Kabul - Le notizie e i video di politica, cronaca...

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la sfida delle donne Kabul DOMENICA 26 APRILE 2009 D omenica La di Repubblica spettacoli François Truffaut si racconta MARIO SERENELLINI e FRANÇOIS TRUFFAUT l’incontro Ilaria D’Amico splendida bugiarda DARIO CRESTO-DINA l’attualità Cento anni da terremotati a Messina ATTILIO BOLZONI mente debordano le cantanti indiane, sempre accompagnate da un dimenio di ballerine fasciate di rosso. Sembra passato un seco- lo dal tempo dei Taliban, quando una donna che avesse violato l’obbligo all’invisibilità sarebbe stata frustata con un cavo di ferro. È uno spettacolare balzo in avanti, ma anche un ritorno al futu- ro, grossomodo ai primi anni Settanta, quando a Kabul arrivò da occidente il vento dell’emancipazione. «Nelle feste della borghe- sia cittadina molte ragazze si mostravano in minigonna», garanti- sce Najiba Ayubi, stupefatta dalla sua scoperta («se non avessi vi- sto le foto non ci crederei»). Najiba è la direttrice esecutiva del network radiofonico Killid, e la nipote della prima donna che si tol- se il burqa nella provincia di Parwan, ottant’anni fa. La storia afga- na dell’ultimo secolo si può misurare anche con quel metro, l’a- vanzare improvviso, e l’altrettanto improvviso retrocedere, tanto delle stoffe quanto dei diritti delle donne. (segue nelle pagine successive) GUIDO RAMPOLDI KABUL I cartelloni pubblicitari reclamizzano soltanto un genere d’impresa, le carrozzerie che blindano le macchine per be- nestanti dalle attività avventurose. Sono aumentate le men- dicanti, e anche i posti di blocco. Si diffonde tra i giovani la moda dello skate-board. Ma la novità più sorprendente, per chi tor- ni a Kabul dopo tre anni, è lo spazio che oggi hanno le donne nelle radio e in tv, insomma nella fabbrica dell’immaginario afgano. Il televisore è ancora un bene di lusso ma non manca mai negli uffi- ci ministeriali, dove richiama bivacchi di impiegati maschi, ipno- tizzati dalle divinità femminili che annunciano la nuova era. Do- mina lo schermo la cantante afgana Naghmà, viso spavaldo e ca- pigliatura corvina non coperta dal minimo velo. Ma quantitativa- la memoria Fortepiano, la scatola della musica NATALIA ASPESI cultura Franca & Dario “all’improvvisa” DARIO FO e FRANCA RAME FOTO ALAMY Strette tra i Taliban e le leggi medievali di Karzai Eppure mai come ora le ragazze afgane incarnano l’immagine colorata di un futuro possibile Repubblica Nazionale

Transcript of Kabul - Le notizie e i video di politica, cronaca...

la sfidadelle donne

Kabul

DOMENICA 26 APRILE 2009

DomenicaLa

di Repubblica

spettacoli

François Truffaut si raccontaMARIO SERENELLINI e FRANÇOIS TRUFFAUT

l’incontro

Ilaria D’Amico splendida bugiardaDARIO CRESTO-DINA

l’attualità

Cento anni da terremotati a MessinaATTILIO BOLZONI

mente debordano le cantanti indiane, sempre accompagnate daun dimenio di ballerine fasciate di rosso. Sembra passato un seco-lo dal tempo dei Taliban, quando una donna che avesse violatol’obbligo all’invisibilità sarebbe stata frustata con un cavo di ferro.

È uno spettacolare balzo in avanti, ma anche un ritorno al futu-ro, grossomodo ai primi anni Settanta, quando a Kabul arrivò daoccidente il vento dell’emancipazione. «Nelle feste della borghe-sia cittadina molte ragazze si mostravano in minigonna», garanti-sce Najiba Ayubi, stupefatta dalla sua scoperta («se non avessi vi-sto le foto non ci crederei»). Najiba è la direttrice esecutiva delnetwork radiofonico Killid, e la nipote della prima donna che si tol-se il burqa nella provincia di Parwan, ottant’anni fa. La storia afga-na dell’ultimo secolo si può misurare anche con quel metro, l’a-vanzare improvviso, e l’altrettanto improvviso retrocedere, tantodelle stoffe quanto dei diritti delle donne.

(segue nelle pagine successive)

GUIDO RAMPOLDI

KABUL

Icartelloni pubblicitari reclamizzano soltanto un genered’impresa, le carrozzerie che blindano le macchine per be-nestanti dalle attività avventurose. Sono aumentate le men-dicanti, e anche i posti di blocco. Si diffonde tra i giovani la

moda dello skate-board. Ma la novità più sorprendente, per chi tor-ni a Kabul dopo tre anni, è lo spazio che oggi hanno le donne nelleradio e in tv, insomma nella fabbrica dell’immaginario afgano. Iltelevisore è ancora un bene di lusso ma non manca mai negli uffi-ci ministeriali, dove richiama bivacchi di impiegati maschi, ipno-tizzati dalle divinità femminili che annunciano la nuova era. Do-mina lo schermo la cantante afgana Naghmà, viso spavaldo e ca-pigliatura corvina non coperta dal minimo velo. Ma quantitativa-

la memoria

Fortepiano, la scatola della musicaNATALIA ASPESI

cultura

Franca & Dario “all’improvvisa”DARIO FO e FRANCA RAME

FO

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Strette tra i Taliban e le leggi medievali di KarzaiEppure mai come ora le ragazze afgane incarnano

l’immagine colorata di un futuro possibile

Repubblica Nazionale

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 APRILE 2009

la copertinaKabul, la sfida

(segue dalla copertina)

Èuna guerra senza fine in cui né unaparte né l’altra da allora è riuscitaad attestarsi in una posizione sal-da, definitiva. Un conflitto cruen-to le cui vittime predestinate, don-ne che osano l’inosabile, non de-

vono guardarsi soltanto dal nemico dichiarato,i Taliban, ma spesso anche da chi dovrebbeproteggere le loro spalle, innanzitutto genitorie fratelli. I Taliban hanno assassinato la diret-trice di Radio Pace, nel 2007; ma sono stati i fa-miliari a uccidere due annunciatrici colpevolidi essere andate in video truccate e senza velo,mi ricorda Tanya Kayan, conduttrice di unatrasmissione radiofonica. Tanya era la primadella classe quando i Taliban chiusero le scuo-le. Continuò a studiare in casa, su libri di testocomprati al mercato nero e dopo la liberazionedell’Afghanistan fu nel primo gruppo di ragaz-ze che si iscrisse alla facoltà di giornalismo. Del-le dodici che si sono laureate con lei, sei sonostate costrette da genitori e mariti a rinunciareal lavoro per fare le mogli. Eppure le altre settelavorano nei media, le ragazze che compaionoin tv sono sempre più numerose, e il moltipli-carsi di queste presenze femminili sulla scenapubblica sta cambiando, dice Tanya, perfinol’arcigno tradizionalismo pashtun. Secondo laKayan, oggi il venti per cento delle donne afga-ne è consapevole dei propri diritti, una percen-tuale altissima se consideriamo che una parterilevante della popolazione femminile di fattonon è neppure in grado di leggere.

Quel venti per cento sta vincendo la propriaguerra millenaria, sia pure al prezzo altissimodi cui raccontano le cronache. Adolescentisfregiate con il vetriolo perché andavano ascuola, donne ammazzate perché avevano ac-cettato un ruolo di potere, ragazze sparate peraver amato il ragazzo rifiutato dai genitori…Ogni rivoluzione ha i suoi caduti. Ma perchéquesta finalmente riesca, occorre che vada be-ne anche l’altra guerra, la guerra guerreggiatadagli uomini. In proposito, molte afgane sonodubbiose. Temono che l’Occidente e i suoi al-leati afgani finiranno per svendere i diritti delledonne in cambio di un armistizio qualunque.Tanya non è tra queste. «Non credo che ci pian-terete in asso», dice con un bel sorriso. Ma unmese fa, in un dibattito tra giornaliste ospitatodalla sua radio Killid, la conduttrice di una tv haritenuto prudente fare autocritica: mi pento diaver chiamato «selvaggi» i Taliban, ha detto.Non si sa mai.

Così la guerra delle donne si decide anchesulla cresta di una montagna, a due ore di mac-china da Kabul, dove trovo quaranta soldati af-gani accampati al riparo di muretti di pietra.Non sono al sicuro. L’anno scorso una granataè fischiata sulle loro teste (ma è esplosa lonta-no, un duecento metri) e una recluta è stata am-mazzata da un cecchino appostato sulla mon-tagna dirimpetto. Le pattuglie nemiche arriva-no di notte, da una valle vicina, Ouzbine, dovesi nascondono tra i centoventi e i centoquaran-ta Taliban, racconta Agha Jonbozi, il maggioreafgano che mi accompagna quassù. Sono glistessi Taliban che nel 2008 hanno massacratodieci militari francesi. Ma questa valle l’hannopersa. L’attacco decisivo è stato condotto daglielicotteri americani. Però è stato il maggiore af-gano a conquistare i cuori e le menti dei conta-dini. Aiutati dai consiglieri americani i suoi sol-dati hanno portato nei villaggi l’allaccio del-l’acqua, aperto una scuola e distribuito semen-ti. Tre anni fa le strisce di verde scuro ai piedi deivillaggi color terra erano campi di papavero daoppio. Oggi sono campi di zafferano, e rendo-no di più. Altrove in Afghanistan è stato soprat-tutto il grano a soppiantare l’oppio. Da quandosui mercati internazionali il suo prezzo è au-mentato, un acro coltivato a grano rende gros-somodo quanto un acro coltivato a papavero,ma richiede meno acqua e meno lavoro. E an-che per questo l’anno scorso l’estensione dellecoltivazioni di papavero sul territorio afgano èdiminuita di un quinto. Ma è stato un successoper gran parte casuale e, se i trafficanti di oppioaumentassero l’offerta, temporaneo.

È effimera anche la vittoria del maggiore af-gano Jonbozi e dei suoi consiglieri americani?Come ci ricordano più in basso i relitti di tanksovietici affioranti dal terreno, queste valli stra-tegiche tra Kabul e il Pakistan sono state la trap-pola in cui finirono massacrate le guarnigioniin fuga di due poderosi imperi. Nell’Ottocentoi britannici, nel Novecento i russi. Ma quella incorso è una guerra diversa da tutti conflitti pas-sati. «La strana guerra», la definisce Jamil Kar-zai, nipote del capo di Stato e influente parla-mentare. Strana perché è la più asimmetrica trale guerre asimmetriche, una somma caotica diantiche rivalità geostrategiche e stravagantipartite occulte, come quella di cui mi raccontail senatore Mohammad Arif Sarwari, fino al2004 capo dei servizi segreti afgani (Nds). Nellaprovincia di Khost, proprio a ridosso del confi-ne con il Pakistan, «c’è una base fuori dal con-trollo Nato in cui i servizi americani e indiani la-vorano insieme ad un programma segreto, cre-do tuttora attivo. Non riguarda al Qaeda o binLaden, ma il Pakistan. Da quella base elicotteritrasportano armi e pacchi di banconote ad al-cune tribù pakistane nelle aree tribali». Secon-do Sarwari, tra i beneficiati vi sono anche le mi-lizie sciite di Parachinar, protagoniste nel 2007

di uno scontro feroce con tribù sunnite. E sequesto è vero, probabilmente il messaggioamericano ai militari pakistani suona così: fin-ché voi aiutate i nostri nemici Taliban in Afgha-nistan, noi aiuteremo i vostri nemici indiani acrearvi instabilità in casa.

Come la guerra degli uomini, così la lotta del-le afgane per l’emancipazione ha una prima li-nea tortuosa. C’è un nemico esterno, i Taliban,e uno interno, un islamismo che odia i Talibanma non è meno bigotto di loro. Dove i due cam-pi si intersecano, la confusione è massima. Co-me si è visto quando il parlamento afgano haapprovato la legge sul diritto di famiglia. A lun-go perseguitata in quanto sciita, per la primavolta nella sua storia millenaria la minoranzahazara, il dieci per cento della popolazione, sivedeva riconosciuto un proprio diritto di fami-glia, diverso da quello sunnita, e con quello il di-ritto a una propria identità. Ma a quale prezzo?In buona sostanza la legge è stata scritta daimullah sciiti e da parlamentari di etnia hazarache per buona parte provengono dalla resi-stenza armata ai Taliban. Dalla ricomposizio-ne del sodalizio tra guerrieri e sacerdoti non po-teva che nascere una legge profondamente illi-berale: però un po’ meno illiberale di quanto

GUIDO RAMPOLDI

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WahidaSPOSATA, 25 ANNI, un figlio, controllala sicurezza sul lavoroalla centrale elettricadi Kabul. Sfuggitaai Taliban in Pakistan,ha fatto la hostess«Tutti i giornimi minacciano perchélavoro, anche i colleghiMa non mi faròrinchiudere ancora»

MalikaCINQUE FIGLI, 27 ANNI,un marito scappato:Malika non ha avutoaltra scelta che entrarenella polizia afganaHa provato a mentirea vicini e famiglia:«Ma credo che abbianocapito. Sono a rischio,ma senza lavoraresarei mortain ogni caso»

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 26 APRILE 2009

Najiba, Tanya e le altrealla guerra delle donne

Cantano in tv a volto scoperto, conducono programmi radio,scendono in piazza per contestare la “nuova” leggesul diritto di famiglia. Il coraggio delle ragazze afgane— nonostante le pressioni di padri e mariti, gli assassinii,gli sfregi al vetriolo — è la novità più sorprendente del Paesetornato al centro del Grande Gioco in versione anni Duemila

non siano i costumi tradizionali dei contadinidell’Hazarajat, presso i quali, per esempio, ènormale prendere in sposa una bambina di no-ve anni (la nuova normativa lo vieterebbe).

Proprio questi interventi sui costumi nuzia-li degli Hazara avevano convinto partiti laici co-me Terza linea, e deputate progressiste comeSunia Barakzai, che il testo fosse un compro-messo accettabile. E questa grossomodo eraanche l’opinione dei giornalisti liberali, perciòsorpresi dalle proteste che arrivavano dai go-verni occidentali. «Quella legge non è così im-portante», mi diceva in quei giorni MujahidKakar, caporedattore di una tv, al Tolo, che pu-re detesta, ricambiata, ogni fondamentalismoislamico. Perfino giornaliste che i Taliban fuci-lerebbero volentieri, come Tanya Kayan, noncapivano perché l’Occidente si scandalizzassetanto: «La questione vera è un’altra, permette-re concretamente alle donne di studiare e di la-vorare. È a quel modo che le afgane apprende-ranno i loro diritti e impareranno a difenderli».

Però quella legge non era affatto un proble-ma marginale per molte ragazze sciite di Kabul,soprattutto non-hazara di credo ismailita, cuinon andava giù l’idea che diventasse un obbli-go legale, per esempio, concedersi al marito, se

richieste, almeno una volta ogni quattro giorni(dimostrando una singolare idea della libidofemminile, il testo impone lo stesso obbligo almarito, però una volta ogni quattro mesi). Co-sì trecento ragazze vestite nell’uniforme neradelle donne sciite la scorsa settimana hanno in-scenato a Kabul una clamorosa manifestazio-ne di protesta. La reazione è stata immediata:nello spazio di una mezz’ora un migliaio di stu-denti sono scesi in piazza per contrastare, conurla e insulti, le svergognate che avevano osatosfidare il clero sciita, e in modo così plateale.

Adesso gli sciiti sono divisi tra chi rifiuta «in-gerenze» sunnite, o peggio, occidentali, e chiinvece si chiede se la legge, nel frattempo con-gelata, non sia un pessimo biglietto da visita perla propria fede. Probabilmente il parlamentoapporterà modifiche: ma se si limitasse a qual-che ritocco, per non scatenare l’ira dei mullah,come reagirebbero gli occidentali? Chiunqueconosca la storia dell’invasione sovietica nonpuò ignorare che proprio sovvertire i costumiafgani fu fatale ai russi. I liceali furono incitatiad amarsi liberamente e a ribellarsi ai matri-moni combinati dai genitori. Ma se questa ri-voluzione regalò un po’ di libertà a una genera-zione, però convinse molti altri afgani che era

in corso un attacco all’islam e soprattutto agliassetti della società patriarcale: convinzioneche contribuì non poco all’adesione alla guer-riglia dell’Afghanistan rurale.

Gli occidentali non ripeteranno gli errori deisovietici. Sette anni fa, liberato l’Afghanistan, laloro parola d’ordine era: dobbiamo essere am-biziosi. Oggi è: dobbiamo essere realisti. Ma unrealismo in eccesso può essere pericoloso:quali sono i limiti oltre i quali diventerebbe tra-dimento delle afgane? E la salvaguardia dei di-ritti elementari delle donne è o no una condi-zione tassativa a quella «soluzione politica»considerata inevitabile ormai da tutti — Karzai,americani, europei? Il problema è complicatodal fatto che agli occidentali manca un interlo-cutore chiaro. Quelli che chiamiamo «Taliban»sono infatti una somma di varie bande e di variinteressi. Il comando occidentale preferiscedefinirli «insorti» e il capo di stato maggiore Na-to, il generale Marco Bertolini, valuta che i Ta-liban veri e propri siano una piccola minoran-za. Di fatto i Taliban contro cui combatte ilmaggiore Jonbozi tra le montagne che circon-dano il lago di Naghlu, non sono davvero Tali-ban. Il loro capo, il comandante Sultan, va e vie-ne dal Pakistan con una facilità che i militari af-gani considerano prova inconfutabile di un le-game con i servizi segreti pakistani, l’Isi. Sultancoordina sette distinti gruppi armati, che com-prendono contrabbandieri (il Pakistan è vici-no), criminali comuni, arabi, ceceni. Ma il gros-so, valuta il maggiore Jonbozi, è composto damilitanti di Hizb-i-islami, l’organizzazione diun alleato dei Taliban, Gulbuddin Hekmatyar.Quest’ultimo ha un legame storico con il servi-zio segreto pakistano e uno più recente conTeheran; è in relazioni con al Qaeda, e in affaricon i narcotrafficanti. Ma al tempo della guer-ra santa contro i sovietici era un favorito del-l’Occidente. Ricevette onorificenze dalle manidi Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, chelo proclamarono «combattente per la libertà».Non sarebbe sorprendente scoprire che ades-so egli figuri tra i «Taliban moderati» con cuiKarzai e molto Occidente vogliono concludereuna pace separata. Favorisce l’accordo il fattoche i due tronconi in cui si è divisa Hizb-i-isla-mi combattono l’uno dalla parte di Karzai e l’al-tro con i Taliban. La fazione guerrigliera, spe-cializzata nello sfregiare scolare con il vetriolo,tiene il quartier generale in un campo-profughipakistano dove la polizia potrebbe facilmenteneutralizzarla, se solo lo volesse. Un’altra par-te di Hezb-i-islami è presente nel parlamentodi Kabul con quarantacinque deputati, disper-si in vari partiti. La maggior parte appoggia Kar-zai, e tenta, finora senza risultato, di convince-re gli ex compagni d’arme ad abbandonare laguerriglia.

Il timore di molte afgane è che questo lavoriosegreto induca gli occidentali a sacrificare auna pace qualunque alcuni diritti fondamen-tali. Tanto più se i Taliban veri e propri diven-tassero un interlocutore della Nato: in quel ca-so otterrebbero legittimazione anche le loroidee, incluse le concezioni della forsennata set-ta Deobandi, per la quale le donne sono gros-somodo un’umanità minore, subalterna almaschio per un disegno divino. Raddoppian-do il proprio contingente in Afghanistan, Wa-shington ha messo in chiaro che vuole nego-ziare da posizioni di forza, e magari non primadi un successo militare. Allo stesso tempo l’am-ministrazione americana cerca un accordo re-gionale che induca i vari protettori della guer-riglia a ritirare ciascuno la propria sponsoriz-zazione. Questa è da tempo l’idea europea eadesso anche l’intenzione di Richard Hol-brooke, l’inviato di Obama. Ma il tentativo diHolbrooke può riuscire soltanto se saranno ri-solte questioni confinarie che si trascinano dalNovecento (la frontiera tra Pakistan e Afghani-stan, non riconosciuta da Kabul, e l’assetto de-finitivo del Kashmir, conteso tra Islamabad eDelhi).

In ogni caso, finché non saranno sopiti i con-flitti che da un trentennio si riverberano in que-sta mischia complicata, i grandi o piccoli suc-cessi conseguiti dalle ragazze afgane non sa-ranno meno precari dei muretti di pietra dietroi quali i soldati del maggiore Jonbozi attendo-no il prossimo attacco dei Taliban.

Schede a cura diFRANCESCA CAFERRI

DilbarVEDOVA, 20 ANNI,un figlio, ha sceltodi fare la poliziotta:«Ce ne vorrebberodi più in AfghanistanPaura? Una voltai Taliban hanno cercatodi portar via mio figlioAllora ho avuto paura:ho sognato di averela legge dalla mia partee difendermi. Ora posso»

RoobinaSTUDENTESSA, 18 ANNI,di inglese e informaticaa Kabul, è fuggitain Pakistan al tempodei Taliban. Ora vuolediventare maestra«per insegnarealle bambine. Comehanno fatto con mele mie insegnantiorganizzandoscuole clandestine»

IN CAMMINODonne con i loro figliin una stradadella capitale afgana

Repubblica Nazionale

l’attualitàFavelas

Alcuni dei ricoveri tirati su dopo lo tsunami del 28 dicembre1908 sono ancora in piedi e hanno destato persino l’interessedella Sovrintendenza alle Belle arti.Ma la gente ci abita ancoraMolte famiglie hanno continuato a vivere lì, di padre in figlio,in abitazioni sempre più misere e cadenti. Come raccontaOrazio Andronaco, classe 1935, che ci è nato

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 APRILE 2009

ATTILIO BOLZONI

MESSINA

Il tetto è un velo sudicio, fatto di latta. Sotto lasua ruggine una mezzaluna ne rivela la pro-venienza, sulla collina più alta della città laportarono i marinai di un piroscafo che era

salpato dal Bosforo con rotta su Messina terremo-tata. Coperta da un secolo di polvere, la latta turcaè ancora sopra la testa di Orazio. A ogni colpo divento sbatte e fa un rumore cattivo che a lui perònon mette più paura. È da troppo tempo che il vec-chio è sepolto vivo.

Una vita è finita lì dentro, rotolata in questa tanadove gatti famelici inseguono i sorci e dove la muf-fa non si stacca più dal cartone e dall’anima di Ora-zio Giuseppe Andronaco, figlio di un pecoraio, cit-tadino italiano nato in una baracca a Messina il 21agosto del 1935 e residente oggi in una baracca aMessina in viale dell’Annunziata numero 150 bar-ra A. Le stradine e i vicoli che si intrecciano in un la-birinto sono diciotto, ma si chiamano tutti con quelnome: viale dell’Annunziata numero 150 barra A.Tanto un budello fa schifo come un altro budello,tutto è spaventosamente uguale qua sopra all’An-nunziata.

Le baracche sono quarantotto. Quella di Orazioè proprio là in mezzo, nascosta nello sconcio diun’Italia che ha per vista la punta dell’isola dovefantasticano sul Ponte. Orazio ricorda, Orazio rac-conta: «Per me questa è una casa per cani ma è pursempre la mia casa, quella dove ho trovato riparoper quarantasette anni e dove sono nati i miei die-ci figli: Andronaco Placido, Andronaco Antonio,Andronaco Simone, Andronaco Santino, Andro-naco Tindara, Andronaco Rita, Andronaco Pina,Andronaco Anna, Andronaco Lorenzo e Androna-co Angela». Prima stava in una baracca più giù, ver-so il mare di contrada Paradiso. Poi ha abitato perundici anni in un’altra favela siciliana. È dal 1962che vive qui. E oramai qui, Orazio è anche sicuroche ci morirà.

Trentuno secondi fu lunga la scossa, all’alba diquel 28 dicembre 1908 il mare si ritirò e dopo un po’si sollevarono tre onde alte dieci metri. Trentunosecondi che durano ancora: durano da cento anni.È il terremoto infinito di Messina. Le baracche so-no 3.333, sparse fra il rione Giostra e Fondo Fucile,Camaro e Fondo De Pasquale. Sono quasi diecimi-la i messinesi che sopravvivono negli anfratti, albuio, al gelo dell’inverno e al sole rovente dell’esta-te. Ma quelle “originali”, quelle tirate su dagli sviz-zeri e dai prussiani nei mesi successivi alla distru-zione sono soltanto qui all’Annunziata dove sononati i dieci figli di Orazio e tanti dei suoi nipoti e pro-nipoti, i cugini, le nuore, i cognati, i parenti dei suoiparenti. Un intreccio di destini, legami familiari, dimiserie. Generazione dopo generazione fino al-l’ultimo capanno sotto la collina.

È ancora in piedi, sembra finto, il disegno a ma-tita di un bambino. Ha perso i suoi colori, il legno èfradicio, il cancello chiuso, la porta sbarrata. È il pri-mo capanno costruito nel maggio del 1909, quan-

do a Messina arrivarono i fondi per le baracche deiterremotati, trenta milioni stanziati dal decreto fir-mato dal capo del governo Giovanni Giolitti. Finoa una quindicina di anni fa nel capanno ci abitavaun’anziana sordomuta, la Sovrintentenza avrebbevoluto recintarlo e farlo diventare «bene culturale»,un luogo della memoria. Ma poi il nipote dell’an-ziana sordomuta l’ha «prestato» a Filippo, che lìdavanti coltiva il suo piccolo orto. Melanzane, po-modori, cetrioli, menta e rosmarino. C’è anche unnespolo e c’è anche un fico. Adesso il capanno èpraticamente suo, di Filippo. Ereditato sulla paro-la, una successione per amicizia. Ogni baracca è untesoro a Messina. Passa di famiglia in famiglia, dipatto in patto. È la catena eterna della povertà.

La baracca di Orazio ha due rifugi, nel primo c’èil letto e nell’altro un tavolo. Intorno al letto e soprail tavolo c’è tutto il resto. Barattoli, centinaia di ba-rattoli con dentro stracci, medaglie, olive, pillole,orologi. Su un comò sono incastrate madonnine diplastica e bambole, bottiglie, specchi, piatti, galliimpagliati, crocifissi, ventilatori, fotografie. Di suamoglie Caterina che non c’è più, dei tre figli che ha

MESSINA, 28 DICEMBRE 1908Sono ancora 3.333 le baracche costruite

dopo il terremoto di un secolo fa in uso a Messina,distribuite nelle quattro contrade Annunziata,Fondo Fucile, Fondo De Pasquale, Camàro

E sono quasi diecimila i messinesi che ci vivonoLe più antiche furono costruite nel maggio 1909

MARSICA, 13 GENNAIO 1915Sono ancora 1.066, delle circa diecimila costruitetra il 1916 e il 1920, le casette asismiche in piedi

in 38 comuni da Avezzano a Balsorano nella concadel Fucino (“baracche realizzate a titolo precario”,

come garantiva il regio decreto firmato VittorioEmanuele III). Ci vivono circa quattromila persone

BELICE, 15 GENNAIO 1968Qui il capitolo si è chiuso nel marzo 2006. Le ruspe

hanno demolito le baracche ancora in piedie riqualificato le aree: quasi sette milioni di euro

spesi tra Santa Margherita, Menfi, Vita e PartannaLe famiglie che ci abitavano sono state trasferite

in alloggi privati pagati dalla Regione

Terremotati a Messinacent’anni nelle baracche

FALLIMENTI E SUCCESSI

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Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 26 APRILE 2009

perso, di Orazio quando aveva trent’anni e racco-glieva ferro per le strade della città. Su una paretesono attaccate le corna di una capra, Orazio le ha ri-dipinte di rosso. Dal tetto sfasciato scola acqua lu-rida. Il pavimento di calce è spaccato, come le cre-pe di un terremoto. C’è una grande bombola di os-sigeno, ogni tanto Orazio ne ha bisogno per respi-rare. È malandato, una gamba più corta di tre cen-timetri che lo fa zoppicare, i polmoni bucati, il cuo-re impazzito. «Solo Dio è grande», ha scritto con ilgesso Orazio sulla porta della sua baracca.

Le giornate sono sempre le stesse, anno dopo an-no. In primavera Orazio si siede fuori, nel vicolo do-ve non batte mai il sole, coperto da quelle lamieresopra l’inferno dell’Annunziata. In autunno si tra-scina fra il letto e quel tavolo che è un bazar di pac-cottiglia. Scarti di vita. È sua nipote Eleonora che gliporta il mangiare, in cambio lui l’aiuta con qualcheeuro della pensione d’invalidità. Eleonora Bonase-ra ha cinquantuno anni, è nonna tre volte e abitanella baracca accanto. Con figli e nipoti. Tutti natianche loro in baracca. Salvo ha diciotto anni e co-nosce solo la latta e il cartone dell’Annunziata. Co-

me la sua fidanzatina Sara. Il cesso è fuori, un buconella terra. Il bagno di tutti è una fontana.

Su ogni baracca c’è il nome del legittimo o dell’il-legittimo proprietario. Di solito chi l’ha occupataprima di un altro: Zoda I., Cannarozzo M., Lombar-do E., Sulfaro S. Sopra una lamiera c’è ancora il no-me di Albano C., Albano Concetta, la donna che persettant’anni è stata qui nella baracca più fetente coni suoi quattro gatti neri, gli scarafaggi, i topi, le mo-sche, le zecche e le zanzare. Sempre a piedi nudi,con addosso sempre la stessa veste. Due mesi fa lehanno dato l’alloggio popolare che aspettava dauna vita. È morta una novantenne e hanno fatto en-trare lei: il “premio” a Concetta nel centesimo anni-versario del terremoto. Ma dopo quei settant’annidove all’Annunziata ha visto morire suo padre e an-che sua madre, Concetta non s’è potuta godere lasua nuova vera casa. Si è sentita male. L’hanno ri-coverata in ospedale e da lì non è uscita più.

La sua vecchia baracca è stata sventrata e rico-struita in una settimana. Il pavimento è nuovo, dimattoni. C’è una finestra con gli infissi di alluminioanodizzato, ci sono anche i vetri. «Ho fatto tutto io,abito nella baracca accanto e a mia moglie sta na-scendo un secondo figlio, avevamo bisogno di al-largarci», spiega Angelo Vinci, un altro dei morti vi-vi dell’Annunziata. I resti della baracca di Concet-ta sono diventati una montagnetta di detriti, assi dilegno spezzate, qualche pezzo di stoffa lercio. È tut-to quello che rimane dell’esistenza di Albano Con-cetta dopo settant’anni.

Ogni baracca ha il suo piccolo cortile, i suoi odo-ri, il suo catalogo di storie. Quella di Orazio profu-ma di capperi e di cipolle impastate con una fetta dipesce spada — il pranzo che gli serve oggi la nipoteEleonora — e dei ricordi più lontani. Sul suo brac-cio sinistro c’è un tatuaggio: «Rosetta ti amo». Sco-pre anche il braccio destro, un altro tatuaggio: unadonna e un serpente. Sorride Orazio mentre riper-corre la sua malavita attraverso le promesse maimantenute: «Mi hanno sempre detto minchiate,tutti: dal 1945 al mese scorso. Minchiate, solo min-chiate. Io lo so che questa baracca sarà la mia tom-ba». Orazio aspetta la fine. Abbattuto. Vinto.

Lui come tanti altri, come tutti all’Annunziata.«Su quasi diecimila baraccati messinesi soltantouno o due o al massimo tre all’anno riescono adavere un appartamento, tutti gli uomini politicicercano voti e le capanne non le buttano giù mai,tengono sempre sotto ricatto il popolo delle fave-las», denuncia Santino Iannelli, il presidente di«Nuova Zancle 2008», l’associazione che difende ifigli e i figli dei figli del terremoto del 1908. Le casele avevano promesse prima della Grande Guerra.Le avevano promesse nel Ventennio. Le avevanopromesse nel ’45 e ancora nel ’65. Le hanno pro-messe sempre. Dopo i capanni di legno del maggio1909 sono arrivati quelli costruiti dal Fascismo frail 1925 e il 1937, più solidi, le pareti più spesse, qual-che muro di pietra. Poi la nuova Italia repubblica-na ha cominciato a costruire le «case ultrapopola-ri a uso provvisorio». È passato un altro mezzo se-colo. Nel 1990 il presidente della Regione Rino Ni-colosi scoprì la vergogna siciliana e il suo governofinanziò — legge numero 10 — «gli interventi per ilrisanamento delle aree degradate di Messina». Po-co più di cinquecento miliardi delle vecchie lire perassegnare quasi duemila alloggi popolari in quat-tro anni. Ne hanno spesi un terzo di quei fondi, glialtri si sono persi. Altri settanta milioni di euro li havoluti dare il governatore Totò Cuffaro nel 2004. Male baracche sono sempre lì, sempre più infami. Al-cune sono state rifatte. «Modificate», dicono i loroabitanti. Con un po’ di cemento, rinforzate conqualche mattone, pitturate. «Abbellite», dice Eleo-nora Bonasera che mostra i suoi fiori di plasticapiantati nella terra. E ricomincia a raccontare la suavita anche Eleonora. E ricomincia anche Antoninae poi il piccolo Salvo e poi la piccola Sara. Salgonole voci di viale dell’Annunziata numero 150 barra A.

LAMIEREQui sotto e a destra, altre baracchedell’Annunziata a Messina, tirate sunel 1908-1909, e i loro abitanti

CASAOrazio GiuseppeAndronacosulla sogliae all’internodella baraccache gli fada casaLa signorain maglia rossanella fotoa destraè ConcettaAlbanoIl serviziofotograficoè di MikePalazzottoNella pagina di sinistra, fotodel terremotodel 1908

IRPINIA, 23 NOVEMBRE 1980Duecentottantamila senzatetto, centocinquantamilaedifici da ricostruire . A fronte di queste emergenzevennero installati undicimila container e ventiseimila

prefabbricati. La ricostruzione è incompletama non sono segnalati casi di vittime del sisma

ancora alloggiate in “baracche”

FRIULI, 5 MAGGIO 1976È il modello di dopo-terremoto che tutti

i responsabili dicono oggi di voler seguireI senzatetto furono centomila, gli edifici

da ricostruire quindicimila e quelli da ripararesettantamila. La ricostruzione è stata completata

in un arco di quindici anni

UMBRIA, 26 SETTEMBRE 1997I cittadini che dopo più di undici anni sono ancoraospitati nelle casette di legno del post-terremoto

sono 579, cioè poco meno del tre per centodei 22.604 rimasti senza casa in Umbria

Sono in attesa non tanto delle abitazioni (ultimate)quanto delle infrastrutture al loro servizio

MOLISE, 31 OTTOBRE 2002A distanza di quasi sette anni dal terremoto,

sono mille i molisani che continuano a vivere neiprefabbricati. Nella maggior parte dei casi si tratta

degli abitanti di San Giuliano, il comune che registròil numero più alto di vittime all'interno della scuolaIovine: morirono ventisette alunni e una maestra

Repubblica Nazionale

la memoriaAntenati

Fu nel 1709 che il padovano Bartolomeo Cristofori,alla corte dei Medici, inventò uno strumento capace,a differenza del clavicembalo, di dosare l’intensitàdel volume sonoro. Da quello nascerà il pianoforte,il più espressivo mezzo a disposizione dei musicisti

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 26 APRILE 2009

WALTER, VIENNA 1789 CIRCASu uno strumento

di questo costruttore Mozartcompose i suoi concerti

CRISTINA ARCHINTO TRIVULZIO, 1824La nobildonna e virtuosa di fortepiano, proprietariadi un magnifico Schantz, ritratta da Pelagio Palagi

ROSINA POLDI PEZZOLI TRIVULZIO, 1829Questa tela di Giuseppe Molteni ritrae la sorella

di Cristina, anche lei eccellente musicista

Tre secoli di fortepianola scatola dei suoni

NATALIA ASPESI

Il fortepiano, figlio del clavicembalo e padre del pia-noforte, della stessa famiglia a tastiera dell’organo edella stessa tribù dei cordofoni come l’arpa e il liuto,compie trecento anni: e infatti risalirebbe al 1709 il pri-mo modello, costruito dal padovano Bartolomeo Cri-stofori, che si era trasferito alla corte di Ferdinando de’

Medici: lì ci si era stancati del suono uniforme del clavicem-balo a corde pizzicate, e lui inventò un semplice e pur magicomartelletto che percuotendo la corda con diversa intensità aseconda della forza impressa dalle dita sui tasti, consentiva divariare la potenza delle note, di creare quindi suoni nonuniformi, vibranti. Chiamò il nuovo strumento «gravicemba-lo col pian e forte», che poi per tutto il Settecento prese il no-me di fortepiano e dall’Ottocento in poi, con altre geniali va-riazioni, pianoforte.

Ma quando, più di un secolo dopo, il conte milanese Giu-seppe Archinto regalò un magnifico fortepiano del costrutto-re viennese Johann Schantz, con decorazioni egizie dorate, al-la sua bella futura moglie, Cristina Trivul-zio, virtuosa in senso musicale (anche la no-bile mamma, Beatrice Serbelloni, era al-quanto vivace), ormai gli strumenti più allamoda venivano fabbricati a Vienna, a Lon-dra, a Parigi. La famiglia Archinto ha dona-to quel cimelio a Fernanda Giulini, raffina-ta musicista e massima collezionista italia-na di strumenti antichi, oltre che a capo colfratello Vittorio di una storica industria tes-sile, Liolà. Adesso quel fortepiano vive, per-fettamente restaurato anche nel suono, neisaloni secenteschi affrescati dallo Zucca-relli della villa-fattoria Medici Giulini aBriosco vicino a Milano, con altri trentaset-te confratelli, a coda e a tavolo, e spinette,clavicembali, virginali, salteri, arpe, organi,liuti e mandolini.

L’anno prossimo si festeggerà il bicentenario della nascitadi Chopin e c’è una piccola processione di suoi devoti chechiedono di sfiorare il fortepiano Pleyel numero 7265 di Brio-sco, sapendo che quello acquistato dal musicista nel 1839, inpiena passione per George Sand, era il Pleyel numero 7267,quasi identico e quindi ideale per l’esecuzione di preludi, not-turni, barcarole, scherzi e ballate del compositore polacco. AParigi, in quella prima metà dell’Ottocento, le più celebri fa-miglie di costruttori di clavicembali e fortepiano erano gliÉrard e i Pleyel, e i musicisti scegliendo uno strumento dell’u-na o dell’altra, ne determinavano la fortuna. Giuseppe Verdiaveva un fortepiano Érard nella camera da letto della sua villaa Sant’Agata, che gli serviva per fissare nella notte le frasi mu-sicali che all’improvviso lo assalivano; anche Wagner avevacomposto il Sigfried su uno strumento uscito dalla creativitàdi quella vasta famiglia di origine alsaziana.

Uno dei primi Érard era entrato nel 1787 nelle stanze di Ma-ria Antonietta, dopo che il re aveva accordato al capostipite Sé-

bastien un permesso speciale per superare l’ostilità nei suoiconfronti della corporazione cui appartenevano i fabbrican-ti di strumenti musicali, quella dei ventagli. Arrivata in Fran-cia giovinetta per sposare il futuro re Luigi XVI, nelle quaran-tadue carrozze del suo corredo la futura regina aveva portatoun bel numero di arpe viennesi. La signora Giulini possiedeundici arpe impressionanti, alcune datate dal 1775 al 1790,identiche a quella che Maria Antonietta sta suonando nellasua camera a Versailles in un dipinto di Jacques Fabien Gau-tier-Dagoty. Anche in Italia l’arpa e il clavicembalo, poi il for-tepiano, facevano parte della indispensabile educazione del-le nobildonne, e Pelagio Palagi ci ha lasciato una serie di dise-gni di una famiglia milanese attorno a una fanciulla al piano,mentre è di Ludwig Guttembrunn il ritratto del nobile paveseGiacomo Sannazzari vestito d’argento, in piedi accanto allagiovane moglie ingioiellata seduta al clavicembalo. A BrioscoGiulini c’è un sorprendente fortepiano detto “da boudoir”,costruito a Vienna nella prima metà dell’Ottocento, provvisto

di cassettini per il cucito o la toletta, chiusoin una scatola decorata a putti, destinataovviamente ai salottini delle signore.

Ogni strumento antico rievoca la genia-lità di un costruttore, la cultura di una cor-te, di una grande famiglia e di una società,la grandezza di un compositore, anche unacondizione politica: e infatti l’Italia dei pic-coli stati legati all’Austria faticava a co-struire suoi fortepiano, doveva pagare da-zi enormi per importarli dalla Francia odall’Inghilterra, era invasa da quelli vien-nesi: di Anton Walter, scelto da Mozart percomporre i suoi concerti per pianoforte, odi Conrad Graf, che aveva messo a disposi-zione di Beethoven squattrinato due suoistrumenti, regalandone uno anche a Clara

Wieck in occasione del suo matrimonio con Robert Schu-mann. Nel 1840 Liszt chiese al pittore Danhauser di ritrarlomentre suona sul suo Graf. I fortepiano della collezione Giu-lini splendono uno accanto all’altro, carichi di storia e di suo-ni come se il tempo si fosse fermato: lo Schantz appartenuto aFelice Baiocchi, marito di Elisa Bonaparte; il Fritz con tastieraeccezionale di tartaruga e madreperla; il cembalo secentesconapoletano del cardinal Ottoboni, dipinto da Luca Giordano;il fortepiano a tavolo del milanese Gaetano Scappa, di cui siconoscono solo due esemplari; la coppia di Graf con il pedaleche consente la «musica turca», cioè il suono di campanelli etamburi. Gli antichi strumenti non sono prigionieri silenziosicome in un museo, viaggiano, se pur raramente, avvolti comeantichi principi in coperte di pelliccia, allietano con il loro suo-no esotico mostre come quella di Pompeo Batoni a Lucca o delCaravaggio a Villa Borghese, o partecipano a concerti comequello recente al museo Poldi Pezzoli di Milano che è riuscitoa riunire per una sola sera indimenticabile il fortepiano di Cri-stina Trivulzio con la viola Stradivari di Giuseppe Archinto.

Grandi famigliedi costruttori,

gli Érard, i Pleyel,si contendevano

il favore dei virtuosi

BÖSENDORFER, VIENNA 1850“Impiallacciatura di moganosensazionale e complessa”,

è scritto nel catalogo

STEIN, VIENNA 1794-1812I costruttori, attivi a Vienna,

erano fratello e sorella:Matthäus Andreas e Nannette

PLEYEL, PARIGI 1852Anche il fortepiano di Chopin

era uscito dalla bottegadel grande Ignace Pleyel

SCHANTZ, VIENNA 1810-20Mogano e bronzo

impreziosiscono la creazionedel celebre Johann Schantz

BOISEELOT, MARSIGLIA 1844Il triplo leggio, pensato

per la musica da camera,caratterizza questo strumento

FRITZ, VIENNA 1830 CIRCALentamente il fortepiano

va trasformandosinel moderno pianoforte

VIENNA, SECOLO XIXSorprendente fortepiano

“da boudoir”: un po’ musica,un po’ scatola da cucito

GRAF, VIENNA 1834 CIRCAConrad Graf, “imperial-regio

costruttore di fortepiani”,ne regalò due a Beethoven

ITALIA, SECOLO XVIIILa costruzione “a tavolo”è resa unica dal dipinto

sul corpo dello strumento

Nella villa MediciGiulini a Briosco,vicino a Milano,

trentotto esemplariin perfetto stato

LIBRO E CD

Presto disponibile in dvd-rom il volume Alla ricercadei suoni perduti curato

da John Henry van der Meer(Arte e Musica, 716 paginepiù cd, 150 euro), dal quale

sono tratte le immaginidi questa pagina. Il dvd

conterrà musiche d’epocaeseguite sugli strumentidella collezione Giulini

Repubblica Nazionale

In principio ci sono i racconti che FrancaRame fa per il marito Dario, il figlioJacopo e gli amici. Racconti di lei bambina,della sua straordinaria famiglia di attori“all’Italiana”, della corriera chiamataBalorda su cui si spostavano di piazzain piazza, del loro teatro smontabile,del suo debutto e della sua vita da attriceQuando Dario Fo li trova dentroun cassetto, trasformati in una bustadi appunti, mette Franca alle strette:«Adesso li devi scrivere». I due discutono,litigano, poi Franca cede: «E va bene,ci sto. Mi impegno a farne uno scrittoda teatro, perfino un libro, se vuoi. Peròpretendo che tu mi dia una mano, pensandoalle cento che ti ho dato io». Così è nataquesta autobiografia di coppia,che dall’infanzia di Franca arriva,attraverso le storie Rai, l’impegno socialee politico, su su fino al suo recente ruolodi senatrice. In queste paginene pubblichiamo in anteprima alcuni brani

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 APRILE 2009

Una straordinaria famiglia di attori da commedia dell’arte, una vecchiacorriera per spostarsi da una piazza all’altra, un teatro di legno da cinquecentoposti che si smonta e rimonta in poche ore. È l’inizio della storia autobiografica

che Franca Rame, con la collaborazione e i disegni di Dario Fo, racconta nel libro“Una vita all’improvvisa”, di cui pubblichiamo in esclusiva un’anticipazione

CULTURA*

FRANCA RAME e DARIO FO

Rame-Fodiariodi coppia

&all’improvvisa

Dario

Credo che sia importante parlar-vi delle origini del nostro teatro,detto all’Italiana, di cui poteteben osservare una delle ultimesuperstiti: eccomi, sono io, pro-prio come l’ultimo dei Mohica-

ni. Sì, sono un reperto storico! I capostipiti del-la mia famiglia risalgono a una cosa come cin-que secoli fa. Nel raccontare di me, della no-stra storia e del nostro teatro non seguirò unalogica dettata dal rincorrersi cronologico deifatti, ma piuttosto proseguirò per immagini,così come mi si presentano nella memoria. [...]

L’Arca di Noè

Sul fondale appare l’immagine di un teatrosmontabile che si trasforma in barche congrandi vele. [...] Mi ricordo la prima volta chemontarono il teatro, avevo poco più di sei an-ni: vidi gli operai issare quei pali tenendoli rit-ti per mezzo di funi. Lassù, in cima a lunghescale, stavano i carpentieri, che incastravano itraversoni delle trabeazioni e poi li bloccava-no coi bulloni. Era il vanto di mio padre, quan-do, ammirandolo, esclamava pieno d’orgo-glio: «È come l’Arca di Noè, questo nostro va-scello, tutto a incastro senza manco un chio-do. Si può montare o smontare in una giorna-ta sola!». [...]

Ma com’era venuta l’idea, a mio padre e al-lo zio Tommaso, di mettere in piedi un teatrodi quel genere? Furono mia madre e le figlie aprovocare nel cervello dei fratelli Rame l’idea:in particolare, la colpevole maggiore fu Pia, laseconda delle mie sorelle, che si lamentava atormentone di questo andare in giro per piaz-ze, costretti a subire le angherie, spesso ricat-tatorie, dei gestori delle sale private, parroc-chiali o comunali, senza nessun rispetto dellaparola data o di un contratto stipulato e depo-sitato. L’insulto che fece esplodere la rabbianella nostra compagnia fu determinato dalparroco di un orrendo borgo del Lecchese che,dopo la rappresentazione del Giordano Bru-no, dal fondo della platea arrivò come un giu-dice dell’Inquisizione in palcoscenico e ci or-dinò brutalmente di far fagotto. [...] Mi ricordoche quella notte io dormivo nella stessa came-ra di mio padre e mia madre. Loro continua-vano, seppur sottovoce, a parlare. Ogni tantosbottavano in grida. A un certo punto mi alzai

Franca

Repubblica Nazionale

avvolta nella co-perta e prote-stai: «Io doma-ni devo anda-re a scuola evoi non mi fa-te dormire.

Non voglio ad-dormentarmi

come al solito conla testa sul banco!».

«No, non preoccuparti,non dovrai andarci a scuola.

Domani si parte per Novara». «Reci-tiamo lì? In che teatro si va?». «Nel nostro.Lì c’è una cooperativa di carpentieri chece lo costruirà». [...]

Oggi mi rendo conto che la memoriapiù incisa che conservo di quell’evento

sta tuttanell’a-v e ra s s i -s t i t o

alla rizzatadell’Arca di Noè. Io me ne stavo se-

duta come una spettatrice incantata eappresso a me c’era tutta la famiglia, gli attori,le comparse e un gran numero di curiosi. In unattimo si era arrivati al tetto, poi fu la volta delpalcoscenico, con tanto di soffitta, quinte e lastruttura per le corde. Mio padre volle che siprovasse a metter su scenari e fondali. Di lì aun’ora, lo zio Tommaso diede l’ordine di spa-lancare il sipario, e all’istante apparve tutta in-tera la scena del bosco di Genoveffa di Bra-bante. Mio padre saltò letteralmente giù dalpalcoscenico urlando: «Abbiamo il teatro!».Esplose un grande applauso, a me vennero giùlacrimoni a rigarmi la faccia. Mi guardai intor-no: piangevano tutti.

La BalordaGiravamo cittadine, paesi e borghi del Nord

Italia su una corriera che val la pena di presen-tarvi meglio, giacché per noi era come unapersona di famiglia, la Balorda, chiamata cosìa causa del comportamento bizzarro che mo-strava: il suo era proprio un motore a scoppio,ogni tanto addirittura esplodeva, sparava ac-qua bollente, fumi con sussulti e gemiti. In al-

cuni paesi a monte, nei quali a unacerta ora del giorno si transitava, neiturniché particolarmente ripidi lei, lavecchia signora, non ce la faceva. C’era-no sempre dei ragazzi che ci aspettava-no. Ci spingevano fra tante risate, poi lasera ci raggiungevano ed entravano agodersi lo spettacolo gratis: «Siamoquelli che hanno spinto la Balorda!».«Passate». Mio padre amava quel pro-totipo meccanico primitivo e, zinga-

rone com’era, gioiva tutto nel vedersela ri-lucente di colori sgargianti. Mia madre, lamaestrina cattolica di buona famiglia, ognivolta che lui le cambiava colore lamentava colpianto in gola: «Non sposeremo mai le nostrefiglie!». [...]

La prima voltaC’è un momento della mia infanzia che

spesso mi ritorna in mente. Sto giocando condelle compagne di scuola sul balcone e sentomio padre che parla con la mamma: «È ora cheFranca incominci a recitare, ormai è grande».Avevo tre anni. La mamma commenta: «Spe-riamo che abbia talento». E mi ricordo i giorniappresso mentre mi insegnava la parte «boc-ca a bocca», così si diceva in compagnia, paro-la per parola come in una litania. Il mio debut-to sarebbe avvenuto la settimana seguente,nella recita del Venerdì Santo: dovevo rappre-sentare un angiolino di supporto all’arcange-lo Gabriele interpretato da mia sorella Pia che,con tanto di ali maestose e abito fluente di se-ta,appariva a Giuda dopo l’infame mercato.«Pentiti Giuda traditore che per trenta mone-te d’argento hai venduto il tuo Signore! Penti-ti! Pentiti!», recitava Pia e io dovevo ripeteregridando la stessa battuta: «Pentiti! Pentiti!Giuda traditore che per trenta monete d’ar-gento hai venduto il tuo Signore!»[...]

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 26 APRILE 2009

vorino un pezzetto alla volta a cominciare dal-la lingua», mi fece un terribile effetto. Mammamia che spavento! Cosa stava capitando?! Erostravolta, me lo ricordo benissimo. [...] Il grop-po che mi sentivo in gola stava per scoppiare.Mia madre dalla quinta mi faceva gesti più cheperentori, le sue labbra ripetevano «pentiti,pentiti». Giuro che avrei potuto dire la mia bat-tuta, ma non me la sentivo proprio di rincara-re la dose. A piccoli passi, camminando comepensavo camminassero gli angeli, seppurspaventatina, gli vado vicino, lui era in ginoc-chio e gridava più che mai. Dio che pena! Sen-za dire una parola mi arrampico al suo collo elo abbraccio tempestandogli la faccia di baci.Insomma cercavo, con i mezzi che avevo a di-sposizione, di calmarlo e piangevo nel silenzioche era calato in palcoscenico. [...]

A tu per tu con DarioSono sempre a Milano e mi trovo a recitare

al cinema teatro Colosseo nella compagnia“Sorelle Nava e Franco Parenti”, un’équipetradizionale, un ambiente così lontano daquello in cui avevo vissuto fino ad allora. Si pos-sono immaginare le difficoltà di una similescelta in quel periodo del dopoguerra, siamonegli anni Cinquanta, e quindi alterno mo-menti neri a buone scritture nelle compagniedi varietà più famose. [...] E vedo i compagni dilavoro, quelli pieni di spocchia e quelli civili egarbati; tra questi c’è anche Dario, ma che ci faqui con noi quel lungagnone dinoccolato esorridente? So che ha piantato il Politecnico eperfino un lavoro sicuro per fare ’sto mestiereda commediante. Lo intravedevo ogni tanto,ché se ne stava spesso in disparte, quasi a evi-tare le smancerie e i discorsi così poveri di in-telligenza sparsi sul palcoscenico e fra le quin-te. Questa era la dote che apprezzavo mag-giormente in lui, la riservatezza. Sono stata io ainvitarlo dopo le prove a mangiare qualcosa inuna trattoria, la prima volta. Dario sembravanon accettare volentieri quell’invito; poi, giac-ché io insistevo, mi svelò la ragione della sua re-ticenza: «Non ho un soldo» disse, «per potermiliberare dal lavoro e venire alle prove ho dovu-to licenziarmi dallo studio di architettura dovesviluppavo progetti». E io allegra risposi: «Mi fapiacere, adoro nutrire randagi, gatti abbando-nati e disoccupati affamati».

Andammo in una trattoria lì all’angolo e or-dinammo due porzioni di salame, pane e unabirra. Per me acqua, sono astemia. Poi ci ac-compagnammo l’un l’altra a casa. Tram nonce n’erano più, quindi ci avviammo a piedi. Ciraccontavamo entrambi delle nostre vite, luidel suo lago, il Maggiore, e dell’Accademia incui aveva studiato; io della mia compagnia edegli aneddoti più gustosi. Ci scoprimmo a ri-dere come ragazzini alle reciproche ironie; lotrovavo davvero spassoso, quel lungone, stra-bordante di racconti assurdi e festosi. [...]

Attraversiamo parco Sempione, allora nonc’erano né catene né inferriate a impedirel’accesso. È una notte chiara, gli alberi proiet-tano lunghe ombre che attraversano i prati.Non c’è nessuno spazio che ci permetta di ap-partarci un poco. All’istante ci troviamo bloc-cati da un solco profondo che attraversa l’in-tero giardino; dal fosso spuntano canne e ar-busti acquatici, ma acqua non ce n’è. Piùavanti c’è un ponticello che attraversa il solco,noi scendiamo e ci sistemiamo sdraiati nel-l’ombra prodotta dal ponte. Ci abbracciamo.«È una fortuna» dico io «aver scoperto questorifugio». E lui aggiunge: «Speriamo che nonaprano le chiuse e ci si trovi con l’acqua che ciinonda». «No, è un periodo di siccità, questo:non sprecherebbero mai tanta acqua per far-ci uno scherzo del genere!». C’è un gran silen-zio, torniamo ad abbracciarci felici. Di colposentiamo un fruscio che sale gorgogliando.«Oh mio dio, hanno mollato la chiusa!» gridoio. «Presto, usciamo!». Ma non facciamo intempo, ci arriva addosso una cascata. Ci ap-pendiamo ai rami di un salice e riusciamo aguadagnare la riva. Siamo madidi d’acqua. Ciguardiamo e spruzzandoci l’un l’altra del no-stro sguazzo scoppiamo in una gran risata.

(© 2009 Franca Rame e Dario FoUgo Guanda Editore)

Al primo appuntamentoio e Dario sommersidall’acqua sotto un pontedi parco Sempione

Per il debutto sul palcoun vestito da angeloe una coroncinadi lampadine in testa

Mia madre per i suoi figli era ambiziosissi-ma. Per l’occasione mi aveva cucito un bellis-simo abito bianco da angelo, con due grandiali bianche e oro appoggiate sulle spalle. Miopadre, ormai entrato nel gioco, mi fabbricòuna coroncina di lampadine che, grazie a unapila infilata nelle mutandine, si accendevano.Come in un rito sollevò la coroncina e me lapose in testa. [...] Il guaio, l’imprevisto che piùimprevisto di così non si poteva immaginare,fu che il personaggio di Giuda era interpreta-to da mio zio Tommaso, un uomo che avevosempre visto calmo, sorridente, mi racconta-

va storie bellissime e mi regalava un saccodi giochi. Volevo molto bene a mio zio, evedermelo lì, proprio vicino vicino, conuna parruccaccia nera in testa, gli occhiche lanciavano saette tra un minaccio-

so tuonar e lampeggiar nel cielo, che di-sperato gridava: «Possano i corvi divorar-mi le budella, le aquile strapparmi gli oc-chi!» e altri animali che non so più «mi di-

IL LIBRO Una vita all’improvvisa(320 pagine, 17,50 euro)

di Franca Rame e Dario Fo,

è pubblicato da Guanda

e sarà in libreria

dal 7 maggio prossimo

I DISEGNII disegni di queste

pagine sono

di Dario Fo e illustrano

il libro di Guanda

Una vita all’improvvisa

Repubblica Nazionale

Esattamente mezzo secolo fa a Cannes veniva proiettato un filmdestinato a fare storia. Raccontava di un ragazzo inquieto, una famigliadistante, una solitudine che solo una psicologa riuscirà a comprendere

Anni dopo, il regista si confessò davanti a una giornalista ammettendo quanto ci fosse di luiin quell’adolescente. Ora un libro pubblicaquelle riflessioni finora inedite

SPETTACOLI

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 APRILE 2009

Sondivenuto un minorenne delin-quente. M’ero dato, ancora unavolta, al vagabondaggio. Avevo la-sciato il mio impiego di magazzi-niere senza dirlo ai genitori. Ave-vo aperto un cineclub nel Quar-

tiere Latino. Avevo voluto aprire un cineclub chefosse in funzione la domenica mattina, ma non haavuto alcun successo. A dire il vero, è un po’ piùcomplicato. Avevo investito i soldi della mia liqui-dazione… (avevo dato le dimissioni nell’impresadove lavoravo, ricevendo la tredicesima e il resto),avevo messo tutto in quel cineclub.

Incollavo i manifesti la notte per farne conosce-re il programma, ma ero caduto nelle grinfie d’unoscroccone, un tipo che mi ha preso tutto il denaropromettendomi film che pretendeva di avere e cheall’ultimo momento non aveva portato: film diFritz Lang, per esempio. E io mi son ritrovato da-vanti a platee piene che dovevo rimborsare perchénon c’era il film! Una prima volta, ho trovato lascappatoia proiettando il film in programma quel-la settimana nel cinema, ma non era possibile far-lo ogni volta. Alla fine, tutto è precipitato, poichédopo l’ennesima fuga mio padre m’ha ripescato em’ha trascinato in commissariato: e mi sono ritro-vato al Centro d’osservazione di delinquenza mi-norile…

Più o meno quel che si vede nel film Les quatrecents coups, con la differenza che eravamo appenadopo la guerra e lo si sentiva bene nell’ambiente:c’era tanta miseria, c’erano giovani operai che era-no lì perché in fabbrica avevano rubato del piom-bo, c’erano ragazzi che rubavano biciclette nellecantine, c’erano ancora, a quel tempo, i buoni ali-mentari perché deve sapere che molto tempo do-po la Liberazione c’era ancora il razionamento. In-credibile pensare che molto tempo dopo l’arrivodegli americani avessimo ancora il razionamento,

“Io, ribelle e vagabondoin quei quattrocento colpi”

PARIGI

Almeno una volta, FrançoisTruffaut s’è trovato a rivivere,da adulto, quanto aveva trasfi-gurato della sua infanzia nell’al-

ter ego Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud).L’undici dicembre 1971, dodici anni dopo Lesquatre cents coups, il regista, intervistato o, meglio,setacciato con cura da un’intraprendente conduttri-ce di Radio-Canada, diventa, in tv, la versione matura delsuo “doppio”, alle prese, nel lungometraggio d’esordio, conla psicologa che l’interroga al commissariato. Interrogatorioimprovvisato, quasi documentario (perciò osannato dalla neo-nata Nouvelle Vague, di cui Les quatre cents coups è film-faro,Grand Prix per la regia al Festival di Cannes che lo proietta il 4maggio 1959), condotto in controcampo dallo stesso regista, inmancanza dell’interprete prevista, dove Doinel-Léaud rispon-de a domande acuminate, spilli ossessivi nel cinema di Truf-faut: la madre e le donne.

Dodici anni dopo, il regista obbedisce alle stesse indicazionida lui fornite al suo personaggio per quella sequenza cruciale:«Espressione mobile e aperta, spesso sorridente» e «le mani inagitazione perenne», ora intente a tormentare per l’intera in-tervista accendino e sigarette. Truffaut-Doinel, messo all’an-golo dall’intervistatrice-psicologa, sembra liberarsi d’un peso,ammettendo per la prima volta che Les quatre cents coups«è, sì,in gran parte autobiografico», dopo averlo negato per anni apartire dall’articolo apparso su Arts il 3 giugno 1959 all’uscitadel film in Francia.

Sulle donne, Truffaut svicola, ma sulla madre rende più cir-costanziato quanto aveva cinguettato Léaud nel film: «Nonsopportava i rumori. O meglio, non mi sopportava. Dovevo re-starmene su una sedia a leggere: far dimenticare che esistevo».Sono le stesse parole che pronuncerà sei anni dopo, nel 1977, ilprotagonista di L’homme qui aimait les femmes. Con l’aggiun-ta del particolare: «E dovevo stare attento a girar le pagine sen-za farne sentire il fruscio...». Nell’intervista del 1971, dodici an-ni dopo il primo film, dodici anni prima dell’ultimo, Vivementdimanche!, del 1983, Truffaut è all’incrocio esatto tra il suo pas-sato e il suo futuro: spezzato a cinquantadue anni, il 21 ottobredi venticinque anni fa. Parla in flashback, facendo però affiora-re le tracce dei film successivi, già organizzando le memorie insoggetti e dialoghi di domani. Nel faccia a faccia con l’incal-zante Aline Desjardins — mai diffuso in Europa, visto per la pri-ma volta in Francia al Festival du Court Métrage di Clermont-Ferrand — Truffaut ci travolge nella sua mitologia di maestri epadri spirituali (Bazin, Hitchcock, Renoir, Rossellini) e negliandirivieni del suo cinema: «Al centro di Les quattre cents cou-ps, come di Fahrenheit 451 e L’enfant sauvage, c’è il senso d’u-na mancanza: della famiglia, della lettura, del linguaggio». Madove cede è, per la prima volta, nelle confessioni a cuore aper-to. A trentanove anni, a una svolta della vita (la madre è mortatre anni prima e lui esce dalla lunga depressione dopo la rottu-ra con Catherine Deneuve), il regista sente il bisogno di parlarenon solo dei suoi film ma anche di sé. Con lucidità e sincerità,rinunciando ai freni con cui si era sinora protetto. Riprenden-dosi, in diretta, con la sua aria d’eterno ragazzo, salvato ma in-difeso, le parole che aveva prestato al giovane Léaud, quasi fos-sero finzioni da grande schermo.

FRANÇOIS TRUFFAUT

Un genio del cinemasotto interrogatorio

MARIO SERENELLINI

L’OPERAIl ragazzo salvato è il primo titolo di un serialeditoriale su François Truffaut curato da Mario Serenellini che si concluderà nel 2012, nell’ottantesimo anniversario della nascitadel regista. Contiene la traduzione integrale dell’intervista di Aline Desjardins e le riproduzionidi due lettere autografe a Tati e Kubrick. In allegato,dvd con l’intervista del 1971 a Montreal e quelladi cinquant’anni fa sulla Croisette, all’uscitadalla prima proiezione di Les quatre cents coups(poi vincitore del Grand Prix de la mise en scène),a Truffaut e a Jean-Pierre Léaud. Il libro+dvd usciràa maggio (dinDodo, 19,50 euro, [email protected])

MicroMega 2/09

Stefano Rodotà

Carlo Alberto Defanti

Gian Domenico Borasio

Le dettagliate e inoppugnabili analisi medichee giuridiche, che smentiscono i cardinal Bagnasco,gli onorevoli Formigoni, le sottosegretarie Roccella

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 26 APRILE 2009

s oin sim-

patia e miaveva propo-

sto di entrare al gior-nale Elle, il che mi permet-

teva di lasciare la fabbrica. Ero mol-to contento e l’ho fatto per un po’ di tempo. Ma

non funzionava troppo perché non mi interessa-vano i reportage. Per esempio, seguire un concor-so d’eleganza in Avenue de l’Opéra: non mi asso-miglia molto. Non volevano lasciarmi scrivere dicinema.[...]

Mi procuravo i programmi di cinema e ogni set-timana mi segnavo i dodici o quindici film da ve-dere: era uno scherzo per me vedere quindici filmalla settimana. Vivevo per questo, vi andavo a par-tire dalle sei di sera. All’epoca, c’erano al mattino“presentazioni aziendali” riservate a gente dell’in-dustria cinematografica: ma riuscivo sempre a in-trufolarmi in quelle proiezioni. Eravamo una doz-zina, d’altronde, ci conoscevamo tutti, una dozzi-

na di “portoghesi”, che avevanovoglia di vedere il film prima degli

altri. Erano proiezioni destinate aidistributori, dunque in anticipo di sei

mesi sull’uscita dei film […] Era unagrande passione. Aspettavo certi film, film

americani. So che un titolo di Orson Wellesl’ho atteso mesi e mesi finché non è arrivato:

non ne potevo più dall’impazienza. […]Conoscevo bene il cinema francese della guer-

ra, o meglio quel che avevo visto durante la guerrae poi alla Liberazione. Il cinema americano è arri-vato di colpo, alla rinfusa: cioè, film d’anteguerra,film girati durante la guerra e film dell’immediatodopoguerra. Ho visto per la prima volta pellicole inversione originale con sottotitoli. Mi piaceva allostesso modo il doppiaggio, non ero un nemico deldoppiaggio. E i film che amavo, li vedevo tante vol-te da conoscerli in originale altrettanto bene che inversione francese e facevo il confronto.

E poi scrivevo le schede, ero assai metodico. An-notavo all’uscita del cinema il nome del regista,l’anno del film, per completare le schede. In gior-nali di cinema del tempo, penso che si scoprireb-be il mio nome nella rubrica delle lettere. Chiede-vo filmografie di registi, chiedevo informazioniper i miei dossier. Ogni dossier portava il nomed’un regista: avevo forse trecento dossier in ordi-ne alfabetico, da Marc Allégret a Fred Zinneman…

Abbastanza presto ho imparato a distinguere iregisti, avendo assimilato totalmente i film al loroautore. Ma avevo qualche preferenza. Non mi pia-

cevano i film storici perché non c’è la possibilità diidentificarsi e non mi piacevano nemmeno i filmd’avventura. Non mi piacevano i film di cazzotti, ifilm di pirati, i western. Mi piacevano invece i filmmoderni, i film d’amore, i polizieschi e i film psi-cologici che circolavano all’epoca. Credo di aversentito un bisogno d’identificazione piuttosto for-te. Potevo identificarmi con personaggi con l’im-permeabile come Humphrey Bogart, con poliziot-ti, assassini o criminali, ma non potevo identifi-carmi con un corsaro o un cowboy. Dovevo farequalche sforzo se un regista che ammiravo avevagirato un film del genere: ci andavo comunque,per stima, ma dovevo fare uno sforzo maggiore per“entrare” nel film.

Traduzione di Mario Serenellini (© Radio-Canada e dindoDo edizioni)

il mercato nero e tutto il resto.[...] Ogni sabato, c’era una specie di club a Pari-

gi che aveva sede in un cinema e si chiamava il Clubdu Faubourg: ci sono andato perché ho visto che,di tanto in tanto, si discuteva di cinema e nono-stante i miei quindici anni/quindici anni e mezzo,prendevo la parola con estrema violenza. Attacca-vo quelli che vi si trovavano, registi, gente che ave-va fatto film che non trovavo decenti e questo fa-ceva un po’ ridere il pubblico, data la mia giovaneetà. E uno che era il direttore letterario di Elle, Pier-re-Jean Launay, anche romanziere, m’aveva pre-

FERMI IMMAGINEQui sopra,

un ritratto giovaniledi François Truffaut

Le altre fotosono fermi immagine

tratti dal filmLes quatre cents coups

Il protagonistaè il quindicenne

Jean-Pierre Léaudnel ruolo di Antoine Doinel

FO

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Repubblica Nazionale

i saporiOrtaggi

In coppia col formaggio piccante nelle tradizionali merendedel Primo maggio, ma anche su tutte le tavole in forma di zuppe,risotti o creme: è la stagione d’oro di questo legume dalla storiamillenaria,perché ricco di vitamine e proteine e perché moltoutilizzato in agricoltura per la rigenerazione naturale del terreno

Fave & pecorino: festa di primavera. Alla vigilia della scampagnata delPrimo maggio — festa dei lavoratori, da celebrare anche a tavola —l’Italia degli ortaggi si divide. Dalla cintola in giù, è il trionfo dei gran-di baccelli di un verde smagliante, da sgranare come rosari gastrono-mici alternati a bocconi di formaggio deliziosamente piccante. Dal-la cintola in su, il consumo è meno sfacciato, reso pudico — per mi-

nore dimestichezza e paventata scarsa digeribilità — grazie a una scottata in ac-qua acidulata bollente, alla delicata commistione con un risotto all’ortolana, al-la riduzione in crema, puré, minestra.

Comunque sia — fresche, secche, decorticate, surgelate, tostate, inscatolate einsacchettate — le fave sono un ortaggio benevolo e tutto tondo: per chi le gustae per madre terra che le produce. La vicia faba (major, la varietà più diffusa), in-fatti, è un alimento plurimillenario delle popolazioni mediterranee. Un legumedalla scheda nutrizionale ambiziosa: multivitaminico, ricco di proteine — nellaversione secca, secondo solo alla soia — fibre, fosforo, potassio. In più, vanta pro-prietà diuretiche e drenanti, interviene beneficamente nella regolazione dellefunzioni intestinali, dei livelli di colesterolo, di quelli del glucosio. Perfino a livel-lo calorico — punto debole dei legumi — mette in fila tutti i suoi fratelli, dall’altodelle quaranta chilocalorie scarse per etto.

Se la gastro-botanica lo promuove a piene mani, i campi lo invocano come ri-generante: merito di una reazione biochimica — la fissazione simbiotica dell’a-zoto — capace di apportare per ogni ettaro di coltura oltre due quintali di azoto.Che si traducono in cinquecentomila quintali di fertilizzante. Una manna per lasalute delle aree coltivate e un risparmio di dieci milioni di euro all’anno nella fer-tilizzazione dei terreni. Come per la scelta delle ricette — cotte o crude — le favedividono anche la letteratura medica. Endemico in Africa, ma presente anche nelnostro Meridione, il favismo (mancanza ereditaria dell’enzima glucosio-6-fo-sfato-deidrogenasi) è una patologia del sangue che provoca gravi crisi emoliti-che (rottura dei globuli rossi) in caso di contatto con fave, piselli e alcuni farma-ci. D’altra parte, gli scienziati hanno accertato che l’intera pianta dalla fava — dal-le foglie ai baccelli, fino ai semi — contiene tracce consistenti di levodopa, so-stanza-principe nel trattamento nel Morbo di Parkinson.

In bilico tra cura e malattia, le fave sono comunque presenti nei menù dellanuova stagione. Bisogna comprarle freschissime, con il baccello croccante e sen-za macchie, che schiocca quando lo si apre, scoprendo una sequenza di semi tur-gidi e pieni. In caso di acquisto generoso, si sbollentano quelle in eccesso perqualche minuto e si surgelano dopo averle raffreddate in acqua e ghiaccio. Se in-vece amate i sapori del mondo, regalatevi un bel cartoccio di felafel, le deliziosepolpettine fritte di ceci e fave della tradizione mediorientale. Sarà un bel mododi festeggiare il Primo maggio in versione gastroetnica.

MaccoLa crema di fave secche, cotte fino a poterle schiacciare (ammaccare),viene abbinata, secondo le tradizionilocali del sud Italia, con cicoria bollita,pecorino, crostoni di pane raffermoRifinitura con extravergine

Fave

PecorinoL’abbinamento più popolare esalta il contrasto tra la dolcezza della verdura e la sapida piccantezzadel formaggio. Si gusta crudo, cottoa mo’ di minestra o come sugo per le tagliatelle con la menta

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 APRILE 2009

Midollo e cioccolatoIl super-chef milanese Carlo Craccogioca con l’equilibrio dolce-salato-morbido-croccante servendo un midollo scottato sulla piastra,accompagnato da fave fresche col burro e spolverando con cacao

Zuppa di cioccolato biancoLuigi Taglienti — “Antiche Contrade”di Cuneo — ha inventato un dessertstralunato e squisito intorno alle dolcifave nuove di Albenga, appoggiatesu una zuppetta di cioccolato biancocon ananas e ricci di mare

PrimaveraGli ultimi carciofi, primizie di fave e piselli: nella ricetta storica, la minestra semi-asciutta, dagli intensi sapori d’orto, si versavabollente su un crostone di pane arricchito da un uovo crudo

Tortello nero e zuppettaContrasto cromatico e armonia di gusti nel piatto di Luca Landi, chef del “Lusania” (Green Resort di Tirrenia). La zuppetta, insaporitacon lardo, porri e pecorino,accompagna il tortello di seppie

pecorino&LICIA GRANELLO

itinerariSalvatore Tassaè lo chef-patrondell’elegante“Collineciociare”,nella campagna

di Frosinone,passerella saporitadi grandi materieprime. Tra i suoi piattipiù golosi, i tortellidi zucchinecon ragout di fave

Tra i prodottidella generosapiana dei CampiFlegrei, spiccano due varietà di favedi Miliscola,(contrada

di Bacoli dove era di stanza la flottaromana del Tirreno): le grandi vuttulanee le tenere quarantine

DOVE DORMIREHOTEL CALA MORESCAVia del Faro 44Tel. 081- 5235595Doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREA RIDOSSOVia Mercato di Sabato 320 Tel. 081-8689233Ch. dom. sera e lun. Menù da 35 euro

DOVE COMPRAREFATTORIA TERRA DEL SOLE Via Apicio 7Tel. 081-8689603

Fertilissima oasicollinare nel cuoredella Sicilia,dominio di arabi e normanni, vantatre produzioniagricole

di eccellenza: le olive, le fave larghee saporite, e le pesche tardive, avvoltenella carta pergamenata

DOVE DORMIREVILLA GUSSIO NICOLETTIContrada Rossi, S.S. 121 km 94,750Tel. 0935-903268Camera doppia da 140 euro

DOVE MANGIAREBAGLIO SAN PIETRO (con camere)Contrada San Pietro - Nicosia Tel. 0935-640529Sempre aperto, menù da 30 euro

DOVE COMPRARECOOPERATIVA COPRAS Via Catania 74 Tel. 0935-903209

Leonforte (En)Appoggiatasul promontorio del Gargano,fa partedella comunitàmontana (il nomeidentifica il “luogo

delle capre”) e delle “città dell’olio”Le fave, presidio del Parco nazionaledel Gargano, sono piccole e dolci

DOVE DORMIREHOTEL DE LA VILLEVia MazziniTel. 0884-900412Doppia da 55 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARERISTORANTE MEDIOEVOVia Castello 21, Monte Sant’AngeloTel. 0884-565356Chiuso lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGRICOLA D’ARNESEVia Cavour 66 Tel. 0884-992210

Carpino (Fg)Bacoli (Na)

Tornano i picnicdi primavera

Quaglia e scampiNel menù del ristorante “Mosaico”(hotel Terme Manzi, Ischia), Nino di Costanzo propone un elegantepiatto di quaglie (petto e cosciarosolate) con orzo, fave fresche,crema di zucca e scampi spadellati

Repubblica Nazionale

Cenerentola dei legumi e spau-racchio dei filosofi. Cibo dapoveri e allucinogeno da pen-

satori. È la fava, la madre di tutte leleguminose, antidoto millenariocontro la fame nera dei diseredatidi ogni tempo. Dalle polente difave che ingannavano lo stoma-co degli schiavi mediorientali,alla puls fabatadei Romani, finoal macco dei nostri contadini, lefave sono da sempre l’umile maindispensabile carburante pro-teico della storia degli ultimi.Ammaccate, pestate, schiaccia-te proprio come quelli che lemangiavano.

Primi fra tutti i nostri antena-ti del neolitico che, migliaiad’anni prima di Cristo, facendodi necessità virtù, scoprirono

che i legumi sostituivano degna-mente la carne. Molti popoli del

Mediterraneo, Romani compresi, cifacevano anche il pane. E si deliziavano

con gourmandises come le fave novelle gri-gliate con tutta la buccia che Apicio, il Brillat Sa-

varin dell’antichità, consigliava di condire con il mi-tico garum. Né più né meno di quello che fanno adesso

certi grandi chef che dal baccello della fava estraggono lesette bontà esaltandone la verde rusticità con la sofisticata

profondità della colatura di alici. Il classico colpo di bacchetta ma-gica che trasforma Cenerentola in una regina. E la fava in una favola. Una leccornia da far resuscitare i morti. E non solo in senso metafori-

co. Perché le fave, grazie al loro vitalissimo humus, erano consideratesimbolo di ciò che va e viene dalla terra, dell’eterno ritorno della vegeta-zione. Connesse con il mondo degli inferi, ma anche con quello della na-tura che rifiorisce a primavera. Nei riti stagionali, infatti, venivano offer-te fave a divinità dei passaggi come l’enigmatica Tacita Muta che nellaRoma antica rappresentava il ciclo annuale della semina e del raccolto,l’alternanza tra la vita e la morte.

Per le stesse ragioni Pitagora, il più nutrizionista dei filosofi e il più fi-losofo dei nutrizionisti, le vietava a sé e ai suoi discepoli. Il bulbo cavo del-la pianta, secondo l’inventore delle tabelline, avrebbe consentito alle

anime dei defunti di risalire sulla terra nascondendosi neibaccelli. E forse è proprio per questo che ancora oggi

nel Triveneto e in altre regioni italia-ne il 2 novembre si mangiano dei

dolcetti di pasta di mandorla chiamatifavette dei morti. Oltretutto i pitagorici

erano convinti che le fave provocassero incu-bi e visioni. Sulle loro proprietà allucinogene, ol-

tre che afrodisiache, era pronto a scommettere ancheil sobrio Platone, sempre un po’ diffidente verso ogni for-

ma di sballo. Un cibo tanto simbolico da diventare un talismano, per gli antichi co-

me per i moderni. È dal Medioevo che in Francia si prepara un dolce cheha una fava nascosta nell’impasto. Fortunato chi la trova. Così vuole latradizione. Ancora oggi i ricettari francesi raccomandano di far scivola-re furtivamente nella torta una fava secca. C’è chi invece la preferisce difinissima porcellana. E Stohrer, il più antico pasticciere di Parigi, nellasua superba bordelaise ce la mette addirittura d’oro. Naturalmente solosu richiesta e per i clienti vip. Quelli abituati a prendere due piccioni conuna fava.

quintali la coltivazionein Sicilia (regione leader)

212 mila

quintali il consumoprevisto il Primo maggio

300 mila

l’appuntamentoAppuntamento tradizionalissimo quello di Nazzano, paese nel cuore della riserva naturale del Tevere-Farfa, alta SabinaIl Primo maggio si celebra il connubio tra favee pecorino, con degustazione-merenda collettivanella piazza principale, all’ombra del grandealbero piantato molti anni fa in onoredei lavoratori e della loro festaIn accompagnamento,pane e vino in arrivodai Castelli romani

di quintalila produzione nazionale

1,4 milioni

le calorieper cento grammi

41

‘‘Alexandre DumasPorthos si morse le labbraperché vedeva che non c’erada levarsi la fameGuardò se ci fosse ancora il piattodelle fave: il piatto era scomparsoDa I tre moschettieri

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 26 APRILE 2009

MARINO NIOLA

Tutte le leggendesul cibo-cenerentola

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 26 APRILE 2009

AL CARBONIOVersione top della bici da strada, questa Wilier

ha il telaio monoscocca in carbonio, leggerissimoI costi naturalmente s’impennano

CRONOMETROAltro modello da corsa firmato dalla prestigiosa

casa Pinarello, anch’esso con telaio “full carbon”,specialmente dedicato alle gare a cronometro

DOPPIA AMMORTIZZAZIONEPur essendo pieghevole, non scende

a compromessi questo modello biammortizzatoin alluminio della Blanc Marine

GO-KARTSembra un go-kart a pedali questa originale

bicicletta a quattro ruote e cinque postiÈ denominata Quintet ed è reperibile in commercio

IN GRUPPOQuesto modello è chiamato “Conference seven”,

un nome spiegato dal fatto che i sette ciclistisiedono tutti in circolo, come intorno a un tavolo

le tendenzePedalare

ULTRA TRADIZIONALEUna Bianchi ultratradizionale, di quelle che hanno

accompagnato l’andirivieni di generazioninella Bassa Padana. Notare il telo copri-raggi

ELETTRICACrescente favore incontrano le bici elettriche,

provvidenziali nelle salite urbane. Questa EagleLuxha un’autonomia di circa 40 chilometri

IMPERIALEEcco la Dei “Imperiale”, ovvero l’“olandese” madein Italy. Di rigore freni a bacchetta e portapacchi

C’è anche in versione più economica, la “Regale”

SUPERPIEGHEVOLESecondo il fabbricante, la piccolissima

pieghevole Genius della Mobiky Riepuò addirittura venir trasportata in uno zainetto

Manubrio alto e squadrato, sella ampia e molleg-giata, carter copricatena, freni rigorosamente abacchetta, parafanghi, portapacchi, colore scu-ro e satinato: ecco la moda che sta conquistandol’America. Questa volta non si tratta del solitomega-suv superaccessoriato, bensì della vec-

chia, cara bicicletta. La nuova frontiera è la bici old fashion, che ne-ga la tecnologia più moderna al carbonio ed è la copia conforme del-la vecchia “spicciola” dei guardiani notturni. E che ha il corrispon-dente femminile nella celebre “olandesina”, cavallo di battaglia dadecenni della Royal Dutch Gazelle, la più famosa fabbrica olande-se: 350mila bici l’anno e un fatturato di oltre dodici milioni di euro.

In America è già boom: frutto della crisi, ma anche di una modaretrò che affascina a conquista. Recarsi in ufficio, giacca e cravatta,dondolando lentamente sui pedali, fa chic, ha il sapore di un tuffonel passato e proietta immediatamente in un’altra dimensionetempo-spazio, fuori dallo stress di tutti i giorni. Oltre che consenti-re evidenti risparmi energetici. Fra gli atout del successo, il prezzoaccessibile: tra i mille e i duemila dollari. L’analogo in Italia, ovverola mitica Imperiale della Dei (Atala), costa milletrecento euro. Il pro-dotto c’è già, la moda forse arriverà presto.

Ma i contorni di una città a dimensione di due ruote a pedali so-no ancora molto sfumati. C’è il tentativo di aprire un discorso, ad-dirittura a livello mondiale. Google censisce circa centoquarantacittà, dalla Cina all’America, che sperimentano con successo il “bikesharing”, cioè la possibilità di noleggiare bici nel centro cittadinospostandosi da un punto all’altro. Una quindicina sono italiane,concentrate in Piemonte: Alba, Borgomanero, Cuneo, Bra, Fossa-no, Pinerolo, Settimo Torinese, Novara; ma ci sono anche Milano,Bari, Genova... Roma ha varato, non senza contraddizioni, dician-nove punti di “sharing” con duecento mezzi a disposizione. Ma nelcaotico traffico cittadino non se ne è accorto quasi nessuno.

La moda Usa potrebbe fungere da traino. Però l’obbiettivo Olan-da, con i suoi 22mila km di piste ciclabili e perfino il taxi-bici pub-blico, è tuttora una chimera. La città ciclistica è un obbiettivo lonta-no. L’uomo a pedali dà fastidio a quello nevrotizzato a motore, loimpaccia, gli fa perdere tempo. Per questo forse la bici resta un ap-prezzato attrezzo sportivo ma non diventa un mezzo vero e propriodi trasporto da tutti i giorni. Anche per questo la mobilità in bici nel-le grandi città sfiora appena il sette per cento.

E allora, il successo Usa? Da tempo nelle grandi città d’America lebici sono più veloci delle macchine incatramate nel traffico cittadi-no, tant’è che le agenzie di consegna a due ruote sono proliferate ne-gli ultimi lustri. Ma alla base c’è altro: ci sono le strade dedicate al pe-dale. A New York sono centosettanta le miglia di piste ciclabili: due-centosettanta chilometri riservati. A Roma ce ne sono miseri qua-rantacinque, percorsi scassatissimi, poco praticabili, tracciati inperiferia: oasi isolate, da tempo libero, non vie di comunicazione(ciclistiche) che scorrono come vene nel centro della città.

EUGENIO CAPODACQUA

New York va pazzaper la bici retrò

Figlia della crisi, ecologicamente corretta, con un risparmioenergetico del cento per cento, a un prezzo accessibile:la moda dell’“olandese” furoreggia nelle metropoliamericane.E in Italia? Forse riusciremo a imitarla:l’offerta di modelli è ricca e altamente competitivaMa nelle città l’automobile la fa ancora troppo da padrona

Bikestyle

Repubblica Nazionale

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 APRILE 2009

l’incontro

‘‘

Conduttrici

Credo che la sinceritàassoluta tra uomoe donna non faccianeppure beneal rapporto. In quantodonna sono per naturabugiarda.Non sonotraditrice, me nemanca la vocazione

La padrona di casa di “Exit” è l’iconadi Sky, tra le donne più desideratedagli italiani, oggetto di assiduicorteggiamenti (si farebbe prima a dire

chi non ci ha provato,ammette lei stessa)Si definisce credente(“Mi aiuta, mi sorregge”)e di sinistra (“Pensoche vada combattutol’eccesso di ingiustizia

sociale”). Sulla fama televisivaè realistica: “Da un giorno all’altrola porta ti può venir sbattuta in faccia”

Alla fine l’immagine cherimane lì a galleggiare èquella di una mascheradal sorriso ironico, se

non beffardo. Si percepisce il sospettodi non avere capito fino in fondo, nelgioco della verità e della dissimulazio-ne, la donna che hai avuto di fronte perun paio d’ore. Non hai perso, ma nep-pure hai vinto. Ilaria D’Amico lo dicesubito: «Non mi va di passare attraver-so uno scanner, di sottopormi a un’au-topsia da viva. Se andassi in giro senzapelle sarei una pazza, mi mancherei dirispetto. Non accetto di essere giudi-cata da chi non mi conosce, sono statapiù volte ferita da chi usa la critica co-me se fosse un paio di stivali. Li indos-si, grazie ai tacchi diventi tre centime-tri più alto, e pensi di poterti permette-re di tutto».

È mattino presto, al bar di via dellaPace gli avventori sono pochi, e tuttilenti nei gesti come se stessero ancorarisvegliandosi. Una ragazza e un uomodi colore inseguono tra i tavolini unchihuahua che trema di freddo e dipaura e che naturalmente non può chechiamarsi Golia. Anche il cane ha la suamaschera nell’illusione di sentirsi piùforte. Sono tempi così. Ilaria D’Amicoè arrivata da via dei Coronari, dove abi-ta. Pantalone e giacca neri, camiciabianca. Ha mani sottili, con le dita lun-ghe che sfiorano appena tutto ciò chetoccano. Mi spiega di essere cresciutain una famiglia interamente al femmi-nile. «Mia madre, le sue quattro sorel-le, la nonna catto-comunista, mia so-rella più grande di dieci anni. Alle ele-

mentari dalle suore: grembiule, fiocco,i capelli raccolti in due codini». Mai unsette in condotta, quella bambina sa-rebbe stata l’orgoglio della ministraGelmini.

Le piccole “rivoluzioni” arrivano anove anni, in cortile con i maschi per imondiali di calcio dell’82 in Spagna, ilprologo della giornalista sportiva, l’i-cona di Sky. Alle medie senza cartella, ilibri molto gualciti e portati in mano. E,a quindici anni e mezzo, la prima vol-ta, confessa, in cui ha fatto l’amore. In-siste: «Se indosso una maschera non lofaccio per cinismo. Considero un donoincontrare qualcuno che riesce un po’per volta a farmi scoprire, a conquista-re la mia fiducia, a farmi raccontare ciòche non è facile dire. Altrimenti miesercito con parole inesistenti. Mi pro-teggo». Le domando da che cosa ha do-vuto soprattutto difendersi. «Dai dolo-ri, per esempio. Ringrazio il cielo diaverne avuti, ci devi passare attraver-so. È inevitabile affrontare le curve del-l’esistenza. Ho perso mio padre loscorso anno, ho avuto altre perdite im-portanti delle quali non mi va di parla-re. All’inizio fuggo dalla realtà, comin-cio a dialogare diversamente con lepersone che non ci sono più, faccio co-me se fossero soltanto partite per unlungo viaggio. Mi immagino di riceve-re le loro telefonate di giorno e di not-te, piano piano ritrovo in questo modola dimensione reale. Accetto la soffe-renza. Credo in Dio, mi aiuta, mi sor-regge. Il mio è anche un modo oppor-tunistico di credere. Ho bisogno dellafede soprattutto nei momenti difficili.Conosco le preghiere. Il Padre nostro,l’Ave Maria. Da piccola cantavo nel co-ro della chiesa fino a quando mi hannoallontanata per colpa della mia voce dapapera o da sirena di fabbrica. Mi pia-ce andare nelle chiese vuote. Da sola.Inginocchiarmi a un banco. Penso,guardo la croce sull’altare. A voltepiango. Sono una che si commuove fa-cilmente. Piango anche al cinema, avolte piango anche di fronte alle pub-blicità romantiche».

È tra le donne più desiderate dagliitaliani. Il figlio di Moggi tentò di con-quistarla con un aereo e un viaggio aParigi. Ci provano calciatori e allenato-ri. La lista è lunga. Lei non fa nomi, di-ce soltanto che farebbe prima a dire chinon ci ha tentato. Girano leggende diamore saffico legate all’amicizia conl’attrice Monica Bellucci. Ride, non hanessuna voglia di tornare su un argo-mento smentito tante volte. «Mi sentomolto donna, se c’è qualcosa di ma-schile in me questo non va oltre il quin-dici, venti per cento. La caparbietà, la

grinta, la determinazione sono dotifemminili. Sono felice quando mi ven-gono riconosciute. Ma credo anche diessere diplomatica e bene educata.Non sono un animale solitario e pensodi saper lavorare in gruppo. Diciamoche sono un capo tollerante. Detesto ifurbi e i falsi intellettuali. Sono una ca-pra in molte cose, non mi vergognodella mia ignoranza. Cerco di impara-re, questo sì».

È bella, dietro il suo scudo e le paro-le non dette. C’è un’ombra di pauranella sua pallida freddezza. Anche lapaura di chi vuole piacere. La sua va-nità. «È vero, spesso mi sento inade-guata. Eppure mi accetto. So quali so-no i miei difetti. Ho un seno ingom-brante. Lo mostro quando serve, lo co-pro quando non serve. Ho le gambetroppo magre rispetto ai fianchi. Ho ilnaso imperfetto. Ho i denti da rodito-re. Non ho il timore d’invecchiare, maforse questo è il coraggio che si ha atrentacinque anni, più avanti chissà.

Mi vedrò cambiata, dovrò abituarmialle unghiate del tempo. Lavorare in tvaccelera la vita, hai la sensazione di vi-vere un passaggio molto veloce, quasirepentino. Da un giorno all’altro laporta ti può venire sbattuta in faccia. Cipenso da quando ho cominciato. Miimmagino di spegnerla, la tv, di met-termi a fare altro, di scrivere magari.Oppure mi vedo in campagna con figli,nipoti e cani».

Sarebbe un ritorno alle radici, alleorigini viterbesi di Vignanello. Intantocon l’accortezza e la lungimiranza so-lida dei contadini ha comprato una ca-sa a Nizza, negozietti a Milano e Roma.Non esiste solo il cuore. Anche se è làche si cerca di andare. «Sono una buli-mica dell’amicizia, verso la quale houn approccio entusiastico, opposto aquello che adopero nei confronti del-l’amore, una terra nella quale entrocon atteggiamento molto guardingo.Per me l’amore è un abbraccio che du-ra tutta la giornata. È solidarietà, tepo-re, equilibrio. Trovare l’amore è diffici-lissimo, ancora di più è preservarlo.Non sopporto l’ipocrisia delle coppieche continuano a stare assieme nono-stante la fine del sentimento e dellapassione. Perdono le piccole bugie. Lebugie bianche, come le chiamo io. Cre-do che la sincerità assoluta tra un uo-mo e una donna non faccia neppurebene al rapporto. In quanto donna so-no per natura bugiarda. Non sono tra-ditrice, me ne manca la vocazione. Esono pigra. Una volta ho vissuto per unpo’ di tempo due rapporti paralleli,erano entrambi agli inizi. È stata unafatica incredibile. Avevo bisogno di ca-pire, poi ho scelto chi amavo. A miavolta sono stata tradita, l’ho scoperto.Avrei preferito non saperlo. Ho soffer-to moltissimo. A un certo punto ho get-tato tutto in una grande pentola, l’hofatto bollire a lungo, è passato. A tren-tacinque anni vorrei un figlio, sono inperfetta media italiana. Ci sto pensan-do seriamente. Sono sicura che sapròessere una buona madre, confusa-mente dedita».

Nella recente guerra tra Murdoch eMediaset, Ilaria D’Amico è stata rac-contata anche dai giornali stranieri co-me l’unica femmina televisiva che hamesso in crisi Berlusconi. Sembravapronta a diventare il nuovo leader delPd. «In verità vivo la politica da cittadi-na smarrita e delusa. Mi ritengo unadonna di sinistra perché penso, primadi tutto, che vada combattuto l’ecces-so di ingiustizia sociale. Non so che co-sa sia il comunismo, una parola chenon si dovrebbe più usare. Ho apprez-zato Cofferati, Bertinotti, Veltroni. Ri-

tengo Berlusconi un imprenditore checontinua a fare quel mestiere anche dacapo del governo. Come imprendito-re-politico non ha avversari. Nel cen-trodestra mi ha colpito favorevolmen-te l’evoluzione politica, la metamorfo-si, di Gianfranco Fini. Mi trovo d’ac-cordo con lui quando difende la lega-lità e le libertà individuali. Non vorreisbagliarmi, ma mi sembra che l’ex lea-der dell’Msi sia diventato un uomo diStato».

Tre giorni della settimana a Roma,quattro a Milano. Sempre dentro lascatola di una televisione. Chissà checosa rimane al di là dello schermo. «Latv mi ha fatta chiudere ancora di più inme stessa. Ho bisogno di aria, di starepoco in casa, di cenare all’aperto an-che d’inverno. Vorrei avere più tempoper leggere. La trasmissione Exitsu La7mi impone di prepararmi soltanto sulibri tecnici e di saggistica. Gli ultimiromanzi che sono riuscita a leggere so-no stati La solitudine dei numeri primidi Paolo Giordano, Trilogia della cittàdi K. di Agota Kristof e Il maestro e Mar-gherita di Bulgakov. Vorrei scoprire ilteatro, un’arte che mi affascina e dellaquale non so nulla. Mi perseguita l’os-sessione del rimpianto, di tutto ciò chenon riesco ad afferrare. Sono una ma-linconica terribile. Penso addiritturadi avere bisogno della malinconia. C’èsempre un momento della giornata incui mi viene un nodo in gola. E sto be-ne lì, raggomitolata in me stessa». Pro-tetta dal ferro dell’armatura, come uncavaliere medievale. «Sì. Se avessi po-tuto nascere in un’altra epoca, mi sa-rebbe piaciuto essere Giovanna d’Ar-co». Fino in fondo, fino al rogo? «Finoalla fine. Almeno avrei vissuto il colpodi scena».

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DARIO CRESTO-DINA

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Ilaria D’Amico

Repubblica Nazionale