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1 L’Islam radicale e la specificità iraniana di Majid Karshenas (Università di Isfahan ) Roma, settembre 2003 Si può dire che il concetto di integralismo o fondamentalismo i islamico si diffonda per la prima volta nella coscienza collettiva occidentale nel novembre 1979, al momento dell’occupazione dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America a Teheran. In realtà, il fenomeno è da considerarsi assai più antico, in quanto tutti gli ultimi duecento anni hanno visto nelle società musulmane lo sviluppo, sia pure attraverso fasi di diversa intensità e vicende alterne, di quel particolare meccanismo di azione-reazione per cui da un lato sistemi esterni alle società stesse esercitano un’attrazione gravitazionale sui loro rapporti interni in campo sociale, economico e culturale, dall’altro la cultura tradizionale delle medesime comunità, in esse profondamente radicata, al fine contrastare questa più o meno esplicita, più o meno violenta, “aggressione” mette in atto ogni sforzo per mantenere o riprendere sotto il proprio controllo quei rapporti, interpretando ogni carenza, crisi, difficoltà interna come causata esclusivamente dall’esterno, condannando come “innovazione” o “idea d’importazione” qualsiasi corrente di pensiero diversa da sé, e affermando l’indispensabilità di un ritorno pieno alle “basi pure”, svincolate da qualsivoglia ancoraggio storico-temporale, della religione come unico rimedio. Tutte le società musulmane segnate da questo lungo travaglio (con l’eccezione, come vedremo, dell’Iran, che ha goduto e gode di condizioni diverse) presentano dunque come prima caratteristica comune, insieme ad una generale arretratezza culturale, questo conflitto fra la propria cultura tradizionale e altre culture non-autoctone – che si riducono poi sostanzialmente all’unico modello culturale in grado di competere con essa: la cultura occidentale intesa come un tutto unico e largamente indifferenziato ii . Un secondo carattere comune può essere individuato nella diffusa, e spesso profonda, crisi sociale – contraddistinta da vari fattori, tra cui l’assenza di un equo sistema di istruzione, l’analfabetismo diffuso, il mancato controllo dell’incremento demografico, la piaga dell’emigrazione. Accanto a questi due elementi, ricorre costantemente una situazione di crisi economica, sempre caratterizzata dalla dipendenza dei Paesi dai sistemi economici stranieri nei settori alimentare, farmaceutico, tecnologico e finanziario, dallo sfruttamento dei lavoratori (inclusi, in molti casi, i bambini), da una diffusa condizione di povertà. Sono esistiti ed esistono, dunque, gruppi e correnti di pensiero secondo i quali l’unica risposta a simili drammatiche situazioni di crisi, l’unico strumento per porvi rimedio e ritornare ad una sorta di “età dell’oro” delle società islamiche colpita e (temporaneamente) cancellata dagli aggressori esterni, è l’Islam tradizionale, o classico: cioè una lettura, ed interpretazione, del dettato islamico che mentre afferma di fondarsi semplicemente sulla

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L’Islam radicale e la specificità iraniana

di Majid Karshenas

(Università di Isfahan)

Roma, settembre 2003

Si può dire che il concetto di integralismo o fondamentalismoi islamico si diffonda per

la prima volta nella coscienza collettiva occidentale nel novembre 1979, al momento

dell’occupazione dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America a Teheran. In realtà, il

fenomeno è da considerarsi assai più antico, in quanto tutti gli ultimi duecento anni hanno

visto nelle società musulmane lo sviluppo, sia pure attraverso fasi di diversa intensità e

vicende alterne, di quel particolare meccanismo di azione-reazione per cui da un lato sistemi

esterni alle società stesse esercitano un’attrazione gravitazionale sui loro rapporti interni in

campo sociale, economico e culturale, dall’altro la cultura tradizionale delle medesime

comunità, in esse profondamente radicata, al fine contrastare questa più o meno esplicita, più

o meno violenta, “aggressione” mette in atto ogni sforzo per mantenere o riprendere sotto il

proprio controllo quei rapporti, interpretando ogni carenza, crisi, difficoltà interna come

causata esclusivamente dall’esterno, condannando come “innovazione” o “idea

d’importazione” qualsiasi corrente di pensiero diversa da sé, e affermando l’indispensabilità

di un ritorno pieno alle “basi pure”, svincolate da qualsivoglia ancoraggio storico-temporale,

della religione come unico rimedio.

Tutte le società musulmane segnate da questo lungo travaglio (con l’eccezione, come

vedremo, dell’Iran, che ha goduto e gode di condizioni diverse) presentano dunque come

prima caratteristica comune, insieme ad una generale arretratezza culturale, questo conflitto

fra la propria cultura tradizionale e altre culture non-autoctone – che si riducono poi

sostanzialmente all’unico modello culturale in grado di competere con essa: la cultura

occidentale intesa come un tutto unico e largamente indifferenziatoii. Un secondo carattere

comune può essere individuato nella diffusa, e spesso profonda, crisi sociale – contraddistinta

da vari fattori, tra cui l’assenza di un equo sistema di istruzione, l’analfabetismo diffuso, il

mancato controllo dell’incremento demografico, la piaga dell’emigrazione. Accanto a questi

due elementi, ricorre costantemente una situazione di crisi economica, sempre caratterizzata

dalla dipendenza dei Paesi dai sistemi economici stranieri nei settori alimentare,

farmaceutico, tecnologico e finanziario, dallo sfruttamento dei lavoratori (inclusi, in molti

casi, i bambini), da una diffusa condizione di povertà.

Sono esistiti ed esistono, dunque, gruppi e correnti di pensiero secondo i quali l’unica

risposta a simili drammatiche situazioni di crisi, l’unico strumento per porvi rimedio e

ritornare ad una sorta di “età dell’oro” delle società islamiche colpita e (temporaneamente)

cancellata dagli aggressori esterni, è l’Islam tradizionale, o classico: cioè una lettura, ed

interpretazione, del dettato islamico che mentre afferma di fondarsi semplicemente sulla

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“versione integrale” del Corano e della tradizione del Profeta, in realtà è solidamente basata –

come teorizza anche lo scrittore egiziano Abdoljavad Yassin - soprattutto sulle vicende

storiche dell’Islam. In altri termini, i pilastri di sostegno dell’Islam classico sono le

codificazioni teologiche delle cinque tradizioni religiose che hanno dato forma al pensiero

islamicoiii, codificazioni rimaste pressoché immutate nei secoli anche perché i teologi

islamici, in reazione alle eresie Batinitaiv e Carigitav, tranne che in poche eccezioni segnalabili

essenzialmente soltanto nell’Islam shi’ita, hanno relegato ai margini il pensiero filosofico –

“tradendo” l’antica apertura alla scienza e all’aristotelismovi incarnata dai vari Avicenna e

Averroè e manifestando una violenta ostilità nei confronti del ragionamento dimostrativo,

della logica e dell’intelletto raziocinante.

I movimenti religiosi conservatori (potremmo definirli “di destra”, anche se le

categorie politiche “destra” e “sinistra” in relazione alle società musulmane dovrebbero essere

utilizzate con grande cautela, non essendo mai le situazioni perfettamente sovrapponibili a

quelle occidentali), nella fase della loro formazione, cominciano dunque con attività di tipo

culturale, in reazione ai rischi di disgregazione dei valori tradizionali sotto la spinta - quasi

sempre aggressiva, anche in modo violento – dell’intervento occidentale; ma non passa molto

tempo prima che abbia luogo la fondazione del primo movimento politico di destra, ad opera

di Hassan al-Banna; e successivamente le idee dei “Fratelli Musulmani” si diffondono in tutti

i Paesi arabi.

Poiché con la prima guerra mondiale è stato annientato l’impero Ottomano, e nell’area

si sono verificati l’espansione del colonialismo e la nascita del nazionalismo, le lotte di

liberazione nelle stesse zone hanno raggiunto il massimo grado di intensità. Ma i Fratelli

Musulmani, che intendono resuscitare il Califfato islamico, pur essendosi radicati in tutto il

mondo arabo non sono in grado di guidare le lotte della popolazione. Dopo la seconda guerra

mondiale, lo sviluppo del nazionalismo, e in particolare l’idea nasseriana in Egitto, sono le

ragioni per cui questo movimento rimane isolato. E poiché i governi arabi promuovono varie

iniziative per reprimerlo, la repressione, fortissima e sanguinosa, subita in Egitto, Siria e

Sudan lo costringe a ripiegare di nuovo su un’attività di tipo culturale.

È solo negli ultimi decenni del XX secolo che i seguaci del pensiero di al-Banna si

ripresentano sulla scena politica. La morte di Nasser e l’assassinio di Sadat in Egitto, la

Rivoluzione in Iran, la mancata soluzione del problema palestinese, la sconfitta del

nazionalismo arabo e del marxismo terzomondista (che non sono riusciti a trasformarsi in

movimenti di massa), hanno preparato le condizioni necessarie perché in Egitto, Palestina,

Algeria, Tunisia, Turchia e Marocco (l’Iran non fa parte di questa panoramica) i Fratelli

Musulmani tornino ad assumere il ruolo di protagonisti. Sebbene in ciascun Paese il

movimento si trovi a trattare con basi storiche diverse e adotti di conseguenza metodi diversi,

tuttavia la sua linea strategica per l’acquisizione del potere politico o la partecipazione alla

gestione di esso è sempre fondata su un’idea dello Stato che difenda la cultura e la religione

tradizionalistavii; conquistano una base di massa, si avvalgono di organizzazioni di categoria

di grandi dimensioni, e possono contare su grandi risorse economiche, che reinvestono in vari

settori, come imprese o banche. Dal punto di vista organizzativo i Fratelli Musulmani

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costituiscono la più compatta tra le forze religiose che sviluppino un’attività significativa nei

settori economici e politici e nelle strutture culturali.

Tuttavia, non solo i Fratelli Musulmani, ma anche tutti gli altri partiti religiosi di

destra attivi nei Paesi arabi, soffrono profondamente della mancanza di una teoria politica che

presenti il “bene generale” come propria struttura fondamentale e gli interessi del popolo

come proprio contenuto, e perseguono unicamente il predominio della religione tramite

l’intervento nella politica. Da un lato, la popolazione povera ed emarginata costituisce la loro

principale base di consenso, ed essi la organizzano mediante l’uso degli slogan e delle

tradizioni religiose; dall’altro, essi riescono ad assorbire buona parte dei ceti professionali

(medici, avvocati, giornalisti, editori) inserendoli nelle proprie strutture religiose e persino in

centri scolastici ed economici. La loro attività politica, incentrandosi sul dominio di norme

religiose “di costume”, quali l’abbigliamento islamico e la proibizione della vendita di

bevande alcoliche, promuove inoltre un vasto sforzo propagandistico contro gli altri gruppi e

movimenti religiosi non fondati sull’Islam classico ma impegnati nell’opposizione ai regimi

totalitari. La loro azione sviluppa e rinfocola contraddizioni marginali, creando conflitti senza

risultato politico.

La conseguenza di una simile impostazione, quando esaminata al di là di ogni

clamorosa apparenza, si traduce nella preparazione del terreno perché nelle società

musulmane in cui sono attivi i regimi totalitari questi ultimi continuino a reggersi.

Come ulteriore conseguenza, dunque, nei decenni Settanta/ Ottanta le politiche di

“collusione” dei partiti religiosi di destra conducono alla nascita di movimenti che sorgono

con l’obiettivo di affrontare i regimi totalitari con programmi di tipo militare.

Senza dubbio una ruolo molto importante nella formazione di tali movimenti è svolto

dal pensiero di Seyed Qotb, che nel testo Indicazioni di percorso delinea il concetto arabo di

Stato nella religione, considerando la repressione e le politiche antipopolari come contrarie

alla legge coranica, e di conseguenza obbligatoria e sacra la jihad contro di esse. Accanto al

pensiero di Qotb, anche altri – Omar Abdorrahman, Saleh Syrie, Mohammad Abdolsalam –

acquisiscono importanza speciale nei gruppi militanti religiosi, diffondendo il concetto della

lotta armata in riferimento a versetti del Corano. La maggior parte di questi movimenti e

gruppi, diversamente dai partiti religiosi di destra (che si fondono sul pensiero tradizionale

islamico ma colludono con i regimi dispotici per acquisire il potere o parteciparvi) si basano a

loro volta sul pensiero classico, ma ritengono che l’unica strada per giungere alla liberazione

del popolo oppresso sia la lotta militare contro i regimi locali dominanti, e considerano Ebne

Tamimeh il proprio padre storicoviii. Uno dei più attivi fra i gruppi di questo tipo è il Jama’at

Eslami in Egitto, che negli ultimi decenni ha organizzato azioni militari contro il potere, e

nella propria elaborazione teorica ha sviluppato una dura opposizione alle politiche dei

Fratelli Musulmani, dei movimenti cristiani e delle sette sufi in Egittoix. I movimenti come

Jama’at Eslami, o Jihad Eslami, che per quanto riguarda la configurazione di classe

provengono dai ceti più poveri, si sono comunque diffusi soprattutto nelle università, e

poiché attribuiscono alla lotta armata un carattere sacrale continuano ad operare in forma di

sette o piccoli gruppi; in ogni caso, e questa volta non diversamente dai partiti della destra

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religiosa, soffrono profondamente della mancanza di una ricca e strutturata elaborazione

teorica – anch’essi si limitano a ritenere che il predominio della legge religiosa sia l’unica

strada che i Paesi arabi e musulmani possano imboccare per uscire dalle proprie crisi.

Bisogna aggiungere un’ulteriore considerazione. Come si è detto, la povertà

dell’elaborazione politica dei partiti religiosi di destra nei Paesi arabi e islamici e

l’impostazione miope dei loro programmi produce come conseguenza una loro “collusione” di

fatto con i regimi al potere nei rispettivi Paesi. Un simile meccanismo oggettivo di causa-

effetto non sfugge all’attenzione di quei Paesi dell’Occidente per i quali la permanenza al

potere di tali regimi, malgrado il loro carattere antidemocratico (o in molti casi proprio grazie

ad esso), costituisce una sorta di garanzia: garanzia che il rapporto di oggettiva dipendenza

del Paese arabo/islamico dal sistema economico occidentale post-colonialista non venga

messo veramente e profondamente in crisi dal nascere magari di nuove forme di Stato

democratiche, fondate sul consenso popolare e quindi forti, in grado eventualmente di mettere

in seria discussione la gestione delle risorse nazionali o addirittura gli assetti regionali. Ne

deriva che spesso Paesi quali la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, mentre i loro mass-media

puntano il dito contro ogni forma di integralismo islamico, e i loro governi conducono una

politica ufficiale di condanna e isolamento dei partiti musulmani di destra, in realtà compiono

ogni sforzo per riuscire ad assumere in una maniera o nell’altra, ovviamente in modo

“coperto” e sempre sdegnosamente smentito, un ruolo di condizionamento di quegli stessi

partiti, tramite infiltrazioni, vendite “triangolari” di armi e altri metodi propri

dell’intelligence.

Questa prassi, divenuta abituale e perfezionata con il trascorrere dei decenni, ha

spesso consentito all’Occidente di servirsi di questo o quel gruppo di musulmani integralisti

anche per “gestire” situazioni e assetti più complessi. Si pensi per esempio all’iniziativa

condotta in porto dai servizi segreti britannici in Pakistan per creare, letteralmente dal nulla,

il gruppo degli “studenti” Talebani al fine di mantenere sotto il proprio controllo

quell’Afghanistan da cui lo scontro fra gli interessi sovietici e gli interessi statunitensi

rischiava di escluderli definitivamente; analogamente, si pensi al sostegno concreto, militare e

non solo, fornito dagli USA ai Modjaheddyn afgani, ed in quest’ambito anche alle correnti più

oltranziste dei Modjaheddyn stessi, nella loro lotta contro l’URSS.

Queste strategie occidentali non avevano però tenuto conto della possibilità che

analoghe iniziative potessero essere messe in atto anche da altri Stati, non occidentali ma

dotati delle risorse necessarie per inserirsi nel “grande gioco” che da decenni ha per posta la

vastissima area petrolifera che si estende dal Medio Oriente al Caucaso all’Asia Centrale. È il

caso dell’Arabia Saudita, il cui foraggiamento – anch’esso sempre smentito ufficialmente, e

probabilmente dovuto alla decisione non dell’intera Casa reale saudita ma solo ad una parte

dei suoi membri – della guerriglia cecena e soprattutto di personaggi e gruppi in modo più o

meno diretto legati ad Al Qeida, pur finalizzato a strategie geopolitiche e geoeconomiche, si

fonda sulla fede wahabitax che accomuna ai Sauditi settori consistenti delle popolazioni

sunnite di Afghanistan, Pakistan e Cecenia.

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A questo punto è necessario però precisare che (concetto che appare ovvio se vi si

riflette attentamente, ma che non è quasi mai preso in considerazione né dalla stampa né da

molti leaders politici occidentali) i sostenitori dell’Islam tradizionale nei Paesi musulmani

sunniti rifiutano radicalmente l’elaborazione teologica shi’ita – e viceversa. Anzi, i

tradizionalisti sunniti spesso considerano “eresia” lo Shi’ismo, adeguandosi alla linea

duramente repressiva adottata per secoli dai Califfi nei confronti dei seguaci di Ali (dei dodici

Imam shi’iti, tranne l’ultimo, che i fedeli ritengono “in occultazione” e di cui è atteso il

ritorno alla fine dei tempi, tutti gli altri undici morirono uccisi proprio per mano sunnita).

D’altro canto, per quanto riguarda gli Shi’iti di oggi, va ricordato che, per una serie di ragioni

storiche, nell’Islam shi’ita è confluito, durante i secoli, anche il sentimento dell’orgoglio

nazionale (anti-arabo) persiano. Questa contrapposizione è tanto forte – proprio perché

fondata sul rispettivo rigido richiamo all’ortodossia – da impedire ancora oggi il nascere e lo

svilupparsi di autentiche sinergie fra l’Islam radicale sunnita e l’Islam radicale shi’ita; il

quale, occorre aggiungere, presenta caratteri propri riguardo sia al radicamento sociale sia alla

propria evoluzione storica, oltre che riguardo all’impostazione giuridico-politica. Di

conseguenza, se è vero che il successo della Rivoluzione iraniana del 1978/79 ha in qualche

modo “aperto la strada” al crescere delle rivendicazioni di tutto l’Islam, mostrando come

questa religione potesse agevolmente svolgere il compito di nucleo coagulante ed anche di

ideologia della liberazione prima svolto per esempio dal pensiero socialista e comunista

(entrato in crisi ben prima del 1978, soprattutto a causa delle sue degenerazioni sovietiche),

d’altro canto però anche ai più accesi fra i religiosi iraniani sostenitori della teoria della

“esportazione della rivoluzione” è apparso ben presto molto evidente che la loro esperienza

non avrebbe trovato un seguito immediato e concreto nei Paesi arabi o musulmani-non arabi; e

tanto meno la leadership shi’ita si sarebbe potuta imporre fuori dai confini dell’Iran (fanno

eccezione il Libano, dove comunque una parte consistente della popolazione è musulmana

shi’ita, e le regioni meridionali dell’Iraq, dove le masse shi’ite costituiscono quasi due terzi

del totale).

È vero però che l’Iran è stato il primo Paese dove la forma dello Stato, la

Costituzione, le istituzioni e le leggi siano state pienamente adeguate al dettato islamico; può

essere dunque interessante osservare come qui abbia agito e si sia evoluta la corrente di

pensiero più legata ai fondamenti dell’Islam tradizionale.

Può essere utile premettere qualche considerazione che metta in luce alcuni caratteri

della specificità dell’Iran anche riguardo a quanto detto finora. Nel corso dei secoli, nel quadro

della civiltà iraniana, il potere politico si è sempre retto su tre pilastri, e in ciascuna fase storica le élites

politiche iraniane sono germogliate sull’uno o sull’altro di essi: si tratta dei potenti delle tribù, dei potenti

nel settore economico, e dei potenti religiosixi. Questi ultimi si possono raccogliere in un gruppo

conosciuto con denominazioni diverse nelle varie epoche: sacerdoti, Magi, membri del clero, e

nell’insieme gli uomini di religione. La struttura filosofica del pensiero dei primi Iraniani si può

caratterizzare come una visione del mondo di tipo cosmologico, dove si ritiene che l’universo abbia un

ordine pre-determinato; che, di conseguenza, sia importante individuare il metodo opportuno per edificare

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un modello di vita appropriato all’interno di tale ordine; che a tal fine sia necessaria la religione – e che

gli uomini di religione siano sia i guardiani sia i promulgatori di tale “metodo opportuno”.

Evidentemente, nella storia dell’Iran, il potere e lo status dei leaders religiosi li ha resi non solo

un’élite, ma anche produttori di élites. Un esempio rilevante di questo gruppo è Kartir, sommo sacerdote

nell’era sassanide, che era virtualmente il leader indiscutibile in quasi tutti i campixii. Il ceto religioso ha

addirittura, occasionalmente, rivendicato il diritto di governare e dato vita a una dinastia. In ogni caso, il

suo ruolo storico si è mantenuto in modo più o meno permanente. L’avvento dell’Islam e specialmente

dello Shi’ismo non indebolisce questo ruolo, anzi lo rafforza: gli Ulema shi’iti diventano gli eredi degli

Imam e spesso, nel loro nome, si ribellano ai detentori del potere del tempo.

Ciò avviene anche in periodi recenti, per esempio nel 1890, ancora regnante la dinastia Qajar,

quando gli Ulema persiani appoggiano la Rivolta del Tabacco, e la loro influenza, derivante dal grande

prestigio di cui godono presso le masse popolari, si rivela determinante, insieme con la ribellione del ceto

mercantile da un lato e dell’élite intellettuale progressista filo-europea dall’altro, per costringere il

monarca a revocare la concessione. La dura opposizione del clero (o meglio, di quella parte del clero

che non si assimila alla Corte) nei confronti dello shah e delle forze estere che lo sostengono come

strumento per lo sfruttamento delle risorse nazionali dell’Iran è uno dei fattori più importanti anche nelle

lotte antimonarchiche successive, quale la Rivoluzione Costituzionale del 1905/6, sino alla Rivoluzione

del 1978/79, dove la figura dell’Ayatollah Khomeini e il chador diventano riferimenti unificanti per tutto

il vasto e variegato panorama di forze che lottano contro il dispotismo dei Pahlavi e la preponderante

presenza statunitense.

Naturalmente anche in Iran si riscontrano i tentativi – non raramente coronati da successo -

operati dai Britannici (e poi anche dagli USA, per esempio in occasione del colpo di Stato del 1953 contro

Mossadeq) per “attrarre” a sé singole personalità religiose o gruppi di esponenti del clero al fine di

condizionarne l’azione, per influire indirettamente ma efficacemente sia sui governanti, sia sulle prese di

posizione dei fedeli.

Prima della Rivoluzione del 1978/79, il clero iraniano, da sempre presente nella

società civile, è diviso in gruppi religioso-politici e in gruppi puramente religiosi: con il

crollo della monarchia, i primi possono rapidamente occupare i posti di potere, e con

altrettanta rapidità si dividono in numerose fazioni. La Repubblica Islamica non assume una

forma organizzativa piramidale, ma si presenta come un corpo con membra diversificate. La

struttura del potere nel sistemaxiii è costituita da alcuni “anelli”, reciprocamente legati ma nel

contempo dotati di vari gradi di autonomia. Tale struttura non monocentrica, che sembra di

tipo tribale, ha ovviamente radici storiche; la pluralità dei centri di potere in concorrenza

reciproca esisteva già nel sistema monarchico, perché, pur essendo il potere accentrato nelle

mani dello shah, in ogni tribù, in ogni zona del Paese, il signorotto locale o il governatore

militare detenevano un potere assoluto. Con la fondazione della Repubblica Islamica, ci si

trova di fronte a un nuovo tipo di “tribalismo”, che certo non ha la forma del pluralismo

occidentale e non possiede, se non occasionalmente e accidentalmente, i caratteri propri di

una struttura democratica. La maggior parte dei posti di potere vengono assegnati secondo le

regole del nepotismo e del clientelismo; la rete delle parentele detiene il potere reale,

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gestendo la maggior parte delle attività dello Stato, tanto che è necessario osservare i legami

di fedeltà tra le persone più che le divisioni ideologiche o le gerarchie burocratiche.

L’anello decisionale più potente si trova al centro degli altri anelli, e comprende una

élite i cui membri in maggioranza si identificano con i leaders religiosi che vantano più ampio

seguito popolare – nella cultura politica dominante il carisma individuale è più importante del

grado gerarchico o della qualifica. Esiste poi un secondo anello costituito da una élite mista di

membri del clero e anche di persone che non fanno parte della gerarchia religiosa: al suo

interno si delineano due gruppi distinti, i “tecnocrati” e gli “ideologi”, radicalmente diversi

fra loro per cultura, metodi di gestione e tipo di lavoro svolto.

Al di fuori di questi due anelli esistono gruppi che dirigono e acquisiscono potere in

modi diversi: a fianco delle Fondazioni (potentati economici la cui ragione sociale ha scopi di

beneficenza, ma che svolgono imponenti e fruttuose attività economiche di ogni tipo, fanno

capo alla Guida Spirituale e non sono soggetti alla legge ordinaria) troviamo l’Esercito dei

Pasdaran (i “Guardiani” della Rivoluzione) e altre forze di intervento, come i Basidj

(miliziani giovanissimi) e i Comitati di Soccorso. All’interno della società civile, il

movimento dei sostenitori dello Stato religioso si coagula in due settori-capostipite, gli

Hezbollah (“Partito di Dio”), più aperti a una dialettica di confronto, e i “gruppi di

pressione”, cioè gli Ansar Hezbollah (“gli aiutanti del partito di Dio”), che non esitano a dare

vita ad iniziative di tipo squadristico ai danni, per esempio, di biblioteche, librerie, singoli

intellettuali. Tra i sostenitori dell’idea di “governo del clero” si annoverano poi anche

movimenti come Resalat e Hodjatieh.

La contraddizione più importante (sebbene per molto tempo non emerga con evidenza

se non agli occhi degli analisti più attenti), ancor più gravida di conseguenze della

suddivisione ideologico-politica in “destra” e “sinistra”, è quella che nel “secondo anello” del

potere divide i “tecnocrati” dagli “ideologi”. I primi considerano scienza, tecnologia e

istruzione basi dello sviluppo, e si comportano in modo pragmatico. Gli ideologi, invece, non

attribuiscono importanza alla managerialità moderna, all’esperienza tecnica e scientifica. Ciò

non significa che fra loro non si trovino professionisti (medici, ingegneri ecc.) e persone

istruite: tuttavia l’istruzione e la tecnica si trovano in fondo alla loro scala dei valori. Essi non

soltanto sono fedeli al velayat-e faqih xiv: sono convinti che il faqih si ponga al di sopra di

qualsiasi legge e della volontà della maggioranza espressa nel voto.

Verso la fine degli anni Novanta il dibattito che si accende in Iran riguardo al futuro

del Paese vede delinearsi con chiarezza tre distinte correnti di opinione: la “destra moderna”

(o tecnocratica) assume una posizione mediana tra i settori “iranisti”xv e gli islamisti

tradizionalisti – i quali, come si è detto, hanno già da tempo abbandonato le idee di

esportazione della rivoluzione e si sono trovati a fare i conti con i sentimenti nazionalisti

fortissimi all’interno della popolazione, quindi a dover ammorbidire, sia pure sul piano

tattico, la propria concezione oltranzista. La dialettica fra le tre correnti, che ha dunque

registrato il mutare dei rapporti di forza rispetto alla prima fase post-rivoluzionaria, apre

oggettivamente gli spazi necessari perché si giunga all’elezione di Mohammad Khatami – che

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pur essendo un esponente del clero non aderisce certo alla visione tradizionalista - alla

Presidenza della Repubblica.

Ovviamente, tuttavia, gli esiti delle elezioni presidenziali, e poi quelli, analogamente

orientati, delle elezioni amministrative e parlamentari, se indeboliscono fortemente la

presenza della destra tradizionalista in tutte le istanze rappresentative, certo non intaccano i

corpi non elettivi, quali per esempio il Consiglio di Vigilanza (che fra l’altro ha il potere di

annullare qualsiasi legge varata dal Parlamento che ritenga contraria alla Costituzione o ai

principi islamici), il Consiglio delle Opportunità (che dovrebbe “mediare” fra il Consiglio di

Vigilanza e il Parlamento), i diversi organismi del sistema giudiziario; anche le prerogative, e

il peso, del Rahbar (cfr. supra, Nota 14) rimangono intatti. La destra tradizionalista conserva

dunque quasi tutti i poteri che già deteneva; e da una simile “schizofrenia” politica, mentre i

conservatori oltranzisti riescono a trarre profitto anche dalle divergenze fra i settori riformisti

(sostenitori di Khatami) e la destra tecnocratica, moderna, che si contrappongono gli uni

all’altra riguardo soprattutto agli indirizzi generali da imprimere all’economia nazionalexvi,

scaturiscono sempre più dure occasioni di contrasto - a partire dall’autunno 1998 i cosiddetti

“gruppi di pressione”, cioè i settori più estremisti della destra tradizionalista, mettono in atto una serie di

iniziative tese a bloccare il processo evolutivo della società civile iraniana, quali per esempio gli

assassinii di alcuni intellettuali, vari tentativi di sabotare le elezioni amministrative, l’incarcerazione del

sindaco di Teheran, la chiusura di quasi tutti gli organi di stampa, le aggressioni ai campus universitari,

attentati terroristici, arresti e processi ai danni di studiosi e uomini politici vicini a Khatami.

Una reazione tanto dura, e che mentre scriviamo (febbraio 2003) non si è ancora esaurita, ha due

motivazioni fondamentali. Da un lato si vuole difendere a oltranza l’ideologia conservatrice per cui la

legge religiosa renderebbe pressoché inutili le leggi di elaborazione “umana”, e la gestione dello Stato

dovrebbe essere affidata ad una élite-guida (i massimi giurisperiti islamici in grado di interpretare ed

applicare il dettato teologico) che si sovrapponga all’espressione della volontà popolare, alla quale

dunque non sarebbe indispensabile concedere particolari libertà politiche, ma che andrebbe invece

orientata ed educata secondo canoni codificati ed inalterabili. Dall’altro lato, si vogliono difendere ben

precisi interessi: questa parte infatti propugna una concezione economica che, pur privilegiando

l’iniziativa privata, rimane legata al passato - ciò che preme non è adeguare le strutture nazionali al

capitalismo moderno, bensì mantenere in vita rapporti economici pre-capitalistici (in una parola:

un’economia parassitaria, esclusivamente mercantile, incarnata in sostanza dal bazaar), estremamente

semplificati e quindi facilmente adattabili alle norme di base del pensiero teologico. Occorre inoltre

ricordare che le masse di manovra della destra estremista sono costituite, ormai da più di un ventennio,

dal sottoproletariato urbano (in buona parte composto di poveri contadini inurbati), le cui condizioni di

mera sopravvivenza dipendono ferreamente dalle Fondazioni e da altri enti religiosi di assistenza.

Le sorti della dialettica politica interna all’Iran appaiono dunque legate in modo fondamentale

all’evoluzione del sistema economico del Paese. Un processo equilibrato di industrializzazione potrebbe

infatti consentire la formazione di partiti veri e propri, rappresentativi di una vasta gamma di interessi e

ideali, un proficuo assorbimento nel mercato del lavoro anche di quei settori di popolazione che ancora

dipendono dall’assistenzialismo religioso, e nel contempo l’emancipazione del potere dallo stato di

rentier, tuttora garantito dal petrolio. Una collaborazione dell’Europa con l’Iran in questa direzione, nel

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rispetto dei “ritmi” interni del Paese, agevolerebbe senza dubbio il processo, senza d’altro canto imporre

– come invece potrebbe accadere nel caso di una “invasione culturale” statunitense - svolte di costume

troppo rapide e radicali, quindi innaturali e suscettibili di reazioni forti da parte dei conservatori.

i I due termini “integralismo” e “fondamentalismo”, quando applicati all’Islam, non sono perfettamente

sovrapponibili, né sempre e comunque usati in modo proprio. Si veda in proposito E. Pace – R. Guolo,

I fondamentalismi, Roma-Bari 1998.ii Cfr. H.Enayat, Religion and Modern World, in AA.VV, Rainfall is on the Horizon, Teheran, 1997.iii I Sunniti pongono fine all’ijtihad (lo “sforzo autonomo della ragione” nell’interpretazione del testo della

Rivelazione) nell’anno 862. Da quel momento, l’ortodossia islamica si manterrà rigidamente fedele all’una o all’altra

di “scuole giuridiche”, di cui quattro sunnite ed una shi’ita. La Scuola Hanafita viene fondata verso la metà del

secolo VIII da Abu Hanifah, di origini persiane, a Kufa nell’odierno Iraq; oggi conta numerosi seguaci soprattutto

nell’Asia Centrale, in Afghanistan, India e Pakistan. La Scuola Malekita risale invece a Malik ben Anas, autore della

più antica raccolta di Hadith, ed è oggi diffusa soprattutto nell’Africa Settentrionale (Egitto escluso) e Orientale.

Vivono invece nel Bahrein, nel sud dell’Arabia, in Indonesia e in Egitto i seguaci di ash-Shafi’i, notissimo

codificatore della giurisprudenza canonica islamica (Scuola Shafi’ita, sorta nel IX secolo). lbn Hanbal, morto

nell’855, è il fondatore della Scuola Hanbalita, oggi diffusa soprattutto nell’Arabia Saudita. La Scuola Shi’ita si

distingue dall’ortodossia sunnita perché gli Shi’iti ritengono che la scelta dell’lmam non possa essere di carattere

elettivo (cioè provenire dal basso), ma proceda direttamente da Allah e dal suo Profeta: infatti, sulla base di vari passi

del Corano e del Hadith (“Tradizione”) essi ritengono che il ruolo di guida, alla morte di Mohammad, spettasse di

diritto al genero di lui Ali, in quanto esplicitamente considerato dal Profeta come il più degno e il più vicino a se

stesso. In seguito il dovere di tutelare il messaggio divino fu trasmesso ad altri undici Imam, tutti discendenti della

Famiglia del Profeta: personalità di grande rilievo storico e soprattutto spirituale condannate al martirio per ordine dei

califfi sunniti, tranne il dodicesimo, che per volontà divina entrò “in occultazione” nel 329 (939 d.C.), e di cui si

attende tuttora il ritorno come salvatore dell’umanità. lI ruolo dell’lmam, che esercita la funzione di guida religiosa

secondo la triplice ottica del governo islamico, delle prescrizioni islamiche e della direzione della vita spirituale, e la

cui figura risponde alla necessità di assicurare alla comunità dei credenti un “governo” di garanzia e indirizzo

secondo gli orientamenti religiosi, è dunque un tratto distintivo dell’Islam sciita rispetto all’Islam sunnita. A fianco

della Scuola Shi’ita va poi ricordata la Scuola degli Zayditi, i seguaci del martire Zayd (figlio del quarto lmam dello

Sciismo) ucciso nel 737 dal califfo ummayade Hisham Abdu’l Malik contro la cui tirannia si era ribellato; essi

accolgono Ali come primo Imam, e in campo giuridico si attengono al codice di Abu Hanifah.iv Setta “interiorista” fondata nel III secolo dell’Egira (IX secolo dell’era cristiana).v Gruppo ribelle e sanguinario, resosi colpevole fra l’altro dell’assassinio di Ali, il primo Imam shi’ita.vi Naturalmente, per i sostenitori dell’Islam rigidamente tradizionalista la “età dell’oro” si sarebbe caratterizzata

esclusivamente come pura e letterale applicazione del dettato coranico. Afferma invece Mohammad Khatami, attuale

Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, nel libro Religione, libertà e democrazia, Roma-Bari 1999 (pagg. 98-

99): “Dopo il Profeta Mohammad, nei secoli III e IV dell’Egira, avvalendosi di una specifica interpretazione

dell’insegnamento islamico, e di particolari concezioni che l’Islam aveva accolto in sé traendole da altri e diversi

sistemi di pensiero, quali le civiltà greca e iranica, l’uomo musulmano ha creato una civiltà: ripeto, ha creato una

civiltà secondo un’interpretazione particolare del Corano e della Tradizione, e grazie ad acquisizioni derivanti dalle

conoscenze scientifiche. Si tratta di quella fase che definiamo civiltà islamica. È vero, essa è stata fondata sul

Corano, ma secondo deduzioni e metodi interpretativi che l’uomo di quei giorni elaborava riguardo al Corano, al

Libro, alla religione, all’essere umano e al mondo. Questa civiltà dei tempi d’oro è finita. (…) Come la civiltà

occidentale ha usufruito in larga misura della civiltà islamica, la civiltà islamica dei “tempi d’oro” ha usufruito in

larga misura delle civiltà iranica e greca.”

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vii Ovviamente, tutti i partiti e i movimenti seguaci dei Fratelli Musulmani - i Fratelli Musulmani in Egitto, il partito

Refah in Turchia, il Fronte Islamico di Liberazione in Algeria - definiscono “eretico” (bed’at; dal termine arabo

bid’a, che letteralmente significa “innovazione” rispetto all’ortodossia) ogni pensiero che introduca qualsiasi tipo di

interpretazione nuova dell’Islam; essi considerano gli Ulema come pilastri del proprio pensiero, e le risorse classiche

della cultura islamica come parametri validi per l’oggi. In Egitto i Fratelli Musulmani accusano di apostasia ed eresia

il pensatore della sinistra islamica Hassan Hanafi, perché, analizzando e valutando la cultura islamica, egli attribuisce

una delle responsabilità dell’arretratezza sociale proprio all’Islam tradizionale. Analogamente, Najmeddyn Erbakan,

leader del Refah in Turchia, in un’intervista, a chi gli domanda “che cosa occorra fare per rinvigorire il pensiero

religioso nelle società islamiche”, risponde: “Innanzitutto è sbagliato usare i termini ‘rinvigorire’ o ‘migliorare’ il

pensiero religioso”, e sottolinea che gli Ulema devono basarsi, come nel passato, sul Corano, sulla Tradizione e sulla

Comunità (cfr. Turkiye’nin Temel Meseleleri, “I fondamentali problemi della Turchia”, raccolta di interventi di N.

Erbakan, estate 1991).viii Ebne Tamimeh, tra il settimo secolo dell’Egira e la metà dell’ottavo (cioè tra il XIII e il XIV secolo d.C.), prese

duramente posizione contro il regime dell’epoca, fu imprigionato per molti anni in carceri diverse e morì nell’anno

728 dell’Egira nella prigione di Sham. Si può forse sintetizzare il suo pensiero in due concetti fondamentali: 1. ritorno

al Corano e rinascita della tradizione del Profeta; 2. lotta e guerra santa contro il potere che commette ingiustizie.

Eqbal Lahouri, nel testo Ripristino della vita religiosa, dice di lui: “È stato il primo a lanciare lo slogan Ritorno al

Corano.” Dopo la sua morte, i seguaci del pensiero tradizionale nelle società islamiche si sono impegnati a fondo per

utilizzare a proprio favore le sue idee, ottenendo in tale direzione notevoli successi; oggi tra i fautori della diffusione

“strumentale” delle sue idee si può includere la monarchia Saudita.ix Cfr. Saleh Al-Verdani, “I movimenti islamici in Egitto”, Il Cairo 1988.x Il wahabismo è un movimento islamico rigorista radicale, fortemente conservatore e integrista, fondato in Arabia

nel 1745 da Muhammad ibn Abd al-Wahab (1703/1791), e che in seguito ha legato le proprie fortune a quelle degli

emiri del Neged, dinastia dei Banu Saud, divenendo un fattore del progressivo controllo saudita sulla Penisola arabica

a partire già dall’ultimo ventennio del XVIII secolo, quando i Saud avviano l’unificazione delle tribù beduine

dell’Arabia settentrionale, rendendole indipendenti dall’impero ottomano.xi cfr. F. Rajaee, Social Origins of Political Elites in Iran, in The Iranian Journal of International Affairs, vol. VI.xii Cfr. W. Hinz, Kartir va Sangnebshteh ou dar Ka’beh Zardosht, in Baresihay-e Tarikhi, Tehran1972.xiii Cfr. le tesi di H. A. Ahmadi, in Iran Farda, luglio 1996. Attualmente la rivista Iran Farda non viene pubblicata

perché chiusa d’autorità.xiv Il termine faqih significa “esperto di fiqh” (laddove fiqh è la “giurisprudenza”, il “diritto”, da intendere nel senso di

“scienza della Legge religiosa”, cioè di “definizione delle regole della Legge” riguardo ai diversi comportamenti

nella vita sociale). In una lettera all’allora Presidente della Repubblica Khamenei, nel 1988, l’Ayatollah Khomeini

delineò il concetto del “ruolo assoluto del teologo” (velayat-e matlaqeh faqih), secondo il quale esiste nel mondo, in

ciascun determinato periodo di tempo, un solo “teologo tutore” (vali-e faqih), sebbene nel contempo possa esistere

più di una autorità teologica sciita. E il “teologo tutore” deve essere considerato l’unico rappresentante sulla Terra del

Profeta Mohammad e dei dodici lmam suoi successori, quindi l’unica autorità dotata di assoluti poteri di magistero.

L’Imam Khomeini assunse questa carica come fondatore della Repubblica Islamica e suo tutore teologico. Dopo la

sua scomparsa, avvenuta il 3 giugno 1989, l’Assemblea degli Esperti elesse a suo successore l’Ayatollah Seyed Ali

Khamenei che ancor oggi ricopre la carica in quanto Rahbar (“Guida”, “Leader”), la più alta autorità della

Repubblica Islamica; egli esercita un ruolo supremo che è politico e religioso insieme, in quanto manifestazione

dell’integrazione fra religione e politica (cfr. l’Art. 5 della Costituzione).xv Si può definire “iranista” la corrente di pensiero di tipo nazionalista che privilegia appunto gli interessi nazionali. I

suoi elementi fondanti sono la fiducia in una evoluzione politica equilibrata, graduale e democratica, la difesa della

sovranità territoriale, la volontà di far uscire l’Iran dall’isolamento e consolidarne le posizioni nel contesto

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internazionale, la diffusione del pensiero tecnologico, la creazione di uno Stato di diritto. Diversamente dal passato,

questa corrente di pensiero – che ha trovato nuova linfa durante la guerra di difesa dall’invasione irachena, e che

include diverse correnti, tra cui anche il pensiero laico-liberale e l’idea social-democratica - non è circoscritta agli

ambienti intellettuali e di élite, ma si radica in tutti gli strati della popolazione, non è forzatamente anti-islamica e non

si considera in guerra con l’Occidente.xvi La “destra moderna”, caratterizzata da una buona dose di pragmatismo, accetta il moderno capitalismo e lavora

perché l’Iran possa entrare, pur conservando la propria specificità e tutelando al massimo la propria indipendenza, nel

processo di globalizzazione economica. Oggi la “sinistra” dei riformisti (sostenitrice di Khatami) crede invece in un

sistema economico misto, dove l’iniziativa privata sia regolata da controlli statali, e pone al primo posto l’esigenza

della giustizia sociale, considerata condizione imprescindibile per qualsiasi sviluppo. Entrambi questi gruppi

sottolineano la necessità del “predominio della legge”, cioè del prevalere della legalità; credono nella partecipazione

attiva della popolazione alla gestione della cosa pubblica; considerano fondamentale lo sviluppo della società civile

sia riguardo alla sua piena fruizione delle libertà politiche e dei diritti, sia riguardo alla circolazione delle idee e al

loro confronto.