Kalevala · 2019. 4. 24. · PREFAZIONE Sin da quando fu pubblicata (1910) la mia traduzione...

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Kalevala Poema nazionale finnico www.liberliber.it

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  • KalevalaPoema nazionale finnico

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    TITOLO: Kalevala. Poema nazionale finnicoAUTORE: TRADUTTORE: Pavolini, Paolo EmilioCURATORE: Pavolini, Paolo EmilioNOTE:

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    DIRITTI D'AUTORE: no

    LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/libri/licenze/

    TRATTO DA: Kalevala : poema nazionale finnico / tra-duzione metrica, prefazione e note a cura di Paolo Emilio Pavolini. - 4. ed. abbreviata. - Firenze : G. C. Sansoni, 1948. - XI, 263 p. ; 17 cm.

    CODICE ISBN FONTE: non disponibile

    1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 10 settembre 2013

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  • Indice generale

    PREFAZIONE................................................................8IL PRIMO RUNO.Proemio (vv. 1-102)......................................................14IL SECONDO RUNO..................................................18IL TERZO RUNO........................................................32IL QUARTO RUNO.....................................................32IL QUINTO RUNO......................................................51IL SESTO RUNO.........................................................54IL SETTIMO RUNO....................................................55L’OTTAVO RUNO.......................................................56IL NONO RUNO..........................................................56IL DECIMO RUNO......................................................60L’UNDECIMO RUNO.................................................66IL DUODECIMO RUNO.............................................80IL DECIMOTERZO RUNO.........................................83IL DECIMOQUARTO RUNO.....................................84IL DECIMOQUINTO RUNO......................................85IL DECIMOSESTO RUNO.......................................108IL DECIMOSETTIMO RUNO..................................108IL DECIMOTTAVO RUNO.......................................109IL DECIMONONO RUNO........................................110IL VENTESIMO RUNO............................................110IL VENTESIMOPRIMO RUNO................................111IL VENTESIMOSECONDO RUNO..........................111IL VENTESIMOTERZO RUNO...............................129

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  • IL VENTESIMOQUARTO RUNO............................159IL VENTESIMOQUINTO RUNO.............................177IL VENTESIMOSESTO RUNO................................191IL VENTESIMOSETTIMO RUNO...........................192IL VENTESIMOTTAVO RUNO...............................192IL VENTESIMONONO RUNO.................................193IL TRENTESIMO RUNO..........................................214IL TRENTESIMOPRIMO RUNO.............................214IL TRENTESIMOSECONDO RUNO.......................228IL TRENTESIMOTERZO RUNO.............................229IL TRENTESIMOQUARTO RUNO..........................240IL TRENTESIMOQUINTO RUNO...........................249IL TRENTESIMOSESTO RUNO..............................249IL TRENTESIMOSETTIMO RUNO.........................262IL TRENTESIMOTTAVO RUNO.............................262IL TRENTESIMONONO RUNO..............................263IL QUARANTESIMO RUNO...................................263IL QUARANTESIMOPRIMO RUNO.......................264IL QUARANTESIMOSECONDO RUNO................274IL QUARANTESIMOTERZO RUNO......................293IL QUARANTESIMOQUARTO RUNO...................301IL QUARANTESIMOQUINTO RUNO....................310IL QUARANTESIMOSESTO RUNO.......................310IL QUARANTESIMOSETTIMO RUNO..................311IL QUARANTESIMOTTAVO RUNO.......................312IL QUARANTESIMONONO RUNO........................312IL CINQUANTESIMO RUNO..................................313CHIUSA.....................................................................331NOTE..........................................................................336

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  • KALEVALA

    POEMA NAZIONALE FINNICO.

    TRADUZIONE METRICA, PREFAZIONE E NOTE A CURA DI PAOLO EMILIO PAVOLINI

    QUARTA EDIZIONE ABBREVIATA.

    G. C. SANSONI – EDITORE – FIRENZE

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  • ALLA CARA MEMORIA

    DI

    EMILIO N. SETÄLÄ(1864-1935)

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  • PREFAZIONE

    Sin da quando fu pubblicata (1910) la mia traduzione metrica completa del Kalevala, cui la Casa Editrice Remo Sandron volle dare decorosissima veste (un volu-me in-4°, a due colonne, di pagine XXIV-367, con 23 il-lustrazioni fototipiche), tanto l’editore quanto il tradut-tore avevano in mente di farne poi una editio minor – accessibile ad un maggior numero di lettori – di luoghi scelti e fra loro connessi col racconto dell’intero poema. Per varie circostanze avverse solo oggi l’intenzione di-viene realtà ed il nuovo volume, che per gentile conces-sione dei F.lli Sandron, succeduti al benemerito fondato-re della Casa di Palermo, viene accolto nella «Biblioteca Sansoniana Straniera» da me diretta, si pubblica proprio nel giorno della solenne celebrazione che la Finlandia appresta al primo centenario del suo poema nazionale. Poichè fu il 28 febbraio del 1835 che Elias Lönnrot con-segnò alla «Società di letteratura finnica» (alla cui atti-vità è in massima parte dovuto il sorgere e l’affermarsi della lingua e della letteratura nazionale) il manoscritto del primo Kalevala (in 32 canti, con 12078 versi), detto poi Vanha K. (il vecchio K.) per distinguerlo dalla edi-zione definitiva del 1849, con 50 canti e circa 23000

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  • versi. Ma sebbene di mole minore e di composizione al-quanto diversa, già nella vecchia redazione era contenu-to il tesoro essenziale degli antichi (non tutti antichi) canti popolari finnici, magici, epici e lirici; che Elias Lönnrot era andato raccogliendo da lunghi anni, e che aveva cercato, già in vari tentativi precedenti1, di ridurre ad unità se non organica (la diversa età e provenienza ed indole dei runot non lo consentivano), almeno poetica. Simpatica e curiosa figura quella del Lönnrot (1802-1884): figlio di un sarto di villaggio, impedito dalla po-vertà di frequentare il liceo, si ridusse a servire come apprendista nella farmacia di Hämeenlinna, finchè per l’interessamento e l’aiuto di quel medico provinciale potè attendere agli studi e laurearsi in medicina (1832) nell’Università di Turku (Åbo). Assegnato, come medi-co-condotto, a Kajaani, nell’estremo nord, ebbe modo di conoscere da vicino gli usi e costumi dei contadini, di studiarne a fondo i dialetti e attraverso lunghe e faticose peregrinazioni, per lo più a piedi, in altre regioni, dalla Dvina al Caspio careliano, da occidente a oriente della Finlandia, di raccogliere centinaia e centinaia, non solo di canti, ma e di proverbi, indovinelli e scongiuri, che poi pubblicò in vari volumi. Dal 1853 al 1862 fu profes-sore di lingua finnica nell’Università di Helsinki (Hel-singfors) nella cattedra da prima tenuta dall’insigne et-nologo e glottologo A. M. Castrén; in questo periodo si

    1 Ne dà conto un mio articolo (Intorno al Kalevala) negli «Studi di filologia moderna» diretti da G. Manacorda, luglio-dic. 1910, pp. 189-201.

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  • occupò egli pure di studi affini, compilando il grande «Dizionario finno-svedese» (compiuto nel 1880) e pub-blicando due saggi sulle lingue vepsa e lappone. Per l’insieme della sua attività il Lönnrot può considerarsi come il fondatore della lingua letteraria finnica e, attra-verso il suo – e non suo – Kalevala, come il primo gran-de suscitatore dell’idea nazionale. Non suo, in quanto non gli appartengono i canti raccolti, tutti genuini e pro-dotti di una lunga trasmissione orale; suo, in quanto egli li raggruppò in cicli (sull’esempio di alcuni dei laulajat o cantori del popolo) e i cicli in una specie di poema, con sì felice raccostamento di episodi e «motivi», da darci quasi l’impressione (che solo una rigorosa analisi può attenuare e magari in parte distruggere) di una com-posizione unitaria e consequente. Se aggiunse qualche verso per unire ciò che era disgiunto, se introdusse qual-che allusione all’opera propria di raccoglitore e di pio-niere (la chiusa!), tale era la sua «immedesimazione» nell’indole e nello stile dei runi tradizionali, che sarebbe difficile sceverare il pochissimo suo dal non suo, senza il sussidio dei manoscritti e delle innumerevoli «varian-ti», con scrupolosa cura raccolte e depositate nell’Archi-vio della «Società di letteratura finnica», il più ricco in documenti folkloristici che esista al mondo.

    Nel ridurre le dimensioni del poema a circa un terzo dell’originale, si son dovuti sacrificare non pochi brani di notevole interesse; ma poichè la critica estetica ha spesso rilevato la sovrabbondanza di canti magici, la ec-

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  • cessiva lunghezza di alcuni episodi epici e le assai fre-quenti ripetizioni, ne abbiamo tenuto conto nella elimi-nazione; e crediamo che anche nel «nostro» Kalevala le qualità essenziali e caratteristiche dell’originale non sia-no andate perdute e neppure menomate. Intanto la pre-sente traduzione conserva, meglio di altre pur ottime per altri riguardi (aiutata in ciò dalle peculiarità linguistiche e prosodiche dell’italiano), e il metro (l’ottonario trocai-co) e l’allitterazione e il parallelismo e la frequente (sebbene leggermente diversa) rima finale. Più importa-va che nella scelta, insieme alle vive descrizioni del pae-saggio di foreste, di laghi e di cascate, fossero mantenuti i tratti dei tre personaggi più espressivi dell’anima e del-l’indole del popolo finno: il vecchio Väinämöinen, «il cantore sempiterno», con la glorificazione della musica quale poche genti possono vantare altrettanto alta ed umana (nel runo della Kantele, XLI); Ilmarinen, il fab-bro eterno, l’artefice operoso ed ingegnoso, tardo nella decisione ma poi tenace nell’azione; Lemminkäinen, scapestrato e aggressivo, avventuroso e sempre in cerca di risse e di amores, il Don Giovanni iperboreo, «la creazione più originale e multiforme della Musa finnica»; accanto ai quali spicca la dolce e mesta figura di Aino, la cupa e tragica di Kullervo; e risuonano que-gli inimitabili «canti nuziali» (XXII-XXIV) che abbia-mo riportati quasi per intero come saggio della ricchissi-ma lirica amorosa e familiare, dal Lönnrot stesso raccol-ta nell’altro «corpus poeticum» Kanteletar (L’arpa finni-ca). Ma alla riproduzione delle immagini ispirate dal

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  • poema all’arte potente di Axel Gallén-Kallela e che adornano la editio major, abbiamo dovuto rinunziare. Tutti sanno come i quadri di lui, insieme alla musica «kalevaliana» di Jean Sibelius abbiano già da soli reso noto e celebre il Kalevala fuori dei confini della patria nordica.

    P. E. PAVOLINI.

    P. S. – Mentre questo volumetto si finiva di stampare, mi è giunta la dolorosa notizia della improvvisa fine di Emilio Setälä, nobilissima figura di patriota, di scienziato-principe della glotto-logia ugrofinnica, di letterato. A Lui vivente, anche come ad acu-to e profondo indagatore di questioni kalevaliane, dovevano esse-re dedicate queste pagine, segno modesto di gratitudine da parte di chi Lo ebbe a fraterno amico per più di sette lustri; ora che il destino avverso ce Lo ha tolto mentre le prossime celebrazioni ci offrivano una nuova occasione di onorare in Lui uno dei più be-nemeriti e illustri figli di Suomi, sieno esse consacrate alla Sua memoria. P. E. P.

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  • IL KALEVALA

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  • IL PRIMO RUNO.Proemio (vv. 1-102).

    Nella mente il desideriomi si sveglia, e nel cervellol’intenzione di cantare,di parole pronunziare,co’ miei versi celebrarela mia patria, la mia gente:mi si struggon nella bocca,mi si fondon le parole:mi si affollan sulla lingua,si sminuzzano fra i denti.

    Caro mio fratello d’oro,mio compagno dai prim’anni!ora vieni a cantar meco,a dir meco le parole!da diverso luogo, insiemeora qui ci siam trovati.Raro avvien che c’incontriamo,che possiamo stare insiemequassù in queste terre tristi,nelle povere contrade.

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  • Or prendiamoci le mani,intrecciam dito con dito,sì che ben possiam cantare,e del nostro meglio fare:perchè sentan questi amicied ascoltino i benigninella stirpe che su vienee nel popolo che crescequesti canti tramandati,questi versi messi in lucedi Väinö dalla cintura,d’Ilmari dalla fucina,di Kauko tolti alla spadaed all’arco d’Joukahainen,dai confini di Pohjola,di Kaleva dalle lande.*2

    Li cantava prima il babboaffilando la sua scure:li insegnava a me la mammamentre il fuso ritorceva:quando bimbo, sul piancitoruzzolavo sui ginocchi,sbarazzino, con la boccapiena di latte accagliato.Non mancavan canti al Sampo*,non a Louhi gli scongiuri:

    2 Contrassegniamo con un asterisco i versi di cui le note finali danno spiegazione [nota per l’edizione elettronica Manuzio].

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  • invecchiò coi canti il Sampo,sparver Louhi e gli scongiuri,morì Vipunen coi versie coi giuochi Lemminkäinen.*

    Ma vi sono altre parole,altri magici segreti,afferrate per la stradae strappate alle prunaie,via divelte dai sarmentie raccolte dai germogli,spigolate in mezzo all’erbe,raccattate nei sentieriallorquando, pastorello,io la gregge conducevofra le zolle inzuccherate,sopra le colline d’oro,dietro la Muurikki nerae con Kimmo la screziata.Mi diceva versi il freddoe la pioggia lunghi canti:mi portava strofe il vento,me ne dava il mar con l’ondevi aggiungean voci gli uccellie canzoni gli alberelli.

    Un gomitolo ne feci,in matassa le raccolsi:il gomitol nella slitta,nel carretto la matassa:le portò la slitta a casa,

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  • il carretto nel granaio:sul palchetto le riposi,dentro il bussolo di rame.

    Stetter lungo tempo i versiin quel freddo nascondiglio:ch’io dal freddo ora li tolga,ch’io dal gelo i canti levi,porti il bussol nella stanza,la cassetta sulla panca,sotto la trave maestra,sotto il tetto rinomato?aprirò dei versi l’arcaed il bussolo dei canti?il gomitol ch’io sdipanie disfaccia la matassa?*

    Dunque or canto buoni versicon sonora bella voce,se di segale focacciami darete, e birra d’orzo:e se birra non mi dànno,non mi portan birra bianca,canto pure a bocca asciutta,versi fo per l’acqua cara,per la gioia della sera,per l’onor di questo giorno,pel conforto del domani,per l’augurio del mattino.

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  • La Vergine dell’aria discende nel mare dove, fecon-data dal vento e dall’onda, diventa la Madre delle ac-que (103-176). Una folaga fa il nido e depone le uova sul ginocchio della Madre delle acque (177-212). Le uova scivolano fuori dal nido, si rompono, e dai frantu-mi si formano la terra, il cielo, il sole, la luna e le nubi (213-224). La Madre delle acque crea promontori, golfi e spiagge, le profondità e le secche del mare (245-280), Väinämöinen nasce dalla Madre delle acque e vaga lungamente sulle onde, finchè giunge a fermarsi sulla riva (281-314).

    IL SECONDO RUNO.

    Sorse allora Väinämöinencoi due piedi sulla landa,sopra l’isola marina,sulla terra senza arbusti,

    E molt’anni là rimase,lungamente colà vissesulla terra senza nome,sopra l’isola deserta.

    E pensava, rifletteva,nella mente rivolgeva

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  • da chi farla seminare,con qual seme prosperare.

    Pellervo, del campo figlio,Sampsa, bimbo piccolino,ei la terra seminare,ei può farla prosperare.

    Seminò, col dorso curvo;gettò i semi sulla terra,dentro i boschi dissodati,sui terreni più sassosi.

    Mise i pini sulle alturee gli abeti alle colline:piantò l’eriche alle lande,i germogli nelle valli:le betulle nei pantani,nel terren mobile, ontani:nelle terre acquitrinoseseminò viscioli e salci,sorbi nelle benedette,vetrici nelle fiorentie ginepri in mezzo ai sassi,lungo i fiumi mise querci.

    S’innalzavan già gli arbustie spuntavano i germogli:degli abeti la coronagià s’ergeva, e chioma ai pini:le betulle nei pantani,nel terren mobile, ontani:viscioli negli acquitrini

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  • e ginepri in mezzo ai sassi:belle bacche sul gineproe sul visciol dolci frutti.

    Il verace Väinämöinenvenne allora per vederequella terra seminatada Pellervo piccolino:vide gli alberi cresciutied i giovani germogli:non ancor però la quercia,non avea messo radici.

    La cattiva alla sua sortelasciò stare, al suo destino:aspettò tre notti intere,altrettanti giorni ancora:per vedere venne allora,alla fin dei sette giorni:nè cresciuta era la quercia,nè radici aveva messo.

    Vide allor quattro fanciullee dell’onda cinque sposesopra il prato già falciato,sopra il fieno già tagliato,sulla punta tenebrosadi quell’isola nebbiosa:ammucchiavan col rastrelloe coll’erpice il falciato.

    Venne su Tursas dal mare,*sorse il forte su dall’onde:

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  • pigiò il fieno che bruciasse,con gran fiamma consumasse:lo ridusse tutto in scorieed in cenere minuta.

    Fe’ di cenere un mucchietto,fe’ di scorie un monticello:una ghianda egli vi mise,una cara fogliolina,dalla qual la pianta crebbecoi germogli verdeggianti:si levò ricca di bacchedal terreno rastrellato.

    Ed in alto stese i rami,i fronzuti ramoscelli:con la cima sorse al cielo,dispiegò le fronde in aria:alle nubi vietò il corso,alle nuvole il vagare,vietò al sol di riscaldare,alla luna di brillare.

    Ed il vecchio Väinämöinena pensar si mise allora:«Se ci fosse chi abbattessequesta quercia così altera!fastidiosa è all’uom la vita,il nuotare triste ai pesci,senza che risplenda il sole,senza che la luna brilli».

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  • Ma non v’era nè un eroe,nè alcun uomo vigorosoche potesse far caderequella quercia a cento rami.

    Ed il vecchio Väinämöinenpronunziò queste parole:«Tu che in seno m’hai portato,Luonnotar, mia genitrice!A me presta i forti flutti(chè nell’acqua è grande forza)per abbatter questa quercia,perch’io tolga la malvagiache impedisce al sole i raggi,alla luna il dolce chiaro».

    Sorse un uomo su dal mare,un eroe salì dall’onda:grande grande egli non erae nemmen proprio piccino:alto, un pollice d’un uomo,una spanna d’una donna.

    Un cappuccio avea di ramee di rame scarpe ai piedi,rame, i guanti nelle manie di rame ricamati:rame, il cinto intorno ai fianchi,dietro, l’ascia pur di rame:quanto un pollice il bastone,quanto un’unghia alta la lama.

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  • Il verace Väinämöinena pensar si mise allora:«A vederlo, pare un uomoha l’aspetto d’un eroe:quanto un pollice è pur altoe d’un bove quanto l’unghia».

    Disse allor queste parole,in al modo si fe’ udire:«Chi sei tu della tua gente,quale tristo fra gli eroi?poco più tu sei d’un morto,poco meglio d’un estinto!»

    Disse l’uomo piccolino,quell’eroe del mar rispose:«Sono un uomo cosiffatto,eroe piccolo dell’acqua:venni a abbattere la quercia,a ridurla in scheggettine».

    Il verace Väinämöinenpronunziò queste parole:«Non mi sembri tu creato,nè creato, nè adattatoper abbatter la gran quercia,buttar giù l’albero immenso».

    Non avea di dir finitoed ancor guardava fiso:vide l’uomo trasformarsie l’eroe gigante farsi:ecco, il piè la terra pesta,

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  • tocca i nuvoli la testa:sui ginocchi va la barba,sui calcagni van le chiome:c’è una tesa d’occhio ad occhioe da ghetta a ghetta un’altra:una e mezzo fra i ginocchie due tese fra le scarpe.

    Ei forbì tosto la scure,affilò la liscia lamasopra sei ciottoli durie poi sopra sette coti.

    S’avviò velocemente,prese presto a camminarecon le ghette larghe larghe,con i larghi pantaloni:fece un salto, sul momentosi trovò sopra l’arena:con un altro salto giunsesul terriccio tutto scuro:*fece un terzo salto, finodella quercia alle radici.

    Colpì l’alber con la scure,lo percosse con la lama:gli diè un colpo, un altro colpo,lo picchiò la terza volta:guizzò fuoco dalla scure,una fiamma dalla quercia:un momento sol rimane,piomba giù la quercia immane.

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  • E così la terza voltagli riuscì di giù buttarequella quercia gigantesca,quella pianta a cento cime:piegò il tronco ad orïentee la cima ad occidente,il fogliame a mezzogiornoed i rami a tramontana.

    A chi prese per sè un ramo,gli toccò fortuna eterna:e chi ne spezzò una cima,ebbe scienza di magia:chi per sè tagliò il fogliame,acquistò l’amore eterno.*Quanti trucioli dispersi,quante schegge via volatesulle chiare onde del mare,sopra i placidi suoi flutti,quelle il vento cullò dolce,agitò l’onda del mare,come barca sopra l’acque,come nave dentro l’onde.

    Le portò vèr Pohja il vento:di Pohja la ragazzinariasciacquava sulla rivala retina de’ capellie le vesti sulla ghiaia,sopra il lungo promontorio.

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  • Vide i trucioli nell’onda,li raccolse nel paniere:*li portò con quello a casa,col paniere ben tappato,perchè il mago ne facessedardi, ed armi il cacciatore.

    Or da che la quercia cadde,piombò giù l’albero immenso,tornò il sole a riscaldaree la luna a rischiarareed i nuvoli a vagareed il cielo ad inarcaresulla punta tenebrosadi quell’isola nebbiosa.

    Ecco i boschi ad abbellirsie le selve a crescer liete:foglie in alto, erba sul suoloe cantar fra i rami uccellied i tordi cinguettaree i cuculi richiamare.

    Crescean bacche sulla terra,aurei fiori in mezzo all’erba:d’ogni sorta fiorian piante,germogliavan d’ogni forma:l’orzo sol non era nato,il prezioso non spuntato.

    Ed il vecchio Väinämöinensi recò meditabondolungo la riva del mare,

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  • presso l’onda ribollente:trovò là sei granellini,sette semi sulla sponda,sulla sabbia più minuta:li nascose nella zampadella martora, li misedel scoiattol nella pelle.*

    S’avviò per seminare,sparger semi sulla terra,presso il fonte di Kaleva,sul confin del campo d’Osmo.

    Cinguettò la cingallegra:«Non può nascer l’orzo d’Osmo,nè l’avena di Kalevase pria non sia dissodataquesta terra ed abbattutonon sia il bosco e incenerito».

    Il verace Väinämöinenuna scure fe’, tagliente:abbattè la grande selva,dissodò l’immensa terra;buttò giù gli alberi alteri,lasciò solo una betullape ’l riposo degli uccelli,pe ’l richiamo del cuculo.

    Volò un’aquila pe ’l cielo,un augello alto nell’aria:venne l’albero a vedere:«Perchè fu questa betulla

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  • senza abbatterla lasciata,quest’altera risparmiata?»

    Disse il vecchio Väinämöinen:«Fu lasciata, chè servisseagli uccelli per riposoed all’aquila per gioia».

    Disse l’aquila, rispose:«Bene invero tu facestila betulla a risparmiare,a lasciar crescer la sveltape ’l ristoro degli uccelli,perch’io stessa vi riposi».

    E l’augello battè fuoco,suscitò grande una fiamma:bruciò il bosco tramontanalo fe’ cenere il grecale,tutti gli alberi consunse,li ridusse tutti in scorie.

    Ed il vecchio Väinämöinenprese que’ sei granellinie que’ sette semi tolsedella martora dal pelo,del scoiattol dalla zampae dal piè dell’ermellino.

    S’avviò per seminare,per isparger la sementa:pronunziò queste parole:«Ecco io semino, inchinato,fra le dita del Creatore,

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  • fra le mani onnipotenti,perchè spunti il seme e crescadalla selva dissodata.

    Vecchia che stai sotto terra,*genitrice del terreno!fa’ l’erbetta che germogliche robusto il suol produca:mai mancò forza alla terra,mai, nel volgere de’ tempi,se la grazia sia concessa,dei celesti la promessa.

    Lascia, o terra, il tuo dormire:sorgi, o prato, dal sopore:steli veggansi appariree dal gambo spunti il fiore:sorgan spighe a mille a mille,si disperdan foglie a centodal mio campo lavorato,con fatica seminato!

    Ukko! Ukko; dio supremo,padre che nel cielo stai,delle nubi reggitoree dei nuvoli signore!nelle nubi tien’ consiglioe dai nuvoli decidi:dall’oriente, manda nubi,denso un nembo da grecale,altre ancora da occidentespingine da mezzogiorno:

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  • pioggerella giù dal cielogoccia, e miele dalle nubisopra l’orzo verdeggiante,sulla spiga sussurrante!»

    Ukko allora, dio supremoe del ciel padre potente,fe’ consiglio nelle nubie dai nuvoli decise:dall’oriente, mandò nubi;denso, un nembo da grecale,altre ancora da occidente,ne mandò da mezzogiorno:ne congiunse gli orli insieme,le battè l’una coll’altra,sì che piovve una pioggetta,gocciò miele dalle nubisopra l’orzo verdeggiante,sulla spiga sussurrante:sorse l’orzo rigogliososi levò, s’alzò rossastrodalla terra scura, aratae da Väinö dissodata.

    Ecco, passano due giornie trascorron due, tre notti:alla fin dei sette giorniil verace Väinämöinens’avviò per riguardarequel suo campo seminato,con fatica lavorato:

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  • crescea l’orzo al suo desìo,ogni spiga con sei facce,ogni stelo con tre nodi.

    Mentre il vecchio Väinämöinend’ogni intorno riguardava,il cuculo venne e scorsela betulla rigogliosa:«Perchè questa fu lasciata,la betulla risparmiata?»

    Disse il vecchio Väinämöinen«Fu lasciata la betulla,risparmiata, chè tu stessovi cantassi il tuo richiamo:canta qui, dolce cuculo:petto grigio, qui gorgheggia,qui cinguetta, argenteo petto,trilla qui, petto di stagno:fa cu-cù sera e mattina,una volta a mezzogiorno:di’ del cielo la bellezza,de’ miei boschi la dolcezza,delle rive la purezza,de’ miei campi la ricchezza!»

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  • IL TERZO RUNO.

    Väinämöinen cresce in sapienza magica e diventa fa-moso (1-20). Joukahainen va per gareggiare con lui nei canti magici; ma non riuscendovi, lo sfida a combattere con la spada; del che Väinämöinen si adira e incanta Joukahainen dentro una palude (21-330). Joukahainen si trova in grande angoscia e finalmente promette di dare in moglie la propria sorella a Väinämöinen, il qua-le si placa e lo libera dall’incanto (331-476). Joukahai-nen torna a casa di malo umore e racconta alla madre il disgraziato suo viaggio (477-524). La madre si ralle-gra nell’udire che Väinämöinen diverrà suo genero, ma la figlia se ne addolora e comincia a piangere (525-580).

    IL QUARTO RUNO.

    Aino, quella giovinetta,la sorella d’Joukahainen,per fascine andò nel boscoe per fruste nella macchia;*

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  • fe’ una frusta pel suo babbo,ne fe’ un’altra per la mamma,una terza mise insiemepel gagliardo suo fratello.

    Già tornava verso casaper il bosco degli ontani:venne il vecchio Väinämöinen:vide, in mezzo all’erbe lunghe,con la fine camicettala fanciulla; sì le disse:«Non per altri, giovinetta,che per me, giovanettina,fregia il collo con le perle,orna il petto con la croce,i capelli lega a trecciacon un bel nastro di seta».

    Gli rispose la fanciulla:«Nè per te, nemmen per altriporterò crocetta al petto,nè di seta nastro in capo:non mi curo d’altre stoffe,pan non cerco di frumento,paga son di vesti strette,di mangiar duri cantuccidel mio caro babbo al fianco,presso la diletta mamma».

    Tolse la croce dal petto,gli anellini dalle dita,gettò le perle dal collo

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  • e dal capo i nastri rossi,chè la terra li godesse,chè se n’allietasse il bosco:ritornò piangendo a casa,singhiozzando alla dimora.

    Sedea il padre alla finestrastava l’ascia ad intagliare:«Perchè piangi, poverina,miserella fanciullina?»

    «Ben di piangere ho ragione,ho ragion di lamentare:per ciò piango, babbo mio,per ciò piango e mi lamento:m’è caduta la crocetta,giù dal petto è scivolata,e di rame la fibbiettadalla cintola è cascata».

    Il fratello sulla sogliaintagliava un curvo ramo:*«Perchè mai piangi, sorella,sorellina miserella?»

    «Ben di piangere ho ragione,ho ragion di lamentare:per ciò piango, fratellino,per ciò piango e mi lamento:cadde giù l’anello d’oro,si sfilarono le perle,via dal dito l’anellino,via le perle inargentate».

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  • La sorella, sulla porta,tessea d’oro una cintura:«Perchè piangi, sorellina,miserella, poverina?»

    «Ben di piangere ho ragione,ho ragion di lacrimare:per ciò piango, sorellina,per ciò piango e mi lamento:l’oro cadde dalla frontee l’argento da’ capelli,cadder giù di seta i nastri,scivolò la fascia rossa».

    E la mamma (alla dispensastava, a sbattere la crema):

    «Perchè piangi, figliuolettamiserella, poveretta?»

    «Tu che in seno m’hai portato,mamma, tu che m’hai nutrito,ben ragione ho di lamentoper gli affanni molto gravi:per ciò piango, mamma cara,per ciò piango e mi lamento:per fascine andai nel boscoe per fruste nella macchia:una frusta feci al babboed un’altra alla mammina:una terza ne legaipel gagliardo mio fratello:ritornavo verso casa,

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  • il boschetto attraversavo;dal declivio Osmoinen disse,dalla terra dissodata:

    «Non per altri, poveretta,che per me, giovanettina,fregia il collo con le perle,orna il petto con la croce,i capelli lega a trecciacon un bel nastro di seta».

    Tolsi via la crocettina,via buttai dal collo il vezzo,via dagli occhi i nastri azzurri,ed il penero dal capo:chè la terra li godesse,chè se n’allietasse il bosco:dissi poi queste parole:

    «Nè per te, nemmen per altriporterò crocetta al petto,nè di seta nastro in capo;non mi curo d’altre stoffe,pan non cerco di frumento,paga son di vesti strette,di mangiar duri cantucci,del mio caro babbo al fianco,presso la diletta mamma».

    Alla figlia parlò allorala sua vecchia madre, e disse:

    «Deh non piangere, figliuola,che ho da giovin partorito!

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  • Mangia un anno burro fresco,più dell’altre sei grassoccia:mangia poi carne di porco,sei graziosa più dell’altre:il terz’anno, crema fritta,più dell’altre verrai bella.

    Va’ sul colle, alla dispensa,apri il ricco magazzino;là c’è cassa sopra cassa,scrigno posa accanto a scrigno:apri la più bella cassadal coperchio variopinto:ci son sei cinture d’oro,sette azzurre sottanine;della Luna le figliuolele tesserono, e del Sole.

    Una volta io fanciulletta,verginella, mi recainel boschetto un dì per bacche,sotto il monte per lamponi:e sentii tesser la Lunae filar del Sol la figlia,sul confin del bosco azzurro,presso l’orlo del boschetto.

    Io mi feci a lor dappresso,piano piano m’accostai,a pregarle incominciai;dissi allor queste parole:

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  • «Dona, Luna, l’oro tuo,da’, Päivätär, il tuo argentoa me, povera ragazza,alla bimba che vi prega».

    Diè la Luna l’oro suo,diè Päivätär il suo argento:io, con gli ori sulla fronte,con gli argenti sulla testa,tornai a casa, come un fiore,tornai, gioia, presso al babbo.

    Li portai un giorno, un altro;ma venuto il terzo giorno,tolsi gli ori dalla fronte,dalla testa i begli argenti,li portai nella dispensae li misi nella cassa:là rimasti son finora,senza che più li guardassi.

    Lega i nastri sopra gli occhi,metti gli ori sulla frontee le pure perle al collo,sopra il petto l’aurea croce:poi di lino la camiciadal finissimo tessuto:poi di panno la sottanae la cintola di seta,calze pur di seta, belle,stivaletti poi di pelle:i capelli avvolgi a treccia,

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  • stretti coi nastri di seta;alle dita anelli d’oro,braccialetti d’oro al polso.

    Così allora nella stanzaentrerai, dalla dispensa,che gioiscano i parenti,che s’allieti la famiglia:come fiore in viottoletto,come bacca di lampone,verrai, più di prima bella,più graziosa che altre volte».

    Così a lei la madre disse,tali detti alla figliuola:non l’udì docil la figlia,non seguì le sue parole:nel cortile andò piangendo,nella corte lamentando:a parlar così si mise,tali detti fece udire:

    «Com’è l’animo dei lieti,il pensiero dei contenti?Così è l’animo dei lieti,il pensiero dei contenti:come acquetta gorgogliante,come l’onda nella vasca.

    Come è l’animo dei mesti,della folaga de’ ghiacci?*Così è l’animo dei mesti,della folaga de’ ghiacci:

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  • neve dura in tramontana,*acqua nel pozzo profondo.

    Spesso il cuore di me trista,di me povera fanciulla,va fra l’erba inariditae si aggira fra i cespugli:vaga mesto per i pratied in mezzo agli arboscelli:non più bello del catrame,non più bianco del carbone.

    Meglio a me sarebbe statodi non esser nemmen nata,di non essere cresciutaper soffrir questi dolori,passar questi giorni tristisulla terra senza gioia:fossi morta di sei notti,bimba d’otto notti appena,poco avrei per me richiesto:una spanna di lenzuolo,una zolla piccolina,dalla mamma un po’ di pianto,ancor meno dal mio babbo,punto punto dal fratello».

    Pianse un giorno, pianse un altro:e la mamma a domandarle:«Perchè piangi, ragazzina,ti lamenti, poverina?»

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  • «Perciò piango, miserella,mi lamento senza posache tu hai dato me infelice,la figliuola tua promessoad un vecchio per sostegno,a un vegliardo per sua gioia,per appoggio al vacillante,ad un uom rincantucciato:fidanzata tu m’avessigiù del mare sotto l’onde,per sorella ai lavareti,sorellina ai pesciolini:meglio dentro l’acqua stare,sotto l’onde soggiornareper sorella ai lavaretisorellina ai pesciolini,che sostegno esser al vecchioed appoggio al vacillante,nelle calze imbarazzatoe ne’ rami incespicante».

    Corse poi sulla collinaed entrò nella dispensa:aprì la cassa più bella,dal coperchio variopinto:trovò sei cinture d’oro,sette azzurre sottanine;le indossò, ne fece adornala gentile personcina:sulla fronte pose gli ori

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  • e gli argenti sui capelli:sopra gli occhi, intorno al capo,nastri mise e fasce rosse.

    Prese quindi a camminare,lungo il campo, per il prato,traversò paludi e terree foreste tenebrose:e cantava nell’andaree diceva nel suo errare:

    «Gonfio ho il core, e doloroso,un gran peso nella testa;ma il dolor fosse più grave,fosse il peso più opprimente,perch’io, misera, morissi,infelice, scomparissifra dolori così grandi,fra pensieri tanto amari.Già sarebbe per me tempodi lasciare questo mondo,tempo d’irmene a Manala,di discendere a Tuonela;non mi piange il babbo mio,nè la madre l’ha per male,nè di lacrime sorellabagna il volto, nè fratello,se nel mare mi gettassi,mi buttassi in mezzo ai pesci,giù dell’onde nel profondo,dentro il fango nereggiante».

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  • Andò un giorno, un altro ancora:ma venuto il terzo giorno,si trovò dinanzi al mare,presso la riva giuncosa;la sorprese qui la notte,la trattenne qui lo scuro.

    Pianse a sera la fanciulla,lamentò tutta la nottesulle pietre della spiaggiaed in fondo all’ampio golfo:la mattina, appena l’alba,guardò verso il promontorio:c’era in cima tre fanciulle,si bagnavano nel mare:Aino fu di lor la quarta,quinta la sottile rama.

    Ad un vetrice e ad un pioppola camicia e la sottana:alla terra diè le calze,le scarpette ai sassolini,ebbe la sabbia le perlee la rena gli anellini.

    Una rupe variopinta*sporgea, lucida qual oro:nuotò verso quella rupe,volea giungere a quel masso.

    Dopo che l’ebbe raggiunta,si voleva riposaresulla rupe variopinta,

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  • sopra il masso rilucente:sprofondò nell’acqua il sasso,giù piombò la rupe in fondo,la fanciulla insieme al sasso,Aino giù piombò col masso.

    Così sparve la colombae morì la poverina:parlò ancora, nel moriredisse ancora, nel partire:

    «Venni al mare per bagnarmied a nuoto lo passai:qui scomparvi colombella,qui trovai morte crudele:non più venga il babbo mio,mai per tutta la sua vita,mai più venga a cercar pescisopra il dorso di quest’acque!

    Venni al mare per bagnarmi,sulla spiaggia per lavarmi:qui scomparvi, colombella,qui trovai morte crudele;mai più venga la mia mamma,mai per tutta la sua vita,mai più venga a attinger acqua,la farina ad impastare!

    Venni al mare per bagnarmi,sulla spiaggia per lavarmi:qui scomparvi, colombella,qui trovai morte crudele;

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  • mai più venga il fratel mio,mai per tutta la sua vita,il caval delle battagliesulla sponda a abbeverare!

    Venni al mare per bagnarmi,sulla spiaggia per lavarmi:qui scomparvi, colombella,qui trovai morte crudele:mai più venga in vita sua,mai più la mia sorellinaa sciacquarsi al ponticello,a lavarsi gli occhi al lido!Quanto è d’acqua in questo mare,tanto è sangue, sangue mio:quanti sono quivi pesci,tanta è carne, carne mia:quanti sassi sulla sponda,altrettante l’ossa mie:e quant’erbe sulla spiaggiatanti son capelli miei».

    Questa fu la triste morte,questo il fine della bella.

    Or chi porta la notizia,or chi va qual messaggeroalla casa rinomata,della bella alla dimora?

    Dirà l’orso le parole,anderà qual messaggero?

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  • ei non parla, ma scompareverso la mandria di vacche.

    Or chi porta la notizia,or chi va qual messaggeroalla casa rinomata,della bella alla dimora?

    Dirà il lupo le parole,anderà qual messaggero?ei non parla, ma scompareverso il gregge degli agnelli.

    Or chi porta la notizia,or chi va qual messaggeroalla casa rinomata,della bella alla dimora?

    Parlerà laggiù la volpe,anderà qual messaggero?lei non parla, ma scompareverso la frotta dell’oche.

    Or chi porta la notizia,or chi va qual messaggeroalla casa rinomata,della bella alla dimora?

    Dirà il lepre le parole,anderà qual messaggero:ha già il lepre assicuratoche udrà l’uom le sue parole.

    Prese a correre la lepre,a saltar la lungheorecchia,andò innanzi il gambetorte,

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  • s’affrettò la boccaincroce,vèr la casa rinomata,la dimora della bella.

    Della sauna sulla sogliacorse, stette accovacciata:era piena di ragazze;venner con le fruste in mano:

    «Occhitorta, vuoi ti cuocia,occhitonda, ti arrostiscaper la cena del padrone,per la mamma a colazione,per merenda della figlia,per spuntino del figliuolo?»

    Seppe il lepre la risposta,l’occhitondo disse altero:

    «A bollir mettete Lempo*dentro le vostre marmitte!io qui venni a dir parole,a portar notizie a voce:già perduta è la fanciullache di stagno adorna il petto:lei con le fibbie d’argento,con la cintola di rameandò sotto il mare ondoso,andò giù dei flutti in fondo,per sorella ai lavareti,sorellina ai pesciolini».

    E la madre a lacrimare,fitte lacrime a versare:

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  • prese, misera, a parlare,in tal modo a lamentare:«Mai più, madri poverelle,mai più, nella vostra vita,non spingete le ragazze,non forzate le figliuolecontro voglia a maritarsi,sì com’io, misera mamma,spinsi la mia figliuoletta,la cresciuta colombella».

    E nel pianger della madreuna lacrima più grossascese giù, dagli occhi azzurri,sulle scarne smunte guance.

    Una lacrima discese,ne discese un’altra grossa,dalle scarne, smunte guancesopra il seno, l’ampio petto.

    Una lacrima discese,ne discese un’altra grossa,giù dal sen, dall’ampio pettosopra l’orlo della veste.

    Una lacrima discese,ne discese un’altra grossa,giù dall’orlo della vestesopra le sue calze rosse.

    Una lacrima discese,ne discese un’altra grossa,

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  • cadde dalle calze rossesulla pelle delle scarpe.

    Una lacrima discese,ne discese un’altra grossa,dalla pelle delle scarpesulla terra sotto i piedi,chè la terra ne godesse,ne godesse ancora l’acqua.

    Arrivate quelle a terracorser via come fiumane:e dell’acqua del suo piantosi gonfiarono tre fiumi,da quel pianto ch’era scesogiù dal capo, dalla fronte.

    Si gonfiò quel fiume in fuoco,si divise in tre cascate:e dal vortice d’ognunas’innalzarono tre rupi:e sull’orlo d’ogni rupesorser tre vertici d’oro:al disopra d’ogni vettacrebber tosto tre betulle:nel fogliame di ciascunaecco tre cuculi d’oro.

    E cantavano i cuculi;uno fece: amore, amore!l’altro fece: sposo, sposo!fece il terzo: gioia, gioia!

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  • Quel che fece «amore, amore!»cantò quello per tre mesiper la figlia senza amoreche dormiva dentro al mare.

    Quel che fece «sposo, sposo!»cantò quello per sei mesiper lo sposo sventuratoche in disparte lacrimava.

    Quel che fece «gioia, gioia!»cantò quello tutto il tempoper la mamma senza gioia,che piangeva tutti i giorni.

    E la madre così disse,si parlò nell’ascoltare:«Non a lungo quel cuculosta’ ad udir, povera madre:il cuculo quando cantapassa un brivido nel core,scende giù dagli occhi il pianto,giù le lacrime alle gote,più rotonde che pisellie più gonfie che le fave.D’una pertica la vita,d’una spanna invecchia il tronco,spezza il corpo, quando canta,il cuculo a primavera!».

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  • IL QUINTO RUNO.

    Väinämöinen cerca di riprendere dal mare Aino, la sorella di Joukahainen, e la tira su coll’amo, trasforma-ta in strano pesce (1-52).

    Or venuto un certo giorno,una certa mattinata,ecco, un pesce morse all’amo,un salmone al ferreo uncino:lo tirò dentro la barca,lo posò sopra il pagliolo.

    Lo guardava, lo voltavae così dicea, parlava:«Ecco un pesce, un pesciolino,qual non ho mai conosciuto:piatto è più che un lavareto,bianco assai più d’una trota,troppo è lustro per un luccio:scarse ha pinne, forma stranaperchè sia femmina o maschio:non ha fasce, da fanciulla,non cintura, come ondina,non orecchie, da colomba:un salmone par piuttosto,una perca del profondo».

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  • Gli pendea dalla cinturaun coltello inargentato:trasse quel dalla cintura,lo cavò dalla guainaper tagliare a pezzi il pesce,affettare quel salmone,per il pasto del mattino,per la prima colazione,per goderne al desinaree con quello per cenare.

    A tagliarlo si accingeva,a sventrarlo col coltello:il salmon guizzò nel mare,sfuggì il pesce variopintovia dalla barchetta rossa,dal canotto del cantore.

    Alzò tosto il pesce il capo,sollevò la spalla destra,(dava il vento il quinto soffio,si gonfiava il sesto flutto);sollevò la mano destrae mostrò il piede sinistro,dopo sette increspamenti,dopo nove ondeggiamenti.

    Di laggiù prese a parlare,questi detti a pronunziare:

    «O tu vecchio Väinämöinen!io non ero già venutache, salmone, mi tagliassi,

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  • come pesce mi affettassiper il pasto del mattino,per la prima colazione,per goderne al desinaree con quello per cenare».

    Disse il vecchio Väinämöinen:«Perchè dunque eri venuta?»

    «Certo venni, perchè fossicolombella nel tuo braccio,per passar la vita teco,star con te come consorte,per rifarti il letticciuolo,il guancial sotto la testa,per pulire la saletta,per spazzare il pavimento,portar fuoco nella stanzae tener viva la fiamma,infornare il pane grosso,impastare il pan di miele,mescer birra dalla brocca,pòrti innanzi le pietanze.Io non ero nè un salmone,nè una perca del profondo:ero giovin ragazzina,di Joukahainen sorellina,lei che sempre ricercasti,tutti i dì desiderasti.Ah! ah! vecchio miserello,Väinö di corto cervello!

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  • che fuggire ti lasciastidi Vellamo la bimbetta,d’Ahto figlia prediletta!»

    Disse il vecchio Väinämöinen,basso il capo, triste il cuore:«O sorella d’Joukahainen,torna, dico, un’altra volta!»

    Ma non venne un’altra volta,nè mai più nella sua vita;scivolò, guizzò veloce,sparve rapida dall’acqua,dentro il sasso variopinto,nella cupa fenditura.

    Väinämöinen, dopo vari tentativi di riprendere quel pesce, torna afflitto a casa; la madre, risvegliata nella tomba dalla tristezza del figlio, lo esorta a chiedere in isposa la ragazza di Pohja (144-241).

    IL SESTO RUNO.

    Joukahainen porta odio a Väinämöinen e si pone in agguato per sorprenderlo nel suo viaggio verso Pohja

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  • (1-78). Lo vede traversare il fiume cavalcando e gli sca-glia un dardo, ma colpisce solamente il cavallo (79-182). Väinämöinen precipita nell’acqua; una violenta tempesta lo trascina in alto mare, mentre Joukahainen gioisce, pensando che il rivale abbia ormai cantato per l’ultima volta (183-234)

    IL SETTIMO RUNO.

    Väinämöinen nuota per parecchi giorni in alto mare: lo incontra l’aquila, la quale, tuttora riconoscente a lui che nel dissodare il bosco aveva risparmiato la betulla perchè crescesse per essa, lo prende sul dorso e lo porta sulla spiaggia di Pohjola, donde la signora di Pohjola lo accoglie ospitalmente in casa sua (1-274). Però Väi-nämöinen si strugge dal desiderio del suo paese e la si-nora di Pohjola gli promette non solo di rimandarvelo, ma di dargli anche la propria figliuola in moglie, pur-chè le fabbrichi il Sampo (275-322). Väinämöinen pro-mette che, una volta tornato a casa, manderà il fabbro Ilmarinen a fabbricare il Sampo; allora la signora di Pohjola gli dà e slitta e cavallo perchè ritorni in patria (323-368).

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  • L’OTTAVO RUNO.

    Durante il suo viaggio Väinämöinen vede la fanciulla di Pohja, in meravigliosa veste, e le chiede che voglia essere sua sposa (1-50). La fanciulla finisce col promet-tere di acconsentire al desiderio di Väinämöinen purchè questi, con le schegge del fuso, le fabbrichi una bar-chetta e la faccia scendere nell’acqua senza toccarla in alcun modo (51-132). Väinämöinen si mette al lavoro, ma con la scure si ferisce gravemente al ginocchio, nè gli riesce di arrestare il fiotto del sangue (133-204). Va a cercare un mago abile a ciò, e trova un vecchio che s’impegna a far stagnare il sangue (205-282).

    IL NONO RUNO.

    Väinämöinen narra al vecchio l’origine del ferro (1-266). Il vecchio rimprovera il ferro e pronunzia gli scongiuri per arrestare il sangue (267-342).

    Ferma, sangue, la tua corsa,e trattieni le tue ondate

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  • da spruzzarmi sulla testa,gocciolarmi sopra il petto:sangue, sta’ siccome muro,ritto sta’ siccome siepe,come spada ferma in mare,come giunco in mezzo a’ muschi,pietra in mezzo al campo alzata,rupe in mezzo alla cascata!

    Ma se te spinge l’istintoa veloce corsa, alloracorri almeno nella carnee saltella sopra gli ossi:meglio a te lo stare dentroe campar sotto la pelle,nelle vene sussurraresopra gli ossi scivolareche nel sudicio cascare,sul terren precipitare.

    Tu per scorrer non sei fatto,puro latte, sul terreno,nè sul prato, nè sul colle,pregio ed oro degli eroi!dentro il cuore è la tua stanza,la tua cella fra i polmoni:là ritirati veloce,colà corri prestamente:fiume tu non sei, che scorra,lago tu non sei, che ondeggi

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  • non sei golfo, nè barcacciache tu spanda, che acqua faccia.

    Lascia, o caro, il gocciolare,cessa, o rosso, dal cadereda te stesso, deh, ti ferma!

    La cascata un dì di Tyriäsi fermò, di Tuoni il fiume;si asciugaron mare e cieloin quell’anno così ardente,pari a fuoco prepotente.*

    Se mai tu non ubbidissi,altre cose mi ricordo,nuovi mezzi so trovare;chiedo ad Hiisi la caldaia,dentro cui si bolle il sangue,si riscalda il flutto, senzache una goccia giù ne cada,che una stilla se ne perda,senza che la terra bagnisenza che la inondi il sangue.*

    E se l’uomo in me non fosse,*in me figlio del Vegliardo,per fermare questo flusso,questo vortice di vene,c’è, sì, c’è il padre celeste,Jumala sopra le nubi,che fra gli uomini ben puote,fra gli eroi bene conosce

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  • il tappar la bocca al sangue,il fermar l’impetuoso.

    Ukko, deh! creator supremo,Jumala che in cielo stai!Vieni qua per il bisogno,scendi dove ti s’invoca,pigia con la mano pienae col pollice tuo grosso,che si chiuda la ferita,che si fermi questo fiotto:salutari foglie stendi,loto giallo ponvi sopraper fermar la via del sangue,il focoso ad arrestare,che non spruzzi sulla barba,che non coli sulle vesti!»

    Il sangue ristagna. Il vecchio ordina al suo figliuolo di preparare un unguento, unge la ferita e la fascia; Väinämöinen guarisce e ringrazia Iddio per il soccorso ricevuto (147-586).

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  • IL DECIMO RUNO.

    Väinämöinen torna in patria ed esorta Ilmarinen a recarsi a Pohja: chè fabbricando il Sampo otterrebbe la mano della fanciulla (1-100). Ilmarinen risponde che non andrà mai a Pohjola; cosicchè Väinämöinen è co-stretto a ricorrere ad un altro incantamento per far sì che, contro sua voglia, si metta in viaggio (101-200). Il-marinen giunge a Pohjola, vi trova liete accoglienze ed è invitato a fucinare il Sampo (201-280).

    Andò il Sampo a fucinare,il coperchio andò a fregiare,chiese dove la fucina,dove fossero gli arnesi:ma non v’era là fucina,non fucina, non soffietto,non incudin, nè fornello,spranghe no, nessun martello.

    Ilmarinen fabbro allorapronunziò queste parole:«Qui una vecchia sgomentatao un birbante, lascerebbe!non degli uomini il peggiore,nè il più pigro fra gli eroi!»

    Cercò un posto pe’ l fornello,dove i mantici fissare,

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  • sul confin.di quelle terre,lungo i campi di Pohjola.

    Cercò un giorno, cercò un altroed al terzo, giunse dovec’era un sasso variopintoe di roccia un grosso masso:scelse il fabbro questo luogo,si fermò, preparò il fuco:mise i mantici in un giorno,la fornace il giorno dopo.

    Ilmarinen fabbro allora,l’artigiano sempiterno,mise al fuoco i mineralie i soffietti sotto il forno:prese schiavi per soffiare,i men forti, ad attizzare.

    Forte soffiano gli schiavi,pensan gli altri ad attizzareper tre giorni dell’estate,dell’estate per tre notti;ed all’alluce, al tallone,lor crescevan pietre e sassi.

    Ora già nel primo giornoIlmarinen fabbro venne,curvò il capo, per vedere,dal disotto del braciere,che venisse fuor dal fuoco,che sorgesse dalla fiamma.

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  • Venne un arco fuor dal fuoco,arco d’oro, dal braciere:d’oro, e il capo era d’argento,era il manico di rame.

    Bello è l’arco a rimirare,ma ha ben tristi costumanze:ogni dì vuole una testa,due magari i dì di festa.

    Ilmarinen fabbro, ei stessone provò poca allegrezza:in due pezzi ruppe l’arco,lo ficcò nel mezzo al fuoco;disse ai servi di soffiare,ai men forti, di attizzare.

    Quando venne l’indomaniIlmarinen fabbro, ei stessocurvò il capo, per vedere,dal disotto del braciere.

    Venne fuor dalla fornaceuna barca rossa, con lapoppa tutta adorna d’oroe con gli scalmi di rame.

    A veder bella è la barca,ma non buona è la sua usanza:alla pugna va per giuoco,a lottare senza scopo.

    Ilmarinen fabbro, ei stessone provò poca allegrezza:in frantumi fe’ la barca,

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  • la buttò nella fornace:disse ai servi di soffiare,ai men forti, di attizzare.

    Già venuto il terzo giornoIlmarinen fabbro, ei stessocurvò il capo per vederedal disotto del braciere.Una giovane giovencavien dal fuoco; corna d’oro,stella in fronte, e sulla testaporta il sol rotondegginate.

    Bella in vista è la giovenca,ma non ha le buone usanze:vuol dormire in mezzo al bosco,fa cadere il latte in terra.

    Ilmarinen fabbro ei stessone provò poca allegrezza:fece a pezzi la giovenca,la buttò nella fornace:disse ai servi di soffiare,ai men forti, di attizzare.

    Già venuto il quarto giornoIlmarinen fabbro, ei stessocurvò il capo, per vederedal disotto del braciere.Un aratro vien dal fuoco,dal braciere: taglio d’oro,taglio d’oro, asta di ramee d’argento avea la punta.

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  • È l’aratro a veder bello,ma non ha le buone usanze:sgraffia i campi del villaggio,solca i prati fra le siepi.

    Ilmarinen fabbro, ei stessone provò poca allegrezza:in due pezzi fe’ l’aratro,lo buttò sotto il fornello:fe’ soffiare forte i venti,avvivare i soffi ardenti.

    Soffia il vento impetuoso,quel d’oriente e d’occidente,fischia quel di mezzogiorno,mugge l’aspra tramontana:soffiò un giorno, soffiò un altro,soffiò tutto il terzo giorno;dalla porta e la finestraguizzò fuoco, uscîr faville:si levò la polve al cielo,alle nubi il fumo fitto.

    Ilmarinen fabbro, quandofu passato il terzo giorno,curvò il capo, per vederedal disotto del braciere:vide il Sampo ch’era nato,il coperchio già formato.

    Ilmarinen fabbro allora,l’artigiano sempiterno,fucinava, martellava

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  • e picchiava allegramente:con grand’arte fece il Sampo:un mulino, la farina,ed un altro sal versava,e denaro un terzo dava.

    Macinava il nuovo Sampoe girava il bel coperchio:esce un moggio all’imbrunire:serve un moggio per mangiare,il secondo vien vendutoe si serba in casa il terzo.

    Tutta lieta allor la vecchia,preso il gran Sampo, lo misesotto il colle dirupatodentro il gran monte di rame,chiuso con nove lucchetti:gli fe’ prendere radicenove tese di profondo,nella terra una radice,dentro un gorgo d’acqua l’altra,e la terza ov’è la casa.

    Ilmarinen chiede la fanciulla in ricompensa dell’ope-ra compiuta: la fanciulla pretesta ostacoli e dice di non potere ancora abbandonare casa sua (433-462). Ilmari-nen ottiene una barca, ritorna in patria e racconta a Väinämöinen com’egli abbia già fucinato il Sampo a Pohjola (463-510).

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  • L’UNDECIMO RUNO.

    Tempo è già di parlar d’Ahti,*dell’ardito, spensierato:quel volubile isolano,che di Lempi era figliuolo,nella nobil casa crebbepresso la diletta madre,lungo l’ampio, largo golfo,dove piega il promontorio.

    Là mangiava Kauko i pesci,si nutriva Ahti di perche;uom divenne de’ più forti,più robusti, più sanguigni:per la testa ben valeva,per la sua bella figura:ma non senza alcun difetto,nei costumi senza vizî:alle donne sempre accanto,sempre a notte in giro andavafra la gioia, fra le danzedi fanciulle altochiomate.*

    C’era a Saari una fanciulladetta Kylli, il fior di Saari:là cresceva, quell’alteranella nobile dimora:nelle stanze di suo padre,sulla seggiola seduta.*

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  • Corse lungi di lei famae da lungi i pretendentiaccorrevan, da lontanoalle case della bella.

    Lei richiese il Sol, pe’ l figlio,ma dal Sole andar non volleper brillargli accanto, quandova d’estate, affaccendato.

    Chiese lei, pe’ l figlio, Luna:dalla Luna andar non volleper risplenderle d’accanto,per girar del cielo i cerchi.

    Per il figlio, poi, la Stella:dalla Stella andar non volle,presso a lei, per rischiararele invernali lunghe notti.

    Venner forti dall’Estonia,altri eroi venner dall’Ingria,ma con loro andar non volle,tal risposta diede loro:«Senza scopo l’oro è speso,consumato il vostro argento:non andrò mai nell’Estonia,non andrò, ve lo prometto,a remar d’Estonia l’acqua,scandagliarla col bastone,a mangiar d’Estonia i pesci;trangugiar la vostra zuppa.E nemmeno andrò dell’Ingria

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  • alle rive dirupate;là c’è fame d’ogni cosa:fame d’alberi e di schegge,fame d’acqua e di frumentoe di pane segaligno».

    Ma quel vispo Lemminkäinen,quel leggiadro Kaukomieli*si decise di partire,pretendente al fior di Saari,alla bella senza pari,la graziosa altochiomata.

    Ma la madre il distoglieva,gliel vietava la vecchietta:

    «Non cercare, figliuol mio,di colei di te più alta:tollerarti non saprebbedi Saari l’alta stirpe».

    Lemminkäinen spensierato,il leggiadro Kauko, disse:«Se non è sì grande stirpequesta mia, mi faccio innanziper quest’alta mia statura,per la mia corporatura».

    Pur la madre non cessavadi vietargli di cercarequella gran gente di Saari,quella stirpe sì remota:«Scherno avrai dalle fanciulle,rideran di te le donne».

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  • Non le bada Lemminkäinen,le risponde in questo modo:«Ben rintuzzerò lo schernoe il sogghigno delle donne:quando avranno un bimbo al seno,un piccino sulle braccia,i sogghigni tacerannoe gli scherni finiranno».

    Gli rispose allor la madre:«Ahimè, miseri miei giorni!Se da te saranno offesele donzelle di Saari,ne verran fiere contese,nascerà grande battagliae di Saari ogni guerriero,cento armati con la spada,contro te si scaglieranno,meschinello, solo solo».

    Ma non bada Lemminkäinenall’avviso della madre:sella tosto il suo pulledro,l’impeccabile destriero:con la slitta va veloceal villaggio celebrato,pretendente al fior di Saari,alla bella senza pari.

    Lui derisero le donne,lui scherniron le fanciullequando entrò bizzarramente

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  • nel sentiero, nel cortile,rovesciando la sua slittae battendo nel portone.

    Ma quel vispo Lemminkäinentorse il labbro, piegò il capo,si tirò la nera barba,disse poi queste parole:«Non mai vidi prima d’ora,non mai vidi nè permisiche di me donna ridesse,nè fanciulla mi schernisse».

    Non si turba Lemminkäinen,dice allor queste parole:«Non c’è forse un posto a Saari,qui di Saari sulla terra,dov’io possa porre giuochie ballar su terra lisciacon le liete giovanette,danzatrici altochiomate?»

    E di Saari le fanciullegli risposero e le donne:«Certamente che c’è postoqui di Saari sulla terra,perchè tu vi ponga giuochie su liscio suolo balli:purchè tu faccia il mandrianosulle terre dissodate:magre a Saari le fanciulle,i pulledri sono grassi».

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  • Non si turba Lemminkäinene si assolda qual pastore:va di giorno a pascolare,va di notte a rallegrarecon gli scherzi e con le danzequelle donne altochiomate.

    Ed il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli,rintuzzò così lo scherno,delle donne frenò il riso:nè ci fu da allor ragazza,nè pudica verginellach’egli non accarezzasseed accanto non le stasse.

    Una sola era fra tuttele fanciulle di Saari,che gli sposi non curava,agli amori non pensava:era Kyllikki l’altera,di Saari il più bel fiore.

    Ed il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli,consumò cento stivali,cento remi ruppe, mentrecorteggiava la fanciulla,volea Kyllikki in isposa.

    Kyllikki, bella fanciulla,disse allor queste parole:«A che, misero, t’aggiri,

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  • vai e vieni qual piviero,le ragazze interrogandoche han di stagno ornato il petto?Io di qua non andrò viase la macina consunta,se il pestel non sarà rottoe il mortaio frantumato.*Io non cerco un buono a nulla,buono a nulla, vagabondo;voglio un uomo svelto, comesvelta è pur la mia figura:voglio un uomo bello e prestante,come son prestante anch’io;voglio sia d’alta statura,come è pur alta la mia».

    Poco tempo era passatoforse appena un mezzo mese,quando venne un certo giorno,capitò una certa sera,e scherzavan le fanciullee danzavano le bellepresso al campo, in mezzo all’aia,presso i floridi scopeti:e Kyllikki pria dell’altre,di Saari il più bel fiore.

    Venne il giovane giulivo,Lemminkäinen spensierato,con la slitta e il suo stallone,l’impeccabile destriero;

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  • viene al luogo degli scherzi,alla danza delle belle:e Kyllikki nella slittavia trascina, la rapisce:*la coperta la ricopree la cinghia la tien ferma.

    Il cavallo frustò forte,lo toccò pur con le briglie,e nel correr via velocepronunziò queste parole:«Mai, fanciulle, non dovetea nessuno far sapereche quaggiù sono venuto,che ho rapito la fanciulla.E se voi non mi ubbidite,vi côrrà certo un malanno:canterò sposi e mariticon la spada, alla battaglia,nè di giorno, nè di nottegiammai più voi li udiretepei sentieri camminare,per i boschi cavalcare!»

    Ben Kyllikki si lamenta,il bel fior di Saari piange:«Ormai libera mi lascia,lascia andar questa bambina,ch’io ritorni a casa mia,dalla mamma mia che piange.Se non vuoi lasciarmi andare,

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  • sì ch’io torni a casa mia,ho laggiù cinque fratelli,sette figli di mio zio,che la lepre troveranno,*la faranno ritornare».

    Quando vide che a lasciarlanon pensava, scoppiò in piantoe di nuovo così disse:«Nacqui invano, miserella,nacqui invano, invano crebbi,vissi invano la mia vita,poichè sono or capitatacon quest’uomo buono a nulla,che la guerra sempre cerca,che non pensa che a battaglie».

    Le rispose Lemminkäinenil leggiadro Kauko disse:«O Kyllikki, coccolinadel mio cuore, dolce bacca,non avere alcun pensiero,vo’ tenerti sempre bene:fra le braccia, mentr’io mangio,per la mano, se cammino,se mi fermo, a me d’accanto,quando dormo, al fianco mio.Perché tu così ti affliggie sospiri pensierosa?Forse tu così ti affliggie sospiri pensierosa,

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  • perchè pan mi manchi, e vacchee il bisogno della vita?Non avere alcun pensiero:perchè è mia più d’una vacca,molto latte mi largisce:nel palude la Muurikki,sopra il colle la Mansikki,terza, al bosco la Puolukka:sono belle anche a digiuno,belle senza custodirle:non si legano la sera,non si sciolgon la mattina,non importa di dar loroerba, sale o farinata.*Oppur tu così ti affliggie sospiri pensierosa,perchè grande la mia stirpenon è, nobil la mia casa?Ma se grande la mia stirpenon è, nobil la mia casa,ho una spada fiammeggiante,una lama scintillante:questa vien da nobil schiatta,da remota, vasta, sede:presso Hiisi fu affilata,*fu forbita presso i Numi;e con questa farò grandela mia stirpe, la mia patria,

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  • con la spada che scintilla,con la lama che sfavilla».

    Sospirò la poveretta,così disse la fanciulla:«Ahti, tu figliuol di Lempi,se tu vuoi ch’io ti sia moglie,per la vita tua consorte,colombella, nelle braccia,giura eterno un giuramento:che mai più tu in guerra andrai,anche se bisogno d’oroo desìo tu abbia d’argento».

    Lemminkäinen spensieratocosì allora le rispose:Giuro eterno giuramentodi mai più partire in guerra,per bisogno che abbia d’oro,per desìo che abbia d’argento!Ma tu stessa dèi giurareche al villaggio mai più andrai,per desìo tu abbia di danzee di balli in doppia schiera».

    Così fecer giuramentoe promessa fêro eterna,in cospetto al Dio presentedappertutto e onnipotente:Ahti più non andrà in guerra,nè più Kyllikki al villaggio.

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  • Ed il vispo Lemminkäinenfrustò forte il suo corsiero,lo toccò pur con le briglie,pronunziò queste parole:«Addio, prati di Saari,addio abeti incatramati,che girai tutta l’estate,calpestai tutto l’inverno,nelle notti nuvolose,fra le piogge tempestose,per cercar la gallinella,per scovar la folaghella».

    Galoppavano veloci,presto apparve la casetta;ed allora la fanciulladisse a lui queste parole:«S’intravede là una stanza,sbircio il mucchio della fame:di chi è mai quella stanzetta,quella casa da furfante?»

    Lemminkäinen spensieratodisse allor queste parole:«Non t’affligger per la stanza,non turbarti per la casa:ti farò dell’altre stanze,delle stanze assai migliori,tutte di fusto d’abetee di fusto di buon pino».

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  • Ed il vispo Lemminkäinengiunse tosto a casa sua,presso la diletta madre,la sua vecchia genitrice.

    Gli parlò così la madre,disse allor queste parole:«Lungo tempo, mio figliuolo,rimanesti in strania terra».

    Lemminkäinen spensieratodisse allor queste parole:«Bisognò pur che le donnee le vergini pudichemi pagassero lo schernoe scontassero il sogghigno;nella slitta la più bellamisi, sopra la pelliccia,con la cinghia intorno stretta,la coprii con la coperta:e così delle fanciulleho pagato scherno e risa.Tu che in seno mi portasti,madre, tu che m’allevasti,io trovai quel che cercavo,ebbi ciò che sospiravo:i guanciali tuoi migliori,i più molli metti fuori,perchè alfine in casa, stanco,della bella dorma al fianco».

    A lui disse allor la madre,

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  • gli rispose in tal maniera:«Ringraziato ora tu sia,Dio creatore, celebrato,che mi desti tale nuora,buona per soffiar nel fuoco,brava a tesser col telaio,abilissima a filare,eccellente pe ’l bucato,e le vesti ad imbiancare!Tu ringrazia la tua sorte,a te pur bene è toccato:a te ben conceder volleil Creator misericorde:puro è il passer sulla neve,ma più pura la tua cara:bianca la spuma nel mare,ma più bianca la tua donna:svelta l’anatra nel mare,ma più svelta la consorte:rilucente in ciel la stella,la tua sposa più lucente.Ora, allarga il pavimento,fa’ più grandi le finestre,alza su nuove pareti,fa’ miglior tutta la stanza;della stanza, pria le soglie,delle soglie, pria le porte,poichè scelta tu ti seiquesta bella giovinetta,

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  • ch’è di te più nobil nata,d’alta stirpe generata».

    IL DUODECIMO RUNO.

    Kyllikki dimentica il suo giuramento e si reca al vil-laggio, per il che Lemminkäinen forte si adira e decide di ripudiarla subito e di andare a chiedere in isposa la fanciulla di Pohja. (1-128).

    L’ammonì la vecchia madree cercò di dissuaderlo:«Non andar, caro figliuolo,alle stanze di Pohjola;se tu ignori la magia,l’alta scienza non conosci,non andar di Pohja a’ fuochi,alle terre di Lapponia!Il Lappon colà t’incanta,quel di Turja ti costringene’ carbon la bocca, e ’l caponell’argilla, e l’avambracciofra faville, e in cener caldaed in calde pietre il pugno».

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  • Così disse Lemminkäinen:«Mi volean stregar stregoni,incantar razze di serpi,tutti insieme tre Lapponi,una certa notte estiva,nudi sopra un gran pietrone,senza vesti nè cintura,senza un nastro avvolto in giro;da me trasser quel profittoquei malvagi, quel guadagnoche trae l’ascia dalla pietra,il trivello dalla rupe,il baston dal ghiaccio liscio,morte da una stanza vuota.In un modo la minaccia,ma in un altro andò a finire:minacciavan d’incantarmi,mi volevan trasformarein un trave sul pantano,in un ponte sopra il fango,*con la bazza nella mota,con la barba nella melma:io però, che sono un uomo,non provai grande sgomento,ma mi feci mago anch’io,io pur presi a far scongiuri,e que’ maghi coi lor dardi,quei guerrier con le lor spade,gli stregoni coi coltelli,

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  • gl’indovini con gli acciari,li incantai nelle cascate,giù nei vortici schiumosi,sotto i getti e gli zampillie i tremendi mulinelli:colà dorman gli stregoni,colà giaccian quei malignifinchè l’erba spunti e crescaattraverso barbe ed elmi,per i muscoli dei maghi,per le spalle dei stregoni,di que’ maghi sonnecchianti,de’ maligni addormentati».

    Tratteneva ancor la madreLemminkäinen dal partire:madre, il figlio, donna, l’uomoammoniva e dissuadeva:«Non andare, non andarea quel gelido villaggio,a Pohjola tenebrosa!Un malanno certamentepiomberà sul bravo figlio,sarà il vispo rovinato:dillo pur con cento bocche,prestar fede non ti posso:non sei tale incantatoreda star presso a quei di Pohja;nè di Turja sai la lingua,nè la lingua dei Lapponi».

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  • In quel mentre Lemminkäinen,Kaukomieli vispo e bello,era intento a pettinarsi,i capelli a spazzolarsi:gettò il pettin contro il muroe le punte contro il tubo;disse poi queste parole,tali detti fece udire:«Piomberà su Lemminkäinenil malanno e la sventura,quando il pettin coli sangue,sangue goccino le punte».

    Si arma, si mette in viaggio, giunge a Pohjola e in-canta tutti gli uomini fuori delle loro stanze; solamente un brutto mandriano lascia senza incantare (213-504).

    IL DECIMOTERZO RUNO.

    Lemminkäinen chiede la figlia alla vecchia di Pohjo-la, che gli impone, come prima fatica per meritarla, di raggiungere a corsa coi pattini l’alce di Hiisi (1-30). Lemminkäinen si mette in cammino vantandosi di rag-

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  • giungere l’alce, ma presto deve con dispetto riconosce-re di aver fallito il colpo (31-270).

    IL DECIMOQUARTO RUNO.

    Valendosi bellamente dei consueti scongiuri e pre-ghiere del cacciatore, Lemminkäinen finisce coll’impa-dronirsi dell’alce, che porta a Pohjola (1-270). Per se-conda fatica gli impongono di imbrigliare il cavallo di fuoco di Hiisi, il che egli riesce a fare (271-372). Per terza prova, deve saettare il cigno nel fiume di Tuonela. Lemminkäinen va alla fiumana; colà lo aspetta il man-driano da lui disprezzato, lo uccide e lo butta nella ca-scata di Tuoni. Per di più il figlio di Tuoni ne taglia a pezzi il corpo (373-460).

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  • IL DECIMOQUINTO RUNO.

    Ma il pensiero della mammaera sempre al suo figliuolo:«Dov’è andato Lemminkäinen,dove sparve Kauko mio,ch’io non sento dir che tornidal suo viaggio al suo paese?»

    Non sapea la poveretta,quella mesta genitrice,dove fosse la sua carne,il suo sangue si movesse;delle coccole sul monte,sulla landa di brughiere?era forse allor sul mare,sopra l’onde spumeggianti?oppur della gran battaglianel terribile tumulto,con le gambe dentro il sangue,col ginocchio rosseggiante?

    Kyllikki la bella donnariguardava d’ogni intornonella casa, nel cortiledell’allegro Lemminkäinen;guarda il pettin la mattinae la spazzola la sera:venne un giorno, una mattinae dal pettine colava

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  • sangue, e sangue gocciolavadalla spazzola quel giorno.

    Kyllikki, la bella donna,disse allor queste parole:«Già da me partì il marito,il bel Kauko mio scomparveper inospiti sentierie per vie non conosciute:chè dal pettin sangue cola,dalla spazzola giù sgorga».

    Guardò il pettine la madre,lo guardò tutta piangente,disse tutta addolorata:«Ahimè, miseri miei giorni,sfortunata vita mia!già il mio misero figliuolo,il mio povero ragazzo,capitato è in tristi giorni,la sventura ha colto il fortee l’allegro, la rovina;già dal pettin sangue cola,dalla spazzola giù sgorga!»

    Con le mani alzò la veste,la tirò fin sul ginocchioe partì per lungo viaggio,più veloce che potesse:suonò il colle de’ suoi passi,s’alzò il piano, scese il monte,

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  • s’abbassarono le alture,s’innalzaron le bassure.*

    Alle stanze di Pohjolagiunse, e chiese di suo figlio;così chiese, così disse:«Oh, signora di Pohjola,dove tu me l’hai mandatoil mio figlio Lemminkäinen?»

    Di Pohjola la signora,Louhi, le rispose allora:«Di tuo figlio non so nientedove andò, dov’egli sparve:alla slitta gli ho aggiogatoun destriero ben focoso:nel nevischio si è sommersoo nel mare egli è gelato,o di lupo o d’orso fieronella gola è capitato».

    Ma la, madre così disse:«Queste son certo menzogne!Orso o lupo non divorala mia prole, Lemminkäinen:con le dita abbatte i lupi,con le mani atterra gli orsi:e se dirmi non vorraidove tu mandato l’hai,spezzo l’uscio del granaioed i cardini del Sampo».

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  • La signora di Pohjola:«Da mangiar gli ho dato, e benee da ber quanto ha voluto:da mangiar, da bere, e brilloio lo misi nella barcachè scendesse la cascata:ma non so poi niente affattodove cadde il poveretto,se nell’onda spumeggiante,se nel vortice tremante».

    Ma la madre così disse:«Anche queste son menzogne!Dimmi il vero, proprio il vero,lascia andare le bugie,dove hai tu mandato il figliodi Kaleva, ch’è scomparso?o su te verrà rovina,su di te scenderà morte».

    La signora di Pohjola:«Ecco, or già ti dico il vero:lo mandai, chè mi prendessegli alci, le superbe renne:che imbrigliasse il gran cavallo,gli mettesse i finimenti:perchè il cigno mi cercasse,mi prendesse il santo augello:or di lui non so più nulla,nè se l’ha colto sventurao un ostacol trattenuto:

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  • chè non sento dir che tornia riprendere la sposa,a richieder la ragazza».

    E la madre, lo smarritoricercava, fra i lamenti:come lupo, fra i padulifra le selve, a guisa d’orsocome lontra, in mezzo all’acquacome tasso, pe’ i sentierilungo il margin, come ricciocome lepre, lungo i laghi:gettò i sassi da una parte,torse i tronchi, i rami secchidalla strada tolse, e pontife’ degli alberi caduti.*

    Lungamente lo smarritoricercò senza trovarlo:chiese agli alberi del figlio,rimpiangendo lui perduto:disse il pino, e sospirava,la prudente quercia disse:«Per me stessa ho da pensarenè pensar posso a tuo figlio:duri giorni il mio destino,tristi giorni m’ha serbato,perchè in trucioli mi fannoe mi segano in cataste,mi affastellano in fascinee mi atterrano con l’ascia».

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  • Lungamente lo smarritoricercò, senza trovarlo:alle strade che incontrava,ai sentieri s’inchinava:«Oh sentieri, che Dio fece,non vedeste il mio figliuolo,la mia dolce mela d’oro,il mio argenteo bastone?»

    Il sentiero le rispose,la prudente strada disse:«Per me stesso ho da pensare,nè pensar posso a tuo figlio:duri giorni il mio destino,tristi giorni m’ha serbato,chè su me saltano i cani,mi calpestano i cavalli,su di me pigian le scarpe,su di me stridono i tacchi».

    Lungamente lo smarritoricercò, senza trovarlo:le si fe’ la luna incontro,alla luna s’inchinava:«Luna d’oro, che Dio fece,non vedesti il mio figliuolo,la mia dolce mela d’oro,il mio argenteo bastone?»

    E la luna, che Dio fece,da prudente le rispose:«Per me stessa ho da pensare,

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  • nè pensar posso a tuo figlio:duri giorni il mio destino,tristi giorni m’ha serbato:solitaria a notte erraree risplendere col gelo:nell’inverno ben vegliaree svanir d’estate in cielo».

    Lungamente lo smarritoricercò, senza trovarlo:le si fece incontro il sole;essa al sole s’inchinava:«Caro sole, che Dio fece,non vedesti il mio figliuolo,la mia dolce mela d’oro,il mio argenteo bastone?»

    Lo sapeva bene il sole,l’avea il sole indovinato:«Il tuo misero figliuoloè già morto, già perduto,sceso è già nel nero fiume,dentro l’onda sempiterna,le cascate fragorose,di Tuoni nella fiumana,nell’estremo di Tuonela,*nelle valli di Manala».

    Ed allora forte piange,triste la madre singhiozza;va del fabbro alla fucina:«Ilmarinen, fabbro caro,

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  • prima ed ieri hai lavorato,oggi ancora fa’ un rastrellocon un manico di rame,ferree punte acuminate,cento tese lunghe, e cinque-cento il manico sia lungo».

    Ed il fabbro sempiterno,Ilmarinen, fe’ un rastrellocon un manico di rame,con acute ferree punte,cento tese lunghe, e cinque-cento il manico fe’ lungo.

    Essa stessa allor, la madreprese quel ferreo rastrello:volò al fiume di Tuonelaed il sol così pregava:«Caro sole, che Dio fece,fuoco in ciel per noi creato,splendi prima pien d’ardore,poi rosseggia arroventato,ed infin con ogni possa:addormenta l’aspra gente,stanca il popol di Manala,butta giù la loro forza!»

    Ed il sol, da Dio creato,del Creatore il caro sole,volò al tronco di betulla,si posò sul cavo ontano,splendè prima pien d’ardore,

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  • rosseggiò poi arroventato,ed infin con ogni possa:assopì quell’aspra folla,stancò il popol di Manala,giovinetti con le spade,vecchi con i lor bastonie gli adulti con le lance;volò poi con lento volosu nell’alto cielo pianoalla sede sua primiera,all’antica sua dimora.

    E la madre gettò alloraquel rastrello tutto ferroper pescare il suo figliuolosu dal vortice muggente,su dal fiume fragoroso:ma il rastrello a vuoto trasse.

    Scese allora ancor più basso,penetrò più giù nell’onda,al disopra delle calzeavea l’acqua, alla cintura.

    Rastrellò cercando il figliolungo il fiume di Tuonela,rastrellò contro corrente,una volta trasse, e due:la camicia su ritrassedel figliuol, con mente mesta;rastrellò la terza volta,ripescò calze e berretto:

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  • con dolore, quelle calzecon angoscia, quel berretto.

    Scese allor sempre più bassonel profondo di Manala,il rastrello trasse dritto,lo ritrasse di traversoe di nuovo obliquamente:tirò su la terza voltaun covone, con la cimadel rastrello tutto ferro.

    Un covon quello non era,era il vispo Lemminkäinen,era il bel Kaukomieliattaccato a quelle puntecon il dito senza nomee col pollice sinistro.*

    Uscì il vispo Lemminkäinen,sorse il figlio di Kalevacol rastrel fatto di ramesopra l’acqua trasparente:ma qualcosa gli mancava:una mano, mezza testa,e molt’altri pezzettini;soprattutto poi la vita.

    Riflettè la madre allora,così disse lacrimando:«Potrà ancor da questo un uomo,un eroe risuscitare?»

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  • E la udì per caso il corvo,*le rispose in questo modo:«Non è uomo più costui,già sparito, già scomparso;gli mangiaron gli occhi i pesci,rosicchiò le spalle il luccio;or tu butta l’uomo in mare,giù nel fiume di Tuonela,che una foca egli diventio fortissima balena».

    Non gettò però la madregiù nell’acqua il suo figliuolo:ma una volta ancor raspandocol rastrello suo di rame,lungo il fiume di Tuonelaper il lungo, per il largo,ritrovò la mano, il capoed un osso della spalla,trovò un osso della gamba,altri piccoli pezzetti:e rifece allor con questiil figliuolo, Lemminkäinen.

    Attaccò carne alla carnee saldò gli ossi con gli ossi,le giunture alle giunture,vene rotte con le vene.

    Poi legò forte le arterie,delle arterie annodò i capi,incantò vena per vena,

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  • proferendo tali detti:«Bella donna delle arterie,Suonetar, donna leggiadra,delle arterie filatrice,col leggiadro fuso, o bella,e di rame l’arcolaioche di ferro ha la rotella,vieni qua per il bisogno,corri dove sei chiamata,col gomitolo di vene,col mazzetto delle pelli,per cucir vene ed arterie,allacciar le loro cime,nelle piaghe lacerate,le ferite sempre aperte!Se bastar ciò non dovesse,c’è una vergine nel cielo,nella barca tutta ramecon la poppa rosso tinta.Scendi, Vergine, dal cielo,vieni giù dal firmamento,rema in mezzo delle vene,passa in mezzo alle giunture,rema ancor fra mezzo agli ossi,delle membra agli interstizi!Metti al posto lor le venee le arterie dove vanno,allacciando quelle grandi,le pulsanti combinando

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  • e le vene più sottililega pur una coll’altra!Prendi un ago ben sottilecon un fil di seta fino,cuci con l’ago sottile,passa con l’ago di stagnosopra i capi delle venee col fil di seta cuci.Se bastar ciò non dovesse,io ti prego, Dio celeste,d’aggiogare i tuoi pulledri,d’apprestare i finimenti:nella slitta variopintapassa fra giunture ed ossi,passa fra la carne molleva veloce fra le venee la carne attacca agli ossie l’arteria con l’arteria:salda gli ossi con l’argentoe con l’or salda le vene!Dove s’è rotta la pelle,colà cresca pelle nuova;dove ruppesi l’arteria,allacciata sia l’arteria;dove il sangue sgorgò via,torni a scorrere altro sangue;dove l’osso s’è spezzato,un altr’osso sia posato;dove si staccò la carne,

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  • sia la carne risaldata,sia rimessa al proprio posto:tornin tosto al proprio luogoossi ed ossi, carne e carnee giunture con giunture».

    Alla vita sua di primafe’ così tornar la madrequell’ardito, gli ridettela sua forma ed il suo aspetto.

    Per magìa tornar le venecon le vene a combinare:ma il figliuolo ancor taceva,dir parola non poteva.Ma parlò la madre allora,prese a dire in questo modo:«Donde prendere un unguento,donde miele a gocciolineper spalmare il trapassatoper sanare il disgraziato,chè la bocca sua risuoni,si riapra alle canzoni?Ape, cara nostra alata,tu, regina d’ogni fiore,or va, cerca dolce miele,il soave succo portasu da Metsola benigno,da Tapiola vigilante,*di più fior dalla corolla,di più erbe dallo stelo,

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  • per spalmarne l’ammalato,per guarir le sue ferite!»

    L’ape, vispa volatrice,battè l’ali, volò sveltaverso Metsola benigno,vèr Tapiola vigilanteed i fior beccò col becco,con la lingua stillò mieledalla punta di sei fiori,dallo stelo di cent’erbe:e ronzando se ne venne,tornò tonda come palla,con le aluzze tutte miele,carche pur di miel le penne.

    Di Kauko la genitriceprese allora quegli unguentie spalmò con quelli il figlioper guarire il disgraziato:non giovarono gli unguentia ridargli la parola.

    Disse allor così la madre:«Cara apuzza volatrice,vola verso un’altra parte,vola sopra nove mari,verso l’isola nell’onde,vola verso i dolci pratialla stanza di Tuuri,di Palvonen alla porta:colà c’è miele abbondante,

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  • colà succhi deliziosiadattati per le vene,che fan bene alle giunture:a me porta questi succhi,questi magici rimedi,ch’io li ponga sopra il male,ch’io ne spalmi le ferite».

    L’ape allora, agil donnetta,volse indietro il legger voloe volò su nove marie sul decimo un pochino:volò un giorno, volò un altro,volò ancora un terzo giorno;(nè su giunchi si posavanè su foglia si stendeva),verso l’isola nell’onde,verso i prati zuccherati,presso la cascata ardenteed il fiume vorticoso.Là era il miele distillato,eran là raccolti i succhidentro vasi piccolini,dentro belle marmittine,un sol pollice profonde,larghe appena quanto un’unghia.

    L’ape allora, agil donnetta,questi balsami raccolse:poco tempo era passato,era scorso un momentino,

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  • e tornava già ronzando,ritornava affaccendatacon sei coppe nelle bracciae con sette sulla schiena,e di miele eran ripienee di succhi deliziosi.

    Lo spalmò la madre alloracon quei balsami soavi,lo spalmò con nove unguentie con otto portentosi:non giovò nessun unguento,non portò niun giovamento.

    E parlò la madre ancora,disse magiche parole:«Ape, tu che in cielo voli,vola ancor la terza voltafin lassù nell’alto cielo,vola sopra a nove cielidove ad iosa trovi miele,tu ne trovi quanto vuoi:incantato l’ha il Creatore,consacrato l’ha il Signoreper guarire i figli suoi,che colpì sorte maligna:tuffa l’ali dentro il succoe le penne dentro il mielee con l’ali porta il succo,porta il miele nella veste,

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  • ch’io ne spalmi l’ammalato,ne guarisca le ferite!»

    L’ape, cara volatrice,disse allor queste parole:«Potrò forse lassù andareio sì debole donnetta?»

    «Ben potrai lassù arrivarecol tuo bel volo leggerosotto il sol, sopra la lunae del cielo fra le stelle:vola un giorno dolcementealle tempie della luna:va ronzando nel secondosu dell’Orsa sulle spallee nel terzo t’avvicinadelle sette stelle al dorso:*è di là breve il cammino,c’è di strada un pezzettino,alla reggia del Beato,del santissimo Signore».

    E si alzò l’ape da terracon le aluzze inzuccherate;volò prima dolcementes’innalzò lieve ronzando,volò rapida alla luna,toccò il margine del solee passando sopra l’Orsa,sopra pur le sette stelle,volò dell’Onnipotente,

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  • del Creatore al magazzino,dove unguento si prepara,dove succo si distilladentro l’anfore d’argento,dentro le marmitte d’oro;cuoce in mezzo il dolce mielee dai lati stilla unguento,bolle il succo al mezzogiornoed il balsamo all’opposto.

    L’ape, che nel cielo vola,prese miele in abbondanzaed unguento a suo piacere:poco tempo era passatoe tornava già ronzando,ritornava svolazzando:cento vasi sopra il dorso,altri mille vasettini:qual di miele, quale d’acqua,qual di balsamo ripieno.

    Di Lemminkäinen la madreessa stessa con la boccali toccò, con la sua linguane provò gusto e sapore:«Questi sono quegli unguenti,questi i balsami del Dio,con i quai l’Onnipotentetutte sana le ferite».

    Spalmò quindi il trapassato,sanò il figlio disgraziato;

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  • spalmò prima osso per ossoe giuntura per giuntura:per di sotto, per di sopra,unse bene anche nel mezzo:pronunziò queste parole,questo magico scongiuro:«Sorgi su dal tuo dormire,ti risveglia dal letargo,dal giaciglio di dolore,da quel letto di sventura!»

    Si svegliò dal suo dormire,dal letargo ecco si scossee la lingua gli si mossee così cominciò a dire:«Ben a lungo, poverello,ho dormito, meschinello!ho dormito un dolce sonnoe profondo era il russare».

    Di Lemminkäinen la madrepronunziò queste parole:«Ben più lungo, lungo tempotu dormito avresti, o figlio,senza la misera mamma,l’infelice genitrice.Or su dimmi, miserello,fa che l’odan le mie orecchie:chi ti spinse giù a Manala,giù nel fiume di Tuonela?»

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  • Disse il vispo Lemminkäinen,alla madre sua rispose:«Il mandriano Märkähattuegli, il guercio d’Untamola,*a Manala giù mi spinse,dentro il fiume di Tuonela;mandò un’idra su dall’acqua,un serpente su dall’ondecontro me stanco e spossato:nè conoscere potevonè saper dell’idra il dannoe del morso del serpente».

    E la madre allora disse«Guarda l’uom senza giudizio!ti vantavi d’incantaregli stregoni di Lapponia,nè sapevi incantamenticontro l’idra ed i serpenti!È dall’acqua nata l’idra,è dall’onda nato il serpe,della folaga dal capoe dal cuore del gabbiano:Syöjätär sputò nell’acqua,*dentro l’acqua, in mezzo all’onde,l’acqua trascinò lo sputoed il sol lo scaldò mite:venne il vento a dondolarlo,lo cullò l’umido vento,

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  • lo sospinse a riva l’onda,lo condusse a terra il flutto».

    Di Kauko così la madrecarezzando il suo diletto,alla vita il fe’ tornare,all’aspetto suo primiero:un pochino più leggiadro,più di prima bello venne;chiese allora al suo figliuolose qualcosa rimpiangesse.

    Disse il vispo Lemminkäinen:«Certo ancor molto rimpiango;il mio cuore è là rimasto,colà dorme il mio pensiero,dalle donne di Pohjola,dalle belle altochiomate:ma la vecchia orecchio-marcionon mi dà la sua figliuolase la folaga, se il cignonon colpisco, non uccidopresso il fiume di Tuonela,presso i vortici secreti».

    E parlò la madre allora,pronunziò queste parole:«Lascia stare que’ maligni,lascia star folaghe e cignilà di Tuoni negli ardentinegri rapidi torrenti:torna a casa, torna insieme

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  • alla povera tua mommae ringrazia la tua sorteed esalta il tuo buon Dioche ti diè vero soccorso,ti chiamò di nuovo a vitadi Tuoni dal suol sicuro,dai confini di Manala:niente io sola avrei potuto,niente fatto da me stessasenza la grazia divinae l’aiuto del Creatore!»

    Ed il vispo Lemminkäinentornò tosto alla sua casacon la madre venerata,la diletta genitrice.

    Ed or Kauko lascio stare,Lemminkäinen spensieratoper un pezzo co’ miei versivolgo tosto il verso altrove,piego il canto ad altre cose,lo indirizzo a nuova strada.

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  • IL DECIMOSESTO RUNO.

    Väinämöinen manda Sampsa Pellervoinen a cercare legna per la barca, si mette a costruirla, ma gli manca-no tre parole magiche (1-118). Non potendo ottenerle da altri, discende a Tuonela, dove vorrebbero trattener-lo (119-362). Pure, con la sua potenza magica, riesce in qualche modo a Väinämöinen di uscire da Tuonela; e ritornatone, sconsiglia chiunque dal recarsi laggiù e descrive lo stato doloroso e tremendo in cui si trovano colà i malvagi (363-412).

    IL DECIMOSETTIMO RUNO.

    Väinämöinen va per chiedere le parole ad Antero Vi-punen, e lo sveglia dal suo lungo sonno sotto terra (1-98). Vipunen inghiotte Väinämöinen, e questi, nel ventre di lui, comincia a tormentarlo fortemente (99-146). Vi-punen pensa qual malanno possa essergli capitato nel ventre e cerca di liberarsene con varie parole magiche, scongiuri, imprecazioni e minacce: ma Väinämöinen gli

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  • dichiara che non se ne andrà se non avrà prima ottenu-to da lui le parole magiche che gli mancano a compiere la barca (147-526). Vipunen canta allora tutta la sua scienza magica a Väinämöinen, il quale esce dal ventre di lui, torna al cantiere e compie la costruzione della barca (527-628).

    IL DECIMOTTAVO RUNO.

    Väinämöinen fa vela con la sua nuova barca per c