Just Another Christmas Short Story - Amabile Giusti

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Just another Christmas Short Story di Amabile Giusti La bambina si sente stretta, quasi fosse chiusa dentro una scatola. Il soffitto della stanza le pesa sulla testa tanto è basso. Ha paura. Non ricorda tutto chiaramente, forse perché il panico le ha mangiato la memoria, e quel poco

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Il racconto di Amabile Giusti per lo Speciale Racconti Sotto L'Albero del blog Sangue d'inchiostro

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Just another Christmas

Short Story

di Amabile Giusti

La bambina si sente stretta, quasi fosse chiusa

dentro una scatola. Il soffitto della stanza le pesa

sulla testa tanto è basso. Ha paura.

Non ricorda tutto chiaramente, forse perché il

panico le ha mangiato la memoria, e quel poco che

torna a galla, tra una lacrima e l’altra, non ha un

filo, non ha una trama: la recita di Natale, le

bambine sul palco, tutte belle, con le guance tonde

come arance, un fulgore di luci sospese, e musica,

musica, musica piena di slitte e campanelle e

pargoli che nascono in grotte lontane.

Poi l’uomo.

Da dov’è arrivato?

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Silenzioso come la neve che cade pigra oltre i vetri

della scuola, con un sorriso dall’apparenza candida

e senza colpa, ha preso lei. Nessuno se n’è accorto,

nessuno ha dato l’allarme.

Verranno a cercarmi?

Avverte ancora le sue mani addosso, anche se non

sono più addosso. E il suo odore strano, dolciastro,

come di sudore e caramelle, e un po’ di animale.

L’ha portata via e l’ha chiusa in una stanza piccola,

completamente buia. Per un po’ ha sentito freddo,

tanto freddo, e il fischio del vento in lontananza. E

lui vicino, che respirava come un animale stremato,

con un rantolo da brivido.

Adesso, invece, niente più vento né respiri bestiali:

intorno solo un silenzio che sa di pozzo.

Forse l’ha calata davvero dentro un pozzo. Prima,

tra gli spasmi del terrore che faceva della sua

pancia un puntaspilli, ha avuto la sensazione di

cadere. A un tratto ha udito un tonfo, il grido della

pietra colpita, il grido delle sue piccole ossa contro

la pietra. Infine il niente. Solo quella stanza stretta

e bassa, e una paura larga e altissima.

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Vorrebbe smettere di piangere, ma proprio non ci

riesce. Vorrebbe la mamma. Mamma che cuce il

vestito per la recita natalizia, mamma che le pettina

i capelli, mamma che le calza le scarpette coi

fiocchi. Vorrebbe lei, e invece ha solo se stessa. E

quel niente tutto intorno, quella cella, quell’attesa

di ciò che accadrà, perché “qualcosa” accadrà,

qualcosa che cambierà la sua vita per sempre. Lo

sa, anche se non glielo ha rivelato nessuno.

Voglio andare via. Era quasi Natale, tutto era

bello, ero felice, voglio tornare a casa!

Comincia a colpire il muro, la porta, e allora si

accorge di quanto sia davvero angusta la stanza,

perché le basta allungare le braccia per toccare coi

palmi una parete concava. Si sente soffocare, come

un pesce che ha lasciato l’oceano per un barattolo.

Batte batte batte, urla, graffia, dà calci più duri del

bronzo, chiamando la madre.

In quel momento, sente un rumore accanto a sé. Un

sussurro.

«È inutile.»

C’è qualcuno?

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È la voce di un bambino, più vicino di quanto

potesse immaginare. Percepisce le sue dita che le

sfiorano il dorso di una mano. Sono fredde,

sembrano fatte di plastica.

«Chi sei?» gli domanda sommessamente, come se

temesse che un tono appena più acuto possa far

dissolvere quel compagno improvviso e

improvvisato, che forse esiste davvero e forse è

solo una fantasia del suo cuore, un’allucinazione

prodotta dal tormento della solitudine.

«Non me lo ricordo più» le risponde.

La bambina non si stupisce. Anche lei, in quel

momento, con tutta quella paura dentro, non sa più

come si chiama, chi è, e da dove viene. Sa solo che

vorrebbe essere da un’altra parte.

«Quell’uomo, ha preso anche te?»

La sua flebile risposta la fa rabbrividire.

«Si.»

«Dobbiamo scappare!»

«È inutile, siamo chiusi dentro.»

Un breve silenzio li separa, ed è di nuovo come

essere sola. Quando lui tace è come se scomparisse,

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sta tanto fermo da sembrare finto. Ma la bambina

preferisce parlargli per sentirlo parlare, per riempire

in qualche modo quello spazio muto e pieno di

ostili promesse.

Tutto è meglio del silenzio, anche un milione di

parole buie come la stanza che li imprigiona.

«È Natale domani, voglio tornare a casa mia, non

voglio stare sola» piagnucola.

Percepisce di nuovo la sua carezza sul dorso della

mano.

«Non sei da sola» le dice dolcemente. «Siamo

insieme, no? Io non conto nulla? Pure io ho paura,

che ti pare? Ma piangere non serve. Meglio

sperare.»

«Sperare?»

«Si, sperare. Tra poco è Natale. Non può succederci

niente. A Natale tutto è bello, così mi diceva la mia

mamma.»

«Anche la mia. Diceva che a Natale sarei stata

felicissima.»

«Le mamme non dicono bugie... penso.»

«La mia non ne diceva certamente.»

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«Allora speriamo»

«Che cosa?»

«Un mucchio di cose. Che quell’uomo diventa

buono e ci lascia andare. È quasi Natale, appunto, e

a Natale tutti sono più buoni. Oppure, anche se non

diventa buono, qualcuno ci trova e ci libera. Si,

potrebbe andare così.»

La bambina tira su con il naso. In fin dei conti, è

meglio credergli. La speranza è confortevole,

morbida. La speranza sa di Natale, di casa e regali e

neve dolce, non troppo fredda, neve di seta.

«Qualcuno ci libera, dici?»

«Dico di si.»

«Va bene, ma quando?»

«Tra poco. Contiamo da cento a zero.»

Contano, insieme, in coro, a voce bassa. Contano

numeri come prima, sul palco, la bambina ha

cantato le nenie di Natale, con serena allegria. Le

loro voci sospirate sembrano acqua che scorre.

Cento novantanove novantotto...

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Ridono perfino, sbagliando la conta. La paura non è

più una tavola, è diventata duttile, cede come il

ghiaccio al calore.

Cinquanta quarantanove quarantotto...

Si tengono per mano, e non sono soli. Sono due

bambini in una stanza piccola, dentro un pozzo, e

c’è un uomo, fuori, da qualche parte, un uomo con

mani grandi, che sa di sudore e caramella e

animale, che forse diventerà buono e forse no, ma

non sono soli adesso.

E tra poco è Natale. Non c’è da avere paura.

Tre due uno...

Un rumore improvviso li interrompe. Oltre la

stanzetta impazza un frastuono. È come se

qualcuno tentasse di sfondare la porta. Chiudono

gli occhi. Sperano come sperano i fiori precoci

prima dell’ultima neve.

Zero.

***

La bambina bionda apre il pacchetto con foga.

«Papà papà papà guarda!»

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Il padre armeggia coi ciocchi impilati accanto al

camino, per accendere il fuoco. La stanza è

diventata fredda, e fuori la neve vortica come

un’immensa girandola. La piccola ha insistito per

spegnere la fiamma e raffreddare le braci,

altrimenti Babbo Natale si brucia quando viene

giù.

La osserva mentre scarta il pacco con quelle

manine minuscole, scatenate, ancora incapaci di

prendere le cose con destrezza, ancora infantili in

modo quasi struggente.

Quando la carta colorata è messa via, sparsa

intorno in straccetti, appare una scatola di plastica

trasparente. Dentro ci sono due bambole, una

femminuccia e un maschietto, non più alte di tre

mele messe una sull’altra, vestite uguali. Abito

rosso e oro, tutto volants e maniche a sbuffo.

Capelli ben pettinati, lisci e lucidi, gialli come

pulcini. Scarpe coi fiocchi. Guance tonde color

arancio. Pioggia di lentiggini.

Le mani dei due pupazzetti si sfiorano, dita contro

dita, timidamente.

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«Che belli, papà!» esclama di nuovo la bambina.

«Però... guarda, lei piange!»

Gli mostra la bambola, e il padre non può negare

che sul viso della pupattola di plastica ci sia

qualche cosa di umido. Forse un po’ di condensa?

O un residuo di colla? Di sicuro un difetto di

fabbricazione.

Sarà un regalo di Helena, pensa, alludendo alla

signora rumena che vive nella dependance e gli

tiene in ordine la casa. L’avrà messo nel camino

per rendere meglio l’idea di Babbo Natale che si

infila lungo la canna fumaria. Carina come idea.

Avrei dovuto pensarci anch’io.

Sotto l’albero torreggiano altri pacchi, e la bambina

li scarta con emozione, ma senza la stessa frenesia

del primo dono. Giocattoli costosi, raffinati,

elettronici. Ha solo quattro anni, ma se comincia da

adesso a usare il computer, a dodici sarà

bravissima. Il computer serve. Il padre lo sa, lui lo

adopera tanto. Sta sempre al computer. È quasi un

prolungamento del suo corpo.

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La bambina ringrazia, è una creaturina educata, sa

fare inchino e soavi boccucce. Ma non è abbastanza

convinta di quei doni squadrati, incolori,

indecifrabili. Le due bambole vecchio stampo,

ancora rinchiuse nella loro prigione di plastica

trasparente, la attraggono di più. Le tira fuori,

paonazza per la gioia, quasi estatica.

«Hanno un nome, papà?»

«No, tesoro. Devi darglielo tu.»

«E da dove vengono?»

Il padre sorride un po’ imbarazzato. Non è pratico

di favole che possano seguire il filo della fantasia

di una bambina di quattro anni. L’anno prima c’era

ancora Anna, era già malata, certo, ma era stata lei

a ricamare la storia che tutti i bambini del mondo

vogliono sentirsi raccontare a Natale. Adesso è

solo, e non ci sa fare con queste cose. Lui è bravo

coi computer e le analisi di mercato: le storie con

Babbi Natale e folletti sono fuori dalla sua portata,

vanno oltre i confini della sua mente solidamente

pragmatica. Ma la bambina lo guarda bramosa, gli

occhi spalancati, i piccoli pugni stretti, in attesa.

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Verrà il momento in cui dovrà rivelarle che Babbo

Natale non esiste, che molto di ciò che è più bello e

di cui si ha più bisogno non esiste, ma

probabilmente è ancora presto. Crescerà, e lo farà

in fretta, e scoprirà cose che ogni padre, anche il

più logico e disincantato, non vorrebbe mai che i

propri figli scoprissero. Ma adesso è ancora tanto

piccola da sembrare una bambola anche lei, da

avere negli occhi un incanto purissimo, un rosa

acceso, e non si merita la verità della vita.

«Dalla terra di Babbo Natale» le risponde

accarezzandole i capelli.

«E dov’è? Dov’è?». La bimba gli si accoccola

accanto, vicino al camino che comincia a crepitare

mentre i ciocchi bruciano. Ha le bambole in

grembo.

«Lontano lontano. In un posto pieno di neve.»

«Una neve come la nostra?»

«No, molta di più!»

«E poi?»

E poi…

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Il padre scava dentro di sé, alla ricerca del bambino

che è stato. Un tempo ha avuto anche lui quattro

anni, e quella stessa limpida attesa nello sguardo,

ma non ricorda più nulla. Però non vuole deluderla,

non vuole spegnere quel rosa ardente.

«È un bel posto, sai? Tutto colorato e profumato di

caramelle.»

«La mamma è lì?» domanda ancora la bambina,

speranzosa.

Lui trattiene il respiro per un istante, e il ricordo di

Anna lo uccide un poco. Ma poi torna vivo, vivo

per la sua bimba accovacciata come una noce.

«Certo tesoro, è proprio lì, è stata lei a creare

queste bambole per te. E ha incaricato Babbo

Natale di portartele.»

La piccola non dice nulla, ma emette un gridolino

di gioia. È calda e vibrante e ci crede come si crede

a ciò che si tocca e si vede.

«È stata lei a cucirgli i vestiti» prosegue il padre,

preso da uno strano tepore, da una quiete

inaspettata, come se ci credesse anche lui, come se

davvero sua moglie fosse lassù, in quel pianeta di

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neve, ad allestire giocattoli per la sua bambina

rimasta sulla terra. «Gli ha pettinato i capelli e gli

ha messo le scarpe. È così che fanno le mamme che

sono costrette a partire. Vanno lì e creano bambole

per tutti i bambini del mondo.»

«E Babbo Natale com’è?»

«È un buon vecchio. Non tanto bello, con una

lunga barba lanosa, ma è bravo, mette le bambole

dentro una scatola e le porta in regalo.»

Continua così, il padre, ormai dimentico di quando

non sapeva cosa dire. Racconta di renne al galoppo

e magiche slitte e tempo che cammina all’indietro,

di cieli pieni di neve e vento che corre fischiando.

La bambina annuisce, ammaliata. La felicità, sul

suo viso, ha il colore del fuoco che le canta vicino.

Con le labbra socchiuse, gli occhi lucenti,

contempla il soffitto della stanza, come se vedesse

le parole del padre, le renne, la slitta, e Babbo

Natale un po’ stanco, un po’ vecchio, che respira a

fatica in mezzo al vento che gli tira la barba.

Forse vede davvero tutto, forse a quattro anni i tetti

diventano cielo solo desiderando.

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Infine, abbassa gli occhi sulle bambole che

dormono sulle sue gambette avvolte nel pigiama.

«Guarda papà» dice.

Gli porge la bambola bambina. Lui la osserva.

«Ha messo di piangere» continua la bimba.

Il visetto tondo della bambola è asciutto adesso,

senza più quell’umido velo di poco prima. Di

sicuro sarà stato il calore del fuoco, però… però

ogni tanto che male fa credere? Perché non può

mandare avanti anche lui, quella notte, il bambino

di quattro anni che un tempo si fidava dei racconti

dei grandi?

Allora, accarezza la testa di sua figlia, e della

bambola, con due mani, allo stesso tempo.

«È proprio vero» commenta «ha smesso di

piangere. Ha capito di essere a casa!»

Buon Natale al bambino che è in voi, e all’adulto

che sa ancora sognare come un bambino!

© 2011 by Amabile Giusti

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