Boccherini - Op6 n30 - La Musica Notturna Delle Strade Di Madri
Karshenas
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L’Islam radicale e la specificità iraniana
di Majid Karshenas
(Università di Isfahan)
Roma, settembre 2003
Si può dire che il concetto di integralismo o fondamentalismoi islamico si diffonda per
la prima volta nella coscienza collettiva occidentale nel novembre 1979, al momento
dell’occupazione dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America a Teheran. In realtà, il
fenomeno è da considerarsi assai più antico, in quanto tutti gli ultimi duecento anni hanno
visto nelle società musulmane lo sviluppo, sia pure attraverso fasi di diversa intensità e
vicende alterne, di quel particolare meccanismo di azione-reazione per cui da un lato sistemi
esterni alle società stesse esercitano un’attrazione gravitazionale sui loro rapporti interni in
campo sociale, economico e culturale, dall’altro la cultura tradizionale delle medesime
comunità, in esse profondamente radicata, al fine contrastare questa più o meno esplicita, più
o meno violenta, “aggressione” mette in atto ogni sforzo per mantenere o riprendere sotto il
proprio controllo quei rapporti, interpretando ogni carenza, crisi, difficoltà interna come
causata esclusivamente dall’esterno, condannando come “innovazione” o “idea
d’importazione” qualsiasi corrente di pensiero diversa da sé, e affermando l’indispensabilità
di un ritorno pieno alle “basi pure”, svincolate da qualsivoglia ancoraggio storico-temporale,
della religione come unico rimedio.
Tutte le società musulmane segnate da questo lungo travaglio (con l’eccezione, come
vedremo, dell’Iran, che ha goduto e gode di condizioni diverse) presentano dunque come
prima caratteristica comune, insieme ad una generale arretratezza culturale, questo conflitto
fra la propria cultura tradizionale e altre culture non-autoctone – che si riducono poi
sostanzialmente all’unico modello culturale in grado di competere con essa: la cultura
occidentale intesa come un tutto unico e largamente indifferenziatoii. Un secondo carattere
comune può essere individuato nella diffusa, e spesso profonda, crisi sociale – contraddistinta
da vari fattori, tra cui l’assenza di un equo sistema di istruzione, l’analfabetismo diffuso, il
mancato controllo dell’incremento demografico, la piaga dell’emigrazione. Accanto a questi
due elementi, ricorre costantemente una situazione di crisi economica, sempre caratterizzata
dalla dipendenza dei Paesi dai sistemi economici stranieri nei settori alimentare,
farmaceutico, tecnologico e finanziario, dallo sfruttamento dei lavoratori (inclusi, in molti
casi, i bambini), da una diffusa condizione di povertà.
Sono esistiti ed esistono, dunque, gruppi e correnti di pensiero secondo i quali l’unica
risposta a simili drammatiche situazioni di crisi, l’unico strumento per porvi rimedio e
ritornare ad una sorta di “età dell’oro” delle società islamiche colpita e (temporaneamente)
cancellata dagli aggressori esterni, è l’Islam tradizionale, o classico: cioè una lettura, ed
interpretazione, del dettato islamico che mentre afferma di fondarsi semplicemente sulla
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“versione integrale” del Corano e della tradizione del Profeta, in realtà è solidamente basata –
come teorizza anche lo scrittore egiziano Abdoljavad Yassin - soprattutto sulle vicende
storiche dell’Islam. In altri termini, i pilastri di sostegno dell’Islam classico sono le
codificazioni teologiche delle cinque tradizioni religiose che hanno dato forma al pensiero
islamicoiii, codificazioni rimaste pressoché immutate nei secoli anche perché i teologi
islamici, in reazione alle eresie Batinitaiv e Carigitav, tranne che in poche eccezioni segnalabili
essenzialmente soltanto nell’Islam shi’ita, hanno relegato ai margini il pensiero filosofico –
“tradendo” l’antica apertura alla scienza e all’aristotelismovi incarnata dai vari Avicenna e
Averroè e manifestando una violenta ostilità nei confronti del ragionamento dimostrativo,
della logica e dell’intelletto raziocinante.
I movimenti religiosi conservatori (potremmo definirli “di destra”, anche se le
categorie politiche “destra” e “sinistra” in relazione alle società musulmane dovrebbero essere
utilizzate con grande cautela, non essendo mai le situazioni perfettamente sovrapponibili a
quelle occidentali), nella fase della loro formazione, cominciano dunque con attività di tipo
culturale, in reazione ai rischi di disgregazione dei valori tradizionali sotto la spinta - quasi
sempre aggressiva, anche in modo violento – dell’intervento occidentale; ma non passa molto
tempo prima che abbia luogo la fondazione del primo movimento politico di destra, ad opera
di Hassan al-Banna; e successivamente le idee dei “Fratelli Musulmani” si diffondono in tutti
i Paesi arabi.
Poiché con la prima guerra mondiale è stato annientato l’impero Ottomano, e nell’area
si sono verificati l’espansione del colonialismo e la nascita del nazionalismo, le lotte di
liberazione nelle stesse zone hanno raggiunto il massimo grado di intensità. Ma i Fratelli
Musulmani, che intendono resuscitare il Califfato islamico, pur essendosi radicati in tutto il
mondo arabo non sono in grado di guidare le lotte della popolazione. Dopo la seconda guerra
mondiale, lo sviluppo del nazionalismo, e in particolare l’idea nasseriana in Egitto, sono le
ragioni per cui questo movimento rimane isolato. E poiché i governi arabi promuovono varie
iniziative per reprimerlo, la repressione, fortissima e sanguinosa, subita in Egitto, Siria e
Sudan lo costringe a ripiegare di nuovo su un’attività di tipo culturale.
È solo negli ultimi decenni del XX secolo che i seguaci del pensiero di al-Banna si
ripresentano sulla scena politica. La morte di Nasser e l’assassinio di Sadat in Egitto, la
Rivoluzione in Iran, la mancata soluzione del problema palestinese, la sconfitta del
nazionalismo arabo e del marxismo terzomondista (che non sono riusciti a trasformarsi in
movimenti di massa), hanno preparato le condizioni necessarie perché in Egitto, Palestina,
Algeria, Tunisia, Turchia e Marocco (l’Iran non fa parte di questa panoramica) i Fratelli
Musulmani tornino ad assumere il ruolo di protagonisti. Sebbene in ciascun Paese il
movimento si trovi a trattare con basi storiche diverse e adotti di conseguenza metodi diversi,
tuttavia la sua linea strategica per l’acquisizione del potere politico o la partecipazione alla
gestione di esso è sempre fondata su un’idea dello Stato che difenda la cultura e la religione
tradizionalistavii; conquistano una base di massa, si avvalgono di organizzazioni di categoria
di grandi dimensioni, e possono contare su grandi risorse economiche, che reinvestono in vari
settori, come imprese o banche. Dal punto di vista organizzativo i Fratelli Musulmani
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costituiscono la più compatta tra le forze religiose che sviluppino un’attività significativa nei
settori economici e politici e nelle strutture culturali.
Tuttavia, non solo i Fratelli Musulmani, ma anche tutti gli altri partiti religiosi di
destra attivi nei Paesi arabi, soffrono profondamente della mancanza di una teoria politica che
presenti il “bene generale” come propria struttura fondamentale e gli interessi del popolo
come proprio contenuto, e perseguono unicamente il predominio della religione tramite
l’intervento nella politica. Da un lato, la popolazione povera ed emarginata costituisce la loro
principale base di consenso, ed essi la organizzano mediante l’uso degli slogan e delle
tradizioni religiose; dall’altro, essi riescono ad assorbire buona parte dei ceti professionali
(medici, avvocati, giornalisti, editori) inserendoli nelle proprie strutture religiose e persino in
centri scolastici ed economici. La loro attività politica, incentrandosi sul dominio di norme
religiose “di costume”, quali l’abbigliamento islamico e la proibizione della vendita di
bevande alcoliche, promuove inoltre un vasto sforzo propagandistico contro gli altri gruppi e
movimenti religiosi non fondati sull’Islam classico ma impegnati nell’opposizione ai regimi
totalitari. La loro azione sviluppa e rinfocola contraddizioni marginali, creando conflitti senza
risultato politico.
La conseguenza di una simile impostazione, quando esaminata al di là di ogni
clamorosa apparenza, si traduce nella preparazione del terreno perché nelle società
musulmane in cui sono attivi i regimi totalitari questi ultimi continuino a reggersi.
Come ulteriore conseguenza, dunque, nei decenni Settanta/ Ottanta le politiche di
“collusione” dei partiti religiosi di destra conducono alla nascita di movimenti che sorgono
con l’obiettivo di affrontare i regimi totalitari con programmi di tipo militare.
Senza dubbio una ruolo molto importante nella formazione di tali movimenti è svolto
dal pensiero di Seyed Qotb, che nel testo Indicazioni di percorso delinea il concetto arabo di
Stato nella religione, considerando la repressione e le politiche antipopolari come contrarie
alla legge coranica, e di conseguenza obbligatoria e sacra la jihad contro di esse. Accanto al
pensiero di Qotb, anche altri – Omar Abdorrahman, Saleh Syrie, Mohammad Abdolsalam –
acquisiscono importanza speciale nei gruppi militanti religiosi, diffondendo il concetto della
lotta armata in riferimento a versetti del Corano. La maggior parte di questi movimenti e
gruppi, diversamente dai partiti religiosi di destra (che si fondono sul pensiero tradizionale
islamico ma colludono con i regimi dispotici per acquisire il potere o parteciparvi) si basano a
loro volta sul pensiero classico, ma ritengono che l’unica strada per giungere alla liberazione
del popolo oppresso sia la lotta militare contro i regimi locali dominanti, e considerano Ebne
Tamimeh il proprio padre storicoviii. Uno dei più attivi fra i gruppi di questo tipo è il Jama’at
Eslami in Egitto, che negli ultimi decenni ha organizzato azioni militari contro il potere, e
nella propria elaborazione teorica ha sviluppato una dura opposizione alle politiche dei
Fratelli Musulmani, dei movimenti cristiani e delle sette sufi in Egittoix. I movimenti come
Jama’at Eslami, o Jihad Eslami, che per quanto riguarda la configurazione di classe
provengono dai ceti più poveri, si sono comunque diffusi soprattutto nelle università, e
poiché attribuiscono alla lotta armata un carattere sacrale continuano ad operare in forma di
sette o piccoli gruppi; in ogni caso, e questa volta non diversamente dai partiti della destra
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religiosa, soffrono profondamente della mancanza di una ricca e strutturata elaborazione
teorica – anch’essi si limitano a ritenere che il predominio della legge religiosa sia l’unica
strada che i Paesi arabi e musulmani possano imboccare per uscire dalle proprie crisi.
Bisogna aggiungere un’ulteriore considerazione. Come si è detto, la povertà
dell’elaborazione politica dei partiti religiosi di destra nei Paesi arabi e islamici e
l’impostazione miope dei loro programmi produce come conseguenza una loro “collusione” di
fatto con i regimi al potere nei rispettivi Paesi. Un simile meccanismo oggettivo di causa-
effetto non sfugge all’attenzione di quei Paesi dell’Occidente per i quali la permanenza al
potere di tali regimi, malgrado il loro carattere antidemocratico (o in molti casi proprio grazie
ad esso), costituisce una sorta di garanzia: garanzia che il rapporto di oggettiva dipendenza
del Paese arabo/islamico dal sistema economico occidentale post-colonialista non venga
messo veramente e profondamente in crisi dal nascere magari di nuove forme di Stato
democratiche, fondate sul consenso popolare e quindi forti, in grado eventualmente di mettere
in seria discussione la gestione delle risorse nazionali o addirittura gli assetti regionali. Ne
deriva che spesso Paesi quali la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, mentre i loro mass-media
puntano il dito contro ogni forma di integralismo islamico, e i loro governi conducono una
politica ufficiale di condanna e isolamento dei partiti musulmani di destra, in realtà compiono
ogni sforzo per riuscire ad assumere in una maniera o nell’altra, ovviamente in modo
“coperto” e sempre sdegnosamente smentito, un ruolo di condizionamento di quegli stessi
partiti, tramite infiltrazioni, vendite “triangolari” di armi e altri metodi propri
dell’intelligence.
Questa prassi, divenuta abituale e perfezionata con il trascorrere dei decenni, ha
spesso consentito all’Occidente di servirsi di questo o quel gruppo di musulmani integralisti
anche per “gestire” situazioni e assetti più complessi. Si pensi per esempio all’iniziativa
condotta in porto dai servizi segreti britannici in Pakistan per creare, letteralmente dal nulla,
il gruppo degli “studenti” Talebani al fine di mantenere sotto il proprio controllo
quell’Afghanistan da cui lo scontro fra gli interessi sovietici e gli interessi statunitensi
rischiava di escluderli definitivamente; analogamente, si pensi al sostegno concreto, militare e
non solo, fornito dagli USA ai Modjaheddyn afgani, ed in quest’ambito anche alle correnti più
oltranziste dei Modjaheddyn stessi, nella loro lotta contro l’URSS.
Queste strategie occidentali non avevano però tenuto conto della possibilità che
analoghe iniziative potessero essere messe in atto anche da altri Stati, non occidentali ma
dotati delle risorse necessarie per inserirsi nel “grande gioco” che da decenni ha per posta la
vastissima area petrolifera che si estende dal Medio Oriente al Caucaso all’Asia Centrale. È il
caso dell’Arabia Saudita, il cui foraggiamento – anch’esso sempre smentito ufficialmente, e
probabilmente dovuto alla decisione non dell’intera Casa reale saudita ma solo ad una parte
dei suoi membri – della guerriglia cecena e soprattutto di personaggi e gruppi in modo più o
meno diretto legati ad Al Qeida, pur finalizzato a strategie geopolitiche e geoeconomiche, si
fonda sulla fede wahabitax che accomuna ai Sauditi settori consistenti delle popolazioni
sunnite di Afghanistan, Pakistan e Cecenia.
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A questo punto è necessario però precisare che (concetto che appare ovvio se vi si
riflette attentamente, ma che non è quasi mai preso in considerazione né dalla stampa né da
molti leaders politici occidentali) i sostenitori dell’Islam tradizionale nei Paesi musulmani
sunniti rifiutano radicalmente l’elaborazione teologica shi’ita – e viceversa. Anzi, i
tradizionalisti sunniti spesso considerano “eresia” lo Shi’ismo, adeguandosi alla linea
duramente repressiva adottata per secoli dai Califfi nei confronti dei seguaci di Ali (dei dodici
Imam shi’iti, tranne l’ultimo, che i fedeli ritengono “in occultazione” e di cui è atteso il
ritorno alla fine dei tempi, tutti gli altri undici morirono uccisi proprio per mano sunnita).
D’altro canto, per quanto riguarda gli Shi’iti di oggi, va ricordato che, per una serie di ragioni
storiche, nell’Islam shi’ita è confluito, durante i secoli, anche il sentimento dell’orgoglio
nazionale (anti-arabo) persiano. Questa contrapposizione è tanto forte – proprio perché
fondata sul rispettivo rigido richiamo all’ortodossia – da impedire ancora oggi il nascere e lo
svilupparsi di autentiche sinergie fra l’Islam radicale sunnita e l’Islam radicale shi’ita; il
quale, occorre aggiungere, presenta caratteri propri riguardo sia al radicamento sociale sia alla
propria evoluzione storica, oltre che riguardo all’impostazione giuridico-politica. Di
conseguenza, se è vero che il successo della Rivoluzione iraniana del 1978/79 ha in qualche
modo “aperto la strada” al crescere delle rivendicazioni di tutto l’Islam, mostrando come
questa religione potesse agevolmente svolgere il compito di nucleo coagulante ed anche di
ideologia della liberazione prima svolto per esempio dal pensiero socialista e comunista
(entrato in crisi ben prima del 1978, soprattutto a causa delle sue degenerazioni sovietiche),
d’altro canto però anche ai più accesi fra i religiosi iraniani sostenitori della teoria della
“esportazione della rivoluzione” è apparso ben presto molto evidente che la loro esperienza
non avrebbe trovato un seguito immediato e concreto nei Paesi arabi o musulmani-non arabi; e
tanto meno la leadership shi’ita si sarebbe potuta imporre fuori dai confini dell’Iran (fanno
eccezione il Libano, dove comunque una parte consistente della popolazione è musulmana
shi’ita, e le regioni meridionali dell’Iraq, dove le masse shi’ite costituiscono quasi due terzi
del totale).
È vero però che l’Iran è stato il primo Paese dove la forma dello Stato, la
Costituzione, le istituzioni e le leggi siano state pienamente adeguate al dettato islamico; può
essere dunque interessante osservare come qui abbia agito e si sia evoluta la corrente di
pensiero più legata ai fondamenti dell’Islam tradizionale.
Può essere utile premettere qualche considerazione che metta in luce alcuni caratteri
della specificità dell’Iran anche riguardo a quanto detto finora. Nel corso dei secoli, nel quadro
della civiltà iraniana, il potere politico si è sempre retto su tre pilastri, e in ciascuna fase storica le élites
politiche iraniane sono germogliate sull’uno o sull’altro di essi: si tratta dei potenti delle tribù, dei potenti
nel settore economico, e dei potenti religiosixi. Questi ultimi si possono raccogliere in un gruppo
conosciuto con denominazioni diverse nelle varie epoche: sacerdoti, Magi, membri del clero, e
nell’insieme gli uomini di religione. La struttura filosofica del pensiero dei primi Iraniani si può
caratterizzare come una visione del mondo di tipo cosmologico, dove si ritiene che l’universo abbia un
ordine pre-determinato; che, di conseguenza, sia importante individuare il metodo opportuno per edificare
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un modello di vita appropriato all’interno di tale ordine; che a tal fine sia necessaria la religione – e che
gli uomini di religione siano sia i guardiani sia i promulgatori di tale “metodo opportuno”.
Evidentemente, nella storia dell’Iran, il potere e lo status dei leaders religiosi li ha resi non solo
un’élite, ma anche produttori di élites. Un esempio rilevante di questo gruppo è Kartir, sommo sacerdote
nell’era sassanide, che era virtualmente il leader indiscutibile in quasi tutti i campixii. Il ceto religioso ha
addirittura, occasionalmente, rivendicato il diritto di governare e dato vita a una dinastia. In ogni caso, il
suo ruolo storico si è mantenuto in modo più o meno permanente. L’avvento dell’Islam e specialmente
dello Shi’ismo non indebolisce questo ruolo, anzi lo rafforza: gli Ulema shi’iti diventano gli eredi degli
Imam e spesso, nel loro nome, si ribellano ai detentori del potere del tempo.
Ciò avviene anche in periodi recenti, per esempio nel 1890, ancora regnante la dinastia Qajar,
quando gli Ulema persiani appoggiano la Rivolta del Tabacco, e la loro influenza, derivante dal grande
prestigio di cui godono presso le masse popolari, si rivela determinante, insieme con la ribellione del ceto
mercantile da un lato e dell’élite intellettuale progressista filo-europea dall’altro, per costringere il
monarca a revocare la concessione. La dura opposizione del clero (o meglio, di quella parte del clero
che non si assimila alla Corte) nei confronti dello shah e delle forze estere che lo sostengono come
strumento per lo sfruttamento delle risorse nazionali dell’Iran è uno dei fattori più importanti anche nelle
lotte antimonarchiche successive, quale la Rivoluzione Costituzionale del 1905/6, sino alla Rivoluzione
del 1978/79, dove la figura dell’Ayatollah Khomeini e il chador diventano riferimenti unificanti per tutto
il vasto e variegato panorama di forze che lottano contro il dispotismo dei Pahlavi e la preponderante
presenza statunitense.
Naturalmente anche in Iran si riscontrano i tentativi – non raramente coronati da successo -
operati dai Britannici (e poi anche dagli USA, per esempio in occasione del colpo di Stato del 1953 contro
Mossadeq) per “attrarre” a sé singole personalità religiose o gruppi di esponenti del clero al fine di
condizionarne l’azione, per influire indirettamente ma efficacemente sia sui governanti, sia sulle prese di
posizione dei fedeli.
Prima della Rivoluzione del 1978/79, il clero iraniano, da sempre presente nella
società civile, è diviso in gruppi religioso-politici e in gruppi puramente religiosi: con il
crollo della monarchia, i primi possono rapidamente occupare i posti di potere, e con
altrettanta rapidità si dividono in numerose fazioni. La Repubblica Islamica non assume una
forma organizzativa piramidale, ma si presenta come un corpo con membra diversificate. La
struttura del potere nel sistemaxiii è costituita da alcuni “anelli”, reciprocamente legati ma nel
contempo dotati di vari gradi di autonomia. Tale struttura non monocentrica, che sembra di
tipo tribale, ha ovviamente radici storiche; la pluralità dei centri di potere in concorrenza
reciproca esisteva già nel sistema monarchico, perché, pur essendo il potere accentrato nelle
mani dello shah, in ogni tribù, in ogni zona del Paese, il signorotto locale o il governatore
militare detenevano un potere assoluto. Con la fondazione della Repubblica Islamica, ci si
trova di fronte a un nuovo tipo di “tribalismo”, che certo non ha la forma del pluralismo
occidentale e non possiede, se non occasionalmente e accidentalmente, i caratteri propri di
una struttura democratica. La maggior parte dei posti di potere vengono assegnati secondo le
regole del nepotismo e del clientelismo; la rete delle parentele detiene il potere reale,
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gestendo la maggior parte delle attività dello Stato, tanto che è necessario osservare i legami
di fedeltà tra le persone più che le divisioni ideologiche o le gerarchie burocratiche.
L’anello decisionale più potente si trova al centro degli altri anelli, e comprende una
élite i cui membri in maggioranza si identificano con i leaders religiosi che vantano più ampio
seguito popolare – nella cultura politica dominante il carisma individuale è più importante del
grado gerarchico o della qualifica. Esiste poi un secondo anello costituito da una élite mista di
membri del clero e anche di persone che non fanno parte della gerarchia religiosa: al suo
interno si delineano due gruppi distinti, i “tecnocrati” e gli “ideologi”, radicalmente diversi
fra loro per cultura, metodi di gestione e tipo di lavoro svolto.
Al di fuori di questi due anelli esistono gruppi che dirigono e acquisiscono potere in
modi diversi: a fianco delle Fondazioni (potentati economici la cui ragione sociale ha scopi di
beneficenza, ma che svolgono imponenti e fruttuose attività economiche di ogni tipo, fanno
capo alla Guida Spirituale e non sono soggetti alla legge ordinaria) troviamo l’Esercito dei
Pasdaran (i “Guardiani” della Rivoluzione) e altre forze di intervento, come i Basidj
(miliziani giovanissimi) e i Comitati di Soccorso. All’interno della società civile, il
movimento dei sostenitori dello Stato religioso si coagula in due settori-capostipite, gli
Hezbollah (“Partito di Dio”), più aperti a una dialettica di confronto, e i “gruppi di
pressione”, cioè gli Ansar Hezbollah (“gli aiutanti del partito di Dio”), che non esitano a dare
vita ad iniziative di tipo squadristico ai danni, per esempio, di biblioteche, librerie, singoli
intellettuali. Tra i sostenitori dell’idea di “governo del clero” si annoverano poi anche
movimenti come Resalat e Hodjatieh.
La contraddizione più importante (sebbene per molto tempo non emerga con evidenza
se non agli occhi degli analisti più attenti), ancor più gravida di conseguenze della
suddivisione ideologico-politica in “destra” e “sinistra”, è quella che nel “secondo anello” del
potere divide i “tecnocrati” dagli “ideologi”. I primi considerano scienza, tecnologia e
istruzione basi dello sviluppo, e si comportano in modo pragmatico. Gli ideologi, invece, non
attribuiscono importanza alla managerialità moderna, all’esperienza tecnica e scientifica. Ciò
non significa che fra loro non si trovino professionisti (medici, ingegneri ecc.) e persone
istruite: tuttavia l’istruzione e la tecnica si trovano in fondo alla loro scala dei valori. Essi non
soltanto sono fedeli al velayat-e faqih xiv: sono convinti che il faqih si ponga al di sopra di
qualsiasi legge e della volontà della maggioranza espressa nel voto.
Verso la fine degli anni Novanta il dibattito che si accende in Iran riguardo al futuro
del Paese vede delinearsi con chiarezza tre distinte correnti di opinione: la “destra moderna”
(o tecnocratica) assume una posizione mediana tra i settori “iranisti”xv e gli islamisti
tradizionalisti – i quali, come si è detto, hanno già da tempo abbandonato le idee di
esportazione della rivoluzione e si sono trovati a fare i conti con i sentimenti nazionalisti
fortissimi all’interno della popolazione, quindi a dover ammorbidire, sia pure sul piano
tattico, la propria concezione oltranzista. La dialettica fra le tre correnti, che ha dunque
registrato il mutare dei rapporti di forza rispetto alla prima fase post-rivoluzionaria, apre
oggettivamente gli spazi necessari perché si giunga all’elezione di Mohammad Khatami – che
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pur essendo un esponente del clero non aderisce certo alla visione tradizionalista - alla
Presidenza della Repubblica.
Ovviamente, tuttavia, gli esiti delle elezioni presidenziali, e poi quelli, analogamente
orientati, delle elezioni amministrative e parlamentari, se indeboliscono fortemente la
presenza della destra tradizionalista in tutte le istanze rappresentative, certo non intaccano i
corpi non elettivi, quali per esempio il Consiglio di Vigilanza (che fra l’altro ha il potere di
annullare qualsiasi legge varata dal Parlamento che ritenga contraria alla Costituzione o ai
principi islamici), il Consiglio delle Opportunità (che dovrebbe “mediare” fra il Consiglio di
Vigilanza e il Parlamento), i diversi organismi del sistema giudiziario; anche le prerogative, e
il peso, del Rahbar (cfr. supra, Nota 14) rimangono intatti. La destra tradizionalista conserva
dunque quasi tutti i poteri che già deteneva; e da una simile “schizofrenia” politica, mentre i
conservatori oltranzisti riescono a trarre profitto anche dalle divergenze fra i settori riformisti
(sostenitori di Khatami) e la destra tecnocratica, moderna, che si contrappongono gli uni
all’altra riguardo soprattutto agli indirizzi generali da imprimere all’economia nazionalexvi,
scaturiscono sempre più dure occasioni di contrasto - a partire dall’autunno 1998 i cosiddetti
“gruppi di pressione”, cioè i settori più estremisti della destra tradizionalista, mettono in atto una serie di
iniziative tese a bloccare il processo evolutivo della società civile iraniana, quali per esempio gli
assassinii di alcuni intellettuali, vari tentativi di sabotare le elezioni amministrative, l’incarcerazione del
sindaco di Teheran, la chiusura di quasi tutti gli organi di stampa, le aggressioni ai campus universitari,
attentati terroristici, arresti e processi ai danni di studiosi e uomini politici vicini a Khatami.
Una reazione tanto dura, e che mentre scriviamo (febbraio 2003) non si è ancora esaurita, ha due
motivazioni fondamentali. Da un lato si vuole difendere a oltranza l’ideologia conservatrice per cui la
legge religiosa renderebbe pressoché inutili le leggi di elaborazione “umana”, e la gestione dello Stato
dovrebbe essere affidata ad una élite-guida (i massimi giurisperiti islamici in grado di interpretare ed
applicare il dettato teologico) che si sovrapponga all’espressione della volontà popolare, alla quale
dunque non sarebbe indispensabile concedere particolari libertà politiche, ma che andrebbe invece
orientata ed educata secondo canoni codificati ed inalterabili. Dall’altro lato, si vogliono difendere ben
precisi interessi: questa parte infatti propugna una concezione economica che, pur privilegiando
l’iniziativa privata, rimane legata al passato - ciò che preme non è adeguare le strutture nazionali al
capitalismo moderno, bensì mantenere in vita rapporti economici pre-capitalistici (in una parola:
un’economia parassitaria, esclusivamente mercantile, incarnata in sostanza dal bazaar), estremamente
semplificati e quindi facilmente adattabili alle norme di base del pensiero teologico. Occorre inoltre
ricordare che le masse di manovra della destra estremista sono costituite, ormai da più di un ventennio,
dal sottoproletariato urbano (in buona parte composto di poveri contadini inurbati), le cui condizioni di
mera sopravvivenza dipendono ferreamente dalle Fondazioni e da altri enti religiosi di assistenza.
Le sorti della dialettica politica interna all’Iran appaiono dunque legate in modo fondamentale
all’evoluzione del sistema economico del Paese. Un processo equilibrato di industrializzazione potrebbe
infatti consentire la formazione di partiti veri e propri, rappresentativi di una vasta gamma di interessi e
ideali, un proficuo assorbimento nel mercato del lavoro anche di quei settori di popolazione che ancora
dipendono dall’assistenzialismo religioso, e nel contempo l’emancipazione del potere dallo stato di
rentier, tuttora garantito dal petrolio. Una collaborazione dell’Europa con l’Iran in questa direzione, nel
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rispetto dei “ritmi” interni del Paese, agevolerebbe senza dubbio il processo, senza d’altro canto imporre
– come invece potrebbe accadere nel caso di una “invasione culturale” statunitense - svolte di costume
troppo rapide e radicali, quindi innaturali e suscettibili di reazioni forti da parte dei conservatori.
i I due termini “integralismo” e “fondamentalismo”, quando applicati all’Islam, non sono perfettamente
sovrapponibili, né sempre e comunque usati in modo proprio. Si veda in proposito E. Pace – R. Guolo,
I fondamentalismi, Roma-Bari 1998.ii Cfr. H.Enayat, Religion and Modern World, in AA.VV, Rainfall is on the Horizon, Teheran, 1997.iii I Sunniti pongono fine all’ijtihad (lo “sforzo autonomo della ragione” nell’interpretazione del testo della
Rivelazione) nell’anno 862. Da quel momento, l’ortodossia islamica si manterrà rigidamente fedele all’una o all’altra
di “scuole giuridiche”, di cui quattro sunnite ed una shi’ita. La Scuola Hanafita viene fondata verso la metà del
secolo VIII da Abu Hanifah, di origini persiane, a Kufa nell’odierno Iraq; oggi conta numerosi seguaci soprattutto
nell’Asia Centrale, in Afghanistan, India e Pakistan. La Scuola Malekita risale invece a Malik ben Anas, autore della
più antica raccolta di Hadith, ed è oggi diffusa soprattutto nell’Africa Settentrionale (Egitto escluso) e Orientale.
Vivono invece nel Bahrein, nel sud dell’Arabia, in Indonesia e in Egitto i seguaci di ash-Shafi’i, notissimo
codificatore della giurisprudenza canonica islamica (Scuola Shafi’ita, sorta nel IX secolo). lbn Hanbal, morto
nell’855, è il fondatore della Scuola Hanbalita, oggi diffusa soprattutto nell’Arabia Saudita. La Scuola Shi’ita si
distingue dall’ortodossia sunnita perché gli Shi’iti ritengono che la scelta dell’lmam non possa essere di carattere
elettivo (cioè provenire dal basso), ma proceda direttamente da Allah e dal suo Profeta: infatti, sulla base di vari passi
del Corano e del Hadith (“Tradizione”) essi ritengono che il ruolo di guida, alla morte di Mohammad, spettasse di
diritto al genero di lui Ali, in quanto esplicitamente considerato dal Profeta come il più degno e il più vicino a se
stesso. In seguito il dovere di tutelare il messaggio divino fu trasmesso ad altri undici Imam, tutti discendenti della
Famiglia del Profeta: personalità di grande rilievo storico e soprattutto spirituale condannate al martirio per ordine dei
califfi sunniti, tranne il dodicesimo, che per volontà divina entrò “in occultazione” nel 329 (939 d.C.), e di cui si
attende tuttora il ritorno come salvatore dell’umanità. lI ruolo dell’lmam, che esercita la funzione di guida religiosa
secondo la triplice ottica del governo islamico, delle prescrizioni islamiche e della direzione della vita spirituale, e la
cui figura risponde alla necessità di assicurare alla comunità dei credenti un “governo” di garanzia e indirizzo
secondo gli orientamenti religiosi, è dunque un tratto distintivo dell’Islam sciita rispetto all’Islam sunnita. A fianco
della Scuola Shi’ita va poi ricordata la Scuola degli Zayditi, i seguaci del martire Zayd (figlio del quarto lmam dello
Sciismo) ucciso nel 737 dal califfo ummayade Hisham Abdu’l Malik contro la cui tirannia si era ribellato; essi
accolgono Ali come primo Imam, e in campo giuridico si attengono al codice di Abu Hanifah.iv Setta “interiorista” fondata nel III secolo dell’Egira (IX secolo dell’era cristiana).v Gruppo ribelle e sanguinario, resosi colpevole fra l’altro dell’assassinio di Ali, il primo Imam shi’ita.vi Naturalmente, per i sostenitori dell’Islam rigidamente tradizionalista la “età dell’oro” si sarebbe caratterizzata
esclusivamente come pura e letterale applicazione del dettato coranico. Afferma invece Mohammad Khatami, attuale
Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, nel libro Religione, libertà e democrazia, Roma-Bari 1999 (pagg. 98-
99): “Dopo il Profeta Mohammad, nei secoli III e IV dell’Egira, avvalendosi di una specifica interpretazione
dell’insegnamento islamico, e di particolari concezioni che l’Islam aveva accolto in sé traendole da altri e diversi
sistemi di pensiero, quali le civiltà greca e iranica, l’uomo musulmano ha creato una civiltà: ripeto, ha creato una
civiltà secondo un’interpretazione particolare del Corano e della Tradizione, e grazie ad acquisizioni derivanti dalle
conoscenze scientifiche. Si tratta di quella fase che definiamo civiltà islamica. È vero, essa è stata fondata sul
Corano, ma secondo deduzioni e metodi interpretativi che l’uomo di quei giorni elaborava riguardo al Corano, al
Libro, alla religione, all’essere umano e al mondo. Questa civiltà dei tempi d’oro è finita. (…) Come la civiltà
occidentale ha usufruito in larga misura della civiltà islamica, la civiltà islamica dei “tempi d’oro” ha usufruito in
larga misura delle civiltà iranica e greca.”
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vii Ovviamente, tutti i partiti e i movimenti seguaci dei Fratelli Musulmani - i Fratelli Musulmani in Egitto, il partito
Refah in Turchia, il Fronte Islamico di Liberazione in Algeria - definiscono “eretico” (bed’at; dal termine arabo
bid’a, che letteralmente significa “innovazione” rispetto all’ortodossia) ogni pensiero che introduca qualsiasi tipo di
interpretazione nuova dell’Islam; essi considerano gli Ulema come pilastri del proprio pensiero, e le risorse classiche
della cultura islamica come parametri validi per l’oggi. In Egitto i Fratelli Musulmani accusano di apostasia ed eresia
il pensatore della sinistra islamica Hassan Hanafi, perché, analizzando e valutando la cultura islamica, egli attribuisce
una delle responsabilità dell’arretratezza sociale proprio all’Islam tradizionale. Analogamente, Najmeddyn Erbakan,
leader del Refah in Turchia, in un’intervista, a chi gli domanda “che cosa occorra fare per rinvigorire il pensiero
religioso nelle società islamiche”, risponde: “Innanzitutto è sbagliato usare i termini ‘rinvigorire’ o ‘migliorare’ il
pensiero religioso”, e sottolinea che gli Ulema devono basarsi, come nel passato, sul Corano, sulla Tradizione e sulla
Comunità (cfr. Turkiye’nin Temel Meseleleri, “I fondamentali problemi della Turchia”, raccolta di interventi di N.
Erbakan, estate 1991).viii Ebne Tamimeh, tra il settimo secolo dell’Egira e la metà dell’ottavo (cioè tra il XIII e il XIV secolo d.C.), prese
duramente posizione contro il regime dell’epoca, fu imprigionato per molti anni in carceri diverse e morì nell’anno
728 dell’Egira nella prigione di Sham. Si può forse sintetizzare il suo pensiero in due concetti fondamentali: 1. ritorno
al Corano e rinascita della tradizione del Profeta; 2. lotta e guerra santa contro il potere che commette ingiustizie.
Eqbal Lahouri, nel testo Ripristino della vita religiosa, dice di lui: “È stato il primo a lanciare lo slogan Ritorno al
Corano.” Dopo la sua morte, i seguaci del pensiero tradizionale nelle società islamiche si sono impegnati a fondo per
utilizzare a proprio favore le sue idee, ottenendo in tale direzione notevoli successi; oggi tra i fautori della diffusione
“strumentale” delle sue idee si può includere la monarchia Saudita.ix Cfr. Saleh Al-Verdani, “I movimenti islamici in Egitto”, Il Cairo 1988.x Il wahabismo è un movimento islamico rigorista radicale, fortemente conservatore e integrista, fondato in Arabia
nel 1745 da Muhammad ibn Abd al-Wahab (1703/1791), e che in seguito ha legato le proprie fortune a quelle degli
emiri del Neged, dinastia dei Banu Saud, divenendo un fattore del progressivo controllo saudita sulla Penisola arabica
a partire già dall’ultimo ventennio del XVIII secolo, quando i Saud avviano l’unificazione delle tribù beduine
dell’Arabia settentrionale, rendendole indipendenti dall’impero ottomano.xi cfr. F. Rajaee, Social Origins of Political Elites in Iran, in The Iranian Journal of International Affairs, vol. VI.xii Cfr. W. Hinz, Kartir va Sangnebshteh ou dar Ka’beh Zardosht, in Baresihay-e Tarikhi, Tehran1972.xiii Cfr. le tesi di H. A. Ahmadi, in Iran Farda, luglio 1996. Attualmente la rivista Iran Farda non viene pubblicata
perché chiusa d’autorità.xiv Il termine faqih significa “esperto di fiqh” (laddove fiqh è la “giurisprudenza”, il “diritto”, da intendere nel senso di
“scienza della Legge religiosa”, cioè di “definizione delle regole della Legge” riguardo ai diversi comportamenti
nella vita sociale). In una lettera all’allora Presidente della Repubblica Khamenei, nel 1988, l’Ayatollah Khomeini
delineò il concetto del “ruolo assoluto del teologo” (velayat-e matlaqeh faqih), secondo il quale esiste nel mondo, in
ciascun determinato periodo di tempo, un solo “teologo tutore” (vali-e faqih), sebbene nel contempo possa esistere
più di una autorità teologica sciita. E il “teologo tutore” deve essere considerato l’unico rappresentante sulla Terra del
Profeta Mohammad e dei dodici lmam suoi successori, quindi l’unica autorità dotata di assoluti poteri di magistero.
L’Imam Khomeini assunse questa carica come fondatore della Repubblica Islamica e suo tutore teologico. Dopo la
sua scomparsa, avvenuta il 3 giugno 1989, l’Assemblea degli Esperti elesse a suo successore l’Ayatollah Seyed Ali
Khamenei che ancor oggi ricopre la carica in quanto Rahbar (“Guida”, “Leader”), la più alta autorità della
Repubblica Islamica; egli esercita un ruolo supremo che è politico e religioso insieme, in quanto manifestazione
dell’integrazione fra religione e politica (cfr. l’Art. 5 della Costituzione).xv Si può definire “iranista” la corrente di pensiero di tipo nazionalista che privilegia appunto gli interessi nazionali. I
suoi elementi fondanti sono la fiducia in una evoluzione politica equilibrata, graduale e democratica, la difesa della
sovranità territoriale, la volontà di far uscire l’Iran dall’isolamento e consolidarne le posizioni nel contesto
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internazionale, la diffusione del pensiero tecnologico, la creazione di uno Stato di diritto. Diversamente dal passato,
questa corrente di pensiero – che ha trovato nuova linfa durante la guerra di difesa dall’invasione irachena, e che
include diverse correnti, tra cui anche il pensiero laico-liberale e l’idea social-democratica - non è circoscritta agli
ambienti intellettuali e di élite, ma si radica in tutti gli strati della popolazione, non è forzatamente anti-islamica e non
si considera in guerra con l’Occidente.xvi La “destra moderna”, caratterizzata da una buona dose di pragmatismo, accetta il moderno capitalismo e lavora
perché l’Iran possa entrare, pur conservando la propria specificità e tutelando al massimo la propria indipendenza, nel
processo di globalizzazione economica. Oggi la “sinistra” dei riformisti (sostenitrice di Khatami) crede invece in un
sistema economico misto, dove l’iniziativa privata sia regolata da controlli statali, e pone al primo posto l’esigenza
della giustizia sociale, considerata condizione imprescindibile per qualsiasi sviluppo. Entrambi questi gruppi
sottolineano la necessità del “predominio della legge”, cioè del prevalere della legalità; credono nella partecipazione
attiva della popolazione alla gestione della cosa pubblica; considerano fondamentale lo sviluppo della società civile
sia riguardo alla sua piena fruizione delle libertà politiche e dei diritti, sia riguardo alla circolazione delle idee e al
loro confronto.