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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Facoltà di Scienze Politiche Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia Master in Diritti Umani e Intervento Umanitario Kosovo : Emergenza umanitaria dopo l’intervento umanitario Relatore: Studentessa:

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

Facoltà di Scienze PoliticheDipartimento di Politica, Istituzioni, Storia

Master in Diritti Umani e Intervento Umanitario

Kosovo : Emergenza umanitaria dopo

l’intervento umanitario

Relatore: Studentessa:

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Prof. Francesco Strazzari Ana Ljubojević matricola 290325

ANNO ACCADEMICO 2006/2007

INTRODUZIONE

Perché il Kosovo?

Nel 1999 la guerra più feroce si è consumata nello scontro tra gli eserciti di Etiopia ed Eritrea, durante il quale hanno perso la vita decine di migliaia di persone.

Nel 1999 l’evento più devastante è stato invece la guerra civile in Sierra Leone dove la quasi totalità della popolazione ha subito mutilazioni, abusi sessuali e persecuzioni. Le vittime sono state almeno 50.000.

I rifugiati Afgani nel 1999 contavano 2,6 milioni di persone, ma i programmi umanitari erano praticamente in bancarotta.

Nel fratempo la comunità internazionale sembrava reagire soltanto alla crisi del Kosovo, consacrandole la massima visibilità e tutta l’attenzione dei mass-media. Non possiamo quindi non porci la domanda: Perché proprio il Kosovo?

Innanzitutto l’intervento umanitario in Kosovo si è rivelato innovativo sotto molti aspetti: ha introdotto l’era dell’“umanitarismo agressivo” propagandato dalla NATO (North Atlantic Treaty Organization), la gestione degli aiuti umanitari non si è mai avvicinata così tanto alla politica, si sono messe in pratica soluzioni raramente tentate nel corso della storia (per esempio HEP-Humanitarian Evacuation Programme, HTP-

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Humanitarian Transfer Programme o “burden sharing”)1, e la dinamica dei flussi migratori dei rifugiati non è mai stata così rapida e massiccia.

Il ritorno di rifugiati Albano-kosovari dopo la fine del bombardamento nel giungno del 1999 ha provocato un’altra ondata di esodi, questa volta di etnia serba, ma ben presto la crisi del Kosovo è scivolata nella zona grigia dell’interesse mediatico internazionale.

Nonostante la devastazione della città di Vukovar, l’assedio di Sarajevo, i campi di detenzione e gli stupri di massa che si erano prodotti solo qualche anno prima in Bosnia, si è generato un rifiuto, quasi un’incapacità da parte della comunità internazionale di capire che: “tutto questo si stava ripetendo di nuovo in Europa”.

In questa tesi ho cercato di seguire la storia degli spostamenti , volontari o meno,della popolazione civile da 1999 ad oggi, e di trattare quindi il problema giuridico che si pone alla vigilia di una nuova Risoluzione ONU sullo status del Kosovo, e che produrrà un impatto determinante sulla futura posizione degli esuli.

A differenza degli esodi avvenuti prima del 1999, dopo il cessate del fuoco il 9 giugno la Serbia si è scontrata con un risultato umanitario drammatico: l’ondata delle migliaia di sfollati provvenienti dal Kosovo.

Sul piano giuridico, gli sfollati non rientrano nella definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione di Ginevra del 19512 e neanche dalla modificazione apportata dal Protocollo Aggiuntivo del 1967. La Convenzione di Ginevra, infatti, permette di inserire nella categoria di rifugiati esclusivamente coloro che attraversano una frontiera internazionalmente riconosciuta, per cercare tutela in un paese diverso da quello di origine.

La definizione di IDP3 è proposta nelle “Linee Guida” dell’ONU sugli sfollati e si riferisce alle “persone o gruppi di persone che sono state costrette a fuggire o forzate a fuggire o lasciare la loro abituale residenza che non abbiano attraversato una frontiera internazionalmente riconosciuta, in modo particolare come risultato di un confitto, o in modo da evitare un conflitto armato,per situazioni di generale violenza, violazione dei diritti umani o disastri naturali o dall’uomo provocati ”4.

Le forme di garanzia dei diritti fondamentali per gli sfollati, allo stato attuale, sono garantite dalla cittadinanza. Le frontiere della cittadinanza non coincidono con quelli di identità etnica. Il riconoscimento delle frontiere su basi etnica, a livello internazionale, porta alla pulizia dei territori. La ricerca di soluzioni a questo problema è

1 C.f. pag. 62 Articolo 1 della Convenzione di Ginevra :“è rifugiato chiunque avendo un fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità e appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori del paese di cui è cittadino e non può, o a causa di tale timore non vuole, avvalersi della protezione di tale paese; oppure,chi non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del paese in cui risiedeva abitualmente…, non può o non vuole tornarvi a causa di tale timore”3 Internally Displaced Person 4 UN. doc. E/CN.4/1998/53/Add.2, febrary 1998

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ancora agli inizi, e un reale sviluppo dell’analisi e strutturazione di un piano di protezione per gli IDPs, è ancora in fase embrionale.

La questione dello status definitivo del Kosovo, tuttora irrisolta, è strettamente connessa con la soluzione del problema dei rientri delle popolazioni sfollate, ed ha ripercussioni non solo sul clima politico ma anche sulle condizioni sociali ed economiche della provincia stessa e dei suoi abitanti. Alle condizioni di sicurezza ancora estremamente precarie si aggiunge l’ambiguità di trattamento degli esuli. Il loro riconoscimento in base alla legge è in diretta proporzione con la definizione finale del Kosovo.

Lo scopo della ricerca presentata è di espolorare le dimensioni di questo fenomeno e di immaginare i possibili scenari che ne potrebbero derivare. La metodologia di lavoro consisterà soprattutto dell’analisi dei dati statistici pubblicati dall’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees), CICR (Comitato Internazionale di Croce Rossa), KCKIM (Centro di coordinamento per Kosovo e Metohija)5 e il Governo della Repubblica di Serbia. Un contributo notevole è dovuto anche all’interesse personale per l’argomento trattato e inoltre all’esperienza vissuta “in loco”.

5 Il Centro di coordinamento per Kosovo e Metohija è stato creato nel quadro del piano per il Kosovo, decreto del governo jugoslavo e serbo del 2001. Il programma contiene le misure e gli scopi rivolti a risolvere i problemi sul Kosovo e Metohija per poter accedere insieme, sia i Serbi che gli Albano-kosovari, alle istituzioni internazionali e quelle di RFJ che porterebbero loro verso una vita normale

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CAPITOLO 1

Kosovo, ab ovo

Per molti aspetti, il conflitto del Kosovo può essere considerato come un classico esempio delle dinamiche secessioniste. Le aspirazioni della minoranza albanese nel 1981 verso la separazione della Provincia Autonoma del Kosovo dalla Repubblica di Serbia nel 1989 hanno portato a cambiamenti costituzionali, limitando l’autonomia della Provincia stessa. Subito dopo il Governo Jugoslavo ha annunciato lo stato di emergenza e ha preso la reggenza diretta del Kosovo6.

Nel 1995, durante gli accordi di Dayton che hanno posto la fine alla guerra di Bosnia, le domande dell’indipendenza kosovara sono state marginalizate davvanti ai problemi più urgenti. Di conseguenza si è espanso il senso di frustrazione popolare di fronte all’incapacità di Rugova7 di ottenere un qualsiasi riconoscimento degli interessi albanesi da parte della comunità internazionale. E proprio tale frustrazione ha determinato la nascita di un movimento violento noto con il nome di Esercito di

6 Nel giugno del 1990 sono stati eliminati gli ultimi elementi dell’autonomia con lo scioglimento dell’assemblea e del governo provinciali. Il 2 luglio del 1990 i 114 deputati albanesi del parlamento provinciale hanno proclamato la nascita della “Repubblica Kosova”, intesa come stato libero ed uguale, ma ancora facente parte della Federazione jugoslava.7 Ibrahim Rugova era il capo della Lega Democratica del Kosovo (LDK), nota per la sua strategia di non-violenza nei confronti di Milošević

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Liberazione del Kosovo o, secondo l’acronimo in lingua albanese, UÇK (Ushtria Çlirimtare es Kosoves).

La violenza è diventata un fatto quotidiano nelle aree dove operavano sia la guerriglia dell’UÇK che le forze dell’ordine jugoslave. Paradossalmente, è stato l’uso della violenza a indurre la comunità internazionale a diventare parte integrante del conflitto. L’inviato speciale di Clinton nei Balcani, Robert S. Gelbard, ha definito nel 1997 “terroristiche le azioni dell’UÇK” e poi ha sottolineato che “l’indipendenza (del Kosovo) non era una opzione accettabile”8.

La maggioranza degli albano-kosovari vivevano in una situazione di continua isolazione, da una parte provocata dalla loro scelta di “autoghettizzazione” manifestata in non partecipare in vita pubblica, ma dall’altra parte loro erano negati l’accesso ai posti di lavoro e ai servizi pubblici e l’esercizio dei diritti fondamentali. Di conseguenza, gli abitanti di etnia albanese, che costituivano circa il 90% della popolazione, hanno creato una rete parallela per quasi ogni aspetto della vita quotidiana, fra cui il lavoro, la sanità e l’istruzione. Fra il 1989 e l’inizio del 1998, secondo i dati dell’UNHCR si calcola che 350mila9 albano-kosovari hanno abbandonato la provincia, trasferendosi perlopiù nei paesi dell’Europa occidentale. Nei mesi successivi, si è registrato un inasprimento degli scontri e, in settembre, il Kosovo contava già 175mila sfollati10.

La visibilità mediatica internazionale delle violenze contro la minoranza albanese del Kosovo nel febbraio e nel marzo del 1998 ha fatto sì che la comunità internazionale si impegnasse ad aumentare la pressione diplomatica per calmare il conflitto. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato il 31 marzo del 1998 la Risoluzione 1160 con cui, biasimando l’uso eccessivo della forza da parte delle truppe governative ma anche condannando le azioni terroristiche dell’ UÇK, ha decretato l’embargo sulle armi nei confronti della Repubblica Federale Jugoslava, Kosovo incluso.

La NATO lanciava segnali sempre più gravi e minacciosi verso Belgrado11, contando sulla possibilità che le forze armate avrebbero potuto essere utilizzate per assicurare il ritiro delle truppe serbe e promuovere una soluzione diplomatica. Il 23

8 Nel rapporto presentato a Belgrado il 22 febbraio 1997, citazione presa dall’articolo di Michael Karadjis, Chossudovsky e l’UCK, 19979 UNHCR, The Kosovo refugee crisis – An independent evaluation of UNHCR’s emergency preparedness and response, 200010 Ibidem.A questo punto sembra oportuno notare che i dati variano a seconda dei fonti. Nel corso degli anni nei rapporti dell’UNHCR, del governo serbo o delle numerevoli ONG aparivano le cifre spesso contradittorie e paradossalmente piccole o grandi. In questa tesi il fonte è rapportato sempre nelle note di pie di paggina. 11 Il 24 settembre del 1998, il comandante supremo della NATO Wesley Clark ha lanciato il cosiddetto Activation Warning, ovvero un di “avviso di attivazione” con cui l’allianza ha fatto presente alla RFJ che le forze aree erano ormai poste in stato di allerta per una operazione “limitata” nel Kosovo. Il 15 ottobre invece la NATO ha tramutato l’Activation Warning in Activation Order e ha fissato un ultimatum di 96 ore (poi rimandato di una decina di giorni) entro le quali le autorità serbe avrebbero dovuto iniziare l’implementazione della Risoluzione 1199 dell’ONU

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settembre del 1998 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha adottato la Risoluzione 1199 dove, denunciando la responsabilità delle forze militari e di polizia serbe di aver provocato una catastrofe umanitaria, si chiedeva alle parti di stabilire un cessate il fuoco.

Durante l’apparente interruzione dei disordini l’UÇK si è riorganizzata e si sono verificate di nuovo le provocazioni di tutte e due parti. L’instabilità ha raggiunto il colmo con il massacro di Račak, quando la vita hanno perso circa 40 persone, tutti combattenti dell’UÇK secondo i rapporti del governo serbo, ma inocenti civili secondo i fonti albano-kosovari. L’inchiesta fatta in seguito da parte dell’intelligence stratunitense non ha prodotto nessuna conclusione giuridica ma ha provocato gli USA a reagire.

Siccome poi le violenze non sono state cessate gli Stati Uniti hanno organizzato le consultazioni di pace a Rambouillet, in Francia, da gennaio a marzo 1999, destinati a far accettare ai leader jugoslavi e kosovari il piano di pace promosso dal Dipartimento di stato americano. I 16 membri della delegazione albanese comprendevano i leader politici dell’ UÇK12, che in questo momento ottenevano la legittimazione internazionale, assurgendo dal ruolo di “gruppo terrorista” a quello di “movimento combattente per la libertà”.

L’accordo prevvedeva che Milosević avrebbe dovuto accettare l’autogoverno degli Albanesi e questi ultimi il rinvio della istanza indipendentista. Tale quadro era rinforzato dal dispiegamento di truppe NATO in Kosovo, a garanzia del ritiro delle forze serbe e dell’attuazione di una reale autonomia per la provincia. Il quadro dell’implementazione era contenuto nell’ “Annesso B” che costituiva un vero e proprio diktat americano nei confronti della RFJ. Con esso si richiedeva l’assenso del governo di Belgrado all’occupazione del Kosovo da parte delle truppe NATO, che avrebbero goduto dell’immunità e della possibilità di accesso illimitato all’interno del territorio jugoslavo, incluso lo spazio aereo e le acque territoriali. In un primo momento, tuttavia, non solo la delegazione serba, ma anche quella albanese rifiutarono di firmare l’accordo. La contrarietà albanese riguardava essenzialmente la richiesta di smilitarizzazione dell’UÇK e la conferma della sovranità jugoslava sul Kosovo. Ulteriormente, passando prima dall’accetazione “condizionale”, la parte albanese ha firmato la proposta della NATO.

Quando tutte le opzioni sono state esaurite per convincere la parte serba ad accetare il piano proposto dalla NATO, ed il fallimento del dialogo politico era sempre più evidente, gli USA hanno fornito tutto il materiale bellico alla NATO per condurre gli attachi aerei contro l’esercuto serbo su tutto il territorio jugoslavo. Inoltre, le forze degli altri stati membri della NATO che si trovavano nell’ex–repubblica jugoslava di Macedonia erano state rinforzate quando scoppiò il conflitto.

12 tra cui anche Hashim Thaçi, uscito vincitore alle ultimissime elezioni presidenziali tenute il 17 novembre del 2007

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L’operazione della NATO ha iniziato il 24 marzo 1999 con lo scopo di fermare la violenza serba in Kosovo e di obbligare le autorità jugoslave ad accettare le condizioni proposte dal piano di Rambouillet. Le previsioni davano per certa una guerra di breve durata. Invece, gli attacchi aerei NATO erano accompagnati da una nuova ondata di violenza e da grandi deflussi di rifugiati, ivi comprese le espulsioni organizzate.

I critici dell’azione militare della NATO stimavano che gli attacchi aerei avrebbero causato in modo indiretto un vero disastro umanitario, visto che contrastando le operazioni delle truppe serbe di terra si sarebbero determinate ulteriori violenze. Queste critiche mettevano in un disagio crescente le popolazioni dei paesi membri della NATO e facevano riflettere sulla questione di appropriatezza di strategia militare. La NATO, per contro, giustificava la campagna di bombardamento per fermare le crescenti violenze contro gli Albano-kosovari. L’offensiva serba contro i civili è stata descritta dai comandi NATO come un’operazione pianificata, e il conseguente esodo come un’espulsione organizzata. In questo modo gli attacchi aerei avrebbero avuto una giustificazione più accettabile.

Una simile proposta ha suscitato altre domande. In particolare, se i servizi di intelligence degli stati membri della NATO erano già a conoscenza che l’offensiva serba avrebbe potuto essere diretta anche contro i civili, perché le agenzie umanitarie non ne sapevano nulla?

La preparazione di queste ultime circa la possibilità di un eventuale esodo di civili era scarsissima, e si può dire che sono state sorprese dagli eventi. Nell’UNHCR si credeva che gli spostamenti della popolazione sarebbero stati soprattutto interni, contando sul fatto che le strade e la zona di confine erano coperte di mine e che i sentieri di montagna erano bloccati dalla neve. In più, gli Albano-kosovari con cui l’UNHCR era in contatto non mostravano nessuna intenzione di scappare, ma piuttosto di aspettare la svolta successiva della guerra 13.

L’ufficio dell’Alto Commissario ha preparato perciò un piano di azione soltanto per 100mila rifugiati. Le dimensioni e la velocità dell’esodo non sono state previste, e la risposta dell’UNHCR alla crisi era una risposta “standard”. Sono state messe in campo procedure inadeguate, adatte ad un’emergenza meno vasta e veloce. Il quadro di preparazione era progettato per mettere al sicuro immediatamente circa 200-250mila persone, però la reazione in generale si è rivelata troppo tardiva, o troppo debole.

Per Milosevic i bombardamenti hanno segnato l’avvio dell’ “operazione a ferro di cavallo” con cui era disposto di eliminare tutti gli albanesi del Kosovo nel giro di una settimana. Le violenze perpetuate dalla polizia serba, dall’esercito della FRJ e dalle crudeli formazioni di paramilitari hanno causato l’esodo forzato per centinaia di migliaia di albanesi verso la Macedonia e L’Albania.

13 UNHCR Evaluation and Policy Analysis Unit: The Kosovo refugee crisis, an indipendent evaluation of UNHCR’s emergency preparedness and response, EPAU 2000/2001.

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I deflussi dei rifugiati hanno cominciato repentinamente e in modo del tutto imprevisto, fatto poco comune nella storia dei movimenti di rifugiati. Durante undici settimane di attacchi aerei quasi 860mila Albano-kosovari sono fuggiti in Albania (444.600), nell’ex-repubblica jugoslava di Macedonia (344.500) e Montenegro (69.900). La situazione può essere osservata nella Tabella I.

Tabella I. La popolazione cumulativa di rifugiati in Montenegro, Albania e ex -repubblica jugoslava di Macedonia, 23 marzo – 9 giugno 1999

fonte: UNHCR

Nei fatti, non è stata valutata appieno la natura estremamente politica di questa emergenza, e inoltre l’organismo preposto ad affrontare queste emergenze, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati, funzionava e funziona secondo regole stabilite 50 anni fa, appesantita da ferraginose procedure burocratiche e con poche capacità di reagire immediatamente nel caso di emergenze di grandi dimensioni.

Un altro importante fattore in gioco era l’impegno umanitario della NATO. L’Alleanza Nord-Atlantica ha messo a disposizione risorse significative, e la sua missione spesso oscillava tra militare e umanitaria (soprattutto per quanto riguarda la logistica e la gestione dei campi profughi). Come parte in causa nella guerra, la NATO aveva grossi interessi a mostrare il suo impegno ad alleggerire la crisi umanitaria. Si sono avviate molte azioni di appoggio alle operazioni umanitarie, e notevole è stato il suo aiuto nella costruzione di campi profughi e nella creazione della squadra speciale AFOR (The Albania Force) che si occupava unicamente della situazione umanitaria.

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La maggior parte dei paesi occidentali ha scelto di aiutare la popolazione tramite l’attivazione di progetti bilaterali, non perché volevano competere con le iniziative dell’UNHCR ma perché la loro risposta rifletteva piuttosto i vari interessi particolari degli stati. I sei maggiori donatori dell’UE contribuirono all’emergenza con 279 milioni di dollari di aiuti umanitari pubblici (esclusi i costi militari), ma l’UNHCR ne ha ricevuto solo 9,8 milioni direttamente, ossia 3,5 per cento. I donatori più importanti erano la Danimarca ($71 milioni), la Germania ($58 milioni) e l’Italia ($69 milioni).

La crisi umanitaria era scoppiata vicino all’Europa Occidentale, che aveva già preso in carico i rifugiati della Bosnia e in più i richiedenti asilo provenienti dal Kosovo. Il numero dei richiedenti asilo provenienti dall’ex-Jugoslavia è aumentato del 200 per cento dal 1997 al 1998, e per la gran maggioranza si trattava degli Albano-kosovari. Per paura di una nuova ondata di rifugiati gli stati membri dell’UE hanno reagito in modo rapido per fermare l’esodo nella regione.

È stata offerta assistenza ai rifugiati, sono stati accordati aiuti finanziari ad Albania ed ex-repubblica jugoslava di Macedonia, si sono costruiti rapidamente numerosi campi profughi in entrambi i paesi e il Regno Unito ha avanzato persino la proposta di creare una “zona di sicurezza” lungo la confine tra l’ex-repubblica jugoslava di Macedonia e il Kosovo. Considerato un evento di alta visibilità per i paesi occidentali, la soluzione del problema del Kosovo ha determinato finanziamenti inusualmente massicci (si parla spesso di campi di lusso) ed un trattamento speciale per i richiedenti asilo (addirittura l’evacuazione nei paesi occidentali).

L’evacuazione verso i paesi terzi aveva radici puramente politiche ed è una pratica alla quale, storicamente, si è fatto ricorso assai di rado. In Macedonia, ai primi di aprile 1999, le autorità hanno chiuso temporaneamente le frontiere, rifiutando l’ingresso a decine di migliaia di albano-kosovari. Mentre il numero esatto di persone appartenenti all’etnia albanese nell’ex-repubblica jugoslava di Macedonia è rimasto sempre una controversia, l’arrivo immediato dei rifugiati, di cui il numero oltrepassava il 10 per cento della popolazione totale macedone, ha determinato un serio impatto sul bilancio etnico già delicato della regione. Per ridurre il numero dei rifugiati presenti sul proprio territorio, il governo macedone aveva chiesto quindi l’attuazione di un sistema di ripartizione internazionale dell’onere, che includesse l’evacuazione o il trasferimento in paesi terzi di una parte dei rifugiati. Visto che per continuare ad operare in territorio macedone la NATO aveva bisogno dell’assenso delle autorità nazionali (il che dava loro notevoli mezzi di pressione sui governi dei paesi membri dell’Alleanza atlantica) gli USA e il Regno Unito si sono dimostrati sensibili verso queste richieste, preoccupandosi che la presenza dei rifugiati potesse spingere il governo macedone a ritirarsi dalla campagna militare della NATO.

L’operazione di soccorso umanitario è stata quindi ancor più politicizzata quando le forze della NATO hanno partecipato all’assistenza ai rifugiati, mentre i mezzi di

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comunicazione internazionali continuavano a diffondere le drammatiche immagini dei profughi disperati, che affluivano in massa in Albania o erano bloccati alla frontiera macedone.

Appare sempre più chiaramente che, nel breve periodo, la campagna aerea aveva di fatto aumentato, anziché diminuito, le violenze contro gli albano-kosovari. In reazione a tale sviluppo, la NATO ha rivolto in misura crescente la propria attenzione al dramma dei rifugiati. Il 2 aprile, il Segretario generale dell’organizzazione, Javier Solana, scriveva all’Alto Commissario Ogata, offrendo di appoggiare l’UNHCR nelle operazioni di soccorso. Il giorno dopo, l’Alto Commissario accettava l’offerta, con una lettera in cui precisava i principali settori che richiedevano una collaborazione.

L’accettazione da parte dell’UNHCR dell’assistenza offerta dalla NATO ha contribuito a dare una rapida soluzione al problema dei 65mila albano-kosovari bloccati alla frontiera con la Macedonia. La costruzione immediata di campi profughi e il programma di evacuazione verso paesi terzi hanno costituito il "pacchetto" necessario per strappare al governo macedone l’accordo per l’ammissione dei rifugiati. Il programma – concepito esclusivamente come una soluzione di breve durata, per consentire il trasferimento di parte dei rifugiati dalla Macedonia verso i paesi terzi – rappresentò una nuova variante della ripartizione dell’onere.

Gli Stati Uniti hanno attivato così un piano di “burden sharing” in base al quale il passaggio dei profughi verso i paesi terzi veniva concesso a patto che l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia lasciasse entrare i rifugiati nel suo territorio. In termini di sicurezza, nel corso dell’emergenza si era verificato quasi un disastro quando migliaia di rifugiati finirono intrappolati a Blace cercando di passare il confine. Questo episodo, se pure di importanza modesta, mostra in modo drammatico l’opposizione tra i diritti dei rifugiati e gli interessi dello stato.

Il programma di “burden sharing” messo in campo dalla comunità internazionale sottolineava la permessa che la protezione è una responsabilità comune degli stati. Con il programma sono state create due politiche innovative: HEP e HTP, realizzate dall’UNHCR in collaborazione con la NATO.

L’HEP (Humanitarian evacuation programme) ha trasferito rifugiati fuori dalla regione in un’operazione incredibilmente vasta e rapida. Togliendo il carico dell’accoglienza dalla Macedonia, l’operazione ha permesso ad altri rifugiati di entrare in territorio macedone, ristabilitando una sorta di equilibrio. Purtroppo, la messa in pratica del programma era segnata dall’inaffidabilità di alcuni stati e dai comportamenti opportunisti da parte dei rifugiati. L’HEP aveva reso difficile anche altre modalità di trasferimento all’interno della regione (HTP).

Storicamente gli accordi di tipo “burden sharing” sono rari: si sono verificati solo due casi negli ultimi 50 anni (immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo la guerra del Vietnam). È ovvio anche che i flussi massicci di rifugiati possano

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rappresentare un rischio per il paese di primo asilo, come si era reso evidente nel caso dell’ex-repubblica jugoslava di Macedonia. La paura che il piccolo e recente paese, appesantito da un bilancio etnico fragile, potesse disintegrarsi durante il conflitto era fondata.

Dopo queste esperienze fallimentari il futuro ricorso in sede internazionale a strumenti tipo HEP sono poco probabili, tenendo conto sia del limitato appoggio pubblico per ricevere i rifugiati provenienti da zone remote, sia l’interesse dei paesi occidentali a promuovere programmi simili, a meno che non siano direttamente coinvolti nel conflitto.

L’HTP (Humanitarian transfers programme) era invece possibile visto che l’Albania accettava i rifugiati sul suo territorio. Purtroppo furono pochi a sfruttarlo e essenzialmente non ha contribuito molto al quadro generale della sicurezza. Il problema era imputabile in parte agli standard dell’UNHCR che andavano dalla possibilità completa, da parte dei rifugiati, di scegliere il paese d’asilo (consenso esplicito), fino all’assenza di obiezioni ragionevoli (consenso implicito) per declinare l’accoglienza offerta da un paese. Neanche la legge internazionale è completamente chiara su questo punto. L’ambiguità dello status giuridico e dei diritti di coloro che sono stati evacuati nel quadro del programma ha fatto sì che ogni governo applicasse i propri criteri, ad esempio relativamente al diritto al ricongiungimento familiare.

Al termine dell’emergenza avevano beneficiato del programma poco meno di 96mila rifugiati, distribuiti in 28 paesi ospitanti. Il maggior numero è stato trasferito in Germania (14.700), negli Stati Uniti (9.700) e in Turchia (8.300), mentre la Francia, la Norvegia, l’Italia, il Canada e l’Austria hanno accolto più di 5mila rifugiati ciascuno. Inoltre, varie migliaia di rifugiati sono stati trasportati forzosamente in autobus dalla Macedonia all’Albania.

La situazione politica riguardando i rifugiati in Albania era abbastanza diversa dalla situazione macedone. L’Albania giocava infatti un ruolo importante nel conflitto: il Governo di Tirana dichiarava spesso il proprio appoggio alle lotte per l’indipendenza del Kosovo e richiamava la solidarietà di tutte le comunità albanesi nei Balcani. L’UCK dal canto suo aveva basi nel nord dell’Albania. Gli attacchi ai confini contro i militari jugoslavi sono avvenuti nei mesi precedenti al bombardamento della NATO: era ovvio che sarebbe stato concesso il diritto d’asilo a tutti i rifugiati del Kosovo.

La Tabella II rende l’immagine della situazione subito dopo il cessate il fuoco, il 9 giugno del 1999.

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Tabella II. Popolazioni del Kosovo esuli nei paesi/territori limitrofi a metà giugno 1999

fonte: UNHCR

I rifugiati hanno cominciato così a far ritorno immediatamente alle loro case. Nel giro di tre settimane erano tornate mezzo milione di persone e, alla fine del 1999, ne erano rientrate oltre 820mila 14(fra cui alcuni abitanti partiti prima del 24 marzo). Coloro che tornavano trovavano una società priva di un’amministrazione civile e di una forza di polizia operative, senza alcun ordinamento giuridico o apparato giudiziario funzionanti, e in cui le distruzioni degli immobili erano state massicce. I rimpatriati dovevano, inoltre, far fronte al pericolo delle mine, delle bombe nascoste e degli ordigni inesplosi.

Una Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione provvisoria del Kosovo (UNMIK15) è stata incaricata dal Consiglio di sicurezza di mettere in piedi

14 UNHCR, The Kosovo refugee crisis – An independent evaluation of UNHCR’s emergency preparedness and response, 200015 United Nations Mission In Kosovo, missione amministrativa e militare stabilita nel Kosovo dopo la ratifica della Risoluzione 1244 dell’ONU.

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un’amministrazione civile provvisoria. Questa doveva occuparsi di tutto: dall’assistenza sociale agli alloggi, al ripristino delle istituzioni e dell’ordine pubblico.

CAPITOLO 2

Kosovo, on the road again...

In base alle Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite numero 1244 del 1999, il Kosovo è stato provvisto di un governo e un parlamento provvisori, e posto sotto il protettorato internazionale UNMIK e NATO.

Dopo gli accordi di pace nel giugno 1999, e l’arrivo delle truppe KFOR (The Kosovo Force), i rifugiati Albano-kosovari sono rientrati quasi subito in patria, nonostante le difficili condizioni. Questa però non era la fine dei movimenti migratori perché, sotto “l’effetto domino”, i Serbi e le altre minoranze etniche hanno lasciato la Provincia temendo la vendetta.

Secondo i dati ufficiali dell’UNHCR, immediatamente dopo il ritiro dell’esercito serbo dal Kosovo sono fuggiti più di 100mila Serbi16. Siccome in questo vero e proprio esodo non veniva superato nessun confine internazionale, quei profughi venivano considerati semplici sfollati (in inglese IDP-internally displaced persons), anche se le ragioni della loro fuga erano le stesse come nel caso dei rifugiati.

Generalmente, a volte sono gli ostacoli naturali ad impedire alla gente di fuggire oltre i confini nazionali, oppure si cerca di restare all’interno dello stesso paese ma spostandosi lontano dai conflitti. Anche quando poi è possibile oltrepassare i confini, gli

16 Dati presi dal settimanale Vreme, Srbi sa Kosova – Igre sa gradjanima drugog reda, Nº 446 di 24 luglio 1999Questo sono i dati riportati dal rapporto dell’UNHCR, a notare che sono in forte contrasto con i dati del governo serbo che contano 230mila Serbi fuggiti.

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esuli sono raramente i benvenuti. Storicamente, inoltre, l’ostilità nel rapporto con i rifugiati o i richiedenti asilo è aumentata dopo la fine di Guerra fredda, perché la loro sistemazione era giudicata troppo costosa o destabilizzante nei confronti dello stato di accoglienza.

Il numero degli IDPs su base mondiale supera due volte quello dei rifugiati17,il fatto strettamente associato all’aumento delle guerre interstatali, ma formalmente nessuna organizzazione internazionale ha il mandato per aiutarli. La convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati, sebbene inizialmente limitata ai profughi europei, dà una definizione generale del "rifugiato", che è colui che, trovandosi fuori del proprio paese, non può farvi ritorno a seguito di un fondato timore di persecuzione, per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale.

Il regime giuridico e istituzionale di protezione dei rifugiati, quando è stato creato sul piano internazionale, non comprendeva la categoria degli sfollati, cioè degli esuli che rimangono nel proprio paese. In virtù del principio di sovranità nazionale, essi rientravano nelle competenze dello stato interessato.Ne è derivata una risposta incoerente da parte della comunità internazionale, e grandi masse di sfollati sono rimaste prive di efficaci misure di protezione e assistenza.

Nel corso delle ultime emergenze molti stati hanno chiuso i loro confini ai rifugiati o hanno adottato misure d’ammissione restrittive. Il risultato è stato l’aumento degli sfollati e il calo del numero di rifugiati: anche se non si dispone di dati precisi, si calcola che nel 1999 vi fossero, in non meno di 40 paesi nel mondo, 20-25 milioni di sfollati, strappati alle loro case dalla guerra o da violazioni dei diritti umani. Nel luglio 1992, il Segretario generale dell’Onu ha nominato Francis Deng proprio Rappresentante per gli sfollati. Secondo Deng, questi ultimi vengono facilmente a trovarsi, nei singoli stati, in un “vuoto di competenze”, mentre le autorità responsabili li vedono come “il nemico”, piuttosto che come propri cittadini bisognosi di protezione e assistenza.

La situazione in Serbia non era di fatto diversa. Le telecamere della televisione nazionale sono rimaste in silenzio davanti alla fuga della popolazione serba dal Kosovo. Solo alcuni anni prima questa stessa popolazione è stata usata per le manifestazioni nazionaliste pro-serbe nella provincia quando in Serbia il popolo manifestava contro il regime e Slobodan Milošević, prendendo così il ruolo principale nel salvataggio della “terra santa serba”, come si diceva allora.

La risposta dello stato si è concretizzata secondo il principio che tutti i diritti potevano essere realizzati esclusivamente sul territorio del Kosovo. Anche se non esistevano decisioni scritte, i figli degli sfollati del Kosovo, secondo la

17 UNHCR – Global Report 2005.

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raccomandazione del Ministero dell’Istruzione della Serbia, nella maggior parte dei casi non potevano iscriversi nelle scuole superiori serbe.

Il Centro per i diritti umani di Belgrado (BCHR) ha annunciato l’apparizione della discriminazione nel confronto degli sfollati del Kosovo, sottolineando che i loro problemi rimanevano in attesa di soluzione, esattamente come nel caso dei rifugiati delle guerre precedenti.

Secondo Vojin Dimitrijević, presidente del BCHR, la discriminazione degli sfollati era dovuta al fatto che essi rappresentavano la personificazione “degli errori del pasato”18.

Ma nei Balcani per la maggioranza dell’opinione pubblica il territorio è sempre stato più importante delle persone, e mentre si piangeva per la terra del Kosovo nessuno parlava degli sfollati che su quella terra soffrivano il dramma dello sradicamento e della privazione. Di loro si occupavano solo i governi locali e le organizzazioni umanitarie, e v’era un clima simile anche tra il popolo: le violazioni dei diritti umani erano viste come un argomento “importato” dall’Occidente.

Il governo serbo, con una serie di accordi e risoluzioni ha iniziato la cooperazione con la comunità internazionale. La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite numero 1244, il Quadro costituzionale del Kosovo e il Documento comune tra UNMIK e Repubblica Federale di Jugoslavia del 5 novembre 2001, hanno stabilito i principi guida che avrebbero garantito la sicurezza e i diritti umani, il ritorno delle persone sfollate e perseguitate, e ha impostato l’autorità insindacabile dell’UNMIK per l’applicazione di questi accordi in nome della comunità internazionale.

La risoluzione 1244, in particolare, include la clausola secondo cui “le forze internazionali incaricate per la sicurezza devono stabilire un ambiente sicuro dove i rifugiati e gli sfollati possano tornare e dove la libertà di movimento sia garantita”19.

Nel 2001 Nebojša Čović, rappresentante speciale della Repubblica Federale Jugoslava, del Governo della Repubblica Federale Jugoslava e del Governo serbo, e Hans Haekkerup, rapresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per il Kosovo, hanno firmato il Documento comune tra UNMIK e RFJ: in esso si affermava che “la realizzazione della sicurezza per tutte le comunità era la condizione chiave per un Kosovo multietnico”20. Inoltre, la sicurezza riguardava “la popolazione a rischio, i luoghi abitati, le infrastrutture, i monumenti culturali e le proprietà nel ce e Metohija” 21. Il documento prevedeva la creazione di un ufficio per i ritorni, sotto il controllo diretto dell’Inviato speciale del Sergetario Generale delle Nazioni Unite, che dovrebbe funzionare come un ente operativo per la coordinamento ed il miglioramento

18 Intervistata concessa al settimanale Vreme, Srbi sa Kosova – Igre sa gradjanima drugog reda, Nº 446 di 24 luglio 199919 Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite20 Dal Documento comune tra UNMIK e RFJ, 200121 Ibidem.

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del processo di ritorno, e che avrebbero proposto un nuovo piano per il ritorno durante i due anni successivi.

A parte il ritorno degli sfollati e dei rifugiati, la stessa sopravvivenza dei Serbi e delle altre minoranze etniche è una delle priorità. Il Centro di coordinamento per il Kosovo e Metohija e l’UNMIK si sono vincolati attraverso il Documento comune ad applicare “gli stessi principi, criteri, misure e mezzi, anche secondo le esigenze specifiche, per impedire il processo di trasloco”.

La prassi però era abbastanza diversa. La paura, la mancanza di sicurezza e di libertà di movimento, uniti al cattivo funzionamento dei meccanisimi legislativi e delle istituzioni temporanee, hanno creato un clima politico che non incentiva il ritorno.

Per realizzare un ritorno sostenibile e dignotoso, è evidente che a tutti i cittadini del Kosovo devono essere garantite le condizioni sufficenti per vivere e lavorare. Ciò vuol dire rinforzare il settore economico e creare le condizioni per assumere un gran numero di disoccupati.

Nei fatti, però, i numeri piuttosto modesti dei ritorni organizzati, facilitati o spontanei stanno ad indicare le difficoltà nell’attuazione di queste politiche.

Alla fine dell’anno 2000, il numero stimato dei rifugiati presenti nella Repubblica Federale di Jugoslavia era 483 900 (di cui 14 900 nel Montenegro)22. La mancanza di sicurezza nel Kosovo ha provocato la fuga in Serbia di circa 230mila23 Serbi e membri di altre minoranze etniche, in un processo che ha preso il nome di "pulizia etnica alla rovescia".

La popolazione locale a rischio (prevalentemente membri delle minoranze etniche, stimata in circa 100mila persone) si scontrava quotidianamente contro il disprezzo, l’isolamento e la violenza diffusa. Alcune aree del Kosovo, ivi comprese le città di Mitrovica, Gnjilane e altri siti dalla forte impronta multietnica, sono stati luogo delle tensioni e delle violenze estreme.

Di fronte a questa situazione, nel mese di maggio 2000 viene creato il Comitato Aggiuntivo per il Ritorno24 con lo scopo di esplorare i modi per consentire un ritorno sicuro e sostenibile ai Serbi.

L’anno seguente, il 2001, ha portato importanti cambiamenti politici in Kosovo. Si è stabilito in maggio il Quadro Costituzionale per il Governo Autonomo Provvisorio del Kosovo, mentre le elezioni si sono tenute in novembre. Gli sforzi per ricostruire il Kosovo però non intervenivano abbastanza efficacemente sulle questioni delle minoranze etniche, e il sistema non era adatto a gestire le situazioni e bisogni delle minoranze.

22 Dati pubblicati dall’UNHCR – Global report 200023 Centro di Coordianmento per Kosovo e Metohija, Povratak na Kosovo i Metohiju, 2006 (dati dal 2005). Il numero totale dei rifugiati e sfollati “pro capite” in Serbia era allora il secondo più grande in Europa, superato soltanto dall’Armenia24 JCR- Joint Commitee on Return

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A causa di ciò il numero di sfollati non ha registrato nessun cambiamento, e sul territorio serbo soggiornavano 236.600 persone sfollate dalla provincia, di cui 32% minorenni25.

Nel 2002 il Governo della Serbia e Montenegro ha approvato la Strategia Nazionale per la Risoluzione dei Problemi dei Rifugiati e degli Sfollati. Uno dei risultati è stato la creazione del Progetto dei Centri Collettivi26 con la cooperazione del Ministero degli Affari Sociali. Questo è stato un passo importante verso una soluzione efficace del problema. L’Ufficio dell’UNHCR ha verificato il ritorno di circa 2740 membri delle minoranze nei loro luoghi di residenza. Comunque il numero degli sfollati non ha cambiato molto: contavano infatti alla fine dell’anno 234.800 persone, e sempre 85mila persone erano in rischio27.

Nel 2003 il progetto dei centri colletivi era completato offrendo alloggio a circa 5000 rifugiati e 2200 sfollati. I ritorni erano in aumento rispetto all’anno precedente. Si è registrata la presenza di 3629 membri di minoranze etniche, il 32% in più del 2002. Il problema della sicurezza per la minoranza serba è rimasto quindi molto serio, e ha determinato il processo di ritorno.

Il numero stimato degli sfollati era di 256.900 unità, il 44% erano le donne ed il 32% minorenni28.

Il Governo del Kosovo e l’UNMIK hanno elaborato i “Kosovo Standards” (pubblicato il 10 dicembre 2003) ed il Piano per l’Implementazione degli Standard per Kosovo (KSIP29, pubblicato il 31 marzo 200430), ulteriormente approvato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dall’Unione Europea, dal Gruppo di Conttato e da altri attori internazionali: essi indicano 8 campi in cui il Kosovo deve fare progressi per il suo buon funzionamento, per la stabilità e l’avvicinamento all’Europa.

La libertà di movimento, il ritorno sostenibile e i diritti delle minoranze erano gli standard più urgenti da raggiungere per poter avviare gli accordi per lo status futuro del Kosovo.

25 Dati pubblicati dall’UNHCR – Global report 200126 Collective Centre Solution Project27 Dati pubblicati dall’UNHCR – Global report 200228 Dati pubblicati dall’UNHCR – Global report 200329 UNMIK, Kosovo Standards Implementation Plan, 31 marzo 2004 30 Questo documento è stato creato in seguito ai disordini del marzo 2004 quando si è verificato il mancato funzionamento delle istituzioni del governo provisorio

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Il dialogo tra PISG31 e il governo di Belgrado sugli Standards ha iniziato alla fine del 2003 sotto la supervisione dell’Inviato Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite e del Vertice dell’UNMIK.

Nel luglio 2003 tutti i leader non-serbi hanno lanciato un appello agli sfollati residenti in Serbia o Montenegro e ai rifugiati in Macedonia per tornare alle loro comunità in Kosovo.

Un’ondata di violenze contro la minoranza serba durante l’estate e l’autunno di quell’anno ha provocato una percezione negativa delle condizioni di sicurezza nel paese. Nessun colpevole era arrestato e, di conseguenza, i ritorni nei mesi estivi hanno registrato un costante calo. Inoltre, l’insicurezza, le limitazioni della libertà di movimento, le questioni di proprietà irrisolte, la mancanza di opportunità lavorative (il tasso di disoccupazione superava il 50%), i finanziamenti inadeguati per i progetti di ritorno contribuivano pesantemente ad ostacolare il rientro delle minoranze in Kosovo.

Il numero degli sfollati nell’anno seguente è rimasto più o meno costante. I registri registravano 226.000 persone (208.000 in Serbia, 18.000 in Montenegro e altri 22.000 nel Kosovo stesso). Nei 134 centri collettivi soggiornavano circa 5.300 rifugiati e 7.600 sfollati.32

I ritorni nel 2004 sono state soltanto 2.300 (12mila in totale), 37% in meno del 2003. Si era verificata anche l’assistenza di emergenza di 4.200 persone sfuggite dalle loro dimore durante i disordini di marzo. Nel mese di maggio ancora 1.467 persone risultavano disperse.

Le violenze etniche dal 17 al 19 marzo 2004 sono state le peggiori dall’arrivo dei soldati del KFOR e della polizia civile dell’UNMIK. La ragione del conflitto era stata la notizia, diffusa dai media albanesi, della scoperta da parte delle autorità locali e della polizia dell’UNMIK dei corpi di due bambini albanesi, annegati nel fiume Ibar. La stabilità sul Kosovo il 18 marzo 2004 ha fatto grossi passi indietro rispetto a quella del 16 marzo 2004.

Durante gli scontri hanno perso la vita almeno 28 persone, più di 600 sono state ferite, tra cui 61 soldati del KFOR. Almeno sette paesi a maggioranza serba sono stati dati alle fiamme, oltre a 25 tra monasteri e chiese33.

Per una sorta di effetto a catena, le violenze in Kosovo si sono rifletteute anche in Serbia. A Belgrado e nelle altre città alcune moschee sono state prese d’assedio.

31 Kosovo provisional institutions of self-government (PSIG) sono state create dal Quadro Costituzionale e sono composte dalle istituzioni seguenti: assemblea, presidente del Kosovo, governo e altri organi. Regulation 2001/9 del 2001 dell’ONU spiegando le funzioni dell’Inviato speciale del Segretario generale sostiene anche che “l’esercizio delle responsabilità delle PISG non deve intaccare né ridurre l’autorità dell’Inviato speciale di assicurare una piena esecuzione della Risoluzione 1244, inclusa l’autorità di monitorare le PISG, i suoi funzionari e i suoi organismi, e di prendere le misure appropriate qualora le loro azioni siano incompatibili con la Risoluzione 1244 o con questo Quadro Costituzionale”32 Dati pubblicati dall’UNHCR – Global report 200433 UNMIK, Media Monitoring – Local Media Analysis, 19 marzo 2004

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Questo evento ha sottolineato le difficoltà di superare lo status quo della Provincia del Kosovo, già da cinque anni sotto prottetorato ONU.

La reazione del Governo Serbo è stata di propore un documento il Piano per Kosovo, che proponeva la creazione di cantoni e la decentralizzazione amministrativa della provincia.

Sul piano politico, alla vigilia delle elezioni in Kosovo, si sono verificati profondi dissidi in seno alle istituzioni serbe. Mentre il Presidente Tadic consigliava alla minoranza serba di votare, il Governo invece ha lanciato un appello all’astensione. Il risultato è stato la mancanza di una rappresentanza serba nel Parlamento Kosovaro.

Per proteggere le comunità di civili e per promuovere il ritorno delle minoranze è stato creato il Ministero per le Comunità e i Ritorni, basato su una strategia di ritorno a livello municipale.

Il rientro dei rifugiati del Kosovo ha cominciato ad essere gestito dall’Inter- Agency Working Group dell’UNHCR, che applicava soprattutto la politica contro il cosiddetto “refoulement”, ovvero contro il ritorno forzato dai paesi occidentali, particolarmente per la popolazione serba e rom.

Nel 2005 si sono registrati 5mila ritorni, mentre sul territorio serbo si trovavano 220mila sfollati e altri 22mila erano in Kosovo34. Pochi ritorni sono dovuti al fatto che gli Standards per Kosovo non erano rispettati e messi in pratica. La sostenibilità del ritorno era ancora precaria, e ci si poteva aspettare la formazione di comunità mono-etniche, specialmente nel caso in cui si fossero protratte le condizioni di scarsa sicurezza.

Secondo il rapporto del Comitato Internazionale della Croce Rossa 2005, la posizione degli sfollati in Serbia e Montenegro era andata deteriorandosi rispetto al 2003 e 2004. Le ragioni principali erano la situazione economica degli sfollati, che avevano esaurito tutti i risparmi che avevano portato con sé, i problemi legali nel disporre delle proprietà rimaste in Kosovo, l’impossibilità di accedere ai servizi sociali, la chiusura dei Centri Colettivi e i tagli degli aiuti umanitari.

Il Governo Serbo, come molti altri, non aveva in agenda la priorità di diminuire la povertà tra i rifugiati e gli sfollati, sebbene gli indigenti fossero due volte di più che tra la popolazione locale.

Il Centro di Coordinamento per Kosovo e Metohija ha fatto nel 2005 un’analisi dettagliata delle possibilità di ritorno degli sfollati. Il numero degli sfollati per ogni circoscrizione era il seguente: Kosovo (territorio dei comuni di Podujevo, Priština, Obilić, Kosovo Polje, Lipljan, Glogovac e Štimlje) 84.735, Peć 41.561, Kosvsko-Pomoravski 31.756, Prizren 29.062, Kosvska Mitrovica 18.277. Le percentuali possono essere osservate nella Tabella III.34 Dati pubblicati dall’UNHCR – Global report 2005Il numero complessivo dei profughi dell’etnia non-albanese secondo i dati del Centro di Coordinamento per Kosovo e Metohija è di 368mila persone, ancora una volta in forte contrasto con i dati ufficiali dell’UNHCR.

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Tabella III. Provenienza degli sfollati dal Kosovo

42%

20%

15%

14%9% circoscrizione Kosovo

circoscrizione Pec´

circoscrizone Kosovo-Pomoravljecricoscrizione Prizren

circoscrizone KosovskaMitrovica

fonte: Centro di coordinamento per Kosovo e Metohija

Il totale della persone sfollate, ovvero 205.391, deve essere aumentato dei circa 20mila unità presenti all’interno del Kosovo stesso.

La tabella IV mostra la distribuzione etnica degli sfollati. I due gruppi maggiori sono i Serbi e cosiddetti RAE (Rom, Ashkali e Egiziani).

Tabella IV. Divisione sulla base etnica degli sfollati

71,29%

1,31%

1,04%

3,13%

6,24%

11,26%

0,39% 0,15%4,43%

0,72%

0,04%SerbiRomMontenegriniMusulmaniGoranciEgizianiAlbanesiBosniaciAshkaliNon-dichiaratiAltri

fonte: Centro di Coordinamento per Kosovo e Metohija

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Si stima che sul territorio del Kosovo vivano ancora 140mila persone appartenenti a minoranze etniche non-Albanesi35. La situazione delle minoranze e il raporto tra le presenze attuali e quelle del 1999 varia a seconda della circoscrizione. A Kosovska Mitrovica attualmente risiedono 56.850 persone non-Albanesi mentre se ne erano andate 18.277. A Kosovsko Pomoravlje il numero di abitanti non-Albanesi ancora presenti è quasi uguale a quello delle persone in esilio: 31.819 contro 31.756. Kosovo e Prizren avevano verificato la fuga di più di due terzi della popolazione (nella circoscrizione Kosovo 42.380 rimasti contro 84.735 sfollati o rifugiati, mentre a Prizren il rapporto è di 11.750 contro 29.062) ma la situazione più allarmante si era verificata a Peć dove sono rimaste solo 1.509 persone non-Albanesi e se ne erano andate 41.56136. La Tabella V mostra questo fenomeno.

Tabella V. La comparazione della popolazione non-Albanese presente attualmente sul territorio e in esilio

010000

2000030000

400005000060000

7000080000

90000

attualmente sulterritorio

in esilio inSerbia o

Montenegro

KOSOVSKAMITROVICA

PEC´

KOSOVO

KOSOVO-POMORAVLJE

PRIZREN

fonte: Centro di Coordinamento per Kosovo e Metohija

Nel complesso, i ritorni effettuati entro la fine del 2005 erano circa 12mila, un po’ meno del 6% della popolazione in esilio. I Serbi erano 5 782, ovvero il 45% della popolazione tornata.

Purtroppo il numero dei ritorni è ancora molto basso per molteplici ragioni: l’economia in via di sviluppo che porta con sé un alto livello di disoccupazione, la percezione della mancanza di libertà di movimento e di sicurezza, la sfiducia nel stato di diritto e nella tutela della proprietà, le tensioni etniche. Inoltre, molti sfollati si sono integrati nei luoghi d’arrivo, e le possibilità di ritorno sono minime. A questo dato contribuisce anche l’aumento dei tempi per l’espletamento delle pratiche di asilo o

35 Secondo il Raporto del Centro di coordinamento per Kosovo e Metohija – Povratak na Kosovo i Metohiju, 200636 In esilio dal 1999 fino ad oggi

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registrazione: mentre venti anni fa si parlava di nove anni, adesso è circa di diciassette37.

In base alle leggi internazionali e nazionali (Quadro costituzionale del Kosovo) ogni persona sfollata ha il diritto ad una decisione libera sul suo ritorno, secondo il principio per cui “loro devono impegnarsi per prendere le decisioni politiche dalle quali dipende il loro futuro”.

Per incentivare il ritorno si deve garantire il diritto alla proprietà. Nel marzo del 2006 si è approvato il Decreto per la risoluzione dei problemi sulla proprietà privata, la proprietà agricola e quella commerciale. Si è fondata in seguito L’Agenzia del Kosovo per la Proprietà che gestisce le pratiche riguardanti le proprietà confiscate.

Il primo caso di ritorno nell’area urbana si è verificato soltanto nel marzo 2005 a Klina, e da allora soltanto un’altra quindicina. I problemi maggiori per il ritorno nelle zone urbane sono soprattutto l’impossibilità di risolvere la situazione degli ex-professionisti.

Prima del 1999 il Kosovo era composto da paesi e città mono e multietniche. Alcuni dei paesi multietnici ora sono abbandonati e i loro abitanti si sono spostati nelle zone dove la loro comunità è maggioranza per ragioni di sicurezza. Si deve inoltre tener conto della possibilità di un’ondata secondaria di trasferimenti, visto che spesso queste persone si sono installate in case abbandonate, e che probabilmente nel nuovo ambiente non possono trovare un lavoro.

Un grande passo verso la stabilità della regione è stato fatto il 6 giugno 2006, quando Governo Serbo, PISG e UNMIK hanno firmato il Protocollo sul ritorno volontario sostenibile. Esso era preceduto dall’approvazione delle nuove politiche per il ritorno promulgate il 24 maggio 2006 e annunciate dal Governo del Kosovo.

Lo scopo del protocollo è il miglioramento delle condizioni per il ritorno e il rinforzo delle condizioni per la sua realizzazione. Si dichiara che il ritorno sostenibile deve essere fondato su tre elementi principali: la sicurezza degli sfollati, l’acquisto e la riparazione della proprietà persa e la creazione delle condizioni per un ritorno sostenibile.

Le possibilità per il ritorno variano a seconda delle circoscrizioni e dell’appartenenza etnica degli sfollati. La resistenza della popolazione locale è più marcata nel confronto dei Serbi e si dimostra in modi diversi.

Il ritorno però non dovrebbe essere solo un gioco di numeri ma il compimento dei diritti di ogni cittadino che vuole ricominciare la sua vita in Kosovo. Ci vuole molto di più di un semplice rifugio. Le famiglie hanno bisogno di lavorare e di non essere fatte oggetto di discriminazione, di mandare i loro figli nelle scuole e di accedere a tutti i servizi pubblici. Le condizioni per il ritorno si devono infine, e soprattutto, consentire ai civili una permanenza sostenibile.

37 Il rapporto dell’Alto rappresentante per i rifugiati A. Guterres riportato dal settimanale Vreme

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CAPITOLO 3

Kosovo, giochi senza frontiere

Nel capitolo precedente ho descritto le dinamiche dei flussi migratori nella Provincia del Kosovo. Questi numeri sono il risultato delle complesse mosse politiche che sono avvenute nel sottofondo del dramma umanitario. Il terza capitolo cerca invece di illustrare i decreti, i protocolli, le risoluzioni che influiranno in modo decisivo sullo status futuro della regione meridionale serba. Il destino del popolo del Kosovo dipende dagli accordi internazionali che determinarebbero il suo posto sulla mappa del mondo.

Dall’arrivo delle truppe NATO il 10 giugno del 1999 la Provincia del Kosovo è sotto l’amministrazione provvisoria dell’UNMIK. Il protettorato internazionale è stato determinato nella Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazione Unite numero 1244 del 1999. Lo status del Kosovo consiste dell’autonomia all’interno della Repubblica Federale di Jugoslavia, sorvegliata però dalla presenza civile internazionale convocata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La questione dei rifugiati e degli sfollati si è rivelata particolarmente importante. Nella Risoluzione troviamo che la presenza internazionale dovrebbe “stabilire un’ambito sicuro dove i rifugiati e gli sfollati possono tornare alle loro case senza correre pericoli”38, e dove sarebbe protetta la libertà di movimento. Inoltre, verrebbe 38 Risoluzione 1244/1999 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU

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controllato “lo sviluppo dell’autogoverno democratico provvisorio destinato ad assicurare le condizioni per la vita normale a tutti gli abitanti del Kosovo”39. Inoltre, il diritto alla proprietà privata viene pienamente riconsciuto come uno di pilastri della società democratica.

Nonostante le buone intenzioni (SIC!) la fuga delle minoranze non-Albanesi si è verificata anche dopo l’arrivo dei peacekeepers, soprattutto per la mancanza di protezione e la paura di possibili vendette. La distruzione del patrimonio storico-culturale e le costanti violazioni dei diritti umani sono stati giustificati dal regime di Slobodan Milošević con cui la comunità internazionale non poteva stabilire una cooperazione per implementare la Risoluzione CS ONU 1244. Il dramma si è esteso anche dopo i cambiamenti in senso democratico del 5 ottobre del 2000, provocando in seguito altri spostamenti.

Un anno dopo il Governo della Repubblica Federale di Jugoslavia e UNMIK nel Documento comune40 hanno affermato il loro “impegno per risolvere la questione delle persone disperse [..] tramite la cooperazione e lo scambio di informazioni”, e hanno assicurato che il processo “di ritorno è iniziato e che tutti i rifugiati e gli sfollati hanno il diritto incontestabile di tornare a loro case”41.

L’UNMIK ha preso in carico la ricerca di 4mila persone disperse appartenenti a tutte le comunità e le dissepolture di circa 1250 salme con lo scopo di identificarle e renderle alle loro famiglie.

Entrambe le parti erano d’accordo che il futuro del Kosovo multietnico sarebbe stato possibile soltanto in una società sicura capace di grantire la libertà di movimento su tutto il territorio.

Sul piano formale UNMIK si è obligata ad aprire l’Ufficio per il ritorno sotto la supervisione del Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite con lo scopo di coordinamento e di miglioramento del processo del ritorno.

Come già descritto nel capitolo precedente, le statistiche dei ritorni erano invariate anche dopo l’approvazione del Documento Comune. Anche se i dati precisi del “profilo” delle persone che ritornano non esistono, si deve sottolineare che questo sono quasi unicamente i le persone anziane o appartenenti all’etnia Rom. Per risolvere la situazione, appesantita anche da una lunga prassi “provvisoria”, il Governo del Kosovo insieme all’UNMIK e con l’appoggio del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e l’Unione Europea hanno stabilito la strategia degli “Standards” prima della dichiarazione del nuovo status. Gli Standards sono 8 requisiti ottimali che porterebbero il Kosovo verso un futuro in seno all’UE: buon funzionamento delle istituzioni democratiche, lo stato di diritto, la libertà di movimento, i ritorni sostenibili e i diritti delle minoranze e dei loro membri, il quadro legislativo dell’economia sostenibile di libero 39 Ibidem.40 Cf. pg. 941 UNMIK e Governo della RFJ – Documento comune del 11 novembre 2001

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mercato, il diritto alle proprietà privata per l’intero popolo del Kosovo, il dialogo costrutivo e continuo tra le PISG e le loro controparti di Belgrado sulle questioni pratiche come l’energia, i trasporti, le comunicazioni ecc, la polizia del Kosovo.

Questi otto pilastri della società democratica avrebbero dovuto essere radicati entro la metà del 2005. L’impresa era quasi impossibile e, di fatto, nel suo Rapporto al Segretario Generale dell’ONU, l’Inviato speciale per la valutazione degli Standards Kai Eide aveva descritto una situazione abbastanza pessimista.

La maggioranza albanese è colpita dall’insicurezza economica e dall’assenza di una prospettiva politica trasparente. Dall’altra parte, i Serbi del Kosovo giustamente credono “di essere le vittime di una campagna che favoriva la diminuzione della loro rappresentanza e la creazione di una popolazione rurale molto dispersa”42. L’Inviato Speciale ha ritenuto inoltre che il dialogo con Belgrado avrebbe dovuto essere più intenso perché il Kosovo si svilupasse.

Dopo i disordini del marzo 2004 la comunità internazionale guidata dall’UNMIK ha mostrato di essere mal organizzata, senza una coesione interna. Si è verificata l’impossibilità di applicare il set degli Standard prima di risolvere lo status definitivo del Kosovo. Gli Standards, secondo l’Inviato Speciale Kai Eide “dovrebbero essere parte integrale di una politica più vasta e [...] si potrebbero sostituire con una politica basata sulle priorità nel quadro della strategia integrale”43.

Nel Rapporto si sottolinea anche il pericolo dell’avvio degli accordi prima di convincere la parte albanese che dovrebbe garantire alla parte serba tutti i diritti necessari.

Sia gli Albano-kosovari che i Serbo-kosovari giudicano la politica degli Standards un’ambizione irreale, impossibile da realizzare in tempi così brevi.

Nonostante gli scarsi risultati della messa in pratica degli Standards il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato il 24 ottobre del 2005 l’inizio delle negoziazioni per il futuro status del Kosovo. L’11 novembre dello stesso anno Martti Ahtisaari, ex-presidente finlandese, è stato nominato mediatore durate gli accordi tra le due parti. I negoziati sono iniziati nel gennaio 2006, quando è stato creato l’Ufficio dell’Inviato Speciale delle Nazioni Unite per lo Status del Kosovo (UNOSEK) sotto la guida di Martti Ahtisaari. Oltre a Belgrado e Pristina vi hanno partecipato i paesi membri del Contact Group (USA, UK, Francia, Germania, Italia, Russia).

L’anno 2006 è stato segnato dalle dieci fasi di dialoghi tenuti a Vienna dove sono state presentate respettivamente le posizioni di Belgrado e di Priština. Dopo i disordini del marzo 2004 il Governo di Belgrado ha reagito proponendo il Piano di Soluzione del Problema del Kosovo. Gli incontri di Vienna non hanno cambiato la ferma decisione di Belgrado di discutere solo rispettando il quadro della Risoluzione

42 Kai Eide – Raporto al Segretario Generale dell’ONU, 200543 Ibidem.

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1244 secondo la quale il Kosovo fa parte integrale della Repubblica della Serbia ed è sotto l’amministrazione civile e militare dell’ONU. Il Piano prevvede il principio “dell’autonomia all’interno dell’autonomia” come unico modo di preservare una società multietnica e multiculturale nella Provincia. L’autonomia della minoranza serba si sarebbe espressa nella creazione di cinque distretti territoriali collegati sul principio della maggiore densità della popolazione. Inoltre, oltre all’autononima territoriale, la popolazione avrebbe dovuto usufruie dell’autonomia personale e culturale.

Nel dibattito sul futuro status del Kosovo, gli Albano-kosovari hanno preso una posizione ferma ed univoca: l’indipendenza come l’unica soluzione possibile. Questa linea non sorprende se analizzata dal punto di vista di chi ha da sempre percepito se stesso come “il vincitore” in una guerra avente per scopo proprio “l’indipendenza del Kosovo”. Questa scelta sembra ancora più ovvia se inserita nel contesto geopolitico globale, perché sono proprio gli Stati Uniti i principali sostenitori dell’indipendenza. È chiaro che gli Americani non avrebbero investito così tanto nella costruzione della base di Camp Bondsteel44 (il più cospicuo investimento per una base militare dai tempi del Vietnam), se non avessero pensato di restare a lungo nei Balcani. Ciò che invece potrebbe apparire meno ovvio, è il fatto che oggi l’indipendenza si presenti agli occhi degli Albano-kosovari come l’antidoto a tutti i mali della provincia, la stagnazione economica, la disoccupazione, la criminalità ecc. E questo perché, come ha sottolineato Anton Marek Nowicki, ex-Ombudsman della provincia, gli albanesi “non sembrano capire che l’indipendenza non aprirà immediatamente, né necessariamente, un’epoca di ricchezza e libertà”.

In realtà non è esagerato considerare il 2006 come un anno perso, perché i negoziati di Vienna non sono mai stati condotti in modo efficace. Le posizioni con cui Belgrado e Pristina si sono sedute al tavolo non sono compatibili. Si è semplicemente cristallizzata la contrapposizione tra le due parti, tra l’intransigenza serba del “tutto fuorché l’indipendenza” e la fermezza kosovara del “nient’altro che l’indipendenza”.

A seguito della conclusione dei colloqui, Ahtisaari ha presentato, il 26 gennaio del 2007 al Gruppo di Contatto e il 2 febbraio alle autorità serbe e kosovare, il suo piano per il futuro ordinamento del Kosovo. La proposta di Ahtisaari non offre una definizione formale dello status, ma essa si può sintetizzare nella formula “sovranità controllata” che in sostanza apre la strada per una futura indipendenza del Kosovo.

Innanzi tutto il Kosovo dovrebbe adottare una Costituzione che garantirebbe i diritti umani e le libertà fondamentali, ed avrebbe poteri e simboli propri degli stati sovrani (come “il potere di firmare trattati internazionali incluso il diritto di chiedere di essere membro delle istituzioni internazionali e di avere i simboli come la bandiera, lo

44 Gli impianti di Bondsteel vicino a Uroševac/Ferizaj costituiscono il più grande campo militare Usa d'Europa. Affittato per 99 anni, il suo impatto strategico, a lungo termine, supera di gran lunga il territorio del Kosovo, che conta solo 2 milioni di abitanti.

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stemma e l’inno”45). Il piano prevede che il Kosovo sia organizzato come una società multietnica, che si amministri da solo, con il rispetto dei principi democratici. Di conseguenza non esisterebbe una religione ufficiale del Kosovo ed esso sarebbe neutro nei confronti delle opinioni religiose. Il Kosovo dovrebbe tutelare, garantire e rispettare i diritti umani universali e le libertà fondamentali espressi nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nel Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, nella Convenzione Europea sui Diritti Umani e nei rispettivi protocolli.

Una delle questioni centrali è sicuramente quella delle minoranze etniche. Secondo il piano dell’Inviato Speciale il Kosovo dovrebbe “creare le condizioni favorevoli alle comunità e i loro membri per tutelare, difendere e sviluppare la loro identità”46. Si devono intraprendere tutte le misure necessarie per proteggere le persone esposte alle discriminazioni o minacce, alle ostilità e alle violenze causate della appartenenza nazionale, etnica, culturale, linguistica o religiosa. L’atmosfera di tolleranza, il dialogo e l’appoggio alla riconciliazione tra le comunità devono essere migliorati.

Il documento prevede meccanismi di protezione della comunità serba e delle altre comunità non albanesi (come seggi assicurati in parlamento, la formazione di otto nuovi comuni serbi, la possibilità di stringere relazioni orizzontali fra di loro e la possibilità di relazioni verticali con la Serbia). Per la comunità serba si prevede un’ampia libertà municipale e la possibilità di un finanziamento trasparente da parte di Belgrado. La Chiesa serba ortodossa e i suoi beni verrebbero protetti con i meccanismi descritti nel annesso V.

La proposta di Ahtisaari riporta l’affermazione della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che “tutti i rifugiati e gli sfollati hanno il diritto al ritorno alle loro case”47. La restituzione della proprietà privata deve essere conforme al diritto nazionale (locale!) e internazionale. Ogni cittadino, in base alle informazioni disponibili, ha il diritto a decidere il luogo di ritorno, anche se non coincide con la vecchia residenza.

Il secondo aspetto centrale nel piano di Ahtisaari è la decentramento amministrativo. Una decentralizzazione che vuole garantire alla minoranza serba, oggi raccolta in enclave48 soprattutto nel nord del paese e fortemente legata al governo di Belgrado, un’autonomia da Pristina nel nuovo Kosovo “indipendente”. Per facilitare il processo dell’integrazione multietnica i Comuni sarebbero le Unità dell’Autogoverno Locale di base. Si prevede la creazione di nuovi comuni che sarebbe descritta nel quadro della Legge sui Confini dei Comuni. Alle 5 municipalità attualmente a maggioranza serba ne verrebbero create in aggiunta altre 8.

45 Ahtisaari Martti, Sveobuhvatan predlog za rešenje statusa Kosova, marzo 2007 46 Ibidem.47 Consiglio di Sicurezza dell’ONU – La Risoluzione 1244/1999 48 Zone chiuse e protette nella maggior parte dei casi da forze militari internazionali

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Dopo quasi un decennio la Missione delle Nazioni Unite in Kosovo si ritirerebbe lasciando molte delle proprie funzioni direttamente al Governo del Kosovo. Contemporaneamente verrebbe creato un International Civil Office (ICO) guidato dall’Unione europea con il ruolo di supervisionare l’applicazione dello status e non più di legiferare come è stato in questi anni. La presenza internazionale avrebbe il compito di supervisionare l'applicazione del piano: l'UE avrebbe un ruolo chiave in quanto il Rappresentante civile internazionale sarebbe anche il Rappresentante speciale dell'Unione. Il rappresentante civile dell'Unione europea godrebbe della più alta autorità, e l’Unione europea sarebbe incaricata per l’intero corso dell'implementazione. “Egli avrà il potere di dimettere i vertici del Governo kosovaro se valuterà che essi non rispettano l’applicazione dello status, ed avrà potere di veto nelle materie ad esso correlate come la protezione delle minoranze, la decentralizzazione amministrativa e lo stato di diritto”49.

Come si poteva facilmente prevedere, la proposta Ahtisaari ha lasciato insoddisfatte entrambe le parti in causa: da un lato gli Albano-kosovari sono delusi dal fatto che nel testo non compare il termine indipendenza, dall'altro i Serbi sono consapevoli che il piano è orientato a portare il Kosovo, in un breve lasso di tempo, dall'indipendenza condizionata alla piena indipendenza. La strategia dell'inviato speciale è stata, infatti, quella di diluire il processo nel tempo, sperando in questo modo di "attutire" la scontata reazione negativa da parte del governo e della popolazione serba.

Nessuna sorpresa, dunque, per le reazioni di Belgrado (“La formula della sovranità controllata serve solo a mascherare l’indipendenza del Kosovo, che non accetteremo mai”50), e di Priština, che ha chiarito che la propria interpretazione della formula sarebbe “un’indipendenza da subito”. Il Presidente della Serbia Tadić ha sostenuto che “l’indipendenza del Kosovo è contro le basi del diritto internazionale e rappresenta un precedente politico e legislativo molto pericoloso”. Egli ha aggiunto inoltre che la proposta fatta dall’Inviato speciale Martti Ahtisaari non contiene la parola indipendenza, ma nello stesso tempo sono stati omessi anche i termini come sovranità e integrità dove si parla della giurisdizione della Serbia sulla Provincia. Il presidente Tadić e il governo uscente hanno dichiarato inaccettabile la proposta poiché da essa non emerge alcuna tutela da parte della comunità internazionale della futura integrità territoriale serba.

Il piano presentato in febbraio, secondo International Crisis Group51, è un compromesso (per cui “non esiste una vera alternativa”52) che permette alla parte albano-kosovara la possibilità di ottenere l’indipendenza e alla parte serbo-kosovara 49 Ahtisaari Martti, Sveobuhvatan predlog za rešenje statusa Kosova, marzo 2007 50 Vlada Srbije, Rezolucija Narodne skupštine Republike Srbije povodom “Predloga za sveobuhvatno rešenje statusa Kosova” specijalnog izaslanika generalnog sekretara UN Martija Ahtisarija i nastavka pregovora o budućem statusu Kosova i Metohije, 2007 51 International Crisis Group (ICG) è un think tank indipendente e non-profit52 International Crisis Group for Kosovo, Nema dobre alternative za Ahtisarijev plan, 14 maggio 2000

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garantisce i maggiori diritti, sicurezza e rapporti favorevoli con la Serbia. La Serbia “dovrebbe cogliere l’occasione di dimenticare il passato una volta per sempre e di pesare al futuro europeo”53.

Dopo la bocciatura dalla parte serba del piano, Ahtisaari ha condotto ancora alcune consultazioni con tutte e due le parti interessate e il 26 marzo di quest’anno ha presentato la relazione finale al Segretario Generale dell’ONU. L’unica opzione possibile, si afferma nella relazione, sarebbe “l’indipendenza sotto la supervisione della comunità internazionale”54. Da qui deriverebbero poi la stabilità del paese e il risanamento economico della Provincia. Anche le istituzioni democratiche sarebbero più sensibili nel rispettare lo stato del diritto e la protezione effettiva delle minoranze. I Serbi del Kosovo dovrebbero partecipare attivamente al funzionamento delle istituzioni. Si consiglia inoltre vivamente di uscire dalla loro logica di non-cooperazione per poter veramente proteggere i loro diritti in seno alle istituzioni kosovare.

Il processo negoziale guidato da Ahtisaari, in ogni caso, non è stato inutile: esso ha permesso di portare buoni risultati all'interno dei colloqui sulle non status issues.

La frattura nella comunità internazionale vede opporsi da un lato gli Stati Uniti e la maggior parte dei paesi della UE, che ritengono inevitabile per il Kosovo percorrere la via dell'indipendenza dopo i lunghi anni di protettorato internazionale, dall'altro invece la Russia, la Cina ed alcuni stati europei quali la Spagna, la Grecia e la Romania, molto più scettici relativamente a questa soluzione a causa del timore che il raggiungimento dell'indipendenza del Kosovo possa servire da incoraggiamento per i movimenti secessionisti di alcune minoranze presenti nel loro territorio. Se, da una parte, Gran Bretagna e Francia, insieme agli Stati “piccoli” della UE, sembrano concordare in pieno con l’affermazione di Condoleezza Rice (“L’indipendenza del Kosovo è l’unica soluzione che potrebbe stabilizzare i Balcani”), dall’altra ci sono Stati che sollevano qualche dubbio sulla possibilità che una regione così povera e fragile sia capace di autogovernarsi. Proprio a causa di queste divergenze di opinioni, il processo negoziale condotto da Ahtisaari si è articolato in un periodo abbastanza lungo, nutrito dalla speranza di trovare un punto di compromesso tra gli interessi serbi e quelli albano-kosovari. Il gruppo dei Paesi favorevoli all’indipendenza ha utilizzato tale arco di tempo per riuscire da una parte a ridurre quanto più possibile le resistenze della Serbia, dall’altra a spingere il gruppo negoziale kosovaro a concedere le massime assicurazioni di protezione ed autonomia della minoranza serbo-kosovara. Purtroppo però le distanze tra le due fazioni non si sono colmate ed ancora oggi profonda è la frattura che separa la posizione dei serbi da quella degli albanesi.

Le speculazioni su come potrebbe essere la nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU sono state rimandate per alcuni mesi siccome la Russia ha

53 Ibidem.54 Ahtisaari Martti, Rapport de l’Envoyé spécial du Secrétaire général sur le statut futur du Kosovo, 26 marzo 2007

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minacciato di porre il veto. Il concetto “dell’indipendenza sorvegliata” proposta dall’inviato speciale Martti Ahtisaari non è stato neanche messo al voto. Le ragioni dell'appoggio russo alla causa serba non affondano solo nel radicato sentimento di solidarietà panslava che ha visto la Serbia alleata della Russia e viceversa, ma anche nella difficile gestione dei territori ubicati ai limiti della Federazione Russa, quali la Cecenia, che potrebbero vedere nella raggiunta indipendenza del Kosovo una ragione ed un’ulteriore spinta per continuare la loro lotta separatista contro il governo centrale.

Anche se la maggior parte degli analisti sosteneva che il Kosovo si muove inevitabilmente verso l’indipendenza55, dopo la reazione russa la loro attenzione si è spostata verso l’idea della dichiarazione unilaterale di indipendenza, e in seguito al riconoscimento del Kosovo al di fuori del quadro ONU. Comunque, le nuove svolte al problema non prevedeno una soluzione nel futuro immediato.

Il rifiuto a priori del piano Ahtisaari ha aperto la strada per un processo negoziale più realistico e moderato da parte del trio UE-USA-Russia. Dopo le consultazioni preliminari tenute a Belgrado e a Priština sotto la supervisione della “Troika” dei mediatori (rappresentante russo Aleksandr Botsan-Kharchenko, statunitense Frank Wisner ed europeo Wolfgang Ischinger) le due parti si sono incontrate per la prima volta in un dialogo diretto il 28 settembre del 2007 a New York.

La questione del Kosovo sembra essere arrivata ad un punto critico. È possibile che già a dicembre o nei primi mesi dell’anno prossimo i kosovari albanesi dichiarino unilateralmente l’indipendenza, dato il più che probabile fallimento del nuovo round di negoziati con i serbi.

La posizione russa è chiara: il piano Ahtisaari non è accettabile come base per i nuovi negoziati, i negoziati stessi non hanno scadenza, i 120 giorni56 di lavoro della Troika non sono l'ultimo passo prima di una soluzione definitiva sullo status del Kosovo e in ogni caso le decisioni finali devono essere prese all'interno del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. L’interesse della Russia è di forzare gli Stati Uniti di abbandonare la loro posizione pro-indipendenza e di crearsi l’immagine del salvatore del diritto internazionale.

Per gli USA è importante di chiudere una volta per sempre “la questione albanese”. Inoltre, il Kosovo dovrebbe servire d’esempio per la situazione in Iraq ed in Afganistan come il progetto di successo in state-building. Altro aspetto da tenere in considerazione è il messaggio di buona volontà che gli Stati Uniti mostrerebbero verso “i buoni musulmani”. Con gli Stati Uniti che premono verso una soluzione rapida57, che al momento resta lo scenario più probabile, e che significa il riconoscimento

55 Per esempio i maggior gruppi think-tank mondiali, come ICG, Transitions online, Le Courrier des Balkans ecc.56 Data proposta dal Segretario generale dell’ONU Ban-Ki Moon nel suo raporto sul Kosovo per trovare una soluzione è il 10 dicembre 200757 Basta ricordarsi della dichiarazione del Presidente Bush durante la sua visita dell’Albania in giugno 2007: “sooner rather than later, you've got to say enough's enough: Kosovo's independent".

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dell'indipendenza anche fuori dalla cornice ONU, il giocatore più debole, e che di certo ha più da perdere, è l'Unione Europea, divisa al suo interno e incapace di parlare con una sola voce.

Il riconoscimento della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo sarebbe un passo notevole. Esso non solo significherebbe bypassare le Nazioni Unite, ma sarebbe anche una violazione diretta della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Agire contro l’ONU, incaricata di proteggere la legge internazionale dal 1945, sarebbe una decisione troppo audace anche per gli Stati Uniti. Inoltre, l’indipendenza del Kosovo potrebbe diventare il precedente di oltre cinquanta di conflitti territoriali nel mondo. Le dichiarazioni che il Kosovo è un caso sui generis e quindi irrilevante per questi conflitti non sembrano troppo convincenti.

In pratica, l’indipendenza unilaterale significa di fatto la spartizione della provincia formalmente serba. Infatti la zona a nord del fiume Ibar, a netta maggioranza serba, non accetterebbe l’autorità di Priština, come ugualmente anche le residue enclave serbe. Questo significa preparare il terreno a un conflitto: a scatenarlo potrebbe essere l’irredentismo serbo, o più probabilmente, l’intenzione kosovara-albanese di non tollerare enclave altrui sul proprio territorio.

Il rifiuto dell’opzione indipendentista è giustificato oggi da parte serba non tanto con le presunte motivazioni “storiche”, da sempre addotte su questo tema, ma piuttosto con argomentazioni di tipo “occidentale”: creare un Kosovo indipendente vuol dire creare un Kosovo monoetnico e in potenziale conflitto con la Serbia. Dunque, se il Kosovo si dichiara indipendente, la Serbia cercherà di convincere i paesi dell'area a non riconoscerlo, mentre gli Usa faranno di tutto per assicurare questo riconoscimento. Alla fine si assisterà al ritorno nella regione di tensione ed instabilità, proprio quello che tutti volevano evitare.

Le fonti diplomatiche negano risolutamente l'esistenza di un "Piano B", alternativo a quello Ahtisaari, in caso di fallimento di quest'ultimo. Per tale ragione, continuano le trattative tra Stati Uniti e Russia e contemporaneamente all'interno dei 27 stati membri della UE. Albert Rohan, vice di Ahtisaari, ha dichiarato che “non c’è un’alternativa realistica” alla proposta dell’Onu. Un’affermazione in contrasto con le formule pragmatiche esistenti nell’Europa democratica, come le competenze della Scozia nel Regno Unito nell'ambito della devolution, il federalismo dei valloni e delle Fiandre in Belgio o l’ampia autonomia dei Paesi Baschi o della Catalogna in Spagna.

Nei Balcani si rischia ulteriormente di entrare nel circolo vizioso dell’autodeterminazione nazionale, soprattutto per altre zone come la Republika Srpska58 che ha circa lo stesso numero di abitanti della provincia del Kosovo e una composizione etnica simile, con il 90% della popolazione a maggioranza serba.

58 Una delle due entità federali create dagli Accordi di Dayton sulle ceneri di quella che fu la Repubblica Socialista di Bosnia-Erzegovina

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Bisogna ricordare però che l’Unione Europea ha interessi concreti ed importanti a che i Balcani siano stabilizzati: primo, l’instabilità lascerebbe l’Europa costantemente in balia del rischio di una nuova guerra. Secondo, la stabilità contribuirebbe non poco a limitare l’immigrazione proveniente da quei paesi e – nel lungo periodo – renderebbe meno gravoso l’inevitabile impegno economico europeo nell’area. Una volta approvata la nuova risoluzione ONU che sostituirà la 1244, l’UE sarà presente in Kosovo mediante una serie di azioni integrate, ossia: il contributo europeo all'ICO (International Civilian Office); la Missione Pesd (Politica europea di sicurezza e di difesa) nell'ambito dello "European Planning Team"; la Conferenza dei donatori, esercizio congiunto tra Commissione e Banca Mondiale e lo "sviluppo della prospettiva europea" attraverso gli strumenti del processo SAP (Stabilisation and Association Process)59.

Non c’è dunque soluzione accettabile da tutti a questo problema? Pare proprio di no. Eppure l’Europa ha in mano una carta importante, da far valere anche nel confronto con gli alleati americani: il Kosovo sopravvive grazie ai suoi aiuti e alle sue truppe (integrate da altri paesi). Se l’UE minacciasse di ritirare soldi e soldati, forse gli Albano-kosovari eviterebbero una secessione unilaterale. E d’altra parte, nei confronti dei Serbi si può far valere in caso di mancato accordo la cancellazione di ogni prospettiva di integrazione europea ed atlantica. Comunque, qualsiasi “soluzione” non concordata è, per definizione, una non-soluzione.

In questi anni, dunque, il Kosovo è rimasto in una sorta di limbo in cui l’amministrazione internazionale ha dovuto rimandare sine die la questione dello status e ha tentato – almeno nei primi anni e soprattutto almeno nelle dichiarazioni ufficiali – di perseguire il sogno di un Kosovo multietnico e non diviso. Tuttavia, di fatto, tali ottimistici auspici si sono scontrati con la realtà delle enclave dove i Serbi possono vivere solo se protetti dal filo spinato e dalle truppe della KFOR, dei ghetti indegni dove vivono i Rom, gli Ashkalia e gli Egiziani, e con la realtà di Kosovska Mitrovica dove un fiume divide due mentalità e dove l’ONU per prima ha consentito la separazione e stabilito un’amministrazione diversa tra le due parti della città.

La situazione attuale è in parte il frutto di un’altra manovra della NATO usata per bloccare la vendetta albanese; si tratta del principio della difesa collettiva. Il risultato è stato la creazione delle enclave e quindi, di conseguenza, di un Kosovo organizzato in base etnico-comunitaria, in forte contrasto con l’ambizione di stabilire una società multietnica. La comunità internazionale ha chiaramente fallito nel suo impegno di portare sicurezza e sviluppo nella provincia. Un Kosovo multietnico non esiste, se non nelle valutazioni burocratiche della comunità internazionale. Come rapporta Fabrizio

59 Il SAP fa parte delle politiche della cooperazione dell’UE. È basato su aiuti, assistenza tecnica, commerciopreferenziale, dialogo e – alla fine – integrazione nella UE. I risultati da raggiungere sono: sufficienti riforme politiche ed economiche e sufficiente capacità istituzionale e amministrativa nell’ottica dell’avvicinamento alla UE. Gli enti coinvolti sono: Commissione Europea attraverso EuropeAid Cooperation Office e rappresentanze nei vari paesi e European Agency for Reconstruction.

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Bettini dell’Operazione Colomba esiste ancora” il giochino del “mi serve un serbo”, "mi serve un albanese”. Ora la questione della multietnicità è divenuta una parola d'ordine della comunità internazionale e dei finanziatori. Ci sono molte organizzazioni quindi che puntano alla creazione di progetti multietnici e si basano su ONG locali che spesso poi in realtà non esistono. Tutto si esaurisce, proprio per come è stata la cultura internazionale in Kosovo, al collegare due concetti: progetto multietnico = soldi. Non si favorisce però in questo modo un reale incontro tra le comunità”60.

L’UNMIK e l’UNHCR, prevedono di far rientrare gli sfollati all’interno di dieci aree considerate più sicure e meno problematiche, dove per i Serbi sarebbe più facile integrarsi. Si tratta in realtà di zone più facilmente difendibili militarmente, che andrebbero a costituire soltanto nuove enclave. Nello stesso modo autoritario in cui tentava di esportare la democrazia, l’UNMIK cerca di stabilire la multietnicità in base all’appartenenza etnica. La multietnicità si fonda su ciò che separava i cittadini del Kosovo, ovvero sull’identità etnica, e non su ciò che hanno in comune, come i valori universali del bisogno di libertà, dignità, lavoro, educazione, sanità e sicurezza. La condizione necessaria per soddisfare questi bisogni è lo sviluppo. Nel Kosovo attualmente si stanno sviluppando solo tre cose: la povertà, la disoccupazione e l’insoddisfazione.

Ci sono però, paradossalmente, due ambiti in cui si registra un livello notevole di integrazione tra Serbi e Albano-kosovari. Il primo è rappresentato dagli innumerevoli uffici dell’UNMIK e del KFOR, e il secondo è l’espansione vertiginosa della criminalità organizzata e dell’economia informale. L’abbondanza di denaro e l’assenza di preoccupazioni economiche aprono la strada verso la cooperazione tra le due comunità. Un ostacolo all’integrazione non è rappresentato dalle leggi attuali, ma dalla mancanza di sviluppo, di benessere e di progresso. Giustamente, la percezione del progresso materiale rende possibile la pace, la stabilità e la sicurezza.

C’è però la speranza che la struttura del potere stia cambiando e che le nuove generazioni comunicheranno in modo diverso tra di loro. In un sondaggio recente il 71% dei serbi ha dichiarato che “l'ingresso nell'UE rimane una priorità, anche se il Kosovo verrà perduto”61. I decennali contrasti tra i Serbi e il sogno albanese dovranno scomparire dentro un’Europa dai confini fluidi e dalle identità ibride.

CONCLUSIONE

60 Intervista per il sito www.osservatoriosuibalcani.org 61 Sondaggio pubblicato sul sito www.SETimes.com

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Ritorno al futuro

Ancora oggi, alla fine del 2007, il regime di amministrazione provvisoria del Kosovo non è concluso, mentre il bilancio della missione ONU è, secondo molti esperti internazionali, decisamente negativo. La provincia è ben lontana dal raggiungimento di standard economici e politici che garantiscano un livello minimo di democrazia e di capacità di governance appropriate.

Uno degli obiettivi fissati dall’UNMIK, il rientro degli sfollati, e ritenuto un presupposto essenziale per la pacificazione anche dalla Risoluzione 1244 del Consiglio Di Sicurezza, non ha determinato, a distanza di otto anni, significativi miglioramenti. Chi riesce a rientrare, si trova ancora di fronte a problemi essenziali quali l'alloggio, il lavoro, il diritto alla pensione, la previdenza sociale, l'assistenza sanitaria e così via.

Rimane aperta, sopratutto per la comunità serba del Kosovo, la questione spinosa delle proprietà private (abitazioni e terreni) occupate illegalmente dopo la fine del conflitto, e la cui soluzione avrà un peso decisivo sulla decisione di tornare a vivere nella regione. I Serbi del Kosovo non si sentono abbastanza protetti, e ancora non osano tornare ai propri appartamenti, soprattutto in città. Oggi a Priština vivono meno di 100 Serbi, e in generale i rientri nelle aree urbane si possono contare sulla punta delle dita. Chi è tornato a Klina, alcuni anni fa, si è trovato di fronte a grandi difficoltà: ci sono state aggressioni, ed uno dei primi Serbi tornato in città è stato ucciso sulla soglia di casa. Le condizioni per il rientro degli sfollati non sono, sotto ogni punto di vista, sufficientemente sicure. La questione poi del rientro degli sfollati non albanesi è, allo stato attuale delle cose, molto discusso, molto più che nel periodo successivo alla guerra, quando parlare di rientri era un argomento considerato tabù e pericoloso, a causa della possibile reazione della comunità albanese.

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Attualmente, circa il 90% degli sfollati si trova sul territorio serbo62, ma la loro libertà di movimento, uno dei diritti umani fondamentali, è violata de facto dall’obbligo di registrarsi all’arrivo in territorio Serbo, e di comunicare alle autorità ogni movimento. In particolare, agli IDPs provenienti dal Kosovo è richiesto di registrarsi, sia presso le autorità di polizia, che rilasciano un permesso di residenza, sia presso la Commissione per i rifugiati della Repubblica Serba, per essere identificati in quanto sfollati e ottenere un documento che ne riconosca la condizione. Questa pratica deriva da un decreto del governo Milošević, vigente tutt’oggi, che vieta ai Serbi kosovari di registrarsi al di fuori della provincia per mantenerne il controllo. L’ostacolo burocratico è però superabile per chi decide di vendere le proprietà in Kosovo e di acquistare una casa in Serbia. Nel 2000 la percentuale dei Serbi kosovari con una casa in costruzione in Serbia ammontava al 22%. Molti, infatti, sono stati i nuclei famigliari che hanno investito nella costruzione di case al di fuori del Kosovo, spinti dalla situazione politica della regione.

La situazione politica attuale è cristallizzata su posizioni incompatibili: gli Albano-kosovari non sembrano disposti ad accettare alcuna soluzione che sia meno dell’indipendenza; i Serbi e Belgrado si oppongono fermamente ad un Kosovo indipendente nei confini attuali. Tuttavia, nessuno – neanche il più radicale dei nazionalisti serbi - può oggettivamente sostenere che il Kosovo possa essere reintegrato con successo nella struttura costituzionale serba. D’altra parte, è difficile immaginare le minoranze non albanesi ben integrate in un Kosovo subito indipendente.

Lo status finale del Kosovo porterà con sé la sistemazione definitiva di 220mila persone che hanno abbandonato loro case. Se la provincia meridionale serba otterrà l’indipendenza essi saranno classificati sotto la definizione di rifugiati, e quindi considerati soggetti alla Convenzione di Ginevra del 1951. Anche se questo può sembrare un passo in avanti, bisogna ricordare che le modalità di aiuto ai rifugiati è normalmente di tipo emergenziale, ma che le crisi di questo genere sono spesso di lunga durata, e che quindi non ci si può limitare ai programmi di base.

Probabilmente si arriverà, in tempi ancora tutti da definire, ad una nuova risoluzione ONU che sostituisca la 1244, approvata all'indomani della fine dei bombardamenti NATO sulla Serbia. Questa dovrebbe contribuire a cambiare radicalmente il panorama kosovaro. Oggi la comunità internazionale guidata dall’UE si prepara seriamente, a differenza del 1999, a gestire una possibile crisi provocata dall’indipendenza kosovara, che come conseguenza potrebbe creare un’ulteriore ondata di esuli. Il cosiddetto Contingency planning, elaborato in questa direzione, avrebbe la capacità di sistemare circa 60mila unità, dato che si prevede un esodo di massa dei membri della minoranza serba una volta proclamata l’indipendenza. Il piano d’emergenza dovrebbe rispondere velocemente alle esigenze di possibili movimenti di

62 Il 10% rimane sul territorio del Kosovo

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popolazione, in più dovrebbe assicurare la sostenibilità dell’integrazione locale per le persone che non possono o non vogliono ritornare sul Kosovo.

Se invece prendiamo in considerazione la posizione giuridica degli sfollati nell’ambito del diritto internazionale, la situazione non è chiara. Emergono due proposte politico-giuridiche per tutelare e assistere gli sfollati: la prima consisterebbe nell’effettuare una sintesi legale tra essi e i rifugiati, la seconda esprime la volontà di mantenere un regime legale separato tra le due figure, delineando lo status giuridico degli IDPs. La prima ipotesi propone l’eliminazione della clausola del “trovarsi fuori dal paese” nella definizione di rifugiato, unificando così le due nozioni. La seconda invece sottolinea la differenza sostanziale che caratterizza gli sfollati. I problemi principali da risolvere per gli IDPs sono, per quanto simili a quelli affrontati dai rifugiati, diversi, poichè non attraversare la frontiera già li sottopone a difficoltà e al rischio di violenze, pur rimanendo sotto la giurisdizione del loro stato. In sostanza vi è un vuoto normativo o meglio una distanza sostanziale tra la definizione legale e la realtà di chi ha bisogno di essere tutelato e assistito. I rischi portati dalla creazione di uno status giuridico apposito per gli sfollati potrebbero determinare un indebolimento, o addirittura la fine, del diritto di asilo. Ciò limiterebbe la possibilità per i rifugiati di essere ammessi alle procedure di asilo, e la chiusura delle frontiere alle migrazioni forzate sarebbe totale, avendo un sostituto dello status di rifugiato.

La già difficile distinzione tra rifugiati e sfollati, sta raggiungendo in Serbia un livello paradossale. Se non si elabora meglio la legislazione “post-status” nel campo di residenza e nazionalità, alcuni segmenti della popolazione rischiano a diventare apolidi. Questa constatazione vale in particolare per le comunità dei Rom, Ashkalia ed Egiziani che, dovuta la loro marginalizzazione sociale, non potevano o non volevano registrare la loro residenza sul Kosovo.

Occorre un’idea nuova, ragionevole e pratica, molto piu’ che le guerre fredde e calde (e, probabilmente, i morti) che altrimenti, quasi ineluttabilmente, ci attendono. E la risposta può essere trovata soltanto in seno a all’interno della società civile, tramite il suo sviluppo e il suo progresso, per fare finalmente dei Balcani una regione moderna, “normale” e stabile, finalmente riaccolta dalla sua madre naturale: l’Europa.

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