Kalevala - Liber Liber · «kalevaliana» di Jean Sibelius abbiano già da soli reso noto e celebre...

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Kalevala Poema nazionale finnico www.liberliber.it

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KalevalaPoema nazionale finnico

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QUESTO E–BOOK:

TITOLO: Kalevala. Poema nazionale finnicoAUTORE: TRADUTTORE: Pavolini, Paolo EmilioCURATORE: Pavolini, Paolo EmilioNOTE:

CODICE ISBN E–BOOK:

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/libri/licenze/

TRATTO DA: Kalevala : poema nazionale finnico / tra-duzione metrica, prefazione e note a cura di Paolo Emilio Pavolini. - 4. ed. abbreviata. - Firenze : G. C. Sansoni, 1948. - XI, 263 p. ; 17 cm.

CODICE ISBN FONTE: non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 10 settembre 2013

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa

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1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

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Indice generale

PREFAZIONE................................................................8IL PRIMO RUNO.Proemio (vv. 1-102)......................................................14IL SECONDO RUNO..................................................18IL TERZO RUNO........................................................32IL QUARTO RUNO.....................................................32IL QUINTO RUNO......................................................51IL SESTO RUNO.........................................................54IL SETTIMO RUNO....................................................55L’OTTAVO RUNO.......................................................56IL NONO RUNO..........................................................56IL DECIMO RUNO......................................................60L’UNDECIMO RUNO.................................................66IL DUODECIMO RUNO.............................................80IL DECIMOTERZO RUNO.........................................83IL DECIMOQUARTO RUNO.....................................84IL DECIMOQUINTO RUNO......................................85IL DECIMOSESTO RUNO.......................................108IL DECIMOSETTIMO RUNO..................................108IL DECIMOTTAVO RUNO.......................................109IL DECIMONONO RUNO........................................110IL VENTESIMO RUNO............................................110IL VENTESIMOPRIMO RUNO................................111IL VENTESIMOSECONDO RUNO..........................111IL VENTESIMOTERZO RUNO...............................129

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IL VENTESIMOQUARTO RUNO............................159IL VENTESIMOQUINTO RUNO.............................177IL VENTESIMOSESTO RUNO................................191IL VENTESIMOSETTIMO RUNO...........................192IL VENTESIMOTTAVO RUNO...............................192IL VENTESIMONONO RUNO.................................193IL TRENTESIMO RUNO..........................................214IL TRENTESIMOPRIMO RUNO.............................214IL TRENTESIMOSECONDO RUNO.......................228IL TRENTESIMOTERZO RUNO.............................229IL TRENTESIMOQUARTO RUNO..........................240IL TRENTESIMOQUINTO RUNO...........................249IL TRENTESIMOSESTO RUNO..............................249IL TRENTESIMOSETTIMO RUNO.........................262IL TRENTESIMOTTAVO RUNO.............................262IL TRENTESIMONONO RUNO..............................263IL QUARANTESIMO RUNO...................................263IL QUARANTESIMOPRIMO RUNO.......................264IL QUARANTESIMOSECONDO RUNO................274IL QUARANTESIMOTERZO RUNO......................293IL QUARANTESIMOQUARTO RUNO...................301IL QUARANTESIMOQUINTO RUNO....................310IL QUARANTESIMOSESTO RUNO.......................310IL QUARANTESIMOSETTIMO RUNO..................311IL QUARANTESIMOTTAVO RUNO.......................312IL QUARANTESIMONONO RUNO........................312IL CINQUANTESIMO RUNO..................................313CHIUSA.....................................................................331NOTE..........................................................................336

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KALEVALA

POEMA NAZIONALE FINNICO.

TRADUZIONE METRICA, PREFAZIONE E NOTE A CURA DI PAOLO EMILIO PAVOLINI

QUARTA EDIZIONE ABBREVIATA.

G. C. SANSONI – EDITORE – FIRENZE

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ALLA CARA MEMORIA

DI

EMILIO N. SETÄLÄ(1864-1935)

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PREFAZIONE

Sin da quando fu pubblicata (1910) la mia traduzione metrica completa del Kalevala, cui la Casa Editrice Remo Sandron volle dare decorosissima veste (un volu-me in-4°, a due colonne, di pagine XXIV-367, con 23 il-lustrazioni fototipiche), tanto l’editore quanto il tradut-tore avevano in mente di farne poi una editio minor – accessibile ad un maggior numero di lettori – di luoghi scelti e fra loro connessi col racconto dell’intero poema. Per varie circostanze avverse solo oggi l’intenzione di-viene realtà ed il nuovo volume, che per gentile conces-sione dei F.lli Sandron, succeduti al benemerito fondato-re della Casa di Palermo, viene accolto nella «Biblioteca Sansoniana Straniera» da me diretta, si pubblica proprio nel giorno della solenne celebrazione che la Finlandia appresta al primo centenario del suo poema nazionale. Poichè fu il 28 febbraio del 1835 che Elias Lönnrot con-segnò alla «Società di letteratura finnica» (alla cui atti-vità è in massima parte dovuto il sorgere e l’affermarsi della lingua e della letteratura nazionale) il manoscritto del primo Kalevala (in 32 canti, con 12078 versi), detto poi Vanha K. (il vecchio K.) per distinguerlo dalla edi-zione definitiva del 1849, con 50 canti e circa 23000

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versi. Ma sebbene di mole minore e di composizione al-quanto diversa, già nella vecchia redazione era contenu-to il tesoro essenziale degli antichi (non tutti antichi) canti popolari finnici, magici, epici e lirici; che Elias Lönnrot era andato raccogliendo da lunghi anni, e che aveva cercato, già in vari tentativi precedenti1, di ridurre ad unità se non organica (la diversa età e provenienza ed indole dei runot non lo consentivano), almeno poetica. Simpatica e curiosa figura quella del Lönnrot (1802-1884): figlio di un sarto di villaggio, impedito dalla po-vertà di frequentare il liceo, si ridusse a servire come apprendista nella farmacia di Hämeenlinna, finchè per l’interessamento e l’aiuto di quel medico provinciale potè attendere agli studi e laurearsi in medicina (1832) nell’Università di Turku (Åbo). Assegnato, come medi-co-condotto, a Kajaani, nell’estremo nord, ebbe modo di conoscere da vicino gli usi e costumi dei contadini, di studiarne a fondo i dialetti e attraverso lunghe e faticose peregrinazioni, per lo più a piedi, in altre regioni, dalla Dvina al Caspio careliano, da occidente a oriente della Finlandia, di raccogliere centinaia e centinaia, non solo di canti, ma e di proverbi, indovinelli e scongiuri, che poi pubblicò in vari volumi. Dal 1853 al 1862 fu profes-sore di lingua finnica nell’Università di Helsinki (Hel-singfors) nella cattedra da prima tenuta dall’insigne et-nologo e glottologo A. M. Castrén; in questo periodo si

1 Ne dà conto un mio articolo (Intorno al Kalevala) negli «Studi di filologia moderna» diretti da G. Manacorda, luglio-dic. 1910, pp. 189-201.

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occupò egli pure di studi affini, compilando il grande «Dizionario finno-svedese» (compiuto nel 1880) e pub-blicando due saggi sulle lingue vepsa e lappone. Per l’insieme della sua attività il Lönnrot può considerarsi come il fondatore della lingua letteraria finnica e, attra-verso il suo – e non suo – Kalevala, come il primo gran-de suscitatore dell’idea nazionale. Non suo, in quanto non gli appartengono i canti raccolti, tutti genuini e pro-dotti di una lunga trasmissione orale; suo, in quanto egli li raggruppò in cicli (sull’esempio di alcuni dei laulajat o cantori del popolo) e i cicli in una specie di poema, con sì felice raccostamento di episodi e «motivi», da darci quasi l’impressione (che solo una rigorosa analisi può attenuare e magari in parte distruggere) di una com-posizione unitaria e consequente. Se aggiunse qualche verso per unire ciò che era disgiunto, se introdusse qual-che allusione all’opera propria di raccoglitore e di pio-niere (la chiusa!), tale era la sua «immedesimazione» nell’indole e nello stile dei runi tradizionali, che sarebbe difficile sceverare il pochissimo suo dal non suo, senza il sussidio dei manoscritti e delle innumerevoli «varian-ti», con scrupolosa cura raccolte e depositate nell’Archi-vio della «Società di letteratura finnica», il più ricco in documenti folkloristici che esista al mondo.

Nel ridurre le dimensioni del poema a circa un terzo dell’originale, si son dovuti sacrificare non pochi brani di notevole interesse; ma poichè la critica estetica ha spesso rilevato la sovrabbondanza di canti magici, la ec-

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cessiva lunghezza di alcuni episodi epici e le assai fre-quenti ripetizioni, ne abbiamo tenuto conto nella elimi-nazione; e crediamo che anche nel «nostro» Kalevala le qualità essenziali e caratteristiche dell’originale non sia-no andate perdute e neppure menomate. Intanto la pre-sente traduzione conserva, meglio di altre pur ottime per altri riguardi (aiutata in ciò dalle peculiarità linguistiche e prosodiche dell’italiano), e il metro (l’ottonario trocai-co) e l’allitterazione e il parallelismo e la frequente (sebbene leggermente diversa) rima finale. Più importa-va che nella scelta, insieme alle vive descrizioni del pae-saggio di foreste, di laghi e di cascate, fossero mantenuti i tratti dei tre personaggi più espressivi dell’anima e del-l’indole del popolo finno: il vecchio Väinämöinen, «il cantore sempiterno», con la glorificazione della musica quale poche genti possono vantare altrettanto alta ed umana (nel runo della Kantele, XLI); Ilmarinen, il fab-bro eterno, l’artefice operoso ed ingegnoso, tardo nella decisione ma poi tenace nell’azione; Lemminkäinen, scapestrato e aggressivo, avventuroso e sempre in cerca di risse e di amores, il Don Giovanni iperboreo, «la creazione più originale e multiforme della Musa finnica»; accanto ai quali spicca la dolce e mesta figura di Aino, la cupa e tragica di Kullervo; e risuonano que-gli inimitabili «canti nuziali» (XXII-XXIV) che abbia-mo riportati quasi per intero come saggio della ricchissi-ma lirica amorosa e familiare, dal Lönnrot stesso raccol-ta nell’altro «corpus poeticum» Kanteletar (L’arpa finni-ca). Ma alla riproduzione delle immagini ispirate dal

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poema all’arte potente di Axel Gallén-Kallela e che adornano la editio major, abbiamo dovuto rinunziare. Tutti sanno come i quadri di lui, insieme alla musica «kalevaliana» di Jean Sibelius abbiano già da soli reso noto e celebre il Kalevala fuori dei confini della patria nordica.

P. E. PAVOLINI.

P. S. – Mentre questo volumetto si finiva di stampare, mi è giunta la dolorosa notizia della improvvisa fine di Emilio Setälä, nobilissima figura di patriota, di scienziato-principe della glotto-logia ugrofinnica, di letterato. A Lui vivente, anche come ad acu-to e profondo indagatore di questioni kalevaliane, dovevano esse-re dedicate queste pagine, segno modesto di gratitudine da parte di chi Lo ebbe a fraterno amico per più di sette lustri; ora che il destino avverso ce Lo ha tolto mentre le prossime celebrazioni ci offrivano una nuova occasione di onorare in Lui uno dei più be-nemeriti e illustri figli di Suomi, sieno esse consacrate alla Sua memoria. P. E. P.

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IL KALEVALA

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IL PRIMO RUNO.Proemio (vv. 1-102).

Nella mente il desideriomi si sveglia, e nel cervellol’intenzione di cantare,di parole pronunziare,co’ miei versi celebrarela mia patria, la mia gente:mi si struggon nella bocca,mi si fondon le parole:mi si affollan sulla lingua,si sminuzzano fra i denti.

Caro mio fratello d’oro,mio compagno dai prim’anni!ora vieni a cantar meco,a dir meco le parole!da diverso luogo, insiemeora qui ci siam trovati.Raro avvien che c’incontriamo,che possiamo stare insiemequassù in queste terre tristi,nelle povere contrade.

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Or prendiamoci le mani,intrecciam dito con dito,sì che ben possiam cantare,e del nostro meglio fare:perchè sentan questi amicied ascoltino i benigninella stirpe che su vienee nel popolo che crescequesti canti tramandati,questi versi messi in lucedi Väinö dalla cintura,d’Ilmari dalla fucina,di Kauko tolti alla spadaed all’arco d’Joukahainen,dai confini di Pohjola,di Kaleva dalle lande.*2

Li cantava prima il babboaffilando la sua scure:li insegnava a me la mammamentre il fuso ritorceva:quando bimbo, sul piancitoruzzolavo sui ginocchi,sbarazzino, con la boccapiena di latte accagliato.Non mancavan canti al Sampo*,non a Louhi gli scongiuri:

2 Contrassegniamo con un asterisco i versi di cui le note finali danno spiegazione [nota per l’edizione elettronica Manuzio].

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invecchiò coi canti il Sampo,sparver Louhi e gli scongiuri,morì Vipunen coi versie coi giuochi Lemminkäinen.*

Ma vi sono altre parole,altri magici segreti,afferrate per la stradae strappate alle prunaie,via divelte dai sarmentie raccolte dai germogli,spigolate in mezzo all’erbe,raccattate nei sentieriallorquando, pastorello,io la gregge conducevofra le zolle inzuccherate,sopra le colline d’oro,dietro la Muurikki nerae con Kimmo la screziata.Mi diceva versi il freddoe la pioggia lunghi canti:mi portava strofe il vento,me ne dava il mar con l’ondevi aggiungean voci gli uccellie canzoni gli alberelli.

Un gomitolo ne feci,in matassa le raccolsi:il gomitol nella slitta,nel carretto la matassa:le portò la slitta a casa,

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il carretto nel granaio:sul palchetto le riposi,dentro il bussolo di rame.

Stetter lungo tempo i versiin quel freddo nascondiglio:ch’io dal freddo ora li tolga,ch’io dal gelo i canti levi,porti il bussol nella stanza,la cassetta sulla panca,sotto la trave maestra,sotto il tetto rinomato?aprirò dei versi l’arcaed il bussolo dei canti?il gomitol ch’io sdipanie disfaccia la matassa?*

Dunque or canto buoni versicon sonora bella voce,se di segale focacciami darete, e birra d’orzo:e se birra non mi dànno,non mi portan birra bianca,canto pure a bocca asciutta,versi fo per l’acqua cara,per la gioia della sera,per l’onor di questo giorno,pel conforto del domani,per l’augurio del mattino.

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La Vergine dell’aria discende nel mare dove, fecon-data dal vento e dall’onda, diventa la Madre delle ac-que (103-176). Una folaga fa il nido e depone le uova sul ginocchio della Madre delle acque (177-212). Le uova scivolano fuori dal nido, si rompono, e dai frantu-mi si formano la terra, il cielo, il sole, la luna e le nubi (213-224). La Madre delle acque crea promontori, golfi e spiagge, le profondità e le secche del mare (245-280), Väinämöinen nasce dalla Madre delle acque e vaga lungamente sulle onde, finchè giunge a fermarsi sulla riva (281-314).

IL SECONDO RUNO.

Sorse allora Väinämöinencoi due piedi sulla landa,sopra l’isola marina,sulla terra senza arbusti,

E molt’anni là rimase,lungamente colà vissesulla terra senza nome,sopra l’isola deserta.

E pensava, rifletteva,nella mente rivolgeva

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da chi farla seminare,con qual seme prosperare.

Pellervo, del campo figlio,Sampsa, bimbo piccolino,ei la terra seminare,ei può farla prosperare.

Seminò, col dorso curvo;gettò i semi sulla terra,dentro i boschi dissodati,sui terreni più sassosi.

Mise i pini sulle alturee gli abeti alle colline:piantò l’eriche alle lande,i germogli nelle valli:le betulle nei pantani,nel terren mobile, ontani:nelle terre acquitrinoseseminò viscioli e salci,sorbi nelle benedette,vetrici nelle fiorentie ginepri in mezzo ai sassi,lungo i fiumi mise querci.

S’innalzavan già gli arbustie spuntavano i germogli:degli abeti la coronagià s’ergeva, e chioma ai pini:le betulle nei pantani,nel terren mobile, ontani:viscioli negli acquitrini

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e ginepri in mezzo ai sassi:belle bacche sul gineproe sul visciol dolci frutti.

Il verace Väinämöinenvenne allora per vederequella terra seminatada Pellervo piccolino:vide gli alberi cresciutied i giovani germogli:non ancor però la quercia,non avea messo radici.

La cattiva alla sua sortelasciò stare, al suo destino:aspettò tre notti intere,altrettanti giorni ancora:per vedere venne allora,alla fin dei sette giorni:nè cresciuta era la quercia,nè radici aveva messo.

Vide allor quattro fanciullee dell’onda cinque sposesopra il prato già falciato,sopra il fieno già tagliato,sulla punta tenebrosadi quell’isola nebbiosa:ammucchiavan col rastrelloe coll’erpice il falciato.

Venne su Tursas dal mare,*sorse il forte su dall’onde:

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pigiò il fieno che bruciasse,con gran fiamma consumasse:lo ridusse tutto in scorieed in cenere minuta.

Fe’ di cenere un mucchietto,fe’ di scorie un monticello:una ghianda egli vi mise,una cara fogliolina,dalla qual la pianta crebbecoi germogli verdeggianti:si levò ricca di bacchedal terreno rastrellato.

Ed in alto stese i rami,i fronzuti ramoscelli:con la cima sorse al cielo,dispiegò le fronde in aria:alle nubi vietò il corso,alle nuvole il vagare,vietò al sol di riscaldare,alla luna di brillare.

Ed il vecchio Väinämöinena pensar si mise allora:«Se ci fosse chi abbattessequesta quercia così altera!fastidiosa è all’uom la vita,il nuotare triste ai pesci,senza che risplenda il sole,senza che la luna brilli».

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Ma non v’era nè un eroe,nè alcun uomo vigorosoche potesse far caderequella quercia a cento rami.

Ed il vecchio Väinämöinenpronunziò queste parole:«Tu che in seno m’hai portato,Luonnotar, mia genitrice!A me presta i forti flutti(chè nell’acqua è grande forza)per abbatter questa quercia,perch’io tolga la malvagiache impedisce al sole i raggi,alla luna il dolce chiaro».

Sorse un uomo su dal mare,un eroe salì dall’onda:grande grande egli non erae nemmen proprio piccino:alto, un pollice d’un uomo,una spanna d’una donna.

Un cappuccio avea di ramee di rame scarpe ai piedi,rame, i guanti nelle manie di rame ricamati:rame, il cinto intorno ai fianchi,dietro, l’ascia pur di rame:quanto un pollice il bastone,quanto un’unghia alta la lama.

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Il verace Väinämöinena pensar si mise allora:«A vederlo, pare un uomoha l’aspetto d’un eroe:quanto un pollice è pur altoe d’un bove quanto l’unghia».

Disse allor queste parole,in al modo si fe’ udire:«Chi sei tu della tua gente,quale tristo fra gli eroi?poco più tu sei d’un morto,poco meglio d’un estinto!»

Disse l’uomo piccolino,quell’eroe del mar rispose:«Sono un uomo cosiffatto,eroe piccolo dell’acqua:venni a abbattere la quercia,a ridurla in scheggettine».

Il verace Väinämöinenpronunziò queste parole:«Non mi sembri tu creato,nè creato, nè adattatoper abbatter la gran quercia,buttar giù l’albero immenso».

Non avea di dir finitoed ancor guardava fiso:vide l’uomo trasformarsie l’eroe gigante farsi:ecco, il piè la terra pesta,

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tocca i nuvoli la testa:sui ginocchi va la barba,sui calcagni van le chiome:c’è una tesa d’occhio ad occhioe da ghetta a ghetta un’altra:una e mezzo fra i ginocchie due tese fra le scarpe.

Ei forbì tosto la scure,affilò la liscia lamasopra sei ciottoli durie poi sopra sette coti.

S’avviò velocemente,prese presto a camminarecon le ghette larghe larghe,con i larghi pantaloni:fece un salto, sul momentosi trovò sopra l’arena:con un altro salto giunsesul terriccio tutto scuro:*fece un terzo salto, finodella quercia alle radici.

Colpì l’alber con la scure,lo percosse con la lama:gli diè un colpo, un altro colpo,lo picchiò la terza volta:guizzò fuoco dalla scure,una fiamma dalla quercia:un momento sol rimane,piomba giù la quercia immane.

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E così la terza voltagli riuscì di giù buttarequella quercia gigantesca,quella pianta a cento cime:piegò il tronco ad orïentee la cima ad occidente,il fogliame a mezzogiornoed i rami a tramontana.

A chi prese per sè un ramo,gli toccò fortuna eterna:e chi ne spezzò una cima,ebbe scienza di magia:chi per sè tagliò il fogliame,acquistò l’amore eterno.*Quanti trucioli dispersi,quante schegge via volatesulle chiare onde del mare,sopra i placidi suoi flutti,quelle il vento cullò dolce,agitò l’onda del mare,come barca sopra l’acque,come nave dentro l’onde.

Le portò vèr Pohja il vento:di Pohja la ragazzinariasciacquava sulla rivala retina de’ capellie le vesti sulla ghiaia,sopra il lungo promontorio.

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Vide i trucioli nell’onda,li raccolse nel paniere:*li portò con quello a casa,col paniere ben tappato,perchè il mago ne facessedardi, ed armi il cacciatore.

Or da che la quercia cadde,piombò giù l’albero immenso,tornò il sole a riscaldaree la luna a rischiarareed i nuvoli a vagareed il cielo ad inarcaresulla punta tenebrosadi quell’isola nebbiosa.

Ecco i boschi ad abbellirsie le selve a crescer liete:foglie in alto, erba sul suoloe cantar fra i rami uccellied i tordi cinguettaree i cuculi richiamare.

Crescean bacche sulla terra,aurei fiori in mezzo all’erba:d’ogni sorta fiorian piante,germogliavan d’ogni forma:l’orzo sol non era nato,il prezioso non spuntato.

Ed il vecchio Väinämöinensi recò meditabondolungo la riva del mare,

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presso l’onda ribollente:trovò là sei granellini,sette semi sulla sponda,sulla sabbia più minuta:li nascose nella zampadella martora, li misedel scoiattol nella pelle.*

S’avviò per seminare,sparger semi sulla terra,presso il fonte di Kaleva,sul confin del campo d’Osmo.

Cinguettò la cingallegra:«Non può nascer l’orzo d’Osmo,nè l’avena di Kalevase pria non sia dissodataquesta terra ed abbattutonon sia il bosco e incenerito».

Il verace Väinämöinenuna scure fe’, tagliente:abbattè la grande selva,dissodò l’immensa terra;buttò giù gli alberi alteri,lasciò solo una betullape ’l riposo degli uccelli,pe ’l richiamo del cuculo.

Volò un’aquila pe ’l cielo,un augello alto nell’aria:venne l’albero a vedere:«Perchè fu questa betulla

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senza abbatterla lasciata,quest’altera risparmiata?»

Disse il vecchio Väinämöinen:«Fu lasciata, chè servisseagli uccelli per riposoed all’aquila per gioia».

Disse l’aquila, rispose:«Bene invero tu facestila betulla a risparmiare,a lasciar crescer la sveltape ’l ristoro degli uccelli,perch’io stessa vi riposi».

E l’augello battè fuoco,suscitò grande una fiamma:bruciò il bosco tramontanalo fe’ cenere il grecale,tutti gli alberi consunse,li ridusse tutti in scorie.

Ed il vecchio Väinämöinenprese que’ sei granellinie que’ sette semi tolsedella martora dal pelo,del scoiattol dalla zampae dal piè dell’ermellino.

S’avviò per seminare,per isparger la sementa:pronunziò queste parole:«Ecco io semino, inchinato,fra le dita del Creatore,

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fra le mani onnipotenti,perchè spunti il seme e crescadalla selva dissodata.

Vecchia che stai sotto terra,*genitrice del terreno!fa’ l’erbetta che germogliche robusto il suol produca:mai mancò forza alla terra,mai, nel volgere de’ tempi,se la grazia sia concessa,dei celesti la promessa.

Lascia, o terra, il tuo dormire:sorgi, o prato, dal sopore:steli veggansi appariree dal gambo spunti il fiore:sorgan spighe a mille a mille,si disperdan foglie a centodal mio campo lavorato,con fatica seminato!

Ukko! Ukko; dio supremo,padre che nel cielo stai,delle nubi reggitoree dei nuvoli signore!nelle nubi tien’ consiglioe dai nuvoli decidi:dall’oriente, manda nubi,denso un nembo da grecale,altre ancora da occidentespingine da mezzogiorno:

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pioggerella giù dal cielogoccia, e miele dalle nubisopra l’orzo verdeggiante,sulla spiga sussurrante!»

Ukko allora, dio supremoe del ciel padre potente,fe’ consiglio nelle nubie dai nuvoli decise:dall’oriente, mandò nubi;denso, un nembo da grecale,altre ancora da occidente,ne mandò da mezzogiorno:ne congiunse gli orli insieme,le battè l’una coll’altra,sì che piovve una pioggetta,gocciò miele dalle nubisopra l’orzo verdeggiante,sulla spiga sussurrante:sorse l’orzo rigogliososi levò, s’alzò rossastrodalla terra scura, aratae da Väinö dissodata.

Ecco, passano due giornie trascorron due, tre notti:alla fin dei sette giorniil verace Väinämöinens’avviò per riguardarequel suo campo seminato,con fatica lavorato:

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crescea l’orzo al suo desìo,ogni spiga con sei facce,ogni stelo con tre nodi.

Mentre il vecchio Väinämöinend’ogni intorno riguardava,il cuculo venne e scorsela betulla rigogliosa:«Perchè questa fu lasciata,la betulla risparmiata?»

Disse il vecchio Väinämöinen«Fu lasciata la betulla,risparmiata, chè tu stessovi cantassi il tuo richiamo:canta qui, dolce cuculo:petto grigio, qui gorgheggia,qui cinguetta, argenteo petto,trilla qui, petto di stagno:fa cu-cù sera e mattina,una volta a mezzogiorno:di’ del cielo la bellezza,de’ miei boschi la dolcezza,delle rive la purezza,de’ miei campi la ricchezza!»

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IL TERZO RUNO.

Väinämöinen cresce in sapienza magica e diventa fa-moso (1-20). Joukahainen va per gareggiare con lui nei canti magici; ma non riuscendovi, lo sfida a combattere con la spada; del che Väinämöinen si adira e incanta Joukahainen dentro una palude (21-330). Joukahainen si trova in grande angoscia e finalmente promette di dare in moglie la propria sorella a Väinämöinen, il qua-le si placa e lo libera dall’incanto (331-476). Joukahai-nen torna a casa di malo umore e racconta alla madre il disgraziato suo viaggio (477-524). La madre si ralle-gra nell’udire che Väinämöinen diverrà suo genero, ma la figlia se ne addolora e comincia a piangere (525-580).

IL QUARTO RUNO.

Aino, quella giovinetta,la sorella d’Joukahainen,per fascine andò nel boscoe per fruste nella macchia;*

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fe’ una frusta pel suo babbo,ne fe’ un’altra per la mamma,una terza mise insiemepel gagliardo suo fratello.

Già tornava verso casaper il bosco degli ontani:venne il vecchio Väinämöinen:vide, in mezzo all’erbe lunghe,con la fine camicettala fanciulla; sì le disse:«Non per altri, giovinetta,che per me, giovanettina,fregia il collo con le perle,orna il petto con la croce,i capelli lega a trecciacon un bel nastro di seta».

Gli rispose la fanciulla:«Nè per te, nemmen per altriporterò crocetta al petto,nè di seta nastro in capo:non mi curo d’altre stoffe,pan non cerco di frumento,paga son di vesti strette,di mangiar duri cantuccidel mio caro babbo al fianco,presso la diletta mamma».

Tolse la croce dal petto,gli anellini dalle dita,gettò le perle dal collo

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e dal capo i nastri rossi,chè la terra li godesse,chè se n’allietasse il bosco:ritornò piangendo a casa,singhiozzando alla dimora.

Sedea il padre alla finestrastava l’ascia ad intagliare:«Perchè piangi, poverina,miserella fanciullina?»

«Ben di piangere ho ragione,ho ragion di lamentare:per ciò piango, babbo mio,per ciò piango e mi lamento:m’è caduta la crocetta,giù dal petto è scivolata,e di rame la fibbiettadalla cintola è cascata».

Il fratello sulla sogliaintagliava un curvo ramo:*«Perchè mai piangi, sorella,sorellina miserella?»

«Ben di piangere ho ragione,ho ragion di lamentare:per ciò piango, fratellino,per ciò piango e mi lamento:cadde giù l’anello d’oro,si sfilarono le perle,via dal dito l’anellino,via le perle inargentate».

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La sorella, sulla porta,tessea d’oro una cintura:«Perchè piangi, sorellina,miserella, poverina?»

«Ben di piangere ho ragione,ho ragion di lacrimare:per ciò piango, sorellina,per ciò piango e mi lamento:l’oro cadde dalla frontee l’argento da’ capelli,cadder giù di seta i nastri,scivolò la fascia rossa».

E la mamma (alla dispensastava, a sbattere la crema):

«Perchè piangi, figliuolettamiserella, poveretta?»

«Tu che in seno m’hai portato,mamma, tu che m’hai nutrito,ben ragione ho di lamentoper gli affanni molto gravi:per ciò piango, mamma cara,per ciò piango e mi lamento:per fascine andai nel boscoe per fruste nella macchia:una frusta feci al babboed un’altra alla mammina:una terza ne legaipel gagliardo mio fratello:ritornavo verso casa,

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il boschetto attraversavo;dal declivio Osmoinen disse,dalla terra dissodata:

«Non per altri, poveretta,che per me, giovanettina,fregia il collo con le perle,orna il petto con la croce,i capelli lega a trecciacon un bel nastro di seta».

Tolsi via la crocettina,via buttai dal collo il vezzo,via dagli occhi i nastri azzurri,ed il penero dal capo:chè la terra li godesse,chè se n’allietasse il bosco:dissi poi queste parole:

«Nè per te, nemmen per altriporterò crocetta al petto,nè di seta nastro in capo;non mi curo d’altre stoffe,pan non cerco di frumento,paga son di vesti strette,di mangiar duri cantucci,del mio caro babbo al fianco,presso la diletta mamma».

Alla figlia parlò allorala sua vecchia madre, e disse:

«Deh non piangere, figliuola,che ho da giovin partorito!

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Mangia un anno burro fresco,più dell’altre sei grassoccia:mangia poi carne di porco,sei graziosa più dell’altre:il terz’anno, crema fritta,più dell’altre verrai bella.

Va’ sul colle, alla dispensa,apri il ricco magazzino;là c’è cassa sopra cassa,scrigno posa accanto a scrigno:apri la più bella cassadal coperchio variopinto:ci son sei cinture d’oro,sette azzurre sottanine;della Luna le figliuolele tesserono, e del Sole.

Una volta io fanciulletta,verginella, mi recainel boschetto un dì per bacche,sotto il monte per lamponi:e sentii tesser la Lunae filar del Sol la figlia,sul confin del bosco azzurro,presso l’orlo del boschetto.

Io mi feci a lor dappresso,piano piano m’accostai,a pregarle incominciai;dissi allor queste parole:

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«Dona, Luna, l’oro tuo,da’, Päivätär, il tuo argentoa me, povera ragazza,alla bimba che vi prega».

Diè la Luna l’oro suo,diè Päivätär il suo argento:io, con gli ori sulla fronte,con gli argenti sulla testa,tornai a casa, come un fiore,tornai, gioia, presso al babbo.

Li portai un giorno, un altro;ma venuto il terzo giorno,tolsi gli ori dalla fronte,dalla testa i begli argenti,li portai nella dispensae li misi nella cassa:là rimasti son finora,senza che più li guardassi.

Lega i nastri sopra gli occhi,metti gli ori sulla frontee le pure perle al collo,sopra il petto l’aurea croce:poi di lino la camiciadal finissimo tessuto:poi di panno la sottanae la cintola di seta,calze pur di seta, belle,stivaletti poi di pelle:i capelli avvolgi a treccia,

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stretti coi nastri di seta;alle dita anelli d’oro,braccialetti d’oro al polso.

Così allora nella stanzaentrerai, dalla dispensa,che gioiscano i parenti,che s’allieti la famiglia:come fiore in viottoletto,come bacca di lampone,verrai, più di prima bella,più graziosa che altre volte».

Così a lei la madre disse,tali detti alla figliuola:non l’udì docil la figlia,non seguì le sue parole:nel cortile andò piangendo,nella corte lamentando:a parlar così si mise,tali detti fece udire:

«Com’è l’animo dei lieti,il pensiero dei contenti?Così è l’animo dei lieti,il pensiero dei contenti:come acquetta gorgogliante,come l’onda nella vasca.

Come è l’animo dei mesti,della folaga de’ ghiacci?*Così è l’animo dei mesti,della folaga de’ ghiacci:

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neve dura in tramontana,*acqua nel pozzo profondo.

Spesso il cuore di me trista,di me povera fanciulla,va fra l’erba inariditae si aggira fra i cespugli:vaga mesto per i pratied in mezzo agli arboscelli:non più bello del catrame,non più bianco del carbone.

Meglio a me sarebbe statodi non esser nemmen nata,di non essere cresciutaper soffrir questi dolori,passar questi giorni tristisulla terra senza gioia:fossi morta di sei notti,bimba d’otto notti appena,poco avrei per me richiesto:una spanna di lenzuolo,una zolla piccolina,dalla mamma un po’ di pianto,ancor meno dal mio babbo,punto punto dal fratello».

Pianse un giorno, pianse un altro:e la mamma a domandarle:«Perchè piangi, ragazzina,ti lamenti, poverina?»

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«Perciò piango, miserella,mi lamento senza posache tu hai dato me infelice,la figliuola tua promessoad un vecchio per sostegno,a un vegliardo per sua gioia,per appoggio al vacillante,ad un uom rincantucciato:fidanzata tu m’avessigiù del mare sotto l’onde,per sorella ai lavareti,sorellina ai pesciolini:meglio dentro l’acqua stare,sotto l’onde soggiornareper sorella ai lavaretisorellina ai pesciolini,che sostegno esser al vecchioed appoggio al vacillante,nelle calze imbarazzatoe ne’ rami incespicante».

Corse poi sulla collinaed entrò nella dispensa:aprì la cassa più bella,dal coperchio variopinto:trovò sei cinture d’oro,sette azzurre sottanine;le indossò, ne fece adornala gentile personcina:sulla fronte pose gli ori

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e gli argenti sui capelli:sopra gli occhi, intorno al capo,nastri mise e fasce rosse.

Prese quindi a camminare,lungo il campo, per il prato,traversò paludi e terree foreste tenebrose:e cantava nell’andaree diceva nel suo errare:

«Gonfio ho il core, e doloroso,un gran peso nella testa;ma il dolor fosse più grave,fosse il peso più opprimente,perch’io, misera, morissi,infelice, scomparissifra dolori così grandi,fra pensieri tanto amari.Già sarebbe per me tempodi lasciare questo mondo,tempo d’irmene a Manala,di discendere a Tuonela;non mi piange il babbo mio,nè la madre l’ha per male,nè di lacrime sorellabagna il volto, nè fratello,se nel mare mi gettassi,mi buttassi in mezzo ai pesci,giù dell’onde nel profondo,dentro il fango nereggiante».

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Andò un giorno, un altro ancora:ma venuto il terzo giorno,si trovò dinanzi al mare,presso la riva giuncosa;la sorprese qui la notte,la trattenne qui lo scuro.

Pianse a sera la fanciulla,lamentò tutta la nottesulle pietre della spiaggiaed in fondo all’ampio golfo:la mattina, appena l’alba,guardò verso il promontorio:c’era in cima tre fanciulle,si bagnavano nel mare:Aino fu di lor la quarta,quinta la sottile rama.

Ad un vetrice e ad un pioppola camicia e la sottana:alla terra diè le calze,le scarpette ai sassolini,ebbe la sabbia le perlee la rena gli anellini.

Una rupe variopinta*sporgea, lucida qual oro:nuotò verso quella rupe,volea giungere a quel masso.

Dopo che l’ebbe raggiunta,si voleva riposaresulla rupe variopinta,

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sopra il masso rilucente:sprofondò nell’acqua il sasso,giù piombò la rupe in fondo,la fanciulla insieme al sasso,Aino giù piombò col masso.

Così sparve la colombae morì la poverina:parlò ancora, nel moriredisse ancora, nel partire:

«Venni al mare per bagnarmied a nuoto lo passai:qui scomparvi colombella,qui trovai morte crudele:non più venga il babbo mio,mai per tutta la sua vita,mai più venga a cercar pescisopra il dorso di quest’acque!

Venni al mare per bagnarmi,sulla spiaggia per lavarmi:qui scomparvi, colombella,qui trovai morte crudele;mai più venga la mia mamma,mai per tutta la sua vita,mai più venga a attinger acqua,la farina ad impastare!

Venni al mare per bagnarmi,sulla spiaggia per lavarmi:qui scomparvi, colombella,qui trovai morte crudele;

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mai più venga il fratel mio,mai per tutta la sua vita,il caval delle battagliesulla sponda a abbeverare!

Venni al mare per bagnarmi,sulla spiaggia per lavarmi:qui scomparvi, colombella,qui trovai morte crudele:mai più venga in vita sua,mai più la mia sorellinaa sciacquarsi al ponticello,a lavarsi gli occhi al lido!Quanto è d’acqua in questo mare,tanto è sangue, sangue mio:quanti sono quivi pesci,tanta è carne, carne mia:quanti sassi sulla sponda,altrettante l’ossa mie:e quant’erbe sulla spiaggiatanti son capelli miei».

Questa fu la triste morte,questo il fine della bella.

Or chi porta la notizia,or chi va qual messaggeroalla casa rinomata,della bella alla dimora?

Dirà l’orso le parole,anderà qual messaggero?

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ei non parla, ma scompareverso la mandria di vacche.

Or chi porta la notizia,or chi va qual messaggeroalla casa rinomata,della bella alla dimora?

Dirà il lupo le parole,anderà qual messaggero?ei non parla, ma scompareverso il gregge degli agnelli.

Or chi porta la notizia,or chi va qual messaggeroalla casa rinomata,della bella alla dimora?

Parlerà laggiù la volpe,anderà qual messaggero?lei non parla, ma scompareverso la frotta dell’oche.

Or chi porta la notizia,or chi va qual messaggeroalla casa rinomata,della bella alla dimora?

Dirà il lepre le parole,anderà qual messaggero:ha già il lepre assicuratoche udrà l’uom le sue parole.

Prese a correre la lepre,a saltar la lungheorecchia,andò innanzi il gambetorte,

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s’affrettò la boccaincroce,vèr la casa rinomata,la dimora della bella.

Della sauna sulla sogliacorse, stette accovacciata:era piena di ragazze;venner con le fruste in mano:

«Occhitorta, vuoi ti cuocia,occhitonda, ti arrostiscaper la cena del padrone,per la mamma a colazione,per merenda della figlia,per spuntino del figliuolo?»

Seppe il lepre la risposta,l’occhitondo disse altero:

«A bollir mettete Lempo*dentro le vostre marmitte!io qui venni a dir parole,a portar notizie a voce:già perduta è la fanciullache di stagno adorna il petto:lei con le fibbie d’argento,con la cintola di rameandò sotto il mare ondoso,andò giù dei flutti in fondo,per sorella ai lavareti,sorellina ai pesciolini».

E la madre a lacrimare,fitte lacrime a versare:

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prese, misera, a parlare,in tal modo a lamentare:«Mai più, madri poverelle,mai più, nella vostra vita,non spingete le ragazze,non forzate le figliuolecontro voglia a maritarsi,sì com’io, misera mamma,spinsi la mia figliuoletta,la cresciuta colombella».

E nel pianger della madreuna lacrima più grossascese giù, dagli occhi azzurri,sulle scarne smunte guance.

Una lacrima discese,ne discese un’altra grossa,dalle scarne, smunte guancesopra il seno, l’ampio petto.

Una lacrima discese,ne discese un’altra grossa,giù dal sen, dall’ampio pettosopra l’orlo della veste.

Una lacrima discese,ne discese un’altra grossa,giù dall’orlo della vestesopra le sue calze rosse.

Una lacrima discese,ne discese un’altra grossa,

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cadde dalle calze rossesulla pelle delle scarpe.

Una lacrima discese,ne discese un’altra grossa,dalla pelle delle scarpesulla terra sotto i piedi,chè la terra ne godesse,ne godesse ancora l’acqua.

Arrivate quelle a terracorser via come fiumane:e dell’acqua del suo piantosi gonfiarono tre fiumi,da quel pianto ch’era scesogiù dal capo, dalla fronte.

Si gonfiò quel fiume in fuoco,si divise in tre cascate:e dal vortice d’ognunas’innalzarono tre rupi:e sull’orlo d’ogni rupesorser tre vertici d’oro:al disopra d’ogni vettacrebber tosto tre betulle:nel fogliame di ciascunaecco tre cuculi d’oro.

E cantavano i cuculi;uno fece: amore, amore!l’altro fece: sposo, sposo!fece il terzo: gioia, gioia!

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Quel che fece «amore, amore!»cantò quello per tre mesiper la figlia senza amoreche dormiva dentro al mare.

Quel che fece «sposo, sposo!»cantò quello per sei mesiper lo sposo sventuratoche in disparte lacrimava.

Quel che fece «gioia, gioia!»cantò quello tutto il tempoper la mamma senza gioia,che piangeva tutti i giorni.

E la madre così disse,si parlò nell’ascoltare:«Non a lungo quel cuculosta’ ad udir, povera madre:il cuculo quando cantapassa un brivido nel core,scende giù dagli occhi il pianto,giù le lacrime alle gote,più rotonde che pisellie più gonfie che le fave.D’una pertica la vita,d’una spanna invecchia il tronco,spezza il corpo, quando canta,il cuculo a primavera!».

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IL QUINTO RUNO.

Väinämöinen cerca di riprendere dal mare Aino, la sorella di Joukahainen, e la tira su coll’amo, trasforma-ta in strano pesce (1-52).

Or venuto un certo giorno,una certa mattinata,ecco, un pesce morse all’amo,un salmone al ferreo uncino:lo tirò dentro la barca,lo posò sopra il pagliolo.

Lo guardava, lo voltavae così dicea, parlava:«Ecco un pesce, un pesciolino,qual non ho mai conosciuto:piatto è più che un lavareto,bianco assai più d’una trota,troppo è lustro per un luccio:scarse ha pinne, forma stranaperchè sia femmina o maschio:non ha fasce, da fanciulla,non cintura, come ondina,non orecchie, da colomba:un salmone par piuttosto,una perca del profondo».

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Gli pendea dalla cinturaun coltello inargentato:trasse quel dalla cintura,lo cavò dalla guainaper tagliare a pezzi il pesce,affettare quel salmone,per il pasto del mattino,per la prima colazione,per goderne al desinaree con quello per cenare.

A tagliarlo si accingeva,a sventrarlo col coltello:il salmon guizzò nel mare,sfuggì il pesce variopintovia dalla barchetta rossa,dal canotto del cantore.

Alzò tosto il pesce il capo,sollevò la spalla destra,(dava il vento il quinto soffio,si gonfiava il sesto flutto);sollevò la mano destrae mostrò il piede sinistro,dopo sette increspamenti,dopo nove ondeggiamenti.

Di laggiù prese a parlare,questi detti a pronunziare:

«O tu vecchio Väinämöinen!io non ero già venutache, salmone, mi tagliassi,

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come pesce mi affettassiper il pasto del mattino,per la prima colazione,per goderne al desinaree con quello per cenare».

Disse il vecchio Väinämöinen:«Perchè dunque eri venuta?»

«Certo venni, perchè fossicolombella nel tuo braccio,per passar la vita teco,star con te come consorte,per rifarti il letticciuolo,il guancial sotto la testa,per pulire la saletta,per spazzare il pavimento,portar fuoco nella stanzae tener viva la fiamma,infornare il pane grosso,impastare il pan di miele,mescer birra dalla brocca,pòrti innanzi le pietanze.Io non ero nè un salmone,nè una perca del profondo:ero giovin ragazzina,di Joukahainen sorellina,lei che sempre ricercasti,tutti i dì desiderasti.Ah! ah! vecchio miserello,Väinö di corto cervello!

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che fuggire ti lasciastidi Vellamo la bimbetta,d’Ahto figlia prediletta!»

Disse il vecchio Väinämöinen,basso il capo, triste il cuore:«O sorella d’Joukahainen,torna, dico, un’altra volta!»

Ma non venne un’altra volta,nè mai più nella sua vita;scivolò, guizzò veloce,sparve rapida dall’acqua,dentro il sasso variopinto,nella cupa fenditura.

Väinämöinen, dopo vari tentativi di riprendere quel pesce, torna afflitto a casa; la madre, risvegliata nella tomba dalla tristezza del figlio, lo esorta a chiedere in isposa la ragazza di Pohja (144-241).

IL SESTO RUNO.

Joukahainen porta odio a Väinämöinen e si pone in agguato per sorprenderlo nel suo viaggio verso Pohja

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(1-78). Lo vede traversare il fiume cavalcando e gli sca-glia un dardo, ma colpisce solamente il cavallo (79-182). Väinämöinen precipita nell’acqua; una violenta tempesta lo trascina in alto mare, mentre Joukahainen gioisce, pensando che il rivale abbia ormai cantato per l’ultima volta (183-234)

IL SETTIMO RUNO.

Väinämöinen nuota per parecchi giorni in alto mare: lo incontra l’aquila, la quale, tuttora riconoscente a lui che nel dissodare il bosco aveva risparmiato la betulla perchè crescesse per essa, lo prende sul dorso e lo porta sulla spiaggia di Pohjola, donde la signora di Pohjola lo accoglie ospitalmente in casa sua (1-274). Però Väi-nämöinen si strugge dal desiderio del suo paese e la si-nora di Pohjola gli promette non solo di rimandarvelo, ma di dargli anche la propria figliuola in moglie, pur-chè le fabbrichi il Sampo (275-322). Väinämöinen pro-mette che, una volta tornato a casa, manderà il fabbro Ilmarinen a fabbricare il Sampo; allora la signora di Pohjola gli dà e slitta e cavallo perchè ritorni in patria (323-368).

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L’OTTAVO RUNO.

Durante il suo viaggio Väinämöinen vede la fanciulla di Pohja, in meravigliosa veste, e le chiede che voglia essere sua sposa (1-50). La fanciulla finisce col promet-tere di acconsentire al desiderio di Väinämöinen purchè questi, con le schegge del fuso, le fabbrichi una bar-chetta e la faccia scendere nell’acqua senza toccarla in alcun modo (51-132). Väinämöinen si mette al lavoro, ma con la scure si ferisce gravemente al ginocchio, nè gli riesce di arrestare il fiotto del sangue (133-204). Va a cercare un mago abile a ciò, e trova un vecchio che s’impegna a far stagnare il sangue (205-282).

IL NONO RUNO.

Väinämöinen narra al vecchio l’origine del ferro (1-266). Il vecchio rimprovera il ferro e pronunzia gli scongiuri per arrestare il sangue (267-342).

Ferma, sangue, la tua corsa,e trattieni le tue ondate

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da spruzzarmi sulla testa,gocciolarmi sopra il petto:sangue, sta’ siccome muro,ritto sta’ siccome siepe,come spada ferma in mare,come giunco in mezzo a’ muschi,pietra in mezzo al campo alzata,rupe in mezzo alla cascata!

Ma se te spinge l’istintoa veloce corsa, alloracorri almeno nella carnee saltella sopra gli ossi:meglio a te lo stare dentroe campar sotto la pelle,nelle vene sussurraresopra gli ossi scivolareche nel sudicio cascare,sul terren precipitare.

Tu per scorrer non sei fatto,puro latte, sul terreno,nè sul prato, nè sul colle,pregio ed oro degli eroi!dentro il cuore è la tua stanza,la tua cella fra i polmoni:là ritirati veloce,colà corri prestamente:fiume tu non sei, che scorra,lago tu non sei, che ondeggi

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non sei golfo, nè barcacciache tu spanda, che acqua faccia.

Lascia, o caro, il gocciolare,cessa, o rosso, dal cadereda te stesso, deh, ti ferma!

La cascata un dì di Tyriäsi fermò, di Tuoni il fiume;si asciugaron mare e cieloin quell’anno così ardente,pari a fuoco prepotente.*

Se mai tu non ubbidissi,altre cose mi ricordo,nuovi mezzi so trovare;chiedo ad Hiisi la caldaia,dentro cui si bolle il sangue,si riscalda il flutto, senzache una goccia giù ne cada,che una stilla se ne perda,senza che la terra bagnisenza che la inondi il sangue.*

E se l’uomo in me non fosse,*in me figlio del Vegliardo,per fermare questo flusso,questo vortice di vene,c’è, sì, c’è il padre celeste,Jumala sopra le nubi,che fra gli uomini ben puote,fra gli eroi bene conosce

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il tappar la bocca al sangue,il fermar l’impetuoso.

Ukko, deh! creator supremo,Jumala che in cielo stai!Vieni qua per il bisogno,scendi dove ti s’invoca,pigia con la mano pienae col pollice tuo grosso,che si chiuda la ferita,che si fermi questo fiotto:salutari foglie stendi,loto giallo ponvi sopraper fermar la via del sangue,il focoso ad arrestare,che non spruzzi sulla barba,che non coli sulle vesti!»

Il sangue ristagna. Il vecchio ordina al suo figliuolo di preparare un unguento, unge la ferita e la fascia; Väinämöinen guarisce e ringrazia Iddio per il soccorso ricevuto (147-586).

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IL DECIMO RUNO.

Väinämöinen torna in patria ed esorta Ilmarinen a recarsi a Pohja: chè fabbricando il Sampo otterrebbe la mano della fanciulla (1-100). Ilmarinen risponde che non andrà mai a Pohjola; cosicchè Väinämöinen è co-stretto a ricorrere ad un altro incantamento per far sì che, contro sua voglia, si metta in viaggio (101-200). Il-marinen giunge a Pohjola, vi trova liete accoglienze ed è invitato a fucinare il Sampo (201-280).

Andò il Sampo a fucinare,il coperchio andò a fregiare,chiese dove la fucina,dove fossero gli arnesi:ma non v’era là fucina,non fucina, non soffietto,non incudin, nè fornello,spranghe no, nessun martello.

Ilmarinen fabbro allorapronunziò queste parole:«Qui una vecchia sgomentatao un birbante, lascerebbe!non degli uomini il peggiore,nè il più pigro fra gli eroi!»

Cercò un posto pe’ l fornello,dove i mantici fissare,

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sul confin.di quelle terre,lungo i campi di Pohjola.

Cercò un giorno, cercò un altroed al terzo, giunse dovec’era un sasso variopintoe di roccia un grosso masso:scelse il fabbro questo luogo,si fermò, preparò il fuco:mise i mantici in un giorno,la fornace il giorno dopo.

Ilmarinen fabbro allora,l’artigiano sempiterno,mise al fuoco i mineralie i soffietti sotto il forno:prese schiavi per soffiare,i men forti, ad attizzare.

Forte soffiano gli schiavi,pensan gli altri ad attizzareper tre giorni dell’estate,dell’estate per tre notti;ed all’alluce, al tallone,lor crescevan pietre e sassi.

Ora già nel primo giornoIlmarinen fabbro venne,curvò il capo, per vedere,dal disotto del braciere,che venisse fuor dal fuoco,che sorgesse dalla fiamma.

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Venne un arco fuor dal fuoco,arco d’oro, dal braciere:d’oro, e il capo era d’argento,era il manico di rame.

Bello è l’arco a rimirare,ma ha ben tristi costumanze:ogni dì vuole una testa,due magari i dì di festa.

Ilmarinen fabbro, ei stessone provò poca allegrezza:in due pezzi ruppe l’arco,lo ficcò nel mezzo al fuoco;disse ai servi di soffiare,ai men forti, di attizzare.

Quando venne l’indomaniIlmarinen fabbro, ei stessocurvò il capo, per vedere,dal disotto del braciere.

Venne fuor dalla fornaceuna barca rossa, con lapoppa tutta adorna d’oroe con gli scalmi di rame.

A veder bella è la barca,ma non buona è la sua usanza:alla pugna va per giuoco,a lottare senza scopo.

Ilmarinen fabbro, ei stessone provò poca allegrezza:in frantumi fe’ la barca,

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la buttò nella fornace:disse ai servi di soffiare,ai men forti, di attizzare.

Già venuto il terzo giornoIlmarinen fabbro, ei stessocurvò il capo per vederedal disotto del braciere.Una giovane giovencavien dal fuoco; corna d’oro,stella in fronte, e sulla testaporta il sol rotondegginate.

Bella in vista è la giovenca,ma non ha le buone usanze:vuol dormire in mezzo al bosco,fa cadere il latte in terra.

Ilmarinen fabbro ei stessone provò poca allegrezza:fece a pezzi la giovenca,la buttò nella fornace:disse ai servi di soffiare,ai men forti, di attizzare.

Già venuto il quarto giornoIlmarinen fabbro, ei stessocurvò il capo, per vederedal disotto del braciere.Un aratro vien dal fuoco,dal braciere: taglio d’oro,taglio d’oro, asta di ramee d’argento avea la punta.

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È l’aratro a veder bello,ma non ha le buone usanze:sgraffia i campi del villaggio,solca i prati fra le siepi.

Ilmarinen fabbro, ei stessone provò poca allegrezza:in due pezzi fe’ l’aratro,lo buttò sotto il fornello:fe’ soffiare forte i venti,avvivare i soffi ardenti.

Soffia il vento impetuoso,quel d’oriente e d’occidente,fischia quel di mezzogiorno,mugge l’aspra tramontana:soffiò un giorno, soffiò un altro,soffiò tutto il terzo giorno;dalla porta e la finestraguizzò fuoco, uscîr faville:si levò la polve al cielo,alle nubi il fumo fitto.

Ilmarinen fabbro, quandofu passato il terzo giorno,curvò il capo, per vederedal disotto del braciere:vide il Sampo ch’era nato,il coperchio già formato.

Ilmarinen fabbro allora,l’artigiano sempiterno,fucinava, martellava

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e picchiava allegramente:con grand’arte fece il Sampo:un mulino, la farina,ed un altro sal versava,e denaro un terzo dava.

Macinava il nuovo Sampoe girava il bel coperchio:esce un moggio all’imbrunire:serve un moggio per mangiare,il secondo vien vendutoe si serba in casa il terzo.

Tutta lieta allor la vecchia,preso il gran Sampo, lo misesotto il colle dirupatodentro il gran monte di rame,chiuso con nove lucchetti:gli fe’ prendere radicenove tese di profondo,nella terra una radice,dentro un gorgo d’acqua l’altra,e la terza ov’è la casa.

Ilmarinen chiede la fanciulla in ricompensa dell’ope-ra compiuta: la fanciulla pretesta ostacoli e dice di non potere ancora abbandonare casa sua (433-462). Ilmari-nen ottiene una barca, ritorna in patria e racconta a Väinämöinen com’egli abbia già fucinato il Sampo a Pohjola (463-510).

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L’UNDECIMO RUNO.

Tempo è già di parlar d’Ahti,*dell’ardito, spensierato:quel volubile isolano,che di Lempi era figliuolo,nella nobil casa crebbepresso la diletta madre,lungo l’ampio, largo golfo,dove piega il promontorio.

Là mangiava Kauko i pesci,si nutriva Ahti di perche;uom divenne de’ più forti,più robusti, più sanguigni:per la testa ben valeva,per la sua bella figura:ma non senza alcun difetto,nei costumi senza vizî:alle donne sempre accanto,sempre a notte in giro andavafra la gioia, fra le danzedi fanciulle altochiomate.*

C’era a Saari una fanciulladetta Kylli, il fior di Saari:là cresceva, quell’alteranella nobile dimora:nelle stanze di suo padre,sulla seggiola seduta.*

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Corse lungi di lei famae da lungi i pretendentiaccorrevan, da lontanoalle case della bella.

Lei richiese il Sol, pe’ l figlio,ma dal Sole andar non volleper brillargli accanto, quandova d’estate, affaccendato.

Chiese lei, pe’ l figlio, Luna:dalla Luna andar non volleper risplenderle d’accanto,per girar del cielo i cerchi.

Per il figlio, poi, la Stella:dalla Stella andar non volle,presso a lei, per rischiararele invernali lunghe notti.

Venner forti dall’Estonia,altri eroi venner dall’Ingria,ma con loro andar non volle,tal risposta diede loro:«Senza scopo l’oro è speso,consumato il vostro argento:non andrò mai nell’Estonia,non andrò, ve lo prometto,a remar d’Estonia l’acqua,scandagliarla col bastone,a mangiar d’Estonia i pesci;trangugiar la vostra zuppa.E nemmeno andrò dell’Ingria

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alle rive dirupate;là c’è fame d’ogni cosa:fame d’alberi e di schegge,fame d’acqua e di frumentoe di pane segaligno».

Ma quel vispo Lemminkäinen,quel leggiadro Kaukomieli*si decise di partire,pretendente al fior di Saari,alla bella senza pari,la graziosa altochiomata.

Ma la madre il distoglieva,gliel vietava la vecchietta:

«Non cercare, figliuol mio,di colei di te più alta:tollerarti non saprebbedi Saari l’alta stirpe».

Lemminkäinen spensierato,il leggiadro Kauko, disse:«Se non è sì grande stirpequesta mia, mi faccio innanziper quest’alta mia statura,per la mia corporatura».

Pur la madre non cessavadi vietargli di cercarequella gran gente di Saari,quella stirpe sì remota:«Scherno avrai dalle fanciulle,rideran di te le donne».

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Non le bada Lemminkäinen,le risponde in questo modo:«Ben rintuzzerò lo schernoe il sogghigno delle donne:quando avranno un bimbo al seno,un piccino sulle braccia,i sogghigni tacerannoe gli scherni finiranno».

Gli rispose allor la madre:«Ahimè, miseri miei giorni!Se da te saranno offesele donzelle di Saari,ne verran fiere contese,nascerà grande battagliae di Saari ogni guerriero,cento armati con la spada,contro te si scaglieranno,meschinello, solo solo».

Ma non bada Lemminkäinenall’avviso della madre:sella tosto il suo pulledro,l’impeccabile destriero:con la slitta va veloceal villaggio celebrato,pretendente al fior di Saari,alla bella senza pari.

Lui derisero le donne,lui scherniron le fanciullequando entrò bizzarramente

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nel sentiero, nel cortile,rovesciando la sua slittae battendo nel portone.

Ma quel vispo Lemminkäinentorse il labbro, piegò il capo,si tirò la nera barba,disse poi queste parole:«Non mai vidi prima d’ora,non mai vidi nè permisiche di me donna ridesse,nè fanciulla mi schernisse».

Non si turba Lemminkäinen,dice allor queste parole:«Non c’è forse un posto a Saari,qui di Saari sulla terra,dov’io possa porre giuochie ballar su terra lisciacon le liete giovanette,danzatrici altochiomate?»

E di Saari le fanciullegli risposero e le donne:«Certamente che c’è postoqui di Saari sulla terra,perchè tu vi ponga giuochie su liscio suolo balli:purchè tu faccia il mandrianosulle terre dissodate:magre a Saari le fanciulle,i pulledri sono grassi».

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Non si turba Lemminkäinene si assolda qual pastore:va di giorno a pascolare,va di notte a rallegrarecon gli scherzi e con le danzequelle donne altochiomate.

Ed il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli,rintuzzò così lo scherno,delle donne frenò il riso:nè ci fu da allor ragazza,nè pudica verginellach’egli non accarezzasseed accanto non le stasse.

Una sola era fra tuttele fanciulle di Saari,che gli sposi non curava,agli amori non pensava:era Kyllikki l’altera,di Saari il più bel fiore.

Ed il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli,consumò cento stivali,cento remi ruppe, mentrecorteggiava la fanciulla,volea Kyllikki in isposa.

Kyllikki, bella fanciulla,disse allor queste parole:«A che, misero, t’aggiri,

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vai e vieni qual piviero,le ragazze interrogandoche han di stagno ornato il petto?Io di qua non andrò viase la macina consunta,se il pestel non sarà rottoe il mortaio frantumato.*Io non cerco un buono a nulla,buono a nulla, vagabondo;voglio un uomo svelto, comesvelta è pur la mia figura:voglio un uomo bello e prestante,come son prestante anch’io;voglio sia d’alta statura,come è pur alta la mia».

Poco tempo era passatoforse appena un mezzo mese,quando venne un certo giorno,capitò una certa sera,e scherzavan le fanciullee danzavano le bellepresso al campo, in mezzo all’aia,presso i floridi scopeti:e Kyllikki pria dell’altre,di Saari il più bel fiore.

Venne il giovane giulivo,Lemminkäinen spensierato,con la slitta e il suo stallone,l’impeccabile destriero;

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viene al luogo degli scherzi,alla danza delle belle:e Kyllikki nella slittavia trascina, la rapisce:*la coperta la ricopree la cinghia la tien ferma.

Il cavallo frustò forte,lo toccò pur con le briglie,e nel correr via velocepronunziò queste parole:«Mai, fanciulle, non dovetea nessuno far sapereche quaggiù sono venuto,che ho rapito la fanciulla.E se voi non mi ubbidite,vi côrrà certo un malanno:canterò sposi e mariticon la spada, alla battaglia,nè di giorno, nè di nottegiammai più voi li udiretepei sentieri camminare,per i boschi cavalcare!»

Ben Kyllikki si lamenta,il bel fior di Saari piange:«Ormai libera mi lascia,lascia andar questa bambina,ch’io ritorni a casa mia,dalla mamma mia che piange.Se non vuoi lasciarmi andare,

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sì ch’io torni a casa mia,ho laggiù cinque fratelli,sette figli di mio zio,che la lepre troveranno,*la faranno ritornare».

Quando vide che a lasciarlanon pensava, scoppiò in piantoe di nuovo così disse:«Nacqui invano, miserella,nacqui invano, invano crebbi,vissi invano la mia vita,poichè sono or capitatacon quest’uomo buono a nulla,che la guerra sempre cerca,che non pensa che a battaglie».

Le rispose Lemminkäinenil leggiadro Kauko disse:«O Kyllikki, coccolinadel mio cuore, dolce bacca,non avere alcun pensiero,vo’ tenerti sempre bene:fra le braccia, mentr’io mangio,per la mano, se cammino,se mi fermo, a me d’accanto,quando dormo, al fianco mio.Perché tu così ti affliggie sospiri pensierosa?Forse tu così ti affliggie sospiri pensierosa,

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perchè pan mi manchi, e vacchee il bisogno della vita?Non avere alcun pensiero:perchè è mia più d’una vacca,molto latte mi largisce:nel palude la Muurikki,sopra il colle la Mansikki,terza, al bosco la Puolukka:sono belle anche a digiuno,belle senza custodirle:non si legano la sera,non si sciolgon la mattina,non importa di dar loroerba, sale o farinata.*Oppur tu così ti affliggie sospiri pensierosa,perchè grande la mia stirpenon è, nobil la mia casa?Ma se grande la mia stirpenon è, nobil la mia casa,ho una spada fiammeggiante,una lama scintillante:questa vien da nobil schiatta,da remota, vasta, sede:presso Hiisi fu affilata,*fu forbita presso i Numi;e con questa farò grandela mia stirpe, la mia patria,

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con la spada che scintilla,con la lama che sfavilla».

Sospirò la poveretta,così disse la fanciulla:«Ahti, tu figliuol di Lempi,se tu vuoi ch’io ti sia moglie,per la vita tua consorte,colombella, nelle braccia,giura eterno un giuramento:che mai più tu in guerra andrai,anche se bisogno d’oroo desìo tu abbia d’argento».

Lemminkäinen spensieratocosì allora le rispose:Giuro eterno giuramentodi mai più partire in guerra,per bisogno che abbia d’oro,per desìo che abbia d’argento!Ma tu stessa dèi giurareche al villaggio mai più andrai,per desìo tu abbia di danzee di balli in doppia schiera».

Così fecer giuramentoe promessa fêro eterna,in cospetto al Dio presentedappertutto e onnipotente:Ahti più non andrà in guerra,nè più Kyllikki al villaggio.

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Ed il vispo Lemminkäinenfrustò forte il suo corsiero,lo toccò pur con le briglie,pronunziò queste parole:«Addio, prati di Saari,addio abeti incatramati,che girai tutta l’estate,calpestai tutto l’inverno,nelle notti nuvolose,fra le piogge tempestose,per cercar la gallinella,per scovar la folaghella».

Galoppavano veloci,presto apparve la casetta;ed allora la fanciulladisse a lui queste parole:«S’intravede là una stanza,sbircio il mucchio della fame:di chi è mai quella stanzetta,quella casa da furfante?»

Lemminkäinen spensieratodisse allor queste parole:«Non t’affligger per la stanza,non turbarti per la casa:ti farò dell’altre stanze,delle stanze assai migliori,tutte di fusto d’abetee di fusto di buon pino».

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Ed il vispo Lemminkäinengiunse tosto a casa sua,presso la diletta madre,la sua vecchia genitrice.

Gli parlò così la madre,disse allor queste parole:«Lungo tempo, mio figliuolo,rimanesti in strania terra».

Lemminkäinen spensieratodisse allor queste parole:«Bisognò pur che le donnee le vergini pudichemi pagassero lo schernoe scontassero il sogghigno;nella slitta la più bellamisi, sopra la pelliccia,con la cinghia intorno stretta,la coprii con la coperta:e così delle fanciulleho pagato scherno e risa.Tu che in seno mi portasti,madre, tu che m’allevasti,io trovai quel che cercavo,ebbi ciò che sospiravo:i guanciali tuoi migliori,i più molli metti fuori,perchè alfine in casa, stanco,della bella dorma al fianco».

A lui disse allor la madre,

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gli rispose in tal maniera:«Ringraziato ora tu sia,Dio creatore, celebrato,che mi desti tale nuora,buona per soffiar nel fuoco,brava a tesser col telaio,abilissima a filare,eccellente pe ’l bucato,e le vesti ad imbiancare!Tu ringrazia la tua sorte,a te pur bene è toccato:a te ben conceder volleil Creator misericorde:puro è il passer sulla neve,ma più pura la tua cara:bianca la spuma nel mare,ma più bianca la tua donna:svelta l’anatra nel mare,ma più svelta la consorte:rilucente in ciel la stella,la tua sposa più lucente.Ora, allarga il pavimento,fa’ più grandi le finestre,alza su nuove pareti,fa’ miglior tutta la stanza;della stanza, pria le soglie,delle soglie, pria le porte,poichè scelta tu ti seiquesta bella giovinetta,

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ch’è di te più nobil nata,d’alta stirpe generata».

IL DUODECIMO RUNO.

Kyllikki dimentica il suo giuramento e si reca al vil-laggio, per il che Lemminkäinen forte si adira e decide di ripudiarla subito e di andare a chiedere in isposa la fanciulla di Pohja. (1-128).

L’ammonì la vecchia madree cercò di dissuaderlo:«Non andar, caro figliuolo,alle stanze di Pohjola;se tu ignori la magia,l’alta scienza non conosci,non andar di Pohja a’ fuochi,alle terre di Lapponia!Il Lappon colà t’incanta,quel di Turja ti costringene’ carbon la bocca, e ’l caponell’argilla, e l’avambracciofra faville, e in cener caldaed in calde pietre il pugno».

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Così disse Lemminkäinen:«Mi volean stregar stregoni,incantar razze di serpi,tutti insieme tre Lapponi,una certa notte estiva,nudi sopra un gran pietrone,senza vesti nè cintura,senza un nastro avvolto in giro;da me trasser quel profittoquei malvagi, quel guadagnoche trae l’ascia dalla pietra,il trivello dalla rupe,il baston dal ghiaccio liscio,morte da una stanza vuota.In un modo la minaccia,ma in un altro andò a finire:minacciavan d’incantarmi,mi volevan trasformarein un trave sul pantano,in un ponte sopra il fango,*con la bazza nella mota,con la barba nella melma:io però, che sono un uomo,non provai grande sgomento,ma mi feci mago anch’io,io pur presi a far scongiuri,e que’ maghi coi lor dardi,quei guerrier con le lor spade,gli stregoni coi coltelli,

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gl’indovini con gli acciari,li incantai nelle cascate,giù nei vortici schiumosi,sotto i getti e gli zampillie i tremendi mulinelli:colà dorman gli stregoni,colà giaccian quei malignifinchè l’erba spunti e crescaattraverso barbe ed elmi,per i muscoli dei maghi,per le spalle dei stregoni,di que’ maghi sonnecchianti,de’ maligni addormentati».

Tratteneva ancor la madreLemminkäinen dal partire:madre, il figlio, donna, l’uomoammoniva e dissuadeva:«Non andare, non andarea quel gelido villaggio,a Pohjola tenebrosa!Un malanno certamentepiomberà sul bravo figlio,sarà il vispo rovinato:dillo pur con cento bocche,prestar fede non ti posso:non sei tale incantatoreda star presso a quei di Pohja;nè di Turja sai la lingua,nè la lingua dei Lapponi».

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In quel mentre Lemminkäinen,Kaukomieli vispo e bello,era intento a pettinarsi,i capelli a spazzolarsi:gettò il pettin contro il muroe le punte contro il tubo;disse poi queste parole,tali detti fece udire:«Piomberà su Lemminkäinenil malanno e la sventura,quando il pettin coli sangue,sangue goccino le punte».

Si arma, si mette in viaggio, giunge a Pohjola e in-canta tutti gli uomini fuori delle loro stanze; solamente un brutto mandriano lascia senza incantare (213-504).

IL DECIMOTERZO RUNO.

Lemminkäinen chiede la figlia alla vecchia di Pohjo-la, che gli impone, come prima fatica per meritarla, di raggiungere a corsa coi pattini l’alce di Hiisi (1-30). Lemminkäinen si mette in cammino vantandosi di rag-

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giungere l’alce, ma presto deve con dispetto riconosce-re di aver fallito il colpo (31-270).

IL DECIMOQUARTO RUNO.

Valendosi bellamente dei consueti scongiuri e pre-ghiere del cacciatore, Lemminkäinen finisce coll’impa-dronirsi dell’alce, che porta a Pohjola (1-270). Per se-conda fatica gli impongono di imbrigliare il cavallo di fuoco di Hiisi, il che egli riesce a fare (271-372). Per terza prova, deve saettare il cigno nel fiume di Tuonela. Lemminkäinen va alla fiumana; colà lo aspetta il man-driano da lui disprezzato, lo uccide e lo butta nella ca-scata di Tuoni. Per di più il figlio di Tuoni ne taglia a pezzi il corpo (373-460).

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IL DECIMOQUINTO RUNO.

Ma il pensiero della mammaera sempre al suo figliuolo:«Dov’è andato Lemminkäinen,dove sparve Kauko mio,ch’io non sento dir che tornidal suo viaggio al suo paese?»

Non sapea la poveretta,quella mesta genitrice,dove fosse la sua carne,il suo sangue si movesse;delle coccole sul monte,sulla landa di brughiere?era forse allor sul mare,sopra l’onde spumeggianti?oppur della gran battaglianel terribile tumulto,con le gambe dentro il sangue,col ginocchio rosseggiante?

Kyllikki la bella donnariguardava d’ogni intornonella casa, nel cortiledell’allegro Lemminkäinen;guarda il pettin la mattinae la spazzola la sera:venne un giorno, una mattinae dal pettine colava

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sangue, e sangue gocciolavadalla spazzola quel giorno.

Kyllikki, la bella donna,disse allor queste parole:«Già da me partì il marito,il bel Kauko mio scomparveper inospiti sentierie per vie non conosciute:chè dal pettin sangue cola,dalla spazzola giù sgorga».

Guardò il pettine la madre,lo guardò tutta piangente,disse tutta addolorata:«Ahimè, miseri miei giorni,sfortunata vita mia!già il mio misero figliuolo,il mio povero ragazzo,capitato è in tristi giorni,la sventura ha colto il fortee l’allegro, la rovina;già dal pettin sangue cola,dalla spazzola giù sgorga!»

Con le mani alzò la veste,la tirò fin sul ginocchioe partì per lungo viaggio,più veloce che potesse:suonò il colle de’ suoi passi,s’alzò il piano, scese il monte,

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s’abbassarono le alture,s’innalzaron le bassure.*

Alle stanze di Pohjolagiunse, e chiese di suo figlio;così chiese, così disse:«Oh, signora di Pohjola,dove tu me l’hai mandatoil mio figlio Lemminkäinen?»

Di Pohjola la signora,Louhi, le rispose allora:«Di tuo figlio non so nientedove andò, dov’egli sparve:alla slitta gli ho aggiogatoun destriero ben focoso:nel nevischio si è sommersoo nel mare egli è gelato,o di lupo o d’orso fieronella gola è capitato».

Ma la, madre così disse:«Queste son certo menzogne!Orso o lupo non divorala mia prole, Lemminkäinen:con le dita abbatte i lupi,con le mani atterra gli orsi:e se dirmi non vorraidove tu mandato l’hai,spezzo l’uscio del granaioed i cardini del Sampo».

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La signora di Pohjola:«Da mangiar gli ho dato, e benee da ber quanto ha voluto:da mangiar, da bere, e brilloio lo misi nella barcachè scendesse la cascata:ma non so poi niente affattodove cadde il poveretto,se nell’onda spumeggiante,se nel vortice tremante».

Ma la madre così disse:«Anche queste son menzogne!Dimmi il vero, proprio il vero,lascia andare le bugie,dove hai tu mandato il figliodi Kaleva, ch’è scomparso?o su te verrà rovina,su di te scenderà morte».

La signora di Pohjola:«Ecco, or già ti dico il vero:lo mandai, chè mi prendessegli alci, le superbe renne:che imbrigliasse il gran cavallo,gli mettesse i finimenti:perchè il cigno mi cercasse,mi prendesse il santo augello:or di lui non so più nulla,nè se l’ha colto sventurao un ostacol trattenuto:

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chè non sento dir che tornia riprendere la sposa,a richieder la ragazza».

E la madre, lo smarritoricercava, fra i lamenti:come lupo, fra i padulifra le selve, a guisa d’orsocome lontra, in mezzo all’acquacome tasso, pe’ i sentierilungo il margin, come ricciocome lepre, lungo i laghi:gettò i sassi da una parte,torse i tronchi, i rami secchidalla strada tolse, e pontife’ degli alberi caduti.*

Lungamente lo smarritoricercò senza trovarlo:chiese agli alberi del figlio,rimpiangendo lui perduto:disse il pino, e sospirava,la prudente quercia disse:«Per me stessa ho da pensarenè pensar posso a tuo figlio:duri giorni il mio destino,tristi giorni m’ha serbato,perchè in trucioli mi fannoe mi segano in cataste,mi affastellano in fascinee mi atterrano con l’ascia».

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Lungamente lo smarritoricercò, senza trovarlo:alle strade che incontrava,ai sentieri s’inchinava:«Oh sentieri, che Dio fece,non vedeste il mio figliuolo,la mia dolce mela d’oro,il mio argenteo bastone?»

Il sentiero le rispose,la prudente strada disse:«Per me stesso ho da pensare,nè pensar posso a tuo figlio:duri giorni il mio destino,tristi giorni m’ha serbato,chè su me saltano i cani,mi calpestano i cavalli,su di me pigian le scarpe,su di me stridono i tacchi».

Lungamente lo smarritoricercò, senza trovarlo:le si fe’ la luna incontro,alla luna s’inchinava:«Luna d’oro, che Dio fece,non vedesti il mio figliuolo,la mia dolce mela d’oro,il mio argenteo bastone?»

E la luna, che Dio fece,da prudente le rispose:«Per me stessa ho da pensare,

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nè pensar posso a tuo figlio:duri giorni il mio destino,tristi giorni m’ha serbato:solitaria a notte erraree risplendere col gelo:nell’inverno ben vegliaree svanir d’estate in cielo».

Lungamente lo smarritoricercò, senza trovarlo:le si fece incontro il sole;essa al sole s’inchinava:«Caro sole, che Dio fece,non vedesti il mio figliuolo,la mia dolce mela d’oro,il mio argenteo bastone?»

Lo sapeva bene il sole,l’avea il sole indovinato:«Il tuo misero figliuoloè già morto, già perduto,sceso è già nel nero fiume,dentro l’onda sempiterna,le cascate fragorose,di Tuoni nella fiumana,nell’estremo di Tuonela,*nelle valli di Manala».

Ed allora forte piange,triste la madre singhiozza;va del fabbro alla fucina:«Ilmarinen, fabbro caro,

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prima ed ieri hai lavorato,oggi ancora fa’ un rastrellocon un manico di rame,ferree punte acuminate,cento tese lunghe, e cinque-cento il manico sia lungo».

Ed il fabbro sempiterno,Ilmarinen, fe’ un rastrellocon un manico di rame,con acute ferree punte,cento tese lunghe, e cinque-cento il manico fe’ lungo.

Essa stessa allor, la madreprese quel ferreo rastrello:volò al fiume di Tuonelaed il sol così pregava:«Caro sole, che Dio fece,fuoco in ciel per noi creato,splendi prima pien d’ardore,poi rosseggia arroventato,ed infin con ogni possa:addormenta l’aspra gente,stanca il popol di Manala,butta giù la loro forza!»

Ed il sol, da Dio creato,del Creatore il caro sole,volò al tronco di betulla,si posò sul cavo ontano,splendè prima pien d’ardore,

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rosseggiò poi arroventato,ed infin con ogni possa:assopì quell’aspra folla,stancò il popol di Manala,giovinetti con le spade,vecchi con i lor bastonie gli adulti con le lance;volò poi con lento volosu nell’alto cielo pianoalla sede sua primiera,all’antica sua dimora.

E la madre gettò alloraquel rastrello tutto ferroper pescare il suo figliuolosu dal vortice muggente,su dal fiume fragoroso:ma il rastrello a vuoto trasse.

Scese allora ancor più basso,penetrò più giù nell’onda,al disopra delle calzeavea l’acqua, alla cintura.

Rastrellò cercando il figliolungo il fiume di Tuonela,rastrellò contro corrente,una volta trasse, e due:la camicia su ritrassedel figliuol, con mente mesta;rastrellò la terza volta,ripescò calze e berretto:

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con dolore, quelle calzecon angoscia, quel berretto.

Scese allor sempre più bassonel profondo di Manala,il rastrello trasse dritto,lo ritrasse di traversoe di nuovo obliquamente:tirò su la terza voltaun covone, con la cimadel rastrello tutto ferro.

Un covon quello non era,era il vispo Lemminkäinen,era il bel Kaukomieliattaccato a quelle puntecon il dito senza nomee col pollice sinistro.*

Uscì il vispo Lemminkäinen,sorse il figlio di Kalevacol rastrel fatto di ramesopra l’acqua trasparente:ma qualcosa gli mancava:una mano, mezza testa,e molt’altri pezzettini;soprattutto poi la vita.

Riflettè la madre allora,così disse lacrimando:«Potrà ancor da questo un uomo,un eroe risuscitare?»

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E la udì per caso il corvo,*le rispose in questo modo:«Non è uomo più costui,già sparito, già scomparso;gli mangiaron gli occhi i pesci,rosicchiò le spalle il luccio;or tu butta l’uomo in mare,giù nel fiume di Tuonela,che una foca egli diventio fortissima balena».

Non gettò però la madregiù nell’acqua il suo figliuolo:ma una volta ancor raspandocol rastrello suo di rame,lungo il fiume di Tuonelaper il lungo, per il largo,ritrovò la mano, il capoed un osso della spalla,trovò un osso della gamba,altri piccoli pezzetti:e rifece allor con questiil figliuolo, Lemminkäinen.

Attaccò carne alla carnee saldò gli ossi con gli ossi,le giunture alle giunture,vene rotte con le vene.

Poi legò forte le arterie,delle arterie annodò i capi,incantò vena per vena,

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proferendo tali detti:«Bella donna delle arterie,Suonetar, donna leggiadra,delle arterie filatrice,col leggiadro fuso, o bella,e di rame l’arcolaioche di ferro ha la rotella,vieni qua per il bisogno,corri dove sei chiamata,col gomitolo di vene,col mazzetto delle pelli,per cucir vene ed arterie,allacciar le loro cime,nelle piaghe lacerate,le ferite sempre aperte!Se bastar ciò non dovesse,c’è una vergine nel cielo,nella barca tutta ramecon la poppa rosso tinta.Scendi, Vergine, dal cielo,vieni giù dal firmamento,rema in mezzo delle vene,passa in mezzo alle giunture,rema ancor fra mezzo agli ossi,delle membra agli interstizi!Metti al posto lor le venee le arterie dove vanno,allacciando quelle grandi,le pulsanti combinando

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e le vene più sottililega pur una coll’altra!Prendi un ago ben sottilecon un fil di seta fino,cuci con l’ago sottile,passa con l’ago di stagnosopra i capi delle venee col fil di seta cuci.Se bastar ciò non dovesse,io ti prego, Dio celeste,d’aggiogare i tuoi pulledri,d’apprestare i finimenti:nella slitta variopintapassa fra giunture ed ossi,passa fra la carne molleva veloce fra le venee la carne attacca agli ossie l’arteria con l’arteria:salda gli ossi con l’argentoe con l’or salda le vene!Dove s’è rotta la pelle,colà cresca pelle nuova;dove ruppesi l’arteria,allacciata sia l’arteria;dove il sangue sgorgò via,torni a scorrere altro sangue;dove l’osso s’è spezzato,un altr’osso sia posato;dove si staccò la carne,

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sia la carne risaldata,sia rimessa al proprio posto:tornin tosto al proprio luogoossi ed ossi, carne e carnee giunture con giunture».

Alla vita sua di primafe’ così tornar la madrequell’ardito, gli ridettela sua forma ed il suo aspetto.

Per magìa tornar le venecon le vene a combinare:ma il figliuolo ancor taceva,dir parola non poteva.Ma parlò la madre allora,prese a dire in questo modo:«Donde prendere un unguento,donde miele a gocciolineper spalmare il trapassatoper sanare il disgraziato,chè la bocca sua risuoni,si riapra alle canzoni?Ape, cara nostra alata,tu, regina d’ogni fiore,or va, cerca dolce miele,il soave succo portasu da Metsola benigno,da Tapiola vigilante,*di più fior dalla corolla,di più erbe dallo stelo,

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per spalmarne l’ammalato,per guarir le sue ferite!»

L’ape, vispa volatrice,battè l’ali, volò sveltaverso Metsola benigno,vèr Tapiola vigilanteed i fior beccò col becco,con la lingua stillò mieledalla punta di sei fiori,dallo stelo di cent’erbe:e ronzando se ne venne,tornò tonda come palla,con le aluzze tutte miele,carche pur di miel le penne.

Di Kauko la genitriceprese allora quegli unguentie spalmò con quelli il figlioper guarire il disgraziato:non giovarono gli unguentia ridargli la parola.

Disse allor così la madre:«Cara apuzza volatrice,vola verso un’altra parte,vola sopra nove mari,verso l’isola nell’onde,vola verso i dolci pratialla stanza di Tuuri,di Palvonen alla porta:colà c’è miele abbondante,

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colà succhi deliziosiadattati per le vene,che fan bene alle giunture:a me porta questi succhi,questi magici rimedi,ch’io li ponga sopra il male,ch’io ne spalmi le ferite».

L’ape allora, agil donnetta,volse indietro il legger voloe volò su nove marie sul decimo un pochino:volò un giorno, volò un altro,volò ancora un terzo giorno;(nè su giunchi si posavanè su foglia si stendeva),verso l’isola nell’onde,verso i prati zuccherati,presso la cascata ardenteed il fiume vorticoso.Là era il miele distillato,eran là raccolti i succhidentro vasi piccolini,dentro belle marmittine,un sol pollice profonde,larghe appena quanto un’unghia.

L’ape allora, agil donnetta,questi balsami raccolse:poco tempo era passato,era scorso un momentino,

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e tornava già ronzando,ritornava affaccendatacon sei coppe nelle bracciae con sette sulla schiena,e di miele eran ripienee di succhi deliziosi.

Lo spalmò la madre alloracon quei balsami soavi,lo spalmò con nove unguentie con otto portentosi:non giovò nessun unguento,non portò niun giovamento.

E parlò la madre ancora,disse magiche parole:«Ape, tu che in cielo voli,vola ancor la terza voltafin lassù nell’alto cielo,vola sopra a nove cielidove ad iosa trovi miele,tu ne trovi quanto vuoi:incantato l’ha il Creatore,consacrato l’ha il Signoreper guarire i figli suoi,che colpì sorte maligna:tuffa l’ali dentro il succoe le penne dentro il mielee con l’ali porta il succo,porta il miele nella veste,

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ch’io ne spalmi l’ammalato,ne guarisca le ferite!»

L’ape, cara volatrice,disse allor queste parole:«Potrò forse lassù andareio sì debole donnetta?»

«Ben potrai lassù arrivarecol tuo bel volo leggerosotto il sol, sopra la lunae del cielo fra le stelle:vola un giorno dolcementealle tempie della luna:va ronzando nel secondosu dell’Orsa sulle spallee nel terzo t’avvicinadelle sette stelle al dorso:*è di là breve il cammino,c’è di strada un pezzettino,alla reggia del Beato,del santissimo Signore».

E si alzò l’ape da terracon le aluzze inzuccherate;volò prima dolcementes’innalzò lieve ronzando,volò rapida alla luna,toccò il margine del solee passando sopra l’Orsa,sopra pur le sette stelle,volò dell’Onnipotente,

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del Creatore al magazzino,dove unguento si prepara,dove succo si distilladentro l’anfore d’argento,dentro le marmitte d’oro;cuoce in mezzo il dolce mielee dai lati stilla unguento,bolle il succo al mezzogiornoed il balsamo all’opposto.

L’ape, che nel cielo vola,prese miele in abbondanzaed unguento a suo piacere:poco tempo era passatoe tornava già ronzando,ritornava svolazzando:cento vasi sopra il dorso,altri mille vasettini:qual di miele, quale d’acqua,qual di balsamo ripieno.

Di Lemminkäinen la madreessa stessa con la boccali toccò, con la sua linguane provò gusto e sapore:«Questi sono quegli unguenti,questi i balsami del Dio,con i quai l’Onnipotentetutte sana le ferite».

Spalmò quindi il trapassato,sanò il figlio disgraziato;

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spalmò prima osso per ossoe giuntura per giuntura:per di sotto, per di sopra,unse bene anche nel mezzo:pronunziò queste parole,questo magico scongiuro:«Sorgi su dal tuo dormire,ti risveglia dal letargo,dal giaciglio di dolore,da quel letto di sventura!»

Si svegliò dal suo dormire,dal letargo ecco si scossee la lingua gli si mossee così cominciò a dire:«Ben a lungo, poverello,ho dormito, meschinello!ho dormito un dolce sonnoe profondo era il russare».

Di Lemminkäinen la madrepronunziò queste parole:«Ben più lungo, lungo tempotu dormito avresti, o figlio,senza la misera mamma,l’infelice genitrice.Or su dimmi, miserello,fa che l’odan le mie orecchie:chi ti spinse giù a Manala,giù nel fiume di Tuonela?»

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Disse il vispo Lemminkäinen,alla madre sua rispose:«Il mandriano Märkähattuegli, il guercio d’Untamola,*a Manala giù mi spinse,dentro il fiume di Tuonela;mandò un’idra su dall’acqua,un serpente su dall’ondecontro me stanco e spossato:nè conoscere potevonè saper dell’idra il dannoe del morso del serpente».

E la madre allora disse«Guarda l’uom senza giudizio!ti vantavi d’incantaregli stregoni di Lapponia,nè sapevi incantamenticontro l’idra ed i serpenti!È dall’acqua nata l’idra,è dall’onda nato il serpe,della folaga dal capoe dal cuore del gabbiano:Syöjätär sputò nell’acqua,*dentro l’acqua, in mezzo all’onde,l’acqua trascinò lo sputoed il sol lo scaldò mite:venne il vento a dondolarlo,lo cullò l’umido vento,

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lo sospinse a riva l’onda,lo condusse a terra il flutto».

Di Kauko così la madrecarezzando il suo diletto,alla vita il fe’ tornare,all’aspetto suo primiero:un pochino più leggiadro,più di prima bello venne;chiese allora al suo figliuolose qualcosa rimpiangesse.

Disse il vispo Lemminkäinen:«Certo ancor molto rimpiango;il mio cuore è là rimasto,colà dorme il mio pensiero,dalle donne di Pohjola,dalle belle altochiomate:ma la vecchia orecchio-marcionon mi dà la sua figliuolase la folaga, se il cignonon colpisco, non uccidopresso il fiume di Tuonela,presso i vortici secreti».

E parlò la madre allora,pronunziò queste parole:«Lascia stare que’ maligni,lascia star folaghe e cignilà di Tuoni negli ardentinegri rapidi torrenti:torna a casa, torna insieme

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alla povera tua mommae ringrazia la tua sorteed esalta il tuo buon Dioche ti diè vero soccorso,ti chiamò di nuovo a vitadi Tuoni dal suol sicuro,dai confini di Manala:niente io sola avrei potuto,niente fatto da me stessasenza la grazia divinae l’aiuto del Creatore!»

Ed il vispo Lemminkäinentornò tosto alla sua casacon la madre venerata,la diletta genitrice.

Ed or Kauko lascio stare,Lemminkäinen spensieratoper un pezzo co’ miei versivolgo tosto il verso altrove,piego il canto ad altre cose,lo indirizzo a nuova strada.

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IL DECIMOSESTO RUNO.

Väinämöinen manda Sampsa Pellervoinen a cercare legna per la barca, si mette a costruirla, ma gli manca-no tre parole magiche (1-118). Non potendo ottenerle da altri, discende a Tuonela, dove vorrebbero trattener-lo (119-362). Pure, con la sua potenza magica, riesce in qualche modo a Väinämöinen di uscire da Tuonela; e ritornatone, sconsiglia chiunque dal recarsi laggiù e descrive lo stato doloroso e tremendo in cui si trovano colà i malvagi (363-412).

IL DECIMOSETTIMO RUNO.

Väinämöinen va per chiedere le parole ad Antero Vi-punen, e lo sveglia dal suo lungo sonno sotto terra (1-98). Vipunen inghiotte Väinämöinen, e questi, nel ventre di lui, comincia a tormentarlo fortemente (99-146). Vi-punen pensa qual malanno possa essergli capitato nel ventre e cerca di liberarsene con varie parole magiche, scongiuri, imprecazioni e minacce: ma Väinämöinen gli

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dichiara che non se ne andrà se non avrà prima ottenu-to da lui le parole magiche che gli mancano a compiere la barca (147-526). Vipunen canta allora tutta la sua scienza magica a Väinämöinen, il quale esce dal ventre di lui, torna al cantiere e compie la costruzione della barca (527-628).

IL DECIMOTTAVO RUNO.

Väinämöinen fa vela con la sua nuova barca per chiedere in isposa la fanciulla di Pohja (1-40). La so-rella di Ilmarinen lo scorge e parla con lui dalla riva, viene a sapere del perchè del suo viaggio e corre ad av-vertire il fratello che un altro aspira alla sua sposa e che stia in guardia (41-266). Ilmarinen, approntatosi per il viaggio, corre a cavallo lungo la riva verso Poh-jola (267-470). La signora di Pohjola, vedendo avvici-narsi gli sposi, consiglia alla figliuola di scegliere Väi-nämöinen (471-634). Ma la figlia promette di scegliere Ilmarinen, che ha fucinato il Sampo, e a Väinämöinen, arrivato per il primo nella stanza, risponde che non vuol saper di lui (635-706).

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IL DECIMONONO RUNO.

Ilmarinen viene alle stanze di Pohjola, chiede in spo-sa la figlia, per meritar la quale gli vengono imposte prove perigliose (1-32). Coi consigli della fanciulla di Pohja, riesce a compierle felicemente: per prima cosa ara il campo delle vipere, poi prende l’orso di Tuoni e il lupo di Manala, e finalmente s’impadronisce del grosso e terribile luccio nel fiume di Tuonela (33-344). La si-gnora di Pohjola promette la figliuola per fidanzata a Ilmarinen (345-498). Väinämöinen ritorna indispettito da Pohjola, e sconsiglia ognuno dall’andare in cerca di sposa insieme ad un pretendente più giovane (499-518).

IL VENTESIMO RUNO.

A Pohjola si macella un gigantesco bove per il ban-chetto nuziale (1-118). Si fa la birra e si apprestano cibi (119-516). Si mandano messaggeri a invitare gente alle nozze; solamente Lemminkäinen vien lasciato senza in-vito (517-614).

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IL VENTESIMOPRIMO RUNO.

Lo sposo col suo corteo viene accolto a Pohjola (1-226). Agli ospiti si offre in abbondanza da mangiare e da bere (227-252). Väinämöinen canta e ringrazia la gente di casa (253-438).

IL VENTESIMOSECONDO RUNO.

Poi che a lungo celebratefur le nozze ed i banchettinelle stanze di Pohjola,di Pimentola nebbiosa,la signora di Pohjoladisse al genero Ilmarinen:

«Per chi attendi, di gran stirpe,ornamento della terra?per il ben del babbo indugi,per l’amore della mamma,per il lustro della casa,la bellezza del corteggio?Non del babbo per il bene,

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per l’amore della mamma,nè pe ’l lustro della casa,la bellezza del corteggio:per l’amor tu attendi e il benedella sposa giovinetta,la beltà della dilettacon la chioma in alto stretta.Sposo, caro fratellino,un pezzetto ancora aspetta:non è pronta la dilettala compagna di tua vita:per metà la treccia ha alzata,per metà non pettinata.Sposo caro, fratellino,un pezzetto ancora aspetta:non è pronta la dilettala compagna di tua vita:una manica ha infilata,l’altra ancora da infilare.Sposo caro, fratellino,un pezzetto ancora aspetta:non è pronta la diletta,la compagna di tua vita;ora è già calzato un piede,l’altro è ancora da calzare.Sposo caro, fratellino,un pezzetto ancora aspetta:non è pronta la diletta,la compagna di tua vita:

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una mano è già inguantata,l’altra ancora da inguantare.Sposo caro, pazïenteaspettasti lungamente!ora è pronta la tua bella,la cercata colombella.Va’ con lui, vergin compratacon lui va’ che t’ha acquistata!*la partenza è già vicina,è già prossimo il distacco:presso a te chi via ti porta,chi ti prende è sulla porta;e il cavallo morde il frenoe ti aspetta già la slitta.Se eri pronta pel denaro,svelta a porgere la mano,dallo sposo a prender doni,a infilar l’anello in dito,or sii pronta per salirenella slitta variopinta,svelta a andar verso il villaggio,frettolosa per partire!Non a lungo, giovanetta,tu guardasti dai due lati,con la testa non pensasti*se facevi triste comprada rimpiangerla per sempre,da pentirsen d’anno in anno,quando la casa hai lasciata

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di tuo padre, ov’eri nata,che ti vide sì felicecon la cara genitrice.Che cos’era a te la vitaquando presso al babbo stavi!tu crescevi come un fiore,come fragola in boschetto:dopo il letto, il burro avevi,al mattin latte bevevi;fra i lenzuoli, pane bianco,sul saccon ti davan panna:e se il latte non gustavi,il prosciutto ti aspettavi.Non avevi mai pensieri,non angustie da turbarti:i pensier lasciavi ai pinied ai pali della siepe,i dolori alla palude,della landa alle betulle:ti movevi, fogliolina,saltellavi, farfallina,fragoletta presso a casae lampone in mezzo al campo.Or da questa casa parti,ad un’altra casa vai,ai comandi d’altra mamma,di famiglia forestiera;qua in un modo, là in un altro,altrimenti è l’altra casa:

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differente è il suon dei corni,delle porte il cigolare,e lo strider delle sogliee dei cardini il gridare.Non sei buona a aprir le porte,nè sui cardini a voltarlecome le figlie di casa:nè nel fuoco sai soffiare,nè la stufa riscaldareche il padrone sia contento.Giovinetta, tu pensavi,forse tu t’immaginavidi partir per una notte,di tornare il giorno dopo?non per una notte sola,nè per due tu sei partita:per un lungo tempo andrai,mesi e giorni passerai,per la vita allontanatadella casa ove sei nata:lunga un passo più la corte,alta un trave più la sogliaforse tu ritroveraiquando qui ritornerai»,

La fanciulla poverettapensa con gravi sospiri,con il cuore tutto mesto,con le lacrime negli occhi:dice poi queste parole:

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«Io così sempre credevo,ogni giorno riflettevoe nel crescere dicevo:«Sei ragazza, e non ragazzaora presso ai genitori,nelle stanze del tuo babbo,della vecchia mamma al fianco:ma ragazza tu saraial marito quando andrai,con un piede sulla sogliae con l’altro nella slitta,d’una testa allor più altae più lunga d’un orecchio».Mentre tutta la mia vita,ogni dì, questo sperai,come il buon anno aspettai,come la stagion fiorita:or che è vera la mia speme,del distacco e l’ora preme,or che un piede ho sulla sogliaed ho l’altro nella slitta,come mai non so davveros’è cambiato il mio pensiero:io non parlo lieta in core,nel lasciar non mi rallegroquesta cara casa d’orodove vissi giovinetta,queste terre di mio padredove crebbi fanciulletta;

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me ne parto, poverina,tutta piena di pensieri,qual d’autunno nella notte,qual sul ghiaccio a primavera,che più traccia non si vedenè di slitta, nè di piede.Come è l’animo degli altri,il pensier degli altri sposiche non sanno di tristezza,non conoscono amarezzacome me, che l’ho nel cuore,che son piena di dolore:nero ho il cuor come catrame,il pensier come carbone.Come è l’animo dei lieti,il pensiero dei contenti?come sole, quando sorgenel mattin di primavera:e com’è l’animo mio,come il mesto mio pensiero?come bassa spiaggia in golfo,come oscuro orlo di nube,qual d’autunno notte buia,qual d’inverno giorno nero:è più nero e tenebrosoche non sia notte d’autunno».

Una vecchia c’era, servadella casa da gran tempo;essa allora così disse:

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«Guarda, guarda, giovinetta,ti se’ tu dimenticatacom’io dissi cento volte?che lo sposo non t’incanti,non la bocca dello sposo,non guardar com’egli ha gli occhi,non mirare il passo altero!Con la bocca parla dolce,getta sguardi bellamente,sebben Lempo sopra il mentoe la Morte gli stia in bocca!Così sempre la cuginaconsigliai, la ragazzina:«Se verranno grandi sposi,ornamenti della terra,devi dar questa rispostae parlar da parte tua,in tal modo devi dire,la tua voce fare udire:«Non è cosa per me fatta,non è cosa che mi piacciad’andar via siccome nuora,d’esser presa come serva:non conviene a una fanciullacome me, vivere schiava,stare agli altri sottomessa,umil sempre ed obbediente:se altri dice una parola,due parole io gli rispondo:

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se mi piglia pe’ capelli,se mi tiene per le trecce,mi so presto liberare,dalla treccia il so cacciare».Ma tu ascolto non m’hai dato,al mio dir non hai badato,da te stessa ti buttastidentro il fuoco, nel catrame,della volpe nella slittae dell’orso nel carretto,chè la volpe e l’orso lungiti portasser nella slitta,per servire eternamentealla suocera e al padrone.Tu da casa andasti a scuola,dal tuo babbo, ad un tormento:dura scuola troverai,lunga pena soffrirai:già comprate son le fruste,preparate le catene,non già contro qualcun’altrama sol contro te, meschina.Avrai presto da provare,infelice, il mento aguzzodel tuo suocero, e la linguadella suocera, tagliente;dei cognati la freddezzae gli scherni e l’alterezza.Odi, bimba, quel ch’io dico,

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quel ch’io dico, quel che parlo!Eri un fiore a casa tua,gioia in casa del tuo babbo:ti chiamava il babbo, lunaed aurora la tua mamma:il fratel, luce dell’ondala sorella, panno azzurro:ad un’altra casa or vaisotto madre forestiera;non somiglia alla tua mamma,a colei che t’ha portato:rado assiste di consiglio,rado insegna quel ch’è giusto;sei dai suoceri chiamataramo secco, vecchia slitta:*ti diran scala i cognati*e peggiore fra le donne.Per te allor bene sarebbe,per te allora gioverebbedi uscir fuori come nebbia,come fumo nel cortile,di volare come foglia,di sparir come favilla.Non sei uccello, che tu volinè sei foglia, da involartinè favilla, da sparireoppur nebbia, nel cortile.Deh fanciulla, sorellina,hai di già, di già scambiato:

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il tuo babbo affezionato,per il suocero cattivo:la tua mamma premurosa,per la suocera severa:hai scambiato il buon fratello,pel cognato mezzo gobbo:la tua dolce sorellinaper una guercia cognata:i lenzuoli tuoi di linope ’l braciere affumicato:l’acque chiare del tuo lagoper la sudicia fanghiglia:della spiaggia i sassoliniper le rozze zolle nere:hai scambiato i tuoi boschettiper le stoppie della landa,e le fragole del colleper il bosco dissodato.Così forse hai tu pensatocosì forse, giovinetta:«Non ci sono più pensieri,nè la sera più lavoro:là mi portan per dormire,per il sonno m’hanno presa.Non ti portan chè tu dorma,non pel sonno t’hanno presa:ora invece hai da vegliare,coi pensieri da lottare:ti daranno essi dolore

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e tristezza e malo umore.Finchè andavi senza cuffia,*non avevi alcun pensiero:finchè senza lino in capo,non angustie nè dolori:con la cuffia, ecco gli affannicon la tela, vengon l’ansiecol cappuccio, ecco i dolorie le angustie senza fine.Come è a casa la ragazza?allorchè del padre è in casa,è qual re nel suo castello,sol che le manca la spada!Altrimenti sia la nuora!sta la nuora dal maritocome in Russia prigioniero,sol che le mancan le guardie!Abbia pur fatto il lavoronel suo tempo, a spalle curve,con il corpo, con la frontegocciolanti di sudore,quando è giunto l’altro tempo,la si manda presso al fuoco,nella stufa a metter legna,perchè vada alla malora.

Per la povera ragazzaci vorrebbe del salmoneil pensier, lingua di perca,della martora la bocca,

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dello zerro il picciol ventree dell’anatra la scienza.*Non c’è una che lo sappia,nove che possan capire,fra le figlie di una mamma,fra le care ai genitori,dove nasca il mangiatore,dove cresca il roditoredi lor carne, di lor ossa,che le prenda per le trecceche le arruffi, che le lasciin balìa della tempesta.*Piangi, piangi, giovinettagiacchè piangi, il pianto sfoga,pien di lacrime le mani,pien le palme di sospiri;cadan gocce nel cortile,laghi sopra il pavimento,fiumi dentro la stanzetta,onde sopra l’impiantito.Se col pianto or non ti sfoghi,piangerai nel tuo ritorno,nel tornar del babbo a casa,nel trovare il vecchio babboaffogato dentro il fumo,*con in man la frusta secca.Piangi, piangi, giovinetta!giacchè piangi, il pianto sfoga.Se col pianto or non ti sfoghi,

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piangerai nel tuo ritornoalla casa di tua madre:nel trovar la vecchia mammasoffocata nella stallacol covone stretto in mano.Piangi, piangi, giovinetta!giacchè piangi, il pianto sfoghi.Se col pianto or non ti sfoghi,piangerai nel tuo ritornonel tornare a questa casa,nel trovare il buon fratellomorto in mezzo alla viuzza,steso in mezzo del podere.*Piangi, piangi, giovinetta!giacchè piangi, il pianto sfoga.Se col pianto or non ti sfoghi,piangerai nel tuo ritorno,nel tornare a questa casa,nel trovar la tua sorellasulla via del lavatoiomorta, col pestello in braccio».La fanciulla trae sospiri,va la misera ansimando,quindi a piangere cominciae le lacrime a versare.Pianse sì, da empir le manie di lacrime e sospiri,da bagnar la corte e farelaghi sopra l’impiantito:

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poi così si mise a dire,la sua voce fece udire:«Sorelline, augellettinitutte voi, prime compagneche cresceste al fianco mio,ascoltate ciò ch’io dico!io non so davvero direcosa sia che mi cagionala tristezza che mi prende,il pensier che mi tormenta,quest’angoscia che m’assale,che mi fa così dolente.Altrimenti io mi pensavo,questo tempo immaginavo:d’andar via come un cuculo,di cantare alla collinaquando il giorno fosse giunto,fosse il termine venuto.Ma non parto qual cuculo,ma non canto alla collina;son com’anatra nell’onda,come folaga nel fluttoquando va per l’acqua freddae si scuote sopra il ghiaccio.Ahimè, babbo, ahimè, mamma,venerandi genitori!perchè vita voi mi deste,mi allevaste, miserellach’io piangessi questi pianti,

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ch’io portassi queste cure,sostenessi questi affanni,mi affliggessero i dolori!Meglio, mamma poveretta,meglio, o tu che m’hai portato,cara, che ’l latte m’hai dato,mia nutrice prediletta,chè tu avessi in fasce un ceppo,tu lavassi i sassolini,meglio che lavar la figlia,che fasciare la tua bellaperchè avesse tal dolore,quest’amara angoscia in core!C’è più d’uno che mi dice,c’è chi spesso così pensa:«Non ha mai, la pazzerella,non ha mai cure o pensieri!»Non lo dite, buona gente,non parlate così mai!Ho purtroppo più pensieriche non sassi una cascatache non vetrici, terracciache la landa non ha erbaccia;non potria caval tirare,non ferrato trascinare,senza che l’arco tremasseo il collare si spezzasse;i pensieri di me trista,queste cupe angosce mie».

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Cantò un bimbo dal piancito,dalla stufa un ragazzino:«Giovanetta, perchè il pianto,perchè affliggerti cotanto?al caval lascia le cure,al destrier nero gli affanni,che la ferrea bocca pianga,che s’attristi il grosso capo:ha il caval testa miglioree più solido cervello,la cervice più potentee più il corpo resistente.Non c’è da piangere tanto,non da affliggersi cotanto!non ti portan nel pantano,non ti menan nel torrente:tu da un fertile poggettoa un più fertil sei portata;dalle stanze della birradove c’è più birra, vai.Se al tuo fianco volgi gli occhi,se tu guardi alla tua destra,c’è a proteggerti uno sposo,c’è al tuo fianco un valoroso,un brav’uomo, un buon cavallo,utensili d’ogni sorta;pollastrine saltellaree posarsi sul collare,vedi, e i tordi giubilare,

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sulle redini cantare;vedi sei cuculi d’orosul timone folleggiare,sette vispi uccelli azzurrisulla slitta cinguettare.Cara, non aver pensieri,figliuoletta, non temere!a star peggio tu non vai,meglio invece tu staraipresso all’uom che solca il campo,sotto il manto di chi l’ara,sotto il mento di chi nutre,sotto il braccio di chi pesca,dentro il bagno di chi caccial’alce, di chi piglia l’orso.Hai degli uomini il più forte,il più audace degli eroi!Ei non lascia l’arco in ozio,non appesa la faretra:ei non tiene i cani in casaa dormir sopra la paglia.Già tre volte, quest’estatedel mattin coll’albeggiare,sorse dal fuoco all’aperto,dal capanno di fogliame:per tre volte, la rugiadagli si sparse sopra gli occhied un ramo disseccatogli ha i capelli pettinato.*

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Al lavor la gente affrettaed aumenta la sua gregge:ha lo sposo molte mandreche passeggian pe’ i pantani,che saltellan per i colli,van nel fondo delle valli:cento son che portan corna,mille, pingui di mammelle:ogni bosco dà frumento,ogni fiume, grano a sacchi:dànno pane i boschi d’olmi,orzo dànno i ruscelletti,il terren sassoso, avenae di gran la sponda è piena:pietre a mucchi, son quattrini,son monete i sassolini».*

IL VENTESIMOTERZO RUNO.

Or bisogna alla ragazzadar consigli, alla sposina:chi farà da consigliere,chi alla sposa il precettore?Osmotar, la buona donna,di Kaleva bella figlia,

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dà consigli alla ragazzae precetti all’orfanellaperchè stia come conviene,perchè viva rispettatanella casa del marito,della suocera da presso.

Disse allor queste parole,in tal modo si fe’ udire:«Sposa cara, sorellina,tenerella fogliolina,ora senti quel ch’io dico,quel che la lingua ripete. Sei già, fiore, per partirefragoletta, per andaretu ci lasci, stoffa finevellutino, te ne vaida cotesta illustre casa,dalla bella tua dimora:ad un’altra casa vai,a famiglia forestiera:quella casa è differente,è diversa quella gente:dà pensiero il camminare,pien di cure è il lavorare:non è già come dal babbo,come presso la tua mamma:nelle valli là cantavie nei vicoli chiamavi.Nel lasciar questa dimora

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la tua roba non scordare:ma tre cose puoi lasciare:il dormire a giorno fatto,della mamma i dolci dettie la panna sopra il pane.Porta teco ogni altra cosa:lascia il sacco de’ tuoi sogni,dàllo in mano alle ragazzeo sul canto della stufa,lascia i canti sulla pancaed i versi alla finestra:il candore nella scopa,le follìe nelle lenzuola,nella stufa i tuoi vizietti,la pigrizia sul piancito,oppur dàlla alla compagnache la metta sotto il braccio,che la butti nel cespuglio,che la porti nella landa.Nuova usanza è da impararee l’antica è da scordare:del buon babbo amor lasciare,e del suocero pigliaree l’inchin più basso faree parole buone dare.Nuova usanza è da impararee l’antica è da scordare:della mamma amor lasciare,della suocera pigliare

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e l’inchin più basso faree parole buone dare.Nuova usanza è da impararee l’antica è da scordare:del fratello amor lasciare,del cognato è da pigliaree l’inchin più basso faree parole buone dare.Nuova usanza è da impararee l’antica è da scordare:di sorella amor lasciare,di cognata è da pigliaree l’inchin più basso faree parole buone dare.Tu non devi, in nessun tempofinchè splenda l’aurea luna,andar senza buone usanzealla casa del marito:chè la casa le richiede,vuole buone costumanze,cerca quale sia l’umoreil migliore dei mariti:d’attenzione c’è bisognose la casa ha brutte usanze:sia prudente la fanciullase il marito è buono a nulla.Sia nel canto il vecchio, un lupo,orso sia la vecchia, serpeil cognato sulla soglia,

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la cognata chiodo in corte,pur bisogna tu li onori,tu t’inchini a lor più basso,come prima dalla mamma,nelle stanze del tuo babboa tuo padre t’inchinavie la mamma rispettavi.Ora ti bisogna averetesta pronta, mente sveglia,sempre vigile il pensieroed ugual l’intendimento:occhi all’erta verso seraper il fuoco riattizzare,al mattino orecchi all’ertaper udir del gallo il canto:tosto che canti una volta,pria che canti la seconda,tempo è già che tu ti levi,lasci i vecchi a riposare.Se mai il gallo non cantasse,non l’augello casalingo,tien’ per gallo tu la luna,tieni l’Orsa per maestra;esci fuor più d’una voltaa guardar dov’è la luna,a osservare com’è l’Orsa,come splendono le stelle.Quando l’Orsa sta diritta,volge il corno a mezzogiorno

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e la coda a tramontana,tempo è allor che tu ti levi,che tu sorga via dal fiancodel tuo forte giovin sposo:nella cenere cercaretu del fuoco dèi le stille:ravvivarlo col soffiaresenza sparger le faville.Se la cener non ha fuoco,se ogni brace è di già spenta,chiedi piano al tuo diletto,scuoti il caro giovanetto:«Dammi un po’ di fuoco, caro!fragoletta, un po’ di fiamma!»Hai di selce un sassolino,hai tu d’esca un pezzettino,batti il fuoco e nel sostegnometti tu la scheggia accesa:nella stalla va’ a guardare,il bestiame a governare;della suocera la vaccae del suocero il cavallo,dei cognati hanno nitrito:i vitelli hanno muggitoperchè butti loro il fieno,il trifoglio nella greppia.Va’ nell’andito curvata,nella stalla a testa bassa:*con buon garbo da mangiare

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da’ agli agnelli ed alle vacche;alle vacche porgi paglia,bere ai poveri vitelli,*ai pulledri fieno scelto,agli agnelli erbetta fine:non urtare contro i porci,non pestare i porcellini,empi il trogolo pe’ porci,il bigoncio pe’ maiali.Non fermarti nella stalla,non posare nell’ovile!quando la stalla hai nettato,tutto il gregge governato,torna indietro in un momento,nella stanza va’ qual vento!Colà piange già un bambinorinvoltato nel lettino:poveretto, non sa ancoradir nemmeno una parola,non sa dir se ha freddo o fame,se altra cosa gli è successa,prima che la mamma vengae la nota voce senta.Ma quand’entri nella stanzaentra con altre tre cose:d’acqua un bricco nelle mani,la granata sotto il braccio,una scheggia accesa, in bocca:tu sarai la quarta cosa.

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Da spazzare hai l’impiantito,da pulire il pavimento;butta l’acqua sul piancito,non buttarla in capo al bimbo:vedi un bimbo sul piancito,sia pur quello del cognato,metti il bimbo sulla panca,gli pulisci gli occhi e il capo:dàgli in mano un po’ di panee sul pane stendi il burro:se non c’è del pane in casa,dagli in mano un truciolino.Se le tavole lavarevuoi, la fin di settimana,lava bene tutto il pianoe le gambe non scordare;versa l’acqua sulle panche,struscia bene le pareti,tutti gli angoli dei banchie dei muri le giunture.Quel che c’è di polver soprale finestre e i tavolini,via la leva col pennacchioe col cencio inumidito,perchè non voli all’intorno,non si posi sul soffitto.La fuliggine dal tettospazza, e il fumo dal camino:poi ricórdati la trave

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ed ancora i travicelli:ed allor sarà graditauna stanza sì pulita.Senti, senti, giovinetta;quel ch’io parlo, quel ch’io dico!Non far nulla senza veste,non faccende, scamiciata:non uscir senza pezzuola,non andare senza scarpe;al tuo sposo giovinettopotria ciò fare dispetto.Devi i sorbi nel cortilediligente custodire:santi i sorbi nel cortile,santi son de’ sorbi i rami,sante de’ rami le fogliee le coccole più sante:con le quali la ragazzasi ammaestra, perchè seguadel marito suo l’umore,dello sposo segua il cuore.*Abbi orecchi come il topo,piedi svelti come lepre,piega la giovine nuca,volgi il vago collo biancoqual ginepro che su cresce,qual di visciolo fogliame.Sempre attenta devi stare,devi sempre ben vegliare:

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chè non dorma fuor di tempo,non ti allunghi sulla panca,non ti stenda, colle vesti,non ti indugi sopra il letto.Se il cognato vien da arare,torna il suocer dal rinchiuso,tuo marito dal lavoro,dal buttare i tronchi a terra,porta allora il bricco d’acqua,porgi lor l’asciugamano,più profondo fa l’inchino,il saluto tuo più fino.Vien la suocera col moggiodi farina sotto il braccio,vàlle incontro nel cortile,con rispetto a lei t’inchina,prendi il moggio sotto il braccioper portarlo nella stanza.Se tu stessa non sapessi,se da te non intendessiqual lavoro c’è da fare,quale cosa da approntare,così interroga la vecchia:«Oh mia cara suocerina,che lavoro c’è da fare,che faccenda da sbrigare?»Ti risponde sul momento,così la suocera dice:«C’è così da lavorare,

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le faccende da sbrigare:da pestar, da marinare,far la macina girare,acqua ancora da portaree la pasta preparare;portar legna nella stanza,riscaldar per bene il forno,a puntin cuocere il pane,grogiolare le focacce,ripulire il vasellame,risciacquare le scodelle».Or saputo il tuo lavorodalla vecchia e le faccendeprendi il grano dalla pietra,*alla macina ti affretta:quando tu sarai venutadalla macina alla stanza,non cantar con quanto hai in gola,non gridare a bocca aperta:*canti pur per te la pietra*e il manubrio cantarelli;*nè lamenti, nè sospirisulla macina farai:perchè il suocero non credae la suocera non pensiche sospiri pe ’l dispettoe lamenti la tua sorte.Staccia attenta la farina,nel coperchio via la porta:

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prendi lieta a fare il pane,a impastarlo con gran curaperchè non facciano grumila farina o gli ingredienti.*Se tu vedi il secchio storto,*lo raddrizza sulla spalla;colla brocca sotto il bracciote n’andrai per prender l’acqua;porta il secchio bellamentesulla cima del bastone,torna indietro come il vento,come il vento a primavera:alla fonte, presso l’acquanon ti devi trattenere:che il tuo suocero non creda,che la suocera non pensiche tu stavi a contemplarela tua immagine nell’acqua,a guardar la tua freschezzanella fonte, e la bellezza.*Quando vai per pigliar legnagiù dalla grande catasta,non buttar la legna all’aria;prendi ancor legna di pioppo,piano piano giù le ponisenza fare gran scompiglio,che il tuo suocero non creda,che la suocera non pensiche tu faccia quel fracasso

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per la rabbia o il tristo umore.Quando a prendere farinatu ti rechi alla dispensa,non a lungo là ti ferma*nè per via non t’indugiare,che il tuo suocero non creda,che la suocera non pensiche spartisci la farinafra le vecchie del villaggio.Quando lavi il vasellame,i catini quando sciacqui,lava il manico alle brocche,sciacqua dentro le pareti,lava i bricchi ed i cucchiai,tanto i manichi che il fondo!Tieni il conto de’ cucchiai,tieni a mente il vasellame,che non li abbiano a chiapparecani, o gatti trascinare,nè li smuovano gli uccelli,nè li arruffino i ragazzi:nel villaggio ci son tantiragazzetti piccoliniche ti portan via le brocche,fan sparire i cucchiaini!Quando è pronto il bagno, a sera,porta l’acqua e i ramoscelli:*tieni pronti i ramoscelli,caccia il fumo dalla stanza

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senza troppo trattenerti,indugiar troppo nel bagno;che il tuo suocero non creda,che la suocera non pensiche ti sei lunga distesasulle tavole o sul banco.Ed a casa ritornatacosì il suocero tu invita:«Oh mio caro suocerino,ecco il bagno già approntato:pronta l’acqua e i ramoscellie le tavole, lavate;va’, ti bagna a tuo piacere,versa l’acqua quanta vuoi:starò pronta pe ’l vapore,*sotto il letto per servirti».*Quando il tempo di filaree di tesser venga l’ora,non cercar dita al villaggionè consigli oltre il ruscello,nè il lavoro da altra casa,nè il telaio da stranieri.*Tessi i fili da te stessa,l’orditura di tua mano:quei di lana larghi avvolgi,stretti più quelli di lino,fa ’l gomitolo ben pienoe sul naspo poi l’avvolgi,sopra il subbio intreccia i fili,

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tienli stesi sul telaio,picchia forte la navetta,alza i regoli veloce;tessi in lana le sottane,tessi in lino i giacchettini,da un sol fiocco della lanad’un montone nato a inverno,d’una pecora dai peli,d’una agnella dell’estate.Senti quello che ti dico,ti ripeto un’altra volta!Concia tu birra dall’orzo,dolce dal malto liquore,con un solo seme d’orzo,con un mezzo ramo acceso.*Quando tu l’orzo addolcisci,quando al malto il gusto dài,non frullarlo con un gancioe nemmen con un bastone,ma col palmo della mano,sempre con le proprie dita:va’ nel bagno spesso, bada*non si guasti il malto in germe:non vi segga su la gatta,non vi dorma il gatto sopra:nè temer devi dei lupi,delle bestie della selva,quando al bagno tu ti rechianche al mezzo della notte.

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Quando un ospite venisse,non aver l’ospite a noia;sempre la casa ordinatatien per l’ospite in riserbosia di carne un rimasuglio,sia focacce o pasticcini.Fa’ che l’ospite si seggae gentile con lui parla:lo satolla di parolefinchè pronta sia la zuppa.Quand’ei lascia la tua casa,quando ha fatto i suoi saluti,non lo devi accompagnarepiù lontano della soglia,che il tuo sposo non si sdegni,non incresca al tuo diletto.Se ti venga un giorno vogliadi recarti nel villaggio,il permesso prima chiedidi’ che altrove vuoi recarti:quando là ti troverai,sii prudente ne’ discorsi,non dir mal di casa tua,della suocera nemmeno.Se le nuore del villaggioti diranno, o l’altre donne:«Ti dà la suocera burrocome a casa già la mamma?»tu rispondere non devi:

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«Essa, no, non mi dà burro.»ma di’ sempre che te l’offre,te lo porge col cucchiaio,anche se una sola voltaburro rancido ti ha dato.*Senti quello che ti dico,ti ripeto un’altra volta:quando via da questa casa,ad un’altra casa andrai,non scordare la tua mamma,non tenerla in piccol pregio!essa ti ha dato la vita,ha nutrito il tuo bel senocon la propria floridezza,con la sua bella persona:molte volte scordò il sonno,molte volte scordò il ciboper cullare te piccina,per badare a te bambina.Chi si scorda della mamma,chi la tiene in piccol pregio,a Manala non discendacon la coscienza tranquilla:brutta paga dà Manala,Tuoni un’aspra ricompensaa chi scorda la sua mamma,chi la tiene in piccol pregio:lui minaccian le figliuoledi Tuoni con duri detti:

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«Come hai tu scordato quellae tenuta in piccol pregio,che per te vide gran pena,che soffrì le gravi dogliedella sauna sul piancito,stesa sul letto di paglia,quando al mondo ti metteva,te, meschina, partoriva?»

Una vecchia imbacuccatasedea sopra il pavimento:lei sapeva del villaggiotutte le porte e le vie.Essa allor prese a parlare,a discorrere e narrare:«Canta il gallo alla sua cara,il pulcino alla sua bella,canta a marzo la cornacchia,quando viene primavera;ma ben io dovrei cantaree star quelli senza canto:hanno quei la cara a casa,la diletta sempre a lato;senza casa, senza amore,io son sempre nel dolore.Stammi attenta, sorellina!quando andrai col tuo marito,non star sempre al suo capricciocom’io feci, miserella;è d’allodola la lingua*

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dello sposo, il cor superbo.Ero prima come un fiore,come l’erica crescevo,su venivo qual germoglio,quale boccio delicato,mi chiamavan fragoletta,mi dicevan bimba d’oro:anatretta ero pe ’l babbo,cicognetta per la mamma,beccaccina pe ’l fratello,uccellin per la sorella:ero fiore nei sentierie lampone in mezzo al campo:per l’arena delle spiagge,per le floride collineio cantavo; ad ogni valleil mio canto, ad ogni vetta:mi vedean giocare i boschied i campi dissodati.Nella trappola la linguafe’ cadere l’ermellino,*il desìo spinse allo sposola fanciulla, ad altra casa:il destin le ha stabilitonella culla bambinettadi andar, sposa, col marito,alla suocera soggetta.Venni, fragola, a altre terrea altri laghi, viscioletta:

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ma per esser calpestata,ma per esser maledetta:ciascun albero mi ha morso,ciascun olmo mi ha graffiato:mi ha ferito ogni betulla,ogni pioppo mi ha picchiato.Quando andai di mio marito,di mio suocer nella casa,mi dicevan che trovatoavrei là sei belle stanze,tutte in pino fabbricatee di camere anche il doppio:lungo i campi, le dispense,fiori lungo i viottolini,orzo lungo i ruscelletti,lungo le lande, l’avena,gran trebbiato dentro i moggi,altro grano da trebbiare,centinaia già riscosse,altre cento da incassare.Spensierata me ne vennistolta, diedi la mia mano:si reggea la stanza soprasei puntelli, sette piuoli:eran pieni di miseriatutti i campi, e di durezza!i sentieri pien d’affannoed i boschi di mestizia,d’odio aperto pieni i moggi,

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altri pien d’odio celato;cento voci per gridare,altre cento da aspettare.Io però non ci badai,ma tentai d’esser stimata,sperai d’esser onorata,m’aspettai d’esser amata:nel portar fuoco al camino,nel raccogliere le schegge,nella porta urtai la fronteed il capo nella soglia:nella porta triste occhiate,nel camino sguardi cupi,occhi biechi dal piancito,pieni d’odio in fondo al muro:spruzzò fuoco dalla bocca,schizzò fiamme dalla linguadel malevolo padronee del suocer senza amore.Io però non ci badai,cercai vivere alla meglio,guadagnarmi sempre affettosottomessa ed ubbidiente:corsi con gambe di lepre,con le zampe d’ermellino,miserella, tardi a lettopoverina, presto alzata:ma non stima, non affettomi potei mai guadagnare,

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anche avessi i monti infranto,fatto a pezzi le scogliere.Vanamente la farinamacinavo con faticachè la suocera severase n’empisse l’aspra bocca,sulla tavola di pino,da scodella d’or fregiata:a me nuora miserellala farina della pietra;*la mia tavola, il caminoper cucchiaio, il romaiuolo.Spesso, sposa sventurata,nella casa del maritoportai muschi dal palude,come pan me li cuocei,bevvi al secchio dalla fonteper calmare la mia sete:sol allor mi toccò un pesceo le scaglie, poverina,quand’io stessa con la retelo pescai dalla barchetta:chè giammai non ebbi un pescedalla suocera, nemmenoche bastasse per un giornoo per una volta sola.Nell’estate il fien falciavo,nell’inverno il gran trebbiavocome un’altra giornaliera,

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come un servo prezzolato:sempre il suocero mi dava,dalla sauna mi portavail più grave correggiato,il pestello più pesante,il picchiotto più massiccio,il più grande dei forconi:non credevan mi stancassi,non che fossi rifinita,e degli uomini la forza,dei cavalli era finita.Così io, povera figlia,il lavoro feci in tempocon le spalle curve: quandovenìa l’ora del riposo,ecco, al fuoco ero dannata,in sua mano consegnata.*Poi spargevano calunniesu di me, senza ragione:sopra i miei buoni costumi,sul mio onore intemerato;e cadevan le parole,i discorsi maldicentisu di me, come faville,come grandine di ferro.Non avrei pur disperato,alla meglio avrei vissutoalla vecchia per aiuto,per compagna all’aspra bocca:

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ma ciò aggiunse male a male,fe’ il dolor più grande, quandosi fe’ lupo il mio maritosi cambiò il mio caro in orso,mi voltò le spalle a mensaed a letto ed al lavoro.Piansi allora per davvero,sola dentro la dispensa,altri giorni ricordando,altri tempi già passatinei cortili del mio babbo,nel podere della mamma.Presi allor così a parlare,presi a dire e a lamentare:«Seppe ben la mamma darevita a questa dolce melae far crescer questa pianta:non la seppe trapiantare:trapiantò la bella piantain terreno triste e duro,presso alle crude radicidi betulla; che piangessetutto il tempo di sua vita,lacrimasse ad ogni luna.Sarei stata certo degnad’una casa assai migliore,d’un cortile più disteso,d’un più ampio pavimento,d’un sostegno più robusto,

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d’un più florido marito;m’è toccato un fanfarone,mi son presa un ciabattone,un che ha il corpo di cornacchiae del corvo il naso, e boccadi vorace lupo, e presoha dall’orso il rimanente.Ne potevo un cosiffattoio trovar sulla collina;chè per strada avrei trovatoun fogliuto tronco d’olmo,gli avrei fatto il muso d’erbae la barba, borraccina,bocca, un sasso: testa, fango,occhi, due carboni ardenti,messo funghi per orecchi,piedi, un salce biforcuto».Mentre afflitta sì cantavo,mentre mesta sospiravo,il mio caro m’ha sentita,appoggiato alla parete;ei di là si mosse, e venneper la scala alla dispensa:e sentii che s’accostava,vidi che si avvicinava,si muovevan le sue chiomebenchè vento non soffiasse;con la bocca digrignante,torvi gli occhi, nelle mani

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ei tenea di sorbo un ramoe un bastone sotto il braccio:e con quello picchia, picchia,sulla testa me lo batte.Quando poi venne la sera,quando andò per coricarsipresso a sè mise una frusta,un frustin staccò dal chiodoe non già per conto d’altri,ma per me, la sfortunata.Ed io stessa andai, la sera,a distendermi, a dormire,stesa al fianco dello sposo:al suo fianco mi fe’ posto:ma mi urtò forte col braccio,mi picchiò con rozze mani,colla frusta, col frustinofatto d’osso di tricheco.Mi levai dal freddo fianco,da quel gelido giaciglio:dietro mi corse lo sposo,mi cacciò fuor della porta,mi afferrò per i capelli,con le mani li sconvolse:diè le chiome in preda al ventoin balìa della tempesta.Qual rimedio c’era mai,da chi prendere consiglio?scarpe mi feci d’acciaio,

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legai le stringhe di rame;così al muro mi appoggiaie nel viottolo badaise il malvagio si calmasse,se il crudele si quietasse:non cessò per un istantedal furore quel birbante.Alla fin mi prese il freddo,mentre via respinta erravoed al muro mi appoggiavo,alla porta dietro stavoe fra me così pensavo:«Più non posso sopportared’esser tanto maltrattatae sì a lungo disprezzataqui, fra la turba di Lempo,dentro il nido del demonio».Io lasciai le dolci stanzela dimora prediletta:derelitta, mi avviai,laghi e terre traversai,passai d’acqua lunghi trattifino al campo del fratello:sussurravan secchi pini,dicean larici fronzuti,gracidavan le cornacchie,cinguettavano le gazze:«Non è qui la casa tua,non il luogo ove sei nata».

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Pure, a questo non badai;nel cortile del fratellogià parlavano le porte,lamentavan tutti i campi:«Perchè tu venisti a casa,e che, misera, ad udire?Già da un pezzo il babbo è morto,la tua bella genitrice,il fratello è a te straniero,come Russa la sua moglie».Pure, a questo non badai,alla stanza m’accostai:al lucchetto la man misie la man lo sentì freddo.Alla stanza giunta, stettisull’estremo della soglia:era altera la padrona,non mi venne a salutare,non a porgermi la mano:ed altera ero pur io;nemmen io la salutai,nemmen io porsi la mano:nel camin le pietre fredde;al fornello la man porsi,i carboni erano freddi.Sulla panca il mio fratellostava steso, intorpidito:sulle spalle, scorie a teseed a spanne, sopra il corpo

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e di cenere un buon palmoegli aveva sopra il capo.Domandava alla stranierail fratello, all’arrivata:«Donde vieni qui, da lungi?»Ed io misera risposi:«Non conosci tua sorella,prima figlia di tua madre?d’una madre noi siam figli,da uno stesso augel covati,da una stessa oca allevati,nello stesso nido nati».Prese a piangere il fratello,e versar pianto dagli occhi:il fratel disse alla moglie,parlò piano alla diletta:«Fa’ che mangi la sorella».La cognata occhibeffardaportò un cavol di cucina:già ci avea mangiato il bracco,ed il cane tolto il sale,Musti fatto colazione.*Il fratel disse alla moglie,parlò piano alla diletta:«Porta all’ospite la birra!»La cognata occhibeffardaportò all’ospite dell’acquama nemmen dell’acqua pura:mani ed occhi avean lavati

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in quell’acqua i suoi cognati.Dal fratello mi staccai,da quel luogo ov’ero nata:presi, misera, ad errare,sempre più lontano a andare,a girar di riva in riva,ad errar di sponda in sponda,sempre a porte forestiere,sempre a soglie sconosciute;sulla sabbia i miei bambini,al villaggio i poverini.*Ora poi ci sono molti,molta gente spesso trovoche mi parlano aspramente,che mi dicon detti duri;ma non sono molti a dirmidi pietade una parola,molti che mi parlin dolce,che m’invitino alla stufa,quando vengo dalla pioggia,entro in casa infreddolitacon la veste tutta brina,tutta gelo la pelliccia.No, quand’ero giovanettanon avrei giammai creduto,me lo avesser cento detto,mille lingue ripetuto,che sarei giunta a tal punto,arrivata a giorni tali,

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quali i tristi dì son statiche su me sono piombati».

IL VENTESIMOQUARTO RUNO.

La fanciulla è già ammonita,consigliata la sposina;ora parlo al mio fratello,allo sposo così dico:

«Sposo caro, fratellino,dei fratelli a me più caro,dei figliuoli d’una mammae d’un babbo più diletto,ora senti quel ch’io dico,quel ch’io dico, quel ch’io parlo,sulla svelta tua fringuella,conquistata colombella.Loda, sposo, la tua sorte,questo ben che t’è toccato:alto loda, rendi grazieper il ben che hai ricevuto,per il ben da Dio concesso,dal Creatore grazïoso;devi il babbo ringraziareed ancora più la mamma

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che cullò tale fanciulla,ti serbò tale sposina.Pura hai al fianco una fanciulla,una sposa risplendente:è la bianca in tuo potere,la gentile a te affidata,hai la fresca sul tuo petto,la fiorente a te d’accanto:forte quando dee trebbiare,pronta il fieno per falciare,svelta gli abiti a lavare,vigorosa ad imbiancare,nel filare diligentee nel tessere paziente.La sua spola così cantaqual cuculo alla collina,la navetta va velocequal fra legna l’ermellinoed il pettin volge prestoqual scoiattolo la ghiaia;non toccò sonno profondonè al villaggio nè al castello,pel sussurro della spola,pel gridar della navetta.Sposo caro, giovinetto,tu degli uomini il più vago,fatti una falce tagliente,d’un buon manico fornita;nella soglia tu l’incastra

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e d’un albero sul tronco;in un dì di sole menasopra il prato la fanciulla:vedrai come il fieno casca,piomba giù l’erbetta dura,come cade sussurrandol’acetosa nel fruscìo:lo sparir dei monticelli,lo spezzar dei ramoscelli.Quando spunti un altro giorno,tu le porgi la navettae del pettine il battentee la trama del telaio;tieni pronto i bei pedali,tutta quanta l’orditura,al telaio la conducied il pettine le porgi:si udirà tosto il fruscìo,della spola il ticchetacche,suonerà fin dentro il borgoil brusìo della navetta.E le vecchie penseranno,le comari chiederanno:«Chi è che tesse sul telaio?»E convien che tu risponda:«La diletta del mio cuoretesse: è lei che fa rumore;il tessuto ha fatto groppo?forse al pettin ruppe un dente?»

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«Non fe’ groppo nel tessuto,nemmen ruppe al pettin denti:par tessuto l’abbia Lunao del Sole la figliuolao dell’Orsa la fanciullao la vergin della stella».Sposo caro, giovinetto,tu degli uomini il più vago!Quando in viaggio tu ti metta,quando lasci questo luogocon la sposa giovincella,con la tua colomba bella,guarda che questa fringuellanon avesse a batter controle rotaie della via,contro i limiti sporgenti,sopra un tronco sdrucciolare,sopra i sassi ruzzolare!Mai nelle case del babbo,nei poderi della mammaebbe a urtar nelle rotaie,contro i limiti sporgenti,sopra un tronco a sdrucciolare,sopra i sassi a ruzzolare.Sposo caro, giovinetto,tu degli uomini il più vago!non lasciar che la fanciulla,non voler che il tuo tesoroammuffisca in un cantuccio

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o s’angusti in fondo al muro.Prima, a casa del suo babbo,nelle stanze della mamma,non muffiva nei cantucci,s’angustiava in fondo al muro;stava sempre alla finestra,sgambettava sul piancitoper far lieto il babbo, a sera,sul mattin la cara mamma.E nemmen, povero sposo,non menar questa colombaal mortaio della fame*per pestare la cortecciao per cuocer pan di paglia,stritolar scorze di pino!Nè dal babbo o dalla mammala fanciulla fu menataal mortaio della famea pestare la corteccia,a impastare pan di paglia,a tritar scorze di pino.Ma conduci la fanciullasopra il colle del frumentoperchè segale raccolga,prenda dal moggio dell’orzo,perchè cuocia pane grosso,perchè conci buona birra,pane bianco ad impastareed il lievito a picchiare.

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Sposo caro, fratellinonon far sì che la colomba,che la nostra anatrellinaabbia lacrime a versare!Se venisse un’ora triste,s’annoiasse la fanciulla,il cavallo bruno attaccaalla slitta, o quello bianco:della mamma la riportaalle note stanze care!E nemmen questa colomba,questa nostra fringuellinadèi tenere a mo’ di serva,qual ragazza mercenaria:non vietarle la cantina,non le chiuder la dispensa!Non dal babbo la fanciullanon a casa della mamma,fu tenuta a mo’ di serva,qual ragazza mercenaria:non le chiuser la cantinae nemmeno la dispensa;tagliò sempre il pane bianco,badò all’uova di gallina,ai buglioli pien di latte,alle pinte della birra,la dispensa aprì al mattino,mise a sera il nottolino.Sposo caro, giovinetto,

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tu degli uomini il più vago!Se ben tratti la fanciullasarai bene ricevutodel tuo suocer nella casa,della suocera amorosa:da mangiare ti darannoe da bere ti offriranno;il cavallo staccheranno,nella stalla il meneranno,ber, mangiare lo farannoe l’avena gli daranno.E nemmeno devi direalla nostra fringuellinache non ha grande famigliao che bassa è la sua stirpe.Ha la nostra fanciullettagran famiglia ed alta stirpe:se tu un moggio di fagiuoliseminassi, oppor di lino,uno stelo nascerebbeper ciascun di sua famiglia.E nemmen, povero sposo,tu la devi maltrattare,ammonirla con la frustao con la cinghia di cuoio,farla pianger con la sferza,lamentare sotto il tetto!Non mai prima, da fanciullanella casa di suo padre,

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fu ammonita con la frustao con la cinghia di cuoio,fatta pianger con la sferza,lamentare sotto il tetto.Stàlle innanzi qual parete,come soglia la difendi:che tuo padre non la sgridiche tua madre non la picchi,non la offenda uno stranieronè la biasimi un vicino;se picchiarla ti consigliaaltra gente, o la famiglia,non picchiar la tua diletta,la gentile fanciulletta,lei, per tre anni aspettata,dolcemente sospirata!Ammaestra la fanciulla,da’ consigli alla melina:quando è a letto, la ammaestradietro l’uscio, la consigliae continua così un anno,per un anno con parole:nel secondo, con le occhiatee le pesta il piede il terzo.*Se di ciò non si curasse,non badasse ad ubbidire,una canna dal canneto prendi,un giunco dalla landae con quello la consiglia,

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la minaccia nel quart’anno,con il giunco la spaventa,con la punta d’equiseto:non la batter con la frusta,con la verga non ancora!Se di ciò non si curasse,nè ancor docile ubbidisse,una verga dal boschetto prendi,un ramo di betulla,tienlo sotto la pellicciache no ’l sappia un’altra casa:glie lo mostra, la minaccia,ma però non la colpire.Se di ciò non si curasse,non prendesse ad ubbidire,con il ramo di betullatu correggi la fanciulla,*ma però fra quattro mura,nella tua casa vetusta:non sul prato la castiga,non picchiarla in mezzo al campo,che il gridare dal villaggios’oda, oppur da un’altra casa,della giovin giunga il piantodal vicino o dentro il bosco!Sempre picchia sulle spalleed il dorso falle molle;ma non batter sopra gli occhinè colpire sugli orecchi;

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un tumor verrebbe in fronteed un livido fra gli occhi;chiederebbe la cognataed il suocer penserebbe,del villaggio gli aratoririderebbero, e le donne:«È costei stata alla guerra,s’è trovata nella mischiaod il lupo l’ha sbranata,l’orso del bosco aggranfiata?o ha costei per sposo un lupood un orso per compagno?»

C’era un vecchio sulla stufa,sul camino un vagabondo;dalla stufa disse il vecchio,dal camino il vagabondo;«Non seguir, povero sposo,mai l’umore della moglienè di allodola la linguacom’io feci, poveraccio!Comprai carne, comprai pane,comprai burro, comprai birra,comprai pesci d’ogni sortae svariati camangiarie comprai birra nostranae frumento forestiero.Ma non è questo bastatonè una buona m’è toccato;nella stanza quando entrava

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una furia somigliava,*con la faccia sfiguratae con gli occhi tutti torti;era sempre uno sbuffare,un sdegnoso e rio parlare:mi chiamava culogrosso,ciocco da spaccar le legna.Ma pensai nuovo ripiegoe ricorsi ad altro mezzo:taglio un ramo di betullae mi chiama il suo uccellino;prendo un ciuffo di ginepro,lei s’inchina al suo tesoro;se col sorbo poi la meno,lei mi abbraccia in un baleno».

La fanciulla già sospiragià sospira, già singhiozza;finalmente scoppia in piantoe così prende a parlare:«Il momento del distaccoè per altri già vicino:più vicin per me il distacco,più da presso la partenza;più vicin per me il distacco,più da presso la partenza;ben mi è grave separarmi,doloroso distaccarmidal villaggio rinomato,dalla mia bella dimora;

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dove crebbi rigogliosa,dove stetti prosperosatutto il tempo giovanile,di mia vita il dolce aprile.Non ho prima mai pensato,prima d’ora ho mai credutoche sarebbe alfin venutoil momento del distaccodal confin di questo colle,dal pendìo della collina.Or già vedo che è finita,or già credo al mio distacco:già vuotata, già bevutaè la birra del congedo:già la slitta è rivoltata,il timon verso la strada,guarda un lato la cascina,guarda l’altro vèr la stalla.Ed or come nel distacco,miserella, nel partirepago il latte di mia madre,la bontà del babbo mio,del fratel, della sorellale premure affettuose?Te ringrazio, genitore,per la vita che m’hai dato,per i pasti che ho mangiatoe per il boccon migliore.A te dico grazie, mamma,

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che da bimba m’hai cullata,da piccina preso in collo,col tuo seno nutricata.A voi pure grazie dico,fratellino, sorellinaed a tutta la famigliaed a tutti i miei compagnicon i quali son vissuta,giovinetta son cresciuta.Non volere, mio buon padree neppur tu, dolce mamma,non vogliate, voi parentidella nostra gran famiglia,rattristarvi, impensierirvio dolor grave sentireperch’io vado ad altre terre,perchè altrove volgo il piede!Brilla il sole del Creatore,chiara pur la luna splendee scintillano le stelle,su nel ciel s’allunga l’Orsaanche altrove, in altro spazio,anche lungi in altra terra,non soltanto alla dimoradove crebbi sino ad ora.Ed or lascio per davveroquesta cara casa d’oro,fatta ricca dal mio babbo,ospitale da mia madre:

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lascio il lago, la mia terra,la mia corte piena d’erba,il mio limpido laghettoe l’arena del mio lidoalle donne per bagnarsi,ai pastori per tuffarsi.Altri andranno pe ’l padule,solcheranno la mia terra,poseranno nei boschetti,gireranno per le lande,passeranno per le siepi,svolteran pe’ i viottoletti,correran lungo le cortio staranno presso al muro,laveranno il pavimento,spazzeranno l’impiantito;alle renne lascio il campo,alla lontra le foreste,lascio i boschi alle anatrellee i boschetti agli uccellini.Ora parto per davvero,con un altro me ne vadoqual d’autunno nella notte,qual sul ghiaccio a primaverache più traccia non si vedenè di slitta, nè di piedenè dell’abito la coccail nevischio pure tocca.*E se mai facessi un giorno

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alla casa mia ritorno,più la mamma la mia voce,più non sente il babbo il pianto,pianga io pur sulla lor fronte,sul lor capo mi lamenti;*già cresciuto è il giovin prato,gli arboscelli del gineprosopra il volto, sulle gotedi colei che m’ha portato.Quando io torni, un’altra voltaai cortili miei spaziosi,non mi riconoscerannoaltri, che queste due cose:il cappietto della siepeed il palo in fondo al campo:che da bimba l’ho piantato,da fanciulla l’ho annodato.Ed ancor la vecchia vaccach’io bambina abbeveravo,che giovenca governavo,muggirà, la bocca aperta,dietro il mucchio del concime,sopra i campi ancor nevosi:capirà forse costeiche son figlia della casa.Ed il decrepito cavallocui, bambina, il cibo davo,da fanciulla governavo,leverà alto un nitrito

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dietro il mucchio del concime,sopra i campi ancor nevosi:capirà forse costuiche son figlia della casa.Ed il cane vecchio vecchiocui, bambina, il cibo davoe fanciulla lo ammaestravo,un latrato farà udiredietro il mucchio del concime,sopra i campi ancor nevosi:capirà forse costuiche son figlia della casa.Gli altri, a casa ritornata,non mi riconoscerannoben che i luoghi dov’io vissie le spiagge sien le stesseed i golfi ove pescavo,dove le reti gettavo.Salve, cara camerettacol tuo tetto intavolato!buon sarà da te tornare,dolce quivi ripassare!Salve, caro porticatocol tuo fondo intavolato!buon sarà da te tornare,dolce quivi ripassare!Salve, caro cortilettocon i sorbi tuoi piantato!buon sarà da te tornare,

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dolce quivi ripassare!Salve a tutti voi che lascio,terre e campi con le bacche,viottoletti con i fiori,lande d’eriche coperte,laghi con cento isolette,golfi pien di lavareti,pini in vetta alle collinee betulle delle valli!»Ilmarinen fabbro alloraspinse lei dentro la slitta,il cavallo frustò forte,pronunziò queste parole:«Salve, spiagge del laghettosalve, limiti del campoe voi larici sul collee voi tutti, lunghi pini,viscioleto dietro casa,ginepreto alla fontana;salve, steli delle bacchesalve, o voi gambi di fienovoi, di vetrici radicisalve, scorze di betulle!»*

Ilmarinen fabbro allorase n’andò via da Pohjola:si raccolsero i ragazziper cantar queste parole:«È volato un nero uccelloquaggiù rapido dal bosco:

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ci ha rapito l’anatrella,tolto ci ha la bacca bella:prese la nostra melina,portò via la folaghina:con i soldi l’ha ingannata,con l’argento lusingata;ed or chi ci porta l’acqua,chi ci guida al ruscelletto?resteranno fermi i secchie la stanga appesa al chiodo,non spazzato il pavimento,il piancito non lavato,torbi gli orli del bicchieree gli orecchi della brocca!»

Ilmari fabbro, egli stessocon la sposa giovinettacorse via con gran fracassolungo le spiagge di Pohja,lungo gli stretti di Sima,le colline sabbïose:scricchiolavan le pietruzze,sulla via stridea la slitta,del collar gemea la cinghiae la cassa di betulla;cigolavano le stanghe,il bracciuolo sussurrava,fischiettavano le briglie,tintinnavano gli anelli

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nella corsa del cavallo,nel galoppo del pulledro.

Corse un giorno, corse un altro,corse ancora il terzo giorno;una mano nelle briglie,l’altra in seno alla fanciulla;con un pie’ fuor della slitta,l’altro sotto la pelliccia.

Col destrier correa la viafinchè al terzo giorno, mentrese ne andava sotto il sole,già del fabbro il tetto apparve,la sua casa, Ilma, si vide:s’alza prima come un nastro,poi si fa più fitto il fumo:turbinando, dalla stanzaalle nuvole s’innalza.

IL VENTESIMOQUINTO RUNO.

Già da un pezzo si aspettava,si aspettava, si guardavadel corteo nuzial l’arrivod’Ilmari fabbro alla casa:e dei vecchi goccian gli occhi

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mentre stanno alle finestre,e dei giovani i ginocchipiegan già presso le soglie;brucian dei fanciulli i piediappoggiati alle pareti,e degli uomini le scarpesi consuman sulla spiaggia.

Una certa mattinata,un bel giorno, un gran fracassosi sentì venir dal bosco,dalla landa un suon di slitta.

Lokka, la gentil signora,Kalevatar, bella donna,disse allor queste parole:«È la slitta di mio figlioche ritorna da Pohjolacon la sposa giovinetta».

«Vieni or verso queste terre,verso queste abitazioni,queste stanze fabbricateda tuo padre, ed arredate!»

Non appena Ilmari fabbrogiunge presso alla sua casa,ai cortili fabbricatidal suo babbo, ed arredati,tosto cantan le gallinesul collar di legno dolcee cinguettano i cuculisul timone variopinto,

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gli scoiattoli fan saltisopra l’acero dell’asse.

Lokka, la gentil signora,Kalevatar, bella donna,prese allor così a parlare,questi detti a pronunziare:

«Luna nuova dal villaggios’aspettava, o sol nascente:i bambini, fragolettel’acqua, barca incatramata;io la luna non aspetto,non aspetto punto il sole:aspettavo mio fratello,*mio fratello, la mia nuora:guardo a giorno, guardo a sera,ma non so che ne sia stato:se fa crescer la piccina,se la magra fa ingrassare:*chè no ’l vedo ritornarenon ostante la promessadi tornar, pria che freddatefosser l’orme che ha lasciate.*Sempre guardo alla mattina,sempre in mente l’ho al tramonto,se il rumore si sentissedella slitta del fratelloverso i piccoli cortili,verso le strette dimore:se il caval fosse di paglia

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e la slitta di due pezzipur direi ch’è la miglioredelle slitte del villaggio,se il fratello riportasse,il mio caro alle sue case.Lo sperai per lungo tempo,guardai tutto il santo giornocon la testa di traverso,con le trecce tutte tortee con gli occhi dilatati:sperai che il fratel venisseverso i piccoli cortili,verso le strette dimore:egli arriva finalmente,ei s’avanza, si avvicina:gli sta accanto un fresco volto,una guancia porporina.Stacca, sposo, fratel caro,il destrier stellato in fronte:alla nota sua lettieramena questo buon cavallo,lo conduci alla sua avena;poi ci porgi il tuo saluto,noi saluta insieme agli altri,al villaggio tutto quanto!Dopo fatti i tuoi salutile vicende tue ci narra,se il tuo viaggio è andato bene,se fu buona la salute:

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allorquando tu arrivastidei tuoi suoceri alla casa,la fanciulla guadagnasti,*l’ostil soglia tu spezzasti?del castello ov’era chiusaatterrasti la muraglia?sopra il ponte tu passasti,ti sedesti sulla panca?Già lo vedo, nè bisognonon ho più di domandare:il tuo viaggio fu felice,sempre buona la salute;l’anatrella guadagnasti,l’ostil soglia tu spezzasti,il castello hai tu espugnato,la parete giù buttatoe dei suoceri sei giuntonella casa, al loro fianco:or la folaga proteggi,l’anatrella tieni in seno,la fanciulla pura al fianco,la gentile in tuo potere.Chi portò questa menzogna,chi la triste nuova, che losposo torni a mani vuote,che il cavallo invano corse?Non lo sposo a mani vuote,non invan corse il cavallo;egli scuote la criniera,

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qualche cosa ci ha portato:di sudor tutto bagnatoe di schiuma, il buon destrieroportò qui la colombella,questa florida donzella.Scendi or, bella, dalla slitta,caro dono, dal sedile:senza ch’egli ti sollevi,senza che ti prenda in collo:troppo è giovan per alzarti,troppo altero per levarti.Poi discesa dal sedile,messo il pie’ giù dalla slitta,va’ per il sentiero bruno,lungo la strada rossicciache i maiali hanno spianato,che hanno i porci calpestatoe le pecore e i cavallicon la coda hanno spazzato.*Va’ col passo di anatrella,con i piè della colombaalle corti ripulite,agli spiazzi ben tenuti,ai cortili fabbricatidai tuoi suoceri, e arredati:dove il tornio ha il tuo fratello,la sorella, il praticello.Metti il piede sulla scala,sul vestibolo lucente,

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fatti innanzi sulla soglia,entra poi dentro la stanza,sotto il trave rinomato,sotto il tetto celebrato!

Già per tutto questo inverno,già nell’estate passatascricchiolava il pavimentoper chiamarti a calpestarlo:brontolava il tetto d’oroperchè sotto ci venissi:e gioivan le finestrechè sedessi presso a loro.

Già per tutto questo inverno,già nell’estate passata,sospirava il saliscendila tua mano inanellata:si piegavano le sogliepe ’l desio della tua vestee si aprivano le porteaspettando tu le aprissi.

Già per tutto questo inverno,già nell’estate passata,si voltava la stanzettaverso chi dovea pulirla:il vestibol si scuotevaaspettando chi il lavasse:il granaio sospiravala tua man, che lo spazzasse.

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Già per tutto quest’inverno,già nell’estate passata,il cortile s’inchinavaper offrirti i trucioletti,la dispensa si abbassavaperchè tu la visitassi,s’incurvavano le travidella sposa per le vesti.

Già per tutto questo inverno,già nell’estate passata,sospirava il viottolettoperchè il pie’ tu vi ponessi:il porcile s’accostavaalla man che il cibo dava:e le stalle, sui tuoi passi,perchè tu le governassi.

E per tutto questo giornoe nel giorno già passatoal mattin muggì la vaccaaspettando da te l’erba:ha nitrito la giumentaaspettando da te il fienoe ha belato l’agnellinoper un meglio bocconcino.

E per tutto questo giornoe nel giorno già passatostavan vecchi alle finestre,correan bimbi sulla spiaggia,donne accosto alle pareti

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e ragazzi sulle soglieaspettando la sposina,la vezzosa mogliettina.

Salve a te, recinto pieno,porticato pien di forti!salve a te, ricco granaio,salve a quelli ch’hai ospitato,salve all’atrio con sua genteed al tetto di betulla!salve a te, stanzetta, ai bimbisul piancito tuo seduti;salve, o luna; rege, salve,*giovin schiera nuziale!Non ci fu qui prima mai,non c’è stata un’altra voltauna schiera così lunga,un corteggio così bello!Sposo caro, fratellino,alza la pezzuola rossa,togli la rete di setache la martora vediamoche per cinque anni hai cercato,per ott’anni contemplato!Hai portato chi volevi?tu volevi un cuculino,una bianca d’altra terra,una florida dal mare.Già io vedo, nè bisognonon ho più di domandare:

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sei tornato col cuculo,con in braccio l’anatrella,col più verde ramoscellodel boschetto verdeggiante,col più florido germoglioche sul visciolo spuntasse».

C’era un bimbo sul piancito,dal piancito cantò il bimbo:«Poveraccio, che hai portato!*ha d’un ciocco la bellezza,d’una botte la larghezzae d’un aspo la lunghezza!Guarda, sposo miserello,t’eri sempre ripromessodi pigliarti una ragazzache valesse cento e mille:ti sei preso un bel camorroda valere cento e mille:del palude una cornacchia,una gazza della siepe,del podere lo spauracchio,della polve il nero uccello!Cosa ha fatto in vita sua,cosa l’estate passatase non ha cucito un guanto,avviato un calzerotto?è venuta a mani vuote,non pe ’l suocero un regalo!

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corron sorci nel suo sacco,nella cesta a orecchi ritti».

Lokka, la gentil signora,Kalevatar, bella donna,poichè udì la strana storia,pronunziò queste parole:«Cos’hai detto, ragazzaccio,cosa ciarli, svergognato?d’altri male si può udire,vituperi d’altri dire;non di questa fanciullettanè di questa gente eletta.Tristi detti hai pronunziato,con la bocca tu hai parlatod’un vitello d’una notte,d’un canino d’un sol giorno:*buona sposa gli è toccata,la migliore di sua terra:bacca par mezzo matura,pare fragola sul colleo sull’albero cuculo,uccellino sopra il sorbo,qual pennuto su betulla,fra il fogliame rondinella.In Germania non avresti,nè in Estonia ritrovatocosì vaga una donzella,sì gentile folaghella,di così bella statura,

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di così nobil figura,con le braccia così bianche,così florida nell’anche.*No, non venne a mani vuote:chè pellicce ci ha portato;ha per noi delle coperteed ancora dei tessuti.Molto già questa fanciullaha filato col suo fuso:tessè molto la sua spola,cucì molto con le dita:molti candidi tessutinell’inverno ha apparecchiati,li ha imbiancati a primavera,nell’estate li ha asciugati;lunghi solidi lenzuoli,bei guanciali rilevati,nastri poi di seta e fascee di lana le coperte.Buona e bella donnettina,fresca e florida donzella,eri molto rinomatanelle case di tuo padre;fama avrai, finchè tu viva,dal marito, come nuora.Non c’è da pensare tantonè da affliggerti cotanto!non ti portan nel pantano,non ti menan nel torrente:

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tu da un fertile poggettoa un più fertil sei portata:dalle stanze della birradove c’è più birra, vai.*Ragazzina buona e bella,questo solo ti domando:nel venir quaggiù vedestigrano bene ammonticchiatoe d’avena collinette?Tutta roba della casa,tutta roba seminatadal tuo sposo e coltivata.Giovincella, ragazzina,ora questo ti vo’ dire:tu sapesti qui venire,ora sappici restare:ben sta qui la mogliettina,ben ci può la nuora stare:il bugliol del latte avraied al burro baderai.Qui sta bene la donzella,vien su bene l’anatrella;larghi nella sauna i letti,ampi i banchi nella stanza;il padron ti fa da babboe da mamma la padrona:sono i figli a te fratellie sorelle le figliuole.Se mai ti venisse voglia,

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se sentissi desiderio*di mangiar pesci del babboe pernici del fratello,non le chiedere al cognato,non il suocero ne prega;allo sposo ti rivolgia lui che qui t’ha portato.Non v’è dentro la forestaanimale a quattro zampe,non v’è uccello su nell’ariache si libri con le penne,e nemmeno dentro l’acquafrotta di natanti pesci,ch’ei per te prender non sappia,ch’ei non sappia procurarti.Qui sta bene la donzella,vien su bene l’anatrella:non a mano macinare,nel mortaio non pestare:l’acqua macina il frumentoe la segale il torrente:l’onda lava il vasellameed il mare lo risciacqua.Oh villaggio prediletto,terra di tutte migliore!sotto, prati; sopra, campie fra gli uni e gli altri il borgo;sotto il borgo, il caro lido;lungo il lido, la bell’acqua

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dove l’anatra a bagnarsiva, e la folaga a tuffarsi».

Alla folla degli invitati è offerto da mangiare e da bere in abbondanza. Väinämöinen canta e ringrazia il padrone, la massaia, il compare, la comare e gli altri del corteo (383-672). Nel ritornare dalle nozze a Väinä-möinen si spezza la slitta; la riaccomoda e torna a casa (673-738).

IL VENTESIMOSESTO RUNO.

Lemminkäinen, offeso di non essere stato invitato alle nozze, decide nonostante di recarsi a Pohjola, senza ba-dare alla madre che glie lo vieta e lo avverte dei molti rischi mortali che incontrerà per via (1-382). Si mette in viaggio, e grazie alla sua magia scampa felicemente da tutti i pericoli di morte (383-776).

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IL VENTESIMOSETTIMO RUNO.

Giunto a Pohjola, Lemminkäinen mostra in vari modi la sua arroganza (1-204). Il signore di Pohjola va in collera e non potendo vincere Lemminkäinen nelle stre-gonerie, lo sfida a combattere con la spada (205-282). Nel duello Lemminkäinen taglia il capo al signore di Pohjola; per vendicarlo, la signora di Pohjola raduna i guerrieri contro Lemminkäinen (283-420).

IL VENTESIMOTTAVO RUNO.

Lemminkäinen fugge in fretta da Pohjola e giunto a casa domanda alla madre dove potrebbe nascondersi alla gente di Pohjola, che tutti insieme stanno per assa-lire lui solo soletto (1-164). La madre lo rimprovera di essere andato a Pohjola, gli propone questo e quel na-scondiglio e alla fine lo consiglia di recarsi in un isolot-to al di là di molti mari, dove una volta anche il padre di lui passò giorni tranquilli durante una guerra (165-294).

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IL VENTESIMONONO RUNO.

Lemminkäinen l’incostante,il leggiadro Kaukomieli,prese seco le provviste,prese il burro dell’estate:burro, e carne di suino,da mangiare un anno, un’altro;partì poi per rimpiattarsi,si affrettò nel suo cammino;nell’andare così disse:«Me ne vado, me ne fuggo,per tre estati vado via,fuggo per cinque anni intieri:lascio ai vermi il suolo, il boscolascio ai linci per riposo,alle renne il campo, all’ocheil boschetto per vagare.Addio dunque, cara mamma!quando il popolo di Pohjaqui verrà, la lunga schierala mia testa a domandare,dirai lor che son partito,che ho lasciato questi luoghi,dopo avere dissodatoquesto bosco pria tagliato».

Il battello spinse in acqua,calò in mare la barchetta

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giù dai rulli ben ramati,dai parati rinforzati.

Mette all’albero le vele,sull’antenna le distende:egli stesso a poppa siede,il timone in mano prende,stringe il remo di betullae s’appoggia alla pagaia.

Disse poi queste parole,pronunziò questo scongiuro:«Soffia, vento, nella vela,venticel di primavera,muovi la barca di legno,il battel di pino spingiverso l’isola ignorata,vèr la punta senza nome!»

Culla l’onda la barchetta,la risacca la sospingesopra l’acque trasparenti,sull’aperta superficie:per due lune il mar lo spinge,quasi ancor la terza luna.Stan sedute le fanciullesull’azzurro promontorio:gettan sguardi senza posaguardan sull’azzurro marel’una aspetta il suo fratello,l’altra il babbo che ritorni:

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ha lo sguardo di più ansiosoquella che aspetta lo sposo.

Kauko fu da lungi scorto,presto vista la sua barca:pare nube piccolinalà fra il cielo e la marina.

Le donzelle di Saari*prima pensan, dicon poi:«Vedi in mare strana cosa,strano oggetto sopra l’onde!se sei nave delle nostre,barca a vela di Saari,allor drizza qua la prora,al cantier del nostro lido,che sentiamo le notiziedelle terre forestiere,se la gente delle spiaggevive in pace oppure in guerra».

Fa volar la vela il vento,spinge l’onda la barchetta;presto il vispo Lemminkäinens’avvicina all’isolotto,presto approda al promontorio,sulla punta dello scoglio.

E domanda, appena giunto,così dice, mentre approda:«C’è quaggiù nell’isolottoun pezzetto di terreno

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da tirar la barca in secco,il battello sulla spiaggia?»

Le donzelle di Saaria lui disser di rimando:«Certo c’è nell’isolottoun pezzetto di terrenoda tirar la barca in secco,il battello sulla spiaggia:ci son ottimi paratie di rulli è pieno il lido:abbastanza, anche se avessiteco cento o mille barche».

Quindi il vispo Lemminkäinenarenò la barca al lido,la fe’ scorrer sopra i rulli,disse poi queste parole:«C’è quaggiù nell’isolottoun pezzetto di terrenoper nascondere l’omino,per celare il debolinodal tumulto della guerra,dalla mischia delle spade?»

Le donzelle di Saaria lui disser di rimando:«Certo c’è nell’isolottoun pezzetto di terrenoper nascondere l’omino,per celare il debolino:qui ci son molti castelli,

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molte nobili dimoreda bastare a cento eroi,anche ne venisser mille».

Quindi il vispo Lemminkäinenseguitò così a parlare:«C’è quaggiù nell’isolottoun pezzetto di terreno,un boschetto di betulleo magari d’altre piantech’io potessi giù buttaree poi bene dissodare?»

Le donzelle di Saaria lui disser di rimando:«No, non c’è nell’isolottoun pezzetto di terreno,nemmen quanto la tua spalla,nemmen grande nove moggi,che tu abbattere potessie poi bene dissodare:il terren tutto è diviso,son spartiti tutti i campi,tutti i boschi aggiudicati,tutti i prati già assegnati».

Disse il vispo Lemminkäinen,chiese allora Kaukomieli:«C’è quaggiù nell’isolottoun pezzetto di terrenoper cantar le mie canzoni,sdipanare i lunghi versi?

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mi si strugge il verso in bocca,cresce su dalle gengive».*

Le donzelle di Saaria lui disser di rimando:«Certo c’è nell’isolottoun pezzetto di terrenoper cantar le tue canzoni,sdipanare i buoni versi:hai boschetti per scherzareed hai prati per danzare».

Quindi il vispo Lemminkäinencantò canti di magia:cantò sorbi nei cortili,cantò querci fra le stalle,rami lisci sulle quercied un pomo ad ogni ramo,ogni pomo, un globo d’oro:ogni globo, un cucul d’oro:se gorgheggia quel cuculo,oro cola dalla linguae dal becco spruzza ramee fa piovere l’argentosulla vetta d’oro ornata,la collina inargentata.

Cantò ancora Lemminkäinenaltri canti di magia:le pietruzze cantò in perle,in brillanti i sassolini;

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ogni pianta, rosseggiante;ogni fiore, color d’oro.

Cantò ancora Lemminkäinenuna fonte nel recinto:un coperchio avea, dorato,brocca d’oro sul coperchio,che ci beva il giovanetto,la ragazza gli occhi lavi.

Cantò laghi alla pianura,e nei laghi anatre azzurre:fronte d’or, d’argento il capoe le zampe tutte rame.

Si stupivan le donzelle,meraviglia le prendevadel cantar di Lemminkäinen,del suo magico potere.

Disse il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli:«Buoni versi io canterei,liete più direi canzoni,se sedessi sotto un tetto,alla fin di lungo desco:se una stanza non mi s’offre,non c’è pronto un pavimento,le parole getto al bosco,porto i versi nel cespuglio».

E pensaron le donzelle,gli parlaron in tal modo:«Stanze abbiam, che tu ci venga

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e dimore, che ci stiache non abbiano a soffrireper il freddo le parole».

Ed il vispo Lemminkäinennon appena nella stanza,di bicchier cantò una filasulla tavola di pino:li cantò pieni di birra,brocche piene di idromele,piatti pieni da crepare,tazze colme fino all’orlo:c’era birra nei bicchieri,idromele nelle brocche,burro pronto in abbondanza,anche carne di maiale,che mangiasse Lemminkäinen,Kaukomieli si saziasse.

Però Kauko è molto finenè a mangiar comincerebbese non ha coltel d’argentocon la lama d’oro ornata.

E d’argento ebbe un coltello,gli cantò d’oro la lama:mangiò allor quanto gli piacque,bevve birra quanta volle.

Quindi il vispo Lemminkäinenpasseggiò lungo i villaggifra le liete donzellette,fra le belle altochiomate;

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dove il capo egli voltava,tosto un bacio si pigliava;dove la mano porgeva,una man la sua stringeva.

Sempre a notte in giro andava,negli oscuri nascondigli:nè colà c’era villaggioche non abbia dieci case:nè colà c’era una casa,che non abbia dieci figlie:e non c’era una ragazzala figliuola d’una madre,al cui fianco non dormisse,il cui braccio non stancasse.

Ei dormì con mille sposee con cento vedovelle:non ve n’eran due su dieci,non ve n’eran tre su centodi fanciulle non sedotteo di vedove non tocche.

Così il vispo Lemminkäinenvisse placido e contentoper lo spazio di tre estatinei villaggi di Saari,a delizia di fanciulle,d’ogni vedova ad incanto:lasciò solo senza gioiauna vecchia zitellona,

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sull’estremo della punta,dentro il decimo villaggio.

Già il pensier volgeva al viaggio,a partir pe ’l suo paese:da lui venne la zitella,gli rivolse la parola:«Kauko, tu che sei sì bello,se di me non ti ricordi,vo’ che contro una scoglierasi frantumi la tua barca».

Ma non pria che canti il gallosi levò, che la gallina:che gioisse la zitella,quella povera donzella.*

Finalmente un certo giorno,una sera, si promisedi saltar dal letto primadella luna e pria del gallo.

Si levò pria del fissato,pria dell’ora stabilitae in cammin tosto si mise,s’avviò per i villaggiper portar la gioia a quellavecchia povera zitella.

Nell’andar di notte, solo,nel passar per i villaggiverso il lungo promontorio,verso il decimo villaggio,ei non scorge alcuna casa

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dove non sieno tre stanze:ei non vede alcuna stanzadove non sieno tre eroi:ei non vede alcun eroeche la spada non affili,che la scure non arruotiper tagliar di Kauko il capo.

E l’allegro Lemminkäinenpronunziò queste parole:«Il gran giorno s’è levatoed il caro sole sorgesopra il capo a me infelice,sopra il povero mio collo!Forse Lempo può coprirequell’eroe con le sue vestie nasconderlo col mantoo celarlo colla cappa,quando lo minaccian centoe lo inseguon mille eroi».

Non pensava ora alle amanti,a cercare abbracciamenti:ma al cantier correa veloce,alla povera barchetta:era già bruciata tutta,era in cenere ridotta.

Già sentì che s’appressavala sventura, il dì funesto:altra barca prese a fare,una nuova ad intagliare.

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Manca il legno all’artigiano,mancan l’assi al costruttore:trovò un legno piccolino,trovò un asse assai piccino,cinque schegge d’una spolae d’un fuso sei frammenti.

Fe’ con quelli la barchetta,intagliò la nuova nave:la compì con gli scongiuri,con parole di magìa;diede un colpo, fece un fianco,l’altro fianco a un altro colpo,picchiò per la terza voltae la barca era già pronta.

Spinse già la barca in acqua,il battello in mezzo all’onde:disse poi queste parole,pronunziò questo scongiuro:«Come bolla va’ sull’acquacome loto lieve all’onda!dammi, aquila, tre pennee tu dammene due, corvo,per sostegno alla barchetta,per rinforzo de’ suoi bordi!»

Si sdraiò nella barchetta,si sedè nel fondo, a poppa,triste, con la testa bassa,col cappuccio di traverso:chè non più potea passare

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liete notti, nè il dì starefra la gioia, fra le danzedelle donne altochiomate.

Disse il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli:«Deve andarsene il ragazzo,dee partir da questi luoghi,dal gioir delle donzelle,dalla danza delle belle:ma però, mentre me ’n vado,mentre lascio questa terra,se ne va pur la letiziadelle donne altochiomate:restan tristi nelle stanze,solitarie nei recinti».Ma già sopra al promontoriolamentavan le donzelle:«Perchè parti, Lemminkäinen,t’allontani, onor dei forti?perchè caste le fanciulleo perchè poche le donne?»Disse il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli:«Non perchè son caste o pochele fanciulle o donne io parto:potrei avere cento donnee sedur mille fanciulle;me ne vado, m’allontanoio che dite onor dei forti,

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perchè gran desìo mi presedi tornare alle mie terre,delle bacche del mio campo,de’ lamponi del mio colle,delle donne nel mio lidoe dei galli del mio tetto».

Quindi il vispo Lemminkäinenil battello spinse al largo:venne il vento, soffiò forte,venne l’onda, lo sospinsesopra il mar dal dorso azzurro,sull’aperta superficie:sulla spiaggia, le tapinefra gli scogli, le gentililamentavan, le isolanee piangevan, le carine.

Tanto a lungo pianser quelle,lamentaron le donzelle,finchè l’albero si videe l’anello della scotta:non per l’alber della barca,non piangevan per l’anello:per chi sotto l’alber stava,per chi la scotta mollava.

Lemminkäinen stesso piansee si afflisse tanto a lungo,finchè in vista l’isolottogli rimase e le sue vette:non per l’isola piangeva,

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e nemmen per le colline;rimpiangeva le donzelle,di quei monti le anatrelle.

Quindi il vispo Lemminkäinenveleggiò pe’ l mare azzurro:corse un giorno, corse un’altro,ma venuto il terzo giorno,prese il vento a soffiar forte,rimbombò l’orlo del cielo,soffiò il vento da maestro,da grecale poderoso:ruppe un fianco, ruppe un altro,rovesciò tutta la barca.

Ed il vispo Lemminkäinenpiombò in mare con le mani,come remi ebbe le ditaed i piedi per timone.

Per un giorno ed una notteei nuotò quanto poteva:vide nube piccioletta,come un nastro vèr maestro,si cambiò la nube in terra,si mostrò qual promontorio.

Una casa sulla punta:presso al forno la massaia,le figliuole, ad impastare.«Oh massaia premurosa,se vedessi la mia fame,se capissi il mio bisogno,

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correresti alla dispensa,come vento alla cantina,torneresti con la birra,con un pezzo di maiale,tosto cuocer lo faresticon un po’ di burro sopra,che mangiasse l’uomo stanco,che bevesse il nuotatore:ho nuotato notte e giornodell’aperto mar sull’onde:era il vento il mio sostegno,eran l’onde il mio rifugio».

La massaia premurosatosto andò nella dispensae tagliato un po’ di burroed un pezzo di maiale,tosto cuocere lo feceche mangiasse l’affamato:portò poi di birra un gottoche bevesse il nuotatore:poi gli diede nuova barca, un battello tutto pronto,perchè andasse ad altre terre,ritornasse a casa sua.

Giunto il vispo Lemminkäinenalla terra sua natìa,riconobbe quelle spiagge,vide l’isole e gli stretti,i cantieri e gli altri luoghi

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dove prima avea vissuto:le colline coi lor pinie coi larici le vette:ma non vide più la stanza,non più sorger le pareti:dove prima era la stanza,mormorava un viscioleto;sorgea in cima una pineta,presso al ponte un ginepreto.

Disse il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli:«Ecco il bosco ov’io giocavoe le rocce che saltavo;ecco i prati ed ecco i campidove pria mi rotolavo;chi mi tolse la dimora,portò via la stanza cara?la bruciaron; ed il ventoha le ceneri disperso».

Prese allora a lacrimare,pianse un giorno, pianse un altro:non piangeva per la stanzae nemmen per la dispensa:ma piangeva quella caranella stanza e la dispensa.

Un augel vide volare,vide un’aquila aggirarsie la prese a interrogare:«Aquilotto, uccello caro,

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mi potresti forse diredov’è andata la mia mamma,la mia bella genitrice,quella che vita mi diede?»

Niente l’aquila ricorda,nulla sa lo stolto uccello:la credea l’aquila mortaed il corvo già perita,forse dalla spada colta,forse da scure ferita.

Disse il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli:«O mia bella genitrice,cara, che vita mi desti!sei già morta, mia nutrice,cara madre, tu partisti!la tua carne è fatta terra,pini crescon sul tuo capo,crescon vetrici e gineprisopra i piedi, fra le dita.Dunque invano, sventurato,vanamente, disgraziato,la mia spada ho misurato,le bell’armi ho cimentatonei recinti di Pohjolae sul pian di Pimentola,per rovina di mia stirpe,per la morte di mia madre».

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Guarda in giro da ogni parte:orme vede al suolo, lievigià dall’erba soffocate,dagli sterpi cancellate:su quell’orme egli si mette,cerca dove van dirette:dentro un bosco l’orme vanno,a lui guida i passi fanno.

Andò allora un miglio, un altro:corse ancora un piccol trattodentro la foresta folta,nella selva desolata:là celata una stanzettavide, un tetto piccolinodentro il cavo di due rocce,al riparo di tre pini:stava là la cara mamma,la sua vecchia genitrice.

Ed il vispo Lemminkäinenne sentì profonda gioia:la sua voce fece udire,pronunziò queste parole:«Oh diletta madre miache la vita m’hai donata!ancor viva ti ritrovo,ancor desta in tua vecchiaia,mentre morta ti credevoe perduta a me per sempreod uccisa con la spada

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o trafitta con la lancia:gonfiai gli occhi per il pianto,torsi il viso nel dolore».

Gli rispose allor la madre:«Vivo ancora, certamente,chè dovei prender la fugae cercarmi un nascondigliodentro la foresta folta,nella selva desolata:chè cercava Pohja guerra,le lontane schiere lottacontro te, misero figlio,contro il figlio sventurato:e la casa fu bruciataed in cenere ridotta».

Disse il vispo Lemminkäinen:«Madre, tu che m’hai portato,non pensare punto a questo,non curartene nemmeno:nuove stanze posso farti,costruirtene migliori;posso a Pohja portar guerrae distrugger quella gente».

Di Lemminkäinen la madredisse allor queste parole:«Lungo tempo, figlio mio,sei rimasto, sei vissutonelle terre forestieree fra quelle ignote porte,

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sulla punta senza nome,l’isolotto sconosciuto».

Disse il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli:«Era là la vita bella,era dolce il tempo, e lieto:rossi gli alberi di gemmeed azzurro il suol di fiori:rami il pino avea d’argento,fiori d’oro la brughiera;tutta miele una collina,rupi d’uova di gallina:mosto goccia dagli abetied i cembri stillan latte,trovi burro in ogni canto,spilli birra da ogni palo.Era là la vita bella,era dolce il tempo e lieto:una cosa sol guastava,un impiccio mi turbava:chè temean per le ragazze,per le donne buone a nulla:che le stolte bamboccione,le maligne chiacchieronenon avessi a maltrattaree con lor la notte stare:io che sempre sto celatodalle donne e le ragazze,

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come il lupo dai maiali,lo sparviero dai piccioni».

IL TRENTESIMO RUNO.

Lemminkäinen parte in guerra contro Pohjola col suo antico compagno d’armi Tiera (1-122). La signora di Pohjola manda loro contro l’aspro gelo, che impri-giona fra i ghiacci la loro barca, e avrebbe anche gela-to i due eroi, se Lemminkäinen con efficaci scongiuri ed esorcismi non lo avesse indotto a desistere (123-316). Lemminkäinen e il suo compagno vanno sul ghiaccio lungo la riva, errano lungamente e in grande miseria, attraverso luoghi solitari e squallidi, finchè ritornano al loro paese.

IL TRENTESIMOPRIMO RUNO.

Allevò la mamma schieree di cigni e di colombi:

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i colombi nel recintoe nel fiume pose, i cigni;li cacciò l’aquila a volo,venne il nibbio, li dispersed’ogni parte il volatore:in Carelia il primo spinse,il secondo guidò in Russiaed il terzo lasciò a casa.

Quel che in Russia avea guidato,un mercante poi divenne:quel che spinto avea in Careliacrebbe, e nome ebbe Kalervo:quel che a casa avea lasciatofu Untamoinen, concepitoper dar tristi giorni al padre,afflizione per la madre.

Le sue reti gettò Untamodentro l’acque di Kalervo;guardò Kalervo le reti,mise i pesci nelle ceste;ed Untamo impetuosos’adirò pieno di sdegno:con le dita ei fe’ guerrieri,con il palmo combattenti,*per le viscere dei pesci,per le perche aspra contesa;aspra lotta, aspra contesa,ma nessuno vincitore:

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ogni colpo che uno dava,l’altro tosto il ricambiava.

Ecco, la seconda volta,dopo due, dopo tre giorni,seminò Kalervo avenadietro la casa d’Untamo.

La procace capra d’Unto*mangiò l’erba di Kalervo;di Kalervo il can ringhiosodilaniò la capra d’Unto.

Aspre Untamo fe’ minaccecontro Kalervo, il fratello:d’ammazzare la sua stirpe,grandi e piccoli colpire,sterminar tutta la schiattae le case incenerire.

Per incanto fece armaticon la spada al fianco e fecegiovanetti con le lancee fanciulle con le falci:*partì poi per la gran guerracontro il suo proprio fratello.

Di costui la bella nuorastava presso alla finestra:mentre fuori essa guardavaquesti detti pronunziava:«Forse è quello un fumo fittooppur nube tenebrosa

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nell’estremo di quel campo,al confine del sentiero?»

Ma non era nebbia oscurae nemmeno fumo fitto:eran quei gli eroi d’Untamoche movevano a battaglia.

Giunser d’Untamo i guerriericon la spada alla cinturaed uccisero le gentie la stirpe di Kalervo;fu bruciata la sua casa,rasa al suolo, incenerita.

Sol rimase una fanciulladi Kalervo, ed era incinta:quella trassero d’Untamoi guerrieri alle lor case,la stanzetta a spolverare,a spazzare il pavimento.

Poco tempo era passatoquando nacque un bambinelloalla madre sventurata.Quale nome adunque dargli?Essa, lo chiamò Kullervo,ed Untamo, Sotijalo.*

Fu posato il bambinello,coricato l’orfanellonella culla per cullarlo,nella zana a dondolarlo.

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Si agitava nella culla,svolazzavano i capelli:e si mosse un giorno, un altro;ma venuto il terzo giorno,il bambino dava calci,dava calci, si stiravae le fasce lacerava,via gettava la coperta,rompea il legno della cullae stracciava tutti i cenci.

Avea l’aria d’esser forte,di valente diventare:Untamola s’aspettavache sarebbe poi cresciutogiudizioso, coraggioso,un guerriero, un bravo servoda valer cento monete,da valerne forse mille.

Crebbe due mesi, tre mesi:il bambino al terzo mese(al ginocchio egli arrivava)cominciò da sè a pensare:

«Quand’io cresca, quando fortisi faranno le mie membra,vendicar voglio mio padreed i pianti di mia madre».

Untamoinen che l’udivadisse allor queste parole:

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«Da lui eccidio alla mia stirpe,in lui Kalervo risorge».

Rifletterono i guerrieri,meditarono le vecchiedove metter si potesse,in qual modo far morire.

Viene messo in un barile,vien ficcato in un botte,vien gettato poi nell’acqua,vien buttato in mezzo all’onde.

Ecco, poi vanno a vederedopo due, dopo tre nottise nell’acqua sia annegato,nel barile se sia morto.

Il ragazzo nè annegato,nè era morto nel barile:dal barile era sbucato,là sedeva in mezzo ai flutti:una canna in man tenevacon in cima un fil di setae del mar pescava i pesci,del mar l’acqua misurava:è quell’acqua sufficientead empir due romaioli,e se ben si misurasse,basterebbe per un terzo.*

Ed Untamo pensò allora:«Dove mettere il ragazzo,

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come fare ad ammazzarlo,chi potrebbe trucidarlo?»

Disse a’ servi: «Raccoglietedure legna di betulla,coi lor cento rami abetiimpregnati di catrame,quel ragazzo per bruciare,per Kullervo sterminare».

A cataste ecco raccoltedure legna di betulla,coi lor cento rami abetiimpregnati di catramee di scorza mille slittee di frassin cento braccia:ecco, il fuoco vi s’appicca,la catasta viene accesa:poi buttarono il ragazzodentro il fuoco divampante.

Bruciò un giorno, poscia un’altro,bruciò ancora un terzo giornoe poi vennero a vedere:nella cener coi ginocchi,nelle scorie stava il bimboe teneva in man le molleed il fuoco ci attizzava,i carboni ci ammucchiava,senza aver perduto un pello,senza un ricciolo bruciato.

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Il dispetto prese Untamo:«Dove mettere il ragazzo,come fare ad ammazzarlo,in che modo sterminarlo?»

Ad un albero sospeso,a una quercia fu impiccato.

Passan due, passan tre notti,passan altrettanti giorni:ed Untamo pensa allora:«Ora è tempo di vederese Kullervo è già perito,se è spirato sulla forca».

Mandò il servo per guardare;portò il servo la risposta:«Non è morto, no, Kullervo,non spirato è sulla forca:egli incide la cortecciacon in mano un punteruoloe la quercia è tutta pienadi disegni e di figure:dei guerrieri, delle spade,delle lance da una parte».

Che soccorre ad Untamoinencontro quel bimbo maligno?Quale morte ei preparava,quale strage apparecchiava,nella bocca della mortemai Kullervo capitava.

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E stancarsi dovè alfinenè più morte apparecchiare:allevar dovè Kullervocome un figlio, benchè servo.

Disse Untamo in questo modo,gli rivolse la parola:«Se vuoi viver con giudizioe condurti sempre bene,resterai nella mia casaper servire come servo,per averne ricompensaal tuo merito adattata:una bella cinturellaod un picchio sull’orecchio».

Quando Kullervo cresciutofu all’altezza d’una spanna,lo mandarono al lavoroe lo tennero occupatoa cullare un bambinellodalle dita piccoline:«Al bambino bada bene,fa’ che mangi, tu pur mangia;sciacqua i cenci nel torrente,lava ancora i vestitini!»

Gli badò due giorni, e gli occhigli cavò, le man gli ruppe:e venuto il terzo giornofe’ morire il malatino:

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buttò i cenci nel torrentee la culla nelle fiamme.

Così allor pensava Untamo:«Egli non è punto adattoa badare a un bambinellodalle dita piccoline;non so a cosa adoperarlo,a qual’opera impiegarlo:a tagliare forse il bosco?»A tagliar lo mandò il bosco.

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Sarò un uomo veramentequando in mano avrò una scure;a veder molto migliore,bello più che pria non fossi:ed a cinque o sei guerrierisarò in forza pari allora».

Va dal fabbro, alla fucina:dice a lui queste parole:«Fabbro, caro fratellino,fammi un’ascia piccoletta,una scure da uomo fammi,fammi un ferro da operaio!a tagliar io vado il bosco,*ad abbatter grandi guerci!»

Fa quel che bisogna il fabbroed ha presto pronta l’ascia:

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ecco ben l’ascia virile,ecco il ferro da lavoro!

Ed il figlio di Kalervotosto arruota la sua scure:l’ascia arruota il giorno, e a seraecco, il manico vi mise.

Poi partì per tagliar legnanella selva paludosa,nella più bella pineta,fra gli abeti smisurati.

Giù buttava, sradicavagli alber con l’ascia affilata,con un colpo i tronchi buoni,pe’ cattivi mezzo colpo.

Quando n’ebbe giù buttaticinque, n’ebbe otto abbattuti,pronunziò queste parole,questi detti fe’ sentire:«Faccia Lempo la fatica,Hiisi gli alberi giù butti!»

Fece un salto sopra il troncoe gridò con forte voce,con un fischio e acute stridadisse poi queste parole:«Caschi il bosco, tanto lungipiombi a terra ogni betulla,quanto lungi il grido suona,quanto lungi arriva il fischio!più non sboccino germogli,

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più non spunti fil di paglia,mai più, fin che duri il mondocon la dolce luna d’oro,dentro il bosco dissodatodal buon figlio di Kalervo!E se pur nascesse il grano,se spuntassero le messi,su venisse un filo d’erbae uno stelo si formasse,maturar mai possa spiga,nè portar di grano un chicco!»

Ed Untamo impetuososi recò poscia a vederecome il servo lavorato,dissodato avesse il bosco:non più bosco parea il bosco,sì dal giovan dissodato.

Ed Untamo pensò allora:«Egli a ciò non è adattato:l’abetina mi ha sciupato,la miglior delle pinete;non so a cosa adoperarlo,a qual’opera impiegarlo:ch’io lo mandi a far la siepe?»Lo mandò per far la siepe.

Ed il figlio di Kalervoa piantar prende la siepe:tutti interi i grossi piniegli pianta come pali,

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tutti interi i lunghi abetiegli ficca come piuoli:trasse solidi sostegnidagli svelti e lunghi sorbi:nè un pertugio nella siepenè un cancello egli vi pose;disse poi tali parole,in tal modo si fe’ udire:«Chi non s’alzi come uccello,con due ali chi non voli,mai sorpasserà la siepedel figliuolo di Kalervo!»

Ecco Untamo capitatoper vedere quella siepedel figliuolo di Kalervo,di quel servo della guerra.

E la vide senza un foronè un pertugio nè fessura,nella terra già piantata,fin le nubi già innalzata.

Disse allora in questo modo:«Egli a ciò non è adattato:nella siepe non ha fattonè pertugio nè cancello:fino al cielo l’ha innalzata,sulle nubi sollevata:nè passarvi sopra possonè attraverso un’apertura.Non so a cosa adoperarlo,

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a qual’opera impiegarlo:forse segale a trebbiare?»Lo mandò tosto a trebbiare.

Già Kullervo s’era messoquella segale a trebbiare:fece polver della messe,della paglia fece pula.

E colà venne il padroneper veder la trebbiaturadel figliuolo di Kalervo,per veder la battitura:vide in polvere la messee la paglia fatta pula.

La pazienza perse Untamo:«Non farà nessun lavoro:a qualunque opra lo mettaguasta, stupido, il lavoro.E se in Russia lo menassio in Carelia lo vendessia Ilmarinen, chè del fabbroil martello maneggiasse?»

Ed allor vendè Kullervo,lo vendè nella Careliaad Ilmarinen, al fabbro,all’artefice valente.

Che gli dette il fabbro in cambio?molto il fabbro in cambio dette:due laveggi di ferraccioe tre ganci da marmitte,

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cinque falci consumatee sei zappe rovinate,per quell’uomo buono a nulla,per quell’inservibil servo.

IL TRENTESIMOSECONDO RUNO.

Il figliuolo di Kalervodalle calze blù, Kullervo,dai capelli gialli, bellocon i bei calzar di cuoio,non appena fu dal fabbrochiese un’opra per la sera,dal padrone per la sera,pe ’l mattin dalla padrona:«Mi si dica la fatica,il lavor sia nominatoa cui accingere mi debboe portarlo a compimento».

D’Ilmari fabbro la moglieessa stessa allor pensavaa un lavor pe’ l nuovo servocomperato a faticare:mise il servo qual pastorea guardar la grande gregge.

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Maliziosa la massaia,la beffarda donnettina,cuocè un pane pe’ l pastore,grande e grossa una pagnotta:sotto, avena; su, frumento;vi ficcò nel mezzo un sasso.

La spalmò di burro mollee di grasso, la corteccia:la diè al servo qual porzione,al pastor per colazione.

Essa stessa lo ammoniva,gli diceva in tal maniera:«Questo non devi mangiareprima che sia il gregge al bosco».

La massaia manda a pascere le greggi, pronunziando le consuete preghiere e scongiuri del bestiame e dell’or-so (35-548).

IL TRENTESIMOTERZO RUNO.

Il figliuolo di Kalervomise il pan nella bisaccia:nel guidar lungo il palude

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le sue vacche, per la landacamminando lentamentesi diceva e ripeteva:«Ahimè povero figliuolo,ahimè misero ragazzo!anche a questo sono giunto,pur a questa cosa vana,a custode delle code,a guardiano dei vitelli,per pestare nel pantano,per strisciar sull’aspra terra».

Si sedè sopra una zolla,sul declivio soleggiato;così disse ne’ suoi versi,il suo canto fece udire:«Sol di Dio, caldo risplendi,brilla, fuso del Signore,sul guardiano della gregge,sul pastore poverello,non d’Ilmari sulle stanze,non dinanzi alla massaia!Vive bene la massaia,di frumento pane affettae si ficca in bocca torteche di burro bene spalma;ma il pastore, pane secco,crosta secca egli rosicchiae di avena pane gratta,taglia pane di robette,

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pan di paglia mette in bocca,rode ancor scorza di pino,dalla scorza beve l’acqua*e dall’erba inumidita.Corri innanzi, sole caro,*scendi, tempo del Signore,scendi, o sole, all’abetina,al boschetto di betulle,alla macchia dei ginepri,all’altezza degli ontani,il pastor rimanda a casaa tagliar nel piatto il burro,il pan d’orzo a sbriciolare,le pagnotte a smidollare».

Or d’Ilmari la massaia,mentre Kulleruo cantava,il pastore canticchiava,già tagliato aveva il burro,il pan d’orzo sbriciolato,la pagnotta smidollatoe per ben bollito il brodo:per Kullervo un cavol freddo,già dal cane digrassato;già dal nero morsicchiato,roso già dallo screziatoe dal grigio già azzannato.*

Cantò allora un uccellinodal boschetto, dal cespuglio:

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«Sarà tempo di mangiare,che cenasse l’orfanello».

Il figliuolo di Kalervo,visto lungi andato il sole,pronunziò queste parole:«Tempo è già di prender cibo,tempo è già di cominciare,a mangiare la provvista».

Alla siesta spinse il gregge,a dormir mandò le vacche;si sedè sopra una zolla,sulle piote verdeggianti.

Dalle spalle la bisacciacalò giù, ne tolse il pane:lo girò per ogni verso,disse poi queste parole:«Più d’un pan di fuori è belloe ben liscia è la corteccia:ma poi sotto la cortecciapula c’è, scorza di pino!»

Trae dal fodero il coltello,il suo pane per tagliare:il coltello urtò nel sasso,scivolò contro la pietra:si smussò la lama allora,andò in pezzi il coltellino.

Il figliuolo di Kalervosenza il suo coltel si vide:ed a piangere si mise

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mentre che così diceva:«Questo solo m’era caro,questa lama mia diletta,dal mio babbo ereditata,dal mio vecchio genitore.Questo pur dovea spezzarsi,contro il sasso stritolarsi,dentro il pan della malvagia,la pagnotta della trista.Or con che di lei lo schernopagherò, la burla amara,la razione della vecchia,la pagnotta della putta?»

Gracidò di mezzo ai prunila cornacchia, gracchiò il corvo:«Miserello, fibbia d’oro,di Kalervo unico figlio!perchè sei di malo umore,di mestizia pieno il cuore?una verga dal boschetto,dal palude una betullaprendi, e spingi nel pantanoquelle bestie da concime,che metà ne mangin gli orsi,metà i gran lupi del bosco.Poi raccogli i lupi a frotte,tutti gli orsi a torma aduna,cambia il lupo in Piccolina,in Gobbetta muta l’orso*

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e li spingi come greggemacchiettato verso casa.Sì lo scherno pagherai,sì l’ingiuria della trista».

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Meretrice, aspetta, aspetta!*se il coltel del padre io piango,ancor tu pianger dovraiper le vacche tue da latte!»

Una verga tolse al bosco,una sferza di ginepro:spinse il gregge nel pantanoe fra gli alberi atterrati:che metà mangino i lupi,metà gli orsi della selva.

Ed i lupi incanta in vacchee riduce gli orsi a gregge:uno cambia in Piccolina,in Gobbetta l’altro muta.

Scendea il sole del meriggio,s’inchinava ad occidentedegli abeti sulle cime,verso il mungere volava.

Quel pastore meschinello,quel Kullervo, quel malignospinse gli orsi verso casa,guidò i lupi nella corte:e quest’ordin dette agli orsi,

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a’ suoi lupi così disse:«Voi le cosce le sbranate,voi i polpacci le azzannate,quando venga per vederee per munger si accovacci».

Fece un piffero con l’ossod’una vacca, e un campanellocon la zampa di Tuomikki,e una tromba con lo stincofe’ di Kirjo, e suonò forte:echeggiò tre volte il cornopresso casa, alla collina,e sei volte sul sentiero.

Ma d’Ilmari la consorte,la graziosa donnettina,se ne stava ad aspettaredella sera il latte e il burro.

Dal palude udì suonare,dalla landa strepitare:e così prese a parlare,tali detti a pronunziare:«Che il Signor sia ringraziato!suona il corno, il gregge è presso!donde il servo ha preso il corno,dove il piffero ha trovato,che così suonando viene,strombettando così forteche gli orecchi mi rintrona,e la testa mi trapassa?»

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Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Dal palude ha preso il cornoed il piffero dal fango.Già la gregge è nel sentiero,presso al campo della stalla:va’ tu dunque, appresta il fumo,pensa a mungere le vacche!»

Ma d’Ilmari la consortealla nonna si rivolse:«Va’ tu dunque a munger, nonna,ed i bovi a governare:chè la pasta non ancoraho finito d’apprestare».

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Sempre le buone padrone,le massaie premuroseper le prime a munger vannoed i bovi a governare».

Allor d’Ilmari la moglieapprestato ch’ebbe il fumo,andò a mungere le vacche,diè un’occhiata al suo bestiame,guardò rapida il suo greggee così prese a parlare.«Bell’aspetto ha il mio bestiame,pelo liscio han le mie bestiequal di lince pelle, o lana

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di selvaggia pecorellai capezzoli son gonfie son turgide le mamme».

Volea mungere, chinatavolea far scorrere il latte:e tirò, tirò di nuovoe tentò la terza volta:ecco, il lupo a gola aperta,ecco l’orso le si avventae la bocca sbrana il lupoe i garetti strappa l’orso,morde in mezzo dei polpaccidelle tibie rompe l’ossa.

Vendicò così Kullervodella giovane lo scherno,dello scherno tal mercedealla trista donna diede.

D’Ilmari l’altera donnaprima pianse, parlò poi,la sua voce fece udire:«Mal facesti, pastorello,che guidasti a casa gli orsied i lupi al gran cortile».

Le rispose allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Male io feci, io poveretto!tu non bene, o poveretta!dentro il pan cuocesti un sasso,una pietra vi mettesti:

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quando trassi il mio coltello,esso urtò contro quel sasso:era l’unico coltellodi mio padre e di mia stirpe».

Disse d’Ilmari la moglie:«Pastor caro, pastorello,deh ritira il sortilegio,sperdi questo incantamento!se del lupo dalla golae dell’orso dagli artiglitu mi togli, le camicebelle avrai, belli i calzoni;mangerai pan bianco e burro,latte fresco beverai;per un anno, per due annial lavoro non andrai.Se tu tosto non accorria salvarmi, a liberarmi,cadrò morta in un momento,diverrò come la terra».

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Se tu muori, crepa pure!casca morta, se tu caschi!chè non manca posto in terraper chi cade giù da Kalma,per i grandi ed i potenti,per dormire e riposare».

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Disse d’Ilmari la moglie:«Ukko! Ukko! dio supremo!tosto appronta il tuo grand’arco,guarda l’arco tuo migliore:e di rame un dardo ponisopra quell’arco di fuoco,uno stral scaglia, infuocatoe di rame lancia un dardoe colpisci fra le ascelle,fra la carne delle spalle,questo figlio di Kalervo:sia colpito a morte il tristodalla tua punta d’acciaioe dal tuo dardo di rame!»

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Ukko! Ukko, dio supremonon colpir me, non colpire!ma colpisci la consorted’Ilmari, l’infame donna,prima ch’essa faccia un passo,prima che di qua si muova»

Allor d’Ilmari la moglie,dell’artefice valente,cadde tosto, cadde morta,qual fuliggin da marmitta,nel cortil della casetta,dell’angusta casa stretta.

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Tale fu la fin di quellagiovinetta moglie bella,che sì a lungo fu cercata,per sei anni domandatada Ilmari per suo contento,del gran fabbro ad ornamento.

IL TRENTESIMOQUARTO RUNO.

Il figliuolo di Kalervodalle calze blù Kullervodai capelli gialli, bellocon i bei calzar di cuoio,s’avviò, camminò tostovia da Ilmari, via dal fabbro,prima che il padrone udissedella morte della moglie,pria che al danno egli pensasse,a dar busse cominciasse.

E suonando lasciò il fabbro,giubilando il suolo d’Ilma,strombettando per la landa,esultando per la selva;il palude brontolavae la terra pur tremava

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in risposta al suo sonare,al maligno suo esultare.

Giunse il suono alla fucina,sorse il fabbro dal fornello:andò al viottolo ad udire,nel cortile per vederechi suonasse nella selva,strombettasse nella landa.

Vide la verità vera,tale e qual, non menzognera;che per sempre addormentatala sua bella era piombatagiù distesa nella corte,sopra il suolo della morte.

Fermo allor rimase il fabbro,cupo aveva e mesto il core:e passò la notte in pianti,lacrimò per lungo tempo,nera l’alma qual catrame,nero il core qual carbone.

E Kullervo stesso errava,or di qua, di là correvaper le selve scure; a giornoattraverso i boschi d’Hiisi;alla sera, a notte cupafacea sosta su una zolla;l’orfanello là sedeva,là pensava il derelitto:«Chi può avermi mai creato,

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me meschino generato,con la luna e il sole a errare,sempre senza asilo a stare!Altri vanno alle lor case,viaggian verso lor dimore:la mia casa è la foresta,l’ampia landa il mio cortileed ho il vento per caminoe la pioggia per mio bagno.No giammai, buon Dio, giammainon creare, in nessun tempo,un tristissimo fanciullo,un orbato d’ogni affetto,orfanello sotto il cielo,della mamma sua privato,come m’hai, Dio mio, creato,me meschino generato!come alcione in mezzo al mare,qual gabbiano sugli scogli.Alle rondini risplende,brilla ai passerotti il sole,la letizia agli uccellini;non a me, non una voltabrillò il sole, risplendettemai la gioia in alcun tempo.Io non so chi mai mi fece,nè chi m’abbia mai portato;fu la folaga per via?mi depose nel palude

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l’anatrella, o sulla rivaod il mergo in un macigno?Da piccino perdei il babbo,piccolino, la mia mamma:morì il padre e poi la madree morì la grande stirpe.Mi lasciò scarpe di ghiaccio,mi donò calze di neve,mi lasciò su vie ghiacciate,sopra ponti vacillanti,per piombare nel pantano,sprofondare dentro il fango.Ma non ora, in questa vitanon finor trave divenni,per passare sui paludi,ponticello sopra il fango.Nè cadrò nel fango, finoche due mani meco porti,che sollevi cinque dita,alzi su queste dieci unghie!»

Ecco, in mente allor gli cadde,nel cervello l’intenzionedi tornar d’Untamo al luogo,vendicar del padre i dannied i pianti della madre,le sventure di se stesso.

E così parlò Kullervo:«Caro Untamo, aspetta, aspetta,o rovina di mia stirpe,

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finch’io venga a farti guerra,le tue stanze a incenerire,a bruciar la fattoria!»

Incontrò la vecchiarelladea del bosco in manto azzurro;essa prese così a dire,tali detti a proferire:«Kullervoinen, dove vai,dove pensi di arrivare?»

Le rispose allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Mi è caduta nella mente,nel cervello l’intenzionedi viaggiare altri paesi,di tornar d’Untamo al luogo:per vendetta di mia stirpee del padre e della mamma,fargli cenere le casee ridurle tutte a scorie».

E la vecchia prese a dire,tali detti a proferire:«Non distrutta è la tua stirpe,non ancor cadde Kalervo:ancor vivo è il padre tuo,viva e sana la tua mamma».

«O mia cara vecchiarella,dimmi, cara vecchiarella,dove trovo ora il mio babbo,la mia bella genitrice?»

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«Vive il babbo, con la bellagenitrice sul confinedi Lapponia ampiodistesa,là dov’è il Lago-dei-pesci».«Oh mia cara vecchiarella,dimmi, cara vecchiarella,come posso là arrivare,quale via debbo pigliare?»«Se diritto vuoi arrivare,sconosciuto pur restare,per il bosco dèi passare,lungo il fiume rivoltare:corri un giorno, un altro giorno,corri ancora un terzo giorno,volta poi verso maestraleed un monte troverai:sotto il monte correrai,a sinistra il lascerai:poscia un fiume tu vedraisulla tua mano diritta;questo fiume tu costeggiae di tre cascate i gorghi,finchè trovi un promontorio,lunga una lingua di terraed in cima una capanna,per il pesce un capannino:colà vive il padre tuocon la bella genitrice:

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colà pur le tue sorelle,due graziose ragazzine».

Il figliuolo di Kalervosi rimise a camminare;andò un giorno, un altro giorno,andò ancora un terzo giorno,voltò poi verso maestrale,si trovò dinanzi a un monte:sotto il monte egli camminaper svoltare da sinistra:giunge poscia presso un fiumee quel fiume egli costeggia:dopo il gomito del fiumeoltrepassa tre cascateed arriva al promontorio,alla lingua stretta e lunga;v’era in cima una capanna,per il pesce un capannino.

Egli entrò nella capanna,ma nessuno lo conobbe:«Da qual mare lo straniero,il viandante da qual patria?»

«Non conosci il tuo figliuolo,non conosci il tuo bambino,lui che d’Untamo i guerrieritrascinar con loro a casa,alto qual spanna del padre,come il fuso della madre?»*

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Fu la madre a parlar prima,a rispondere la vecchia:«Oh mio povero figliuolo,miserello, fibbia d’oro!viaggi dunque ad occhi apertiattraverso questo mondo,mentr’io già ti piansi morto,ti rimpiansi già perduto!Ebbi in sorte due figliuolie due vaghe ragazzine;ma per questa sfortunatason perduti i due maggiori:il figliuolo nella guerra,la figliuola non so dove;tornò a casa il mio figliuolo,la figliuola mai più torna».

Domandava allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Come sparve la tua figlia,dove andò la sorellina?»

Così disse allor la madre,gli rispose in tal maniera:«Colà sparve la mia figlia,colà andò la sorellina:a cercar bacche nel bosco,sotto il colle dei lamponi;e colà trovò la mortel’augellin, la colombella!quale morte, niuno seppe,

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niuno c’è che possa dire.Or chi piange per la figlia?e chi mai, se non sua madre?essa cerca pria di tutti,pria di tutti dolorosa:ed io pure, sventurata,la mia figlia ho ricercataper i boschi, come un’orsa,come lontra per le selve;per un giorno, per due giorni,per tre giorni la cercai:al finir del terzo giorno,dopo lungo tempo alfine,montai sopra un’alto colle,d’un gran poggio sulla cima;di lassù chiamai la figlia,dolorosa, la perduta:«Figliuoletta, dove sei?torna a casa, figlia mia!»Sì chiamai la mia figliuola,così piansi la perduta;mi risposer le montagne,risuonarono le lande:«Non chiamare la figliuola,non chiamare, non gridare!mai più torna, in alcun tempo,non rivede essa giammaidella madre la casetta,del buon babbo la barchetta!

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IL TRENTESIMOQUINTO RUNO.

Kullervo cerca di lavorare presso i suoi genitori, ma il suo aiuto non servendo loro a nulla, il padre lo man-da a pagare i tributi (1-68). Dopo aver pagato le tasse, nel ritorno a casa incontra, a lui ignota, la sorella che si era smarrita cercando le bacche; egli la attira a sè e la seduce (69-188). Quando poi vengono a sapere chi sono, la sorella si getta nel fiume, mentre Kullervo si af-fretta a casa, racconta alla madre l’orribile caso della seduzione della sua propria sorella e pensa poi di porre anche egli stesso fine ai suoi giorni (189-344). La ma-dre lo distoglie dall’uccidersi e lo consiglia di cercare, nascosto in qualche luogo, sollievo al rimorso; però Kullervo decide prima di ogni altra cosa di vendicarsi di Untamo (345-372)

IL TRENTESIMOSESTO RUNO.

Il figliuolo di Kalervo,dalle calze blù, Kullervo,s’apprestava per la guerra,

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per la via della battaglia;affilò prima la spada,aguzzò quindi la lancia.

A lui disse allor la madre:«Non partir, povero figlio,non partir per la gran guerra,pe ’l tumulto delle spade!Chi per niente va alla guerra,per capriccio alla battaglia,viene ucciso nella guerra,ammazzato nella pugna,dalle spade vien trafitto,dalle lame trucidato.Sulla capra vai alla guerra,sopra il becco alla battaglia;tosto vincono la capraed abbatton tosto il becco;su di un cane torni a casa,al cortil su d’un ranocchio».*

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Nel palude non sprofondo,nè giù casco sulla landanè di corvi nella casa,di cornacchie nel recinto,se soccombo sopra il campodi battaglia, sul terreno;bello è pur morire in guerrafra il tumulto delle spade;

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bella è questa malattiadella guerra: in un momentoti rapisce e porta via,senza morbo e senza stento».

Così disse a lui la madre:«Nella pugna se morrai,al tuo babbo protettorechi sarà ne’ vecchi giorni?»

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Caschi pure nel concime,crepi pure nel cortile!»

«A tua madre protettorechi sarà nei vecchi giorni?»

«Muoia pure sulla paglia,scoppi pure nella stalla!»

«Chi sarà del fratellinoprotettor ne’ brevi giorni?»

«Caschi pur morto nel bosco,caschi morto nel recinto!»

«E chi avrà la sorellinadi sua vita a protettore?»

«Muoia pur, mentre si recaalla fonte od al bucato!»

Il figliuolo di Kalervodalla casa partì tostoed al padre così disse:«Ti saluto, mio buon padre!forse tu mi piangerai

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quando morto mi saprai,dalla stirpe già caduto,per la schiatta già perduto?»

A lui disse allora il padre:«Non per te piangere vogliose saprò della tua morte;posso avere un altro figlio,un figliuolo assai miglioree di te più giudizioso».

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Nemmen io piangere voglioquando udrò che tu sei morto:mi farò un babbo eccellente:capo, un sasso: bocca, argillaocchi, bacche del padule;d’erba secca avrà la barba,piedi, un salcio biforcutocarne, tronchi imputriditi».

Disse quindi al suo fratello:«Ti saluto, fratellino!forse tu mi piangeraiquando morto mi saprai,dalla stirpe già caduto,per la schiatta già perduto?»

Il fratello gli rispose:«Non per te piangere vogliose saprò della tua morte;posso avere altro fratello,

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un fratello assai migliore,un fratello bello il doppio».

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Nemmen io piangere voglioquando udrò che tu sei morto:mi farò un bravo fratello:capo, un sasso: bocca, argillaocchi, bacche del palude,i capelli d’erba secca,piedi, un salcio biforcutocarne, tronchi imputriditi».

Disse quindi alla sorella:«Ti saluto, sorellina!forse tu mi piangeraiquando morto mi saprai,dalla stirpe già caduto,per la schiatta già perduto?»

La sorella così disse:«Non per te piangere vogliose saprò della tua morte:posso avere altro fratello,un fratello assai miglioree di te più intelligente».

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Nemmen io piangere voglioquando udrò che tu sei morta:mi farò brava sorella:

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capo, un sasso: bocca, argillaocchi, bacche del palude,i capelli d’erba secca,loti candidi gli orecchi,rami d’acero per fianchi».

A sua madre allora disse:«Madre mia, cara mammina,dolce e bella genitrice,prezïosa guidatrice,forse tu mi piangeraiquando morto mi saprai,dalla stirpe già caduto,per la schiatta già perduto?»

Gli parlò la madre allora,gli rivolse tali detti:«Di una madre non intendinè la mente tu, nè il cuore:per te grande farò il piantoquando udrò che tu sei morto,che tu manchi alla tua gente,per la schiatta sei perduto:piangerò, sì che s’inondidella stanza il pavimento;per le strade accovacciata,curvo il dorso nella stalla,piangerò sì che la nevein nevischio sciolta, bagniil terreno e l’erba crescae verdeggi e impallisca.*

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E se pianger non volessinè potessi lamentarefra la folla della gente,bagnerò d’onde di piantoin segreto il letticiuolodella sauna, e l’impiantito».

Il figliuolo di Kalervodalle calze blù, Kullervo,strombettando, giubilandos’avviava alla battaglia:sul palude, sulla terra,sulla landa strepitavae fra l’erbe verdeggianti,fra le stoppie inaridite.

Dietro a lui vien la notizia,agli orecchi ecco gli giunge:«Morto è già tuo padre a casa,il canuto genitore:torna dunque a rivederlopria che scenda nella tomba».

Il figliuolo di Kalervoprontamente rispondeva:«S’egli è morto, morto sia:un castrone non ci mancaper portarlo nella fossa,per calarlo giù da Kalma».

Si rimise in via suonando,esultando per la selva;dietro a lui vien la notizia,

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agli orecchi ecco gli giunge:Morto è a casa tuo fratello,figlio de’ tuoi genitori;torna dunque a rivederlopria che scenda nella tomba».

Il figliuolo di Kalervoprontamente rispondeva:«S’egli è morto, morto sia;non ci manca uno stalloneper portarlo nella fossa,per calarlo giù da Kalma».

Si rimise in via suonando,strombettando fra gli abeti:dietro a lui vien la notizia,agli orecchi, ecco, gli giunge:«Morta in casa è tua sorella,figlia de’ tuoi genitori;torna dunque a rivederlapria che scenda nella tomba».

Il figliuolo di Kalervoprontamente rispondeva:«S’ella è morta, morta sia:non ci manca una giumentaper portarla nella fossa,per calarla giù da Kalma».

Egli andava strepitandofra l’alta erba, fra le stoppie:dietro a lui vien la notizia,agli orecchi, ecco, gli giunge:

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«La tua cara mamma è morta,la dolcissima mammina:torna dunque a rivederla priache il borgo la sotterri».

Così disse allor Kullervo,il figliuolo di Kalervo:«Guai a me, figlio meschino,poichè è morta la mia mamma:faticava essa a cucirmile lenzuola, a ricamarele coperte, ed a filarecon il lungo e forte fuso:presso a lei non sono statoquando l’anima ha spirato.L’aspro freddo l’ha rapitao di fame essa è perita!...Nella casa lei lavate,buon sapone adoperate,*poi di seta la fasciate,rivestitela di tela:poi portatela alla fossae calatela da Kalma,seppellitela cantando*le dolenti cantilene:non ancor posso tornare,Unto il fio non ha pagato,non ancor l’iniquo uccisi,non ancor scomparve il tristo».

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Va alla guerra, strombettandoverso Untola giubilando;dice allor queste parole:«Ukko! Ukko, dio supremo,tu mi dessi ora una spada,bella sì che mi bastassead abbattere una schiera,mi bastasse contro cento!»

E trovò la spada adatta,la miglior di tutte quante,con la qual tutte le gentiegli d’Untamo distrusse:alle stanze appiccò il fuocoed in cener le ridusse:sol le pietre del caminolasciò stare, e il lungo sorbo.*

Il figliuolo di Kalervotornò quindi alla sua casa,alle stanze, al campicellodell’antico genitore;quando giunse e aprì la stanza,era vuota, era deserta:nessun venne ad abbracciarlo,niuno strinse le sue mani.

Nella cenere egli miseuna mano; ed era fredda:e da questo egli conobbeche non più vivea la madre.

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Nel camin ficcò la manoe le pietre erano fredde:e da questo egli conobbeche non più viveva il padre.

Gettò gli occhi al pavimento,tutto sudicio lo vide:e da questo egli conobbech’era morta la sorella.

Si recò presso la riva,non ci vide alcuna barca:e da questo egli conobbeche non più vivea il fratello.

Prese allora a lacrimare;pianse un giorno, pianse un altro,disse poi queste parole:«Buona e dolce madre mia,cosa mai tu m’hai lasciatofinchè fosti in questo mondo?Madre mia, tu non mi senti,mentre piango su’ tuoi occhi,gemo sopra le tue tempiee sospiro sul tuo capo».

Dalla tomba, sotto terra,si svegliò la madre e disse:«T’è rimasto il cane nero;può seguirti Musti al bosco;dal tuo cane accompagnatopassa tu per la foresta,oltrepassa la palude,

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presso la figlia del bosco,presso la donzella azzurraal castel fitto di rami,per colà cibo cercareed un dono supplicare».

Il figliuolo di Kalervocon sè prese allora il cane,s’avviò per il sentiero,passò lungo la palude,camminò per un pezzetto,fe’ di strada un pezzettino:giunse in mezzo a quel boschetto,si trovò sopra quel luogodove avea disonoratola figliuola di sua madre.

Quivi il prato lacrimavae il boschetto impietositoe l’erbetta s’angustiavaed il fiore inaridito,per la vergine sedottala sorella sua corrotta;non cresceva più l’erbetta,non spuntava più alcun fioresulla terra maledetta,su quel luogo di dolore,dove fu disonoratala sorella sventurata.

Afferrò Kullervo allorala tagliente spada aguzza;

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la guardava, la volgevae domande le faceva;domandò se desiasse,le piacesse di gustarela colpevole sua carnee l’infame sangue suo.

Ben comprese il suo pensiero,dell’eroe comprese i dettila sua spada, e gli rispose:«Come non dovrei goderedi gustar colpevol carne,di ber sangue dell’infame,io che pur dell’innocentebevo sangue e gusto carne?»

Il figliuolo di Kalervo,dalle calze blù, Kullervo,ficcò l’elsa dentro il suolo,la pigiò nello scopeto:voltò poi la punta al petto,si gettò contro la punta;questa fu la fine sua,in tal modo trovò morte.

Tal del giovane la fine,di Kullervo eroe la morte,questo il chiuder de’ suoi giorni,il morir dell’infelice.

Ammonimento di Väinämöinen sulla cattiva educa-zione dei bambini (347-360).

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IL TRENTESIMOSETTIMO RUNO.

Ilmarinen piange lungamente la moglie morta; poi si fucina, con grande lavoro e fatica, una nuova donna d’oro e d’argento, senza riuscire a darle l’alito e la vita (1-162). A notte si corica a fianco della sposa d’oro, e la mattina al risvegliarsi sente gelida la parte che avea voltato verso la statua (163-196). Cede la sposa d’oro a Väinämöinen, che non ne vuol sapere, ma gli consiglia di fonderla e fabbricarne altre cose utili; oppure di por-tarla, così com’è, ad altri paesi dove gli sposi sieno avi-di d’oro (197-250).

IL TRENTESIMOTTAVO RUNO.

Ilmarinen va a Pohjola a chiedere la sorella della sua prima moglie: alle parole di scherno che riceve in risposta, si adira, rapisce la fanciulla e ritorna in patria (1-124). Durante il viaggio la ragazza lo schernisce e lo offende al punto che egli, corrucciato, la incanta in un gabbiano (125-286). Torna poi a casa e racconta a Väi-

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nämöinen come Pohjola, per il possesso del Sampo, viva senza pensieri e come era andato a finire il suo viaggio per la chiesta (287-328).

IL TRENTESIMONONO RUNO.

Väinämöinen esorta Ilmarinen ad andare con lui a Pohjola a prendere il Sampo; Ilmarinen accetta la pro-posta ed essi si mettono in viaggio per mare (1-330). Lemminkäinen li chiama dalla spiaggia; e udito dove si recavano, si offre come terzo nella spedizione ed è ac-colto volentieri (331-426).

IL QUARANTESIMO RUNO.

Nel loro viaggio verso il Sampo, i tre giungono ad una cascata dove la barca si attacca al dorso di un grosso luccio (1-94). Uccidono il luccio e ne prendono

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a bordo la parte anteriore, che fanno cuocere e mangia-no (95-204). Con le mascelle del luccio Väinämöinen fabbrica la Kantele, che parecchi si provano a suonare, senza riuscirvi (205-342).

IL QUARANTESIMOPRIMO RUNO.

Il verace Väinämöinen,il cantore sempiternoapprestò le dita al suonoed i pollici umettati:sulla pietra della gioiae del canto sulla rupe,sull’argentea collina,sopra l’aureo monticello.

Prese l’arpa fra le ditacon la cassa sul ginocchio:fra le mani la kantele,così disse, parlò allora:«Venga ognuno ad ascoltarequel che prima non ha udito:la letizia delle runee dell’arpa il chiaro suono».

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Ed il vecchio Väinämöinencominciò dolce a suonaresulla kantele di luccio,fabbricata d’ossi e lische:si movean veloci i diti,ratto il pollice s’alzava.

Era quella vera gioia,era suono di letizia:si sposava il suono al suono,rispondeva al canto il canto:risuonò del luccio il dentee vibrarono le lischeed il tendin cantò chiaroed i crini del cavallo.

Al suonar di Väinämöinennon vi fu nella forestachi movesse quattro piedi,chi corresse, chi saltasse,senza che venisse a udire,di quel giubilo a gioire.

Saltellavan fra le frondegli scoiattoli veloci:si accostavan gli ermellini,si sedevan sulle siepi:correan gli alci sulle landee gioivano le linci.

Sorse il lupo dal pantano,l’orso su dalla brughiera,dai giacigli degli abeti

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e dei larici dal folto:saltò il lupo gran sentiero,traversò l’orso le lande,finchè giunse sulla siepe,si sdraiò presso la porta:ma piegò la siepe al sasso,rovesciò la porta a terra:salì allora sopra un pino,scalò rapido un abete,per udir quel dolce suono,per gioir di quella gioia.

Di Tapiola il vigil vecchio,il signore di Metsolae di Tapio il popol tutto,le ragazze e i giovanettigir del monte sulla cima,tutti intenti al dolce suono:e del bosco la signora,di Tapiola vigil donna,si calzò le calze azzurre,si adornò dei nastri rossi:dentro un cavo di betullasi sedè, sopra un ontano,per potere il suono udire,di quel giubilo gioire.

Non vi fu nell’aria uccellosvolazzante con due ali,che sue spire non movesse,che suoi giri non facesse

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per udir quel dolce suono,per gioir di quella gioia.

Quando l’aquila dal nidosentì il suono di Suomi,lasciò al nido gli aquilottie distese l’ampio voloverso il canto dell’eroe,verso il suon di Väinämöinen.

Volò l’aquila dall’alto,scese il nibbio dalle nubi:venner l’anatre dal fondoed i cigni dagli stagni:passerotti piccolini,uccelletti cinguettanti,cardellini a cento a centoed allodole a migliaiaesultavano nell’aria,cinguettavan sulle spalledi quel padre della gioia,del soave incantatore.

Luonnotar, dell’aria figlia,con le vergini del cielosi stupivan, deliziatenell’udire la kantele:qual del cielo sulla volta,quale su l’arcobaleno,qual seduta d’una nubesopra l’orlo rosseggiante.

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Della Luna la donzellae del Sol la bella figlia,se ne stavan al telaioed alzavan le spolettestoffa d’oro a ricamaree d’argento ad adornare,sopra l’orlo d’una nube,sulla cima del grand’arco.

Quando giunse a’ loro orecchiquella voce, il dolce canto,cadde il pettin dal telaio,la navetta dalle mani:si strapparon gli aurei filie le argentee cordicelle.

Non vi fu creatura allorache vivesse dentro l’acqua,che nuotasse con sei pinne,non vi fu branco di pescisenza che corresse a udire,di quel giubilo a gioire.

Corse a nuoto il goffo luccio,dimenandosi, la foca;i salmoni, dallo scoglioe dal fondo i lavareticon le perche piccoline,i ghiozzetti, e gli altri pescis’accostaron al canneto,s’appressaron alla sponda

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per udir di Väinö il canto,quella dolce melodia.

Ahto stesso, re dell’onde,vecchio con la barba d’alghe,mise il capo a fior dell’acqua,scivolò del mar fra i gigli,ascoltò quella letizia,disse poi queste parole:«Un tal canto non ho uditomai, da che durano i tempi,come quel di Väinämöinen,dell’eterno incantatore».

Di Sotkotar le sorelle,sorelline dei giuncheti,si lisciavan i capelli,li spartivan sulla frontecon la spazzola d’argentoe col pettine dorato:nell’udir quel nuovo canto,quella dolce melodia,cadde il pettine nell’acquae la spazzola nell’ondee rimaser spettinate,con le chiome a mezzo ornate.

La signora del mar, vecchiacon il seno fitto d’alghe,sorse anch’essa su dal maresi levò ritta dall’ondasul canneto della sponda;

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si appoggiò sulla scoglieraper udir di Väinö il cantoed il suon della kantele:quella voce, meravigliae quel suono, oltresoave:un torpor la prese, e giacquee sul suolo si distese,sulla rupe variopinta,sulla schiena del macigno.

Così il vecchio Väinämöinensuonò un giorno, suonò un altro:nè vi fu nessuno eroe,nessun uomo valoroso,nessun uomo, nè fanciulla,niuna donna maritata,ch’egli al pianto non movesse,il cui cuore non sciogliesse:pianser giovani coi vecchi,pianser quelli senza moglie,pianser gli ammogliati eroi,i ragazzi a mezzo adulti,i ragazzi e le ragazze,anche i bimbi più piccini;meraviglia era la voce,ed il suono, oltresoave.

Allo stesso Väinämöinensi gonfiâr di pianto i cigli,stille càddergli dagli occhi,sceser giù di pianto gocce,

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fitte più che in stagno bacchee più grosse che piselli,più rotonde ch’uova, larghepiù che teste di rondoni.Cade l’acqua giù dagli occhi,giù gocciava fitta fitta,scivolava sulle guance,sopra il nobile suo volto:e dal nobile suo volto,sopra l’ampio largo mento:e dall’ampio, largo mento,sopra il petto tondeggiante:e dal petto tondeggiante,sui robusti suoi ginocchi:dai robusti suoi ginocchi,sopra i lunghi forti piedi:e dai lunghi forti piedi,sulla terra sotto i piedi:passò il pianto cinque lane,traversò sei cinti d’oro,sette azzurre camiciole,ed ancora otto mantelli.

E le gocce di quel piantosceser giù, dal vecchio Väinöverso la riva del mare:dalla riva dell’azzurromar, nell’acqua trasparentee nel fango nero in fondo.

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Ed il vecchio Väinämöinendisse allor queste parole:«C’è fra questa gioventute,questi giovani fiorenti,c’è fra questa grande stirpe,figli di nobile padre,le mie lacrime chi prenda,le raccolga giù dal mare?»

Ed allor fu la rispostasì dei giovani, dei vecchi:«Niun v’è in questa gioventute,niun dei giovani fiorenti,niuno in questa grande stirpe,figli di nobile padre,le tue lacrime che prenda,le raccolga giù dal mare».

Disse il vecchio Väinämöinen,pronunziò tali parole:«Le mie lacrime a chi prendae le gocce del mio piantocolga giù dall’onde chiare,donerò di piume un manto».

Venne il corvo gracidando:disse il vecchio Väinämöinen:«Prendi, corvo, del mio piantoquelle gocce giù dal mare!ti darò di piume un manto».Ma non le riprese il corvo.

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Udì ciò l’anatra azzurra,ed accorse l’anatrella;disse il vecchio Väinämöinen:«Anatrella, tu ben spessotuffi il becco giù nell’onde,passi a nuoto per i flutti:le mie lacrime raccogligiù dall’acqua trasparenteavrai grande ricompensa,ti darò di piume un manto».

Corse a prender l’anatrellaquelle lacrime di Väinö,giù dall’acqua trasparente,giù dal fango nero in fondo:le raccolse giù dal mare,al cantore in man le pose.

Ma già s’eran trasformate,eran belle diventate;eran perle rilucenti,perle tutte risplendenti,per regali adornamenti,per il pregio dei potenti.

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IL QUARANTESIMOSECONDO RUNO.

Uno, il vecchio Väinämöinen,Ilmari fabbro il secondo,ed il terzo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli,se n’andavan sul mar chiaro,sopra l’onde ampiodisteseverso quel freddo villaggio,verso Pohjola nebbiosadove l’uomo è divoratoe l’eroe vien sterminato.

E a remare chi fu messo?Ilmarinen fabbro l’uno:era questi il rematoreper i remi della prora,l’altro il vispo Lemminkäinenper i remi della poppa.

Ed il vecchio Väinämöinenal timone s’era messoa guidar la barca lieve,a condurla in mezzo all’onde,per i flutti ribollenti,per le ondate spumeggianti,fin di Pohjola ai cantieri,ai parati già pria noti.

Quando furon colà giunti,giunti al termine del viaggio,

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trasser il battello a terra,lo spalmato di catrame,lungo i rulli ben ramatie i parati rinforzati.

S’avviarono alle caseed entraron nelle stanze:la signora di Pohjolachiese, disse ai sopraggiunti:«Che venite a dire, voi?che notizie avete, eroi?

Il verace Väinämöinenle rispose in tal maniera:«Siam venuti a dir del Sampo,del coperchio variopinto:teco il Sampo dividiamoe il coperchio contempliamo!»

La signora di Pohjolacosì disse di rimando:«Nè scoiattol, nè piccionesi spartisce in tre persone:ben sta il Sampo a sussurrare,il coperchio a macinaresotto il colle dirupato,dentro il gran monte di rame:ed io stessa qui sto bene,io padrona del gran Sampo».

Il verace Väinämöinenparlò ancora, così disse:«Se una parte non ne dài

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nè metà del Sampo cedi,tutto quanto lo prendiamo,lo mettiam dentro la barca».

Louhi, di Pohja signora,fu dall’ira presa allora:chiamò Pohja tutta insieme,giovanetti con le spadeed eroi provvisti d’armicontro il vecchio Väinämöinen.

Ma il verace Väinämöinenprese allor la sua kantele:si sedè per accordarla,a suonar prese soave;tutti allora ad ascoltare,tutti lieti ad ammirare:eran gli uomini contentie le donne, sorridenti;chi ascoltò bagnati gli occhi,chi curvato sui ginocchi.

Fece stanca quella gente,assopì tutta la folla;prese ognun la sonnolenza,un torpore invase ognuno:dormon giovin, dormon vecchial suonar di Väinämöinen.

Quindi il saggio Väinämöinen,il sapiente sempiternofrugò dentro la sua tasca,nel suo magico sacchetto,

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e del sonno prese gli aghi,spalmò gli occhi di sopore,chiuse in croce i sopraccigli,le palpèbre col lucchettoalla gente affaticata,a quei forti già assopiti,che dormisse lungamente,s’assopisse per un pezzola famiglia di Pohjolae la gente del villaggio.

Andò il Sampo per pigliare,il coperchio a contemplaresotto il colle dirupato,sotto il gran monte di rame,dietro nove chiavistelli,dietro il decimo paletto.

Väinö quindi, a mezza vocecantò un canto di magiapresso alle porte di rame,presso alle soglie di pietra;e si scossero i battentisopra i cardini di ferro.

Ilmarinen fabbro alloraei, compagno del cantore,i lucchetti unse di burroed i cardini di grassoche non stridano le soglie,che non cigolino i perni:con le dita i chiavistelli

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alzò, i cardini col gancio:s’apron già le serrature,si spalancano le porte.

Ed il vecchio Väinämöinendisse allor queste parole:«Oh di Lempi vispo figlio,più d’ogni altro caro amico;ora il Sampo va’ a pigliare,il coperchio a sradicare!»

Quindi il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomieli,pronto pur senza preghierae senz’ordin sempre svelto,andò il Sampo per pigliare,il coperchio a sradicare:e diceva, mentre andava,in tal guisa, si vantava:«Com’è ver ch’io sono un uomo,un eroe figliuolo d’Ukko,sarà il Sampo sradicato,il coperchio rivoltatoquando sol col piede destroio lo tocchi, o col calcagno».

Pigiò forte Lemminkäinene voltò con tutta forza,strinse il Sampo con le braccia,puntò a terra le ginocchia:non si mosse il Sampo puntonè il coperchio variopinto:

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chè radice aveva messonove tese nel profondo.

C’è in Pohjola un bue robusto,forte, ed alto di statura,che massicci ha i fianchi e duried i muscoli potenti:una tesa lunghi i corni,una tesa e mezzo il muso.

Via dall’erba menò il bove,un aratro prese al campoper arare le radicie del Sampo i filamenti:allor sì si scuote il Sampo,il coperchio allor vacilla.

Primo il vecchio Väinämöinen,Ilmarinen fabbro poi,terzo, il vispo Lemminkäinen,fuori trassero il gran Sampoda quel colle dirupato,da quel gran monte di rame;lo portaron nel battello,lo nascoser nella nave.

Messo il Sampo nella barca,il coperchio sotto il ponte,quella nave dai cent’assiessi spinsero nell’acqua:con i fianchi giù nell’ondeun fruscìo diede il battello.

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Ilmarinen fabbro chiese,così disse, parlò allora:«Dove il Sampo metteremo,dove noi lo porteremovia da questi luoghi tristi,dalla povera Pohjola?»Il verace Väinämöinena lui disse di rimando:«Colà il Sampo porteremo,il coperchio metteremo:sulla punta tenebrosadi quell’isola nebbiosaperchè là prosperi in pacee vi resti eternamente:c’è colà di certo un tratto,un pezzetto di terrenonon colpito, non mangiatonè da spada mai toccato».

Quindi il vecchio Väinämöinenpartì lieto da Pohjola,se n’andò, di buon umore,verso casa, lieto in core:parlò ancora, così disse:«Barca, stáccati da Pohja,verso casa volgi il corso,oltre le terre straniere!Culla, vento, la barchetta,acqua, innanzi la sospingi,in soccorso vien’ de’ remi,

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delle pertiche in aiuto*su quest’onde ampiodistese,sull’aperta superficie.Fosse il remo piccolinoe chi voga, debolino,il nocchier fosse piccinoe il padron come un bambino,Ahto, dacci i remi tuoi,la tua barca, re dell’acqua:remi nuovi e assai migliori,più robusta la pagaia!E tu stesso i remi piglia,a vogare ti preparasì che corra la barchetta,sì che stridano gli scalmiattraverso la risacca,sopra i flutti spumeggianti!»

Quindi il vecchio Väinämöinenguidò lieve la barchetta:Ilmari fabbro, egli stessocon il vispo Lemminkäinenambedue stavano ai remie vogavan con ardoresopra l’acque trasparenti,la tranquilla superficie.

Disse il vispo Lemminkäinen:«Una volta, a’ tempi miei,acqua aveva il vogatoreed avea versi il cantore:

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oggi invece non si sente,non più capita di udireche si canti nella barca,che s’intuoni un canto in mare».

Il verace Väinämöinendisse allor queste parole:«Il cantare non sta benesopra l’acque, in mezzo all’onde:ci fa pigri il canto e tardi,ci trattiene dal remare:se n’andrebbe il sole d’oro,si farebbe notte a un tratto,mentre siamo in alto mare,sopra queste acque tranquille».

Ed il vispo Lemminkäinena lui disse di rimando:«Sempre il tempo se ne corre,il bel giorno fugge via,vien la notte inavvertitae il crepuscolo veloceanche se tu mai non cantie non strilli in vita tua».*

Andò il vecchio Väinämöinensopra il mar dal dorso azzurro;andò un giorno, un altro giorno:ma venuto il terzo giornoquell’allegro Lemminkäinenchiese una seconda volta:«Perchè, Väinö, tu non canti

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e non moduli la voce,poichè il Sampo hai conquistatoe la buona via trovato?»

Il verace Väinämöinengli rispose da prudente:«Troppo presto è per cantare,non ancor tempo di gioia:opportuno sarà il canto,sarà l’ora di gioirequando veda le tue porte,cigolar senta le soglie».

Disse il vispo Lemminkäinen:«S’io al timone mi trovassi,canterei con ogni possa,alzerei forte la voce:ora sì, ma un’altra voltanon potrei forse cantare;se cantar tu non prometti,voglio io stesso cominciare».

Quindi il vispo Lemminkäinen,quel leggiadro Kaukomielimise in ordine la bocca,accordò per ben la voce:e s’accinse a modulareil suo canto rumorosocon un’aspra acuta vocedal suo roco gorgozzule.

Cantò il vispo Lemminkäinen,strepitò Kauko leggiadro:

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gli tremava bocca e barba,s’agitavan le mascelle,ben da lungi s’udìa il cantoe la voce sopra l’acqua:giunse fino al sesto borgo,oltre il settimo dei golfi.

Sopra un tronco una cicognastava, in cima ad una zollae le zampe sollevavachè volea contarsi l’unghie;ma si scosse per pauraall’udir di Lempi il canto.

Gettò un urlo la cicogna,gridò con stridula voce,s’innalzò tosto nell’ariae volò verso Pohjola;non appena fu arrivatadi Pohjola sul paduleurlò forte un’altra volta,gridò con la voce roca,a Pohjola ruppe il sonno,risvegliò la trista gente.La padrona di Pohjolasi svegliò dal lungo sonno;vèr le stalle del bestiamecorse tosto, ed al granaioguardò e vide le sue mandre,contò il gran con l’occhio attento:

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non perduta era la gregge,non disperso era il frumento.

Andò al colle dirupato,sotto al gran monte di rame;così disse, colà giunta:«Ahimè, miseri miei giorni!uom straniero è qui venuto:rotte son le serrature,son le porte spalancateed i cardini divelti:forse sarà stato presodi qui il Sampo a viva forza?

Già era il Sampo stato preso,già rapito il bel coperchioda quel colle dirupato,da quel gran monte di rame,dietro il nono chiavistello,dietro il decimo lucchetto.

La signora di Pohjolafu da grande rabbia presa,poichè giù vide caderela sua fama, il suo potere;volse a Uutar queste preghiere:«O tu, figlia della nebbia,staccia bruma fina fina,goccia giù la nebbia fitta,giù dal ciel densi vapori,giù dall’aria un velo spessosopra il dorso del mar chiaro,

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sull’aperta superficie:chè non possa Väinämöinenire innanzi d’un sol passo!Se bastar ciò non dovesse,Turso, figlio del gran Vecchio,*alza il capo su dal mare,il cocuzzolo dall’ondeed annega di Kalevae d’Uvantola la gente;quei malvagi eroi sommergi,giù li butta nel profondo;qua riporta il Sampo, senzaruzzolarlo dalla barca!Se bastar ciò non dovesse,Ukko, tu supremo dio,tu dell’aria signor d’oro,tu d’argento rivestito!metti insieme un uragano,leva su forte bufera,manda il vento, spingi l’ondetutte contro quella barcachè non vada innanzi Väinönè si muova Uvantolainen».

Della nebbia la figliuolaun vapor soffiò sul mare,una bruma sopra l’aria;tenne il vecchio Väinämöinenfermo per tre notti intiere,fermo in mezzo al mare azzurro,

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senza che fornire il viaggionè che muoversi potesse.

Riposatosi tre nottifermo in mezzo al mare azzurro,parlò il vecchio Väinämöinen,pronunziò queste parole:«Non c’è uomo ancor peggiore,non eroe più sonnolentoche la nebbia abbia annegatoo la bruma giù prostrato».

Battè l’acqua con la lama,scosse il mare con la spada,dalla lama stillò miele,mosto al tocco della spada:si levò la bruma al cieloe la nebbia si disperse:tornò chiaro sopra il mare,il vapor fuggì dall’onda;più disteso, senza il velo,parve il mare, parve il cielo.

Era scorso un po’ di tempo,un momento era passatoe s’udì forte un brusìosotto al fianco della barca:si levò gigante un’ondacontro la nave di Väinö.

Ilmari fabbro, davverosentì allora gran spavento:calò il sangue giù dal viso,

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dalle rosse gote scese:si coprì con la coperta,la tirò fin su gli orecchi,si tappò per bene il visoed ancora meglio gli occhi.

Ed il vecchio Väinämöinenguardò intorno, sopra l’acqueed a fianco della barcavide un piccolo prodigio:Turso, figlio del gran Vecchio,stava a fianco del battello,su dal mar levava il capo,il cocuzzolo dall’onde.

Il verace Väinämöinentosto il prende per gli orecchi,per gli orecchi su lo tirae gli chiede ad alta voce,così dice, gli domanda:«Turso, figlio del gran Vecchio!perchè t’alzi su dal mare,ti sollevi su dall’ondea noi uomini dinnanzied al figlio di Kaleva?»

Turso, figlio del gran Vecchio,nè gioì di questa cosa,nè fu molto spaventato,nè rispose poco o punto,

Il verace Väinämöinenforte ancora lo richiese,

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e severo un’altra volta:«Turso, figlio del gran Vecchio,perchè t’alzi su dal mare,ti sollevi su dall’onde?»

Turso, il figlio del gran Vecchio,alla terza volta dissein risposta tal parola:«Per ciò su dal mar m’alzai,su dall’onde mi levai:che volevo sterminarei figliuoli, di Kaleva,riportare a Pohja il Sampo:se or mi cali giù nei flutti,se risparmi la mia vita,non verrò più un’altra voltain cospetto degli umani».

Ed il vecchio Väinämöinenlasciò il misero nei flutti,pronunziò queste parole:«Turso, figlio del gran Vecchio!non levarti più sul mare,non alzarti più sull’ondein cospetto degli umani,a partir da questo giorno!»

Da quel giorno in poi, giammaisi levò Turso dal marein cospetto degli umanifinchè luna e sole splenda,

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finchè brilli il giorno chiaroe ci faccia lieti l’aria.

Quindi il vecchio Väinämöinenspinse innanzi la sua nave:era scorso un po’ di tempo,un momento era passatoe già Ukko, dio supremo,il signor dell’alto cielo,fe’ soffiare i venti tutti,scatenarsi gli uragani.

A soffiar presero i venti,a infuriare le tempeste;il ponente soffiò forte,il libeccio impetuoso,piombò rapido il levante,lo scirocco con un urloe con fischi spaventosiil grecale e il tramontano.

Tolse agli alberi le foglie,rubò gli aghi alle pinete,rapì i fiori alle brughiere,disseccò le fibre all’erba:sollevò la mota nerafino in cima all’onde chiare.

Aspro soffia allora il vento,batte l’onda nel battello,porta via l’arpa di luccio,quella kantele di pinne,per la gente di Vellamo

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e d’Ahtola a gioia eterna:se n’accorse Ahto fra l’onde:d’Ahto i figli in mezzo ai fluttipreser la leggiadra cetra,la portàr nelle lor case.

Ma del vecchio Väinämöinensi riempir gli occhi di pianto:così disse, parlò allora:«Se n’è andato il mio lavoro,è sparito il mio conforto,la mia gioia sempiterna:non potrò più, d’ora innanzi*fin ch’io viva, trarre gioiadalle zanne del gran luccioe letizia dalle lische».

Ilmari fabbro egli stessosi sentì preso da angoscia:così disse, parlò allora:«Ahimè, miseri miei giorni!da che venni su quest’onde,sull’aperta superficie,sopra il legno ruzzolante,sopra il ramo tremolante!*La mia chioma ha visto il ventogià altre volte, e l’uragano,la mia barba tristi giornivide sopra questi flutti;ma di rado ha conosciutoprima un vento cosiffatto,

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tal di schiume ribollire,biancheggiare tale d’onde:presto è il vento il mio sostegno,sono l’onde il mio rifugio».

Il verace Väinämöinenriflettè, poi così disse:«Non si pianga nella barca,nella nave non si gema:non ci può pianto salvare,da sventura liberare».

Parlò ancora, prese a dire,in tal modo si fe’ udire:«Acqua, tieni i figli in freno:onda, ferma i tuoi ragazzi:Ahto, tieni ferme l’onde,la famiglia di Vellamo,che non battano nel bordo,non mi spruzzin sulla prora.Ora, vento, t’alza al cielo,sopra i nuvoli ti spingi,va’ lassù dove sei nato,dove sta la tua famiglia!Questa barca, questo pinotu non devi rovesciare:butta giù quelli dei boschida bruciar, da dissodare!»

Ed il vispo Lemminkäinen,il leggiadro Kaukomielicosì disse, parlò allora:

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«Vien’ tu, aquila di Turja,porta tre delle tue pennee tu portane due, corvo,per sostegno alla barchetta,per rinforzo de’ suoi bordi».

Egli stesso aggiunse gli assi,apprestò l’intavolato,fece i bordi di rinforzo,li innalzò per una tesasì che l’onda non vi giunganè vi arrivino gli spruzzi.

Or già bene rinforzatiebbe i bordi la barchetta,da cullarsi all’aspro vento,da gettarsi contro l’onda,mentre è forza che sua stradafra montagne d’acqua vada.

IL QUARANTESIMOTERZO RUNO.

Louhi, di Pohja signora,chiamò Pohjola a raccolta,alla gente diede gli archied agli uomini le spade,

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mise in ordine la nave,armò la barca guerriera.

A ciascuno assegnò il posto,a ciascun guerriero il luogo,come folaga i piccini,gli anatroccoli la mamma:eran cento con la spada,eran mille eroi con l’arco.

Drizzò l’alber della nave,mise in ordine le antenne,dispiegò le vele al vento,le fissò lungo le sartiequal di nube lunga striscia,qual gomitolo nel cielo:salpò quindi, corse innanzi,fece rapida la viaper raggiunger quella nave,per riprendere il suo Sampo.

Il verace Väinämöinennavigava in mezzo al mare:e di nuovo alzò la vocee da poppa così disse:«O di Lempi vispo figlio,degli amici miei più caro,al pennone monta in cima,rampicato sull’antenna;guarda innanzi, guarda indietro,sbircia il cielo e l’orizzonte

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se i confin dell’aria chiari,se son chiari oppure torbi!»

Quindi il vispo Lemminkäinen,quel ragazzo scapestratopronto pur senza preghierae senz’ordin sempre svelto,al pennone montò in cimarampicato sull’antenna.

A levante ed a ponente,a maestro e a mezzogiornoe di Pohja lungo il lidoguardò: quindi così disse:«Chiara è l’aria per dinanzi,ma di dietro torbo il cielo:sta di dietro un piccol lembod’una nube, a tramontana».

Disse il vecchio Väinämöinen:«Certo tu non dici il vero:non è nuvolo per niente,non di nube piccol lembo;quella è nave con la vela:guarda meglio, un’altra volta!»

Guardò attento un’altra volta,poi rispose in tal maniera:«Da lontano, fra la nebbias’intravede un isolotto:sono i pioppi pien di falchi,le betulle di fagiani».

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Disse il vecchio Väinämöinen:«Certo tu non dici il vero:non saranno quelli falchi,non saranno quei fagiani:quelli son di Pohja i figli;guarda meglio un’altra volta!»

Quindi il vispo Lemminkäinenguardò per la terza volta:poi rispose in tal maniera,così disse, si fe’ udire:«Già di Pohja vien la nave,fende il mar coi cento remi:vi son cento vogatorie seduti vi son mille».

Ed il vecchio Väinämöinensentì ch’era quello il vero:così disse, parlò allora:«Ilmarinen fabbro, voga,voga, vispo Lemminkäinen,tutti, uomini, vogateche la barca corra innanzi,che si scosti da lor via!»

Ilmarinen fabbro voga,voga il vispo Lemminkäinen,voga pur tutta la ciurma;il timon di pino geme,fischian gli scalmi di sorbo,stride la barca d’abete,sbuffa qual foca la prora

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e la poppa qual cascata:tutto intorno il mar ribolle,va la schiuma in larghe palle.

Fan gli eroi gara di remi,e di voga fan tenzone:ma non vuol sparir la via,ma non può fuggir la barcadalla nave che veleggia,dal battello di Pohjola.

Ed il vecchio Väinämöinensentì presso la sventura,minaccioso il triste giornoe pensava, riflettevaad un mezzo per salvarsi:parlò ancora, così disse:«Mi ricordo di un ripiego,di un prodigio piccolino».

Si tastò per cercar l’esca,si frugò per l’acciarino:un scheggiuol prese di selceprese d’esca un pezzettino,scagliò l’uno e l’altro in maresopra alla spalla sinistra:poi parlò, si fece udire,pronunziò questo scongiuro:«Questi due diventin scoglio;isolotto ben nascosto:che la nave a cento scalmidi Pohjola vi s’infranga

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dove l’onda è vorticosa,dove batte la risacca!»

Crebber quelli come scogli,come rupe a fior del mare,l’uno steso verso oriente,l’altro verso tramontana.

Vien di Pohjola la navee veloce fende i flutti,viene a urtare nella rupe,a ficcarsi fra gli scogli:ecco, il legno in due si rompe,vanno in pezzi le cent’assi,piomba l’albero nel mare,si sprofondano le veleperchè il vento le trascini,le sballotti la tempesta.

Louhi, di Pohja signora,salta con i piè nell’acqua:ad alzar corre la barca,il battello a sollevare:non c’è più da alzar la barca,da far muovere la nave:tutte le costole rotte,e gli scalmi tutti in pezzi.

E pensava, rifletteva,in tal modo poi diceva:«Qual consiglio ci sarebbe,quale mezzo in tal frangente?»

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Cambiò tosto la sua forma,trasmutò la sua natura:prese cinque vecchie falcie sei zappe consumate;se le mise come unghioni,strette ai piedi come artigli;metà della barca rottale facea da corpo, sotto:prese i fianchi a guisa d’ali,il timone come coda,sotto l’ali cento armati,mille in cima della coda,cento forti con la spada,mille d’arco tiratori.

Già si stende per volare,già com’aquila s’innalza,già si libra, già svolazzaper raggiunger Väinämöinen:sfiora i nuvoli con una,con l’altra ala spazza il mare.

Disse la madre dell’acque,bella donna, in questo modo:«O tu vecchio Väinämöinen!volta il capo verso il sole,getta gli occhi vèr maestro,guarda dietro a te un pochino!»

Il verace Väinämöinenvoltò il capo verso il sole,gettò gli occhi vèr maestro,

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guardò dietro a sè un pochino:già di Pohja vien la vecchia,vola già lo strano uccello,pari a falco nelle spalle,a sparvier nella figura.

Già raggiunge Väinämöinene dell’alber vola in cima,sull’antenna arrampicata,siede in cima del pennone:si piegò forte la nave,stava quasi per far cuffia.

Dopo aspra lotta, la vittoria resta alla gente di Kale-vala. Pure, alla signora di Pohjola riesce di far piom-bare il Sampo dalla barca nelle onde, dove si spezza e va in frantumi (186-266). I pezzi più grossi si sprofon-dano e formano le ricchezze del mare, i più piccoli son spinti dalla risacca alla spiaggia! del che Väinämöinen gioisce, sperandone nuova prosperità (267-304). La si-gnora di Pohjola minaccia di distruggere ogni benesse-re in Kalevala, ma Väinämöinen non se ne cura (305-368). Angustiata per aver perduta la sua potenza, la si-gnora di Pohjola ritorna alle sue terre, non riportando di tutto il Sampo se non il coperchio vuoto (369-384). Väinämöinen raccoglie con cura dalla spiaggia i fram-menti del Sampo, li pianta, e ne spera continua prospe-rità (385-434).

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IL QUARANTESIMOQUARTO RUNO.

Väinämöinen va a cercare la sua kantele caduta in mare, ma non riesce in alcun modo a ricuperarla (1-76).

Nel passar per la boscaglia,lungo l’orlo della selvaudì pianger la betulla,la screziata lacrimare:s’accostò, si fece innanzi,al suo fianco più vicino.

Le parlò, così le chiese:«Perchè piangi, ti lamenti,o betulla verdeggiante,tu che hai bianca la cintura?non ti portan già alla guerra,non ti menano a battaglia».

Ma rispose la prudente,disse l’alber verdeggiante:«Certo molti soglion dire,nella mente lor pensareche contenta io me ne viva,passi i giorni giubilando:negli affanni, poveretta,nelle lacrime gioisco:delle angustie mi lamento

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e dei giorni miei più tristi.Piango per la mia pochezza,per la vita così vuota:priva son d’ogni vantaggio,d’ogni appoggio sono orbataquaggiù in mezzo al triste piano,fra pasture abbandonata.Più felici le betulle*che sospiran desioseil ritorno dell’estate,della tepida stagione:altro, misera, mi aspetto,d’altro io devo paventare:di vedermi la cortecciaed i rami via portare.È venuta da me spesso,meschinella, a me da presso*con la presta primaveradi ragazzi vispa schiera:per ficcare i lor coltellinella pelle mia sugosa;e mi portan via, d’estate,i pastori il cinto bianco*e ne fanno bicchierini,pei lamponi panierini.Son venute da me spesso,meschinella, a me da pressole fanciulle a riposaree d’intorno a me a saltare:

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taglian foglie dal mio capo,legan rami per le fruste.Son venuti da me spesso,meschinella, a me da presso,per il bosco dissodare,la catasta per tagliare:già tre volte quest’estate,nella tepida stagionevenner uomini al mio fiancoaffilando le lor asciecontro il mio povero capo,contro la mia debol vita.Tal d’estate fu la gioia,la letizia del bel tempo;nè migliore fu l’inverno,dolce più il nevoso tempo.Sempre, nei passati tempi,mi mutò l’affanno il volto,si piegò dolente il capo,si fêr pallide le gotericordando i neri giorni,ripensando ai tristi tempi.Chè dolor mi porta il ventoe la brina gravi affanni;la pelliccia verdeggiantevia mi porta, e il bel vestito;sì ch’io debole betulla,alberello sventurato,resto affatto denudato,

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d’ogni veste dispogliato,a tremare per il freddo,a gridare sotto il gelo».

Disse il vecchio Väinämöinen:«Deh non piangere, betulla,tu che hai rami verdeggianti,tu che hai bianca la cintura!or tu avrai felice vita,nuova sorte più gradita:or di gioia piangerai,di letizia suonerai».

Quindi il vecchio Väinämöinenfe’ da quella uno strumento:in un giorno dell’estateintagliò, lavorò l’arpasulla punta tenebrosa,lungo l’isola nebbiosa;della kantele la cassaintagliò nel cuor del tronco,trasse la nuova letiziada quel legno marezzato.

Disse il vecchio Väinämöinen,pronunziò queste parole:«Della kantele la cassafatta è già, l’eterna gioia:ma i cavicchi ove trovare,donde le viti pigliare?»

Una quercia nel recinto,presso la stalla, cresceva:

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sulla quercia, rami dritti:ogni ramo, un pomo: ed ognipomo, una ghiandina d’oro:un cuculo, ogni ghiandina.Ogni volta che cantavail cucul con cinque note,gli cadea di bocca l’oroe l’argento gli sgorgavasull’argentea collina,sopra l’aureo monticello:i cavicchi tolse a quella,da quell’albero le viti.

Disse il vecchio Väinämöinen,pronunziò queste parole:«I cavicchi ora ho trovato,per la kantele le viti:manca ancora una cosetta,cinque corde alla kantele:donde prendere le corde,con che fare le sonore?»

A cercare andò le corde,passò lungo la boscaglia:nel boschetto una fanciullasedea presso alla palude;non piangeva la donzella,ma non era nemmen lieta:per se stessa canticchiava,a far più breve la sera,

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aspettando il fidanzato,col pensiero al suo diletto.

Il verace Väinämöinensi fe’ presso senza scarpefrettoloso, senza calze:non appena la raggiunseprese a chiederle i capelli,le rivolse la parola:«Dammi un ricciolo, fanciulla,di codesti bei capelli,come corde alla kantele,come suon di eterna gioia!»

La fanciulla gli diè un ricciodi que’ suoi capelli fini,gli diè cinque, sei capelli,glie ne diede in tutto sette:fùr così fatte le corde,le suonanti la letizia.

Era pronto lo strumento:quindi il vecchio Väinämöinendella soglia sedè in basso,appoggiato sopra un sasso.

Prese in mano la kantele,strinse a sè la sua letizia,ne voltò la punta al cieloe la cassa sui ginocchi:accordò le corde tese,modulò la melodia.

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Accordate eran le corde,era in ordin lo strumento;lo voltò sotto le palmea traverso dei ginocchi,vi poggiò le dieci dita,sollevò cinque dell’unghie,le fe’ scorrer sulle corde,saltellare sulle note.

Quando il vecchio Väinämöinensuonò quella sua kantelecon le mani lievi e molli,con i pollici piegati,parlò il legno marezzato,cinguettò quel ramoscello,cantò l’oro del cuculoe gioirono i capelli.

Suonò Väinö con le dita,cantò l’arpa con le corde:rimbombaron massi e monti,echeggiarono le rupi,saltellaron sopra l’ondesassi, e ciottoli sull’acque,s’agitaron lieti i pinied i tronchi sulle lande.

Di Kaleva le sposineil ricamo tralasciandocorser là siccome fiume,come rapido torrente:col sorriso sulle labbra,

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liete in core le massaieper udir quel dolce suono,per gioir di quella gioia.

Quanti uomini là presso,tutti col berretto in mano:quante vecchie là vicino,con la mano sulla gota:han fanciulle molli gli occhi,piegan giovani i ginocchila kantele nell’udire,di letizia nel gioire:dicon tutti ad una voce,come con la stessa lingua:«Non fu prima giammai uditacosì dolce melodia,da che dura questa vitada che splende l’aurea luna».

E s’udì quel suon soaveal di là di sei villaggi:nè vi fu colà creaturache a sentir non accorresse,ad udir quel dolce suono,quella kantele armoniosa.

Quanti ha il bosco d’animalis’accosciaron sulle zampe,per udir quel dolce suono,per gioir di quella gioia:gli augelletti volatorisi posarono su’ rami

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ed i pesci d’ogni sortas’accostarono alla riva:anche i vermidi sotterrasulla polvere strisciandosi torcevan per udirequella dolce melodia,la kantele della gioia,il suonar di Väinämöinen.

Quindi il vecchio Väinämöinenmodulò sulla sua cetrale più belle melodie;suonò un giorno, suonò un altro,nè cessò per prender cibodopo il pasto del mattino:nè mutò la sua postura,nè camicia, nè cintura.

Se suonava nella casa,dentro la stanza di pino,tosto il tetto risuonavae fremeva il pavimento:cantan travi, gridan porte,si rallegran le finestre,trema il sasso del camino,danza lieta la traversa.

S’egli va per la pineta,se fra i larici passeggia,un inchino fanno i pini,riverenti, a terra i cembri

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lascian gli aghi lor cadere,ed al suol curvano i rami.

Se passava pel boschetto,per la selva dissodata,il boschetto ecco scherzare,alto la selva esultare,un con l’altro i fior baciarsie gli steli giù piegarsi.

IL QUARANTESIMOQUINTO RUNO.

La signora di Pohjola suscita contro Kalevala inusi-tate malattie (1-190). Väinämöinen guarisce il suo po-polo con efficaci esorcismi e con unguenti (191-362).

IL QUARANTESIMOSESTO RUNO.

La signora di Pohjola aizza l’orso contro le mandre di Kalevala (1-20). Väinämöinen abbatte l’orso; dopo

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di che si tengono in Kalevala feste e banchetti a cele-brare tali cacce (21-606). Väinämöinen canta, suona la sua kantele ed augura a Kalevala la stessa vita lieta nei tempi avvenire (607-744).

IL QUARANTESIMOSETTIMO RUNO

Il sole e la luna discendono per ascoltare la musica di Väinämöinen; la signora di Pohjola li afferra, li na-sconde dentro il monte e ruba anche il fuoco dalle stan-ze di Kalevala (1-40). Ukko, il dio supremo, si meravi-glia del cielo buio e batte fuoco per una nuova luna e un nuovo sole (41-82). Il fuoco cade sulla terra e Väi-nämöinen ne va in cerca insieme ad Ilmarinen (83-126). La Vergine dell’aria dice loro che il fuoco è piombato nel lago di Alu, dove un pesce lo ha inghiottito (127-312). Väinämöinen ed Ilmarinen cercano di pescare questo pesce con una rete di scorza, senza riuscirvi (313-364).

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IL QUARANTESIMOTTAVO RUNO.

Fabbricata una rete di lino, viene con essa pescato il pesce che aveva inghiottito il fuoco (1-192). Il fuoco vien ritrovato nel ventre del pesce, ma guizza via ad un tratto, scottando in malo modo le guance e le mani ad Ilmarinen (193-248). Il fuoco si slancia nel bosco, ab-brucia e devasta molte terre, finchè viene afferrato e messo nelle oscure stanze di Kalevala (249-290). Ilma-rinen guarisce delle scottature (291-372).

IL QUARANTESIMONONO RUNO.

Ilmarinen fucina un nuovo sole e una nuova luna, ma non riesce a farli risplendere (1-74). Traendo le sorti, Väinämöinen apprende che il sole e la luna si trovano dentro il monte di Pohjola; si reca colà, combatte con quelle genti e le sconfigge (75-230). Vede il sole e la luna dentro il monte, ma non riesce a penetrarvi (231-278). Torna in patria per procurarsi degli arnesi coi quali aprire il monte. Mentre Ilmarinen glie li lavora, la

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signora di Pohjola, impaurita del malanno che le sovra-sta, libera il sole e la luna dal monte (279-362). Väinä-möinen, veduti il sole e la luna nel cielo, li saluta ed au-gura che sempre così belli sorgano ed apportino pro-sperità alla terra (363-422).

IL CINQUANTESIMO RUNO.

Marjatta, vaga figlia,lungamente in casa crebbe,venne su del padre a’ fianco,della cara mamma a lato;ruppe cinque catenelle,consumò sei cerchiettiniper le chiavi del suo babboluccicanti alla cintura.

Consumò metà di sogliacol bel lembo della veste:mezza trave della porta,con la seta della cuffia:portò via mezzi battenticon le maniche sottili:anche gli assi del piancito,con i tacchi delle scarpe.

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Marjatta, vaga figlia,quella piccola fanciullasi mantenne a lungo casta,si serbò sempre modesta;si nutriva di bei pescie di scorza di pin, molle:non dell’uova di gallina(col chichirichì starnazza),nè di carne di agnellina,che col becco si sollazza.

Le diè ordine la madreperchè a munger si recasse:non vi andò, così rispose:«Pari a me nessuna toccail capezzol d’una vaccache col toro s’è accoppiata:se una soda non dà il latte,se non viene da un vitello».

Nè per sè volle la slittaaggiogata allo stallone;e al fratel che vi attaccavala cavalla, così disse:«Me non tiri una cavallache conosce lo stallone:la mia slitta vuol pulledriche sian giovani d’un mese».

Marjatta, vaga figlia,vivea sempre verginella

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e modesta salutava,pettinata da fanciulla.

Portò al pascolo la gregge,andò insieme con gli agnelli;van le pecore sul collee gli agnelli in cima al monte:la fanciulla nel boschetto,saltellando fra i cespugli,dove chiama il cucul d’oroe l’uccel d’argento canta.

Marjatta, vaga figlia,a guardar stava, ad udirepresso il colle delle bacchee del monte sul pendio;a parlare prese alloraed a dir queste parole:«Chiama qui, cuculo d’oro,uccellin d’argento, canta,trilla pur, petto di stagno,parla, fragola tedesca!andrò a lungo a testa nudaqual custode delle greggisopra questi aperti campi,fra i fronzuti boschi ed ampi?per due estati, per tre forseo per cinque, oppur per sei,forse ancor per nove estati,oppur sino al fin di questa?»

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Marjatta, vaga figlia,guardò a lungo le sue greggi:dei pastor la vita è dura,soprattutto a una fanciulla:sotto l’erba striscia il serpee i ramarri dànno un guizzo.

Non si vide strisciar serpenè guizzare alcun ramarro:la chiamò bacca dal collee mirtillo dalla landa:«Vieni a prendermi, fanciulla,guancia rossa, tu mi cogli,piglia me, petto di stagno,scegli me, di rame cinta,pria che chiocciola mi mangi,che mi roda un baco nero!Cento vennero a vedere,mille accanto a me a sedere;cento figlie, mille mogli,senza numero bambini:niun toccò me poverina,niuno colse me meschina».

Marjatta, vaga figlia,fe’ di strada un pezzettinoper guardare quella baccae per cogliere il mirtillocon la punta delle dita,con le sue belle manine.

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Scorse la bacca dal colle,il mirtillo dalla landa:qual mirtillo fatto, o bacca:ma tropp’alta, per mangiarlagiù da terra, e troppo bassaper montare sulla pianta.

Svelse un palo dalla landa,fe’ cader la bacca a terra;ma da terra quella baccale salì sopra le scarpe;montò, dalle belle scarpefino alle caste ginocchia;e salì dalle ginocchiasulle pieghe della veste.

Salì quindi alla cintura,dalla cintola, sul petto:montò poi dal petto al mentoe dal mento, sulle labbra:guizzò poi dentro la bocca,ruzzolò sopra la lingua,dalla lingua nella golae di qui scese nel ventre.

Marjatta, vaga figlia,ne rimase ingravidataed il ventre n’ebbe gonfioe più pingue la persona.

Prese a star senza cinturaa non stringersi alla vita,

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di nascosto andare al bagnoe restare spesso al buio.

E fra sè dicea la madre,non le usciva dalla mente:«Che ha la nostra Marjatta,la colomba della casa?perchè sta senza cintura,alla vita non si stringe,e va al bagno di nascostoe le piace stare al buio?»

Seppe dire un fanciullinoe rispondere un piccino:«Questo avvenne a Marjatta,alla nostra poverinache rimase troppo a lungofra le greggi ed i pastori».

Portò quella il grave ventre,la pienezza della panciasette mesi ed otto mesi:a compir la nona luna,come contano le vecchie,fin del decimo nel mezzo.

Or nel decimo le doglieassaliron la fanciullaed il ventre, fatto duro,la opprimeva di fatica.

Alla madre chiese un bagno:«O diletta madre cara,una stanza mi prepara

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con un bagno riscaldatoper riposo alla fanciulla,per sollievo alla dolente!»

Ma la madre seppe dire,sì rispondere la vecchia:«Druda d’Hiisi, disgraziata!con chi tu ti sei giaciuta?era un uomo senza moglieod un ammogliato eroe?»

Marjatta, vaga figlia,le rispose di rimando:«Non fu uomo senza moglie,un eroe non fu, ammogliato:delle bacche alla collinaandai a prendere un mirtillo:colsi bacca che mi piacque,la posai sopra la lingua:nello stomaco mi scesee di là calò nel ventre;fui da quella ingravidatae restai per quella incinta».

A suo padre chiese un bagno:«O diletto padre caro,dammi un luogo riscaldato,una stanza con un bagnodella debole a ristoro,a sollievo delle doglie».

Seppe il padre così diree risponderle in tal modo:

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«Più lontano vanne, putta,fuggi via, druda del fuoco,va dell’orso alla caverna,alla sua tana di pietra:colà, putta, partorisci,là ti sgrava, meretrice!»

Marjatta, vaga figlia,da prudente gli rispose:«Io non sono meretrice,non davver del fuoco druda:d’un grand’uomo sarò madre,d’una nobile progenie,al di sopra dei potenti,forse più di Väinämöinen».

La fanciulla è nell’angoscia,non sa dove i passi volga,nè chi preghi per un bagno:parlò allora, così disse:«Piltti, tu la più piccina,la miglior delle mie ancelle!cerca un bagno nel villaggio,una sauna presso al Saradella debole a ristoro,a sollievo delle doglie;corri presto, senza indugio,che ve n’è tosto bisogno!»

Piltti ancella piccolinacosì disse, le rispose:

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«A chi chiedere la stanza,a chi aiuto domandare?»

E la nostra Marjattacosì disse, le rispose:«A Ruotus chiedi la stanza,a lui che sta presso al Sara».

Piltti ancella piccolinaera umile ed obbediente:pronta prima del comando,svelta senza esser pregata:uscì, come nebbia, lievecome fumo, nel recinto:con le mani sollevatotenea l’orlo della veste:corse presto, andò velocedi Ruotus verso le case:mentre andava, le collinesi scuotevano ed i monti:saltan pine sulle lande,sassolini nel pantano:di Ruotus giunse alla stanza,si fe’ innanzi sotto il tetto.

Ruotus brutto, in camiciotto,mangia, beve a mo’ dei grandi,all’estremo della mensa,con la sua blusa di lino.

Nel mangiare, Ruotus disse,domandò con aria altera:

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«Che vuoi dire, poveraccia?donde sei tu qui venuta?»

Piltti ancella piccolinaparlò allora, così disse:«Cerco un bagno nel villaggio,una sauna presso al Sara,della debole a ristoro,che ha bisogno di sollievo».

Di Ruotus la brutta moglievenne, con le man sui fianchi,dimenandosi venivae pestando il pavimento:s’affrettava a domandare,in tal modo a interrogare:«E per chi tu chiedi il bagnoe per chi tu cerchi aiuto?»

Disse Piltti piccolina:«Per la nostra Marjatta».

Di Ruotus la brutta moglieparlò allora in tal maniera:«Non c’è libera una stanza,non un bagno nel villaggio:sopra il colle della bracec’è una stalla in mezzo ai pini;là la druda partorire,può figliar la meretrice:del cavallo il caldo fiatoda vapor le può servire».

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Piltti, ancella piccolina,ritornò di corsa indietro;s’affrettò quanto potevae tornata le diceva:«Non c’è un bagno nel villaggio,una sauna presso al Sara:di Ruotus la brutta mogliem’ha risposto in questo modo:«Non c’è libera una stanza,non un bagno nel villaggio:sopra il colle della bracec’è una stanza in mezzo ai pini;là la druda partorire,può figliar la meretrice;del cavallo il caldo fiatoda vapor le può servire».Tal risposta lei m’ha dato,in tal modo m’ha parlato».

Marjatta, la fanciulladiede in un dirotto pianto:parlò ancora, così disse:«Dovrò dunque colà andare,come un pover manuale,come un servo mercenario,sopra il colle della brace,su quel campo abbandonato».

Con la mano sollevatotenne l’orlo della veste,e di foglie delicate

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mise in grembo un ciuffettino:si affrettò quanto poteva,tormentata dalle doglie,alla stanza in mezzo ai pini,alla stalla sopra il colle.

Disse allor queste parole,pronunziò questo scongiuro:«Vien’, Creatore, a mio sostegno,in aiuto mio, benigno,in quest’opera penosa,in quest’ora dolorosa:dalle doglie la fanciulla,dagli spasimi solleva,che alle pene non soccomba,non perisca fra i tormenti!»

Giunta al fine del camminopronunziò queste parole:«Or respira, cavallino,buon pulledro, soffia forte,un vapor caldo diffondi,spargi il caldo nella stanza,della debole a ristoro,che ha bisogno di sollievo».

Respirava il buon cavalloe soffiava quel pulledropresso al ventre doloroso;del cavallo il fiato caldofu qual bagno di vapore,qual d’acquetta lo spruzzare.

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Marjatta, la fanciulla,quella casta donzelletta,si bagnò di quel vaporequanto il ventre ebbe bisogno:fece un vago bambinello,l’innocente bimbo misesulla paglia del cavallo,nella greppia del chiomato.*

Lavò quel suo figliuolino,l’avvolse in fasce di lino:sui ginocchi poi lo prese,sulla veste lo distese.

Tenne ascoso il figliuoletto,allevò quel bel tesoro,la sua cara mela d’oro,il bastone suo d’argento;fra le braccia lo imboccava,nelle mani lo voltava.

Mise il figlio sui ginocchi,si posò nel grembo il bimbo:prese il capo a pettinargli,i capelli a ravviargli:cadde il bimbo dai ginocchie dal grembo le scomparve.*

Marjatta, la fanciulla,venne allora in grande affanno:corse tosto, corse in cercadel suo piccolo tesoro,della cara mela d’oro,

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del bastone suo d’argento:del mulin sotto la pietra,sotto l’asse della slitta,lo cercò sotto lo staccioe dell’acqua sotto il secchio:scosse gli alberi e le piante,spartì l’erba delicata.

Cercò a lungo il suo figliuolo,il suo figlio piccolino:lo richiese alle pinete,ai cespugli, alle brughiere;guardò dentro ogni sterpeto,frugò dentro ogni prunaia,scavò fino alle radicidel ginepro, e scosse i rami.

Pur pensò d’andare innanzi,corse rapida qual palla:le si fe’ la Stella incontro,alla Stella s’inchinava:«O tu, Stella che Dio fece!non sai tu del mio figliuolo?dov’è il mio piccolo caro,la mia dolce mela d’oro?»

Seppe dir così la Stella:«Lo sapessi, no ’l direi:egli me pure ha creatoper passare tristi giorni,per risplendere nel freddo,scintillare in mezzo al buio».

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Pur pensò d’andare innanzi,corse rapida qual palla:le si fe’ la Luna incontro,alla Luna s’inchinava:«O tu, Luna che Dio fece,non sai tu del mio figliuolo?dov’è il mio piccino caro,la mia dolce mela d’oro?»

Così seppe dir la Luna:«Lo sapessi, no ’l direi:egli me pure ha creato,per passare tristi giorni;vegliar, sola, nelle nottie di giorno sonnecchiare».

Pur pensò d’andare innanzi,corse rapida qual palla;le si fece incontro il Sole,essa al Sole s’inchinava;«O tu, Sole che Dio fece,non sai tu del mio figliuolo?dov’è il mio piccino caro,la mia dolce mela d’oro?»Le rispose il sol garbato:«Certo so del tuo figliuolo:egli ha me pure creatoper passare giorni lieti,camminar d’oro al fruscìoe d’argento al tintinnìo.Ben so già del tuo figliuolo,

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di tuo figlio, poveretta!Il tuo caro figliuoletto,la tua mela d’oro bella,nel pantano è fino al petto,nella landa fin l’ascella».

Marjatta, la fanciullacercò il figlio nel pantano:nel pantano fu trovatoed a casa riportato.

Quindi presso Marjattail fanciul crebbe leggiadro:ma nessun sapeva comesi chiamasse, con qual nome:«fior» la mamma lo chiamava,lo straniero, «fannullone».

Si cercò chi il battezzasse,l’acqua santa gli versasse:venne un vecchio, Virokannas,il fanciullo a battezzare.*

Disse il vecchio in questo modo,pronunziò queste parole:«Non battezzo uno stregatonè fo il misero cristianose dapprima non sia vistoda chi deve, e giudicato».

Chi lo deve esaminare,su di lui giudizio dare?il verace Väinämöinenil sapiente sempiterno,

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ei lo deve esaminare,su di lui giudizio dare.

Il verace Väinämöinenpronunziò tale sentenza:«Poichè dal pantan fu preso,poichè nacque da una bacca,messo in terra sia il ragazzosopra il colle delle bacche,e portato nel pantanoed ucciso col bastone».*

Avea il bimbo mezzo mesee pur disse chiaro e pronto:«Vecchio sciocco, senza senno,poveretto, smemorato,che da stolto hai sentenziato,senza intendere la legge?Non per colpe assai più gravi,non per opere più tristiti portaron nel pantanoo ti ucciser col bastonequando tu, più giovin d’anni,desti il figlio di tua madrela tua testa per salvare,per te stesso liberare.E nemmeno allora fostinel pantano tu gettatoquando tu, più giovin d’anni,annegasti le fanciulle*

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dentro l’onde sterminatee sul nero fango in fondo».*

Tosto il vecchio reverente*battezzò quel fanciullino;lo sacrò re di Careliae signor d’ogni potente.

Ma sdegnato Väinämöinen,pien di collera e vergognase ne andò, si mise a errarelungo la riva del mare:laggiù, per l’ultima voltacantò un canto di magia:un battel cantò, di bronzoe di rame ricoperto.

Egli stesso sedè a poppa,mosse sopra l’acqua chiara:parlò ancora nel partire,cantò nell’allontanarsi:«Lascia pur passare il tempo,giorni andare, altri veniree di me bisogno avranno,me di nuovo cercherannoper rifare un nuovo Sampo,fabbricar nuovo strumento,ricondurre nuova luna,nuovo sole liberarequando sole e luna manchie dal mondo fugga gioia».

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Quindi il vecchio Väinämöinenprese il largo con la barcafra il frusciare della chiglia;il battel di rame spinsefino al punto dove il cieloa toccar scende la terra.

Là rimase con la barca,là fermò la navicella;a Suomi lasciò l’arpa,lo strumento melodioso,lasciò ai figli gli alti canti,a letizia, a eterna gioia.

CHIUSA.

Già dovrei chiuder la bocca,già convien la lingua io leghi,cessi dal cantare versi,dal sonoro modulare:il cavallo prende fiatoquando lunga strada è andatoe la falce pur si smussanel tagliar fieno d’estate;il torrente pur si quetaquando in seno al fiume è giunto,

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raro e debol guizza il fuocoche bruciò per lunga notte;e perchè non languirebbeanche il runo e non cadrebbe,dopo lunga lieta, sera,dopo il canto del tramonto?Ho sentito spesso dire,da più parti confermare:«La cascata impetuosatutta l’acqua sua non versa,e nemmeno il buon cantoretutta l’arte in una volta:*meglio è scienza risparmiareche nel bel mezzo troncare».Così dunque lascio e chiudo,così cesso di cantare,fo gomitolo dei versie li lego in matassina;in dispensa me li serbochiusi col lucchetto d’osso,*sì che più non n’escan fuorimai, per volgere di tempi,se il lucchetto non è aperto,le mascelle spalancate;se non si mostrano i dentie la lingua non si piega.*E s’io canto, a cosa giova,se pronunzio molti versi,e li spargo in ogni valle,

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ne riempio ogni pineta?Più non vive la mia mamma,più non veglia la mia vecchia:la diletta non li impara,non li sente la mia cara:sol gli abeti ad ascoltarestanno, e i pini ad imparare;le betulle col fogliameed i sorbi con le rame.*Senza mamma da piccinoson rimasto, da bambino,come allodola sul sasso,come tordo sullo scoglio,come allodola a squittire,a zirlare come tordo;affidato a una straniera,di matrigna nelle mani:cacciò via me poveretto,orfanello, senza affetto,verso la stanza del vento,dove soffia tramontana,perchè la tempesta riail meschin portasse via.Presi, lodola, a vagare,uccellin, presi a migraresempre povero, ad erraresempre misero, a girare:ogni sibilo di vento,di tempesta ogni muggito

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e del freddo ogni tormentoho imparato ed ho sentito.Ora poi ci sono molti,molta gente spesso trovoche mi parlano aspramente,che mi dicon detti duri:della lingua un dice male,l’altro biasima la voce,dice l’un che il suono è rozzoo che troppo il canto dura:che l’ho male modulato,che l’ho peggio recitato.Voi però, miei buoni amici,strano ciò non troveretech’io, ragazzo, canti troppo,che cinguetti qual bambino!Io non sono stato a scuola,non in terra di maestri,nè parole forestiereho cercato più lontano.Sono stati gli altri a scuola,io da casa non mi mossi,non dal fianco della mamma,della sola mia diletta:presi a casa il mio sapere,l’ebbi presso alla dispensa,presso al fuso della madre,alla pialla del fratello,*già da bimbo piccinino

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col mio rotto camicino.*Nonostante, ad ogni modo,ai cantor mostrai le tracce:potai rami, tagliai foglieper mostrar loro la via:or di qua la via comincia,*si distende nuova stradaper cantori più sublimi,per poeti più fecondinella stirpe che su vienee nel popolo che cresce.

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NOTE3

I 31-36 e 45-50. Principali personaggi, località e ar-gomenti del K. – 45. «La fonte di ogni prosperità, qui pensato come sorgente di carmi magici. – 71-90. Dice in forma d’immagini come i canti furono raccolti, conser-vati e ricantati.

II 67. Specie di mostro marino. – 172. Letteralm.: co-lor di fegato. – 196. La potenza di farsi sempre amare. – Cfr. nel r. XLVIII lo spezzarsi del Sampo e il disperdersi de’ suoi frammenti (Ki.). – 212. kontti, specie di zaino o sporta fatta con strisce di scorza di betulla. – 245-46. Cioè in una borsetta di tale pelle. – 301. «D’ordinario si invocavano dapprima gli spiriti (haltia) più vicini e più

3 Il numero romano indica il runo o canto, l’arabo il verso.Ilm. = Ilmarinen, J. = Joukahainen, Lemm. = Lemminkäinen,

V. = Väinämöinen, K.= Kalevala.Con le sigle Ki. (KIRBY), L. l. D. (LÉOUZON LE DUC), S.

(SCHIEFNER) sono indicate le note tolte dalla trad. inglese, francese e tedesca. Quelle tradotte dalla glossa finnica della terza ediz. del Kalevala (Helsingissä 1887) sono poste fra « »: un L. aggiunto ad esse, richiama al LÖNNROT.

Ko. = KOSKINEN, Dictionnaire finnois-français, Helsinki 1900.V. K. = Vanha (Vecchio) Kalevala, cioè la prima redazione del

1835.

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umili, e poi, se si dubitava che essi non potessero o vo-lessero portar aiuto, i più alti ed eccelsi, e lo stesso dio supremo Ukko, che non si voleva a bella prima importu-nare».

IV 3-4. «Mazzi di ramoscelli di betulle, coi quali i Finni si battono il corpo nudo, dopo il loro bagno di va-pore, per attivare la traspirazione. Occupazione delle ra-gazze era il legare a sera fascetti per il bisogno per tutta la famiglia, inoltre riscaldare la sauna, portar acqua, ecc.». – 52. Per farne un collare per il cavallo. – 204. «Si ritiene sfortunata l’anatra, perchè nuota d’autunno nelle acque gelate. Cfr. XXII 411-14». – 207. La neve che non può liquefarsi al calore del sole. – 315. «Tanto la rupe quanto le tre fanciulle erano fantasmi ingannevo-li coi quali gli spiriti acquatici, i seguaci di Ahto, aveva-no attirato Aino nelle onde». – 423. Spirito maligno.

V 132. (Tarda) denominazione per «madre delle ac-que», la divinità marina già ricordata in Agricola († 1557) «wedhen eme». – 133. Diminutivo e sinonim di Ahti, il signore delle acque: in Agricola, «Achti wedhest Caloja toi» (Ahti portava pesci dall’acqua).

IX 378-82. «rammentano qualche antico avvenimento leggendario», cioè una siccità eccezionalmente lunga. – 383-92. «Parole che si pronunziano nel cauterizzare una ferita col ferro rovente». – 393. = se io non fossi capace.

XI l. Ahti, adoprato come variante per Lemm., col quale originariamente non ha nulla che fare. – 20. Kas-sapää, la fanciulla che ha «la tête garnie d’une riche chevelure relevée en chignon» (Ko.). – 26. Cioè, senza

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lavorare. – 62. Che pensa (-mieli) a cose lontane (Kau-ko). – 175-78. = di qua non partirò mai. – 203-4. «Il rat-to della fidanzata era uso predominante presso i nostri antenati, come anche adesso presso altri popoli di stirpe finnica. Toccava al fidanzato di pagare il riscatto, spesso molto forte, al padre della ragazza; ma se la povertà non glie lo consentiva, s’impadroniva a forza (mediante il ratto) della sposa, generalmente col consenso di lei. La cosa veniva poi accomodata coi genitori della ragazza». – 233. «Con la lepre si raffigura spesso lo sventurato, privo di protezione». – 261-72. «Lemm., irritato del ma-lumore di Kyllikki, finge di consolarla ed enumera, bur-landosi ad un tempo di se stesso e di lei, tutto il bestia-me che egli possiede, cioè le bacche dei boschi (puolik-ka), delle paludi (muurikkinen) e delle colline (mansik-kinen)». I tre nomi di vacche sono scelti con graziosa ironia; come se dicesse: Nel palude ho la Morina-sopra il colle, Fragolina-terza, al bosco, Mirtillina. – 283. «Gli uomini di Hiisi erano celebri fabbri.

XII 161-62. Una trave o tavola posta a mo’ di ponte per passare sopra un pantano o sopra della fanghiglia.

XV 54-56 e 123-26: essa superò facilmente tutti gli ostacoli e le asprezze del cammino. – 192-93. Tuoni, orig. «il morto», poi la Morte, il re dei morti; Tuonela (o Manala), il suo regno sotterraneo. – 271-72. Coll’anula-re della mano destra e coll’alluce sinistro. – 285. «Pare che il corvo parli nel suo interesse, per potersi cibare della carogna (di Lemm.)». – 397-98. Sinonimi: il regno del dio o dea del bosco (Metso = metsä, Tapio). – 502.

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Le Pleiadi. – 576. La dimora di Untamo, fratello di Ka-lervo (v. XXXI segg.). – 595. La divoratrice: spirito ma-ligno.

XXII 49-50. v. la nota a XI 203. – 66-67. = non pesa-sti il pro e il contro. – 260. = donna inutile. – 261. per-chè si calpesta. – 305. La cuffia, o le bende di lino, di-stintivo delle maritate. – 328-34. «Per piacere allo spo-so, dovrebbe essere furba e ardita come il salmone, di-screta come la perca, frugale come la martora, ecc.» (L. l. D.). – 335-44. Nessuna fra le ragazze sa donde verrà il futuro marito. – 357. Della sauna. – 373. Kuja «stretto passaggio coperto, dall’una parte del quale si tengono le vacche, dall’altra i cavalli». – 499-506. «Il a passé toute la nuit dans la forêt, près d’un feu allumé avec des troncs d’arbres, afin de pouvoir y reprendre son ouvrage dès le grand matin» (L. l. D.). – 522. Da ogni cosa egli sa fare denaro; oppure: ha tesori nascosti sotto terra.

XXIII 154. Ai vitelli ammalati. – 149-50. «Gli anditi, i granai e le stalle erano spesso così bassi di soffitto, da non poterci andare se non curvati». (L.). –221-30. «Un ramo di sorbo, specialmente se provvisto di frutti, po-trebbe essere ammaestramento persuasivo sulle spalle di moglie indocile» (L.). – 281. Dove si tiene per conser-varlo asciutto. – 285-86. «Mentre macinavano, le fan-ciulle e le altre donne erano solite cantare i loro ‘versi della farina’ (jauhorunoja)... Ma il canto è da pigri e di-sturba il lavoro» (L.). – 287. La pietra della macina. – 287-88. «Ti serva di canto il brusio della macina». – 300. «Che si aggiungono alla farina o ad essa, in tempo

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di carestia, si sostituiscono: scorza di pino, paglia tritata, ecc.». – 301. E quindi «prossimo a vuotarsi» dell’acqua. – 313-16. Nelle note inedite al Kalevala il L. osserva a questo punto: «In alcune capanne solitarie ho veduto an-cor oggi delle fanciulle pettinarsi dinanzi a un catino d’acqua». – 328-29. «Spesso le donne fanno fare piccoli servigi ai forestieri e li compensano di nascosto con gra-no, farina e altra roba». – 352. I fascetti di foglie di be-tulla, già ricordati nella nota a IV 3-4. – 369. A versare acqua sulle pietre arroventate: in tal modo la stanza da bagno si riempie di vapore acqueo e la temperatura sale rapidamente. – 370. Sotto una delle due tavole, inferiore e superiore, su cui il bagnante si sdraia. – 376. Pro-priam. il pettine del telaio. – 397-98. Facendo economia di orzo e di legna. – 405. Qui, come altrove, ‘bagno’ vale ‘stanza da bagno’ (sauna). «Il malto si prepara per lo più nella sauna, dove il calore favorisce la germina-zione» (L. l. D.). – 446. Rancido; propriam. ‘dell’inver-no passato’. – 499. «Cioè, volubile: ora carezzevole, ora burbero: che cambia capricci e discorsi, come l’allodola melodie». – 519-20. Cioè, la fame ve lo spinse. «Le pa-role lusinghiere dello sposo trassero la fanciulla nella trappola del matrimonio» (L. l. D.). – 596. «Gli avanzi della farina, raccattati sulla pietra della macina» (K.). – 631-32. = mi mandavano al diavolo. – 812. Musti = Nero, nome che si dà spessissimo ai cani. – 829-30. La-sciati alla cura di altri.

XXIV 119. Il pane di scorza di betulla, di pino ecc. che si mangia nei tempi di carestia. Cfr. la nota a XXIII

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300. – 218. «Quoi de plus charmant que cette discrétion recommandée à l’époux lorsqu’il s’agit de reprendre et de corriger sa jeune femme! Toute cette runo est remplie d’une exquise délicatesse» (L.1. D.). – 240. Giustamen-te osserva il Ki.: «Nel Kalevala troviamo spesso men-zione, in teoria, di busse da dare alla moglie, ma rarissi-ma ne è la pratica; nemmeno lo sfrenato e violento Lemm. pensa a picchiare la moglie quando letica con lei». – 282. Letteralm. «veniva come per strapparmi i capelli». – 391-94. Cfr. XXII 161-64. – 394. «Non reste-rà traccia della giovinetta lungo la via che la separa dal-la casa paterna» (L. l. D.). – 400. Sulla loro tomba. – 463-76. «Ilm., impaziente dell’indugio e noiato di tanti addii, ne fa in questi versi una specie di parodia».

XXV 47. «Chiama il figlio ‘fratello’, per maggior-mente onorarlo». 51-52. «Pensavo che la sposa fosse an-cora troppo piccola, che bisognasse aspettare finchè cre-scesse: o troppo magra, da doverlesi dar tempo di in-grassare». – 55-56. «Mentre che il ricordo di lui era tut-tora vivo e fresco nella casa sua» (L. l. D.). – 95 segg. «Ricorda le antiche usanze del matrimonio per ratto». – 137-40. Accenni all’abbondanza del bestiame e degli animali domestici. – 219. Luna = sposa, rege = sposo. Altri intende «la femme d’honneur chargée de la toilette de la mariée» (Ko.) e respettivamente il capo del corteo. – 245 segg. Versi scherzosi, coi quali «si insolentisce contro la sposa, quando non ha ancora distribuito i doni nuziali». – 280. Nato da un giorno. – 296. Il testo: «con così svelta curva del collo». – 319-26. = XXII, 460-68.

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– 351-52. Cioè «se tu desiderassi lo stesso pesce, la stes-sa cacciagione che trovasi nella casa paterna» (L. l. D.).

XXIX 61. saari = isola, qui come nome proprio. – 141-42. Cfr. I 7-10. «Lemm. veut dire que les paroles avaient été si longtemps retenues dans sa bouche que.... elles y fondaient, ou y germaient, ainsi qu’une graine semée dans un terrain humide» (L. l. D.). – 265-68. «Non volle fare alla zitella il sacrificio del sonno: quan-do si svegliò, a giorno fatto, era troppo tardi per recarsi all’appuntamento amoroso» (L. l. D.).

XXXI 25-26. Dal confronto con una variante d’Ingria ne è chiarito il significato: «con la potenza dei suoi scongiuri magici Untamo fece sorgere per sè un eserci-to». – 37. Nel testo è una «pecora» (uuhi); ma una «pe-cora procace» (uljas) sembrerebbe a noi un po’ troppo strano! – 50. La lezione orig. non è però kaunot «belle (fanciulle)», ma kannot «tronchi» (camuffati, per astuzia di guerra). Cfr. FUF I (Anz.), pag. 99 e OHRT, Kalevala, II, pag. 158. – 82. Secondo la nota, Soti-jalo = sota-urho (eroe di guerra). Ma poteva Untamo così chiamare il figlio dell’aborrito nemico? Meglio forse intendere = sota-jalo, ‘perla della guerra’ cioè ‘la miglior preda di guerra’; cfr. v. 328, sota-orjan ‘servo della guerra’ cioè acquistato in guerra. – 137-40. «Si possono intendere in due maniere: o che Kullervo non soffrì male maggiore che se vi fossero stati colà due o tre romaiuoli d’acqua – ovvero che tanta acqua Kullervo pensava vi fosse» (Ahlqvist). O non può aversi qui la solita figura d’‘iro-nia’?... – 251. Nel kasken kaa’ntahan c’è assai più che

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‘tagliare il bosco’. È l’insieme delle operazioni che il francese dice ‘écobuage’, «manière de culture consistant à défricher par le feu un terrain boisé dont on a abattu les arbres» (Ko.).

XXXIII 35. lippi, «vaso da bere fatto di un sol pezzo di scorza di betulla piegato in forma di cornetto e prov-visto di un manico» (Ko.). – 37. vehnä ‘frumento’ qui = caro. Cfr. Kanteletar, I, 180. – 56-58. Il testo ha tre nomi propri, corrispondenti all’incirca a questi aggettivi. Così noi chiamiamo un cane Nero, Rosso, ecc. – 117-18. Pie-nikki (Piccolina); Kyyttä (cfr. kyytto ‘qui a le dos enfon-cé» Ko.), kyyttäniska ‘gobbo’ nomi di vacche; cioè, gui-da a casa i lupi e gli orsi invece del gregge. – 125. Hiien huora (dall’ant. nord. hóra, ted. Hure) = meretrice di Hiisi, dell’Inferno.

XXXIV 185-88. «Non si accordano con XXXI 71-76, onde l’Ahlqvist vorrebbe espungerli».

XXXVI 17-22. «Raffigurano le vane minacce del-l’impotente». – 145-48. «Piangerò così a lungo, che le nevi in questo mentre si scioglieranno, la terra si coprirà di erbe e le erbe fioriranno». – 224. Letteralm. ‘sapone tedesco’. Cfr. XVIII 352, dove si parla di «ottime scarpe di Germania». – 229. «Piagnistei per un morto si canta-no specialmente mentre viene alzato dal letto per (met-terlo sulla) paglia, mentre vien lavato, vestito, posto nel-la bara, portato alla fossa, ecc. I versi cantati in tale oc-casione sono molto antichi e con parole disusate. I can-tori o piagnoni sono sia parenti, sia estranei assoldati». Di questi voceri finni discorre, e ne dà un saggio, Ad.

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Neovius (Suomalaisista Itkuvirsistä). – 249-50. Il foco-lare, e l’albero sacro alla famiglia.

XLII 200. huopari è un remo speciale, col quale si voga «en poussant l’aviron au lieu de le tirer, comme d’ordinaire» (Ko.). – 245-50. Cfr. Kanteletar, II, 1. – 348. Cioè di Ukko. – 499. «Certe opere magiche non poteva l’uomo fare due volte. Nemmeno ad Ilmarinen riuscì di fucinare un nuovo Sampo per la terra di Kaleva dopo che la sua potenza magica fu una volta impiegata a profitto di Pohjola». – 519-20. «Farò naufragio, e non avrò altro scampo che nell’essere spinto dal vento e dal-le onde verso la riva» (L. l. D.). Cfr. XXIX, 439-40.

XLIV 105. «Le betulle che crescono in luoghi mi-gliori, lontane dalle abitazioni degli uomini». – 119-20. «Il succo che cola dalla betulla in primavera forma una bevanda gradita» (L. l. D.). – 123-24. V. la nota a IV, 3-4.

L 336. «Fino a questo punto (1-336) il racconto corri-sponde alla variante più breve della Kanteletar (III, 20), La vergine Maria madre del Salvatore; da questo punto in avanti (337-420) il racconto segue essenzialmente i versi della Kanteletar (III, 22, 13-159), La morte del Salvatore, con la differenza che il Sole sa che il Salvato-re

è già preda della morte,già piombato nel sepolcro».

351-52. «Probabilmente qui c’è un vago ricordo della sparizione del Salvatore dai suoi genitori, quando essi

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partirono da Gerusalemme» e lo ritrovarono poi nel tempio. Vedi Luca, II 41-50, il solo dei quattro evangeli-sti che narri questo episodio. – 434. «Ce mélange de christianisme et de paganisme.... est on ne peut plus cu-rieux» (L. l. D.). – 454. Cfr. Kantelatar, III, 40. – 469-74. Alludono alla morte di Aino. – 472. Cfr. IV, 9 segg. – 475. Cioè Virokannas; reverente, «perchè meravigliato del discorso di quel bambino di due settimane». – 533-34. «Il sortilegio perde della sua forza, se s’insegna completamente ad altri; perciò si omette sempre di can-tare qualche verso». – 541-42. Cioè in bocca, dietro ai denti. – 537-48. Cfr. I, 71-90. – 553-60. «... rappresenta-no il particolare destino del cantore, l’isolamento e le di-sgrazie della sua vita, sotto l’impero delle quali dal suo petto addolorato sbocciò la poesia. Ma lo stesso fu il de-stino di tutto il popolo finno, ed uguale origine hanno i suoi canti». – 593-608. Cfr. Kanteletar I, 2. – 607-10. Cfr. I, 37-44, – 613-15. «Chi va per un sentiero scono-sciuto, strappa foglie dagli alberi e taglia dei rami, affin-chè possa poi, rifacendo quello stesso viaggio, andare innanzi più spedito badando a quei segni». Sono il ruk-khanimittam e il pabbatanimittam noti ai lettori del Ja-takam (vol. I, pag. 320).

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