KASPAROV PUTIN - Left...Federica Sciarelli racconta quattro delitti efferati, che ha seguito per Chi...

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KASPAROV PUTIN «È un dittatore. Chiamatelo così». Il celebre scacchista dissidente lancia il suo j’accuse contro il regime di Mosca e la rimozione codarda dell’Occidente che finge di non vedere 9 7 7 1 5 9 4 1 2 3 0 0 0 6 0 0 1 2 19 MARZO 2016 NUMERO 12 | SETTIMANALE 2,50

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KASPAROV PUTIN«È un dittatore. Chiamatelo così». Il celebre scacchista

dissidente lancia il suo j’accuse contro il regime di Mosca e la rimozione codarda dell’Occidente che finge di non vedere

9 7 7 1 5 9 4 1 2 3 0 0 0

6 0 0 1 2

19 MARZO 2016NUMERO 12 | SETTIMANALE

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ONDA PAZZAdi MAURO BIANI

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SOMMARIO DEL NUMERO 12 - 19 MARZO 2016

03 ONDA PAZZA di Mauro Biani05 EDITORIALE di Corradino Mineo06 LETTERE07 PICCOLE RIVOLUZIONI di Paolo Cacciari07 IL NUMERO07 LA DATA

07 UP&DOWN08 FOTONOTIZIE 12 PARERI di Michele Prospero36 PARERI di Lorenzo Marsili60 LIBRI di Filippo La Porta60 TEATRO di Massimo Marino

61 ARTE di Simona Maggiorelli62 BUONVIVERE di Francesco Maria Borrelli62 TELEDICO di Giorgia Furlan63 APPUNTAMENTI 64 TRASFORMAZIONE di Massimo Fagioli66 IN FONDO A SINISTRA di Fabio Magnasciutti

PRIMO PIANO«La Russia non è Putin»,parla Garry Kasparovdi Michela AG Iaccarino 12Lo scacchista perfettodi Daniela Zaccaria 17Il mondo non è bianco e nerodi Michela AG Iaccarino 20

SOCIETÀUniversità, la nuova questione meridionaledi Donatella Coccoli 24L’antimafia di Pifdi Corradino Mineo 28Non solo Foffo e Prato,i killer della porta accantodi Federica Sciarelli 30Quei torturatori argentiniche vivono tra noidi Federico Tulli 34Inversione a U sull’acqua pubblicadi Raffaele Lupoli 36

ESTERIIl Jobs act di Hollandedi Eric Jozsef 38Cosa imparare da Ada Colaudi Giacomo Russo Spena 41Idomeni ai confini dell’umanitàdi Stefano Bertolino 44Libano verso la guerra civiledi Alberto Negri 48

CULTURA E SCIENZAEffetto metropolidi Filippo La Porta 50Jonathan Coe: British psycho di Simona Maggiorelli 54La partita tra uomo e computerdi Pietro Greco 56Il punk comincia a trent’annidi Tiziana Barillà 58

Putin dà scacco in Medio Oriente annunciando il ritiro delle sue truppe dalla Siria dopo aver rimesso in sella Assad e Left intervista Garry Kasparov, che vorrebbe dar matto al dittatore del Kremlino, capo delle forze del male e senza cavalieri Jedi dell’Occidente che lo combattano. Michela A.G. Iaccarino ci richiama a una lettura più fattuale e della crisi Ucraina e del sostegno a Putin di parte della pubblica opinione russa. Con Donatella Coccoli e Raffa-ele Lupoli parliamo di università e di acqua non più tanto pubblica: riforme o contro riforme? Federica Sciarelli racconta quattro delitti efferati, che ha seguito per Chi l’ha visto, e che non sono poi tanto diversi da quello efferato di Foffo e Prato, che ci sta trasforman-do in guardoni, tutti a bere dettagli su tacchi a spillo, fiumi di cocaina e pre-sunti trans, mentre qualcuno giustifica l’ingiustificabile e qualcun altro ripesca la pena di morte. Pif, Pierfrancesco Diliberto, autore di La mafia ammaz-za solo d’estate, oggi ricorda a Casal di Principe Don Peppe Diana. Con Left parla di mafiosi che sembrano gentili e dell’antimafia che litiga troppo. Come è bella la città nel romanzo d’autore, la città testimone del passato e fabbrica del futuro; secondo Filippo La Porta. Dalla Spagna, mentre Podemos resiste, e perde pezzi, alla proposta socialista di appoggiare un governo insieme alla destra di Ciudadanos, Giacomo Russo Spena ci racconta il municipalismo di Ada Colau, sindaco di Barcellona. Il Libano rischia di scivolare verso la guerra civile, secondo Alberto Negri. Un servizio fotografico di Stefano Bertolino racconta Idomeni al confine dell’umanità.

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Rispondendo a una domanda sul riscalda-mento climatico, Bernie Sanders ha detto che un uomo solo non può far tutto, nemmeno dalla Casa Bianca e che è «una rivoluzione po-litica». Con un editoriale, il New York Times ha consigliato ai giovani supporter di Sanders di puntare piuttosto su «una lenta evoluzione», poiché il loro candidato, in quanto “outsider”, non riuscirebbe - semmai fosse eletto - a tro-vare nel Congresso i consensi «per trasforma-re in legge i suoi ideali liberal per l’assistenza sanitaria, l’istruzione universitaria, la lotta alla povertà e il cambiamento climatico».

Noi “di sinistra” siamo abituati ad ascoltare le-zioni di realismo. Tuttavia, con rispetto, vorrei chiedere ai realisti perché mai il cavallo non beva? Perché, nonostante la Bce stia compran-do titoli del debito a un ritmo di 80 miliardi al mese e abbia portato sotto zero sia i tassi sui depositi per le banche sia quelli del denaro che presta alla banche, perché la domanda interna non cresca e il rischio deflazione re-sti intero? Sul Corriere del 14 marzo Roberto Sommella in un editoriale intitolato “Il Capi-talismo della rete e il socialismo delle cose” si è chiesto se «dietro la deflazione non ci sia anche la sharing economy». La digitalizzazio-ne di molti processi industriali e commerciali che sta cambiando il modo di consumare, che ci orienta verso beni comuni e servizi da con-dividere, anziché a scartare e sostituire beni di consumo durevoli.

Vorrei chiedere se le deludenti ricadute sull’oc-cupazione e sulla crescita dei generosi incenti-vi che i governi di Valls e Renzi distribuiscono alle imprese, non rimandino a quella quarta rivoluzione industriale che ci sta investendo. Senza forti investimenti in ricerca e sviluppo, senza scelte coraggiose di politica industriale forse non usciremo dalla Grande recessione e

finiremo con l’importare, magari dalla Cina, prodotti ad alta tecnologia, diventando tutti albergatori, ristoratori, guide turistiche e pro-duttori agricoli a chilometro zero. E non è nep-pure il peggio che possa accaderci.Davanti a una rivoluzione scientifica, indu-striale, ecologica e del modello dei consumi, davanti all’esplosione di guerre regionali cova-te a lungo dall’imperialismo e alle grandi mi-grazioni che ne derivano, i realisti rischiano di perdere la bussola. È già successo un secolo fa, quando le socialdemocrazie europee divenne-ro patriottarde e finirono in guerra. Forse sta succedendo di nuovo con i socialisti che, mi-nacciati dai populisti, si rintanano nei palaz-zi. Hollande impone un jobs act alla francese sperando nel soccorso del Medef, la loro Con-findustria, Hillary Clinton abbraccia George W Bush, uniti contro il barbaro Trump.

Conseguenza di questo rintanarsi nel palazzo, del chiudersi nel professionismo della politica e nella logica d’apparato sono la semplifica-zione e lo svuotamento della democrazia. Lo vediamo in Italia con amministrative e prima-rie: poche idee, candidati modesti, calo della partecipazione. Mi chiedo se chi ha criticato Tsipras, per aver provocato e vinto tre voti in un anno, non senta intorno a sé il freddo che si respira a Roma e Napoli, non si vergogni del tentativo di far fallire il referendum contro le trivelle. Già Craxi invitò tutti ad andare al mare e non gli portò fortuna.

D’altra parte chiunque voglia sottrarsi a que-sta deriva non dovrebbe accontentarsi di uno spazio residuale tra renziani e grillini, nè cer-care, come dice di voler fare Cofferati, «un fe-deratore e un minimo comun denomitarore». Alla sinistra serve il multiplo di un dibattito pubblico, senza autocensure. Non nasce nulla di nuovo se non nel fuoco della passione.

REALISTI SENZA BUSSOLA

EDITORIALEdi Corradino Mineo

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Scandalo primarie. Sono gli stessi dirigenti democratici che non vogliono regole rigide

Caro direttore, la corruzione è un pro-blema che affligge tutto il nostro Paese; ogni giorno la cronaca quotidiana ci offre degli esempi di ciò. Ma lo scandalo delle primarie del centro-sinistra a Napoli ha fatto emergere clamorosamente un problema che tarda a diventare senso comune nella classe dirigente del nostro Paese: la necessità di stabilire regole ri-gide (leggi, divieti, regolamenti, ecc.) per far sì che esse vengano rispettate, al Nord come al Sud. La realtà è che se al Nord è forse ancora possibile non essere par-ticolarmente rigidi, al Sud questo non è possibile; ma essendo il nostro un unico Paese (nonostante le grosse differenzia-zioni regionali esistenti) le regole vanno emanate tenendo presente unitariamen-te tutto il territorio nazionale. Rimanen-do sul terreno delle primarie del centro-sinistra (ma è evidente che il discorso è di tipo generale), se a Milano esse possono funzionare abbastanza bene (con pochi cinesi ai seggi) al Sud ciò è impossibile; è troppo radicata la tendenza dei politici di turno a fare i furbi per avere il proprio tornaconto. Se si volessero avere, quindi, delle primarie al di sopra di ogni sospet-to ci sarebbe bisogno di regole certe e impossibili da aggirare; alle primarie dovrebbero partecipare solo gli iscritti al Pd o agli altri partiti di centro-sinistra che partecipano alla competizione. Ma dovrebbero essere iscritti di vecchia data per evitare l’accaparramento delle tes-sere nell’imminenza della competizione elettorale. Sembra assurdo che i dirigenti nazionali renziani del Pd insistano a non rendersi conto di questa elementare evidenza. Ma forse la verità è un’altra; essi non vogliono rendersi conto perché se ci fossero regole rigide avrebbero poche possibilità di manovra. È evidente che avere in mano l’apparato del partito costituisce un vantaggio considerevole rispetto ai propri avversari interni.

Franco Pelella

In Toscana i vertici del Pd non gradiscono che Arci e Anpisiano nel Comitato del no

In Toscana, importanti esponenti del Pd vogliono tappare la bocca all’Anpi e all’Arci. Apprendiamo stupefatti l’ap-pello di dirigenti toscani del partito di Renzi, come Parrini e Gazzetti, a non trasformare tali associazioni in soggetti attivi dei comitati del no, comitati nati per il referendum sulle riforme costitu-zionali, nascondendosi dietro il paraven-to dello spirito unitario.Mentre in passato i partiti della sinistra raccoglievano le adesioni delle realtà partecipate sui territori, adesso avviene il contrario.Nella concezione renziana si prevede che l’Anpi e l’Arci possano esprimere le loro idee senza però schierarsi aperta-mente per eventuali consultazioni.Il Pd non ha digerito che i vertici nazio-nali di tali organizzazioni abbiano aderi-to ai Comitati del no in vista del referen-dum costituzionale. Nella concezione del Partito della Nazione non è previsto?Preoccupa tale involuzione di rappre-sentanti “democratici” che apertamente dichiarano che si possa essere in disac-cordo con le scelte del governo ma non farne una battaglia politica.In Versilia saremo in prima fila per non permettere tali forzature. Siamo convinti che sia l’Arci che l’Anpi, nella loro sa-crosanta autonomia, sapranno svilup-pare sui territori dibattiti e momenti di confronto. Anche perché come dimostra il silenzio dell’informazione sul referen-dum di aprile per le trivelle, la voglia di permettere ai cittadini di conoscere per poi decidere è pari a zero.

Mario Navari Associazione Sinistra Lavoro Versilia

L’importante è non farsi prendere dalla sindrome di Stoccolma. Renzi è Renzi, ma

non è tutta la sinistra. O no?c.m.

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QUESTA TESTATA NON FRUISCEDI CONTRIBUTI STATALI

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CHIUSO IN REDAZIONEIL 15 MARZO 2016 ALLE ORE 21.00

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Il presidente del Parlamento eu-ropeo Martin Schulz ha espulso dall’aula, escludendolo dalla sessione di voto, l’eurodeputato greco Eleftherios Synadinos, esponente del partito neonazista Alba Dorata, per aver pronun-ciato frasi razziste contro i turchi. «Ricorro a una misura insolita che ritengo inevitabile per la di-gnità del nostro Parlamento» ha detto Schulz citando la frase in-criminata: «Come hanno scritto gli scienziati dell’impero osma-no, i turchi sono barbari, che disprezzano Dio. Sono sporchi. Cacciano, però quando devono combattere il nemico scappano. L’unica strada efficace per gestire i turchi è il pugno e la decisione».

Frasi razziste al Parlamento UeFa diventare mezzi di dispera-zione in mezzi di vita: è quello che ha fatto un gruppo di vo-lontarie in Grecia, trasforman-do pezzi di gommoni e giub-botti di salvataggio scartati in ampi e comodi zaini imper-meabili per i rifugiati. Il pro-getto “It works” è di uno stu-dio tessile olandese, che con workshop sul posto, nel campo profughi di Moria, ha spiegato come realizzarli. L’idea è venu-ta quando una di loro, Floor Nagler, ha visto i molti scarti abbandonati sulle spiagge di Lesbo. Sull’isola sono stimati 30mila metri cubi di plastica. Costo dell’operazione: meno di 3 dollari a borsa.

Zaini per i rifugiati

UP DOWN

Il 21 e 22 marzo, Barack Oba-ma, accompagnato dalla first lady Michelle, sarà in viaggio a Cuba. Sarà il primo Presidente statunitense a recarsi sull’Iso-la dopo ben 80 anni. L’ultimo, era stato Coolidge nel 1928. «Ci sono ancora differenze fra noi e il governo cubano, che solle-verò personamente. L’America - ha twittato Obama - si batte-rà sempre per i diritti umani in tutto il mondo». Un viaggio storico, frutto del disgelo ini-ziato due anni fa, tra l’inqui-lino della Casa Bianca e Raul Castro. In seguito alla riapertu-ra delle rispettive ambasciate a luglio, la bandiera a stelle e stri-sce sventola già all’Avana.

Tanto è costato il banchetto tenuto in onore del premier Matteo Renzi all’interno di una galleria, in piena autostrada, in Calabria. La Salerno-Reggio, finora, l’avevamo vista in tanti modi, ma non ancora allestita con divani in vimini, tavolini e il ben di dio sui vassoi. L’occa-sione è stata l’inaugurazione della galleria di Mormanno. Chi ha pagato? Mistero. Qualcuno dice l’Anas, ma l’Anas dice che il buffet è stato un’iniziativa dell’Italsarc (consorzio di im-prese che fa da general contrac-tor dell’opera). E precisa che Renzi non ne ha preso parte. “Chi non accetta non merita”, recita un proverbio calabrese.

La comunità aperta degli operatori dello spettacolo e della cultura che a napoli gestisce in regime di autogoverno l’ex Asilo Filangieri, polo culturale e centro di produzione artistica, non poteva festeggiare meglio i suoi primi quat-tro anni di attività (www.exasilofilangieri.it). Dopo lunghi mesi di serrato confronto, la giunta del Comune di Napo-li ha approvato (delibera n.893 del 27/12/15) un inedito strumento amministrativo per la gestione partecipata e condivisa del complesso immobiliare che nella sua nuova vita ha ospitato migliaia tra eventi e attività permanenti, coinvolgendo decine di migliaia di cittadini partenopei. In concreto, l’amministrazione comunale ha accettato e fatto proprie le norme di autoregolamentazione elabora-te dal collettivo dei lavoratori e delle lavoratrici dell’arte e della cultura contenute nella “Dichiarazione di uso civico e collettivo urbano” allegata alla delibera. L’immobile era già stato incluso tra i beni del patrimonio comunale abban-donati o parzialmente utilizzati e “percepiti dalla comu-nità come beni comuni suscettibili di fruizione collettiva” (delibera di Consiglio n.7 del 9 marzo del 2015). Ora l’Asilo ha visto riconosciuti i suoi sperimentati organi di autoge-stione: l’assemblea di indirizzo, i gruppi di lavoro tematici e un nuovo Comitato di garanzia composto da personalità indicate anche dal Comune. L’assemblea è libera e aperta a tutte e a tutte, non richiede registrazioni particolari, se non la partecipazione assidua ad almeno quattro riunioni nell’arco di tre mesi e la sottoscrizione di un impegno di “corresponsabilità”. Il tutto autocertificato nel “Quaderno de l’Asilo”. L’assemblea, così determinata, costituisce la co-munità democratica degli “abitanti” dell’Asilo. Oltre a loro vi sono gli “ospiti” (i vari gruppi culturali e le compagnie che partecipano con le loro attività alla programmazio-ne de l’Asilo) e i “fruitori” (i frequentatori e gli spettatori). Nell’Asilo - lo ricordiamo - sono stati creati un teatro con laboratori di scenografia, studi di montaggio e suono, una biblioteca, sale espositive per mostre e conferenze, spazi di coworking e incubatori di progetti artistici, oltre a un orto urbano nel giardino, un campetto di calcio e un mercatino settimanale biologico. La rivoluzionaria delibera è il frutto di una scrittura collettiva del “tavolo autogoverno” in cui confluiscono giovani giuristi, ricercatori universitari, filo-sofi e artisti. Un progetto per dare una nuova definizione e un fondamento costituzionale alla categoria dei beni co-muni: l’art. 42 che riconosce la proprietà “solo se ha finalità sociali”; l’art. 43 che prevede che le “comunità di lavoratori o di utenti” possono gestire servizi pubblici che abbiano un carattere di interesse generale; l’art. 118 riformulato che inserisce il principio della “sussidiarietà orizzontale”. Ma l’Asilo è solo l’apripista di un percorso che intende prose-guire e che vale la pena seguire da vicino.

21MARZO

2016

LA DATA

120mila

IL NUMEROPICCOLE RIVOLUZIONI di PAOLO CACCIARI

PER L’EX ASILO UNA DELIBERA SCRITTA CON LA CITTÀ

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Foto di Sedat Suna, Epa Ansa

Ankara, 13 marzo. Un attenta-to kamikaze uccide 37 persone e ne ferisce 125. Questa donna è parente di una delle vittime, una dei tanti che si sono ra-dunati davanti all’Istituto di medicina legale della capitale turca. L’autobomba è esplosa vicino a una stazione degli au-tobus. L’attentato non è stato rivendicato, ma Ankara punta il dito sul Pkk, il Partito curdo del lavoratori, fuori legge in Turchia, che combatte contro Daesh in Iraq. Una donna, che in passato avrebbe avuto lega-mi con il Pkk, sarebbe stata una dei due kamikaze. Identificata grazie alle impronte digitali.Il Pkk si è reso responsabile di attentati terroristici ma mai, finora, contro obiettivi civili. E la strage di Ankara ricorda tan-te altre, identiche, del terrori-smo islamico. Ma il governo sembra non avere dubbi. Il Pkk starebbe sfuggendo al control-lo del suo leader storico Ab-dullah Öcalan, recluso da anni in un carcere turco di massima sicurezza a Imrali. Da un anno il governo del presidente Er-dogan ha rotto la tregua con il Pkk e ha preso a bombardare villaggi curdi oltre la frontiera con Siria e Iraq e a retrellare le città curdo-turche. Se davve-ro l’atroce attentato di Anka-ra fosse responsabilità di una scheggia del Pkk, il governo lo userebbe per regolare i conti non solo con l’indeponden-tismo curdo ma anche con il partito democratico curdo di-retto da Demirtas. Ai media è stata imposta la censura.

TURCHIALACRIME ALLARICERCA DI VERITÀ

FOTO NOTIZIA

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a bocciatura del secondo ricorso di Bassolino conferma la presenza di una questione morale nel Pd. Che senso della legalità ha una formazio-

ne che permette di annusare l’odore dei soldi davanti ai seggi? Quali valori ideali coltiva un partito che vede personaggi legati alla destra di Cosentino condividere l’investitura del candi-dato sindaco? Sono scene di ordinaria banali-tà del male, insomma la cronaca di una deriva etico-politica.Ma cos’è il Pd oggi? Lo chiamano il Partito del-la Nazione. E il suo quartier generale è in uno spicchio di terra tra Rignano, Campi Bisenzio e Laterina. Qui sono nate fedeltà, complicità, soccorsi trasversali o “strani amori” che hanno appaltato il potere a un comitato d’affari del-la piccola borghesia toscana, abile a muoversi tra banche, amministrazioni e potenze arcane. Senza bisogno di abbandonare antichi simboli (anzi decide di entrare nel socialismo europeo, rilancia le feste dell’Unità), Renzi ne svuota del tutto il significato mobilitante.La sintesi promessa dei grandi riformismi dell’Italia repubblicana si è così convertita in una riedizione dell’antico trasformismo. Niente più divisione tra destra e sinistra. Un indistin-to calderone parlamentare attira transfughi di ogni formazione a sostegno di uno scaltro capo populista, a suo agio più dalla D’Urso che tra gli statisti. Accarezzando pulsioni autoritarie in materia costituzionale, il Pd porta a compi-mento le premesse illiberali di un non-partito che riconosce la propria identità nella pura contendibilità della leadership nei tornei orga-nizzati attorno alla folla dei gazebo.Cadute nell’oblio le spinte ideali che motivano la militanza in organizzazioni collettive, i terri-tori sono preda di cieche lotte per la spartizione delle spoglie. Gli uomini di Cuffaro gestiscono il tesseramento in Sicilia. In Campania si avverte la presenza di una camorra politico-imprendi-trice. A Milano dominano l’agenda le categorie

impolitiche di un manager. Non soltanto nel Pd non ci sono regole efficaci per dirimere contro-versie interne, ma mancano anticorpi politici per reagire a fenomeni di decadimento etico.Cosa è un partito in cui cumuli di schede bianche e nulle sono stati inventati per gonfiare il nume-ro dei partecipanti alle primarie? Se i gazebo do-vevano tracciare la discontinuità rispetto a ma-fia capitale, il loro fallimento è palese. Gli stessi padroni delle preferenze che partecipavano alle allegre cene della consociazione alla romanesca (Alemanno, Buzzi, Casamonica), sono diventati ora i grandi elettori di Giachetti. I responsabili della degenerazione affaristica della politica ca-pitolina se non sono finiti nei guai con la giusti-zia siedono (loro o i loro parenti) in parlamento, ricoprono incarichi nei piani alti del Pd.Un partito che im-pone le dimissioni in blocco dei propri con-siglieri attraverso un ordine impartito da Palazzo Chigi, e quin-di esige una prova di obbedienza siglata dinanzi al notaio, non ha la credibilità per guidare un rinnovamen-to della politica. Il ceto amministrativo locale non scorge nel centro del Nazareno una fonte di autorevolezza. Tra i misteri criminogeni e le implicazioni politiche connesse al fallimento di banca Etruria, è inevitabile una caduta di ethos della nuova leadership. Il ruolo di Carrai e di Serra nella costruzione della potenza materia-le del giglio magico, i segreti che covano dietro ascese, carriere e selezione amicale delle classi di governo mostrano l’impotenza delle angeli-che meraviglie della minoranza dem. A partiti malati, primarie malate con sentenze annun-ciate sui vani ricorsi.

*filosofo e saggista, l’ultimo libro è La scienza politica di Gramsci, Bordeaux Edizioni

Un partito malato non può che fare primarie malate

IL NUOVISMO REALIZZATOdi Michele Prospero*

PARERI

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Nel Pd mancano le regole per dirimere le controversie interne, e mancano gli anticorpi per reagire ai fenomeni di decadimento etico. Come le schede bianche usate per gonfiare le primarie

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a crescita dell’estrema destra alle ultime elezioni regionali tedesche pone la Ger-mania in una situazione già vissuta da Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. Come

la crisi economica e finanziaria per i Paesi del Sud, oggi è la Germania a patire gli effetti dell’incapaci-tà di questa Europa di affrontare con umanità ed efficacia la cosiddetta crisi dei rifugiati. Cosiddet-ta, perché non esiste un problema oggettivo, per un continente ricco e popolato da cinquecento milioni di persone, nel dare accoglienza degna a qualche milione di individui in fuga dalla guerra. Così come non avrebbe dovuto esistere problema oggettivo, per il più grande mercato mondiale, nell’affrontare una crisi del debito senza imporre povertà e bancarotta ai suoi Stati più deboli. È concreto invece il rischio di essere divenuti ora-mai incapaci di rispondere alle grandi sfide del ventunesimo secolo. Sfide - le migrazioni, l’ine-guaglianza economica, i cambiamenti climatici - troppo grandi per i singoli Stati, ma a cui un’Eu-ropa paralizzata dai veti incrociati e delegittimata da una tragica mancanza di democrazia è sempre meno capace di rispondere. E questo è il vicolo cieco in cui ci troviamo oggi, con la politica na-zionale ridotta a piccolo cabotaggio e la politica europea ridotta a rissa fra capetti di Stato. Affron-tiamo le ondate di una Storia tornata a battere la tempesta in barchette di carta pilotate da timo-nieri sbronzi. Ma come i marinai greci sappiamo che tristezza e rassegnazione sono i primi nemici da combattere. E che bisogna recuperare l’oriz-zonte per uscire dalla burrasca. L’orizzonte è ricostruire l’Europa come grande spazio di democrazia, capace di farsi luogo di lot-ta fra visioni politiche alternative, di affrontare di petto, sulla base di una rinnovata legittimità, le sfide dei tempi straordinari che stiamo attraver-sando. Da anni i movimenti più vari - da Blockupy ai federalisti di ogni fede - lottano contro l’Europa dello status quo e per una democrazia transna-zionale. Oggi la proposta del Manifesto DiEM25 da parte di Yanis Varoufakis porta una nuova e

necessaria spinta verso questa semplice quanto folle ambizione: democratizzare l’Europa. E lo fa chiedendo a ciascuno di alzare il livello del gioco.Questi anni di crisi ci hanno mostrato tutta l’in-capacità della sinistra di organizzarsi a livello transnazionale. I partiti nazionali si sono nascosti dietro sigle impronunciabili, - chi si ricorda cosa significa Gue/Ngl, l’acronimo del gruppo della si-nistra al Parlamento europeo? - accrocchi in cui ciascun partito continua a muoversi obbedendo a logiche esclusivamente nazionali e in cui, tutti insieme, confermano la loro tragica impotenza. E in un simile vicolo cieco - ma qui si aprirebbe un altro capitolo - si trova il sindacato europeo.È ora di voltare pagina. E di iniziare a immaginare una forza politica multilivello capace di pensare e agire, organizzarsi e mobilitare su scala continentale.L’Italia è stata, storica-mente, fra i laboratori politici più fertili d’Eu-ropa. Ma è oggi anche il Paese meno presente nei processi di costru-zione e innovazione di una sinistra europea all’al-tezza di questa sfida. È ora che questo cambi. Se sul palco, al lancio di DiEM25 a Berlino il 9 feb-braio scorso, non erano presenti italiani, ora, su invito di European Alternatives, è Roma la prima tappa del nuovo movimento. Che sia solo l’inizio.

*fondatore e presidente di European Alternatives

A Roma la prima tappa del movimento di Varoufakis

POLITICAdi Lorenzo Marsili*

L

La politica nazionale ridotta a piccolo cabotaggio, la politica europea a una rissa tra capetti di Stato. Affrontiamo la Storia in tempesta in barchette di carta. È ora di voltare pagina

L’APPUNTAMENTO

Democrazia in EuropaRoma, 23 marzo dalle ore 10 all’Acquario Romano in piazza Manfredo Fanti 47. Una giornata con Yanis Varoufakis, Marisa Matias, Julian Assange e tanti altri per presentare DiEM25 in Italia e lanciare un progetto di trasformazione dell’Europa.www.democraziaineuropa.eu

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n questi giorni il più grande campione di scacchi del mondo Gary Kasparov è in Italia per promuovere il suo libro, L’inverno sta ar-

rivando, come la celebre frase della serie Games of Thrones. Non è una coincidenza, è una scelta: l’inverno è Putin e, secondo Kasparov, sta arrivan-do anche da noi. Accanto a qualche frase abbiamo segnato a matita un punto interrogativo. Accanto ad altre degli esclamativi. Arrivati alla fine del li-bro, gli abbiamo fatto qualche domanda.

Pensavo che il russo fosse la lingua più adeguata per porle le domande sul “dittatore russo” a cui ha dedicato il suo ultimo libro. Mi sbagliavo. Ho cambiato idea a a pagina 381. Comincio dalla fine. Lei ha scritto: «la Russia non è Putin». Allo-ra chi è e cos’è la Russia oggi?Scrivo che la Russia non è Putin perché è giusto dire che i leader delle nazioni democratiche rap-presentano quelle nazioni, o almeno la loro mag-gioranza, ma in una dittatura no. Le persone sono in trappola, il Paese intero diventa una prigione. Non importa quanto Putin tenti di modellare l’immagine della Russia con la sua propaganda. Tutto cambierà all’improvviso, appena se ne an-drà, proprio come in ogni altra dittatura. I Russi devono avere la possibilità di essere liberi e di mo-strare di cosa sono capaci. Hanno dato tantissimo al resto del mondo, in ogni campo, dalla cultura alla scienza. E torneranno a fare lo stesso appe-na la Russia diventerà di nuovo parte del mondo libero. Oggi, sotto la dittatura di Putin, quelli che possono scappare, scappano. E questa fuga di cervelli minerà non solo la ripresa della Russia

post Putin, ma anche il contributo che la Russia potrà offrire al mondo per generazioni.Lei scrive nel libro che il «muro di Berlino era l’incarnazione della divisione tra luce e tene-bra». L’Europa fa parte dell’Occidente che lei chiama Mondo libero. Il più grande fenomeno che colpisce oggi l’Unione Europea è la migra-zione di rifugiati in arrivo dal Medio Oriente e dall’Africa. L’Europa sta diventando un club pri-vato di Patrie di muri dietro i quali ognuno di-fende se stesso e la sua razza. I primi a non accet-tare i rifugiati oggi sono proprio quei Paesi che in epoca sovietica erano dietro il Muro, dietro la Cortina di ferro. Constatarlo è stato deludente, specialmente che si parli di etnie, proprio lì dove l’Europa ha un passato così cupo. Ma ci sono delle eccezioni, dobbiamo prestare attenzione a quei luoghi che accettano i migranti per mostrare al resto che hanno davvero poco di cui aver paura. Ma non è la stessa cosa: un muro che chiude fuori le perso-ne non è un muro che le tiene dentro prigioniere! Un hotel con un muro di sicurezza non è una pri-gione! Le nazioni hanno il diritto di proteggere i loro confini, ma va fatto in maniera umana, una maniera europea che rispetti i diritti e il valore di ogni vita umana. La radice del problema è la re-golamentazione, la mancanza di politiche consi-stenti di controllo e coordinazione tra le nazioni europee. Prima di risolvere la migrazione illegale, bisogna avere una politica chiara su quella legale. L’aumento di partiti xenofobi di estrema destra, contro i migranti, fanno molto comodo a Putin. Li supporta direttamente e indirettamente. Facen-

«Il Mondo libero ignora il problema perché gli conviene. È codardia politica.Se sai chi è Putin e cosa sta facendo, hai il dovere di agire». Parla lo scacchista dissidente

Garry Kasparov, in Italia per l’uscita del suo nuovo libro L’inverno sta arrivando

di Michela AG Iaccarino

PUTIN IL DITTATORE E L’INVERNO DELL’OCCIDENTE

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dolo indebolisce l’Europa, che considera il suo maggior nemico, e allo stesso tempo crea condi-zioni migliori per i suoi supporters in Europa.Lei ha dato a Eltsin una chance all’inizio della sua carriera politica. Ha anche meditato su Pu-tin appena arrivò al potere. Negli scacchi c’è un momento in cui il giocatore esamina la partita post mortem. Allora post mortem: quando ha capito lei e quando l’ha capito la Russia chi era Vladimir Putin? In primis, per evitare qualsiasi confusione, ero un grandissimo supporter di Eltsin. Aveva i suoi di-fetti, ma credeva nel popolo e il popolo credeva in lui. Eltsin capì presto che l’Urss era condan-nata e grazie a lui Gorbacev fallì nel salvarla. E sì, come molti ho riposto le mie speranze in Putin, ho pensato che fosse un noioso tecnocrate capa-ce di controllare il caos post sovietico. Ma è stato evidente da subito che Putin aveva le sue radici nel Kgb. Ci sono stati momenti chiave in cui Putin e la Russia hanno raggiunto un punto di non ri-torno. L’ultimo è stato quando Putin è tornato alla presidenza nel 2012. Aveva mantenuto il potere per tutto il tempo con il suo burattino Medvedev, anche se credo che in realtà cercasse una via di uscita. Ma un boss mafioso non può semplice-mente andarsene via, andare in pensione in pace, perché tutto il sistema dipende da un solo uomo, è come fosse la spina dorsale del corpo. E quando nel 2012 ha annunciato di ricandidarsi alla presi-denza, è stato chiaro che sarebbe stato presidente a vita. Ecco cos’è, un dittatore a vita. Lei è contro la politica del tasto reset, contro l’ap-peasement, contro la strategia del compromes-so. Scrive nel libro che «è essenziale condannare e isolare la Russia, perché con Putin la Russia è diventata un pericoloso Stato canaglia». Tradot-to in altre parole, con quali mosse concrete si do-vrebbe procedere? Questa è una grande sfida per i leader occiden-tali, specialmente in Europa, dopo decadi di po-litica di solo engagement. Ma i dittatori come Putin sfruttano questa strategia a loro vantaggio esclusivo. Sfruttano tutti i vantaggi di una poli-tica di reciproco impegno - commercio, viaggi, etc.- senza concedere niente. Obama credeva di poterlo sedurre con il pulsante reset e gli ha dato quattro anni in più per demolire l’opposizione in Russia senza pressioni straniere. Per me, ovvia-mente, isolamento non vuol dire fine degli scambi commerciali, la Cina è una dittatura ma ha lega-mi economici insostituibili con il mondo intero.

Non sono un utopista, ma c’è un inevitabile livello di ipocrisia che non è accettabile. Non si può far finta di essere eguali, oppure membri del “club delle democrazie”. Bisogna vederlo per ciò che è e mettergli pressione il più possibile. E quando uno Stato canaglia, aggressivo come quello di Pu-tin, invade i vicini, butta giù aerei civili, minaccia l’Europa con il rifornimento energetico, è impel-lente una reazione seria. Escludere la Russia dalle alleanze e dalle organizzazioni internazionali del mondo libero è, per esempio, un passo ovvio. Alla fine è successo con il G7 dopo l’annessione del-la Crimea, ma sarebbe dovuto succedere molto prima. I dittatori non possono avere tutto, do-vrebbero sapere che ci sono conseguenze per le loro azioni. La Russia è nello Swift, nell’Interpol, nel Wto. Abusa di queste istituzioni regolarmen-te. Poi c’è la propaganda e la guerra che la Rus-sia agita in Europa. Russia Today e Sputnik sono niente se non la propaganda di Putin che mira a indebolire il “nemico” europeo e americano, ma ancora, gli è permesso di trasmettere regolarmen-te. Putin sponsorizza partiti politici, gruppi con-tro il fracking per danneggiare i suoi competitors, e molte altre attività che dovrebbero essere monitorate attentamente. Putin, in realtà, è in guerra con il mondo libero ma que-sto mondo libero crede di non aver perso perché non si rende conto. Ed è sbagliato. Una strategia possibile è la “sostituzione della dittatura”. Nessuno scon-to: “Schiacci l’opposizione? Invadi i vicini? Allora noi non compriamo il tuo gas”. Così hai bisogno di nuovi fornitori, nuovi oleodotti. È un problema di sicurezza... dipendere dalla dittatura di un solo uomo, soprattutto se questo uomo è Putin, per il vostro inverno è, nella migliore delle ipotesi, una cosa da pazzi. Gorbacev, scrive lei, «ha convinto gli occidentali di essere un uomo rispettabile, che combatteva per un futuro migliore. È una bugia. È stato l’ul-timo leader di uno Stato comunista, tentando di salvare quello che poteva essere salvato». E poi su Eltsin: «Nonostante tutti i suoi sbagli, lui era un vero combattente per la libertà. Eltsin ha fat-to crollare l’Urss, non Gorbacev». Chi ha fomen-tato questi falsi miti sui vecchi presidenti?Gorbacev stesso, è ovvio! Ha trasformato la sua se-rie di errori in una favola di vittoria e liberazione. Le riforme di Gorbacev erano state varate per pre-servare l’Unione Sovietica, non per distruggerla. E

Quando nel 2012 Putin ha annunciato di ricandidarsi alla presidenza, è stato chiaro che voleva diventare presidente a vita. Ecco cos’è, un dittatore a vita

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l’Occidente, specialmente la Casa Bianca di Bush, ha preferito far affari con l’Urss, piuttosto che con una quantità di nuove repubbliche che non co-nosceva. È l’Occidente che ha diffuso la mitologia del “Gorbacev grande liberatore” perché suppor-tavano lui, non Eltsin. «Si può avere successo anche stando dal lato sbagliato della Storia purché ci si trovi sul lato giusto di un oleodotto». Per questo oleodotto, lei non dimentica di sottolinearlo, i leaders europei salutano Putin a braccia aperte. Se fosse un pez-zo degli scacchi, la Russia del gas, con quale lo

sostituirebbe? Le democrazie sono i migliori part-ner commerciali, ma questo non è sempre possibile. Ci sono migliaia di fornitori che non sono coinvol-ti nel terrorismo geopolitico e nei giochi di potere come Putin. Il Ka-zakistan non è una democrazia, ma sa che un fornitore dipende, tanto quanto il compratore, dallo

scambio. Putin pensa solo al potere. Oramai è possibile spedire via mare nuove forniture di gas liquido, ma di questi tempi è una decisione che a nessuno piace prendere. Quindi si preferisce sperare che Putin cambi piuttosto che accettare la realtà che non lo farà mai.

Cosa manca - più di tutto - da Mosca a Vladivo-stock oggi in Russia? E qual è l’arma più potente che ha Putin per silenziare quel bisogno? Non so se ho capito la domanda. Però le dico che i russi non hanno mai avuto un’esperienza diretta di democrazia. Quando l’Urss è crollata, l’econo-mia era un disastro e, con sgomento, i russi hanno scoperto che la democrazia non sarebbe stata una bacchetta magica per mettere le cose a posto. La propaganda di Putin ha rafforzato questo senti-mento, ha raccontato che democrazia “vuol dire caos e povertà”. E adesso che l’economia cade a pezzi e i russi non hanno né sicurezza né libertà, la sua propaganda è ancora più serrata e l’accesso alle informazioni è solo tramite tv controllate dal-lo Stato. Sono convinto che se in Russia ci fossero, anche solo per un mese dei media liberi, l’intero Paese cambierebbe. Il futuro può essere peggiore del passato? A Maidan si diceva di no nei giorni di febbraio. La realtà ci ha mostrato il contrario. Molti di loro, dalle barricate in piazza a quelle delle linee di fronte in Donbas, hanno cambiato idea. Quando l’oligarca Poroshenko è arrivato al potere, molti combattenti si sono sentiti traditi. E molti han-no cominciato a parlare di Maidan 3. Spero che non accada, gli Ucraini hanno versato abbastanza sangue per la loro libertà e continua-no a versarlo. Ci sono ancora dei problemi, cer-to, ma si comincia a considerare l’Ucraina una nazione sovrana. Anche se in queste condizioni, il Paese è costantemente sotto attacco di Putin, è difficile trovare stabilità. Perché la Bolotnaja non è diventata Maidan? Ci sarà una Bolotnaja 2? Ad un certo punto sembrava possibile che in mi-gliaia marciassero verso il Cremlino, ma la diffe-renza con la Russia di Putin è chiara: Putin spara. La domanda è se comandanti e soldati esegui-rebbero l’ordine e questo è, ancora, un rischio troppo grande per i russi. Putin massacrerebbe chiunque pur di rimanere al potere. I dittatori sono forti e fragili insieme. Solo una svolta veloce può far cambiare tutto. Avverrà inaspettatamente e sarà veloce. Sfortunatamente non avverrà paci-ficamente. Spero solo che non verrà versato tanto sangue e che ci sia qualche forma di democrazia dopo il caos. Più a lungo rimane Putin, peggiore sarà il prossimo capitolo. Lei paragona l’inettitudine degli europei con l’Ucraina con quella degli alleati nel difendere la Cecoslovacchia nel 1938. I giochi olimpici

L’aumento di partiti xenofobi di estrema destra,

fa molto comodo a Putin.Li supporta direttamente

e indirettamente. Facendolo, indebolisce l’Europa,

che considera il suo maggior nemico

In apertura, un ritratto di Garry Kasparov. Qui, Vladimir Putin durante una battuta di caccia

© Alexey Druzhinyn/Epa Ansa

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di Sochi le ricordano quelli della Berlino na-zista. L’analogia tra Putin e Hitler in L’inverno sta arrivando sono molte. Il resto del mondo non le coglie? Non le coglie per due ragioni, una legittima, l’al-tra no. La prima è corretta, paragonare chiunque a un mostro come Hitler è diventato impossibi-le. Ma io dico un’altra cosa: Hitler non era Hitler negli anni 20 e 30. Era un leader politico anche popolare, è diventato un mostro negli anni 40 perché negli anni 20 non è stato fermato, quando sarebbe stato ancora facile farlo. Così noi conti-nuiamo a ignorare il problema perché ci convie-ne farlo. È una questione di codardia politica. Se sai chi è Putin e cosa sta facendo, hai il dovere di agire. I leader stranieri invece lo giustificano (per la Georgia, per l’Ucraina, per l’Mh17, per la Siria) perché hanno paura del confronto e lui se ne ap-profitta sempre di più. La cito: «L’America è il mondo libero, l’impero del bene contro l’impero del male, la Russia». A capo dell’Impero del bene c’è Obama, «un idealista dilettante, senza esperienza in politi-ca estera». Che succederebbe se questo impero finisse nelle mani di Trump, che, apprezzato da Putin, ha replicato: «I complimenti di un uomo così rispettato sono il mio orgoglio, Usa e Rus-sia porteranno la pace nel mondo»? Sarebbe un disastro inimmaginabile se un buf-fone spietato come Trump diventasse presi-dente degli Usa. Sono felice di dire che è quasi impossibile che avvenga. Trump diventerebbe allegramente l’ultimo cane da salotto di Putin, un ruolo che secondo me prima in Italia spetta-va a Berlusconi e in Germania a Schroeder. Un altro confine, il più armato d’Europa e su cui nessuno spende una parola: quello tra Azerbaijan e Armenia. Gli ultimi investimenti militari di entrambi i Paesi fanno pensare a un imminente conflitto...Putin ha bisogno di guerra per rimanere al pote-re, nutre la sua macchina della propaganda. Farà guerra ovunque gli convenga, per distrarre il po-polo e aumentare il prezzo del petrolio. L’ultima cosa che ha visto Nemzov (leader poli-tico dell’opposizione assassinato) nelle strade della Capitale è stato il Cremlino. Il dossier su cui lavorava è stato pubblicato con molte dif-ficoltà dal giornale Novoe Vremja. Dopo non è cambiato nulla. Dopo quale evento, le cose co-minceranno a cambiare? Alcune cose sono cambiate, ma sono invisibili.

L’attitudine delle persone che ha visto un altro punto di non ritorno nel brutale assassinio di un ex deputato per le strade russe. Questo è un cam-biamento. Più paura, più paranoia, più brutalità. Lei definisce Putin un giocatore esperto di po-ker. Il poker è più utile degli scacchi in politica? Lei gioca a poker? No, non gioco! È un gioco basato sul bluff, dove puoi vincere senza una buona mano, se sai leg-gere le facce dei tuoi avversari. Putin in questo è bravo, molto bravo. L’Occidente aveva buone carte, ma non ha avuto coraggio. E Putin ha imparato ad usare la debo-lezza dell’Occidente. Come giocatore di scacchi, che tipo di giocatore sarebbe Putin? Sarebbe il ragazzo che imbroglia consultando il computer nel ba-gno! Gli scacchi hanno regole fis-se, le informazioni sulla scacchiera sono lì, tutto il tempo, per entrambi gli avversari. Questo è il contrario di come giocano Putin e il Kgb. Lui tiene tutto nascosto e le sue regole non sono neanche scritte. La mossa da fare è insiste-re su quella trasparenza che lui odia, scoprire tutto, non permettere che tratti con un Paese o un altro in segreto. Non usare eufemismi per na-sconderlo. È un dittatore, chiamatelo dittatore. Sta invadendo l’Ucraina, chiamatela invasione. La verità è la miglior mossa.Una domanda che pongo ad ogni russo che in-contro. Non c’è niente - ma proprio niente - da rimpiangere dell’Unione Sovietica? Ascolti, non posso negare che personalmente ho tratto beneficio dall’ossessione sovietica per gli scacchi, per esempio. Anche Stalin aveva ca-pito che scienza e tecnologia erano essenziali e quindi, in questi ambiti, ha contribuito positiva-mente. Ma ne è valsa la pena? Le purghe, i gulag, la schiavitù del comunismo... Non rimpiango la sua scomparsa neanche per un secondo. È una macchia della storia umana. Qual è la domanda che nessuno le ha mai fat-to e a cui avrebbe sempre voluto rispondere? Che ne dice di “la situazione in Russia è tragica, cosa le dà felicità oggi?” Io risponderei raccontandole che la Kaspa-rov Chess Foundation promuove l’educazione degli scacchi nel mondo e che i regimi vanno e vengono, Putin un giorno diventerà solo un ricordo tragico, ma i bambini continueranno a giocare a scacchi.

Sarebbe un disastro se un buffone spietato come Trump diventasse il presidente degli Usa. Diventerebbe l’ultimo fedelissimo di Putin, come lo era Berlusconi in Italia

L’APPUNTAMENTO

Sabato 19 marzo alle ore 21, all’Auditorium Parco della musica di Roma, per “Li-bri come”, Adriano Sofri presenta il libro L’inverno sta arrivando (Fandango libri) insie-me all’autore Garry Kasparov.

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stato probabilmente il più grande scacchi-sta di tutti tempi; solo la follia e il genio del leggendario Bobby Fischer possono com-

petere con le straordinarie qualità del “mostro dai mille occhi” come lo definì un giorno il bri-tannico Tony Miles dopo l’ennesima, umiliante sconfitta. Ma se l’americano è stato una me-ravigliosa meteora che, dopo aver conquistato la vetta ha sperperato il suo dono in un cupio dissolvi di paranoie e manie di persecuzione, Garry Kasparov è riuscito a rimanere al vertice più di chiunque altro, forgiando il suo talento nello studio e nella disciplina.

Dal punto di vista tecnico Kasparov è il gioca-tore perfetto; uno stile spettacolare e immagi-nativo costantemente votato all’attacco e all’i-niziativa, una voglia di vincere e di combattere fuori dal comune, una dedizione al gioco che lo ha portato a ricercare (e a innovare) più di ogni altro contemporaneo. E naturalmente una me-moria prodigiosa: «Ricordo perfettamente tut-ti i numeri di telefono che ho composto nella mia vita». Avrebbe potuto eccellere in qualsiasi altro campo, dalle scienze alle arti, ma gli scac-chi, questa allegorica e cruenta simulazione della guerra che prevede una varietà infinita di

Al Cremlino nessuno vedeva di buon occhio l’ascesa di quel ragazzodagli occhi neri come la pece, figlio di un ebreo e di un’armena, focoso

e ostile al compromesso. Con uno stile spettacolare e immaginativo

di Daniele Zaccaria

IL GIOCATORE PERFETTO

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mosse e varianti in un perimetro finito di casel-le, erano il suo destino.Garry è nato a Baku capitale dell’Azerbaijan il 13 aprile del 1963 e il 13, come lui stesso ama affermare, è sempre stato il suo numero fetic-cio, curiosa inclinazione per la numerologia per un devoto alla logica e alla razionalità. La sua data di nascita è un multiplo del 13, nell’85 (8+5= 13) è diventato il tredicesimo campione del mondo, un titolo raggiunto dopo la tredice-sima vittoria. Il padre Kim Moissevitch Veinstein, era un ebreo di grande cultura amante della musica e della letteratura, la madre Clara Kasparova un’armena appassionata di storia dell’arte dal carattere straripante; dopo la morte del marito avvenuta nel ’71, si dedica anima e corpo all’e-ducazione del figlio al quale trasferisce anche il cognome. Una sera, quando aveva appena cinque anni, Garry risolve in pochi secondi un problema scacchistico sul quale i genitori era-no impegnati da giorni. In teoria piccolo, non avrebbe dovuto conoscere le regole e i movi-menti dei pezzi, eppure gli scacchi erano già una seconda lingua, quasi un dono degli dei e di Caissa, la musa del nobile gioco. Negli anni seguenti farà strabuzzare gli occhi ai maestri di tutta l’Urss per le sue vittorie strabilianti con-tro giocatori molto più esperti di lui. Passerà per il mitico e inevitabile Palazzo dei pionieri di Baku, fucina scacchistica in cui incontra Mikail Botvinnik, campione del mondo negli anni 50, vero e proprio monumento degli scacchi so-vietici anche se ormai confinato ai margini del potere. Botvinnik riconosce subito la genialità di quel piccolo azero e lo mette sotto la sua ala protettiva, in quello che è stato l’unico soste-gno “istituzionale” ricevuto dal giovane Kaspa-rov: «L’avvenire del nostro gioco è nelle mani di questo piccolo».A 12 anni è campione di Russia junior (com-petizione in cui partecipano giocatori fino a 19 anni), a 14 è il più giovane maestro di sempre, a 16 vince il suo primo grande torneo interna-zionale, a 19 è candidato al titolo mondiale in un ciclo in cui ha strapazzato ex campioni del mondo come Tigran Petrosjan e Vassilj Smislov o giocatori del calibro di Viktor Korchnoi. Or-mai manca solo l’ultimo tassello, il più difficile.Come in ogni epopea, la sua ascesa aveva bi-sogno di un alter-ego, di un eterno rivale o di

un “super cattivo” che rappresen-ti il lato oscuro della forza per chi preferisce le semplificazioni nar-rative. Tutto questo si è incarnato nelle anonime fattezze di Anatolij Karpov. Oltre ad essere un gioca-tore di classe superiore e dai ner-vi d’acciaio, Karpov era il protegé del Cremlino, il prototipo di cam-pione costruito in laboratorio, un prodotto della Guerra fredda, un Ivan Dra-go dell’intelletto. Gelido come un cubetto di ghiaccio, incapace di tradire emozioni, obbe-diente al sistema come un soldatino di piombo, aveva uno stile poco appariscente. Non amava lo spettacolo, non si imbatteva in sacrifici ardi-ti o in combinazioni al fulmicotone, preferiva schiacciare lentamente i suoi avversari come un boa constrictor, farli dimenare nelle sabbie mobili prima di assestare il colpo di grazia. Dopo la squalifica di Fischer che si rifiuta di rimettere in palio il suo titolo sprofondando nella pazzia, nel 1975 Karpov viene nominato d’ufficio campione del mondo. Un titolo acqui-sto senza giocare, ma che ha legittimato per un decennio, vincendo praticamente tutti i super tornei a cui ha partecipato.Nei palazzi di Mosca intanto nessuno vedeva di buon occhio l’ascesa di quel ragazzo dagli oc-chi neri come la pece, dal temperamento foco-so e dall’indole individualista, figlio di un ebreo

A 5 anni Garry risolve in pochi secondi un problema scacchistico su cui i genitori si erano impegnati da giorni. A 12 è campione di Russia junior, a 14 il più giovane maestro di sempre. A 19 è candidato al titolo mondiale

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e di un’armena, riottoso e ostile al compromes-so. La prima sfida contro Karpov fu uno choc per Garry: il suo stile fiammeggiante con cui ha sbaragliato tanti avversari con Karpov non fun-ziona, il campione si difende con pazienza, fa sbollire gli attacchi del nemico e lo colpisce di rimessa. Una, due, tre, quattro, cinque sconfit-te. Sul cinque a zero a Karpov manca solo una vittoria per conservare il titolo. A quel punto Kasparov cambia tattica, gioca con prudenza accumulando partite patte. Poi arriva la prima vittoria, poi una seconda, infine una terza. Sul 5-3, dopo mesi di estenuante battaglia, il clan di Karpov chiede la sospensione del match: il

campione è troppo stanco e spos-sato per continuare. Kasparov è costretto ad accettare. Si ricomin-cia da capo con una nuova partita e una nuova formula: vince chi re-alizza 12,5 punti e in caso di pari-tà lo scettro sarebbe rimasto nelle mani di Karpov. Sii impone Kaspa-rov per 13 a 11, diventando a 22 anni il più giovane campione del

mondo della storia: il suo stile è ormai maturo per rimanere in alto molto a lungo. La battaglia con Karpov continuerà ancora per diversi anni con altre tre drammatiche sfide per il titolo in cui Garry prevale di misura. Per oltre un ventennio Kasparov è stato in cima all’Olimpo del nobile gioco, dominando alme-

no tre generazioni di scacchisti, dal britannico Short all’indiano Anand e traghettando il gioco nell’epoca del professionismo e dell’informati-ca, perfezionando in modo maniacale la teoria delle aperture attraverso l’utilizzo di software e database (celebre la sua doppia sfida con il super-computer “Deep blue” nel ’95 e ’96). Vit-torie su vittorie che gli conferiscono il temibile soprannome di “orco di Baku” per la cattiveria e la furia con cui abbatte i malcapitati avversari. «Gli scacchi sono il gioco più violento che esi-sta» ha detto un giorno dopo l’ennesimo suc-cesso; a seguire le sue partite è difficile dargli torto. Lascia le competizioni nel 2005, quando è ancora il numero uno con un punteggio Elo (il coefficiente di forza scacchistica) mai rag-giunto da nessuno, per dedicarsi alla politica e alla promozione di se stesso. E diventando alle-natore del norvegese Carlsen attuale campione del mondo.Nel 2007 Kasparov viene arrestato dalla polizia dell’odiato Putin per manifestazione non auto-rizzata, cinque giorni in cella in cui il primo a fargli visita è proprio il suo vecchio rivale, Kar-pov che ha intercesso in suo favore nei corridoi del Cremlino. «Mi ha stupito vedere Anatolij farmi visita e provare a confortarmi. Non è una cattiva persona, ma un uomo che oggi stimo e rispetto». Anche fuori dal mondo delle 64 case il destino di Garry Kasparov ha continuato a in-trecciarsi con il suo inseparabile alter ego.

Il suo eterno rivale fu Anatolij Karpov, protetto

del Cremlino. Prototipo del campione costruito

in laboratorio. Gelido come un cubetto di ghiaccio, nel 1975 fu nominato d’ufficio

campione del mondo

Mosca, 1984, finale del Campionato mondiale di scacchi, Anatolij Karpov

sfida Garry Kasparov. New York, 11 maggio 1995,

Campionato mondiale: Kasparov sfida il super

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Sì, la Russia è brutale. Ma fuori non c’è il paradiso. Il suo oppostonon è l’America. Se si insiste con una visione bipolare

del mondo, si finisce con l’ignorare la realtà

Testo e foto di Michela AG Iaccarino

UNA SCACCHIERAIN BIANCO O NERO

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ui l’ha già dimostrato nel 1999: gli bastano 62 mosse per battere l’uma-nità. Quella partita si chiamava così:

Kasparov contro il resto del mondo. Vin-se Kasparov. Gli scacchi sono lo sport più violento di tutti. Lo si è scritto spesso. Lo è anche il pugilato, ma nel pugilato la vio-lenza non è una metafora. Negli scacchi tocchi un pezzo nero o bianco sul tavolo che divide te e l’avversario, che non toc-chi mai. Nel pugilato il colore della lotta è il rosso, quello delle nocche che sfonda-no la pelle del nemico, che va a tappeto quando il rosso in faccia è troppo. Se c’è del nero è dei lividi, se del bianco è del pallore quando svieni a forza di botte. In

Gorbacev si è organizzato da solo quel golpe a Mosca mentre era in Crimea. Che l’ingenuo Obama doveva ispirarsi a Clinton quando decise di bombardare Belgrado nel 1999: «Con questa nostra azione difendiamo i nostri valori e pro-muoviamo la causa della pace». Scrive che si dovrebbe sostituire la parola Putin alla parola Milosevic, la parola Kosovo alla parola Ucraina. Kasparov dice che l’America è il Mondo Libero e tutti do-vremmo stare sotto la sua cupola, per-ché la supremazia morale dell’America è assoluta. Che l’America è il Regno della Luce, la Russia delle Tenebre. Scrive che non bisogna premere il tasto reset, ma condannare, isolare, combattere lo Sta-to Canaglia Russo che soffoca il popolo libero d’Ucraina oltre al suo. Kasparov scrive anche altre cose. Che l’America trasforma «i nuovi migranti in fette della apple pie». Non che a vol-te li fa solo a fette. Nessuna parola per le svastiche del fascista Bandera contro la minoranza russofona che comparvero a Maidan e continuarono a sventolare in Donbas. Non si parla della sagoma di un oligarca scappato, Yanukovic, perfetta per essere riempita da un secondo e più ricco oligarca, Poroshenko, attuale pre-

sidente ucraino. Si parla della Russia oggi in Siriaq, non dell’America che era ieri in Iraq o nelle sue Ce-cenie mediorientali, suda-mericane e africane. Scri-ve insomma che il mondo

è bianco o nero. Come negli scacchi. Bianco e nero sono i colori della propa-ganda e nessuna propaganda è migliore dell’altra. Parlare la lingua rovente e av-velenata del nemico è un modo di farlo vincere a quel gioco per cui noi lo con-danniamo alzando la voce. Si lascia nel mezzo del fuoco incrociato chi sta cer-cando la verità. Non esiste l’Impero del male e del bene, neppure in Games of Thrones. Esiste solo ancora in qualche soffitta, qualche partito e in un gran bel film. In quel film noi siamo gli impavidi nanetti a stelle e strisce contro un gigan-tesco orso cattivo che ci sta sussurrando in sovietico “tispiezzoindue”.

L

entrambi gli sport sono previsti solo due giocatori. A scacchi si gioca seduti, a box non si gioca, si combatte e in piedi. Uno ha in mano i pezzi, l’altro i pugni. Uno muove, l’altro tira. Tra la violenza di una mossa su una scacchiera e la violenza di un jab sul ring c’è tutta la distanza che può esistere tra la comoda poltrona di un salotto profumato e una fatiscente pale-stra puzzolente di periferia. I campioni di scacchi sono considerati menti eccelse e lo sono. I campioni di boxe sono consi-derati valorosi energumeni e lo sono. Pur essendo anche altro. La Russia - e prima l’Unione Sovietica - è stata la madre dei più grandi scacchisti e dei più grandi pu-gili di tutti i tempi. C’è un terzo gioco, il poker, che per Kaspa-rov è il gioco del Kgb. Scrive che è lo sport di Putin. Vince chi imbroglia, chi bluffa meglio. A un tavolo da poker però quasi mai ci si siede in due. Si è in tanti, come in tanti ci si siede intorno al tavolo dove c’è una mappa in una riunione di guerra o a un incontro governativo internazionale per trovare una soluzione a un conflitto. Perché i confini dei Paesi si toccano, come i pugili, in tempo di guerra e di pace. Ol-tre al pugilato, la metafora del poker per la geopolitica è poco etica, ma più reale.

Mi sono venute in mente tre cose men-tre leggevo il libro e le risposte all’inter-vista de L’inverno sta arrivando: il mau-soleo di Maidan, le bombe in Donbas e Rocky Balboa. Le parole del più grande scacchista del mondo sul ring del film di pugilato più famoso di tutti i tempi. Per chi respira Russia dalla nascita, Ka-sparov è una leggenda. Ma assecondare un mito, anche se è il tuo, è il peggior modo di rendergli onore. Kasparov dice di aver previsto tutto prima degli altri, compreso il collasso dell’Urss. Kasparov scrive che Snowden non merita il nostro rispetto perché, perseguitato in Usa, si è rifugiato nel sistema Putin. Che forse

Kasparov dice che l’America è il Mondo libero e la Russia l’impero del Male.

Ma il mondo non è una scacchiera, bianco o nero sono i colori della propaganda e

nessuna propaganda è migliore davvero

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22 19 marzo 2016

Ovviamente noi vinciamo. E abbiamo vinto così. Da quel 1999 in Kosovo nel-le enclavi filospinate i serbi vivono oggi in container senza acqua ed elettricità, videosorvegliati in caso d’attacco alba-nese. I tagliagole dell’Uck sono diventati membri del governo di uno Stato pove-rissimo dove c’è la più grande base ame-ricana in Europa e dove serbi e kosovari si odiano oggi forse più di allora. In quel febbraio di sangue a Kiev dove si sparò - si sparò - più di cento perse-ro la vita in poche ore. Si morì sotto il mausoleo di Maidan, quello che era un vecchio albero di Natale diventato un at-taccapanni per bandiere di tutte le anime che rimanevano in piazza, al gelo dell’in-verno e al calore delle molotov. Era un enorme alfiere che arriva al cielo: non è una metafora, quello scheletro d’acciaio aveva davvero la forma di un pezzo de-gli scacchi. E lì sventolavano le bandiere dei cosacchi, degli europeisti, dei nazio-nalisti, dei nazisti, dei pacifisti, dei fasci-sti. Quella piazza, come tutte le piazze, apparteneva a chi rimase alla fine, non a chi c’era all’inizio. A chi rimase sulle barricate a sfidare i proiettili coi musco-li, non sul palco a far ingoiare parole al vento e al popolo col naso all’insù. Sulle barricate c’era il popolo delle palestre. Che versò sangue e quel sangue ancora caldo scongelò i milioni di dollari di aiuti americani che arrivarono nella Capitale ucraina. Proprio come dopo, ad Est ar-rivarono quelli russi. Anche a Donetsk come a Kiev, cominciarono a sventolare mille bandiere, di tanti, forse troppi co-lori. C’era la faccia di Stalin e di Nicola II. C’era la croce ortodossa e la croce degli

atei sovietici, la falce e martello. C’erano le false flag. Chi c’era sa che non era una scacchiera dove ce ne sono solo due, di colori: sarebbe stato bello se fosse stato così - bianco o nero. Sarebbe stato bello soprattutto per un motivo: sarebbe stato facile. Facile riconoscere il cattivo. Il cat-tivo è sempre quello che tispiezzoindue. Putin. Putin è un dittatore e chiunque abbia scelto il mestiere di scrivere, deve sentirsi russo doppiamente in fondo al cuore. Solidale ai cittadini comuni e a chi quel mestiere lo svolge in un Paese dove per ogni parola d’inchiostro vera c’è una pallottola di piombo verissima. Ma chi ha scelto questo mestiere lo ha fatto per avversare gli strabici, per combattere la propaganda - da qualsiasi lato arrivi. Lo ha scelto perché sa che non esiste il Mondo Libe-ro, l’Impero della Luce: se esistesse, sfidando onde e morte, ci sarebbero file di giornalisti e non di mi-granti siriani.Ancora Putin. Da Mosca a Pietroburgo gli intellettuali combattono contro lo zar. In Siberia Putin è “il primo presidente di cui andare fieri”. La Russia europea gioca a scacchi, la Siberia fa pugilato. (È una me-tafora: la Siberia sforna eccelsi giocatori di scacchi e a Mosca si fa boxe. Uso le Ca-pitali Europee per dire intellighenzia be-nestante, la Siberia per dire popolo, cioè, Resto del Mondo o forse solo Resto della Russia). Il 70% della Russia è Siberia. Per geografia e mentalità. I russi, la maggio-ranza dei russi, pensa che “Putin sia il primo presidente di cui andare fieri dopo tanto tempo”. Non accettarlo vuol dire ri-

manere in salotto e ignorare le palestre. Vuol dire far rimanere Putin al suo posto. Vuol dire ignorare il reale. Ai giornalisti non è concesso. Sì. La Russia è brutale. Alcuni di noi l’hanno amata per questo, altri di noi no-nostante questo. Ma tanto inferno sulla terra non ha bisogno di un paradiso di contrappeso per rimanere in equilibrio sull’asse terrestre. Il suo opposto non è l’America. Sì. L’Unione Sovietica si è sui-cidata. Si. Il mondo bipolare è finito. Ma sarebbe ora di far finire anche la visione bipolare del mondo. Bianco o nero. Sì. L’America ha vinto la guerra anche per-

La maggioranza dei russi pensa che “Putin sia il primo presidente di cui andare fieri dopo tanto tempo”. Non ammetterlo vuol dire rimanere in salotto e ignorare le palestre. Vuol dire fare un regalo a Putin

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ché l’ha vinta Hollywood. Il muro è cadu-to. Noi non siamo più Rocky. Torniamo alla distanza tra la scacchiera e il ring, anche se perdiamo sempre a scac-chi, più che sempre a poker, molto più di sempre a boxe. Alla luce e alle tenebre. Al b/n che è bello solo in fotografia. Alla verità che non è mai una, ma che anzi spesso resiste anche se la contraddice il suo opposto. Ai pezzi degli scacchi che dovrebbero stare in palestra e ai guanto-ni che dovrebbero stare in salotto. Finché non accadrà, Putin e tutti i Putin andran-no a dormire sorridendo svegliandosi il giorno dopo allo stesso posto. Torniamo

In apertura, un miliziano con al collo il nastro di San Giorgio, simbolo della vittoria russa sulla Germania

nazista. In questa pagina, a Donetsk, Dobas, un bambino fruga tra le rovine di un chiosco bombardato;

donne in lutto al funerale di miliziani filorussi

alla guerra in Ucraina che è scoppiata per colpa di una parola. La radice del nome di questo Paese è krai e in russo vuol dire confine. Kraina in ucraino invece vuol dire patria. Gli americani hanno una pa-rola sola per U krai+na: Borderland. Que-sto non spiega chi ha ragione e chi ha tor-to ai meridiani e paralleli del Donbas, ma solo che entrambe le radici del Paese che si chiama confine o patria, krai e kraina, sono vere. Ci torniamo perché mentre scriviamo Russia e Ucraina continuano a sanguinare sulla mappa dei tavoli geopo-litici. Giovanissime vite bionde se ne van-no dal lato di quelli che crediamo giusti come dietro la barricata di quelli che chia-miamo sbagliati. Diecimila secondo le ul-time stime Osce. L’Ucraina o le Ucraine non sono più nemmeno due. C’è chi dice almeno cinque. Maidan 2014 si divideva tra chi c’era e chi non c’era. Oggi l’Ucraina

si divide in chi c’è ancora e chi non voleva esserci nemmeno quel giorno. Le ultime barricate gialloblu parlavano del nemico esterno, la Russia, e del nemico interno, la vecchia nuova oligarchia di Kiev. Veterani a 30anni, con una stampella in più e una gamba in meno lasciata lungo la faglia di una frontiera scomparsa. Con la rivolu-zione si è persa l’innocenza, con la guerra la dignità. Ucraina e Russia - i loro popoli e non i loro Governi – assomigliano a due fratelli sfiancati su quel ring ormai tutto rosso che una volta era la loro casa comu-ne. Chi non vede solo bianco e nero rico-nosce quel colore e non tifa sangue solo perché ha scommesso su uno o sull’altro. Chi non vede solo bianco e nero ama la ‘Merica e ama l’Orso Russo. E poiché le ama entrambe, tifa per l’abbraccio finale dei pugili. Gli scacchisti, come i politici, a fine partita si stringono solo la mano.

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24 19 marzo 2016

l 10 marzo su quell’aereo da Cagliari a Roma la tensione si tocca con mano. Diretti al mini-stero dell’Istruzione, il governatore Francesco Pigliaru e il rettore dell’università di Cagliari Maria Del Zompo, hanno un’importante mis-

sione da compiere: salvare gli atenei della Sar-degna. Cagliari, appunto, e Sassari. Candidatasi come rettore un anno fa per non «accettare supi-namente che il destino dell’università sarda fosse segnato», Maria Del Zompo aveva lanciato l’allar-me fin dall’inizio del 2016: «Se la ripartizione del-le risorse per l’università rimangono così, noi nel 2018 siamo costretti a chiudere. E la politica se ne deve prendere la responsabilità». L’università di Cagliari risulta “condannata” da una serie di regole (di indicatori) che determina-no il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). In base a questi parametri l’ateneo deve rinunciare entro il 2018 al 25% dei fondi. Il caso di Cagliari è un esempio evidente di quanto sta accadendo più o meno silenziosamente in molte università italia-ne, soprattutto del Sud, alle prese con la riduzione di risorse. In particolare, per Cagliari, è il cosiddet-to “costo standard di formazione dello studente” il principale responsabile dei tagli. Se questo cal-colo può essere considerato positivo perché intro-duce un metodo più obiettivo per valutare il reale fabbisogno di un ateneo, senza i finanziamenti a pioggia di un tempo, tuttavia infatti in certi aspetti risulta un po’ incongruente. Lo è l’indicatore che considera solo gli studenti in corso, e non i fuori corso - come se questi non gravassero sulle spe-se -, così come quello dell’“attrattività” da altre regioni: «È chiaro che noi essendo un’isola sia-

mo penalizzati - dice Del Zompo dopo l’incontro a Roma - ma anche facendo un algoritmo sulla popolazione, Cagliari e Sassari raggiungono 1 milione e 600mila abitanti. Come facciamo a con-frontarci con altre università, che so Roma, che con le regioni vicine può contare su un bacino di 35 milioni di abitanti?». Stefania Giannini nell’in-contro del 10 marzo ha dato rassicurazioni su una futura valutazione che tenga conto dei «problemi legati al territorio, all’insularità e alla densità di popolazione». Il rettore di Cagliari si definisce «contenta» di questo risul-tato annunciato dal ministro. In caso contrario, le conseguenze del “costo standard studente” sarebbero deva-stanti. Del Zompo ci tiene a ribadir-lo, ed è uno scenario che in termini diversi potrebbe riguardare altri atenei: «Senza quei fondi saremmo costretti a chiudere corsi di studio e addio research university! Ci dovremo limitare alle lauree triennali senza poter avere corsi di dottora-to che già quest’anno faremo fatica ad aprire e che anche l’Anvur, l’Agenzia di valutazione, considera validi». Eccolo qua il “paradosso” di Cagliari, simi-le a quello di altri atenei del Sud: da una parte si riconoscono le eccellenze, dall’altra si riducono i fondi che servirebbero a sostenere e far crescere quelle stesse eccellenze. L’università di Cagliari non sembra barcamenarsi sull’esistente. Con cir-ca 25mila iscritti, quest’anno, in controtendenza rispetto ai dati nazionali, ha visto un aumento de-gli immatricolati (4.034 rispetto ai 3.576 del 2014), con un rapporto altissimo studenti-docenti (51

I

Gli atenei del Sud sono tra i più penalizzati quanto a risorse. È il caso di Cagliari, dove si rischia la chiusura. Una ricerca sugli ultimi sette

anni rivela le scelte politiche che affossano il sistema

di Donatella Coccoli

UNIVERSITÀ, LA NUOVAQUESTIONE MERIDIONALE

Il rettore di Cagliari, Del Zompo: «Penalizzati dalle regole sul “costo standard per studente”, senza quei fondi saremmo costretti a chiudere corsi di studio e addio dottorati e research university»

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rispetto ai 16,5 di Pisa o di 22 del Politecnico di Milano). Ma intanto, se nel 2013 il Ffo era supe-riore a 113 milioni di euro oggi è sotto i 106, men-tre i docenti si sono ridotti a 956 rispetto ai 1063 del 2010. Quanto poi al trasferimento tecnologico nel territorio - la terza missione dell’università, oltre alla didattica e alla ricerca - Cagliari di carte da giocare ne avrebbe, eccome. Trentotto corsi di laurea triennali e 34 magistrali, con i brevetti pas-sati da 20 nel 2010 a 27 nel 2015 e gli spin off da 13 nel 2006 ai 22 nel 2015. Il rettore racconta con orgoglio: «Nell’ingegneria informatica abbiamo potenzialità enormi: attorno a Cagliari si stanno insediando molte imprese Ict e i nostri laureati sono richiestissimi. Non solo: possiamo abbina-re il settore Ict con la parte storica e archeologica, con quella della salute e dell’ambiente. Possiamo creare imprese ex novo o migliorare quelle che già esistono», sottolinea Del Zompo. I laureati in in-formatica trovano lavoro subito, come è accaduto di recente con l’apertura di un centro tecnologi-co delle big Avanade e Accenture. «Ma se di tutto questo gli indicatori per i finanziamenti non ten-gono conto, passa il concetto che una struttura universitaria non serve. E non è vero, si sta solo

LE PROTESTE

Mentre la Crui ha fissato per la giorna-ta del 21 marzo la “primavera dell’uni-versità”, per riaffermare «il ruolo della ricerca e dell’alta formazione univer-sitaria» non cessa l’eco di una protesta collettiva inedita.

I docenti e #StopVqr. Giuseppe De Nicolao dell’università di Pavia la de-finisce «una disobbedienza civile». Per la prima volta insieme, professori associati e ordinari, si sono rifiutati di inviare i dati sui propri lavori per la Vqr (la valutazione qualità e ricerca) dell’Anvur. Tra di loro anche nomi ec-cellenti, come il matematico Giuseppe Mingione. In alcuni atenei, come Pavia, si è toccato il 9-10 % di astensioni. I motivi? Il recupero degli scatti bloccati. Ma anche i tagli alla ricerca e il bloc-co del turn over, così come i metodi di valutazione. I docenti della #StopVqr in pratica hanno determinato un calo di finanziamenti al proprio ateneo, ma in una logica «di solidarietà e di interesse civile», dice De Nicolao.

I precari e il Dis-Coll. Perché non prevedere gli ammortizzatori sociali anche per gli assegnisti di ricerca, i dot-torandi e i borsisti? «Il nostro è un lavoro a tutti gli effetti», sostengono da mesi i precari della ricerca. Per il momento hanno guadagnato solo una promessa del sottosegretario Faraone.

Gli studenti e il diritto allo studio. Gli studenti di Link Coordinamento uni-versitario hanno lanciato l’idea di una legge di iniziativa popolare per garanti-re un diritto in molte regioni negato.

La facoltà di Ingegneria a Palermo. Nella pagina successiva, il rettore dell’Università di Cagliari Maria Del Zompo

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sbagliando metodo di valutazione che dovreb-be servire per migliorare il sistema non per farlo chiudere», conclude Del Zompo. Il caso di Cagliari spiega bene quel fenomeno di “disinvestimento” nell’istruzione superiore inizia-to con la legge Gelmini nel 2008. A fare il punto su quanto è accaduto da allora arriva Università in declino, un’indagine sugli atenei da Nord a Sud, rigoroso saggio appena uscito per Donzelli che

raccoglie una ricerca della Fondazione Res (isti-tuto di Ricerca e società in Sicilia) coordinata e curata da Gianfranco Viesti, docente di economia all’Università di Bari. La mappa dolente delle uni-versità italiane, e in particolare del Mezzogiorno, disegna senza preclusioni ideologiche la qualità dei corsi di studio e della ricerca, la carriera degli studenti, il complesso e talvolta contraddittorio sistema di finanziamento basato sempre più sulla

er le università italiane serve un’indagine par-lamentare, dopo di che si prendano le decisioni più opportune». Gianfranco Viesti, curatore di

Università in declino (Donzelli), il sistema universitario lo conosce benissimo. Ed è altrettanto consapevole che nel-la comunicazione circolano ancora tanti luoghi comuni. I buoni e i cattivi, i “troppi” atenei («non è vero, siamo in linea con gli altri Paesi europei»), i primi della classe da premiare e gli ultimi da penalizzare con i tagli. E soprat-tutto, nella ricerca (che il 21 sarà presentata all’università

di Cagliari e l’11 aprile ai Lincei a Roma) ha constatato «la fuga della politica», ovvero la rinuncia a governare proces-si complessi ma fondamentali per un Paese. Ci ritroveremo università di serie A e altre di serie B?Mah... la cosa che mi dispiace di più è che nessuno abbia mai esplicitato l’obiettivo della politica fin qui seguita. Al-meno in Inghilterra sono stati più chiari: puntavano alla totale privatizzazione del sistema e lo hanno reso noto. Da noi no. Tra dieci anni che fine faranno le università del Sud?Le università meridionali complessivamente sono buo-ne università, stanno nella media europea. Certo, ci sono aspetti che devono far riflettere. Il primo è che i grandi atenei del Nord hanno una qualità diffusa in tutte le ma-terie scientifiche e questo non si ritrova al Sud. Il secondo aspetto è che sono un po’ diversi tra loro come risultati, anche a parità di contesto economico, e da qui emerge l’importanza del reclutamento. Nessuno può negare che in Italia e soprattutto al Sud ci siano stati casi di recluta-mento nepotistico. Le debolezze quindi sono anche figlie di colpe gravi. Ciò detto, il sistema va potenziato. Nell’inte-

Gianfranco Viesti, curatore del saggio Università in declino, suggerisce

una indagine parlamentare

«LA FUGA DELLA POLITICA IN QUESTI SETTE ANNI»

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premialità, le disuguaglianze prodotte dal diritto allo studio penalizzato rispetto al resto d’Europa. Il quadro è desolante. Dal periodo di massima espansione dell’università (2004-2008) al 2014-2015 tutte le “voci” del sistema riportano il segno meno. Così troviamo: -20% di immatricolati (da 326.000 a 260.000), -17% di docenti (da 63000 a 52.000), -18% di personale amministrativo (da 72.000 a 59000) e -18% ancora di corsi di studio (da 5.634 a 4.628). E naturalmente il Fondo di fi-nanziamento ordinario scende del 22,5%. In par-ticolare, a partire dal 2009 questo risulta compo-sto da una quota base (ridotta dai 6,7 miliardi ai 4,9 del 2015) e da una quota premiale che tende sempre di più a crescere (dai 524 milioni del 2009 a 1 miliardo e 385 milioni del 2015). Il problema è che quest’ultima - denuncia la ricerca - è determi-nata da un sistema di 22 indicatori che cambiano ogni anno. «Un sistema barocco», scrive Viesti. Per far fronte al quale a poco servono gli “aggiusta-menti” in corso d’opera. A pagare le conseguenze sono soprattutto le università del Sud: mentre al Nord il taglio del Ffo è del 4,3% al Centro e al Sud è del 12% con picchi nelle isole (a Messina è stato del 22,7%).L’Europa però chiede laureati: entro il 2020 l’o-biettivo è del 40%. L’Italia nel 2014 è all’ultimo posto tra i 28 Paesi con il 23,9%. Quattro regioni

del Sud sono tra le ultime dieci fra 272 regioni eu-ropee, la Sardegna con il suo 17,4% di laureati è penultima. Il crollo del Sud lo si vede poi anche nella garanzia del diritto allo studio. Rispetto al Centro nord dove il 90% degli studenti idonei ri-ceve la borsa di studio, nelle isole è il 38% e nel Mezzogiorno continentale il 61%.Quali sono le cause di un tale declino? «Responsa-bilità locali e centrali si intrecciano in spirali per-verse da cui non è facile uscire», scrivono nell’in-troduzione Pier Francesco Asso e Carlo Trigilia, coordinatore scienti-fico e presidente della Fondazione Res. Il passaggio dall’università di élite a quella di massa, negli anni 70, porta un surplus di finanziamenti, di corsi e sedi distaccate e di feno-meni deleteri come il reclutamento nepotistico di docenti. Emerge così una carenza di governance locale, quell’«autonomia senza responsabilità» che ha provocato “condizioni permissive” lasciate senza controllo da un centro assente. Sarebbe sbagliato, concludono Asso e Trigilia, «continuare a percor-rere la strada degli ultimi anni che genera effetti perversi». Non si tratta né di punire gli atenei con i risultati peggiori nè di assisterli, ma di renderli più efficienti. E questa è una decisione politica.

Immatricolati, corsi di studio, docenti. Dal 2008 al 2015 le voci del sistema hanno registrato un crollo dal 20 al 17 per cento. E il fondo ordinario è stato ridotto del 22 per cento

resse nazionale, perché un Paese è forte se ha basi culturali e scientifiche diffuse in tutto il territorio. Che cosa bisognerebbe fare per potenziare il sistema? Intervenire sulla qualità, creando corsi comuni, ma an-che differenziando il sistema. La difesa dell’esistente non è una buona politica. Il problema è che con le scelte fin qui fatte il sistema è diventato più “piccolo” e non miglio-re. Per esempio la quota premiale che era al 20% questo governo l’ha alzata al 30%, cosa che non c’è da nessuna parte al mondo. I finanziamenti vengono dati con criteri che cambiano ogni anno e dunque così è molto difficile migliorare. E poiché le differenze negli atenei sono mag-giori che fra atenei, così penalizziamo i gruppi migliori degli atenei più deboli che invece sono quelli da sostenere di più. Io lo chiamo effetto “a palla di neve”. Chi ha meno docenti ha meno corsi, ma chi ha meno corsi ha meno studenti, chi ha meno studenti ha meno soldi, ma chi ha meno soldi ha meno docenti e tutto continua... a palla di neve. Ma questa, ripeto, è una scelta politica molto forte. Per questo l’idea dell’indagine parlamentare serve soprat-tutto per capire dove andare nei prossimi sette anni.

Il presidente del Consiglio ha annunciato 2,5 miliardi per la ricerca e il ministro Giannini ha lanciato il piano di reclutamento degli 861 ricercatori. Che ne pensa?Per il momento ho l’impressione che sia una razionalizza-zione di risorse che già ci sono, aspettiamo il piano della ri-cerca, fatto tra l’altro dal governo Letta e fermo da più di due anni. Sul piano di reclutamento dei ricercatori la mia opi-nione è negativa. Si è deciso ancora una volta di assegnar-li (729, ndr) in base alla valutazione della qualità e ricerca (Vqr), ma non la prossima, bensì quella vecchia! Quando si usa questo criterio si sa già dove vanno a finire i soldi, non c’è concorrenza. E poi c’è la ciliegina sulla torta: il resto dei ricercatori (132) sono stati dati due per ateneo. Sembrereb-be una decisione democratica ma non è equa, le dimensioni sono diverse, per alcuni significa avere l’8% in più di risorse umane, per altri, i più grandi, l’1%. Di fronte a queste deci-sioni sono perplesso: non vedo mutare l’indirizzo per cui c’è un principe sovrano che decide a sua assoluta discrezione, un atteggiamento rispetto al quale la politica - che dovrebbe mediare gli interessi di tutti - non è capace di incidere.

don.coc.

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on Giuseppe Diana fu ucciso nella sa-grestia della sua parrocchia il 19 marzo di 22 anni fa. «Dissero che era donna-iolo, forse peggio», mi ricorda Pierfran-cesco Diliberto, per noi tutti Pif, regista

de La mafia uccide solo d’estate, il film che ha riscosso tanto successo e che ora diventa fic-tion. «Il meccanismo è sempre lo stesso - pro-segue - a Palermo, a Napoli o al Nord, e senza che si siano messi d’accordo. Perché non scen-di in piazza quando hanno ammazzato un pre-te? Perché ripeti con il mafioso “in fondo se l’è andata a cercare, forse gli piacevano le donne, forse nascondeva armi”. Cosa tremenda per chi lo dice e ancora di più per chi ci crede. Finge di crederci, perché conviene, perché così si sta nella cultura mafiosa, anche se sa bene che non è vero». Proprio per ricordare Peppe Diana, il 19 marzo Pif è a Casal di Principe, dove presenta anche l’app NOma-museo urbano No mafia, un percorso multimediale sui luoghi degli at-tentati palermitani narrati da voci della cultura e dello spettacolo. Che succede nel mondo dell’antimafia - gli chiedo - dopo un quarto di secolo di proclami il movimento si interroga su se stesso, si chie-de se per caso non stia diventando il luogo in cui qualcuno si finge quello che non è? Accuse e contro accuse, imprenditori in odore di mafia ma con il distintivo antimafia? «Qualche cosa che non va, c’è. La gestione che si è fatta dei beni mafiosi è stata in qualche caso uno scan-dalo. Io però la vedo in modo ingenuo, guar-dando ai caratteri e al confronto che è difficile. Uno che guida la mobilitazione antimafia è dif-

ficile che abbia un carattere timido, tranquillo. In genere si tratta di personalità forti e di ca-ratteri ingombranti. Se vuoi promuovere una manifestazione, la prima cosa che ti viene è di riunire i familiari delle vittime ma è impresa ti-tanica, uno non vuole l’altro e l’altro fa l’analisi del sangue all’altro ancora». Ma Luigi Ciotti ci riesce. A proposito, sarai a Messina, il 21 per la marcia di Libera nel primo giorno di pri-mavera? «Quel giorno sarò qui a Paler-mo in una scuola di Ballarò. Don Ciotti, certo, riesce a met-tere insieme tante persone, ma proprio lui è stato a mettere in guardia sull’uso di parole come antimafia e legalità. E ho visto che qualcuno lo ripaga dicendo che anche Libera non è sempre stata al livello. Non sai a quanti amici sento dire che anche Luigi Ciotti è vittima di queste cose, di questi confronti fra caratteri. Io mi tengo fuori, per fortuna, faccio il cazzaro e cerco di mantenere un profilo più ingenuo».Santa ingenuità; ma non è che stiamo tornan-do al tempo in cui venivano considerati mafiosi solo i killer di mafia, e non invece chi muove gli affari e la politica? Perché questo spiegherebbe l’impasse dell’antimafia.«No, no. È che siamo partiti da zero-coscienza per arrivare a una coscienza un po’ troppo esu-berante. Ci sarebbe da fare un passo indietro. Ritrovare gli ideali e non stare a dividerci tra mille cose. Se no si perde l’obiettivo. Non da

Pif: «Siamo partiti da coscienza-zero per arrivare a una coscienza un po’ troppo esuberante. Bisognerebbe fare un passo indietro, ritrovare gli ideali e non dividerci. Altrimenti si perde l’obiettivo»

D

L’urgenza della memoria e le contraddizioni della risposta civica.Colloquio tra Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, e Corradino Mineo,

alla vigilia della Giornata della memoria e dell’impegno di Libera

TRA MAFIA E ANTIMAFIA

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modo educato. È l’opposto di quelli che si può pensare. Il mafioso non fa il bullo per strada». Decido di fare come Marzullo e rispondo da me alla mia domanda: se fossi a Palermo direi che la mafia è quella che fa politica visto che la po-litica fa schifo, a Roma e Milano, quella che fa funzionare il business. Ride ancora, poi piazza due citazioni: «Caselli racconta di un detenuto mafioso: “Dottore - gli dice - voi andate nelle nostre scuole e parlate, parlate tanto. Tutto bene, i ragazzi vi ascoltano: legalità, antimafia, tutto giusto. Ma secondo lei, signor giudice, quando questi escono da scuo-la e cercano un lavoro, dove vanno?”. Saviano racconta di un camorrista ucciso, un killer che fa la vita del killer e muore come spesso muo-iono i killer, ammazzato da un altro killer. Ma lo zio viveva nei quartieri alti, in una bella villa accanto a quella di George Cloaoney». Ma dopo mezzo secolo, ha ancora senso tenere in piedi una Commissione parlamentare d’in-chiesta sulle mafie. Non sarebbe meglio scio-glierla e farne una sulla corruzione? «Affari tuoi, io mi salvo perché faccio altro, posso difendere la mia ingenuità. Certo, una commissione d’in-chiesta sulla corruzione sarebbe molto utile».

ora: alle commemorazioni di via D’Amelio - la strage del ’92 in cui fu ucciso Paolo Borsellino insieme ai 5 agenti della scorta, Agostino Ca-talano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Di giorno mani-festavano le agende rosse, la sera i ragazzi del-la destra. Questa cosa l’ho sempre considerata una ferita. Davanti al funerale di un parente comune ti dovresti unire, e lasciar perdere il resto». Allora ti faccio una domandona: chi è il mafioso?«Bella domanda. Ho sempre fatto fatica a ri-spondere e credo che sia più facile presentare il mio documentario sulla Groenlandia. L’altra

volta ero alla Vucciria, ristoran-te vicino alla strada, c’era il pro-blema delle macchine che toc-cavano il tavolo. E c’era uno un po’ più prepotente, che suonava il clacson. “È mafioso?” Ha chie-sto un mio amico di Reggio Emi-lia. No, gli abbiamo risposto noi palermitani, il mafioso sarebbe stato gentilissimo, non avreb-be fatto quel gesto arrogante, avrebbe chiesto il permesso in

IL 21 MARZODI LIBERA

Come ogni anno, nel primo giorno di primavera, Libera organizza la Giornata per la memoria e l’im-pegno in ricordo delle vittime di mafia. L’e-vento principale con Luigi Ciotti quest’anno si svolgerà a Messina, ma la manifestazione avrà luogo contempo-raneamente in cen-tinaia di altre piazze italiane. La tradizionale lettura dei nomi delle vittime unirà in un filo unico tutto il Paese. Pif sarà a Palermo, mentre il 19 a un altro impor-tante appuntamento: a Casal di Principe, al 22esimo anniversario della morte di don Peppe Diana, assassi-nato dalla camorra nel 1994.

Dopo mezzo secolo, ha ancora senso

tenere in piedi una Commissione

parlamentare d’inchiesta sulle

mafie? O forse non sarebbe meglio

scioglierla e farne una sulla

corruzione?

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Quei quattro “bravi” ragazzi

1. Danilo Restivo è stato condannato per l’omicidio di Elisa Claps, scomparsa a Potenza nel settembre 1993. Il corpo è stato ritrovato nel sottotetto di una chiesa il 17 marzo 2010. 2. Andrea Ghira, figlio di un noto imprenditore edile romano, ha partecipato al massacro del Circeo il 29 e 30 settembre 1975. 3. Gabriele De Filippi, 21 anni, è ritenuto esecutore materiale dell’omicidio di Gloria Rosboch, inse-gnante scomparsa il 13 gennaio 2016 e ritrovata morta in un pozzo a Rivara (Torino) il 19 febbraio. 4. Freddy Sorgato è accusato di aver ucciso la fidanzata 55enne Isabella Noventa, scomparsa la notte del 15 gennaio 2016 a Padova, con la complicità di sua sorella e della nuova amante Manuela Cacco.

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ai appena ucciso e te ne torni a casa, a mangiare con i tuoi, è la festa di com-pleanno di tua mamma. Succede. È successo a Danilo Restivo, che ha fatto scomparire una ragazza, Elisa Claps.

Poi è tornato a casa perché lo aspettavano a pranzo, c’era anche il fidanzato della sorella.Hai appena ucciso e te ne vai a bere qualcosa. E poi a casa a dormire, con i tuoi genitori che sono già a letto, ignari di cosa hai combinato. È suc-cesso. Erano Andrea Ghira, Angelo Izzo e Gianni Guido. Loro hanno appena lasciato l’automobile parcheggiata in via Pola, a Roma. Dentro il por-tabagagli ci sono due ragazze. Una è già morta, l’altra ha fatto finta di morire. I tre pariolini de-vono liberarsi dei due corpi evidentemente. Ma sono stanchi, dopo le due nottate passate nella villa del Circeo, e decidono di andare prima a ri-focillarsi, poi a dormire, poi avrebbero pensato a dove metterle, a dove mettere le due ragazze, Rosaria e Donatella.Hai appena ucciso la donna che amavi tanto. Poi le prendi il giubbotto, e lo dai alla tua amante. Le fai fare un giro sotto le telecamere del centro di Padova, per far credere alla polizia che sia Isa-bella, viva. Con la tua amante te ne vai a ballare, e rimani in discoteca a divertirti fino alle tre di notte. È successo a Freddy Sorgato, ciclista af-fermato, nonché autotrasportatore per lavoro e ballerino per diletto.Hai ucciso con il tuo amante la tua ex professo-ressa. Hai solo 22 anni, con freddezza la spogli

perché non rimangano tracce della tua macchi-na, ma non riesci a toglierle un anello. La getti in una discarica e con il tuo amante te ne vai. Torni a casa, e così il tuo amante. E fai finta di non en-trarci niente con la scomparsa della prof. a cui avevi tolto 187mila euro, e anche la vita.Persone normali. Dicono tutti così: “Sembrava una persona normale”. O forse no. Si viene a sa-pere che tanto normale Danilo Restivo non era. Tagliava ciocche di capelli alle ragazze. Si met-teva sull’autobus dietro la vittima, e poi zac con le forbici, e la ciocca finiva in una scatola per ricordo. Poi telefonava ad altre ragazze, mette-va come sottofondo la musica “per Elisa”, e re-spirava forte, per fare paura. Si viene anche a sapere che aveva chiuso una ragazza nel centro Newman, quello che si trova nei piani alti del-la chiesa della Santissima Trinità. Lei si è messa a urlare, e l’hanno liberata. Proprio lì deve aver portato Elisa, 15 anni; ma per 17 anni nessuno se ne è accorto. Eppure c’era già stato Danilo lì so-pra, c’era un precedente, ed è lui che vede Elisa per l’ultima volta, proprio in quella chiesa.La chiesa è di quelle importanti, nel corso di Potenza, ci va il senatore Colombo e il parroco si chiama don Mimì. Un parroco intransigente e severo, che però non si accorge che nel sotto-tetto della sua chiesa c’è il corpo di una ragazza, appoggiato tra il pavimento e il muro. Quando celebra messa e quando sposa e quando dà la comunione don Mimì ha sempre Elisa sopra la testa, che lo guarda sospirando. Alla fine, anche

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L’atroce omicidio di Luca Varani ci indigna e ci trasforma in guardoni. Non è la prima volta. Dietro molte scomparse, soprattutto di donne,

l’orrore di assassini “normali”. Ammazzano e vanno a cena dalla mamma

di Federica Sciarelli

NON SOLO FOFFO E PRATOI KILLER DELLA PORTA ACCANTO

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lei, l’hanno trovata. Non prima che Danilo fosse messe al sicuro.Per non fargli combinare altri guai, dall’Italia la sua famiglia premurosa lo aveva spedito in In-ghilterra. E proprio a Barnemauth, dove è anda-to ad abitare viene uccisa una donna. Sono i figli a scoprire il corpo della mamma. Tornano da scuola, come ogni giorno la chiamano entrando in casa. “Mamma?”, “mamma?”, lei non rispon-de. Forse non c’è, forse non è in casa, forse è uscita per una commissione, pensano il ragazzo e la ragazza. E invece la porta del bagno è soc-chiusa, intravedono il piede per terra. Forzano la porta che sembra non volersi aprire per non far vedere loro cosa era successo. È la mamma lì dentro, a terra, uccisa, e con una ciocca di ca-pelli tra le mani. La loro mamma. Mamma!!! Lo gridano con tutta la forza che hanno. Poi si viene a sapere che un’altra ragazza è stata uccisa in modo strano nel quartiere, è coreana e sta studiando in Inghilterra. Ma i genitori de-cidono di cremarla, e non si saprà mai se a quel corpo di ragazza manca una ciocca di capelli. Danilo Restivo alla fine lo arrestano e se lo con-tendono le carceri italiane e quelle inglesi. Con-siderato pericoloso alla stregua di un terrorista. Isolato da tutto e da tutti. Ergastolo in Italia e in Inghilterra, processi e sentenze. Eppure bastava prendere per il collo quel ragazzo un po’ strano alla prima ciocca di capelli tagliata, e mandarlo da un bravo psichiatra. Forse, chissà, si sarebbe salvata Elisa, e anche la sarta Ether Barnett, e an-che la studentessa coreana Oki.Anche i tre pariolini avevano un bel po’ di prece-denti. Se ne andavano in giro a violentar ragaz-ze. E quando erano stati denunciati, un giudice li aveva lasciati liberi: giovani, incensurati, che avevano fatto di tanto grave? E c’era pure una rapina per faccia d’angelo, Andrea Ghira, che non si fa un giorno di carcere dopo aver ucciso Rosaria Lopez. Gli altri due, fessi, si erano fatti beccare. Ma cosa era poi successo di tanto grave in quella villa? Cosa avevano fatto? Semplice, le avevano violentate, bastonate, umiliate, offese, picchiate, e poi picchiate, e poi trascinate per terra. Rosaria è stata portata nel bagno del piano di sopra. Le è stata infilata la testa sotto l’acqua della vasca. Donatella al piano di sotto sentiva le urla, e il silenzio quando la sua amica finiva sotto l’acqua, poi le urla, e il silenzio, poi le urla, e il silenzio. Poi più niente.

Scendono giù e ora tocca a Dona-tella. “Questa è dura a morire”, di-cono mentre la bastonano. Lei ca-pisce, c’è un solo modo per salvarsi. Far finta di essere morta. La carica-no dentro l’auto dopo l’amica Ro-saria, morta. E la macchina parte. Donatella Colasanti fa il viaggio di ritorno a Roma, accanto al corpo dell’amica, tutta nuda. Ha paura, è terrorizzata, ha dolore dappertutto. Quando la macchina si ferma, sta zitta, e aspet-ta. Quando non sente più rumori e capisce che i carnefici si sono allontanati comincia a batte-re con il pugno sul portabagagli. È notte fonda. Una signora che non riusciva a prendere sonno pensa che ci sia un gatto incastrato in una mac-china. E chiede aiuto. Quando i carabinieri apro-no, si trovano di fronte una scena agghiacciante, ma una almeno è viva, almeno una si è salvata...Intanto i tre ragazzi sono stati già a cena, sono

Danilo Restivo alla fine lo arrestano. Ergastolo in Italia e in Inghilterra, processi e sentenze. Eppure bastava prendere per il collo quel ragazzo un po’ strano alla prima ciocca di capelli tagliata

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andati a dormire a casa loro. E quando sono sta-ti portati via, hanno maledetto Donatella, quella che “era dura a morire”.Veniamo a oggi. Lei si chiama Isabella e ha dieci anni più di lui: Freddy. Freddy è innamorato di questa donna elegante e altera. Non si fida e la fa pedinare, pensa che possa avere un amante. L’investigatore privato lo tranquillizza. Nessun amante, è solo che questa bella femmina lo tiene sulla corda il suo Freddy. Freddy non si fida e ci litiga prima di un viaggio. Salta la vacanza insieme in Egitto, ma lui scopre

che Isabella ha deciso di andarci ugualmente, con la sua amica del cuore. Freddy si presenta all’aereo-porto e le porge un pacchettino. Lei lo apre, ci sono preservativi. Tra alti e bassi vanno avanti. Una relazione che non è più stabile, che non è per sempre, ma che resiste e lui la do-menica va a mangiare a casa della

mamma di Isabella, che prepara una teglia di carne in umido. Passano pochi giorni, e digerita la carne in umido della mamma, Freddy porta Isabella a casa sua. Si sa solo che Isabella è morta. Che Freddy si è fatto aiutare dalla sorella e dalla sua nuova amante, a cui chiede di fare la sosia di Isabella a uso e consumo delle telecamere del centro di Padova. Poi fa un appello neanche tanto acco-rato: Isabella torna, che mi stai mettendo nei guai! Piagnucola dicendo di essere sfortunato, perché è l’ultima persona ad aver visto Isabella e per questo credono sia stato lui a farla sparire. E infatti è proprio così. E come non parlare di Gabriele, è un ragazzo che ama travestirsi da ragazza. Si mette il ros-setto e si alliscia i capelli biondi. Ma poco im-porta. Quello che importa è che comincia a fre-quentare la sua ex professoressa. Lei gli aveva dato delle ripetizioni quando era un ragazzino. Ora sono adulti ma lei ha 49 anni e lui solo 20. Eppure è lui a guidare la danza, è furbo, affa-scinante, e subdolo. Convince la professoressa a disinvestire tutti i risparmi di una vita, quel-la sua e dei suoi genitori. Si fa consegnare una valigia con 187mila euro in contanti. Le dice che serviranno per finanziare delle attività red-ditizie, che potranno andare a vivere in costa azzurra, felici e contenti. Le parla e le sussurra “noi”. E a quel “noi” lei abbocca. Non ha mai avuto un uomo, e le pare un sogno che questo bel ragazzo si sia invaghito di lei e l’aiuti a vi-vere una vita diversa, divertente, stravagante. Lei, la professoressa, diventa l’assistente di un manager finanziario. Quello che Gabriele dice di essere, ma una volta avuto i soldi il manager intraprendente scompare, lui e le banconote, lui e i risparmi di una vita.Gloria si fa aiutare dalle amiche a cercarlo in rete. E lo trova. È vivo e vegeto in una delle sue tante interpretazioni. Chiede di incontrarlo. Ma niente. Gabriele non ha tempo né voglia. Fino a quando gli fa scrivere da un avvocato, per avere almeno i soldi indietro. Scocciato, infastidito da tanta tracotanza, Gabriele decide di farla scom-parire. Si fa aiutare da un uomo che ha 30 anni più di lui, e con il quale fa sesso ogni tanto. La fanno salire in macchina e le dicono che le rida-ranno i soldi. Invece Gabriele tira fuori un laccio, e lo stringe al collo della professoressa. Non solo i soldi, le ha tolto anche la vita.

Gabriele comincia a frequentare la sua ex prof. Si fa consegnare una valigia

con 187mila euro e sparisce. Quando lei gli fa

scrivere da un avvocato, lui la uccide stringendole un laccio intorno al collo

Sulla scena del delitto 1. Il ritrovamento del corpo di Elisa Claps a Potenza: 2. Il cadavere di Rosaria Lopez nell’auto usata dagli assassini; 3. Lauto in cui Gabriele De Filippi ha strangolato Gloria Rosboch; 4. il tratto del fiume Brenta dove Freddy Sorgato avrebbe gettato il corpo di Isabella Noventa.

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aro Emilio desidero esprimerti la mia sin-cera allegria per come tutto si è sviluppato se-condo i piani prestabi-

liti […], c’è bisogno di un governo che sappia soffocare l’insurrezione dei dila-ganti movimenti di ispirazione marxi-sta. [...] poiché un governo forte e fermo sulle sue posizioni e nei suoi propositi può dare alla nazione ciò che necessita per tornare rapidamente al livello dei Paesi più prestigiosi». Il capo e fondato-re della P2, Licio Gelli, si complimentò così con l’ammiraglio argentino Emilio Eduardo Massera, affiliato alla loggia massonica segreta (tessera 478). Era il 28 marzo 1976. Quattro giorni prima, il 24 marzo, la giunta militare di cui Mas-sera faceva parte insieme ai generali Jorge Videla, Leopoldo Galtieri e Orlan-do Agosti aveva destituito Isabelita Pe-ron, seconda moglie e vedova di Juan Domingo Perón. Avviando, con il so-stegno dei poteri economico-finanziari nazionali e internazionali (alcuni dei quali occulti, come la P2, della Chiesa cattolica e dei grandi gruppi editoriali argentini), il famigerato Processo di ri-organizzazione nazionale che nei sette anni di dittatura civico-militare avreb-

be provocato la morte e la scomparsa di almeno 30mila persone. All’epoca Gelli era l’addetto economico dell’ambascia-ta argentina a Roma.A 40 anni dal golpe, il ruolo chiave del-la P2 è ormai storia. Oggi sappiamo che funzionava come una grande rete di potere glo-bale, essendo in grado all’occorrenza di fornire sicurezza, sostegno eco-nomico e riparo a chi aveva bisogno di non far-si trovare. È successo per esempio con i nazisti fug-giti in Sud America. Ma le scorie prodotte dal “di-segno” di Gelli non sono state del tutto smaltite. Casi irrisolti che trasformano la storia della dittatura ar-gentina in cronaca di estrema attualità e chiamano in causa il nostro Paese. Migliaia di giovani, tra cui 1000 cittadini italiani, sono ancora desaparecidos («né vivi, né morti» li definì brutalmente Vi-dela), e sono almeno 320 i figli rubati alle giovani madri poi fatte scomparire con i “voli della morte”, che le Abuelas di Plaza de Mayo continuano a cercare in tutto il mondo. Italia compresa. C’è però un’altra caccia che in nome

della giustizia e della ri-costruzione della «verità» si sta svolgendo lungo la Penisola. In seguito a una denuncia dell’associazione 24mar-zo, alla fine del 2015 il ministro Andrea Orlando ha autorizzato il processo dell’ex militare argentino con passaporto italiano

Carlos Luis Malatto. Insediatosi in Ligu-ria nel 2011, dove almeno fino al 2014 ha svolto il lavoro di giardiniere in una parrocchia del genovese, Malatto che oggi risulta irreperibile è un libero citta-dino accusato di crimini contro l’uma-nità. Nel 2012 l’Argentina ne aveva chie-sto l’estradizione indicandolo come coautore di torture e omicidi compiuti nella provincia montana di San Juan da un’organizzazione militare «che aveva un piano unitario e sistematico finaliz-zato alle azioni violente». Ma accoglien-

La storia della P2 torna di attualità, chiamando in causa il nostro Paese. Ora possiamo processarei responsabilidei crimini di lesa umanità compiuti all’estero

«C

40 anni dopo il golpe in Argentina alcuni torturtatori vivono il buen retiro in Italia. Mentre nel mondo continua la caccia

ai militari responsabili di crimini contro l’umanità

di Federico Tulli

QUEI TORTURATORI CHE VIVONO TRA NOI

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ne subito scarcerato facendo perdere le proprie tracce.Chi non ha problemi a farsi trovare è don Franco Reverberi, un sacerdote italo-argentino di 78 anni residente a Sorbolo in provincia di Parma. Per anni è stato inseguito dalla giustizia argenti-na che lo accusa di torture e lesioni sui prigionieri della Casa dipartimentale di San Rafael di cui nel 1977 era cap-pellano militare. Nel 2012 il tribunale federale di San Rafael ne ha chiesto la «detenzione immediata» e l’Italia è sta-ta sollecitata a estradarlo affinché possa essere giudicato. Tuttavia il reato di le-sioni è prescritto e le accuse di tortura hanno reso irricevibile la richiesta di estradizione.

E non ha problemi nem-meno Jorge Nestor Troc-coli. “El torturador”, come viene chiamato nella sua terra d’origine, l’Uruguay, è imputato al processo Condor di Roma per il sequestro e l’omicidio di 20 persone nell’ambito di un’opera-

zione militare svolta in Argentina nel 1977 sotto l’ala del Plan Condor. Una quindicina di anni fa, dopo aver ottenu-to la cittadinanza italiana, l’ex ufficiale della marina Troccoli, addetto agli in-terrogatori dei prigionieri, ha preso casa in Campania. Come nel caso di Malatto e Reverberi, la richiesta di estradizione è stata negata. Ma anche per Troccoli il passaporto italiano dopo averlo mes-so al riparo rischia di risultare fatale. A causa dello stesso articolo 8 del codice penale che potrebbe portare Malatto a rispondere dell’accusa di crimini con-tro l’umanità compiuti 40 anni fa.

L’ex gerarca è accusato di omicidio plurimo ag-gravato e sequestro di persona nei confronti di Juan Carlos Cámpora, fratello dell’ex presidente della República Argenti-na Héctor José Cámpora, Jorge Alberto Bonil, un ex militare di leva, José Alberto Carbajal e la Erize Tisseau, entrambi appartenen-ti ai montoneros. «Il tenente Malatto è uno dei più segnalati dalle vittime per la partecipazione agli interrogatori sotto tortura» si legge nella sentenza di con-danna di Menendez, Vic e Olivera ma la tortura da noi non è reato quindi non è tra le accuse a suo carico. C’è un’ulterio-re coincidenza che lega i casi di Malatto e Olivera. Fu nello studio dell’avvocato Sinagra che nel 2000 dall’Argentina ar-rivò il fax del falso certificato di morte di Marie Anne Erize in base al quale Olive-ra, che era stato arrestato a Roma, ven-

Don Reverberi, sacerdote italo-argentinoè inseguito dalla giustizia argentina per torture e lesioni. Vive indisturbatoa Sorbolo, Parma

do il ricorso presentato dall’avvocato Augusto Sinagra (tessera 946), noto per essere il legale di fiducia di Licio Gelli, l’estradizione è stata negata. Sequestri, abusi, torture e sparizioni rientrava-no, come il furto dei neonati, nel Pro-gramma di riorganizzazione nazionale. Secondo le testimonianze raccolte già nell’83 dalla commissione Conadep incaricata dal presidente Alfonsin di investigare sulle sparizioni, Malatto ne ha fatto parte come commilitone del generale Luciano Benjamin Menendez, del maggiore Jorge Olivera e di Eduardo Vic. I tre sono stati condannati all’erga-stolo in Patria per il sequestro, le tortu-re, le violenze, l’omicidio e la sparizione della modella franco-argentina Marie Anne Erize Tisseau nel 1976. Ora, gra-zie all’articolo 8 del codice penale, che consente di processare nel nostro Paese cittadini italiani presunti responsabi-li di crimini di lesa umanità compiuti all’estero, è indagato anche in Italia.

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Oggi trasfor-mata in Museo della memoria, durante la dit-tatura argentina (1976-83) la Escuela de Mecánica de la Armada (a sinistra), sotto la direzione dell’ammiraglio affiliato alla P2 Emilio Eduardo Massera, è stata il più grande centro di deten-zione illegale e tortura del Paese. In alto, Licio Gelli

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iaceva in Parlamento dal 2007. E i movimenti per l’acqua pubblica avevano fatto più volte pressione su deputati e senatori affinché lo prendessero in esame. Da poche

settimane alla Camera è cominciata la di-scussione sul disegno di legge di iniziati-va popolare fatto proprio dall’intergrup-po parlamentare composto da deputati Pd, Sel e M5s. Il provvedimento prevede, tra l’altro, all’articolo 6 l’affidamento del servizio idrico esclusivamente a enti di diritto pubblico controlla-ti dallo Stato, sul modello adottato dalla città di Na-poli con l’azienda speciale Acqua bene comune (la cui vicenda fa da sfondo al fumetto Mammacqua, che illustra queste pagine). La deputata 5stelle Federica Daga è prima firmataria di una proposta volta a garantire l’acces-so all’acqua pubblica riconosciuta come diritto umano: minimo 50 litri al giorno, se necessario a carico della fiscalità ge-nerale. Martedì 15 marzo, però, l’ok a due emendamenti Dem in commisione Ambiente ha ottenuto l’effetto di abolire l’articolo 6 sull’affidamento a enti di di-ritto pubblico: la gestione non sarà più obbligatoriamente pubblica, ma lo sarà soltanto «in via prioritaria». I deputati Cinquestelle e quelli di Sinistra Italia-na hanno protestato contro «l’arrogan-za della maggioranza» e Federica Daga ha ritirato la propria firma al disegno di

legge lanciando l’hashtag #lacquanonsi-vende. Il Pd sostiene la tesi della coeren-za con il voto del 2011, ma che il governo non avesse intenzione di assecondare la volontà politica espressa con il refe-rendumario era già chiaro con il decreto Sblocca Italia del 2014, il cui mantra è concentrare la gestione in mano a pochi soggetti (un gestore unico che già offra il servizio ad almeno un quarto della popo-lazione di ciascun Ambito territoriale) e per forza di cose molto strutturati (legga-

si multinazionali e grandi multiutility). L’ultima leg-ge di Stabilità ha poi intro-dotto una deroga al patto di stabilità per i Comuni che privatizzano la gestio-ne dei servizi a rete come quello idrico e, per finire, uno dei decreti attuativi della riforma della Pubbli-

ca amministrazione collega la determi-nazione della tariffa alla remunerazione del capitale investito. Altro che “fuori il profitto dalla gestione dell’acqua”, come recita uno slogan dei comitati. Questi ul-timi ricordano il richiamo del presidente del Consiglio all’epoca del voto referen-dario: «Niente giochini come in passato per far finta di nulla» aveva detto l’allo-ra sindaco di Firenze Matteo Renzi. E in un certo senso ha mantenuto l’impegno: non ha fatto finta di nulla, ha direttamen-te fatto un’inversione a U cancellando la volontà popolare.

Raffaele Lupoli

«Niente giochini per far finta di nulla» aveva detto Renzi dopo il voto del 2011. Infatti ha direttamente cancellato la volontà popolare

G

La Camera discute il disegno di legge di iniziativa popolare. Ma due emendamenti Pd spianano la strada

ai privati, tradendo l’esito del referendum del 2011

ACQUA, DAL REFERENDUMALLA PRIVATIZZAZIONE

LIBRO E MOSTRA

Mammacqua. Venderesti tua madre? è il titolo del graphic novel di Paco Desiato (Round Robin editrice) ispirato alla storia della gestione pubblica del servizio idrico a Napoli. Dal 22 marzo al 2 maggio le tavole sono in mostra al Loft del PAN, in via dei Mille 60, come evento “off” del Napoli Comi-con: www.comicon.it.

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e non c’e un calo della disoc-cupazione, non mi ricandide-rò». A poco più di un anno delle prossime elezioni presidenziali, François Hollande ha ribadito il

suo impegno a non proporsi per il secondo man-dato se non dovesse riuscire a “invertire la curva” del lavoro. Ma la disoccupazione in Francia non fa registrare cali significativi e resta sopra i 10% della popolazione attiva (circa 3,8 milioni di per-sone), malgrado decontribuzioni alle imprese e stimoli ad assumere. Così, il capo dello Stato ha deciso di sfoderare una riforma del mercato del lavoro esplosiva. Il testo, che prende il nome della ministra del lavoro Myriam El Khomri, definisce in modo più preciso i criteri della ‘difficoltà eco-nomica’ che giustifica le ristrutturazioni aziendali e la possibilità di licenziare per motivi economici, stabilisce un tetto per i risarcimenti in caso di li-cenziamenti “abusivi”, maggiore flessibilità per le imprese che potranno aumentare l’orario di lavo-ro per periodi eccezionali (di fatto una revisione delle 35 ore) e la contrattazione interna all’im-presa (e non più per settore) sulla remunerazione dello straordinario.Da quando è stato presentato il progetto di legge, all’inizio dell’anno, i sindacati sono sul piede di guerra, appoggiati dagli studenti. Il 9 marzo più di duecentomilla persone sono scese in piazza, 30.000 nella sola Parigi, per protestare contro le nuove norme proposte dal governo. Numerosi parlamentari di sinistra manifestano la loro totale opposizione a «una riforma neoliberista che rical-

ca le rivendicazione del Medef», la confindustria transalpina. «Trop c’est trop!» si è sfogata in una tribuna al veleno con altri esponenti della sinistra su Le Monde Martine Aubry, ex ministro del La-voro e ispiratrice, nel 1998, della legge sui 35 ore settimanali. «È tutta la costruzione dei rapporti sociali del nostro Paese che viene abbattuta rove-sciando la gerarchia delle norme (…). Noi, la sini-stra, diciamo no (…). Cosa rimarrà degli ideali del socialismo quando saranno stati silurati, giorno dopo giorno, i suoi principi e i suoi fondamenti?».Eppure, negli ultimi mesi, il governo aveva prepa-rato il terreno con il rapporto Badinter, dal nome del guardasigilli di François Mitterrand, icona del-la sinistra dei diritti, protagonista della battaglia per abolire la pena di morte nel 1981. Il testo mes-so a punto da Robert Badinter doveva servire da preambolo alla riforma, 61 articoli per condensare l’attuale e voluminoso codice che regola i rappor-ti di lavoro salvando alcuni principi cardine ma aprendo alle modifiche necessarie. Il testo, che ha riscosso abbastanza consensi, ribadiva l’im-portanza degli accordi collettivi, assicurava che “il contratto a tempo indeterminato è la norma”, riaffermava la necessità di un “salario minimo”, di una legge per la “durata normale” dell’orario di lavoro (aprendo a integrazioni salariali quandi si lavora di più) e infine confermava la libertà dei di-pendenti a “manifestare le loro convinzioni, com-prese quelle religiose”. Tuttavia, sotto la spinta del primo ministro Manuel Valls (che rappresenta l’ala liberale del partito socialista) e dal giovane e popolare ministro dell’Economia Emmanuel Ma-

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Scioperi sindacali, manifestazioni di studenti. La socialista Aubry, che inventò le 35 ore, non ci sta. Ma l’ala liberista del governo, il premier Valls e il ministro del Tesoro Macron, vanno avanti

di Eric Jozsef

IL JOBS ACT DI HOLLANDEQUANDO RENZI FA SCUOLA

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cron, il progetto messo a punto dal governo usa il testo di Badinter solo come architrave “minima” della futura legislazione, consentendo ogni sorta di eccezione. Al punto che uno dei collaboratori dell’ex guardasigilli Badinter, Antoine Lyon-Caen, ha duramente criticato il progetto di legge, pun-tando l’indice in particolare contro l’articolo che prevede un tetto di 15 mensilità per il risarcimen-to in caso di licenziamento (“ingiusto”) e quello che permetterà alle multinazionali di effettuare licenziamenti economici sulla base dello stato di crisi della filiale francese e non in considerazione alla salute globale del gruppo («Le grande imprese potranno approfittarne» dice Lyon-Caen).Poi c’è il metodo usato dal governo, che ha sor-preso e provocato la collera delle organizzazioni sindacali. Il presidente Hollande e il primo mi-nistro Valls hanno tentato di imporre la riforma senza consultazioni preliminari. «Un suicidio» commentano alcuni deputati della maggioranza. Criticano il metodo usato dal governo pure nu-merosi sostenitori del testo, i quali difendono il sistema della flexisecurity e ricordano come oggi un 85% dei lavoratori abbia un contratto a tempo inderminato, ma che ben il 90% dei giovani lavori con contratti a tempo determinato.In seguito alla mobilitazione sociale, il governo Valls ha fatto parzialmente marcia indietro. Lu-nedi 14 marzo, ha convocato le organizzazioni

sindacali e rivisto alcune misure. In particolare quella che riguarda il tetto alle indennità in caso di licenziamento, che sarà solo “indicativo” e l’o-rario di lavoro per gli apprendisti.Resta da capire quali saranno gli effetti politici di questa mobilitazione sociale. Il governo è risuci-to a dividere il fronte delle opposizioni. Il sinda-cato riformista Cfdt (la Cisl francese) si è detto soddisfato del nuovo testo, che rappresenta un «progresso per i giovani e i dipendenti». Anche l’organizzazione studentesca Fage ha rinunciato a manifestare contro la legge El Khomri, mentre restano sulle barricate l’Unef (il sindacato mag-gioritario nell’università) e la Cgt (la Cgil d’Ol-tralpe). Pure il sindacato Force Ouvrière chiede il ritiro del testo. Per motivi opposti, invece, il

Medef si è dichiarato “deluso” dei passi indietro dell’esecutivo. Ora François Hollande spera che le modifiche siano sufficenti a placare i malu-mori nella sua sua maggioranza e che il nuovo testo sia approvato senza troppe sofferenze dal Parlamento. Questo permetterebbe al Capo dello Stato di presentarsi in Europa con una riforma del mercato del lavoro sul modello di quelle re-alizzate da Gherard Schroeder in Germania e di Matteo Renzi in Italia. E di tornare davanti agli elettori come il presidente delle “riforme”. Hol-lande rischia tuttavia di perdere definitivamente il sostegno di una fetta della sinistra, già scon-certata per la sua proposta sulla decadenza della nazionalità francese per i terroristi con doppia nazionalità e per la politica economica in favo-re delle imprese intrapresa negli ultimi tre anni. Per molti dei suoi vecchi sostenitori François Hollande ha tradito le promesse del 2012, quan-do in campagna elettorale faceva della finanza internazionale il suo “nemico” e parlava di tas-sare al 75% i redditi più alti. Il prossimo appun-tamento è fissato al 31 marzo. Per questa data, le organizzazione sindacali e studentesche che si oppongono al nuovo testo hanno proclamato una giornata di sciopero e di mobilitazione. A un anno delle presidenziali, si affronteranno le due anime della sinistra francese che il premier Ma-nuel Valls definisce «irriconciliabili».

Eppure il preambolo del codice del lavoro era stato scritto da Robert Badinter, ex guardasigilli di Mitterrand e icona della sinistra dei diritti. Poi il governo l’ha svuotato

In queste pagine, proteste di sinda-cati e studenti, il 9 marzo scorso, contro le nuove norme sul lavoro proposte da Hol-lande e Valls

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a piazza era gremita e festante. Il miracolo si era avverato: Ada Colau, attivista sociale ed ex occupante di case, diventava la nuo-va sindaca. «Non lasciatemi sola. Il futuro di Barcellona è nelle vostre mani», sono

state le sue prime parole. Dai movimenti alle istituzioni. Era il 13 giugno 2015, e il giorno suc-cessivo Colau bloccava da primo cittadino uno sfratto, opponendo resistenza passiva alle forze dell’ordine.Dopo otto mesi la ritroviamo nei quartieri più

poveri della città, nelle assemblee territoriali, per ascoltare le richieste e confrontarsi direttamente coi cittadini. Un rapporto costante con le perso-ne: «Mi interessa unire la gente, l’importante è condividere obiettivi e metodi per raggiungerli», va ripetendo Colau, da un barrio all’altro. De-mocrazia, trasparenza e diritti sono i pilastri del cambiamento coi quali ha vinto le elezioni ammi-nistrative con la sua Barcelona en Comú, una lista civica nata dal basso e sostenuta da movimenti e partiti come Podemos, Iniciativa por Catalunya,

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In una città strozzata dai vincoli di bilancio e senza maggioranzain consiglio, il sindaco ex leader dei movimenti per la casa

si batte tra occupazioni e governo

di Giacomo Russo Spena - da Barcellona

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arancione dei sindaci Doria, Pisapia, Zedda e De Magistris. Avevano entusiasmato anche qui: ora, in realtà, i contatti restano soltanto con il primo cittadino di Napoli.La stessa Colau, 42 anni, sposata con l’economi-sta Adrià Alemany e madre di un figlio di 5 anni, si è formata da noi: una breve parentesi Erasmus a Milano. Con il movimento No Global ha iniziato la sua militanza a tempo pieno e, dopo il G8 di Genova 2001, si è fatta promotrice a Barcellona dei primi cortei pacifisti contro le guerre preven-tive di Bush. Quel popolo arcobaleno che il New York Times etichettò nel 2003 come la seconda superpotenza al mondo, dopo gli Usa. È fronteg-giando il dramma abitativo e con la nascita della “Plataforma de Afectados por la Hipoteca” (Pah, Piattaforma delle vittime dei mutui) che diventa una leader di movimento conosciuta tanto da essere considerata dalle istituzioni “un soggetto pericoloso”.Alle elezioni del 2015 l’occasione per unire le re-altà sociali della città: associazioni, comitati, reti territoriali e singoli cittadini. In tale processo, aperto, i partiti assumono un ruolo secondario: su 11 eletti in consiglio 6 provengono dalla socie-tà civile, 5 dai partiti. Innegabile è il ruolo decisi-vo di Colau. La pasionaria degli ultimi. La donna che da anni si batte per la democrazia e i diritti sociali. Il valore aggiunto. Qualcuno già ipotizza

EUiA, Procés Constituent ed Equo. Non un’opera-zione politicista né una mera sommatoria ma una “convergenza tra diversi”, un processo costruito orizzontalmente secondo il criterio una testa un voto. Un’intuizione che parte da lontano, partori-ta già nella primavera del 2014 da alcuni attivisti sociali e pensatori. Tra questi il politologo Joan Subirats: «In Spagna c’è stato un grande ciclo di mobilitazione che ha modificato lo scenario del Paese - afferma lo studioso - Barcelona en Comú non sarebbe esistita senza il 15M perché ha a che vedere con un cambiamento della coscienza poli-tica e della mentalità, soprattutto con un fenome-no di politicizzazione della società. Nel biennio 2011-2013 gli Indignados sono riusciti a identifi-care la natura del problema in Pp e Psoe i quali, pur differendo su alcune questioni valoriali, negli anni hanno applicato le medesime politiche di austerity e i criteri imposti dall’Europa».Così cresce la grande rabbia, quel “non ci rappre-sentano” che porterà a chiedere democrazia reale e la rottura dello storico bipartitismo iberico. Bar-celona en Comú intravede lo spazio politico e si pone il problema del governo, da subito. «Fin dal primo incontro - ci ricorda Subirats - ci siamo dati l’obiettivo di vincere, non ci interessava l’ennesi-mo partito di sinistra del 6-7 per cento ma pren-dere il potere a Barcellona. Bisognava occuparsi delle istituzioni e recuperarle per metterle al ser-vizio della gente e aggiornare il sistema democra-tico». La divisione non è più tra destra e sinistra ma tra basso contro alto. Un progetto ambizioso.

E nuovo. Una campagna elettorale travolgente che ha visto la partecipazione di migliaia di perso-ne. Un programma scritto nelle piazze attraverso affollate assemblee nei quartieri e l’utilizzo della Rete. Vera esperienza di tecno-politica. E senza alcun grande finanziatore alle spalle, né le tanto odiate banche: trasparenza e crowdfunding. Una proposta radicale, a leggere il programma.L’Italia era vista come un modello. Il nome Bar-celona en Comú è figlio del movimento refe-rendario per l’acqua pubblica che ha sancito il trionfo del comune come categoria per spezzare la dicotomia privato/pubblico. E poi l’esperienza

La stessa Ada Colau, come Iglesias, deve molto all’Italia nella sua formazione politica, tra No Global e G8.

Della rete creata coi sindaci arancioni, però, rimane solo de Magistris. E il nostro Paese ha molto da imparare

In apertura, una veduta di Barcellona, dove Ada Colau è sindaco. A destra, il leader di Podemos

Pablo Iglesias al suo esordio in Parlamento

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per lei un futuro come leader nazionale.L’analisi elettorale evidenzia come BeC ottenga un “voto di classe”, ovvero vette di consenso alte soprattutto nei quartieri abbandonati e degradati di Barcellona. Adesso le prime difficoltà, un conto è l’opposizione di piazza un altro governare una città stritolata dai vincoli imposti dall’Unione Eu-ropea. Cosa ancor più difficile quando si gover-na in minoranza: BeC ha 11 consiglieri su 41, e la maggioranza in Consiglio è di 21.

Non mancano le prime difficoltà con Colau che, qualche settimana fa, ha dovuto fronteggiare un tumulto, lo sciopero degli impiegati del servizio pubblico. Il programma è in effetti impegnativo. «I movimenti sociali devono rimanere autonomi e credo che il conflitto sia il perno di una demo-crazia», sentenzia Colau: «Bisogna essere ambi-ziosi e utopici per realizzare il cambiamento, è necessario avere ideali per riuscire a fare il mas-simo possibile». Barcellona en Comú, un’espe-rienza che in Italia si studia e ammira, a sinistra. E pensare che una volta erano gli spagnoli che guardavano noi.

«Non ci interessava l’ennesimo partitino del 6 per cento», ci dice il politologo Subirats: «Ci siamo dati l’obiettivo di vincere, forti del ciclo di mobilitazione che tra il 2011e il 2013 ha cambiato il Paese»

na partita a scacchi. Vietato sbagliare. E Podemos - che del pragmatismo e della strategia politica ha fatto i suoi perni - è

alle strette. Svendere il programma elettorale o assumersi la responsabilità dell’ingovernabilità? Di fronte a tale dubbio, il leader Pablo Iglesias ha optato per la seconda dicendo “no” all’alleanza con Psoe e Ciudadanos e rilanciando per un go-verno delle sinistre simile a quello portoghese.La narrazione mediatica è brutale. El Pais, gior-nale progressista, attacca quotidianamente Po-demos. Sono passati tre mesi dalle elezioni e la Spagna non ha ancora un esecutivo. Regna l’incertezza. Dopo il fallimento del popolare Mariano Rajoy, il Re ha dato mandato al socia-lista Pedro Sanchez che forte dell’accordo con i centristi/liberisti di Ciudadanos ha proposto a Podemos un governo frontista contro il Pp. Iglesias sarebbe reo di aver rifiutato non volen-do svendere il proprio programma elettorale e quel desiderio di cambiamento. Proprio il “no” a Sanchez è ora al centro della bufera e un son-daggio rileva come l’83% degli elettori ritiene che nessun candidato abbia i voti sufficienti per formare un governo “perché i vari leader pre-diligono gli interessi personali al benessere del Paese”. Sanchez ha tempo fino al 2 maggio per trovare i numeri, ha incontrato anche gli indi-pendentisti catalani, ma difficilmente ce la farà. O un governo tecnico o il ritorno al voto, queste sembrano le ipotesi più gettonate. E Podemos rischia di perdere consensi, colpita da una cam-pagna mediatica martellante e da alcuni scontri interni sul nodo delle alleanze regionali e delle strategie future.

Senza esecutivo da tre mesi, la Spagna è bloccata. E ora il dito

è puntato contro Iglesias

PODEMOS DI LOTTA O DI GOVERNO?

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fotoreportage di Stefano Bertolino

IDOMENI AI CONFINI DELL’UMANITÀ

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rontiere chiuse. Rotta balcanica cancel-lata. Attraversare il fiume Suva Reka, e tentare di raggiungere la sponda mace-done a bracciate, è l’ultima speranza. Ul-tima e irrinunciabile. Al punto da perder-

ci la vita, è successo già a tre persone, di lasciare la vita dentro quel fiume.Sulla sponda macedone, la tanto agognata Euro-pa: «Non venite in Europa, non date retta ai con-trabbandieri, non rischiate vita e soldi. La Grecia o qualsiasi altro Stato europeo non saranno più Paesi di transito», ha twittato il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk. Sulla sponda greca «il volto umano dell’Europa, che accoglie rifugiati e migranti, nonostante la crisi econo-mica, mentre altri Paesi erigono recinzioni», ha rivendicato il premier ellenico Alexis Tsipras.In mezzo, almeno 15mila persone stipate nel cam-po profughi di Idomeni. Nella piccola cittadina al

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Viaggio nel campo profughi più affollato di Grecia. Dove 15mila migranti sono bloccati alle frontiere dopo la chiusura della rotta balcanica

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confine con la Macedonia è rimasto bloccato chi è partito dalla Siria alla volta del Nord Europa, e si è visto erigere davanti un muro. Da settimane si susseguono immagini girate tavanti a una bar-riera di metallo. E ogni volta sono più incredibili, e ogni volta l’indignazione è maggiore. Nel fango, che non accenna a sparire anche quando spun-ta il sole, qualcuno lì trova il tempo e il modo di suonare un pianoforte: l’artista cinese Ai Weiwei

ne ha portato uno facendolo suonare agli ospiti del campo. Poi, c’è chi si stende sui binari per protestare, per chiedere a Grecia e Macedonia di riapri-re le frontiere. “Free passage” si legge in ogni lingua e su in-numerevoli cartelli. Mentre il quotidiano riesce a insinuar-si persino in questa orrenda tendopoli. E i giornali greci

titolano “La vita vince sul fango”, dopo che un ne-onato è venuto al mondo senza alcuna assistenza ed è stato lavato con una bottiglietta d’acqua.La Grecia accoglie. Le autorità greche offrono si-stemazioni in centri di accoglienza e provano a convincere i profughi a lasciare Idomeni. Ma loro, i profughi, hanno patito troppo per arrendersi. Vogliono proseguire, raggiungere il Nord Europa. Sanno che Idomeni è il passaggio obbligato per farlo. Iracheni, afgani, pakistani. E siriani, soprat-tutto donne con figli al seguito (il 60%), rimaste

La Grecia accoglie, offre ospitalità. I

profughi non accettano, vogliono proseguire

verso il Nord. E «Atene non userà la forza» per costringerli, ha detto il viceministro greco alla Difesa, Dimitris Vitsas

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sole dopo che i mariti sono morti o hanno deciso di combattere nelle città assediate. Non inten-dono fermarsi né tornare indietro. E «Atene non userà la forza» per costringerli, ha detto il vice mi-nistro greco alla Difesa, Dimitris Vitsas. Intanto, si fanno i conti. I migranti bloccati in Grecia sono «47mila e ci vorranno almeno due anni per ricollocarli», fa sapere Vitsas. E poi ci sono i soldi: 700 milioni di euro annunciati dall’Ue per consentire alla Grecia di affrontare le crisi umanitarie (tramite lo Strumento euro-peo di assistenza per l’emergenza) e tre miliardi alla Turchia, che s’offre ben volentieri nel ruolo della vedetta e del secondino. Anzi, Erdogan bat-te cassa - «l’Ue deve ancora darci i tre miliardi di euro promessi quattro mesi fa» - e alza il tiro: vuole altri tre miliardi, un accesso più veloce ai visti Schengen per i cittadini turchi e l’acce-lerazione del processo per la sua richiesta di adesione all’Ue. Tutti a fare i conti, insomma. A fare i conti senza l’oste, senza nemmeno uno dei 15mila osti di Idomeni.

Tiziana Barillà

In apertura, un bambino siriano raccoglie rami e foglie secche da bruciare arrampi-cato a un albero tra le reti di filo spinato che dividono Grecia e Macedonia. Nelle lunghe giornate fatte d’attesa, la vita scorre lenta al campo di Idomeni e così (a sinistra) un giovane ragazzo risponde ai messaggi sul telefono davanti a un braciere, un gruppo di anziani iracheni controlla i timbri sul passaporto, mentre un bambino sotto la pioggia battente guarda il pranzo sul fuoco. In basso, un camion carico di legna viene assaltato da centinaia di migranti che cercano di procurarsi qualcosa con cui scaldarsi nella fredda notte di Idomeni

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confitta dagli accordi tra Washington, Mosca e Teheran, l’Arabia Saudita di re Salman e del giovane principe Moham-med bin Nayef, fresco di Legione d’Ono-re, ben meritata per i 12 miliardi di euro

di contratti concessi alla Francia nel 2015, prova a trascinare il Libano nella tempesta.La Lega Araba, sollecitata da Riad, ha infatti de-finito il gruppo sciita libanese Hezbollah, rap-presentato in Parlamento, “un’organizzazione terroristica”. Libano e Iraq si sono astenuti, espri-mendo “riserve”, ma dieci giorni fa Hezbollah - che in Siria combatte al fianco del presidente Bashar Assad - è finito nella lista nera dei gruppi terroristi del Consiglio di Cooperazione del Gol-fo. In precedenza l’Arabia Saudita, per esercitare pressioni, aveva tagliato 4 miliardi di dollari di aiuti a Beirut per le sue forze di sicurezza. Oltre al ritiro degli aiuti, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti, insieme all’espulsione di di-versi cittadini libanesi, hanno diramato un avviso ai viaggiatori diretti in Libano facendo capire che potrebbero essere approvate ulteriori penalizza-zioni finanziarie.Dopo avere incendiato la Siria e l’Iraq, con l’ap-

poggio a jihadisti e salafiti, e devastato lo Yemen, senza per altro riuscire a occuparlo, inferociti per l’accordo sul nucleare con l’Iran che ha sollevato Teheran da gran parte delle sanzioni, incapaci di vincere qualunque guerra e impegnati anche in quella del petrolio, i sauditi e la solita compagnia di giro delle monarchie del Golfo si preparano dunque a destabilizzare il Libano. Il Paese dei Ce-dri - con una popolazione di 4,3 milioni - ospita un milione di profughi siriani, non riesce a eleg-gere un presidente e vive in un perenne stato di tensione, mentre è risorta nelle piazze la protesta dei cittadini che aderiscono al movimento “Voi Puzzate”, nato dalla crisi dei rifiuti e diventato una forma di contestazione della corruzione po-litica. E, tanto per far capire l’aria che tira, l’Isis ha diffuso un filmato i cui si minacciano i cristiani libanesi e il movimento sciita Hezbollah guidato da Hassan Nasrallah. Travolto negli anni Ottanta da una lunga guerra civile, il Libano rischia ancora una volta di essere invischiato nella lotta per l’egemonia regionale: nei piani di re Salman una grave instabilità a Bei-rut renderebbe più fragili le intese tra americani e russi in Siria che non prevedono di abbattere con la forza Assad, il nemico dei sauditi. Il presidente americano Barack Obama, dopo avere larvatamente criticato i sauditi, non si muo-ve perché Hezbollah è nemico di Israele, l’Euro-pa fa finta che non succeda nulla perché non ha niente da obiettare ed è troppo occupata a con-trattare miliardi e visti con la Turchia di Erdogan per fargli tenere 2,5 milioni di rifugiati siriani. Che cosa dovrebbero dire allora i libanesi, in preda a un forte disagio sociale ed economico? Dopo la libanizzazione della Siria forse avremo anche un Libano alla siriana.

Alberto Negri

Il Paese dei Cedri, con una popolazione di 4,3 milioni, ospita un milione di profughi siriani. Non riesce a eleggere un presidente e vive in un perenne stato di tensione

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Barhrain, Emirati e Arabia Saudita definiscono terrorista Hezbollah, Beirut è sempre più instabile.Cosa che non piace affatto a russi e americani

LIBANO ALLA SIRIANA VERSO LA GUERRA CIVILE

Beirut, 12 marzo. Manifestazione del movimento

“Voi Puzzate”, nato contro la crisi dei rifiuti ed estesosi alla protesta contro la corruzione

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Quando si sente parlare di Edgar Degas è quasi impossibile non pensare alle balle-rine protagoniste dei suoi quadri, eppure l’artista francese nascondeva anche un lato più inquieto e sperimentale che si svela soprattutto nei suoi lavori come incisore. Per celebrare questa seconda natura del pittore impressionista, dal 26 marzo al 24 luglio, il Moma di New York ha allestito la mostra “Edgar Degas: A strange New Beauty” che

ospiterà circa 120 rari monotipi realizzati dall’artista. A questi saranno affiancati dipinti, disegni, pastelli, bozzetti, e prove di stampa capaci di mostrano l’anima più mo-derna e urbana di Degas. Affascinato dalla stampa monotipo e dalle sue potenzialità, Edgar inizia a sfruttare, con enorme entusia-smo, questo nuovo mezzo attorno agli anni 70 del 1800. Crea superfici che sviluppino un maggiore senso tattile, gioca con i materiali,

dà vita a soggetti nuovi e contemporanei e rivisita quelli che preferisce: dalle ballerine che danzano illuminate dalla luce elettrica a donne ritratte in ambienti intimi e fami-liari, mentre si pettinano o fanno il bagno. Soprattutto, inventa quella strana nuova bellezza che possiamo definire con le stesse parole con cui un altro grande impressioni-sta, Camille Pissarro, definì Degas: «Terribile, ma franca e leale». g.f.

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Dalle visioni aree di Pynchon che raccontano la città come un circuito di radio e transitor alla scrittura labirintica di Foster Wallace che imita la dissipazione urbana. Ecco come la letteratura racconta le polis di oggi

di Filippo La Porta

Effettometropolii cosa parliamo quando parliamo di cit-

tà? Per un personaggio del romanzo di Thomas Pynchon L’incanto del lotto 39, che nel 1966 anticipò Internet, la metropoli vista dall’alto era come il circuito stampato di una radio a transistor, un insieme di geroglifici che però nasconde una intenzione di comunicare. Ora, questa intenzione

comunicativa è sempre presente nella forma stessa di una metropoli, anche se

non sempre visibile. Chi saprà decifrarla? Il punto è che la città contemporanea - dove

vive oltre la metà della popolazione mondiale - ci appare informe, policentrica, liquida. Sem-bra non avere confini precisi né una fisionomia ben definita. Si sottrae a ogni descrizione. In che modo si può averne una mappa attendibi-le, o anche minimamente adeguata per riusci-re a governarla? Credo che la letteratura possa rappresentarla meglio delle scienze sociali, e della stessa politica. Non mi riferisco solo al territorio, alla geografia urbana, ma anche ai nuovi soggetti sociali (alle loro carte di diritti e

doveri), alle nuove forme di conflitto e ai nuo-vi bisogni, alle problematiche di questo terzo millennio. Tentiamo allora una ricognizione su romanzi recenti per capire se davvero ci offrono una interpretazione soddisfacente, se ci aiutano a trovare una «qualche idea comune del vivere in città» (Enzo Scandurra). C’è chi tenta di ripro-durre - temerariamente - nella forma stessa, nella struttura narrativa, l’implosione e disper-sione della città attuale: penso ai romanzi labi-rintici e frammentari, ipernarrativi e pletorici, di Bolano e Forster Wallace: il loro è lo stile del mondo, carico di energia e incline alla dissipa-zione. In Italia per il momento siamo refrattari a esperimenti letterari del genere, a parte forse la monumentale trilogia di Moresco. Eppure di descrizioni, precise e visionarie, del nuovo pa-esaggio urbano, ne troviamo molte all’interno della nostra narrativa recente (ricordo che le nostre città sono già state rappresentate dalla letteratura italiana nel corso dei secoli, spesso attraverso pagine memorabili, almeno a partire dalla Divina Commedia che, come sottolineò Gianfranco Contini ci offre un repertorio straor-

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dinario di luoghi e città del nostro paese). Cito solo, un po’ alla rinfusa: la Roma di Abbate, Lat-tanzi, Petrignani e Giagni, la Milano di Doninelli e Baresani, la Genova di Campo e Morchio (au-tore di noir), la Napoli di Parrella e Montesano (in arrivo con un romanzo fluviale), la Palermo di Alaimo e Calaciura, la Bari di La Gioia, la Trie-ste di Covacich, la Torino di Culicchia, la Cagliari di Agus e Todde, la Potenza di Cappelli, la Bolo-gna di Lucarelli e Fois… Ci raccontano anonimi non-luoghi e preziosi centri storici, outlet peri-ferici e monumenti artistici, quartieri-enclaves e territori controllati dalla criminalità, migrazioni e ipermercati. La città contemporanea, a volte espansa in megalopoli, si riafferma - con feli-ce ambiguità - come spazio di emancipazione e di omologazione, come terra di promesse e come luogo di nuove esclusioni. Ma proviamo ora a interrogarci sulla natura stessa della civiltà metropolitana, attraverso due grandi figure di intellettuali.E se il destino della metropoli fosse la necro-poli ? Il nesso tra metropoli e distruzione non è solo un capriccio apocalittico ma viene pun-tualmente descritto in un romanzo di Winfri-

ed G. Sebald, uno scrittore tedesco scomparso nel 2001, Austerlitz (in cui inserisce - cosa che avviene per la prima volta dentro un romanzo - piccole foto in bianco e nero). Proprio Jacques Austerlitz, personaggio principale e professore di architettura studioso di forme urbane (so-pravvissuto in realtà ai campi di concentra-mento e ora smemorato), spiega all’io narrante che gli «edifici sovradimensionati gettano già

in anticipo l’ombra della loro distruzione e fin dall’inizio sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine». Dunque: la metro-poli è inconsciamente progettata per diventa-re una testimonianza del passato, un cumulo di macerie. Questa sembra essere anche l’o-pinione di un sociologo molto importante per la storia dell’urbanistica Lewis Mumford (si

LIBRI COME

L’edizione 2016 della rassegna “Libri come” ideata da Marino Sini-baldi direttore di Radio3 è dedicata al tema della città, di cui dal 18 al 20 marzo all’Auditorium di Roma parleranno grandi autori: da Coe a Cercas, da Chigozie Obioma a Suad Amiry. Tanti anche gli intel-lettuali che collegano ricerca e impegno, da Crainz (che ha appena pubblicato Storia della Repubblica, Donzelli) al giurista Rodotà, Diritto d’amore (Laterza). E ancora Catozzella sulle città in guerra. La New York di Brendan Behan, (66thand2nd) e la Roma di Pino Corrias, Dormiremo da vecchi, (Chiarelettere). Sguar-di sulle metropoli in chiave noir con Olivier Durand, La ribellione del manoscritto (L’Asino d’oro) e poi l’irresisti-bile Giordano Tedoldi di Io odio John Updike, (minimum fax). E il reading/spettacolo di Antonio Pascale da Le aggravanti sentimentali, Einudi. Ma da non per-dere anche Benedetta Craveri, Gli ultimi liber-tini, Adelphi. e Amedeo Lamattina, con il suo intenso romanzo d’esor-dio L’incantesimo della civetta, (edizioni e/o). Il programma completo su www.auditorium.com

La metropoli è inconsciamente progettata per diventare la testimonianza del passato. Era questo il pensiero di un urbanista come Lewis Mumford, autore de Le città nella storia

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vedano soprattutto La città nella storia,1977, scritto nel 1961 e ripubblicato di recente da Castelvecchi, e La cultura delle città del 1935 e pubblicato da Einaudi), il quale ricorda la distruzione quasi totale di Varsavia nel 1939 e poi del centro di Rotterdam nel 1940, e più in là durante la guerra, gli esempi di Londra, Tokyo, Amburgo, Hiroshima, con la trasfor-mazione di intere città in campi di sterminio. Inoltre quello che Mumford chiama «regime metropolitano»(ovvero un progresso tecnolo-gico non corretto da finalità umane) minaccia nel momento in cui scrive, all’inizio degli anni 60, la eliminazione della specie umana attra-verso la guerra nucleare. Mumford sottolinea la continua espansione della metropoli nell’in-forme conurbazione megapolitana, sulla spinta della tecnologia e del profitto: «ogni metropoli finirà per fondersi fisicamente con la più vicina, sacrificando in questa fusione quel paesaggio circostante che le serviva a fini di educazione e di svago, insieme con gli ultimi residui della sua individualità urbana». Questa implosione della civiltà metropolitana deriverebbe dalla sua duplice origine, dall’ambivalenza dei suoi

n picaro assurdo, un ciarlatano, un imbroglione pa-tentato» sempre pronto a schierarsi con il potere e genuflettersi. Così, scrivendo, appariva sempre più

a Javier Cercas il protagonista del suo L’impostore, Enric Marco (Guanda 2015, traduz. di Bruno Arpaia) scoprendo che, in barba alle sue dichiarazioni pubbliche e ai suoi discorsi sentimentali, non fu mai deportato e men che meno approdò a Flossenbürg dove pretendeva di essere stato internato. L’impostore è l’op-posto di Adolfo Suárez , che in Anatomia di un istante si rifiu-tò di buttarsi a terra quando i golpisti nel 1981 fecero irruzione nel Parlamento sparando. Impossibile non stare dalla parte di Suàrez, tanto quanto dà l’orticaria un personaggio come Eric Marco, che cerca di salvarsi dall’orrore inventandosi un sé eroi-co che non esiste. Proprio per questo dice Cercas - che sarà il 20 marzo a Libri Come - è stato il suo personaggio più difficile. Perché rappresenta «un punto cieco». Affrontare un personag-gio così respingente e che non è nemmeno un eroe negativo è stato un tale cimento che ne è nato un libro di riflessione teori-ca, intitolato proprio Il punto cieco (Guanda, 2016). In cui Cer-cas mette a confronto Eric Marco con Don Chisciotte, con Moby Dick di Melville, con lo scrivano Bartleby e Wakefield di How-thorne mostrando come siano anch’essi dei punti ciechi degli «enigmi irresolubili», delle «estreme contraddizioni ambulanti, «ironie viventi» «senza fondo». Ma non per questo personaggi letterari meno riusciti. Come se proprio la loro ambiguità per-mettesse al lettore di penetrare in quel pertugio, per addentrar-si a fondo e senza paura, «come uno speleologo, in territori che soltanto il romanzo e il racconto possono esplorare». s.m.

La sfida di Cercasal punto cieco

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fini: l’espansione della città infatti risponde sia all’esigenza di dare sicurezza, di costruire una democrazia egualitaria in cui ogni membro svolga le funzioni che gli sono proprie e sia dal desiderio aggressivo di dominare le altre città. Ma cosa contrapporre metropoli virtualmente programmata per la desertificazione? Tornia-mo alla immagine iniziale, presa da Thomas Pynchon. La città contemporanea non ci in-via solo il messaggio necrofilo della propria distruzione. Pos-siamo contrapporre una me-tropoli che invece di chiedere la propria distruzione (e deser-tificazione) reclami la propria vivibilità e agibilità. L’umanesi-mo di Mumford, che ci parla di educazione, di una logica diversa dal profitto, di uguaglianza, di bisogni umani, di paesag-gio, etc. potrà apparire a qualcuno antiquato, ma è l’unico orizzonte in cui la polis oggi pos-sa ritrovare un senso per noi: solo ripartendo dall’umano può emergere dalla disgregazione un «nuovo modello di vita». E forse gli scrittori sono oggi quelli più attrezzati a raccontarlo.

La polis può ritrovare un senso per noi se tiene conto delle esigenze umane. In questo modo dalla disgregazione può emergere un nuovo modello di vita

Mondrian rappresenta New York al ritmo di jazz e boogie-boogie

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Il nuovo romanzo di Jonathan Coe racconta l’assassinio delle speranze politiche della generazione che ha creduto alle bugie di Tony Blair.

Lo scrittore inglese ne parla il 19 marzo a Roma, ospite di Libri Come

di Simona Maggiorelli

British Psycho

una favola nera, con toni quasi da horror, il nuo-vo romanzo di Jonathan Coe, costruito come un grande affresco di storia inglese a partire dall’in-vasione dell’Iraq del 2003, per arrivare alla crisi fi-nanziaria del 2008 e oltre. In Numero 11 (Feltrinel-li), con il piglio del miglior giallo inglese e suspense alla Psyco di Hitchcock, Coe racconta l’assassinio delle speranze politiche di una generazione di si-nistra delusa dalle politiche neoliberiste di leader laburisti come Tony Blair. I contorni storici del romanzo sono precisi, così come il racconto del declassamento della middle class e della miseria nera con cui si trovano a combattere disoccupati, bibliotecari finiti sulla strada per la chiusura dei presidi di quartiere e artisti costretti a riciclarsi nei reality show. L’ironia corrosiva è quella del miglior Jonathan Coe, ma - ecco la novità - la narrazione vira al fantastico, con accenti da realismo magico e perfino da letteratura gotica, con case nel bosco che sembrano quelle dei fratelli Grimm, sentieri che non portano da nessuna parte e improvvisi voli di uccelli rapaci. C’è molto Dickens in Nume-ro 11, ma anche lo slancio socialista e utopico di H.G.Wells. Ma, soprattutto, c’è lo sguardo nuovo, ingenuo, irrazionale e generoso di due bambine, Rachel ed Alison, le protagoniste, che vediamo crescere di pagina in pagina, in mezzo a vecchie conoscenze che abbiamo incontrato nei romanzi precedenti dello scrittore inglese.

Un romanzo cult come La famiglia Winshaw ha compiuto vent’anni. E in Numero 11 ritroviamo alcuni personaggi di allora. Jonathan Coe, qual è il filo rosso che lega questi due romanzi?

Non ho mai pensato di scrivere un sequel. Eppu-re, sempre di più, avendo scritto ormai molti ro-manzi, non li vedo come singoli lavori, piuttosto li sento come capitoli di una narrazione in continua evoluzione e sviluppo. La famiglia Winshaw resta per me una metafora sul potere che le élite econo-miche e di governo esercitano su tutti noi. Quan-do mi sono reso conto che in Numero 11 riemer-geva quel tema, mi sarebbe suonato strano non far riferimento alla famiglia Winshaw. Contento, però, che molti dei protagonisti fossero morti alla fine di quel romanzo. Significava una cosa ovvia: che non potevo scrivere un’altra storia che avesse quei protagonisti. Potevo solo prendere dei perso-naggi minori, il che si è rivelato per me molto più interessante.

«C’è un momento in cui una generazione ha perso la sua innocenza politica. Noi la perdem-mo con la morte di David Kelly» dice Laura, in Numero 11. «Una persona perbene era morta ed erano state le bugie costruite intorno a determi-narla». Il suicidio dello scienziato Kelly mise in luce le responsabilità di Tony Blair nella costru-zione di fittizie motivazioni per attaccare l’Iraq. Questo è un punto chiave del romanzo?È il punto di partenza, ma non è al centro della narrazione. Da molti punti di vista Numero 11 è il più paranoico dei miei romanzi, nel senso che mostra persone le cui vite sono regolate da forze misteriose e sinistre che non riescono a capire. Mi sono sentito così dalla crisi del 2008, quando diventò chiaro che i nostri risparmi non erano al sicuro nelle mani di chi, invece, avrebbe dovuto

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occuparsene. La morte di Kelly crea una certa at-mosfera, volevo indirettamente rendere l’idea che la vita politica oggi è piena di misteri che sono chiari a chi ricopre posti chiave del potere, ma che rimangono oscuri, inesplicabili, per la maggio-ranza di noi, per l’opinione pubblica in generale.

In un’intervista lei ha detto che l’elezione di Je-remy Corbyn è stata una sorpresa che segna una discontinuità nel Labour party. Il thatcherismo ha avuto un seguito con Blair e Milliband?Le classi dirigenti, in particolare le élite finanzia-rie, sono ormai così potenti che nessuno nel Re-gno Unito osa attaccarli. Certamente Tony Blair non faceva mistero dell’ammirazione che nutriva per le istituzioni finanziarie, né su quanto la poli-tica dipendesse da esse. E anche oggi, che per la prima volta in più di trent’anni abbiamo un La-bour party con un’agenda di sini-stra non apologetica verso i poteri forti, il portavoce del partito sui temi finanziari è ancora costretto ad andare in tv per spiegare quan-to lui ammira gli imprenditori della Gran Bretagna e i “creatori di ricchezza”. Mi sembra un’ironia della sorte che una delle principali conquiste della signora Thatcher, che per molti versi era una populista democratica, sia stato il controllo della vita pubblica britannica attraverso le banche.

La commedia può essere un anestetico in mo-menti politici così drammatici come quello che oggi, ha scritto. Qual è lo strumento narrativo più incisivo ed efficace?Qui in Gran Bretagna siamo molto orgogliosi della nostra tradizione di satira politica. Pensiamo che sia un modo per costringere i politici a rendere conto del loro operato e al tempo stesso per far in modo che non si prendano troppo sul serio. Cer-to, fa piacere ridere di quello che combinano, di tanto in tanto. Ma penso anche che in anni recenti siamo arrivati a sovrastimare il potere della com-media. La commedia è un modo per riconciliarci con la situazione in cui ci troviamo a vivere, non è un modo per cambiarla. La satira più potente, a mio avviso, è quella che sfida e interroga le no-stre convinzioni, invece di confermarle. La satira dovrebbe farti sentire a disagio. Perciò in questo romanzo, invece di scrivere sempre in chiave di commedia, sono ricorso a modi narrativi dell’hor-

ror, per creare questa sensazione di disagio e qualche volta addirit-tura di disgusto nel lettore.

Per finire una domanda su Lon-dra che è al centro del suo inter-vento a Libri Come il 19 marzo a Roma. Com’è cambiata durante il doppio mandato del conserva-

tore Boris Johnson?Vivo a Londra da trent’anni e non sarei qui se non l’amassi. È una città fantastica che anticipa le ten-denze piuttosto che inseguirle. Purtroppo, oggi il costo della vita in centro continua ad aumentare e questo fa sì che le persone comuni - persone che non guadagnano ingenti somme di denaro - sia-no costrette a trasferirsi altrove. Insegnanti, medi-ci, addetti alla pulizie che permettono alla città di funzionare, sono costretti ad andare a vivere nelle più remote periferie, affrontando viaggi di oltre due ore per arrivare al lavoro, mentre il centro di Londra è preda di investitori che vedono le case solo come una fonte di guadagno, non ci vivono e non sono interessati a farlo e tanto meno a con-tribuire alla vita della città. Alcune parti di Londra oggi sembrano spaventosamente vuote, come in una città fantasma, perché i proprietari non ci abitano. Il problema come accennavo è la spe-culazione. Boris Johnson è un tipo buffo ma non credo che veda qualcosa di sbagliato in questa si-tuazione. Come molti politici di destra, considera la città un terreno di conquista per sé e per i suoi, per i ricchi e per chi ha già molti privilegi.

La commedia rischia di essere un anestetico. La satira più potente è quella che ci fa sentire a disagio e che ci spinge a cercare un vero cambiamento

IN BREVE

Il numero 11 che dà il titolo al nuovo roman-zo di Jonathan Coe (Numero 11, Feltrinelli, traduz. di Maria G. Castagnone) si riferisce al numero di casa del Cancelliere, ma è anche il numero dell’autobus che fa il giro completo a Birmingham’s Circle su cui sale la protagonista perché a casa non può permettersi il riscal-damento. Musicista e scrittore, Coe è autore di romanzi politici come La famiglia Winslaw, acuta satira dell’Inghil-terra della Thatcher e poi La banda dei brocchi, Circolo chiuso e molti altri.

© Julian Martin/Epa Ansa

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A Seul AlphaGo, il computer che impara dalle esperienze, batte il campione mondiale dell’antico gioco cinese Go. Ora, la domanda che la scienza

si pone è: l’intelligenza artificiale è capace di intuizioni?

di Pietro Greco

La partita fra l’uomo e il computer

n computer, AlphaGo, ha battuto il sudcoreano Lee Se-dol, campione mon-diale di “go”, un gioco da tavola inventato in Cina 3.000 anni fa e considerato

più complesso degli scacchi. AlphaGo è un programma re-

alizzato dai tecnici informatici di DeepMind, azienda britannica che dal 2014 è controllata da Alphabet, a sua volta controllata da Google. La partita tra la macchina e l’uomo continuerà al meglio delle cinque partite. Chi vince si guadagnerà un assegno da un milione di dollaro. Google ha già dichiarato che in caso di vittoria della sua macchina, devolverà in beneficenza la vincita. Messa così, la notizia che arriva da Seul ha un vago sapore sportivo, neppure tan-to originale. Di macchine che battono l’uomo ce ne sono a iosa da sempre, an-che in quei campi, considerati cognitivi, in cui l’uomo gareggia con l’intelligenza, invece che con la sola forza dei musco-li. Fece analogo scalpore, per esempio, la vittoria conseguita nel 1997, da Deep Blue, un computer della Ibm, sul cam-pione russo di scacchi Garry Kasparov. Ma allora si trattava di una falsa gara.

Deep Blue combatteva con armi affatto diverse rispetto a quelle messe in campo da Garry Kasparov: la macchina usava i muscoli del calcolo veloce contro l’in-telligenza e l’intuizione messe in campo dall’uomo. Gli scacchi sono un gioco che può essere realizzato per via matemati-ca. Dopo una mossa dell’avversario, ba-sta calcolare tutte le risposte possibili e scegliere quella che assicura la vittoria. Si tratta di calcoli lunghi, che Deep Blue era in grado di effettuare nel breve tem-po assegnatoli dalle regole del gioco. La mente umana, che pure sa calcolare, im-piegherebbe molto più tempo a scalare questa montagna numerica. Così è co-stretta a scavare un tunnel sotto la mon-tagna di calcoli e a ricorrere alla scorcia-toia dell’intuizione. Da un punto di vista delle applicazioni può essere importante verificare chi arriva primo, ma dal punto di vista cognitivo la gara non ha senso.

Con il “go” la faccenda è diversa. Dal punto di vista del calcolo, l’antico gioco cinese si presenta come una montagna altissima, impossibile da scalare anche per un alpinista dotato di muscoli pos-senti come AlphaGo. Le combinazioni possibili dei pezzi sulla scacchiera (un

quadrato con 19x19 caselle) sono, infat-ti, 10170: 10seguito da 170 zeri. Un nume-ro impossibile persino da immaginare. Basti pensare che tutte le particelle del nostro universo ammontano “solo” a 1080: dieci seguito da 80 zeri. Morale: per vincere la partita anche AlphaGo ha do-vuto scavare dei tunnel. Proprio come Lee Se-dol. Nulla da dire sull’utilità pratica: se i computer iniziano a utilizzare anche altri strumenti, diversi dalla mera forza bruta del calcolo, tanto di guadagnato. Ma: anche se non ha scalato la monta-gna, AlphaGo ha gareggiato con le stes-se armi di Lee Se-dol?Alla Deep Mind assicurano di sì. Il pro-gramma d’intelligenza artificiale è fatto in modo che AlphaGo appenda le regole e, come un Lee Se-dol, impari a giocare la partita facendo tesoro dei suoi errori e scavando tunnel sotto la montagna dei calcoli grazie all’intuizione. Per allenasi a battere il campione sudcoreano, giu-rano i tecnici informatici di Deep Mind, AlphaGo ha giocato milioni di partite e ha appreso le tecniche migliori. Non c’è dubbio: l’AlphaGo della Google costituisce un cambiamento (qualcuno dice un progresso) rispetto al Deep Blue

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della Ibm. Ma forse qualche dubbio esi-ste sul fatto che quella capacità che nel secolo scorso il matematico francese Jacques Hadamard chiamava “illumi-nazione” e che Archimede, ventitré se-coli fa, manifestò con un’esclamazione - Eureka! - sia la medesima utilizzata da AlphaGo. Intanto perché non c’è, nelle scienze umane, una definizione chiara e univoca di “intuizione”. E, dunque, è difficile dire se i percorsi definiti intuiti-vi utilizzati dal program-ma di intelligenza arti-ficiale siano omologhi a quelli umani. La verità è che noi uomi-ni usiamo l’intuizione ma non sappiamo cosa sia. Scaviamo tunnel, ma non sappiamo (ancora?) come. Non abbiamo alcuno strumento sicuro, dunque, né per inse-gnare alle macchine a fare altrettanto, né per poter affermare che le macchine, da sole, imparino a fare altrettanto.Certo, se per intuizione dobbiamo in-tendere quella che Jacques Hadamard, in un libro molto noto, La psicologia dell’invenzione in campo matematico, chiama l’“illuminazione”, è davvero improbabile che essa sia diventata pa-

trimonio di AlphaGo. Perché il matema-tico francese esperto di psicologia della creatività sostiene che l’intuizione sia una scelta che avviene nell’inconscio, in maniera affatto diversa dall’applica-zione esplicita di regole logico-formali, e si realizza in una costruzione di ponti tra idee e suggestioni diverse, frutto non di una cultura monodisciplinare, bensì di una cultura ampia, estesa, eclettica. Se queste sono le scelte intuitive realiz-

zate dal campione umano Lee Se-dol mentre gioca, difficilmente AlphaGo ha giocato la medesima partita. Il pro-gramma non ha quella “cultura estesa” di cui parla Hadamard.

In realtà esistono altri tipi di intuizio-ne umana, che fanno capo a ipotesi diverse: quelle del “riposo” (l’intuizio-ne avviene in uno stato di freschezza mentale) e quelle della “dimenticanza” (l’intuizione avviene dimenticando tut-

È difficile dire se i percorsi “intuitivi” utilizzati dal programma di intelligenza artificiale siano omologhi a quelli umani. La verità è che noi uomini usiamo l’intuizione ma non sappiamo cosa sia

to ciò che è mera interferenza). Queste definizioni avrebbero bisogno di mag-giori specificazioni, che non sono state (ancora) fornite nella letteratura scien-tifica. Ma ove anche fossero accertate, è improbabile che siano i tipi di intuizio-ne usati da AlphaGo. A dimostrarlo un dettaglio, piccolo in apparenza: per al-lenarsi, il computer di Google ha studia-to e giocato milioni di partite. Nessun essere umano è in grado di fare altret-tanto. Insomma, AlphaGo ha utilizzato anche i muscoli di quella computazione veloce inaccessibile all’uomo. Ha, dun-que, giocato la partita con Lee usando armi diverse. Corroborando un’ipotesi cara a molti che studiano, criticamente, l’intelligenza artificiale: non c’è dubbio che le macchine stiano acquisendo for-me di intelligenza importanti, alcune delle quali consentono performance superiori a quelle dell’uomo. Ma è an-che indubbio che quasi sempre si tratta di un paniere cognitivo differente. Le intelligenze delle macchine - comprese quella di AlphaGo - sono quasi sempre intelligenze diverse da quelle umane. E, dunque, ogni paragone è un falso para-gone. Ogni partita, per quanto avvin-cente, è una falsa partita.

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Autore, polistrumentista, fonico. Dopo anni al servizio della crème della musica indipendente, Francesco Motta viene allo scoperto con La fine dei vent’anni,

primo album solista. Testi nudi e crudi, e cinismo costruttivo

di Tiziana Barillà

Il punk comincia a trent’anni

capigliato, giubbetto di pel-le, accento toscano e l’aria da punk. Francesco Motta sta benissimo e, per farcelo sa-pere, ha deciso di incidere un

disco. Dopo dieci anni in cui ha prestato il suo talento di polistrumentista alla crème della musica indipendente italiana, Motta viene allo sco-

perto con La fine dei vent’an-ni (Woodworm - Audioglobe), il

suo album di esordio da solista. Per l’occasione si è messo nelle mani di Riccardo Sinigallia, autore e produttore dai più chiamato “re mida” e che abbiamo già visto all’opera con Tiromancino, Carboni, Gazzè. Ancora qualche settimana e Motta sarà in tour, partendo da Pisa l’8 aprile, passando per il Magnolia di Milano il 20 e il Quirinetta di Roma il 28. Ma per adesso è ancora a casa, nella Capitale. Ne approfittiamo per fare quattro chiacchiere con lui. Motta, cos’è che finisce con i vent’anni?L’adolescenza. La fine dell’adolescenza negli uo-mini avviene un pochino dopo (ride). Seriamen-te, a un certo punto mi sono reso conto che nelle canzoni ci vuole qualcosa da dire. Grazie a Ric-cardo (Sinigallia, ndr) sono riuscito a capire che anch’io avevo delle cose da dire e le ho dette. E cosa credi di averci detto?

Che sto abbastanza bene (ride). Guarda che spes-so è questa la cosa più difficile da dire: che si sta bene. Nelle canzoni è molto più facile dire quanto e come si sta male, ma io spero di esserci riuscito. Che Riccardo Sinigallia ti sia stato vicino, nel di-sco, si sente eccome...Sì, è vero. Mi è stato vicino in tutto, ma è stato an-che molto rispettoso di quello che era mio, per-sino delle mie registrazioni fatte in casa. Il suo contributo è stato fondamentale, sia nei testi che nella produzione. Produrre un disco prevede an-che un certo tipo di organizzazione e un punto di vista esterno, e secondo me lui è in assoluto il migliore in Italia, come autore e come produttore. Perciò direi che è stata una magia, ci siamo vera-mente scelti. Ci siamo annusati e scelti. Lasciare più spazio ai testi ha significato un ap-proccio più pacato in fase di composizione ed esecuzione musicale?No. Io penso che siano soprattutto i testi a fare le canzoni. (Si ferma, pensa bene, e quantifica:) Per un 80 per cento, dài (dice come se tracciasse una linea per farci capire il peso)! Un accordo cambia a secondo del testo e viceversa, ma fa sempre riferi-mento al significante, alla parola. Io finora ero più avanti musicalmente, e adesso sentivo di dover superare lo scoglio testuale. Ci ho messo un bel po’… e non è stato affatto facile. È il tuo primo disco da solista, e arriva dopo 10 anni di attività intensa ma al servizio altrui. Ave-

Chi è

Pisano, 30anni. In que-sti anni abbiamo visto Francesco Motta al fianco di Nada, dietro il basso e la chitarra; in piedi, dietro la batteria dei Pan del Diavolo; ad alternarsi dietro la tastiera e la chitarra di Giovanni Truppi. O come tecnico del suo-no con i Zen Circus. Anche dietro penna e microfoni, Motta, alla testa dei Criminal Jockers che, nei primi anni Duemila, calca-vano i palchi di mezza Italia, con il loro punk.

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vi voglia di specchiarti?Sì, anzi no, di più: è stato un modo per tirare fuori lo stomaco, il cuore... Sai, lo specchio è troppo autorefe-renziale. In questi anni ho suonato tanto per e con gli altri, è vero, ma il momento catartico per me è sta-to quando non ero sotto i riflettori.

Quando ero a casa da solo o in studio. Così ho tira-to fuori me stesso. Allo specchio mi ero già visto... mi conoscevo già abbastanza. Davvero tuo padre «colleziona cose strane», come sostieni in “Mio padre era comunista”?Ti faccio la lista delle collezioni di mio padre? Prego...Collezione di ornitorinchi di peluche; di cartine delle arance; di pinocchi, di presepi in miniatura (si ferma e ride di cuore). Vabbè dai, basta così. Nello stesso pezzo parli anche di tua madre. Non ti sei fatto problemi a parlare della tua famiglia. Certo che no. E non mi son fatto problemi a dire che mia madre era bellissima! Troppo spesso i musicisti tendono a godere del fatto di non essere capiti, io c’ho un rapporto fantastico coi miei ge-nitori e lo volevo dire chiaramente. Ci ho messo mesi a trovare l’ultima frase che si ripete nel fina-le: «Quello che mi manca sei tu», che parla di mia sorella. Sì, quello è uno dei pezzi più liberatori per me, quando lo riascolto mi dico: cazzo è tutto vero quello che dico!

Il dentro e il fuori. In “Roma stasera” affronti le città, la metropoli. Da anni vivi a Roma e la rac-conti dura, quasi violenta. Quanto ha influenza-to la tua musica trasferirti nella Capitale?Tantissimo. Vivo a Roma da cinque anni e qui è tut-to molto diverso da Pisa e Livorno... che poi sono completamente diverse tra loro, eh! Per me Roma è stimolante, perché ho una sorta di malattia so-ciologica per cui ho bisogno di uscire, incontrare le persone, sempre. Sto bene insieme alle persone io (sottolinea con accento toscano), perciò vivere in una città come Roma mi piace e non mi spaventa. Poi, certo… ho una casa in campagna di cui ades-so non mi frega niente, ma potrebbe essere quello il mio prossimo obiettivo tra qualche anno... Dici di essere un animale sociale, eppure a guar-darti sembreresti un tipo piuttosto schivo, sai?Eh, lo dico perché mi piace stare in giro. Ma le cose non si escludono, mi piace anche stare da solo in casa, molto da solo (dice quasi sillabando), per pensare alla gente che ho incontrato, riflettere su cosa ho fatto. La fine dei vent’anni forse è an-che questo: scegliere un po’ di più, pensare bene a cosa hai fatto. Pensare. Ma non è che coi vent’anni è finito pure il punk?Eh no! Il punk è iniziato proprio ora (ripete due volte). Ho fatto il disco più punk che potessi fare. Il punk non sono i Ramones: è pensare una cosa e trovare il modo di dirla nel modo più liberatorio possibile. E, io, quello l’ho fatto. Ma davvero hai “scoperto” di essere un musicista dopo tre settimane di febbre? È una cosa che mi dice sempre mia madre. Suo-navo il pianoforte quando ero molto piccolo, poi ho lasciato… avevo un insegnante che mi tortu-rava con i martelletti, esercizi pallosissimi che ti fanno fare a sette anni. Per cui ho smesso per un po’. Poi ci fu quest’influenza e la mia mamma dice che è stato proprio in quel periodo che ho comin-ciato a suonare qualsiasi cosa fosse in casa. Da lì ho trovato una buona scusa per non studiare più a scuola (scherza). E adesso?E adesso “ci sono”, combatto. Mi autocito, se per-metti: come tutte le persone al mondo annuso, scelgo, mi lamento e morirò. Queste cose qui, normali... Autocitarti durante un’intervista è la cosa più punk che potessi fare. La chiuderei così, che dici?Sono d’accordo (sorride).

Riccardo Sinigallia? In assoluto il migliore in Italia, come autore

e come produttore. Direi che è stata una magia,

ci siamo veramente scelti. Ci siamo annusati e scelti

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LIBRI TEATRO

Personalissimo alfabeto

dello sciocchezzaio

La cinematografica Morte di Danton

diretta da Martone

a morte di Danton di Georg Büchner (ora ri-pubblicato da Einaudi,

ndr) è la splendida opera pri-ma di un ventiduenne, tutta nel solco di Shakespeare, per tentare di decifrare l’incendio della Rivoluzione francese. L’autore, nutrito con Amleto e Macbeth, era anche lui un ri-belle, pronto alla fuga dal suo Paese perché sentiva il fiato della polizia sul collo. Come

Smascherando luoghi comuni e idee consunte, il dizionario

di Culicchia

In scena l’aspirante martire Danton

e il fondamentalista Robespierre

di Filippo La Porta di Massimo Marino

G L

in un Ubu re tragico cala i san-guinanti discorsi del Terrore nel calco di personaggi del grande Bardo, in cerca di mo-delli che serviranno a trovare il proprio stile, pienamente maturo nell’urlo lancinante di Lenz e nella sofferenza del subordinato Woyzeck. La re-torica è quella dello scontro politico fratricida, del con-flitto tra le ragioni della virtù rivoluzionaria di Robespier-re, che nel bagno di sangue vuole creare l’uomo nuovo, e il disincanto di Danton, che arriva a credere l’essere uma-no non emendabile e sembra suggerire una via del piacere, dell’ascolto delle inclinazio-ni. C’è Saint-Just, il tribuno più radicale, che paragona, alla Leopardi, la Rivoluzione alla marcia indifferente della Natura. Ci sono le donne, che soffrono; numerosi compri-mari; e il popolo, in cerca di riscatto, pronto a farsi offu-scare dalla rabbia.Di questo grande polittico, Mario Martone, nello spet-

iuseppe Culicchia ri-legge e attualizza i Bouvard e Pecuchet

flaubertiani con giocosa intelligenza: Mi sono perso in un luogo comune. Dizio-nario della nostra stupidità (Einaudi). Tic della lingua e del pensiero, cliché, vezzi stilistici, frasi fatte che testi-moniano una appartenenza.Limitiamoci alle definizioni più brevi, e alle prime lette-re di questo personalissimo alfabeto dello sciocchezzaio. «Accecante. Usare in riferi-mento al sole. Lo è sempre la luce dei riflettori». «Agenda. Sempre del premier». «Anor-mali. I vicini di casa non lo sono mai». «Approfondi-menti. Su quotidiani anche autorevoli corrispondono al gossip». «Assordante. Lo è la techno e in generale la musi-ca che non ascoltiamo noi». «Cavallo. È spesso febbrici-tante». «Classici. Sempre no-iosi. Un tempo si leggevano d’estate». «Coloranti. Fanno venire il cancro». «D’Alema. Il politico di Sinistra più in-telligente. Citare la resurre-zione di Berlusconi, il falli-mento della Bicamerale, e la demolizione dell’ex Partito Comunista più forte d’Oc-

cidente». E poi almeno la spiritosissima voce «Ennio Morricone»: «Genio delle colonne sonore ‘alla Morri-cone”». Ma vorrei formulare un’ipotesi. Giuseppe Culic-chia ha composto l’intero li-bretto solo per poter scrivere la pagina dedicata al padre, barbiere meridionale a Tori-no, scomparso vent’anni fa. Si tratta della voce «Pizza», tra «Pitbull» e «Polacche».Il padre portava la famiglia a prendere la pizza al lunedì, giorno di chiusura del suo ne-gozio. L’idea era di comprarla e portarla a casa, ma non ci riuscivano mai: si mangia-va appena sfornata, diretta-mente in strada. Poi l’autore fa una improvvisa confessio-ne personale, con tono in-solitamente struggente: «Più tempo passa e più mi manca, proprio come più tempo pas-sa più mi sento siciliano». In questa pagina l’irriverenza, la satira, la perfidia descrittiva, vengono come sospese. L’au-tore sente che il padre gli par-la ancora, e ce lo comunica. Come se nel nostro mondo livellato e uniforme sentis-se l’esigenza di stabilire una qualche gerarchia, di capire ciò che conta.

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6119 marzo 2016

ARTE

La grande sfidadi Correggio

e ParmigianinoAlle Scuderie del

Quirinale una mostra dedicata ai due maestri emiliani

di Simona Maggiorelli

È un dialogo fra due stra-ordinarie personali-tà del Cinquecento la

nuova mostra delle Scuderie del Quirinale. Che attraverso questo confronto fra Correg-gio (1489-1534) e Parmigiani-no (1503-1540) aggiunge una nuova perla alla collana di esposizioni dedicate ad artisti del Rinascimento e del Manie-rismo, come Tiziano, Tintoret-to, Memling e altri. Curato da David Ekserdjian, il percorso espositivo si apre in medias res, con uno degli esempi più alti dell’arte del Parmigiani-no, ovvero quel Matrimonio mistico di santa Caterina con san Giacomo minore in cui compaiono due sue originali figure femminili dal collo al-lungato, intrise di una grazia e di una leggerezza che le fa sembrare creature di vetro soffiato, mentre sullo sfondo cresce una natura rigogliosa e selvaggia a fare da contraltare naturalistico alla rappresenta-zione di queste due presenze femminili stilizzate, evocati-ve e quasi astratte. Insieme al vivo Ritratto di un uomo con libro e a quello della giova-ne donna detta “Antea” (che chiude l’esposizione e qui in foto) è uno dei capolavori di Parmigianino che il curatore è riuscito miracolosamente a radunare, nonostante l’esi-

tacolo prodotto per lo Stabi-le di Torino e visto al Piccolo di Milano, rileva la teatralità con un gioco di sipari che svelano, cinematografica-mente, porzioni di spazio chiuse da altri sipari o aper-te su un nero che riecheggia il nulla che tanto si nomina. Il Robespierre di Paolo Pie-robon irrompe subito tra-volgente con i suoi fantasmi fondamentalisti; il Danton di Giuseppe Battiston cre-sce, sornione, fino al “marti-rio”. Il resto del nutrito cast è disuguale (spiccano Fausto Cabra e Irene Petris), con i popolani in parte trasforma-ti, impropriamente, in lazzari napoletani. Il regista sceglie spesso il facile tono tribuni-zio, esaurendo l’invenzione nella seconda parte, dove più si dispiega il terrore polizie-sco che ossessionava l’auto-re. Marthaler nel 2003 a Zu-rigo aveva ambientato tutto in una desolata birreria, con un’aria di feroce grigiore bu-rocratico da socialismo reale.

guità numerica e la diaspora europea delle opere realiz-zate da questo schivo e raffi-natissimo pittore che morì a 37 anni, forse anche a causa delle sostanze velenose con cui faceva esperimenti alche-mici. Oltre ai dipinti a olio, sono i suoi suggestivi disegni a colpire l’attenzione del visi-tatore. Opere grafiche in cui la tradizione tosco-emiliana è portata ai massimi livelli di espressività, combinando tri-dimensionalità volumetrica e scultorea con la capacità di rappresentare il movimento (vedi per esempio la sua affa-scinante Cirella proveniente dal Gabinetto degli Uffizi). An-che Correggio - che di Parmi-gianino fu il maestro secondo quanto scriveva Vasari nella prima edizione de Le Vite - si esercitò a lungo con il disegno, con un certo gusto archeolo-

gico alla Mantegna, ma anche addolcendone il formalismo. Una morbidezza che ritro-viamo anche in molti dipinti di Correggio, in particolare in quelli di argomento mitologi-co come la Danae proveniente dalla Galleria Borghese e, più ancora, come la straordinaria rappresentazione di Giove ed Io, conservata a Vienna e ri-cordata nel catalogo edito da Silvana editoriale che accom-pagna la mostra. Intimità, te-nerezza, espressione dei sen-timenti, caratterizzano anche alcune rappresentazioni sacre di Correggio come il Matri-monio mistico di santa Cate-rina proveniente dal Museo di Capodimonte, dove il pittore ricrea effetti luministici e sfu-mati alla Giorgione, emulan-do la rappresentazione della dinamica degli affetti che rese inarrivabile Leonardo.

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62 19 marzo 2016

BUON VIVERE SOCIAL

Il porcello Gigetto e la Superacazzola

a tavola

Perché Facebook ha acquistato l’app

per fare i selfie

go Tognazzi, l’indimen-ticabile protagonista del cinema e del teatro,

era anche un grande cuoco. Infaticabile sperimentatore di ricette, traeva ispirazione nel-la tenuta di Velletri cucinando piatti semplici e gustosi, ac-compagnandoli con i vini che produceva: “Tapioco”, “Come se fosse” e “Antani”. A raccon-tare le “zingarate” del padre è Gianmarco Tognazzi: «Io e mia sorella Maria Sole siamo cresciuti tra vendemmie e frantoi a Velletri, dove lo stile culinario di Ugo si è caratte-rizzato. Attorno a lui c’erano gli ingredienti che lo ispira-vano, dall’orto alle vigne, agli animali. L’intuizione di usare il Km 0 e il biologico già negli anni 60 era anticipatoria del-le tendenze contemporanee. Partiva dalla cucina tradizio-nale per poi sperimentare e non c’era un piatto preferito: gli piaceva tutto e le tavolate con gli amici non mancava-no mai. Avevamo un porcello chiamato Gigetto e quando in tavola c’era del maiale noi chiedevamo “ma questo è Gigetto?”, la risposta era “no”. Crescendo abbiamo scoperto che di volta in volta papà ne comprava un altro. Oggi ri-cordandolo ci ridiamo sopra». Senza usare quel Gigetto, pre-pariamo la ricetta dei fegatelli

ultima ossessione che dilaga sul web è l’app Msqrd, versione

abbreviata di Masquerade. Msqrd è un’applicazione di videoritocco istantaneo realizzata da un team di sviluppatori bielorussi che permette di realizzare video e selfie ai quali in modo im-mediato è possibile appli-care dei filtri 3D interattivi. Grazie alla fotocamera del nostro smartphone ci pos-siamo trasformare in Ba-rack Obama, in Leonardo Di Caprio, riempire i nostri scatti di cuoricini o lacri-me, truccarci come lo Ziggy Stardust di David Bowie o Harry Potter. E, soprattutto, condividere il risultato sui social e sulle varie app di messaggistica, da Whatsapp a Telegram fino a Facebook Messenger, facendo diverti-re gli amici. Proprio la piat-taforma di Mark Zuckerberg ha annunciato recentemen-te di aver acquistato Msqrd e di avere intenzione di integrarne le funzionalità all’interno del suo social network. Gli obiettivi spe-cifici e le prospettive non sono ancora chiare, ma sicuramente hanno a che

Tapioco, Come se fosse e Antani: tutti i vini di

Ugo Tognazzi raccontati dal figlio vignaiolo

Msdqr è l’ultima frontiera della fotografia

interattiva. Da ora, targata Zuckerberg

di Francesco Maria Borrelli di Giorgia Furlan

U L’alla toscana, scritta da Ugo nel volume La Supercazzola. Istruzioni per l’Ugo.Ingredienti per 8: fegato di maiale 1kg; retìna di maiale 400gr; alloro; semi di finoc-chio; sale; pepe; olio Evo “La Tognazza amata”.Passate il fegato a pezzetti in un trito di aromi, sale e pepe. «Usando con perizia la retìna di maiale resa morbida ba-gnandola con acqua tiepida e tagliata a quadretti, avvolgo di volta in volta i pezzi di fegato. Così avvolti, li trafiggo lateral-mente con uno stuzzicadenti per imprigionarli nella rete, li infilo a tre per volta in uno spiedino, li ungo con un filo d’olio e li passo in padella a fuoco vivo. A volte agli aromi aggiungo un po’ di parmigia-no grattugiato e pane grattu-giato», parola di Ugo.Vino consigliato: Tapioco, bianco Igt Lazio, “La Tognazza Amata”. «Mio padre lo definiva “il vanto della mia vigna”. Da un anno l’ho rivisitato con un team di enologi, combinan-do in modo diverso le uve di bellone, trebbiano, malvasia e una punta di chardonnay. È un omaggio a Ugo e spero che oggi lo apprezzerebbe. Si tro-va in selezionati punti vendi-ta oppure su latognazza.net», racconta il figlio Gianmarco Tognazzi.

fare con la cosiddetta “eco-nomia del selfie”, il cui va-lore aumenta di giorno in giorno. L’epressione “selfie economy” compare per la prima volta nel 2014 citata in un articolo della rivista Forbes nel quale James Can-ton, uno dei digital guru più famosi e stimati al mondo, spiegava come «i selfie stia-no plasmando e cambian-do radicalmente il nostro modo di approcciarci ai media». Soprattutto perché stanno diventando snodi di dati sensibili che parla-no, costantemente e più di quanto immaginiamo, di noi, dei nostri gusti, del no-stro stile di vita, delle nostre frequentazioni generando un alto tasso di coinvolgi-mento nelle reti social. Gli autoscatti dunque, portano con sé una serie di informa-zioni preziose e monetiz-zabili per le imprese. Ogni anno solo in Italia vengono scattati circa 750 milioni di selfie e in molti sono con-vinti che proprio in questo numero sia racchiuso il fu-turo del marketing: milioni di persone disposte a met-terci la faccia pur di risul-tare simpatici, di far parlare di loro in rete, di dire come la pensano su questioni più o meno sensibili che pos-sono fornire dati concreti per targhettizzare sempre con maggior precisione il pubblico di consumatori. Anche i selfie di Msqrd po-tenzialmente possono esse-re tutto questo e soprattutto permetteranno a Facebook di competere con Snapchat che sugli autoscatti sta co-struendo un piccolo impero e raccogliendo milioni e mi-lioni di dati preziosissimi su di noi e sulle nostre vite. E ora sorridete, selfieeee.

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6319 marzo 2016

A rischio il patrimonio artistico dello Yemen

Grammelot, la lingua viva dei migranti

APPUNTAMENTI

Milano - La guerra nello Ye-men sta uccidendo la popo-lazione civile. E a rischio, oltre alle vite umane, sono anche le bellezze artistiche. Se ne parla al Festival dei Diritti Umani, in collaborazione con Ispi, il 22 marzo alle 17.30 all’Istituto a Palazzo Clerici con Farian Sabahi, Valeria Talbot e altri. www.festivaldirittiumani.it

Roma - Dal 18 al 20 marzo, nello spazio Factory del Ma-cro Testaccio, prende vita il Festival delle arti nuvola cre-ativa. Con il titolo Grammelot - Ovvero della contaminazio-ne iconica, una tre giorni de-dicata a mostre, performan-ce, readings, video e dibattiti sul tema dell’immigrazione. www.nwart.it

Vicenza - La Linea d’ombra è il titolo della mostra dell’arti-sta Roberto Rampinelli, fino al 22 maggio negli spazi di The-ArtsBox. L’evento apre la ras-segna internazionale Poetry Vicenza, dal 20 marzo al 1 giu-gno. Che prenderà il via il 20 marzo con una Notte Beat per i 60 anni dell’Urlo di Allen Gin-sberg. www.theartsbox.com

Vicchio (Fi) - Aperitivo con James Taylor 18 marzo, alle 19, all’Enoteca “L’amante di Dioniso” e poi al Teatro Giot-to il concerto in quartetto. Il 19 marzo si fa il bis con Mark Guiliana(in foto) che ha la-vorato a Black star di Bowie, alle 19 e poi live. Il 20 marzo è la volta del Timo Lassy Quar-tet. www.jazzclubofvicchio.it

Firenze - Dal 19 marzo al 24 luglio a Palazzo Strozzi una grande mostra porta a Fi-renze 100 capolavori dell’ar-te europea e americana tra gli anni 20 e gli anni 60 del ’900. In mostra opere di Du-champ, Ernst, Ray e poi Bur-ri, Vedova, Fontana. E ancora Pollock, Rothko, Calder e al-tri. www.palazzostrozzi.org

Pistoia - Il 18 e il 19 marzo al Funaro va in scena Un amo-re esemplare diretto da Clara Bauer, con Daniel Pennac e la fumettista Florence Cestac. Per la terza volta al Funaro di Pistoia, un progetto che vede tra i suoi protagonisti l’au-tore del ciclo di Malaussène.www.ilfunaro.org

Firenze - #loStregacheVorrei. Il neo presidente del Vieus-seux Alba Donati apre ai let-tori. E i preferiti dal pubblico si presentano: il 21 marzo Rosa Matteucci con il suo Co-stellazione familiare, Adelphi, il 22 Giuseppe Catozzella (in foto), Il grande futuro, Feltri-nelli e il 23 Franco Cordelli Una sostanza sottile, Einaudi.

Bergamo - Con il piano di Geri Allen e il Joe Lovano Quartet inizia il 18 marzo un fine settimana doc al Berga-mo Jazz Festival. Mentre il 19, sempre al Teatro Doninzet-ti, è la volta del Anat Cohen. Imperdibile il 20 marzo il concerto di Dave Douglas (in foto) con Franco D’Andrea. www.teatrodonizetti.it

Quella linea d’ombra fra arte e poesia

Mark Giuliana live dopo Black star

Da Kandinsky a Pollock Il Guggenheim in tour

Un amore esemplare, con Daniel Pennac

Il Vieusseux lancia lo Strega dei lettori

Dave Douglas e Joe Lovano al Bergamo Jazz

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Itermini verbali vennero alla coscienza dal corpo, una parola si creò dai movimenti inconoscibili della realtà biologica dell’essere umano. L’amai subito, bella e miste-riosa, per il fascino che emanava l’immagine silenziosa

che era comparsa, incomprensibile, alla coscienza quando i sensi del corpo legavano lo stato di veglia alla realtà materiale che mi circondava.

Il numero, caldo e modulato era, forse, nel suono del flauto di 35000 anni fa che parlava prima del linguaggio articolato. 1945, era primavera. La perdita della certezza del rapporto cosciente con la realtà materiale dei miei simili, fece nascere una nuova vita in cui “sapevo” che esisteva una mente senza coscienza. Ma la mente non articolava parole nuove perché la capacità di immaginare non aveva ricreato la linea che fa riconoscere, allo specchio, il proprio volto.

Il numero torna e dice: vent’anni. Dal tronco solido della colonna vertebrale emerse il frutto proibito della conoscenza e dalla mente senza coscienza venne la parola nuova: fantasia di sparizione. Restò sempre giovane mentre il tempo era in-catenato dall’esistenza del corpo che, con il numero, rendeva comprensibile la parola velocità che, fuori dal corpo umano, era limitata nel suo esistere da un tempo infinito.

Furono vent’anni di vita diversa da quando iniziai a pensa-re nel modo nuovo in cui non c’era soltanto coscienza e ra-zionalità che avevano rapporto con la realtà materiale. Sem-brò che fosse un tempo nuovo dopo che era stata fermata la violenza della pazzia nazifascista. Di tanto in tanto giunge-vano nella mente i termini nuovi che erano: istinto di morte. Nessuno li legava al fascismo e nazismo.

Tutti pensavano che fosse il male radicale della natura dell’essere umano, la cattiveria di Caino che, illuministica-mente, poteva essere fermata soltanto dalla coscienza razio-nale. “L’animalità” sempre esistente nell’essere umano era stata ridotta, moralisticamente, ad un contrario del bene, il male. L’istinto di morte fu pensato come tendenza al ritorno allo stato inorganico.

1971. Avevo scritto Istinto di morte… in cui si diceva che l’istinto di morte non era distruzione della realtà materiale, ma sparizione, rendere fantasticamente non esistente. L’es-sere umano non ha istinti e la reazione allo stimolo della luce fu… il pensiero verbale disse: il mondo non esiste. Si-multaneamente la memoria dello stato precedente è incon-scio mare calmo. E se fantasia di sparizione fu una parola nuova, inconscio mare calmo erano termini verbali del ri-cordo cosciente.

Venne il 2015, settembre. Nove su dieci, novanta su cen-to, novecento su mille dissero: nella pausa estiva sono sta-ta bene, mi è passata la depressione. Torna il linguaggio di Kafka che dice: Was ist mit mir geschehen? Ma ho in mente che non è uguale. L’italiano dice: cosa è accaduto? Non ha soggetto. La mente si fermò di fronte ad una scomparsa di malattia che non riguardava un singolo individuo ma una massa di persone.

Ho udito giorni fa, una parola nuova “cocreazione” rife-rita ad un gruppo che, insieme, lavorava. Penso al termine che nacque quarant’anni fa all’Istituto di psichiatria detto Villa Massimo: Analisi collettiva. Compare l’immagine ine-sistente del movimento dei corpi che si sono mossi, per qua-rant’anni, volgendosi verso la rivolta a ciò che si chiamava freudismo basato sul dogma dell’inconscio inconoscibile.

L’impossibilità di pensare alla comprensione delle imma-gini oniriche aveva costretto a credere nella ricerca dei ri-cordi coscienti della propria vita passata. Nessun pensiero sulla psicoterapia come cura fu la conseguenza di una men-talità razionale e di una filosofia che imponeva di credere che il pensiero umano era soltanto coscienza. La pazzia? Era lesione organica del cervello. La violenza criminale? Natura umana.

Ho cercato tante volte di vedere le nuvole bianche del movimento della mente che, perduta… o mai avuta la cre-denza nei maestri del pensiero del logos occidentale, aveva realizzato la magnifica irrequietezza che voleva portare il linguaggio incomprensibile della non coscienza al pensiero verbale. Ma la memoria era sottile quasi evanescente. Non aveva la certezza del ricordo cosciente.

Pensavo che fosse soltanto fantasia che non era realtà ac-caduta. L’automobile che mi portava velocemente davanti al portone del palazzo mi lasciava, abbandonato, davanti a 159 scalini che la fantasia, che guardava gli otto anni pas-sati, non vedeva per un elevatore che mi lasciava davanti agli ultimi 18 che mi portavano alle terrazze da cui vedevo il lontano bosco del Gianicolo e la cupola arida di S. Pietro che era il riflesso del Pantheon.

Non ero entrato e, davanti alla porta, vedo il numero che ridacchiando, come fosse una donna certa della sua bellezza, mi dice: il secondo segno che è il numero otto non parla degli splendidi anni passati a partire dal 2008 quando ti si illuminò la mente che vide i “venti secondi”, ma le ulteriori otto parole che devi creare dopo le dieci già viste. Mi fermo al breve in-gresso, timoroso che le gambe non vogliano più camminare.

TRASFORMAZIONE

umana è la libertà di tuttiL’identità

La poesia che ha nella linea il suono che non si ode, è ricreazione della nascita che è vitalità e movimento

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6519 marzo 2016

Massimo Fagioli psichiatra

Stan-no

giungen-do anche

tempo e linea insieme a ricrea-

zione che rende feli-ce fantasia di sparizione

non più al buio come fosse non esistente. Ognuna tiene

per mano l’altra che non è mai quella di prima. Fanno sempre,

vitali, un girotondo. Un pensiero nuovo aveva risposto al vagito del neo-

nato che chiedeva di non essere lasciato morire. Avevo visto la donna che lavando

e scaldando il figlio rispondeva alla memoria dell’amnios caldo che, nell’utero, faceva scorrere

il sangue del feto. Poi, insieme, mangiavano il bian-co del latte che erano parole senza anaffettività. 1980.

La fortuna ci fece trovare un tetto ed io scrissi “la conta-dina” che viveva amando ed odiando la natura non umana.

L’identità umana era libertà.

Altre otto parole. Viene colei che è stata, sempre nascosta, presen-te: linea. Subito, come se il tempo non esistesse, compare la sorella maggiore: capacità. Era già nota, dopo la scomparsa del termine possibilità che tentava di dare un nome ad una realtà che non esiste. Severino aveva sempre detto che era una contraddizione nel termine perché una realtà è, o non è. Sarà, non sarà…. Cosa?

Lo dissi, ingenuo ed ignorante, scrivendo che, alla nascita, c’è la possibilità di fare la linea. Ora, nelle dieci parole, non c’è. Le parole sono: capacità di immaginare. Non c’è “capacità di fare la linea”. L’avevo legata al movimento della mano che traccia un segno nero su uno spazio bianco. È caratteristica dell’essere umano, sempre nera anche se la penna può segnare vari colori. Era il 20 agosto 1999.

“Sempre nera” diceva che aveva, in se stessa, la fantasia di spa-rizione, che era pulsione di annullamento, contro la realtà ma-teriale del mondo. Poi dissi: era ricreazione del primo momento della nascita quando la luce rende attiva la sostanza cerebrale che reagisce con… ora le dieci parole iniziano con il termine: pulsione. E la pulsione di annullamento, al giungere del fotone sulla retina, è reazione istantanea. Il movimento senza tempo, la “non esistenza” del mondo, in realtà non esiste.

Esiste, nella creazione della realtà biologica che prima non esisteva, la trasformazione della capacità di reagire fisica alla pressione del canale del parto, che diventa vitalità. Tornano, belle, le prime quattro parole delle dieci che sono la realizza-zione del pensiero verbale che ha “visto” la verità della nascita umana. E la pulsione di annullamento che fa di ciò che non esiste ciò che esiste, è la capacità di immaginare che crea la memoria che è fantasia e non ricreazione né ricordo.

È creazione perché non c’è una realtà precedente che viene trasformata e quindi non è ricreazione. Non è come nella formazione della vitalità che resta sempre movimento della realtà biologica. È la capacità della pulsione di fare ciò che non esiste: la realtà non materiale dell’essere umano, la memoria-fantasia.

Le parole nuove che parlano della comparsa dalla realtà biolo-gica della realtà non materiale, ballano intorno al fuoco. Rivedo Capo de fero, la piazzetta dove, si racconta, si svolgeva il sabba delle streghe. Ognuna prende il posto dell’altra come se non fossero realtà materiali. Spariscono, ricompaiono uguali e sono diverse, altre.

Non è pulsione di annullamento che non esiste se rendesse, soltanto, non esistente una realtà materiale fuori di se stessi. Non è la parola rimozione che è il linguaggio articolato stupido della coscienza che guarda soltanto lo spostamento nello spazio di realtà materiali. Torna la bella parola antica: fantasia di sparizione che, in un istante senza tempo, annulla e crea oltre e nuova la realtà sparita.

Sono sparite e tornano: linea e tempo. Sembra che siano rima-ste nell’infinito immobile dell’universo dove esiste soltanto la realtà materiale. Non ho il pensiero per dire le parole che il tempo infinito dell’universo diventa finito nel movimento della nascita e morte dell’organismo umano.

‘Capacità di fare la linea’ è pensiero che fa vedere la linea che definisce il volto come proprio nel guardarsi allo specchio. Dopo nove mesi dalla nascita in cui un essere umano simile a se stessi ci ha scaldato e nu-trito. È necessario un tempo perché la capacità di vedere la realtà materiale si sviluppi insieme alla capacità di immaginare. E torna il termine ri-creazione. Vedere la linea, senza percezione cosciente, è ricreazione del primo istante della vita che è fantasia di sparizione.

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IN FONDO A SINISTRA di FABIO MAGNASCIUTTI

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