er den südlichen Mittelmeerraum, dessen „kulturelle Grenzen“ durch Italien verlaufen. Posner meint, dass die Menschen südlich von Neapel andere Gesten verwenden als die Menschen nördlich von Neapel. Hier gilt die Regel „gleiche Sprache, unterschiedliche Gesten.“ Posner führt das Bestehen dieser Sprachgrenze auf die historischen Ereignisse zurück, die in Norditalien anders als in Süditalien gewesen sind. Die griechische Kolonisation vor 2500 Jahren war dafür verantwortlich, dass die Regionen Süditaliens ihre Kultur bzw. ihre Gesten übernommen haben. In den nördlichen Regionen waren hingegen die Gesten der lokalen Bevölkerungen verbreitet. Das würde die Verwendung unterschiedlicher Gesten innerhalb eines einzigen Landes erklären.86 Sobrero spricht sogar von einer unterschiedlichen Häufigkeit des Einsatzes von Gesten. Nicht nur, dass sie von Region zu Region verschieden sind, Süditaliener, besonders Napolitaner, verwenden ihre Arme und Hände beim Sprechen auch öfter als Norditaliener.87 Maddii bestätigt diese Aussagen, wenn sie äußert, dass:

Probabilmente le mani, insieme al viso, sono gli strumenti di comunicazione non verbale più utilizzati e maggiormente codificati, sarebbe dunque difficile fare una panoramica dell’estrema variabilità, anche da una regione all’altra dell’Italia.88

84 Ting-Toomey (1999), 125. 85 nach http://www.tu-dresden.de/sulifg/daf/mailproj/kursbuc2.htm . 86 nach http://www.flechsig.biz/003DLR.pdf . 87 nach http://lup.lub.lu.se/luur/download?func=downloadFile&recordOId=1331449&fileOId=1331450 . 88 nach: http://www.irre.toscana.it/sell/resources/competenzacomunicativa.htm .

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Die internen Unterschiede in Italien werden auch durch regional-begrenzte Forschungen bestätigt. So hält Diadori, um ein Beispiel zu erwähnen, die Untersuchung von Diego Carpitella über die Gestik in Neapel und in der Barbagia sarda (in den 70er Jahren durchgeführt) für hervorragend.89 Auch Diadori selbst hat sich mit dem Teilgebiet der Gestik gründlich beschäftigt. Sie führt die Vielfältigkeit der italienischen Gestik auf die beachtlichen Einflüsse der Dialekte zurück (so in etwa auch in der Theorie Posners). Die Geschichte Italiens als vereinigter Staat begann erst 1861. Die damals gesprochenen Sprachen, d.h. die Dialekte, haben die nonverbalen Komponenten der Kommunikation ständig beeinflusst und zu den heutigen Ausdrucksformen geführt. Nicht nur die lokalen Dialekte sondern auch die externen Sprachen und Kulturen, mit denen Italien in Kontakt stand, haben die lokalen Gestensprachen geschaffen und verändert.90 Zusammenfassend kann man von Homogenität im Bereich der Gestik überhaupt nicht sprechen. Obwohl es nationale Merkmale sowohl in Deutschland als auch in Italien gibt, sind regionale Unterschiede auch zu beachten, da sie auch innerhalb derselben Kultur Mißverständnisse verursachen können. Das ist besonders so im Fall Italiens. Dieser Aspekt muss berücksichtigt werden, wenn wir uns dem Vergleich zwischen der italienischen und der deutschen Gestik widmen.

3.3.2. Beispiele italienischer und deutscher Gesten: ein Vergleich

Wie gesagt, ist das Teilgebiet der Gestik zu weit, um es ausführlich und völlig behandeln zu können. Die Klärung einiger Voraussetzungen ist vor der konkreten Analyse der deutschen und der italienischen Gestensprache indes notwendig. Erstens ist die Liste der Gesten fast endlos, weil eine Geste verschiedene Varianten haben kann, die von der Region, der sozialen Schicht, dem Geschlecht oder dem Individuum selbst abhängen. Darum werde ich die „Prototypen“ der Gesten vergleichen. Zweitens unterscheiden sich die wissenschaftlichen Ergebnisse der Untersuchungen der Gesten, die sie analysieren, in der Bedeutung, die sie ihnen zuschreiben. Die bis jetzt durchgeführten Untersuchungen, so detailliert sie auch sein mögen, enthalten nicht all die Gesten aller Bevölkerungen/Kulturen der Welt. Wissenschaftler werden es auf Grund der Weite des Felds sehr wahrscheinlich auch nie schaffen. Aus diesen Gründen wird mein Vergleich auch nicht vollständig sein. Wie der Titel meines Beitrags lautet, geht es um einen ersten Überblick. Desmond Morris und sein Team von Sozioanthropologen haben die Art und Weise erstmals gründlich untersucht, wie der Mensch in allen Teilen der Welt seine Hände bewegt. Das war im Jahre 1994, jedoch sind die Ergebnisse ihrer Untersuchungen noch heute von hervorragender Bedeutung: wegen der theoretischen Präzision, der Erweiterung der Forschung und des ausgeprägten interkulturellen Charakters. Die Studie der Gesten der Welt wurde im Buch I gesti nel mondo. Guida al linguaggio universale veröffentlicht.91 Die Gesten sind nach den Körperteilen aufgelistet, die man dabei am meisten verwendet. Von jeder Geste

89 Diadori (1990), 11. 90 Ebda., 13. 91 Morris (1994). Der Originaltitel ist Bodytalk. A World Guide to Gesture.

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werden die Zeichnung, die Bedeutung, die Körperbewegung, der Ursprung und die Lokalisation (d.h. das Land, wo die Geste am häufigsten beobachtet wurde) wiedergegeben. Mein Vergleich fängt mit dem Unterschied in der Anzahl der italienischen und deutschen Gesten an. Morris bezeichnet 75 Gesten als typisch italienisch und nur 13 als typisch deutsch. Zudem teilt Italien, nach Morris, zwei Gesten mit Deutschland. Diese Daten lassen schon sehr deutlich verstehen, wie die Tradition und die „angeborene Gewohnheit“ der Gestik in Italien stärker als in Deutschland verbreitet ist. Theoretisch würden sich ein Italiener und ein Deutscher überhaupt nicht verstehen, wenn sie nur mit ihren Armen und Händen kommunizieren würden. Es folgt ein weiterer interessanter Punkt. Nicht nur sind die italienischen Gesten zahlreicher als die deutschen, sondern sie werden sogar in Unterkategorien unterteilt. Während die Lokalisation der deutschen Gesten immer wieder ein allgemeines „Deutschland“ ist, ist die Lokalisation der italienischen Gesten spezifischer. Man liest die Kennzeichnungen „Italien“ (47 Beispiele), „Norditalien“ (1 Beispiel), „Süditalien“ (19 Beispiele), „Sizilien“ (1 Beispiel) und „Italien, besonders Neapel“ (7 Beispiele). Das bestätigt die Verwendung von regionalen Gesten innerhalb eines Landes. Diese regionalen Gesten werden Einwohnern einer anderen italienischen Region möglicherweise nicht verständlich sein. Eine weitere Bemerkung scheint mir erwähnenswert. Nach der Untersuchung Morris‘ wird eine riesige Anzahl von Gesten (199) in der ganzen oder in der westlichen Welt benutzt. Ihre Lokalisation im Buch ist nämlich „die Welt“ oder „der Westen.“ Das bedeutet, dass diese Körperbewegungen in den Interaktionen zwischen Italienern oder Deutschen erscheinen können, weil sie zum italienischen und deutschen „Kulturstock“ gehören. Diese Gesten würden daher die interkulturelle Kommunikation zwischen einem Italiener und einem Deutschen erleichtern, aber können nicht als kulturspezifisch angesehen werden. Sie sind fast universell und beziehen sich meistens auf die Art und Weise, wie sich der Mensch begrüßt (der militärische Gruß ist auch mit einbezogen), küsst, beschimpft, wie er betet und auf die anderen zeigt (der bekannte Zeigefinger). Auch die Gesten, welche die Sportler einsetzen, sind ungefähr die gleichen in Italien und Deutschland. Zuletzt sind auch die Bedeutungen gleich, die den verschiedenen Weisen, wie der Mensch sitzt oder denkt, zugeschrieben werden. Aber das hat weniger mit der Gestik im engeren Sinne als mit der Körpersprache im Allgemeinen zu tun. Bei meinem Vergleich habe ich mich auf die Arbeit Diadoris gestützt, die 1990 das Buch Senza parole. 100 gesti degli italiani veröffentlicht hat. Obwohl das Buch schon vor zwanzig Jahren erschien, ist es im Grunde immer noch aktuell, weil die Gesten einer Kultur sich nur sehr langsam verändern. Außerdem habe ich nützliche Online-Informationen darüber gefunden, welche Gesten die Deutschen einsetzen, da das Buch sich bloß mit den italienischen Gesten beschäftigt. Der Vergleich wird wie folgt durchgeführt. Die Gesten werden in Kategorien aufgeteilt. Für jede Geste gebe ich: die entsprechende Zeichnung, die Information, ob die Geste nur typisch italienisch oder typisch deutsch ist oder ob sie in beiden Ländern bekannt ist und, wenn ja, ob sie dann die gleiche Bedeutung hat.

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1) Gemütszustand

Bedeutung: „Was für eine Angst habe ich!“ / „Du hast Angst, eh?!“ (in anderen Kontexten kann die Geste auch bedeuten „Schließ deine Rede ab“). Verwendung nur in informellen Kontexten, weil sie ein bisschen unhöflich sein kann. Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Ich freu mich über / auf etwas“ / „Sehr gut!“ Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt.

Bedeutung: „So ein langweiliger Mensch!“ / „Wie langweilig!“ / „Ich bin gelangweilt!“ / „Che barba!“ (wie man auf Italienisch sagt). Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt. Bedeutung: „So ein langweiliger Mensch!“ / „Wie langweilig!“ / „Ich bin gelangweilt!“ Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt. Bedeutung: „Alles in Ordnung!“ Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt.

2) Meinung

Bedeutung: „Du bist verrückt!“ / „Ich bin doch nicht verrückt!“ Verwendung in informellen Kontexten. Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt. In Deutschland sagt man „den Vogel zeigen.“

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Bedeutung: „Du bist verrückt!“ Verwendung in informellen Kontexten. Die ersten drei Gesten sind sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt. Die letzten zwei sind eher typisch italienisch. Mit der letzten Geste äußert man auch: „Und ich war da und spielte den Dummen!“

Bedeutung: „Ich bin doch nicht dumm!“ / „Non ci ho mica scritto giocondo in fronte!“ (wie man auf Italienisch sagt). Verwendung in informellen Kontexten. Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt. Bedeutung: „Du bist verrückt!“ Verwendung in informellen Kontexten. Typisch deutsche Geste (auch Scheibenwischergeste genannt) – in Italien nicht bekannt. Bedeutung: „Er ist ein Dieb.“ / „Er hat etwas gestohlen.“ (auch im metaphorischen Sinn). Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Es ist mir doch egal!“ Verwendung nur in informellen Kontexten, weil sie unhöflich sein kann. Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

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Bedeutung: „Etwas ist teuer.“ Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt.

Bedeutung: „Perfekt!“ / In Neapel „Sie ist sehr schön.“ (auch mit zwei Händen). Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt, die neapolitanische Bedeutung ausgeschlossen. Bedeutung: „Ich kann ihn nicht leiden!“ Verwendung nur in informellen Kontexten, da sie unhöflich sein kann. Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Betrogen.“ Die Geste hat ihren Ursprung vor 2500 Jahren in Italien, aber sie ist heutzutage auch in Deutschland bekannt.

Bedeutung: „Der ist schwul.“ Verwendung in informellen Kontexten.

Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt. 3) Essen & trinken

Bedeutung: „Ich habe Hunger.“ Verwendung in informellen Kontexten. Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Ich habe Hunger.“ Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt.

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Bedeutung: „Kochen wir uns Spaghetti?“ Verwendung in informellen Kontexten. Typisch italienische Geste, die mit der italienischen „Kultur der Pasta“ zusammenhängt – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Lecker!“ / „Al bacio!“ (wie man auf Italienisch sagt), wenn es sich auf das Essen bezieht. „Sie ist sehr hübsch!“, wenn es sich auf eine Frau bezieht. Die zweite Bedeutung kann ein bisschen unhöflich sein. Die Geste wird daher nur in informellen Kontexten eingesetzt. Typisch italienische Geste, aber die erste Bedeutung scheint auch in Deutschland

bekannt zu sein.

Bedeutung: „Ganz lecker!“ Die Geste wird nur eingesetzt, wenn der Sprecher vom Essen redet. Typisch Italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Ich habe Durst!“ / „Was für einen Säufer!“ Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.92

Bedeutung: „Ich habe Durst.“ Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland bekannt.

92 Morris (1994), 203.

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4) Kommunikation Diese Geste hat viele Bedeutungen: „Was willst du von mir?“ / „Was machst / sagst du

denn?“ / „Wer hat dich was gefragt?“ / „Na und?“ / „Ich verstehe nicht!“ / „Wo liegt denn das?“ usw. Das ist die bekannteste und absolut am meisten verwendete Geste in Italien („la mano a borsa“). Sie ist auch nur typisch

italienisch. Sie ist nirgendwo anders bekannt. Bedeutung: „Lass mich nachdenken“, etwa weil der Sprecher Zweifel an etwas hat. Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt. Die Deutschen müssen aber beachten, dass die Geste in Italien auch etwas anderes bedeutet (siehe oben). Bedeutung: „Es war so viel los!“ Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Können Sie mich mitnehmen?“ – Trampen. Typisch italienische Geste, aber sehr wahrscheinlich in Deutschland auch bekannt. Bedeutung: „Moment, bitte!“ Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt.

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Bedeutung: „Wie habe ich das vergessen?“ / „Che sbadato!“ (wie man auf Italienisch sagt). Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt.

Bedeutung: „Me lo sono lavorato per bene.“ (wie man auf Italienisch sagt). Der Sprecher hat seinen Gesprächspartner überzeugt, etwas (nicht) zu tun, oder an etwas zu glauben. Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Pass auf!“ / „Achtung!“ / „Einverstanden, oder?“ (z. B. eine Geheimsache) / „Ich bin doch nicht dumm!“ / „Du bist schlau!“ Der Sinn hängt vom Kontext ab. Die ersten zwei Bedeutungen sind sowohl in Italien als auch in Deutschland bekannt. Die anderen sind eher typisch italienisch. Bedeutung: „Ich muss auf die Toilette.“ Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Viel Glück!“ Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Viel Glück!“, auch „jemandem die Daumen drücken“ genannt. Typisch deutsche Geste – in Italien nicht bekannt.

Bedeutung: „Dickschädel!“ Verwendung in informellen Kontexten. Die Geste hat diese Bedeutung nur in Italien. In Deutschland bedeutet sie Anerkennung, z. B. am Ende einer Vorlesung.

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Bedeutung: „ Später.“ Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Schließ deine Rede ab!“ / „Taglia!“ (wie man auf Italienisch sagt). Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

5) Sich nähern und sich entfernen Bedeutung: „Komm mal her!“ Typisch italienische Geste – in Deutschland auch bekannt, aber weniger als die folgende Geste verwendet.

Bedeutung: „Komm mal her!“ Typisch deutsche Geste – in Italien auch bekannt, aber weniger als die vorherige Geste verwendet.93

Die Hand wird wiederholt bewegt. Bedeutung: „Ich gehe.“ / „Geh weg!“ Verwendung nur in informellen Kontexten, da sie ein bisschen unhöflich sein kann. Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Ich gehe!“ / „Geh weg!“ Verwendung nur in informellen Kontexten, da sie unhöflich sein kann. So weit ich aus meiner persönlichen Erfahrung weiß, ist dieses eine typisch italienische Geste, die eine vulgäre Bedeutung in Deutschland hat.

93 Morris (1994), 107, nach: http://nibi ni.schule.de/~iakm/Materialen/wahrlich.pdf .

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Bedeutung: „Ich gehe!“ / „Geh weg!“ Typisch deutsche Geste – in Italien nicht bekannt. 6) Freund- und Feindschaft

Bedeutung: „Sie können sich nicht leiden!“ Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Sie sind sehr gute Freunde“ oder „mit jemandem eine Liebelei haben“ oder auch „mit jemandem unter einer Decke stecken“. Der Sinn hängt natürlich vom Zusammenhang ab. Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

7) Schwören und Lügen

Bedeutung : „Hoffentlich nicht!“ / „Tie’!“ / „Tocco ferro!“ (wie man auf Italienisch sagt). Die Geste wird eingesetzt, um sich von einer Gefahr, dem Unglück oder dem bösen Blick zu schützen, die auch nur ein Wort oder ein Bild sein können. Wenn die

Hand horizontal ist, bedeutet die Geste etwas wie „der Teufel soll ihn holen!“ Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

Bedeutung: „Ich schwöre es!“ Typisch italienische Geste, aber wahrscheinlich in Deutschland auch bekannt.

Wenn der Sprecher seine Hand hinter den Rücken steckt, will er sagen: „Es ist nicht richtig, was ich sage“ / „Ich lüge.“ Typisch italienische Geste – in Deutschland nicht bekannt.

8) Begrüßung

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Bedeutung: „Hallo.“ / „Guten Tag.“ / „Tschüss.“ / „Auf Wiedersehen.“ Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt, obwohl die Deutschen sie im Allgemeinen mehr als die Italiener verwenden.

Bedeutung: „Hallo.“ / „Guten Tag.“ / „Tschüss.“ / „Auf Wiedersehen.“ Sie ist sowohl in Italien als auch in Deutschland mit derselben Bedeutung bekannt, obwohl die Italiener sie im Allgemeinen mehr als die Deutschen verwenden.

4. Schlussbemerkungen

Gestik und Sprache stehen in enger Verbindung miteinander und stehen beide in enger Verbindung mit der Kultur, die sie widerspiegeln. Die Kultur, das Verbale und das Nonverbale bilden eine feste Einheit, auf die das Individuum in der Kommunikation zurückgreift, auch wenn er versucht, seine geographische Herkunft zu überspielen oder gar verborgen zu halten. In der interkulturellen Kommunikation sind Mißverständnisse darum kaum zu vermeiden. Der Vergleich zwischen der italienischen und der deutschen Gestik hat genau das gezeigt. Große Unterschiede bestehen in der Art und Weise, wie die Italiener auf einer Seite und die Deutschen auf der anderen Seite ihre Hände beim Sprechen bewegen. Es geht insbesondere um die Häufigkeit der Verwendung von Gesten, die Weite des Gesten-Wortschatzes, und die Bedeutung der Gesten selber, die auch sehr stark variieren können. Weiterhin ist auch die Intensität der Forschung in den zwei Ländern unterschiedlich. Allein die Tatsache, dass sich mehr italienische als deutsche Arbeiten über die Gestik finden lassen, ist bezeichnend. Dass das Thema in wissenschaftlicher Hinsicht in Italien für „wichtiger“ gehalten wird als in Deutschland, legt nahe, dass es auch in der Kultur des Landes eine größere Relevanz besitzt. Das ist ein nicht unerheblicher kultureller Unterschied. Es ist jedoch außerordentlich wichtig, dass der Mensch, ob nun Forscher oder Laie, Kategorisierungen und Verallgemeinerungen irgendwelcher Art vermeidet, wenn er mit Angehörigen anderer Kulturkreise umgeht. Kategorien und Modelle sind für die wissenschaftliche Erforschung von Phänomenen wie das der Gestik unverzichtbar. Sie aber als feste Gegebenheiten vorauszusetzen, kann der interkulturellen Kommunikation auch hinderlich sein. Denn:

Kultur ist immer „nur“ eine kollektive Prägung. Jeder Mensch ist individuell und darf nicht ausschließlich über seine Gruppenzugehörigkeit beurteilt werden!94

94 nach: http://eu-community.daad.de/elearning_awareness_2.0.html (08.04.08).

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Bibliographie

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Dimension of Language – Essays in Honor of David McNeill, Amsterdam: Benjamin. Heringer, Hans Jürgen (2004), Interkulturelle Kommunikation, Tübingen, Basel: Francke (UTB 2550). Knapp, Annelie (2010), Interkulturelle Kompetenzen. Eine sprachwissenschaftliche Perspektive, in: Auernheimer, Georg, Interkulturelle Kompetenz und Professionalität. Interkulturelle Studien, 3. Aufl., Wiesbaden: VS Verlag für Sozialwissenschaften, 81-97. Molcho, Samy (1994), Körpersprache, München: Mosaik Verlag. Morris, Desmond (1978), Der Mensch mit dem wir leben: Ein Handbuch unseres Verhaltens, München: Droemer. Morris, Desmond (1994), I gesti nel mondo. Guida al linguaggio universale, Milano: Mondadori. Poggi, Isabella (2002), Symbolic Gestures: The case of the Italian Gestionary, in: Gesture, vol. 2, 1, 71-98. Internet-Quellen (zuletzt eingesehen am 8.2.2012) http://arbeitsblaetter.stangl-taller.at/KOMMUNIKATION/KommNonverbale.shtml .

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Renata Zanin

LANGUAGE LEARNING WITH CORPORA IN A MULTILINGUAL WORKING ENVIRONMENT

“South Tyrol is a tiny region in the North of Italy just at the border to Austria and till

1918 it was part of Austria.” This is how I had written the sentence in my draft – this to

introduce one of a certain typology of language users interested in corpora – prior to a

quick look at the BNC which suggested that I had chosen the wrong prepositions. So,

let’s start all over again: South Tyrol is a region in the North of Italy just on the border

with Austria and till 1918 it was part of Austria.

If I had not undertaken the rather unimpressive search in the BNC I would have given

the perfect example of a certain category of language use we have to deal with in South

Tyrol: the language use at a rather high level of competence, but stagnant and not open

to further improvement. As a matter of fact, there are three typologies of potential users

of corpus tools:

• Struggling language learners

• Apathetic language users

• Stagnant high level performers

Very often our Province is seen as a model where language learning and bi- and

multilingualism are well established in everyday life. But the situation isn`t so good

after all. The major part of the German and Italian population is still firmly monolingual

and the two linguistic groups live (peacefully) side by side, they do not feel as a

community.

Three languages are there and they are there to stay, and multilingualism is going to be

the final outcome, in one way or another. So far for the external observer multilingual

matters in South Tyrol may appear as seen through the lens of an availability bias.

(Availability biases are important moments in language teaching and in corpus research

too).

So, how do corpora come into the picture? We are using corpus tools to enhance

language awareness and to foster the willingness to learn, to create a joyful environment

for learning for two different kinds of students – not to mention the target group of users

to which I myself belong.

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As a matter of fact, in South Tyrol we have to deal with two very peculiar groups of

students. The first group are students who come from our schools to University, who in

13 school years, 5 at the Primary School, 3 at the so called Middle School (Scuola

Media or Mittelschule) and 5 at the Higher School are totalling something like

2.000/2.500 hours of language lessons (German or Italian) but still have great

difficulties with the second language of our Province. If we have a look at the CEFR

(Common European Framework of Reference for Languages) a student, who starts

studying a language achieves, after studying one language for 1600 hours, the level C1

of the CEFR.

Our students are not at all prepared to pass the Bilingual Exam level B (which you need

if you want to find a job in the public sector after the Higher School and which

correspond to the level B2 of the CEFR. Level A of the Bilingual Exam corresponds to

the level C1 of the CEFR and is necessary if ones want a job in the Public sector after a

BA or MA.

These students are not satisfied with, or – I would like to say – they often are ashamed

for being so unskilled users of the second language and being totally unfit to use the

second language as a professional tool by any standard. These are the “struggling

language learners”.

I would like to cite some students expressing their frustration with the German language

from an article of my colleague Federica Ricci Garotti, who teaches German as SL at

the University of Trento – the two Autonomous Provinces of Bolzano and Trento form

the Autonomous Region Trentino Alto Adige:

• Nach so vielen Jahren Deutsch kann ich fast nichts mit dieser Sprache unternehmen.

Jetzt muss ich mit diesem Frust fertig machen.

• After so many years of German I can’t do anything with the language. I’m really

frustrated.

• Im Deutschen habe ich immer den Eindruck, ich bin total dumm. Sonst warum all

diese Fehler nach mehr als 10 Jahren? Ich weiß es selber nicht.

• When I speak German I feel like a fool, otherwise, why should I do all this

mistakes?

• Beschreiben oder einen Dialog machen kann ich auf Englisch, auch wenn nicht so

gut. Aber im Deutschen … ich kann gar nicht damit anfangen.

• I can describe something or have a Dialog with somebody in English, but in German

…I even can’t begin …

• Nach vielen Jahren Deutsch kann ich nichts mit dieser Sprache machen.

• After all this years I can’t do anything with this language.1

1 Federica Ricci Garotti: http://zif.spz.tu-darmstadt.de/jg-13-1/beitrag/Garotti1.htm (14.06.2010)

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The other group is even worse, as seen with the eyes of language teachers. As a matter

of fact we have to deal with a growing group of persons who work in the public sector,

who have passed the necessary language exams years ago, who have to write and speak

in the two official languages and who are not struggling any more, they are simply not

interested in language matters. They do what they are called to do without much thought

about. These are the “apatethic language users”.

In my job as an assistant professor of German I have to do something for or – I’d better

say – I have to invent something to awake our learners and language users: university

students, colleagues and staff. A second step would involve language learners in

schools, teachers to be trained within the framework of teacher training programs, so far

in English and German, with Italian waiting behind the wings.

The availability bias – if not to say, the availability fallacy – regarding the presence of

the official languages in the Autonomous Province of Bolzano in some way has an

analogy in the availability bias concerning corpora and their use in the language class-

room. Corpora do exist, corpora are available and corpora are useful. So corpora are

going to be used, should be used, must be used in everyday live, in everyday studies, in

everyday work.

The Director of our Institute, prof. Hans Drumbl, has something to tell about this bias.

His first contact with corpora, in the mid 90ies, led him to enquire the uses of “aus

Angst” and “vor Angst” in the Thomas-Mann-Corpus, deposited at the Institut für

Deutsche Sprache in Mannheim. Thomas Mann gives an astonishing example of

stylistic mastership. Over the entire life-span of the author, all occurrences of either

form reveals the same semantic characteristics distinguishing one form from the other.

So corpus queries revealed their importance, serving as proof in confirming intuitions

and in overcoming partial knowledge or insufficient documentation. All of a sudden,

data were becoming central to the mind of teachers and researchers as well. From that

point on, prof. Drumbl’s interest in corpus tools has been steadily increasing – but it

was more then a decade after his first encounter with corpus searches, that he has started

using corpora in the language class-room.

Availability, after all, does not seem to be a main factor in moving people to adopt

corpus tools. This reluctance certainly is an important factor to take into account. It is

precisely the attitude of language users at a high level of competence who refrain from

making further progress, not being aware of the need to go any further than the plateau

where they have comfortably settled down.

The multilingual society needs the example of motivated learners. Learners at all levels

of competence must continue to be learners. The most neglect field being the field of

high level skills that can still be improved.

As it happens, we are somewhat obliged to overcome the reluctance to improve high

level standards of writing in the first and in the second language. In Sth Tyrol it is not

rare to find professional writing activities in the second language. In the last years prof.

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Drumbl has been delivering some 200 editorials for the local edition of Corriere della

Sera, the foremost Italian newspaper. His writing in Italian, his second language, needs

careful editing with some rather useful case-studies on style and language use.

One of the first queries with the newly established Italian Web Corpus in 2005,

regarding an expression written in the draft of an editorial, “dai temi diversissimi” – an

obvious interference from the German “der unterschiedlichsten Themen” – which

appears not to be used by anyone on the Net. The author, being reasonably sure about

“dai temi” just had to search for collocations including “diverso” on the right, leading to

the idiomatic expression “dai temi più diversi”, immediately recognizable as the correct

expression which just happened not to be available at the moment of writing.

So there is no doubt about the usefulness of corpus tools for advanced and very

advanced speakers of any of the three languages used at the Free University of Bolzano.

This first impact, anyway, does not make it easier at all to introduce corpus tools for

less advanced learners of one of the languages. The mere existence, and the availability

of corpora and the search tools, evidently, is not enough to compel users to take

advantage of these tools and the insights offered by using them.

I too had to learn the hard way, that not even the demonstration of fascinating examples

of successful corpus queries have had the effect to get student or staff to enrol courses

in this subject matter.

Nevertheless, the availability bias is a necessary starting point. In the last five years we

teamed up with The Berlin dwds-Corpus group creating the Korpus-Suedtirol of

regional German to be used together with other already available corpora and I have

been responsible for introducing English, German and Italian corpora into teacher

training and language classes.

Corpora in language classes can not be seen as isolated tools or instruments. They have

to come to odds with established learning strategies and the ideas teacher have about

existing learning strategies of their students. So learning has to be constructivist and

rewarding, self directed, creative, and so on. Since the turning point in the mid 70is

towards the goal of communicative abilities, language learning has to be “student-

centred” and not at all centred on learning machines or on learning materials.

So we took the turn viewing at corpus queries from the learner point of view and not

from the evidence of obtainable results. What we found were students of all age, with

large numbers of student at very low levels of computer literacy, students not used to

search the web but for trivia, students not at all inclined to write, copy and print

applying even minimal standards of aesthetics and usability such as font size, line-

spacing and page margins. Not to mention the linguistic issues. The majority of German

speaking students use their local dialects to write e-mails, sms-messages and Facebook

contributions.

So, to start with, computer use is not seen as a challenge with an aesthetic and formal

part to deal with.

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Our students get involved with corpus queries, starting from Google searches as quick

and dirty access and as a tool to become acquainted with the very fascinating text genre,

Google has given birth to, the Google snippets.

There are expert snippets readers and expert users of the Google search engine. And

being an expert user of these tools and a frequent reader of complex text excerpts, is a

very good starting point for more explicit queries in corpora and an overall approach to

the achievement of higher level language skills.

I hope not to annoy you recalling the troubles with under skilled students and/or

apathetic language users comfortably established at rather low levels of competence and

skills and not at all eager to move away from this level which happens to be the same

level of their colleagues at work and the majority of people in their social environment.

Moving from the standpoint of the learner the first encounter with a corpus is not the

corpus but the interface. That’s why our effort in South Tyrol, to give corpora a crucial

function in language tuition at all levels, leads to a different bias, which actually has

been the characteristics of our work during the last years, creating Korpus-Suedtirol.

This is what I would like to call the usability bias.

The emphasis of my contribution will be both corpus tools in language classes and

corpus tools as means to foster language awareness in teacher education linking first,

second and third languages, precisely, German, Italian and English.

We started using corpora in second language tuition with the precise goal to foster

awareness of chunks and formulaic language in order to overcome our students, our

Italian students - almost maniacal fixation on learning isolated words.

My first part, really, regards a new divide, the divide between learners who appreciate

corpora at first glance and learners who don’t, which is not a perfect equivalent of a

divide between advanced learners and not so advanced learners. The line is to be drawn

in midst of heterogeneous classes at different levels of competence. So the overall

impression we got in years of experimental uses of corpus tools in German Language

classes, was the neat impression, the being advanced to the point of appreciating corpus

tools has to do with a mental predisposition of feeling oneself as advanced rather than

with the objective measuring of competence and achievement.

The successful first glance approach evidently has little to do with the effective disposal

of data in KWIC lines, and has to do with expectancy, with a desire to know and to find

out leading to a desire to find and to search.

After years of teaching experience with corpus tools, I have to agree with Adam

Kilgariff’s overall conclusion, “Concordances are too tough for learners. So Data

Driven Learning (DDL) has not taken off. After 20 years, it remains a tiny minority

interest”.

Enhancement of computer literacy, reading skills and first and second language

competence with particular emphasis on pattern recognition.

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In these last five years as a “struggling teacher” trying to persuade or to convince my

students how useful corpora are for their progression in language learning, I found out

that the most effective way is to start using corpus tools in the mother tongue of the

students, in my case Italian.

I usually start with an example from a German who writes in his second language:

Si sta avvicinando la fine dell’anno scolastico con vecchi e nuovi

problemi. Ma molti hanno da pensare ad altro. Viviamo in un mondo

“occupato” da una crisi che non è più una crisi, ovvero un momento

decisivo, un momento in cui si decide l’esito di una situazione critica,

appunto, in senso positivo o negativo. L’attuale “crisi” è diventata uno

stato durevole. Dove ci preoccupano pensioni, disoccupazione, lavoro

precario, contratti a termine, prospettive di carriera dubbiose e

quant’altro.

Dove ci preoccupano pensioni, disoccupazione, lavoro precario, contratti

a termine, prospettive di carriera incerte e quant’altro.

We are at the end of this school year and are faced with old and new

problems. But there are other problems which occupy our minds. We

have to master the consequences of a crisis, which isn’t really a crisis,

where you expect an outcome, either a positive or a negative one. The

actual crisis is a permanent crisis. We are concerned with retirement

pension, unemployment, difficult working careers and so on.

Now let’s concentrate on the last sentence:

Dove ci preoccupano pensioni, disoccupazione, lavoro precario, contratti

a termine, prospettive di carriera incerte e quant’altro.

and precisely on the adjective

dubbiose versus incerte

I ask my students to reflect the two possibilities and to try to explain to a German

colleague, who has to learn Italian, if they are both correct, if only one is correct or if

one is a better fit than the other.

So the first step is to search in their private ‘corpus’ i.e., in their own head, looking for

memories of past experiences and searching their knowledge base acquired in a life-

time.

Usually they are very good in finding the correct expression, but their aren’t as good in

explaining why one is better than the other or why one is preferable to the other.

A very good exercise is to ask them to find an example that could established as a

prototype for each of the two adjectives and then trying to explain the difference

between the two adjectives not just inventing an example as you sometimes find them in

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a grammar book, but trying hard and remembering when they really used the two

adjectives in real every day utterances.

Per domani è previsto tempo incerto.

Mi sembra un affare piuttosto dubbioso.

It is really difficult for the student not to invent examples ad hoc trying instead to

retrieve from their memory when and in what context they used the two adjectives in an

everyday’s live situation.

This is the moment to ask them, if there are instruments they can use, when their most

important instrument, their head, doesn’t “work” and what instruments they know.

The other question is, what they would tell a language learner to do.

The first answer is always the same:

I look it up in a dictionary.

The Italian Dictionary “Il Nuovo Zingarelli”, Vocabolario della Lingua Italiana, 11°

edizione, 1988 says:

dubbioso: agg.

1) che dubita, che è pieno di dubbi: uomo dubbioso d’ogni cosa; esaminava la cosa con mente dubbiosa; diffidente, sospettoso: è dubbioso di tutti;

2) che manifesta dubbio, perplessità, preoccupazione e sim.: sguardo dubbioso; parole dubbiose; mi osservò con aria dubbiosa, sinonimo: esitante, perplesso, titubante;

3) che fa sorgere dubbi o perplessità, che rende incerto, esitante e simili: votazione, elezione dubbiosa; la faccenda presenta alcuni aspetti dubbiosi;

4) ambiguo, oscuro, discutibile: le cose poetiche … sono più di tutte le altre dubbiose e

disputabili (Marino);

5) letterario, che da timore, ansia, preoccupazione: tempi dubbiosi, sorte dubbiosa; che

comporta rischi e non offre sicura garanzia di riuscita: battaglia, impresa dubbiosa.

The first two examples refer directly or indirectly to a person who is doubting.

The third and the fourth examples refers to something not very clear, to something

ambiguous, with a touch of danger.

The fifth example refers to uncertainty, but it is used prevalently in high literature or in

situations where the outcome or the success is extremely uncertain.

Usually my students stop here.

If I propone to use Google they are very skeptical, but after having had a look in Google

they are interested, “the struggling learner” much more than the “apathetic users”.2

2 21.06.2010.

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There are just three or five examples of “prospettive dubbiose” in not convincing

stylistic contexts. On the other hand, “prospettive incerte” has a solid diffusion in texts

treating economic nmatters. The students recognize that language is something more

than simply putting one word beside another word and that there are words which prefer

to be accompanied by certain other words and not by others and that there are still other

words associated to the fixed couple they are interested in: “deludente primo trimestre e

prospettive incerte”. “Draghi: graduale ripresa ma ci sono ancora rischi e prospettive

incerte“.

This brings us back to the origins of the idea of corpus studies: “You shall know a word

by the company it keeps”.3 A quick look at the Repubblica Corpus conferms the result

offering even more chunks related frequently to “prospettive incerte”.

3 Firth (1957), 11.

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This has become a consolidated two-step-method: “From Google to Corpus queries”.

After a short period of working with Google, learning how to analyze metadata and

Google Snippets, students are introduced to corpora.

Let me finish with a quote due to serendipity. Writing on Nabokov’s posthumous novel,

Martin Amis muses on linguistic practice distinguishing carefully the verbs denoting

various speech-acts:

Language leads a double life – and so does the novelist. You chat with

family and friends, you attend to your correspondence, you consult menus

and shopping lists, you observe road signs (LOOK LEFT), and so on.

Then you enter your study, where language exists in quite another form –

as the stuff of patterned artifice4.

“Chat with family” is not to be found in the BNC, just “chat with the family” and

“about the family”, both with the definite article; “attend to his correspondence”, in the

BNC offers the remarkable hit referred to Churchill: “The Great Man had risen late,

attending to his correspondence while still in bed…”

The prose of Martin Amis too is just that, “stuff of patterned artifice”. And as for

Nabokov’s prose, famous for diverging often from patterns in the BNC, it has a touch of

artifice so remarkably “English” in tone, that it passes unobserved. I just came across

4 http://www.guardian.co.uk/books/2009/nov/14/vladimir-nabokov-books-martin-amis

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the expression “atrocious obstacle”,5 a chunk not used by any other writer of English.

Yes, consulting the BNC just out of curiosity, is a very rewarding way of improving

your English.

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Susanna Marino

TERAKOYA.L’INSEGNAMENTO DELLA SCRITTURA NEL GIAPPONE DEL PERIODO EDO (1603-1868)

1. Inquadramento storico

Il lungo processo storico generatosi in Giappone durante il periodo Edo, che inizia nel 1603 e termina nel 1868, ha creato peculiari stili di vita e di pensiero, destinati a ripercuotersi sullo sviluppo delle moderne istituzioni educative. L’alto livello culturale e formativo raggiunto dal Giappone in questo periodo, è il fecondo background su cui si innesta la rapida modernizzazione del Paese avvenuta nel successivo periodo Meiji (1868–1912). Una delle caratteristiche specifiche del sistema politico del periodo Edo, consiste in una rigida e ben definita stratificazione sociale che prevede una suddivisione in classi: quella dei samurai 士

shi, quella dei contadini農 nō e quelle degli artigiani 工 kō e dei commercianti商 shō, con una

particolare separazione di classi, che mantiene ben distinta dalle altre quella dei samurai. Alcune leggi, di conseguenza, stabiliscono precise norme di vita pubblica e privata per gli appartenenti a ciascuna delle classi sociali (dal comportamento all’abbigliamento, dallo svago all’opportunità di accesso ad attività culturali o di istruzione). Questa suddivisione in quattro classi rispecchia, nell’ottica dell’elite di Governo, la valutazione riguardante le rispettive occupazioni: i contadini – al secondo posto della graduatoria – benché artefici del sostentamento della classe dirigente, vengono pesantemente sfruttati dai samurai, mentre le due classi rimanenti – quella degli artigiani e quella dei commercianti – sono considerate poco più che accessorie. Tutto ciò, naturalmente, ha finito per riflettersi culturalmente, e non solo, sulla caratterizzazione del particolare periodo storico.

2. Breve storia del sistema educativo giapponese

Per quanto riguarda il sistema educativo del periodo Edo è possibile individuare scuole distinte per ogni classe sociale: le scuole feudali 藩校 hankō oppure藩学 hangaku per i

samurai1 e le scuole cosiddette 寺子屋 terakoya per i cittadini comuni. Questa particolare

attenzione per l’istruzione rivolta al popolo, nasce in Giappone, già secoli addietro, con la

1 Letteralmente “scuole o studi di feudo”: patrocinate dai daimyō, ne esistevano sia di pubbliche che di private.

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riforma Taika del 645 d.C, quando viene promulgata una legge sull’educazione che porta alla creazione della Grande Accademia di studi (Daigaku 大学) e di accademie locali (Kokugaku

国学). Queste istituzioni educative vengono fondate per affermare il prestigio dello Stato

centralizzato sotto il controllo dell’autorità imperiale: hanno come finalità l’assimilazione della cultura cinese e la formazione di funzionari governativi, centrali e locali. Nelle scuole Kokugaku, presenti in ogni grande centro delle province, la maggior parte degli studenti proviene dalle famiglie dei potenti clan locali, ma possono accedervi anche i figli del popolo. Tale espressione di democratizzazione educativa, proseguirà fino al XII secolo circa. A partire dalla fine del XII secolo, infatti, – con il periodo Kamakura (1185–1333) – i monaci buddhisti assumono il ruolo di ambasciatori culturali e stabiliscono contatti diretti con la popolazione, nel quadro di una cultura fortemente caratterizzata dalla classe militare. Il buddhismo Zen, in particolare, integrando nei suoi insegnamenti principi di carattere confuciano, crea centri di educazione all’interno di alcuni templi nella città di Kyoto – sede del potere imperiale - e in quella di Kamakura – sede del potere shogunale2. In queste scuole si educano i figli delle influenti famiglie locali, ma, a partire dal XV secolo, i monaci buddhisti si dedicano all’insegnamento della lettura e della scrittura anche alla nascente classe mercantile.

3. Confucianesimo e formazione

Queste le premesse per meglio inquadrare storicamente il tema centrale del presente intervento. A partire dal XVII secolo, con il periodo Edo, la classe dei samurai, fino ad allora dedita prevalentemente a funzioni militari, vede mutare gradatamente il suo ruolo a causa del lungo periodo di pace interna al paese che caratterizza questa fase storica. Nella trasformazione da guerriero ad amministratore, al samurai è necessario qualcosa in più che non la minaccia della semplice forza, per giustificare l’autorità che egli esercita. Ecco allora che la dottrina ufficiale confuciana costituisce il veicolo ideale per raggiungere due obiettivi essenziali: sviluppare capacità burocratiche e inculcare concetti etici quale la pietà filiale e la lealtà verso i propri superiori. Nel 1790, viene promulgata una legge mirata a regolamentare l’istruzione, che riserva al solo confucianesimo ufficiale l’appellativo di “scienza ortodossa”. Questo discorso, naturalmente, rimane valido per le sopraccitate “scuole di feudo” (le hankō o hangaku), frequentate, appunto, dai samurai.Su queste basi, durante il periodo Edo, nascono svariati ambiti di studio e si registra un fermento intellettuale che finisce per interessare vari campi di ricerca: dalla sfera politica a quella sociale, da quella filosofica a quella scientifica, da quella letteraria a quella artistica, costituendo un notevole substrato su cui si sarebbero fondati i progressi del Paese nei secoli a

2 A seconda del periodo storico, è possibile individuare sedi templari diverse nelle due rispettive città. Per informazioni più dettagliate in merito, vedere: Sica (2010).

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venire3. Con la netta separazione tra le classi sociali, emanata da Toyotomi Hideyoshi (1537-1598) verso la fine del XVI secolo, la storia dell’alfabetizzazione popolare subisce un mutamento. I samurai e i nobili seguiranno un loro iter specifico, mentre alla popolazione rurale, circa l’80% dei giapponesi, un diverso percorso.

4. Terakoya e tenaraisho – scuole popolari

Nelle scuole popolari terakoya, gli insegnamenti di carattere confuciano sono integrati dai precetti buddhisti di carattere popolare. I clan locali e il governo militare della famiglia Tokugawa, infatti, non esercitano forme di controllo sui terakoya – a parte qualche rara eccezione. Ciò significa, quindi, che l’educazione del popolo rimane relativamente libera dalla rigidità educativa di forte impostazione confuciana, poiché queste scuole si sviluppano soprattutto come risposta a un’effettiva domanda da parte dell’utenza. Il progresso economico di questo periodo produce, infatti, un generale innalzamento del tenore di vita, che porta, verso la fine del XIX secolo, ad un elevato tasso di alfabetizzazione. Queste scuole popolari forniscono conoscenze basilari di scrittura, lettura e aritmetica, rispecchiando, cioè, il desiderio dei padri di trasmettere ai propri figli gli strumenti utili per occuparsi con successo della loro professione ereditaria. In un certo senso, sono molto simili agli odierni juku privati, ossia una sorta di doposcuola, frequentato da buona parte degli studenti giapponesi, per migliorare le proprie abilità.Abbiamo sinora affermato che il nome di queste scuole è terakoya 寺子屋, anche se nel

periodo Edo questo termine viene spesso affiancato a quello di tenaraisho o tenaraidokoro 手習所4 , ovvero “luogo di apprendimento pratico, manuale”. Il nome terakoya si è diffuso

perché queste scuole erano per lo più ospitate presso i templi buddhisti, tera 寺 per l’appunto.

Quindi terako寺子significava “alunno del tempio” e寺子屋 terakoya “casa o famiglia che si

occupa degli alunni”. Gli ideogrammi impiegati per scrivere questo nome hanno quindi contribuito a fornire un’immagine distorta, facendo credere che i templi buddhisti fossero gli unici centri di formazione popolare del periodo.

3 Tra le correnti di studi più conosciute, ricordiamo quella dei kokugasha 国学者, cioè di “studi nazionali” di

carattere filologico rivolti alle opere classiche; quella dei rangakusha 蘭学者, cioè “studi olandesi” di carattere

tecnico-scientifico, rivolti alle scienze occidentali e quella dei kangakusha 漢学者, cioè “studi cinesi”

riguardanti l’etica confuciana.

4手習所 gli ideogrammi che compongono questo nome posso essere letti in entrambi i modi. Tuttavia, sui testi

occidentali la trascrizione più frequente è tenaraisho, mentre nei testi giapponesi è tenaraidokoro.

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5. Terako e fudeko: gli studenti

E’ difficile calcolare il numero e la capacità di accoglienza di queste scuole, anche perché esistono forti discrepanze tra la realtà cittadina e quella rurale, ma sappiamo per certo che verso la fine del XVIII secolo si assiste a una loro rapida espansione e si presume che al momento della definizione, nel 1872, del “Codice Fondamentale di Educazione” - Gakusei 学制5 - il concetto di educazione popolare o di massa, non era affatto estraneo al cittadino

comune. Tornando, nello specifico, al tema dei terakoya, occorre inoltre precisare che gli studenti di tali istituzioni sono chiamati terako 寺子 (alunni del tempio) ma anche fudeko 筆子 (alunni

del pennello) dal momento che buona parte dell’insegnamento è dedicato all’apprendimento della scrittura e della calligrafia. Gli alunni iniziano a frequentare queste scuole all’età di 7-8 anni e la durata dei corsi varia dai 3-4 anni ai 6-7 anni. Tuttavia, gli studenti, in queste scuole, sono relativamente liberi di entrare e uscire quando vogliono; la frequenza è giornaliera, con due soli giorni di riposo al mese e il superamento degli esami non include alcun privilegio di carattere sociale. Le lezioni si tengono dalle 7 del mattino alle 2 del pomeriggio, con una pausa pranzo intorno alle 12 (con alcune eccezioni nelle campagne dove, a seconda dei periodi climatici, i bambini devono aiutare nel lavoro dei campi). Esistono, inoltre, scuole miste, dove comunque ragazzi e ragazze hanno un loro spazio ben definito, ma anche scuole solo per ragazze, come illustrato nell’immagine 1.

Una scuola femminile terakoya 6

5 Con questo documento, il Governo Imperiale e il Ministero dell’Educazione, si prefiggevano lo scopo di uniformare a livello nazionale il sistema educativo, dall’istruzione elementare sino a quella universitaria. Il modello di riferimento si rifaceva, fondamentalmente, al sistema scolastico francese dell’epoca.

6 tratta da: http://web-japan.org/tokyo/know/terakoya/tera.html.

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(Immagine 1)

6. Shishō: gli insegnanti

Le scuole popolari nel periodo Edo variano sensibilmente per dimensioni e per tipologie di insegnanti: i maestri, definiti shishō 師匠o tenaraishishō 手習師匠, possono essere monaci

buddhisti, preti shintoisti, dottori e qualche volta anche contadini benestanti o ufficiali di villaggio. Lo stesso Miyamoto Musashi (1584-1645), protagonista di un romanzo storico e di numerose pièce teatrali e cinematografiche, è un samurai, abilissimo spadaccino che, una volta anziano, si ritira in un villaggio di provincia e, tra le molte altre occupazioni, si dedica all’insegnamento in una scuola popolare. Comunque gli insegnanti, in genere, sono uomini in pensione – ritiratisi, cioè, dal loro ruolo di capofamiglia – che hanno tempo libero a disposizione. In alcuni casi, vengono “inglobati” e mantenuti dal villaggio stesso, soprattutto se si tratta di insegnanti di zone rurali. Oppure svolgono questo lavoro per arrotondare lo stipendio: quest’ultimo tipo di maestro prevale in città, dove si occupa anche della trascrizione o compilazione di documenti ufficiali – in qualità di scriba – a pagamento o dell’insegnamento della calligrafia agli adulti. Alcuni insegnanti, poi, sono, samurai che, con questa attività, riescono ad arrotondare le loro scarse rendite ereditarie; oppure sono rōnin7 senza posizione né stipendio ereditario, che divengono insegnanti, allo stesso modo in cui, alcuni di loro, diventano maestri di spada, di cerimonia del tè e via dicendo. Una più ristretta categoria di insegnanti include anche donne, vedove o nubili, che hanno a lungo servito presso daimyō, non potendo quindi sposarsi8. In breve, risulta piuttosto evidente da quanto detto che nei centri educativi di villaggio del periodo Tokugawa – teneraisho o terakoya – non esiste alcun sistema pedagogico di base, né gli insegnanti hanno ricevuto alcun tipo di formazione specifica.E’ tuttavia interessante notare che ormai nel 1883 nella capitale Edo – l’odierna Tokyo - un terzo degli insegnanti sono donne e sempre nella capitale, molti sono i maestri di origine samuraica, mentre nelle zone remote si trovano più facilmente insegnanti tra i monaci buddhisti; questo non solo perché in quelle zone i templi sono più diffusi, ma anche perché in quelle aree erano rimaste tracce della struttura del precedente insegnamento medievale.Vi sono, infine - e aggiungerei anche purtroppo - maestri che si dedicano all’insegnamento perché affetti da qualche difetto fisico che non permette loro altro tipo di lavoro. In un racconto dell’epoca ne viene descritto uno nei seguenti termini:

Si pensava fosse discendente di una famiglia di samurai di Kyoto: un individuo fiacco e ottuso come non mai, che non aveva alcuna idea riguardo l’origine degli ideogrammi e non ne conosceva nemmeno la trascrizione della pronuncia

7 Rōnin 浪人 samurai senza più padrone

8 Per ulteriori informazioni sull’argomento, vedere Dore (1965), 257.

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in alfabeto. La sua mano correva incerta lungo il foglio come un’imbarcazione senza timone in mezzo all’oceano, in uno stile non ben definito. Ma costui non aveva altre doti e nessun capitale per poter avviare un qualche tipo di commercio. Era ben conscio della sua impudenza, ma doveva pur vivere […]9.

È inevitabile dedurre che queste scuole nascessero da una domanda molto pratica e ordinaria, riflettendo, cioè, necessità locali spontanee e quotidiane. Lo dimostra il fatto che in alcuni villaggi, dove tali “scuole di tempio” sono assenti, si cerca di assumere preti itineranti che insegnino ai bambini a leggere e a scrivere. Un farsa teatrale kyōgen dal titolo Hara tatezu 腹立てず10 , per esempio, narra la storia di un contadino che tenta di persuadere un prete

itinerante a fermarsi nel suo villaggio.In un’opera letteraria anonima del periodo Genroku (1688-1704), invece, l’abitante di un villaggio sottolinea l’investimento a lungo termine, fatto per l’educazione del proprio figlio:

Come gruppo, dovremmo invitare nel nostro villaggio una persona che sappia leggere, e pagarla affinché insegni a nostro figlio ad iniziare dal sillabario kana con iroha11. Insegnare a leggere e a scrivere ai bambini, li renderà saggi e capaci. Coloro che non sono in grado di tenere un diario, benché i loro occhi possano vedere, in realtà sono ciechi. Lasciare in eredità la propria terra e le proprie ricchezze è sempre un rischio; potrebbe durare al massimo due generazioni. I nostri figli potrebbero sperperare ciò che abbiamo faticosamente guadagnato. Ma se educhiamo i nostri figli e li rendiamo saggi, il beneficio che ne trarremo sarà di lunga durata e si estenderà di generazione in generazione. Questo perché un figlio istruito assumerà una posizione pubblica di responsabilità e ne sarà premiato e diverrà ricco. I vecchi libri rinchiusi in casa sono dei valori che si possono perdere, ma apprendere è un tesoro che dura per sempre.12

7. Metodi di insegnamento

Quanto ai metodi di insegnamento, è possibile evidenziare alcune caratteristiche comuni, quali la pratica ripetitiva e l’enfasi posta sulle tecniche base. Nello specifico, ecco un elenco delle principali attività;

9 Terakoya monogatari; citazione tratta da: Dore (1965), 257.

10 Letteralmente “la pancia piatta”, cioè, essere tranquilli e non arrabbiati. Per maggiori informazioni sull’opera teatrale, vedere Rubinger (2007), 36.

11 Si tratta di un’antica poesia giapponese che, come un gioco di parole, contiene tutte le sillabe esistenti nell’alfabeto giapponese e viene quindi usata per insegnarlo ai bambini.

12 Tratto da Rubinger (2007), 93.

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• la copiatura di un modello per arrivare a padroneggiare il modello di riferimento; le interpretazioni sono scoraggiate e la creatività è permessa solo dopo anni di studio;

• la disciplina necessaria per migliorarsi: i docenti sottolineano spesso la necessità di severità nell’insegnamento, dal momento che difficoltà fisiche e psicologiche promuovono la crescita personale.

• il rapporto di sudditanza tra discepolo e maestro: i ruoli vengono quindi chiaramente definiti secondo il modello sociale confuciano.

• il maestro impartisce abilità e tecniche in modo graduale, marcando i passi con certificati e titoli, anche se non sempre di carattere ufficiale.

• le scuole esistono per la trasmissione delle arti e ottengono legittimità dall’insegnamento stesso.

8. Lo stipendio dell’insegnante

Se nelle classi il numero degli studenti varia sensibilmente, lo stesso si può dire per lo stipendio di un maestro. Le relazioni interpersonali tra studenti, maestro e genitori non sono unicamente di carattere economico, poiché troppo forte è infatti l’etica confuciana in base alla quale l’allievo compie il suo dovere verso la società, comportandosi come tale. Allo stesso modo l’insegnante non insegna unicamente per guadagnare. I genitori, oltre al pagamento di costi effettivi, quali l’usura del tatami, il materiale didattico o il carbone per il riscaldamento invernale, considerano l’”onorario” come una forma di gratitudine nei confronti del maestro e lo consegnano, spesso, in forma di dono, in speciali occasioni annuali (Nuovo anno, la festa di obon per le anime dei defunti, agli esami ecc.). Il dono può consistere anche in forme di “pagamento in natura” (cibarie o oggetti vari) secondo le disponibilità economiche della famiglia.

9. Le lezioni

In alcuni casi, questi centri educativi sono “imprese individuali” gestite dal singolo insegnante, coadiuvato al massimo da uno o due allievi più anziani ed è quindi lecito pensare che la scuola e l’abitazione del maestro coincidano. Il maestro siede su una pedana e ha davanti a sé un tavolino, dove a turno siede l’allievo per essere controllato e corretto. Normalmente gli allievi siedono al loro tavolino, dove fanno esercizi pratici su ciò che hanno appreso. Trattandosi tuttavia di scuole popolari, dove, come abbiamo detto in precedenza, la frequenza non è sempre regolare e regolata, possono presentarsi casi di studenti indisciplinati.

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Alunni indisciplinati13

(Immagine 2)

Si adottano, allora, alcune forme di punizione tra cui quella di stare in piedi nell’angolo della classe o seduto sul banco, con una tazza d’acqua in una mano e un bastoncino d’incenso nell’altra, per definire la lunghezza della punizione stessa (come evidenziato nell’immagine 2). Qualche volta, invece, l’alunno indisciplinato viene colpito con un ventaglio avvolto in carta rigida, producendo, pare, gran rumore, ma poco dolore.A questo proposito, risulta interessante il commento del Ministro Plenipotenziario svizzero Aimé Humbert (1819-1900) che, durante il suo soggiorno in Giappone poco prima della Restaurazione Meiji (1868), rimane positivamente colpito dal sistema educativo locale. Nonostante l’assenza di regole relative alla frequenza delle lezioni o di altra misura coercitiva, una buona parte della popolazione è in grado di leggere, scrivere e fare di calcolo: ciò dimostra la funzionalità del sistema pedagogico indigeno14.

10. Materie di insegnamento

Presso queste scuole popolari, data l’assenza di formazione del personale docente o di una qualsiasi competenza pedagogica, la semplice pratica di scrittura è al centro dell’educazione: il maestro mostra, lo studente osserva e poi torna al suo banco e fa pratica. Gli esercizi di lettura, invece, sono “di gruppo”, nel senso che il maestro legge a voce alta e gli studenti ripetono in coro. Quanto alla matematica, l’insegnamento prevede la “recitazione” di una sorta di tabelline. Queste le lezioni del mattino; nel pomeriggio, invece, si passa a forme di apprendimento ancora più pratiche, con l’esercitazione e l’uso del soroban 算盤, pratiche di

copiatura di testi – teihon 低本 o, per le studentesse, cucito, composizione floreale e

cerimonia del tè. Il soroban è un tipo di abaco di origine cinese, importato in Giappone intorno al XVII secolo, che si diffonde velocemente tra le classi dei commercianti e degli artigiani.

13 tratta da: http://www1.ocn.ne.jp/~terakoya/terakoyahuukei.html.

14 Rubinger (2007), 138.

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11. Festività

La routine viene interrotta da alcuni eventi speciali, come, per esempio, gli esami mensili. Gli studenti devono scrivere a memoria – su fogli bianchi e lindi, non come a lezione dove si usa carta riciclata – passaggi scelti a caso, dai testi su cui hanno fatto pratica durante quel mese. Una volta all’anno, un esame conclusivo richiede che lo studente scriva, sempre a memoria, un brano per ogni libro studiato e, in questa occasione, vengono assegnati voti e premi. Altri eventi, sono di carattere meno impegnativo come la gita annuale in occasione di hanami, la fioritura dei ciliegi o la festa estiva di tanabata con la scrittura di poesie da appendere ai rami degli alberi. Non possono mancare, tra le varie cerimonie, quelle in onore di Tenjinsama, la deificazione di Sugawara no Michizane, uno studioso del IX secolo, dall’abilità calligrafica leggendaria. Molti studenti possiedono una piccola bambola di cartapesta colorata di Tenjinsama, che custodiscono a casa con funzione di “protettore”. Sugawara no Michizane è un nobile, poeta e maestro di calligrafia, che sale al governo del Paese nel IX secolo in qualità di Ministro. Agli inizi del decimo secolo cade vittima di un complotto tramato dal rivale, un membro della famiglia Fujiwara, e viene quindi esiliato nell’isola meridionale di Kyūshū, dove muore nel 903. Subito dopo, la capitale Kyoto è colpita da una serie di disastri naturali quali forti piogge, caduta di fulmini, incendi e alluvioni. Alcuni membri della famiglia Fujiwara muoiono a causa di questi disastri naturali e quindi, credendo siano causati dallo spirito irato di Michizane, riabilitano la sua figura bruciando l’ordine di esilio e arrivando addirittura a farne una divinità, per placarne la collera. Sugawara no Michizane diviene così Tenjinsama – divinità del cielo – gli viene dedicato un tempio e inizialmente è considerato il protettore dei disastri naturali. Dal momento che in vita è un celebre poeta e studioso, uno dei più grandi del periodo Heian, studiosi e insegnanti del periodo Edo, lo proclamano protettore degli studenti. Ciononostante, nelle scuole popolari situate presso i tempi buddhisti, la figura di Tenjinsama è sostituita da quella del bodhisattva Monju (Manjusrī). 文殊菩薩. In Giappone, questa figura è

considerata la personificazione della saggezza e dell’intelligenza e per questo viene considerato come il bodhisattva più saggio. Gli studenti lo ritengono loro protettore per superare gli esami e per divenire buoni calligrafi. Eppure, la popolarità della figura di Michizane surclassa a tal punto quella del bodhisattva Monju, che viene addirittura scritta un’opera teatrale, prima per il teatro bunraku e poi per quello kabuki, dove il protagonista è appunto lui. Il titolo dell’opera, è Sugawara denju tenarai kagami. Si tratta di una pièce teatrale decisamente lunga e complessa; quindi spesso, ne vengono rappresentate solo alcune scene, tra cui, la più famosa che è appunto intitolata Terakoya.

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12. I testi per l’insegnamento

Dopo questa digressione sulle figure protettrici degli studenti, torniamo a parlare delle tecniche e dei contenuti di insegnamento. La copiatura ripetitiva dei teihon 底本, ha anche

altre finalità, oltre a quelle puramente calligrafiche: l’intento, infatti, è quello di trasmettere, di generazione in generazione, regole morali e forme di saggezza pragmatica, che avrebbero fatto la differenza tra un rispettabile cittadino di successo e un uomo comune del popolo.I libri di testo usati per insegnare sono centinaia, tenuto conto che alcuni insegnanti scrivono loro stessi dei testi modello per i propri studenti. Molti libri, comunque, sono stati scritti secoli prima e la maggior parte delle scuole del periodo Edo usa testi scelti dai terakoya buddhisti in periodo feudale, a loro volta tramandati dal periodo Heian, che però sono quelli usati per educare i figli dei nobile di corte.

Pagina estratta dal Teikin Ōrai, testo interamente scritto in kanji15

(Immagine 3)

Uno di questi, risalente al sedicesimo secolo, ma dall’autore incerto, è il Teikin Ōrai 庭訓往来 (immagine 3.): un testo epistolare con una lettera e relativa risposta, per ogni mese

dell’anno, con formule adatte a ogni occasione, scritto in cinese classico. Ōrai 往来 significa,

letteralmente “andare e venire” con riferimento alla corrispondenza tra le due parti: questo tipo di testo viene usato dal XII al XIX secolo, anche se, a seconda del periodo, subisce alcune variazioni. Si tratta, inizialmente, di un semplice testo di calligrafia da copiare, che

15 tratta da: http//www.tosho-bunko.jp/.

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diviene, poi, un testo di lettura con l’aggiunta di glosse in kana, a lato dei kanji16 (immagine 4.)

Esempio di testo scritto interamente in kanji, con l’aggiunta di glosse in alfabeto hiragana17

(Immagine 4)

A tale proposito è opportuno ricordare, infatti, che la lingua giapponese si avvaleva, e lo fa ancora oggi, di un complesso sistema di scrittura che richiede l’uso contemporaneo di forme calligrafiche di diverso genere: i kanji, cioè i caratteri che comunemente chiamiamo ideogrammi e due alfabeti sillabici. I kanji, di origine cinese, sono elementi grafici che possono avere, singolarmente, più di un significato e più di una pronuncia, a seconda della loro combinazione con altri kanji. Apprendere a scrivere, e quindi a leggere, era (e lo è tutt’ora) un lungo e lento processo di ripetizione e memorizzazione. Per favorire l’apprendimento della pronuncia dei kanji, quindi, è uso scriverne accanto la pronuncia in alfabeto sillabico.Con l’aggiunta, in seguito, di note create dal singolo maestro o riprese da altri libri, l’ōraimono diviene un testo di studio, oltre che di lettura e di scrittura. (immagine 5.)

16 Per informazioni più dettagliate sui testi usati all’interno di queste istituzioni, vedere: Dore R. P., Education in Tokugawa Japan, Routledge and Kegan Paul, London, 1965; pag.. 275-290

17 tratta da: http//www.tosho-bunko.jp/.

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Esempio di testo suddiviso in due parti: in alto, scritte con calligrafia più sottile, le note al testo sottostante18

(Immagine 5)

Vediamo quindi nella parte bassa della pagina, il testo con le glosse in alfabeto accanto agli ideogrammi e nella parte alta le note di commento. Tali note, in alcuni casi, sono illustrate e l’ōraimono si trasforma, così, in un libro ad immagini. Uno di questi è addirittura illustrato da Hokusai19, lo Ehon teikin ōrai 絵本庭訓往来. Si possono trovare altresì testi illustrati a colori

con immagini di Watanabe Kazan20 e di Utagawa Hiroshige21.22

Ai fini del tema qui trattato, risulta interessante anche lo Jitsugo-kyō 実語教, scritto dal

monaco Kōbō Daishi23, quindi opera del periodo Heian. Compilato in cinese classico, illustra precetti morali di carattere confuciano. Alcuni precetti finiscono per divenire forme di “saggezza popolare” anche se si tratta di un testo mediato da una visione buddhista. Il testo si apre con la seguente massima: “Se una gemma non viene lustrata, mancherà di brillantezza e

18 tratta da: http//cross.lib.hiroshima-u.ac.jp/.

19 Katsushika Hokusai (1760-1849) celebre autore di stampe ukiyo-e.

20 Watanabe Kazan (1793-1841) artista, nonché statista di origine samuraica.

21 Utagawa Hiroshige (1797-1858), insieme a Hokusai, tra i più rappresentativi autori di stampe ukiyo-e.

22 Per coloro che volessero consultare i testi dell’epoca, si rimanda ai seguenti siti: http//www.tosho-bunko.jp/ oppure http//cross.lib.hiroshima-u.ac.jp/, dove è possibile accedere a un’ampia collezione di testi digitalizzati.

23 Kōbō Daishi (774-835) titolo onorifico assegnato dopo la morte al monaco buddhista Kūkai, fondatore della scuola Shingon.

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se l’uomo non studia, mancherà di saggezza.”24 Il persistere, quindi, dello spirito buddhista nel Giappone moderno di fine ‘800, è dovuto in parte anche all’utilizzo di testi simili a questo da parte delle scuole popolari come strumento educativo. Citando lo studioso inglese Ronald Dore in un libro specificamente dedicato al sistema educativo giapponese nel periodo Tokugawa, possiamo affermare che “il rigore agnostico del confucianesimo vero e proprio, sarebbe stato troppo austero per i contadini e i cittadini comuni, mentre riuscì a conquistare maggior consenso, perché condito da un substrato di escatologia popolare buddista” 25.Questo aspetto è dimostrato dalla crescita del tasso di alfabetizzazione che è appunto testimoniata dall’ampia circolazione di manuali di agronomia e di botanica nelle zone rurali, così come dalla rapida diffusione di opere specialistiche per vari tipi di lettori. A seconda della dislocazione della scuola – e quindi delle sue finalità – sono poi insegnate liste di vocaboli per usi particolari, in funzione della futura occupazione del ragazzo (contadini, artigiani, magazzinieri, carpentieri, pescatori, venditori di libri, sarti ecc.). Per meglio comprendere la ricchezza di materiale prodotto in questo periodo ad uso e consumo popolare, non possiamo dimenticare i cosiddetti setsuyōshū 節用集, una sorta di enciclopedia casalinga, spesso

presente nelle case dei più abbienti –anche nelle zone rurali - utilizzabile come testo di consultazione per conoscere il corretto comportamento da tenere in specifiche situazioni, il testo da scrivere in occasioni particolari, l’uso, la lettura o la scrittura di un determinato ideogramma e via dicendo.All’inizio del XIX secolo, inoltre, a testimonianza di questa democratizzazione educativa, si verifica un aumento sempre più sostanzioso di biblioteche per il prestito: ne esistono circa seicento a Edo e circa trecento a Osaka, senza contare i prestiti itineranti26. Si tratta spesso di singoli ambulanti che si muovono a piedi per la città, trasportando i propri libri, in cerca di clienti. Si trovano, inoltre, anche negozi che, oltre alle vendita dei libri – troppo costosi per la massa – operano un servizio di prestito.Per concludere, è lecito affermare che il ruolo della scuole terakoya è stato davvero importante ed il traguardo educativo raggiunto è tale che, nel 1872, quando il sistema educativo occidentale viene introdotto per la prima volta in Giappone e la scuola elementare diviene obbligatoria, la percentuale di iscrizioni risulta estremamente alta, dimostrando che queste scuole avevano diffuso tra il popolo la consapevolezza dell’importanza e della necessità di un percorso educativo. In Occidente, molti studiosi hanno spesso identificato il grado di civilizzazione di una popolazione con l’alfabetizzazione, ma occorre tener conto che quest’ultima è utile se può rendersi pratica. Nel caso del Giappone, andando oltre le statistiche relative al numero di studenti, di insegnanti o di centri formativi a livello popolare diffusi sul

24 Per approfondire il tema legato ai testi utilizzati all’interno delle scuole terakoya, è altresì interessante consultare il sito: http://www1.ocn.ne.jp/~terakoya/okite.html" http://www1.ocn.ne.jp/~terakoya/okite.html.

25 Dore (1965), 281.

26Calvet (2008), 290.

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territorio in periodo Edo, ciò che rende sostanziale l’apporto fornito dai terakoya è, senza dubbio, l’effettiva utilità pragmatica degli insegnamenti forniti. Queste scuole di alfabetizzazione primaria riflettono, quindi, una particolare spinta interna che si genera da esigenze di carattere economico e commerciale a livello popolare.Per meglio comprendere l’eredità lasciata da queste strutture educative, basti pensare che nel 1989 la sezione giapponese dell’Associazione internazionale dell’Unesco ha fondato il World Terakoya movement, con lo scopo di creare un programma di cooperazione internazionale. L’obiettivo principale è quello di fornire un’istruzione base ad adulti analfabeti o bambini impossibilitati a frequentare la scuola, nei paesi in via di sviluppo, con il patrocinio del Governo locale. Dall’inizio del progetto è stato fornito supporto didattico a un milione e 220 mila persone di 43 paesi in Asia, Africa e America Latina.

Bibliografia

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Sitografia

(siti consultati tra luglio 2009 e febbraio 2010)http://www1.ocn.ne.jp/~terakoya/okite.html (per informazioni sull’istruzione elargita dai terakoya)http://www.kabuki21.com/sdtk.php (per informazioni sulla pièce teatrale, incentrata su Sugawara no Michizane)http://www.onmarkproductions.com/html/buddhism.shtml(per informazioni sulle religioni presenti in Giappone)http://www.unesco.jp/en/index.html (per informazioni sulle attività Unesco in Giappone)http://www.mext.go.jp/b_menu/hakusho/html/hpbz198103/index.html (per informazioni sul sistema educativo nel tardo periodo Edo)http://www.tranzas.ne.jp/~smikio/terakoya.html(per informazioni sul sistema terakoya)http://www.foreast.org/js (biblioteca virtuale di documenti giapponesi)http://chnm.gmu.edu/cyh/primary-sources/131 (per immagini sul mondo dei terakoya)http://kamome.lib.ynu.ac.jp/dspace/bitstream/10131/2076/1/KJ00004472075.pdf(articolo in pdf di Yoshida Taro, Terakoya ni okeru rekishi kyōiku no kenkyū, Yokohama National University- dipartimento di Studi sociali – electronic library service NII)

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Ernst Kretschmer

TASK UND TEXT

1. Einleitung

(Ein Herr und eine Dame liegen unbekleidet im Ehebett)

Er: Wie heißen Sie?

Sie: Ich heiße Heidelore.

Er: Heidelore ist ein Vorname.

Sie: Ja, Schmoller ist mein Nachname. Mein Mann heißt Viktor

Er: Ich heiße Herbert […]

(Der Ehemann betritt das Schlafzimmer.)

Viktor: Ich heiße Viktor. Ich wiege 82 Kilo.

Er: Ich heiße Herbert. Mein Zug fährt um 19.26.

Sie: Das ist mein Mann.

Er: Das ist meine Hose.

Viktor: Das ist meine Aktentasche.

Fände ein Lehrer, der Deutsch als Fremdsprache unterrichtet, diesen Text in einem Lehrwerk mit dem Titel „Deutsch für Ausländer“, wunderte er sich sehr wahrscheinlich. Zumal dann, wenn es sich um die achte Lektion eines Mittelstufenkurses handelte und darin der „Unterschied zwischen dem unbestimmten Artikel und dem Possessiv-Pronomen“ vorgestellt würde. Irgendetwas stimmt hier nicht. Auch wenn er selbst bei Gelegenheit auf die morphologischen Ähnlichkeiten des Possessivpronomens zu sprechen käme, die es im

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Singular – die femininen Formen ausgenommen – an die Seite des unbestimmten Artikels stellt, wählte er deren „Unterschied“ wohl kaum zum Thema einer Kurseinheit und wenn doch, dann wohl nicht in der Mittelstufe, sondern eher in einem Anfängerkurs. Tatsächlich ist der Text nicht ernst gemeint. Der im Dienst des Spracherwerbs vollzogene und dann sogleich entdeckte Ehebruch Heidelores mit Herbert Schmoller ist eine Schöpfung Loriots.1 Die Szene ist eine Parodie auf die Verwendung von Texten im DaF-Unterricht. Im Rampenlicht wird die Künstlichkeit parodiert, die den eigens dafür verfassten Texten innewohnt, ihre inhaltliche Beliebigkeit, mit der Viktor – oder Klaus – auch 92 Kilo wiegen und Herbert noch um 20.26 Zug oder Bus nehmen könnte, ihre Entfremdung von der Lebenswirklichkeit, in welcher der Auftritt des gehörnten Ehemannes im Schlafzimmer zu einer Vielfalt von Ereignissen, doch gewiss zu keinem Dialog über Körpergewicht und Bahnfahrplan führen würde. Im parodistischen Hintergrund aber steht das Hauptkennzeichen der Verwendung von jedweden Texten im DaF-Unterricht: In der Begegnung von Possessivpronomen und Ehebruch manifestiert sich prototypisch die unumschränkte Herrschaft der Lernziele über die Inhalte, der Didaktik über die Semantik. Selbst so genannten „authentischen“ Texten ist dieses Kennzeichen eigen. Auch sie unterliegen darum, was ihre Auswahl betrifft, dem Grundsatz der Beliebigkeit und sind ebenso, was die Lebenswirklichkeit der Lerner anbelangt, der Gefahr der Entfremdung ausgesetzt. Ob erfunden oder „authentisch“, im DaF-Unterricht meinen Texte nicht das, was sie bedeuten.

2. TBLT

Die Entfremdung der Lerner gegenüber didaktisch verfassten und didaktisierten Texten aufzuheben versucht seit den 80er Jahren des 20. Jahrhunderts – im Kontext des „kommunikativen“ Fremdsprachenunterrichts2 – das „Tasked-Based Language Teaching“.3 Es zielt auf die wirkliche Bedeutung – „meaning“4 – von Texten, die sich aus ihrer eigentlichen Funktion ergibt. Eigentlich besehen hat eine Montageanleitung für ein IKEA-Regal keineswegs die Funktion, in den Wortschatz des Heimwerkers oder die modale Verwendung der Infinitive einzuführen, die ein stilistisches Kennzeichen gewisser appellativer Texte ist, sondern den Käufer des Regals in Stand zu setzen, dieses ohne fremde Hilfe aufzubauen. Eigentlich dient ein Kochrezept dem guten Essen, eine Spielanleitung der guten Unterhaltung, ein Stadtführer dem guten Aufenthalt. Der Gedanke, die didaktische Entfremdung von Texten im Fremdsprachenunterricht gar nicht erst zuzulassen, indem man die Lerner als Leser zu Dialogen mit diesen bringt, in denen sie auf deren eigentliche, „authentische“ Funktionen eingehen, ist in mehreren Hinsichten reizvoll, die sich am Beispiel des IKEA-Regals etwa so darstellen ließen: a) die Montageanleitung als solche führt zu einer

1 Loriot (1992) 93 f. 2 Widdowson (1972), Piepho (1974), jüngste Bestandsaufnahme von Peterwagner (2005). 3 Zum gegenwärtigen Stand der Forschung Bausch (2006), Müller-Hartmann /Schocker-von Ditfurth (2005), Nunan (2004), Ellis (2003). 4 Skehan pointiert es für alle Vertreter des TBLT: „meaning is primary” (Skehan (1998), 98); vgl. auch Ellis (2003), 3.

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echten fremdsprachlichen Kommunikation („real communication“) zwischen ihrem Verfasser, dem „Sender“, und den Lernern, wenn sie diese als „Empfänger“ tatsächlich, durch den Akt der Montage, befolgen; b) sie führt zu einer fremdsprachlichen Kommunikation unter den Lernern, wenn diese sich im Wechselspiel von Sender und Empfänger über die Interpretation der Anleitung verständigen und auseinandersetzen, um das gemeinsame Ziel der Montage zu erreichen. Auch wenn diese Kommunikation nicht wirklich authentisch ist, da Lerner außerhalb des didaktischen Kontextes auf natürliche Weise in ihrer Muttersprache kommunizieren, geht sie als didaktische Fiktion doch von einer möglichen Wirklichkeit aus und erreicht damit zumindest eine „situational authenticy“;5 c) die spielerisch konstruierte, der authentischen ähnliche fremdsprachliche Kommunikation unter Lernern führt zu dem, was in den 80er Jahren des 20. Jahrhunderts von Long und anderen als „negotiation of meaning“ bezeichnet und als wesentlich für den Spracherwerb betrachtet wurde:6 Die Bedeutung der Wörter und Sätze wird – hier unter Lernern – vernünftig ausgehandelt. Auch wenn man Verhandlungen dieser Art nicht als „Auslöser“ des Spracherwerbs („trigger for acquisition“)7 betrachtet, eröffnen sie den Lernern doch allgemein anwendbare Strategien des Textverständnisses und der sozialen Kommunikation; d) die Aufgabe, ein IKEA-Regal zu montieren, stellt an sich eine Herausforderung dar, deren Bewältigung Befriedigung verspricht. Die daraus entstehende Motivation setzt sich auf natürliche Weise in dem Wunsch fort, die fremdsprachliche Anleitung zu verstehen; e) die erfolgte Montage eines sicher stehenden IKEA-Regals stellt eine konkrete, fassbare Bestätigung des fremdsprachlichen Verständnisses der Lerner dar, die diese in ihrem Lernprozess bestärkt und sie in Hinblick auf die Lösung zukünftiger Aufgaben ermutigt. Dem Lehrenden aber erlaubt sie eine leichte Lernzielkontrolle; f) das praktische Ineinandergreifen fremdsprachlichen und manuellen Handelns bedeutet für die Lerner eine authentische Spracherfahrung, die zum einen ihre allgemeine Sprachbewusstheit fördert und zum andern den im Einzelfall von ihnen erreichten Zuwachs an Wissen und Fähigkeiten dauerhaft zu festigen verspricht. Die didaktische Konzeption des TBLT wirft durchaus auch Probleme auf, die nicht ohne

weiteres zu lösen sind. Sie lassen sich in der Figur des eigenbrötlerischen und handwerklich

geschickten Lerners fokussieren. Dieser montiert Möbel, ohne dass er die Anleitungen dazu

auch nur eines Blickes würdigt und über seine Tätigkeit ein Wort verliert. Möglicherweise

bereitet ihn die Montage eines IKEA-Regals auf den Beruf des Tischlers vor, aber kaum auf

die Anwendung der fremdsprachlichen Fertigkeiten, die er dabei hätte erlernen sollen. Er

5 Ellis (2003), 6. 6 In der Beschreibung Nunans: „In the research literature, it refers to those instances in an interaction in which the speaker and listener work together to determine that they are talking about the same thing: in other words, when the speaker carries out comprehension checks (‚Know what I mean?’) to determine whether he/she has been correctly understood, and when the listener requests clarification (‘What did you mean, she’s silly?’) or confirms that he/she has correcttly understood (‘You stopped because you didn’t learn anything?’)” (Nunan (1989), 45). Vgl. vor allem die zahlreichen Arbeiten von Pica darüber, von denen hier der grundsätzliche Aufsatz von 1994 erwähnt sein soll. 7 Plough/Gass (1993), 36.

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liefert ein Ergebnis („outcome“) der ihm gestellten praktischen Aufgabe, ohne das mit ihr

verknüpfte Lernziel („aim“) zu erreichen.8

Ein solches Debakel lässt sich durch eine straffe sequentielle Strukturierung der Aufgabendurchführung zu vermeiden versuchen, wie sie Jane Willis in ihrem „task cycle“ vornimmt.9 An der systematischen Vorbereitung und Nachbereitung der Aufgabe („pretask“ und „posttask“) und dem abschließenden Rückblick auf die sprachlichen Aspekte („language focus“) wird auch der geschickte Eigenbrötler unter den Lernern kommunikativ irgendwie teilnehmen müssen. Vor allem aber hängen Erfolg und Misserfolg des TBLT von der Wahl der tasks10 ab, und diese ist durchaus delikat. Denn ob die Montage eines IKEA-Regals eine gute Wahl ist, kann allgemein gar nicht beantwortet werden. Die Güte eines tasks wird durch ein Kriterium bestimmt, das für den Unterricht als solchen gilt: das Kriterium der Angemessenheit. Es mag verschiedene Aspekte umfassen, wie etwa die sozialen, lokalen und situativen Gegebenheiten, in seinem Mittelpunkt aber steht die Angemessenheit an die Gruppe der Lerner, an ihre Fähigkeiten, damit sie weder über- noch unterfordert werden11 und nicht zuletzt an ihre tatsächlichen Interessen und Bedürfnisse, die „real-world needs“,12 denen die besondere Aufmerksamkeit des kommunikativ motivierten TBLT gilt. Die in den Lehrplänen und Unterrichtsempfehlungen zum TBLT vorgeschlagenen task-Listen müssen darum, die Relativität der Angemessenheit vorausgesetzt, letztlich unverbindlich bleiben. Dennoch sind Kategorisierungen möglich,13 von denen zwei, die jeweils eine grobe Zweiteilung vornehmen, als grundlegend zu betrachten sind. Dem Kriterium der Lebensnähe folgend lassen sich tasks, die im wirklichen Leben gelöst werden oder doch gelöst werden könnten, von solchen unterscheiden, die im Unterricht selbst eine pädagogisch-didaktische Funktion erfüllen. Long nennt sie „target-tasks” und „pedagogic tasks”,14 Nunan „real-world tasks“ und „pedagogical tasks“.15 Die wirkliche Montage eines IKEA-Regals, das wirkliche Streichen eines Zauns oder der wirkliche Versuch, ein Kind anzuziehen,16 gehören als Einzel-tasks in die erste Kategorie. Solche hingegen, die auf die Lösung verschiedener Einzel-tasks in der Wirklichkeit vorbereiten, diese selbst aber nicht durchführen, zählen zur zweiten und lassen sich mit Prabhu wiederum zu drei Gruppen zusammenfassen:17 tasks, die auf den Austausch von Informationen und den von Meinungen („information-gap task“, „opinon-gap task“), und tasks, welche die Organisation von Daten zu neuen Informationen vorbereiten („reasoning-gap task“).

8 Vgl. Ellis (2003), 8. 9 Willis (1996), 56 f. 10 Im folgenden soll der englische Terminus beibehalten werden, der im Deutschen sowohl die „Aufgabe“ als auch die „Tätigkeit“ umfasst. 11 Vgl. Long/Crookes (1992), 35 f. 12 Richards/Rodgers (2001), 230. 13 Eine Zusammenschau der mittlerweile zahlreichen Vorschläge zu einer Kategorisierung von tasks findet sich bei Skehan (1998), 116 f.; Richards/Rodgers (2001), 225 f., 230-235 und Nunan (2004), 56-63. 14 Long/Crookes (1992), 44. 15 Nunan (2004), 1; vgl. auch Feez (1998), 17. 16 Beide und weitere Beispiele bei Long (1985), 89. 17 Prabhu (1987), 46 f.

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Die zweite Kategorisierung orientiert sich an einer Polarität, die tasks im Rahmen des TBLT grundsätzlich innewohnt. Zwar sollen sie vorrangig auf die wirkliche Bedeutung und die echte Funktion fremdsprachlicher Kommunikation abzielen, doch liefen sie ohne die metasprachliche Thematisierung dieser Kommunikation letztlich an der didaktischen Funktion des Fremdsprachenerwerbs vorbei, um in der Sinnlosigkeit von Regalen, Zäunen und Kindern zu enden, die nur um des Aufstellens, Anstreichens und Anziehens willen existieren. Die Pole, zwischen denen sich die Lösung von tasks im Fremdsprachenunterricht vollzieht und in deren Spannungsfeld sie je nach der Nähe zu dem einen oder anderen eingeordnet werden können, lassen sich „meaning focus“ („content focus“) und „form focus“ („language focus“) nennen.18

3. Fünf Thesen zum Text als task

• Der Erwerb einer Fremdsprache kann im Sinn Saussures so beschrieben werden, dass der Lerner dank seiner menschlichen Sprachfähigkeit („langage“) über manifeste Sprachäußerungen in der Fremdsprache („parole“) deren System („langue“) so weit kennen lernt, dass er es wiederum autonom in „parole“ umsetzen kann. Im Zentrum des Prozesses steht damit – ob mündlich oder schriftlich, als Einwort-Äußerung oder komplexer Diskurs – der Text, der dort in ein Wechselspiel von Rezeption und Produktion eingebunden ist. Die Zentralität des Textes sollte zwischen Regalen, Zäunen und Kleinkindern im TBLT nicht übersehen werden.

• Jeder Text hat im Augenblick seiner Äußerung eine Funktion, die sich auf der Grundlage verschiedener Modelle beschreiben lässt. Diese gehen, erweitert und verfeinert, letztlich auf Bühlers Sprachtheorie von 1934 und Jakobsons Closing Statement von 1960 zurück. Auch wenn Texte nur selten durch eine einzige Funktion bestimmt sind, steht das task gewiss im Zeichen der appellativen (Bühler) oder konativen (Jakobson) Textfunktion, denn die Aufforderung „Lös mich!“ liegt in seinem begrifflichen Wesen. Ausgangspunkt des TBLT ist darum stets der appellativ-konative Text. Nicht zuletzt diesem verdankt er den hohen Grad an Motivation, der von ihm ausgeht. Er verleiht ihm aber auch, der Vielfalt von Regalen, Zäunen und Kindern zum Trotz, eine rigide, zum Schematismus neigende Struktur, die den Lernern nur eine bedingte Selbständigkeit erlaubt.

• Die appellativ-konativen Texte, mit denen Spracherwerbssequenzen im TBLT eröffnet werden, beziehen sich auf die wirkliche Welt („real world“), womit in der Regel die des Alltags gemeint wird („everyday life, at work, at play, and in between“),19 in der neben dem Aufbau von Ikea-Regalen Verabredungen getroffen und Tische reserviert, Einkäufe getätigt und Reisen unternommen werden, Beschuldigungen und Entschuldigungen ausgetauscht oder bisweilen wildfremde Männer im Bett der eigenen Frau gefunden werden. Auch diese praktische Alltagsnähe („situational authenticy“), mit der sich die Aussicht einer raschen und nützlichen Anwendung der Fremdsprache verbindet, trägt

18 Vgl. Ellis (2006), 25. 19 Long (1985), 89.

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wesentlich zum motivierenden Charakter des TBLT bei. Darin aber steckt zugleich eine nicht unwesentliche Beschränkung: Aspekte der Wirklichkeit, die nicht zum Alltag gehören, werden ebenso ausgeblendet wie solche, die keine gezielten Tätigkeiten betreffen. Fremdsprachliche Texte laufen darum im TBLT Gefahr, von Lernern als bloße Werkzeuge zur Stellung und Lösung alltäglicher Aufgaben erfahren zu werden.

• Nicht alle Texte dienen der Lösung von Aufgaben und gehören auch nicht dem Bereich der Alltagskommunikation an. Zahllos sind die Texte, die zum allgemeinen Weltwissen der Menschen beitragen, zahllos solche, an denen diese ihr „kulturelles Gedächtnis“ ausbilden.20 Den Lernern einer Fremdsprache öffnen solche Texte Zugänge zu der Kultur, in der sie entstanden. Über die Grenzen der „Landeskunde“ hinaus laden sie Lerner zu interkulturellen Dialogen ein, in denen diese auch mehr über sich selbst und ihre eigene Kultur erfahren. Sie besitzen nicht die Funktion eines Werkzeugs, sondern die eines Schlüssels und Wegweisers. Soll Lernern jene „kommunikativen Kompetenz“ vermittelt werden, wie sie Hymes 1972 zum ersten Mal erörterte,21 dann gehört zu dieser im Rahmen des Fremdsprachenunterrichts auch eine kulturelle Kompetenz.

• Die kommunikative Kompetenz der Lerner beinhaltet im fremdsprachlichen wie im muttersprachlichen Unterricht eine Komponente, die in der Folge der weltweiten Vernetzung der Menschen und der unübersehbaren Flut von Texten, der sie darin ausgesetzt sind, zunehmend an Bedeutung gewinnt: die Lesekompetenz, die sich mit der Schreibkompetenz zu einer allgemeinen Textkompetenz ergänzt. Neben dem eigentlichen Sprachwissen, das die Kohäsion des Textes nachzubilden erlaubt, umfasst sie, knapp formuliert, vor allem inferenzielle Strategien und integrative Prozesse, in denen das Vor- und Weltwissen des Lesers und der Inhalt des Textes in solch einer Weise zusammenfließen, dass sich daraus dessen Kohärenz und Funktion ergeben.

4. Folgerungen

Im Rahmen des TBLT kann die Vermittlung einer kulturell ausgerichteten Textkompetenz

sinnvollerweise dann erfolgen, wenn Texte dort nicht der Stellung und Lösung von tasks

dienen, die außerhalb von ihnen liegen, sondern wenn sie selbst zu tasks werden, die es als

solche auch zu lösen gilt. Der fremdsprachliche Text als task gehört in seiner Einzigartigkeit

der tatsächlichen Wirklichkeit an, er ist ein „target-“ oder „real-world task“. Mit ihm geht es

nicht um das situativ authentische Erfragen fiktiver Öffnungs- oder Ankunftszeiten, sondern

um wirklichen Wissenserwerb.

20 J. Assman (1992), A. Assmann (1999). 21 Vgl. Brumfit (2001), 49.

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4.1 Deutsch für Ausländer und die Lesekompetenz

Liest man den sprachlich anscheinend harmlosen Text Loriots in dieser Perspektive, stellt sich mit ihm, zum Beispiel, die Aufgabe, das Geheimnis der Komik darin zu entdecken: Warum – oder warum auch nicht – bringt er den Leser zum Lachen. Die Lösung einer solchen Aufgabe kann hier nur angerissen werden: Es ist die Unangemessenheit der Kommunikation an den situativen Kontext, die hier komisch ist. Lerner aber, die diese Aufgabe als task in Angriff nehmen, werden die Lösung nur über eine intensive Auseinandersetzung mit dem Text selbst finden können, die, zum Beispiel, zur Entdeckung der Tatsache führt, dass Ehefrau und Geliebter, während sie nackt miteinander im Bett liegen, sich siezen und Formeln des ersten Kennenlernens wechseln. Sie werden in einem weiteren Kontext sich mit den Begriffen der Ironie, der Parodie und der Satire auseinandersetzen müssen, um den Text auch in intertextueller Hinsicht verstehen zu können. Der Ehebruch Heidelores mit Herbert Schmoller gewährt zwei Einblicke in den Text als task. Zwar lassen sich zum einen auch bei seiner Interpretation die inhaltlichen Aspekte („meaning focus“) von den sprachlichen („form focus“) unterscheiden, doch greifen diese ineinander, hängen von einander ab. Anders als bei der Montage-Anleitung eines Regals, eines Fahrplans oder einer Speisekarte führt erst die Betrachtung der sprachlichen Seite – das Siezen, die Kontaktformeln, die affirmativen Aussagesätze – zur Lösung der Aufgabe, der Entdeckung der Parodie. Dass diese ein besonders geeignetes Beispiel für den Einsatz von Texten als task ist, steht außer Frage. Liegt ihr doch der Kontrast von Form und Inhalt wesentlich zugrunde. Doch gilt für Texte allgemein: Werden Sie zum task, überblenden sich „meaning focus“ und „form focus“. Oder, in ein anderes Bild gefasst: die Übergänge von dem einen zum anderen sind fließend, liegen nah beieinander. Der zweite Einblick betrifft die Unterscheidung von „target-task“ und „pedagogic task“: In einem Text, der zum task wird, ist diese aufgehoben. Jede Lektüre und Interpretation eines wirklichen, einzelnen Textes ist zugleich eine „pädagogische“ Vorbereitung auf die Lektüre und Interpretation von Texten überhaupt.

4.2 Kleists Katechismus der Deutschen und die kulturelle Kompetenz

Frage. Sprich, Kind, wer bist du?

Antwort. Ich bin ein Deutscher.

Fr. Ein Deutscher? Du scherzest. Du bist in Meißen geboren, und das Land, dem Meißen angehört, heißt Sachsen!

Antw. Ich bin in Meißen geboren und das Land, dem Meißen angehört, heißt Sachsen; aber mein Vaterland, das Land dem Sachsen angehört, ist Deutschland, und dein Sohn, mein Vater, ist ein Deutscher.

Fr. Du träumst! Ich kenne kein Land, dem Sachsen angehört, es müsste denn das rheinische Bundesland sein. Wo find ich es, dies Deutschland, von dem du sprichst, und wo liegt es?

Antw. Hier, mein Vater. – Verwirre mich nicht.

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Fr. Wo?

Antw. Auf der Karte.

Fr. Ja, auf der Karte! – Diese Karte ist vom Jahr 1805. – Weißt du nicht, was geschehn ist, im Jahr 1805, da der Friede von Pressburg abgeschlossen war?

Antw. Napoleon, der korsische Kaiser, hat es, nach dem Frieden, durch eine Gewalttat zertrümmert.

Fr. Nun? Und gleichwohl wäre es noch vorhanden?

Antw. Gewiss! – Was fragst du mich doch.22

Legten es Lerner und Lehrer darauf an, könnten sie sich auch mit Loriots Eheszene im kulturellen Kontext auseinandersetzen, sich etwa die Geschichte der deutschen Satire als Aufgabe stellen, um Walther von der Vogelweide, Neidhart von Reuental und dabei, wenn sie wollen, das deutsche Mittelalter zu entdecken. Der Weg dorthin aber wäre weit und eher gesucht als gefunden. Texte wie Heinrich von Kleists Katechismus der Deutschen liegen näher. Er ist eine kulturelle Quelle. Ohne dass es größere sprachliche Schwierigkeiten enthält, behandelt das erste seiner sechzehn Kapitel, dessen Anfang hier zitiert ist, offensichtlich die Frage der nationalen Identität der Deutschen. Im übrigen enthält es eine Aufgabe, die nicht vom Lehrer gestellt zu werden braucht, sondern sich den Lernern von selbst ergibt: die geographische Lokalisierung und die historische Kontextualisierung, die bei den Fragen einsetzen, wo denn Meißen und Sachsen und das „rheinische Bundesland“ liegen, wer wohl Heinrich von Kleist und Napoleon sind und was im Vertrag von Pressburg steht. Ob in der Bibliothek oder im Netz gefunden, die Antworten darauf werden eine Zeitreise einleiten können, die bei den Ereignissen zwischen 1805 und 1809, dem Entstehungsjahr des Textes, ansetzt – dem Ende des nahezu 1000 Jahre alten Heiligen Römischen Reiches Deutscher Nation und dem Einmarsch der „grande armée“ in Berlin –, um möglicherweise bis in das Jahr 1871 zu führen, als sich die Feststellung des Kindes „Ich bin ein Deutscher“ zum ersten Mal auf eine deutsche Nation hätte beziehen können. Die interkulturelle Aufgabe aber, die der Text den Lernern stellt, betrifft nicht nur deren eigene Nation, sondern auch ihr Verhältnis zu dieser so wie im Allgemeinen die Frage nach der eigenen Identität. Auch im Fall des Katechismus ergänzen „meaning focus“ und „form focus“ einander. Das missverständliche rheinische „Bundesland“, mit dem Kleist den Rheinbund von 1806 meint, führt die Lernenden nach einem Blick auf die historische Karte in die Vieldeutigkeit der deutschen Substantivkomposita ein, in denen das Bestimmungswort ein Land entstehen lassen kann, das – wie die Bundesrepublik – selbst ein Bund ist, aber auch ein solches, das zu einem Bund gehört, wie etwa das Bundesland Nordrhein-Westfalen, um von Bundeswehr und Bundestag zu schweigen. Das trennbare Verb „angehören“, das Kleist in den wenigen Sätzen viermal verwendet, lässt exemplarisch den semantischen Wert der Vorsilben in das Bewusstsein der Lerner treten. Gerade hier im Zusammenhang sozialer und kultureller Identität erhält der Unterschied zum „gehören“ und die Nähe zum „zugehören“ ein besonderes Gewicht.

22 Kleist (1978), 389.

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Kleists Gespräch zwischen Vater und Sohn verdeutlicht zwei weitere Eigenschaften des fremdsprachlichen Textes als task. Einerseits bietet er den Lernern die Möglichkeit, sich ein hohes Maß an Autonomie zu erhalten und dem „negotiation of meaning“ untereinander breiten Raum zu geben. Im Idealfall nehmen sie autonom den Dialog mit ihm auf, handeln gemeinsam die Aufgaben aus, die in ihm stecken, entwickeln Strategien zu deren Lösung und führen diese gemeinsam aus. Sie lernen, den Text als Schlüssel und Wegweiser zu nutzen, mit denen sich Türen öffnen und Richtungen einschlagen lassen, die zu wirklichem Wissen führen, wobei dem Lehrer vor allem die Rolle des helfenden Begleiters zufällt. Andererseits lauert auf den fremdsprachlichen Pfaden zum wirklichen Wissen auch die Gefahr der Überforderung, die eintritt, wenn Lerner auf ihren Zügen durch Monographien und Enzyklopädien an die Grenzen ihrer sprachlichen Fähigkeiten stoßen und bei Jena und Auerstedt sich ergeben müssen wie die preußischen Truppen im Oktober 1806 dem Heer Napoleons.

5. Schluss

Begreift man den fremdsprachlichen Text im Sinn des TBLT als task, erhält er über den Erwerb der Fremdsprache hinaus einen Erkenntnis- und Erfahrungswert, der diesem selbst zu Gute kommt. Das gilt nicht nur im Rahmen des reinen TBLT und seiner abgeschwächten Variante des TSLT (Task-Supported Language Teaching), sondern auch für die traditionelleren didaktisch-methodischen Ansätze. Der Text als task eignet sich in besonderem Maße zur Ausbildung von Lesekompetenz und kultureller Kompetenz. Vor allem aber verspricht er die Motivation der Lerner zu fördern. Über die Aussicht hinaus, ihr Wissen von der Welt zu erweitern, kann gerade in der Herausforderung des Unbekannten, mit dem sie es aufnehmen müssen, ein Reiz liegen. Der Rolle des „risk-takers”23, die den Lernern im TBLT zukommt, entspricht das Abenteuer der Lektüre. Sich im Fremdsprachenunterricht auf einen ironisch-parodistischen Text einzulassen, ist riskant, der Lohn aber das wirkliche Lachen. Einen historischen Text aus dem Jahr 1809 darin anzugehen, ist geradezu waghalsig, verspricht aber wirkliche Einsichten in eine Kultur, in der es zwar Deutsch und die Deutschen, aber lange kein Land mit dem Namen gab, so dass Hoffmann von Fallersleben noch 1841 „Deutschland, Deutschland über alles“ dichten musste, womit er eigentlich die Notwendigkeit meinte, es endlich zu gründen. Wie jedes Element der Unterrichtsplanung folgt auch die Auswahl der Texte, die zum task werden sollen, dem Grundsatz der Angemessenheit. Es liegt auf der Hand, dass Loriots Szene dem Anfängerunterricht mit Kindern ebenso unangemessen wäre, wie Kleists Dialog dem Unterricht von Politessen, die auf den sommerlichen Zustrom deutscher Touristen vorbereitet werden sollen. Die Angemessenheit der Texte muss immer wieder, von Fall zu Fall und in verschiedenen Hinsichten, die das ganze Lehr- und Unterrichtsgeschehen erfassen, ausgehandelt werden. Loriots Deutsch für Ausländer wurde hier als heuristischer Zugang zum

23 Richards/Rodgers (2001), 235. „Many tasks will require learners to create and interpret messages for which they lack full inguistic resources and prior experience. In fact, this is said to be the point of such tasks“ (ebda.).

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Thema des Aufsatzes gewählt, aber noch nicht in der Praxis erprobt. Das erste Kapitel aus Kleists Katechismus der Deutschen hingegen ist der erste von 30 Texten, die im Studiengang „Europäische Sprachen und Kulturen“ an der Universität Modena als tasks Verwendung finden. Deutschstudenten des ersten Jahres erarbeiten sie, darunter auch Nullanfänger. Neben Texten, die dem traditionellen Kulturbegriff entsprechen, wie etwa Auszüge aus Herders Briefen zur Beförderung der Humanität oder Schlegels Fragmenten, umfassen sie auch den Bericht der Neuen Badischen Landeszeitung vom 3. Juli 1886 über die erste Fahrt eines Mercedes oder das BASF-Patent zur Herstellung künstlichen Indigos (6. Mai 1890), die ersten Artikel des Grundgesetzes (1949) oder die Rede Willy Brandts zum Fall der Berliner Mauer (1998), zum Teil harte Nüsse als tasks, aber stets abenteuerlich und darum der Mühe wert.

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