Jung-Nietzsche,Volontà Della Psicologia

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139 Volontà della psicologia. Nietzsche contra Nietzsche e Jung contra Jung Milena Massalongo 1. In forma di premessa. Perché Nietzsche è un appunta- mento immancabile per ogni psicologia “Conosci te stesso” stava scritto notoriamente all’ingresso del tempio di Delfi, e potrebbe essere il motto unanime sotto cui racco- gliere gli sforzi psicologici fino ai nostri giorni. Dalle accademie ai servizi giornalistici, passando per certi studi medici e salotti, le psi- cologie sembrano differire in profondità, più di rado nella direzio- ne e nel presupposto: quello di toccare prima o dopo un “sé” rico- noscibile da qualche parte, una natura circoscrivibile nel bene o nel male, un simulacro di identico a cui arrivare o da cui partire. Per il paradosso e l’ironia che certamente calibrarono un tempo le parole del dio e che ne rendono il comando ineseguibile, è difficile trova- re considerazione. Solo a prendere per un attimo sul serio ciò che ingiunge c’è di che diventare matti. Chi conosce chi quando uno si sdoppia per conoscersi? Quale sarà il vero io, quello che ci deve in- teressare, il conoscente o il conosciuto, quello che più ci “libera” di noi già sporgendo dai nostri limiti o quello che così facendo viene delimitato? In una lettera a Overbeck del 1887 Nietzsche dice di una novella di Dostojevski, che ha appena letto, che è «un colpo di genio nella psicologia, una autoderisione del “conosci te stesso”». E prosegue considerando quanto «l’intera psicologia europea» pesi sulla coscienza dei greci, sia «malata» della loro «superficialità», «e

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78 C.G. Jung, Seminari. lo Zarathustra di nietzsche, cit., p. 6.79 C.G. Jung, nietzsche’s Zarathustra, cit., vol. 2, p. 893: «When Goethe was

studying in Leipzig he read a great deal about alchemy, and that is something which we do not encounter in Nietzsche. Nietzsche read very little because his eyes were bad, and most of his material was drown out of his own unconscious and not out of contemporary or historical literature».

Giuliano Corti

Volontà della psicologia.Nietzsche contra Nietzsche e Jung contra Jung

Milena Massalongo

1. in forma di premessa. Perché nietzsche è un appunta-mento immancabile per ogni psicologia

“Conosci te stesso” stava scritto notoriamente all’ingresso del tempio di Delfi, e potrebbe essere il motto unanime sotto cui racco-gliere gli sforzi psicologici fino ai nostri giorni. Dalle accademie ai servizi giornalistici, passando per certi studi medici e salotti, le psi-cologie sembrano differire in profondità, più di rado nella direzio-ne e nel presupposto: quello di toccare prima o dopo un “sé” rico-noscibile da qualche parte, una natura circoscrivibile nel bene o nel male, un simulacro di identico a cui arrivare o da cui partire. Per il paradosso e l’ironia che certamente calibrarono un tempo le parole del dio e che ne rendono il comando ineseguibile, è difficile trova-re considerazione. Solo a prendere per un attimo sul serio ciò che ingiunge c’è di che diventare matti. Chi conosce chi quando uno si sdoppia per conoscersi? Quale sarà il vero io, quello che ci deve in-teressare, il conoscente o il conosciuto, quello che più ci “libera” di noi già sporgendo dai nostri limiti o quello che così facendo viene delimitato? In una lettera a Overbeck del 1887 Nietzsche dice di una novella di Dostojevski, che ha appena letto, che è «un colpo di genio nella psicologia, una autoderisione del “conosci te stesso”». E prosegue considerando quanto «l’intera psicologia europea» pesi sulla coscienza dei greci, sia «malata» della loro «superficialità», «e

persiano Cosroe, seguace di Zoroastro o Zarathustra. Ma come capita fra potenti, Persepoli e Bisanzio fecero pace e ai filosofi in esilio fu consigliato di tornare a casa, per esercitare in patria l’arte sottile della dialettica. Del drappello di sette neoplatonici tornati ad Atene però non si ebbe più notizia.

Ma questa è un’altra storia, però non un altro tema:

Nietzsche compì i propri studi a Lipsia, città in cui è presente una specie di bizzarra setta persiana, la cosiddetta setta Mazdaznan […]. Nietzsche aveva letto molto, era un uomo assai erudito su parecchi fronti, ed è dunque piuttosto probabile, se non addirittura certo, che abbia condotto studi specifici dello Zend-Avesta.78

Contraddizione con ciò che Jung afferma rispetto a Nietzsche

quando lo confronta con Goethe?

Goethe a Lipsia lesse parecchio riguardo l’Alchimia e questo è qual-cosa che non vediamo invece in Nietzsche, il quale leggeva poco per-ché aveva una pessima vista e molto del suo materiale è stato scritto tirandolo fuori dal proprio inconscio e non dalla letteratura storica o contemporanea.79

A quale versione credere, a quella del 1934 o a quella del 1936? Si potrà sempre dire che i Nietzsche di cui Jung parla sono due, uno lo studente, l’altro il pensionato.

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3 C. G. Jung, la funzione trascendente, tr. it in Opere, Boringhieri, Torino, vol. 8, 1976, pp. 79-106, qui p. 82.

4 Un confronto si è dato già da parte di Freud, nonostante questi avesse di-chiarato ripetutamente di non aver letto Nietzsche per il timore di esserne in-fluenzato. In conversazioni riportate con altri studiosi e nell’epistolario, oltre che nei suoi primi scritti e in quelli più tardi si trovano citazioni e riferimenti a Nietzsche e alla sua opera (cfr. a questo proposito: A. H. Chapman e M. Chapman-Santana, the influence of nietzsche on Freud’s ideas, in “The British Journal of Psychiatry”, n° 166, 1995, pp. 251-253). Nietzsche fu poi argomento certo di discussione presso la Società Psicanalitica di Vienna in almeno due oc-casioni: nell’aprile 1908, quando Eduard Hitchmann pronunciò una relazione sull’ideale ascetico come compare nella Genealogia della morale. E nell’otto-bre dello stesso anno quando Adolf Häutler presentò una comunicazione su ecce homo. Riguardo all’influenza di Nietzsche nel pensiero di Freud, studi si sono intensificati negli ultimi vent’anni a partire dall’opera pioneristica di Paul-Laurent Assoun, Freud et nietzsche, 1980 (terza e ultima parte di una trilogia cominciata con Freud, la philosophie et les philosophes, 1976). Cfr. poi R. Lehrer, nietzsche’s Presence in Freud’s life and thought: On the Origins of a Psychology of dynamic Unconscious Mental Functioning, State of University New York Press, New York Albany 1995; in area tedesca: R. Gassner, nietzsche

1 Lettera di Nietzsche a Overbeck del 23 febbraio 1887, in: F. Nietzsche, Werke in drei Bänden, Hanser, München 1954, vol. III, p. 1250.

2 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 2007, p. 72.

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ritrattino fosse anche d’autore da uno psicologo). Nient’altro vuol dire Nietzsche quando sostituisce (o interpreta?) l’ingiunzione del dio con il suo celebre imperativo «diventa ciò che sei!». Non: trova il tuo essere e indossalo, che sarebbe solo il secondo tempo del “conosci te stesso” più ingenuo, ma “ciò che sei, diventalo anche”: metti in divenire te stesso, inietta il divenire in quello che sei in que-sto momento, qualsiasi cosa tu sia. Spiazza le immagini, disordina i paradigmi che ti agiscono. Spostati di un passo. Non lasciarti rap-presentare, nemmeno da te stesso. Perché questo significa in fondo conoscersi, trovare da che farsi rappresentare.

Scrive una volta Carl Gustav Jung: «La psicologia è, nella sua concezione più profonda, conoscenza di sé. Però, dal momento che non può essere fotografata, ridotta in termini numerici, pesata e misurata, è cosa non-scientifica». Detto questo, non si può tuttavia passare sotto silenzio che, allora, «l’uomo psichico che pratica la scienza è non-scientifico».3 Nella storia dell’incontro tra la psico-logia medica e il pensiero di Nietzsche,4 Jung è forse lo psicologo e

senza quel poco di ebraismo»,1 ossia senza l’interiorizzazione verti-ginosa all’opera nell’ebraismo, senza il torto infinito davanti a dio, non ci sarebbe stata occasione di squarciare l’ingenua fiducia che fa dire “conosci te stesso” e che manda a fondo una qualche natura, senza rendersi conto di quanto all’improvviso si faccia problema-tico questo soggetto che si torce su se stesso e attacca a conoscersi.

Questo paradosso non riguarda solo l’imperativo antico del “conosci te stesso”. Inerisce invece alla conoscenza e scienza in generale tanto più palesemente fintantoché viene sentito come in-dispensabile interrogarsi sul valore di conoscenza effettiva, sull’o-biettività di ciò che sappiamo.

Già qui parlare di “conoscenza” non ha più tanto senso. Termi-ni più appropriati potrebbero essere “determinazione”, “manipo-lazione”. Una sorta di presupporre in anticipo su ogni conoscere fa capolino da dietro e sembra averne in mano tutte le fila, mandando gambe all’aria ogni serio, sincero, obiettivo proposito di serietà, sincerità, obiettività, morale o scientifica che sia. A meno di non volersi obiettivi in altro senso. Un aforisma di Nietzsche incalza: «Una cosa, quando è spiegata, cessa di interessarci. – Cosa inten-deva quel dio che suggerì: “Conosci te stesso!”. Voleva forse dire: “Cessa di interessarti a te stesso! Diventa obiettivo!” E Socrate? E l’uomo scientifico?»2 Una cosa è l’obiettività così come è inte-sa dall’uomo scientifico quando crede di poter diventare oggettivo per sottrazione di sé, cioè dedicandosi ad altro da sé, a ciò che non è soggettivo, e di poter ad un certo punto, una volta adempiuto a tutte le abluzioni necessarie, senza più l’intrusione del conoscente (!), finalmente conoscere. Altra è l’obiettività verso cui forse in-tendeva spingere il dio: diventare obiettivi, smettere di cercare la propria immagine perché non si finirà mai di farlo, se non per sfi-nimento o per impostura, ed entrare in gioco il più possibile pro-prio da perfetti sconosciuti a noi stessi quali siamo, inconoscibili per risorse e non per enigma (cosa ben più ardua che farsi fare un

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6 C.G. Jung, riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in Opere, cit., vol. 8, pp. 177-251, qui p. 240.

7 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 9.

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und Freud, Walter de Gruyter, Berlin/New York 1998. Più recentemente: E. Varztbed, la troisième Oreille: essai sur un précurseur de Freud, Edition L’Har-mattan, Paris 2003.

5 Altri psicologi del tempo che hanno cercato di metter a frutto il pensiero di Nietzsche in psicologia sono Ludwig Binswanger, presso il cui zio Otto Binswanger Nietzsche era stato in cura nell’ultima fase della sua malattia, Otto Gross, e soprattutto un altro discepolo allontanatosi poi da Freud, Otto Rank, che tentò esplicitamente una sintesi ambiziosa tra il pensiero di Nietzsche e la psicanalisi.

raccomandata per poter rovistare con mani il più possibile aset-tiche nella psiche altrui, è invece il massimo che la psicologia può fare. Ma è subito anche il minimo che deve saper fare: la psicologia «deve abolirsi come scienza e, proprio abolendosi, raggiunge il suo scopo scientifico. Ogni altra scienza ha un “al di fuori” di se stessa; ma non la psicologia, il cui oggetto è il soggetto di ogni scienza in generale».6

Jung ha intuito che il peccato originale della psicologia moder-na coincide con il suo atto di nascita come scienza medica, la sua possibilità scientifica tout court. Nel momento storico in cui, grazie all’analisi freudiana, la psicologia si guadagna autonomia metodo-logica introducendo categorie proprie, rischia anche di diventare soltanto una scienza esatta. Quando proprio nel diventare scienza autonoma, nel rivendicare cioè un’autonomia della vita psichica rispetto alla vita biologica, la psicologia aveva l’occasione di con-frontarsi con un aspetto che nemmeno per la filosofia, come notava Nietzsche ripetutamente, sembrava più essere in questione, riattua-lizzare cioè un’esperienza che sembra essere divenuta impensabile, e che è l’esperienza stessa: la conoscenza come esperienza, o esperi-mento di sé.

2. Per una psicologia della “volontà”

Quello che secondo Nietzsche ancora mancava di fare ovunque si pensasse di affrontare questioni scientifiche è forse qualcosa che continua a mancare: «considerare la maggior parte del pensiero co-sciente tra le attività dell’istinto, e anche laddove si tratti del pen-siero filosofico».7 Il pensiero che parrebbe al grado massimo di co-scienza, quello di un filosofo, sarebbe comunque diretto da ciò che Nietzsche chiama l’«istinto» del filosofo in questione. L’istinto è più di un biologismo o di una pezza mistificante. Nietzsche lo definisce

medico che più ha intuito, forse tanto quanto ha temuto, la portata rivoluzionaria di Nietzsche non solo per la psicologia come scienza, ma per la scienza e la scientificità in generale.5 Il distacco storico da Freud, gli anni di isolamento e di riflessione coincidono non a caso con l’approfondimento e insieme l’esorcismo della figura di Nietzsche. Successivamente Jung avrebbe raccolto intorno a sé una propria “società”, inaugurato una propria linea di ricerca, fondato la sua “istituzione”. Fu il suo passo verso il mondo, il suo adatta-mento, il suo essoterismo. Eppure fino all’ultimo si dà a percepire nel suo pensiero un movimento che sembra demolire dall’interno, esotericamente, il senso di una “scuola”, di una psicoterapia come scienza (il senso di una scienza tout court) e anche come pratica che possa davvero fare qualcosa per qualcuno che non sia il psico-terapeuta stesso. In un certo senso con la mano sinistra Jung sem-bra minare quello che fa la sua mano destra. Un procedere che spiega bene il suo interesse per i procedimenti alchemici, se scopo dell’alchimia è iniziare al senso del conoscere proprio immettendo il discepolo sulla strada sbagliata, perché ne sperimenti in prima persona le aporie e sia indotto a fare esperienza di quel valore atti-vo del conoscere del tutto venuto meno nelle scienze moderne (se non nei paradossi della fisica quantistica). Risultato massimamente auspicabile di questo fare in apparenza contraddittorio non è zero, certamente non è una scuola junghiana o freudiana, ma è l’invito e l’esercizio per ogni studioso a trovare e praticare, per così dire, la propria psicologia.

La riflessione dello psicologo su se stesso non pare essere per Jung soltanto una misura igienica preliminare come spesso viene

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8 Ivi.

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cui spesso è intercambiabile, e porre in vece sua un’altra domanda. Ciò che Nietzsche chiama istinto, altrove lo chiama «volontà», più precisamente «volontà di vita». Dalla volontà ellenica disseppel-lita nella nascita della tragedia, fino alla volontà di potenza dei frammenti postumi, tutto il lavoro di Nietzsche è guidato e tenuto assieme da una psicologia della volontà, che si potrebbe sintetizza-re nella domanda-chiave: che cosa vuole colui che pensa in questo modo piuttosto che un altro? Che cosa vuole colui che vuole la verità? Che cosa vuole colui che vuole conoscere se stesso? Che cosa vuole colui che vuole eccellere? Avendo cura di non scam-biare questa domanda con una domanda moralistica sulle inten-zioni. Il punto non è conoscere che cosa uno vuole, consciamente o inconsciamente (e con questo la psicanalisi sembra essere già rimasta indietro prima di comparire nella storia), ma che cosa una volontà ottiene infallibilmente perché già dato nella sua forma di volere. Che cos’è che ottiene subito, che diventa immediatamente, per il solo fatto di volere in questo modo? Chi vuole conoscere se stesso, ottiene subito di mandare al proprio fondo una qualche natura che poi determinerà a posteriori; chi vuole eccellere, mette subito un traguardo e un limite al suo divenire. L’intenzione vuole fini e scopi, ma la volontà che in essa vuole, vuole solo se stessa, l’atteggiamento verso la vita che afferma e custodisce. È la forza immediatamente attiva, rispetto a cui tutte le altre appaiono come reazioni e conseguenze. In questo senso è giusto dire che essa è in-conscia, ma solo perché non è oggetto di volontà in senso comune, oggetto di intenzione: semplicemente è sempre già data, è ciò che dirige le nostre intenzioni verso questa o quella cosa.

Leggendo Nietzsche la distinzione conscio-inconscio appare essere di per sé poco significante, al massimo descrittiva come lo sono le notazioni grammaticali di attivo e passivo, di soggetto e og-getto, ma senza uno specifico valore di conoscenza. Al suo posto è un’altra coppia ad acquisire valore discriminante. Non quella abu-sata dalla ricezione fino allo slogan e al carnascialesco, il dionisiaco-apollineo, ma la distinzione che regge questa stessa coppia: quella tra forze attive e forze reattive.

come l’insieme di «esigenze fisiologiche di una determinata spe-cie di vita» che guidano gli originari «apprezzamenti di valore».8 Ciò che fa propendere, insomma, per certe questioni, valutazioni e categorie di pensiero piuttosto che per altre, simile in questo a quel complesso di scatti orientati tramite cui l’animale traccia il suo spazio-mondo e sa trovare la via all’interno. Quest’istinto è per lo più inconscio, perché è sì un non-saputo che talvolta conviene anche non sapere, soprattutto quando ciò che si vuole cosciente-mente è il contrario del motivo per cui lo si vuole (vedi una delle categorie-principe della filosofia messe alla berlina da Nietzsche: l’interesse che sotto sotto c’è nel volere il “disinteressato”). Ma si farebbe troppo presto e male a riconoscerlo come un antesigna-no dell’inconscio, almeno fintantoché questo si può considerare, come per Freud, un sinonimo di rimosso o represso. L’istinto di Nietzsche ha la forza compiuta di un’esigenza fisiologica di una precisa forma di vita, quand’anche fosse una vita di pecore e schia-vi. È plasmato e plasmante, sviluppato, solido, attento, furbo alla radice anche nel perseguire superficialmente la propria debolez-za, il proprio carattere informe, inassertivo. Ciò significa almeno questo: che l’istinto di cui parla Nietzsche non è semplicemente il prodotto di una rimozione. Semmai è ciò che sta dietro alla rimo-zione e allo sviluppo di una certa coscienza, nonché, è il caso di aggiungere, di questa o quell’idea di inconscio. Dal suo punto di vista lo stesso celebre schema freudiano per una topografia della psiche risponderebbe insomma a una precisa volontà di vita che mette in campo e organizza tutte le forze inconsce e consce di cui dispone per affermarsi. Ci si potrebbe chiedere da dove vengano questa o quella volontà di vita, quali storie e traumi occorrano a produrre un’«esigenza fisiologica» di una certa specie, e ripropor-re così l’antica domanda sull’origine che la psicologia/psicanalisi eredita dalla tradizione filosofica. Ma il merito di Nietzsche, o il compito che si è dato e il dubbio che ha lasciato agli uomini e alle scienze, è chiedersi se non sia il caso di lasciar perdere o almeno in disparte l’idea di origine, insieme con l’idea di verità e di causa con

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9 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 2007, p. 69.10 Ivi.

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o meno indisturbato di un potenziale, ma un divenire discontinuo fatto di interruzioni, incidenti, urti, ripartenze, rimaneggiamenti, interventi dall’esterno. Qualcosa si realizza, viene al mondo, viene fatto, e questo è un momento del divenire storico; ma il momento cruciale è quando una forza superiore interviene, dove mi pare che “superiore” vada inteso in un senso molto pratico, non ideologico, non valutativo (non è un giudizio di valore): più semplicemente è una forza oltre, una forza esterna che non si limita ad alimentare e custodire il proposito e la funzione interna di ciò che trova, ma lo estranea a se stesso, lo preleva e aggiusta per nuovi usi, lo inserisce in nuovi contesti. Di fatto, se guardiamo per esempio alla storia dei mezzi materiali di produzione, quest’idea della storia può persino apparirci molto poco ideologica, quasi descrittiva, perfino elemen-tare. La scrittura, per esempio, può essere inventata per finalità sacre, ma viene poi sequestrata verso altri contesti da esigenze e situazioni che la declinano sviluppando altri usi e valori. Una volta comparso un mezzo o un fine nella storia umana, comincia seduta stante la loro avventura inarrestabile di estraniazione. Ogni ‘pro-prietà’ è irrimediabilmente perduta, anzi, non si è mai data.

Nietzsche già notava a suo tempo come le stesse scienze natu-rali fossero integralmente orientate allo studio e all’assegnazione del primato alle forze ‘reattive’, ossia alle forze di conservazione, adattamento, conferma, riproduzione, rinvio ad un ordine dato, disconoscendo integralmente il ruolo delle forze attive nella stes-sa vita organica. Questa reattività ha in pieno potere «l’intera fi-siologia e teoria della vita», a danno delle stesse scienze, perché facendo abilmente sparire l’idea di attività, viene meno la capacità attiva della conoscenza. Al suo posto, si finisce inevitabilmente per mettere «in primo piano l’adattamento, vale a dire un’attività di se-cond’ordine, una semplice reattività, anzi, si è definita la vita stessa come un intrinseco adattamento, sempre più finalistico, a circo-stanza esteriori». E qui, dove noi penseremmo a Darwin, Nietzsche cita più correttamente Herbert Spencer: «Ma viene disconosciuta, in tal modo, l’essenza della vita, la sua volontà di potenza; ci si la-scia sfuggire la priorità di principio che hanno le forze spontanee, aggressive, sormontanti, capaci di nuove interpretazioni, di nuove direzioni e formazioni, alla cui efficacia l’adattamento viene solo

3. in che senso una psicologia della volontà è l’appunta-mento immancabile di ogni scienza. e in che senso la scienza moderna origina in questo appuntamento mancato.

In un superbo paragrafo della Genealogia della morale che si dovrebbe portare a frontespizio obbligatorio di qualsiasi pubbli-cazione che pretenda di essere scientifica, Nietzsche mette nero su bianco l’ingenuità di uno sguardo genetico che già allora domina le scienze umane e quelle naturali: ossia l’idea che qualche cosa ven-ga generato per adempiere ad uno scopo preciso, e che una volta inquadrata la sua utilità, con essa se ne spieghi l’origine, del tipo: “l’occhio è stato fatto per vedere”, “la mano è stata fatta per affer-rare”, “il diritto e il senso della giustizia nascono come mezzi per dirimere le lotte insormontabili tra le volontà”. Questa prospettiva nel campo della morale, come anche nel campo delle scienze bio-logiche, è fonte di scorciatoie assassine, che saltano a piè pari la storia di un fenomeno e soprattutto non ne capiscono il senso, non capiscono il valore stesso della storicità e la lasciano fuori per poter arrivare a definizioni come quelle viste sopra («definibile è soltanto ciò che non ha storia»): 9 «la causa genetica di una cosa e la sua finale utilità, nonché la sua effettiva utilizzazione e inserimento in un sistema di fini, sono fatti toto coelo disgiunti l’uno dall’altro […] qualche cosa d’esistente, venuta in qualche modo a realizzarsi, è sempre nuovamente interpretata da una potenza ad essa superiore in vista di nuovi propositi, nuovamente sequestrata, rimanipolata e adattata a nuove utilità».10

È evidente come l’idea di storia si ritrovi qui rivoluzionata rispetto a naturalismi e biologismi di cui la carica la percezione comune, anche nella scienza. In realtà in questo modo anche l’idea di natura e naturale su cui continuano a fondarsi le scienze naturali rivela la sua inconsistenza, o meglio, la sua resistenza, il suo compromesso con idee storicistiche: dal punto di vista di Nietzsche, storia, come vita, non è uno sviluppo organico, il manifestarsi più

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14 C.G. Jung, l’essenza dei sogni, in Opere, cit., vol. 8, 1976, pp. 301-319, qui p. 303.

15 Ivi.16 Ivi.

11 Ivi, p. 68.12 Ivi. Come ricorda Nietzsche, J. S. Huxley aveva rimproverato a H. Spencer il

«nichilismo amministrativo» del suo metodo di conoscenza, p. 68.13 F. Nietzsche, la nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1989, p. 114.

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4. dello sguardo genealogico e dello sguardo simbolico

«Quando si ha a che fare con cose psichiche, il chiedersi “per-ché si verifica la tal cosa” non è necessariamente più produttivo che il domandarsi “a che scopo succede”».14 Occorre saper rovesciare la prospettiva, dice Jung, «lasciare aperta almeno una porta ad una irrazionalità possibilmente assoluta»,15 e invece di porre la doman-da della tradizione filosofica maggiore, la domanda che chiede l’o-rigine, da cui discende la ricerca scientifica della «causalità [che] è, in ultima analisi, una verità statistica»,16 chiedere dell’utilità poten-ziale di un fenomeno.

Così la prospettica scientifica razionalistica (e non “prospetti-ca”) legge il sintomo come segno da ricondurre ad un codice, se-condo una logica causal-effettuale: si cerca la causa di cui il sintomo è effetto o comunque segno. Tutta la sintomatologia medica sembra riposare su questa logica, che a sua volta sembra essere diventata il paradigma ermeneutico odierno delle stesse scienze umane. Adot-tare invece uno sguardo profetico anziché uno fondativo come risulta essere tendenzialmente quello di Freud, significa leggere i sintomi non come segni di uno stato o deviazioni da reintegrare ma come simboli di trasformazioni possibili.

Jung riconosce proprio nel simbolo così inteso il catalizzato-re dello sviluppo e della trasformazione dell’uomo. I simboli non sono immagini codificabili: essi eccedono il codice. Sono loro che promuovono quelle trasformazioni individuali e collettive in cui si esprimono a livello individuale il senso di una biografia, e a livel-lo collettivo quello della storia. Potremmo dire che senza questo residuo immaginale rispetto ad ogni codice non si darebbe storia né esperienza. E che quelle epoche che, come la nostra, tendono a codificare il più possibile esprimono appunto la tendenza a soppri-mere la storia e l’esperienza.

dietro; si nega così all’organismo il ruolo egemonico esercitato dai più alti detentori delle sue funzioni, nei quali la volontà vitale si ma-nifesta in guisa attiva e informante».11 Quello che resta, allora come oggi, è un «nichilismo amministrativo», dove sembra si tratti sol-tanto di gestire l’ordine e le funzioni date. Se non fosse, commenta Nietzsche, che «qui si tratta molto più che d’“amministrare”».12 Ovviamente, quello che si ottiene di fatto è di riprodurre un ordine e un adattamento, di garantirlo contro altro.

In breve, il culto del sapere e della scienza segna il primato delle forze reattive su quelle attive, il primato di una natura da conoscere e adempiere, di codici da variare e riprodurre, rispetto a un diveni-re snaturante che non annienta i codici, ma non li ha come proprio fine. La vera forza di contraddizione di portata storica è quella che tende ad annullare la tensione tra di essi, a privilegiare la funzione rappresentativa su quella pratico-attiva. Non Dioniso versus Apol-lo, quanto Dioniso/Apollo versus Socrate, perlomeno nel valore che Nietzsche riconosce in quest’ultimo: quella «fede, venuta in luce per la prima volta in Socrate, nella possibilità di attingere la conoscenza della natura e nell’efficacia risanatrice universale del sapere».13 Essa inaugura lo sviluppo della filosofia e poi della scien-za occidentali, con la ricerca dell’origine, dell’essenza, della causa e del fondamento, e l’incapacità acquisita di capire ciò che afferma immediatamente, praticamente, una differenza, ciò che sporge fuori dal circuito di una natura, di un proprio, e del causal-effettuale.

Questo è il conflitto fondamentale che secondo Nietzsche ori-gina e attraversa tutti gli altri conflitti, quello morale tra le volontà che vogliono fini diversi, quello tra individuo e società, lo stesso conflitto tipicamente occidentale tra spiritualità e sensualità e forse, a posteriori, possiamo dire anche quello tra coscienza e inconscio. Tutti questi conflitti sono, nell’ottica di Nietzsche, sintomi di un primato delle forze reattive.

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20 Ivi, p. 351.21 F. Nietzsche, la nascita della tragedia, cit., pp. 105-106, e p. 63.

17 C.G. Jung, energetica psichica, in Opere, cit., vol. 8, pp 9-77, qui pp. 56-57.18 C.G. Jung, tipi psicologici, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 528-9. 19 C.G. Jung, Psicologia analitica e arte poetica, in Opere, cit., vol. 8, 1976, pp.

333-354, qui p. 340.

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cogliere solo in maniera intuitiva, un linguaggio gravido di senso, le cui espressioni hanno il valore di autentici simboli perché espri-mono nel modo migliore possibile qualcosa di ancora sconosciuto e sono ponti gettati su di una riva invisibile [corsivo M. M.]».20 Lo stesso Zarathustra nei seminari degli anni trenta viene letto come un’opera simbolica in questo senso, gravida di forza anticipatrice di sviluppi cruciali del XX secolo (la riattivazione dell’archetipo Wotan/Dioniso, il fenomeno del nazionalsocialismo).

Più che di una svista di Jung si tratta di un’ambivalenza imma-nente allo stesso simbolo, che è insieme attività simbolica, prassi di un equilibrio, ma anche catalizzatore e traccia di essa. Nietzsche di-stingue tra un’immagine mediata, apollinea, e il simbolo dionisiaco, «immagine della volontà stessa», in cui Dioniso parla ancora imme-diatamente «per mezzo di forze».21 Ossia: il simbolo dionisiaco fa il volere, è la sua attività, la sua prassi, mentre l’immagine mediata è la rappresentazione di questa attività. Il punto sembra essere però che Nietzsche si accorge di questa ambivalenza e tenta di governarla. Zarathustra è questo tentativo di usare il simbolo disattivando il suo lato rappresentativo sempre in agguato. Qui Nietzsche si spin-ge oltre e indaga la stessa volontà di dissipare le rappresentanze, ne stana le aporie, le derive, la prossimità rischiosa con ciò a cui si contrappone.

5. della “volontà di rappresentanza” e della risata di Za-rathustra che sgomina tutti i simboli

Nello Zarathustra Nietzsche ci mostra in diretta la deformazio-ne di un simbolo possibile in un sintomo tramite l’interpretazione di un sogno. Ad un certo punto della sua discesa tra gli uomini Zarathustra accusa la stanchezza e la mestizia di chi si rende conto che «tutto è vano, tutto è indifferente, tutto fu!». Una grande di-saffezione alla possibilità di cambiamento, di marcare finalmente

La storia stessa della civiltà, il fatto che un divenire del genere sia stato possibile è la prova diretta dell’esistenza di un’ecceden-za di energia «suscettibile di essere impiegata in modo diverso dal decorso puramente naturale».17 Si potrebbe dire che quell’origina-ria deviazione dal decorso naturale costituito dall’introduzione di mezzi e strumenti di lavoro sia tutt’uno con la comparsa del sim-bolico. Tramite questa comprensione del simbolo fa il suo ingresso nella psicologia una dimensione che essa in precedenza e fino a Freud ha escluso proprio per poter essere una scienza esatta, ossia la storicità. Seguendo Jung, questa va intesa non solo come la rela-tività contestuale delle immagini, dei segni e dei sintomi, ma come la loro energia produttiva, la loro carica di divenire, la forza attiva con cui possono intervenire nel contesto. Di fatto, ci sono momenti nel percorso di Jung in cui il suo modo di intendere il simbolico sembra farsi sorprendentemente vicino a ciò che Nietzsche chiama «forza attiva», ma fino a che punto si può davvero parlare di una corrispondenza?

Nella riflessione sul simbolo di Jung un’idea di simbolo come forza plastica davvero inconsueta anche se non assente nella tra-dizione moderna, continua a essere intersecata da un’idea di sim-bolo come presagio di qualcosa che ancora non è, segno di ciò che deve venire, immagine di futuro. Simbolo come migliore espres-sione di qualcosa di ancora «sconosciuto» e «presentito»,18 come «espressione di un’idea intuitiva che non può ancora essere formu-lata diversamente o in modo migliore».19 L’unica cosa che distin-gue quest’idea più tradizionale del simbolo dal mero segno signi-ficante è l’indefinitezza momentanea del significato. Per il resto, la sua funzione rimane quella di rappresentare un oltre, e non, per usare un termine di Jung, trascendere, o per dirla con Nietzsche, passare-oltre. Le forme artistiche di natura simbolica avrebbero un’«estraneità in immagine e parola, di pensieri che si potrebbero

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22 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1968, p. 92.23 Cfr. a questo proposito G. Deleuze, logica del senso, Feltrinelli, Milano 2006,

in particolare il capitolo Sulle tre immagini di filosofo, pp. 116-121.

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volentieri rispondevano con una battuta, un’affermazione che non centrava nulla, o con un gesto (bastonate!) che toglieva la doman-da. Spazzavano via così seduta stante l’atteggiamento sotteso a quel domandare, e ve ne opponevano direttamente un altro concretis-simo. Alla domanda sul fondamento, il motivo, la causa, l’essenza, il fine, che poi sono diventate la forma della ricerca e della storia occidentale, ad una conoscenza cioè che anticipa e predetermina così l’accadere, questi opponevano un gesto concreto, spiazzante, che incideva in una situazione concreta, sui suoi limiti conoscitivi e sulle sue rappresentazioni.

Ora Zarathustra vuole pranzare, e questo appetito è più impor-tante dell’idea, se non altro perché gli fa fare un passo a lato di quella. Questo passo a lato dell’idea, anche dell’idea più profonda, la più vera, la più coraggiosa che sia mai stata pensata, compreso questo passo, è la risata di Zarathustra. Non è il gesto di relativiz-zare e togliere realtà in cui si specializza l’ironia moderna a cui sia-mo addestrati noi, ma è il movimento fisico di non coincidere con le proprie rappresentazioni, di uscire sul confine e camminare sul loro dorso: non la risata come simbolo, ma l’atto, l’azione di ridere, che dissipa anche il residuo rappresentativo-prospettico del simbo-lo. Non si tratta di togliere realtà alle altre forze (immagini, valori, idee), ma di aggiungere una forza in gioco, ad esse esterna, in grado di essere attiva su di esse. Fosse anche che il singolo consista soltanto di questo movimento di esternalizzazione, al di là di ogni personalità, individualismo e individuazione.

Per l’appunto, la risata di Zarathustra non è un’immagine. Sgo-mina e frantuma piuttosto il residuo prospettico di tutti i simboli. È l’irruzione del fuori in un percorso, la pietra d’inciampo, l’irrego-larità del terreno che impone un passo non previsto dalla propria interiorità, un passo che non ci appartiene: che non viene dettato dal codice in cui siamo cresciuti né dal nostro presunto destino in-teriore. Quando Zarathustra ride, tutte le immagini schiantano, ri-succhiate dal buco da cui hanno avuto origine. Anche l’oltre-uomo, anche l’eterno ritorno, o la funzione simbolica.

Tutto Zarathustra con il suo concerto d’immagini si legge tanto meglio quanto meno si indugia davanti ad esse, considerato che ci rendono l’indugio impraticabile. Zarathustra passa attraverso le

una differenza, al punto da essere anche troppo stanchi per forse l’unico cambiamento, per morire. La notte Zarathustra fa un sogno che racconta agli amici. Vede se stesso schiudere porte su porte di alvei tombali usando chiavi arrugginite, fino ad arrivare ad una porta che appena schiusa viene divelta da una forza prodigiosa e «vomita risate in mille forme».

Un discepolo dal gran zelo spiega il sogno: quella è la risata di Zarathustra, il segno di tutto ciò che Zarathustra è venuto a spaz-zare via, le «camere di morte» e i «guardiani di sepolcri». «E ora dai feretri scroscerà sempre riso di fanciulli; ora un vento gagliardo verrà sempre vittorioso su ogni stanchezza mortale: di ciò tu sei per noi garanzia e profeta!» Tutti gli si fanno attorno e lo invitano ad alzarsi ed abbandonare la tristezza, ma lui li guarda attento come uno che torni a casa da un viaggio in terra straniera e non ricono-sca nessuno. Solo quando lo sollevano e lo rimettono in piedi, il suo sguardo cambia all’improvviso. Comprende tutto quello che è avvenuto, si accarezza la barba e dice «Orsù, tutto questo piò at-tendere; ma fate in modo che possiamo prendere un buon pranzo, e tra non molto! Così penso di far penitenza per i miei sogni catti-vi».22 Quindi fissa a lungo il discepolo che aveva interpretato il suo sogno e scuote la testa.

La chiave dell’atteggiamento nuovo che è subentrato è in quel «orsù, tutto questo può attendere»: il significato del sogno, la stan-chezza mortale e mortifera, il diventare per altri “garanzia e pro-feta” di salvezza possono attendere. «Una cosa è più necessaria di un’altra» dice altrove un proverbio di Zarathustra, e adesso tutto questo non è così urgente come un buon pranzo. Questa curvatura inaspettatamente e intensamente umoristica rovescia a capofitto la prospettiva. Corrisponde in pieno a un gesto non ignoto alla filo-sofia occidentale, e tuttavia pressoché dimenticato nella sua tradi-zione “maggiore”. Si racconta di quei filosofi presocratici, cinici e stoici che,23 restii al dialogo e alla ricerca della verità, se interpellati

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25 F. Nietzsche, Aurora, in Opere filosofiche, Utet, Torino, vol. 3, 2006, p. 887.26 Ivi.

24 Non voglio dire con questo che non abbia senso ricavare un’opera teatrale da questo testo o commentarlo per immagini, cosa che per altro è stata fatta di recente dall’artista russa Lena Hades, e proprio con l’ambizione di essere un commentario e non un’illustrazione. Con esiti però, mi pare, ancora troppo incerti tra il pittorico e il fumettistico. Dell’immagine del fumetto Zarathustra sembra avere, in effetti, due qualità ante-litteram: quella di essere “in movimen-to” e di essere “comica”, ossia in grado, in pochi tratti veloci, di mettere in cor-tocircuito l’alto col basso. A maggior ragione non ha senso ricavarne un’opera teatrale o figurativa senza misurarsi con la specifica qualità di questa immagine inimmaginabile, dileguante in una risata.

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volta non si tratta di dar battaglia alla volontà del proprio tempo. In questo senso Zarathustra non è un manifesto di guerra, un grido di incoraggiamento, un catechismo per proseliti. La serenità alcionica in cui si scrive Zarathustra, viene dal riconoscere la contiguità tra quella che potremmo chiamare la “volontà di rappresentanza” e la volontà di potenza: basta un passo per trovarsi ad essere solo poeti, maghi, creatori e cultori di immagini di trasformazione e farsi rap-presentare da esse, invece che praticarle. La celebre scena del fu-nambolo viene in apertura del primo libro di Zarathustra a fissare subito senza illusioni e senza sconti di che cosa si tratta. Superare l’uomo assomiglia più a un continuo ripassare dallo stesso punto, a una ricaduta (questo è anche l’andamento di tutto lo Zarathustra, un ritorno e un ricominciamento, un ricadere da un altro punto di vista, più che un progresso). Per la nostra immaginazione struttu-rata sull’idea di progresso e di risultato questa ripetizione ricorda più una pena di Sisifo, la condanna alla stessa fatica inutile che non porta a nessun risultato, se non quello di riprodurre ogni volta le condizioni per potersi ripetere (in cui è riconoscibile, d’altra parte, il meccanismo delle nevrosi). Ma se si adotta lo sguardo obliquo di Nietzsche e si domanda qual è la volontà che sta dietro all’idea di risultato o dietro all’idea di progresso troveremo una volontà di potere che è l’ombra della volontà di potenza: volon-tà di bloccare, controllare la trasformazione in un traguardo e in un’acquisizione, sospendere la sofferenza che un divenire senza approdi implica. Non è che Nietzsche sia contro l’idea di progres-so, anzi, lui stesso osserva una volta che in molti casi essa giunge a proposito, per esempio nel caso di civiltà statiche come quella egi-zia. Ma nella «mobile Europa, dove il cambiamento, come si dice “s’intende da sé” – ah, se soltanto noi ne capissimo qualcosa! –»,25 si può parlare al massimo di non stare fermi sul posto: di «passi avanti» e di quelli che li fanno, ossia di «quelli che continuano a lasciarsi dietro se stessi e che non stanno a pensare se qualcun altro venga loro dietro».26

immagini che sfolgorano dal suo stesso moto e le brucia col suo passare. Non credo che nessuno possa dire di poterle immaginare. Hanno precisamente una qualità inimmaginabile che è ciò che le rende illetterarie, non semplicemente artistiche: non si può sostare in esse in una zona intermedia, una zona franca, una dimensione sospesa tra la conoscenza e la vita.

Chi crede di poter mettere in scena o in figura lo Zarathustra confidando sulla potenze delle sue immagini invece di diffidare della propria idea di immagine, lo ritraduce all’indietro al livello di un’opera simbolico-letteraria o simbolico-religiosa: poesia della religione o poesia come religione.24

Queste immagini chiedono invece il gesto fondamentale di Za-rathustra, quello di passare-oltre, anche a esse stesse, a ciò che resi-dua di rappresentativo in esse.

6. dell’eterno ritorno come correzione dell’idea di pro-gresso che informa la scienza, la medicina e la morale mo-derna

Va preso sul serio l’appunto di Nietzsche circa il primo libro di Zarathustra secondo il quale il tono sarebbe “alcionico”, rispec-chierebbe come tale la serenità delle dieci giornate in cui fu scritto, pari a quelle del mare mediterraneo in estate quando per un mese i venti cessano quasi del tutto e gli alcioni possono nidificare. Questa

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27 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 154.28 C. G. Jung, nietzsche’s Zarathustra: notes of the Seminar Given in 1934-1939, a

cura di J. L. Jarrett, Princeton University Press, 1998, vol. II, pp. 1295-1296.

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è un poeta»),27 e si dipingono simboli che rimandano a quel punto di trasformazione e al tempo stesso lo rimandano, interponendosi come anticipo e ben presto come surrogato. Tutta l’ultima parte di Zarathustra è un corpo a corpo con questa difficoltà che si esprime in un crescendo della difficoltà stessa quanto più si tenta di supe-rarla di un balzo, definitivamente.

7. del silenzio fatale della psicologia sul comico

Nel lungo seminario che Jung, su richiesta dei suoi discepoli dedica a Nietzsche dal 1934 al 1939, ogni volta che s’imbatte nella risata di Zarathustra tende o a sovrainterpretarla o si direbbe quasi a leggerla come un sintomo isterico, il segno di uno spasmo psichi-co da cui presto non ci sarebbe stato più ritorno. A proposito della scena del pastore che ingoia infine la testa di serpente che gli era molesta, dopo di che «non fu più un uomo», Jung nota che invece di comprendere il «mistero» che gli si sta palesando sotto agli occhi in questo fenomeno che ora non è più né uomo, né animale, né dio, «Zarathustra è solo affascinato dalla sua risata davvero inquietan-te», la risata di un essere superumano, di un dio che ha trasformato se stesso.28 Jung sta cioè domandando a Zarathustra-Nietzsche di trattenere l’immagine che è già dileguata in una risata, e di fare di questa stessa risata di nuovo un’immagine, di contemplarla come simbolo. Quando la sua efficacia, ciò che essa fa, è proprio quella di espellere fisicamente fuori da un atteggiamento contemplativo, da una volontà di verità. Durante il seminario del 4 maggio 1938 Jung interpreta lo stesso sogno profetico che abbiamo visto sopra semplicemente invertendo la lettura del discepolo di Zarathustra, non come un segno di salvezza, ma come l’irruzione disastrosa di un Inconscio a lungo represso: «Questo viene descritto qui in ma-niera davvero molto bella: delle porte si spalancano e ne esce fuori

La dottrina dell’eterno ritorno dell’identico vuole precisamente, non inaugurare una nuova visione metafisica, ma rendere possibi-le un’esperienza altresì produttiva: la non-superabilità, né sul piano personale, né su quello collettivo, delle forze reattive, delle volontà di rappresentanza, dell’umano-troppo-umano, mostrando la reattività dell’idea stessa di un progresso, di una condizione stabile da rag-giungersi dove essere in salvo, di una “salute” o “salvezza” definitive.

Dire sì a questa contiguità non significa rassegnarsi all’inevita-bile, significa invece riconoscere che, se fosse altrimenti, se l’oltre-uomo fosse l’ennesima meta da raggiungere, la volontà di potenza una condizione in cui insediarsi, allora ci sarebbe una natura uma-na le cui deviazioni non sarebbero altro che quello che è l’errore per le scienze esatte, un incidente, una disfunzione, una perdita di tempo. A questo punto è forse inutile dire che non ci sarebbe non solo storia, ma nemmeno scienza.

Ecco perché Zarathustra precisa: si tratta di volere questo ritor-no, non semplicemente accettarlo. Volerlo come l’equilibrio di for-ze più produttivo, più potente, che più dà potenza. Comprendere il punto nevralgico, che qui si tratta di sgominare ogni delega alla rappresentazione, trasforma di nuovo questo punto in un oggetto di sapere, e ritarda la presa sulla vita. Zarathustra che dice: l’uomo è qualcosa che deve essere superato, mette in moto un divenire che non ha sbocchi perché non è un movimento rettilineo che ad un certo punto con un balzo e una decisione che vale una volta per tut-te, l’uomo è superato. È invece proprio quel bisogno di risultato, di sicurezza, di terra ferma e traguardo, che va continuamente supera-to, riesponendosi di volta in volta alle forze della situazione nuova.

L’oltre-uomo non è mai un risultato, non è un traguardo da cui si può guardare indietro all’inferiorità da cui ci siamo evoluti. Non c’è niente di evolutivo né di definitivo in esso. C’è uno stadio in cui anche capire cosa sia l’oltre-uomo, saperlo tenere distinto da un risultato, per quanto necessario, è ancora il più grande impedi-mento a divenirlo. È il punto in cui capire che comprendere non è ancora praticare ciò che si comprende è comunque l’ennesimo indugio, l’ennesima occasione di rinvio. Allora si diventa quello che Kierkegaard chiama “poeti della religione”( «Che ti disse una volta Zarathustra? Che i poeti mentono troppo? – Ma anche Zarathustra

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29 Ivi, p. 1227.30 Un esempio di una lettura in questa direzione dello “stato euforico” come

sintomo di un temperamento maniaco-depressivo e come esperienza su cui si reggerebbero la metafisica, l’etica e la metabiologia di Nietzsche si trova per esempio in: F.D. Luke, nietzsche and the imagery of Height, in nietzsche: ima-gery and thought, a cura di M. Pasley. London 1978, pp. 108-109.

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lo scetticismo di Jung verso la gioia di Zarathustra. A renderla so-spetta è poi la percezione comune che nella gioia si esprima tutto sommato un consenso con il mondo, e una disposizione contagiosa, che raccoglie proseliti col suo slancio. Ma Nietzsche sembra rende-re pensabile una gioia che si prova nel dissenso e nel disprezzo del mondo, che viene dall’essere capaci di una solitudine senza isola-mento, di un disprezzo senza risentimento. Niente a che vedere in questa gioia con l’esaltazione trascinante con cui in genere si tende a immaginarsi lo spirito dionisiaco che accorpa le folle più diverse nella storia niente a che vedere con lo stato di beatitudine e di ar-monia inseguito dalle varie cure sincretistiche dell’anima che oggi dilagano in riviste, manuali e ritiri spirituali. Quella di Nietzsche è una gioia che per un momento fa piazza pulita del mondo e separa, gioia del proprio essere per quello che afferma e non per il proprio che preserva affermandolo, ed è per questo un sentimento impar-tecipabile, niente affatto comunicabile, spartibile con altri. Certa-mente qui comincia anche un lato oscuro di questo sentimento. Ma forse il punto è proprio che non esistono sentimenti sani?

Ho l’impressione che proprio qui, nel valore cruciale di questa risata, nel rapporto eccezionalmente eccentrico che essa stabilisce con l’interiorità, e cioè con uno dei patrimoni più consistenti della cultura occidentale “maggiore”, stia il punto d’incomprensione di Jung verso Nietzsche. Non è solo un “limite” di Jung ad essere in questione. Per quale motivo un fenomeno così significativo ed enigmatico tra le manifestazioni psichiche come la sfera del comico non sia stato e non sia oggetto degli studi psicologici è una doman-da che vale la pena di farsi. Tanto più che la sua assenza o la sua presenza involontaria nella patologia psichica è clamorosa. È lecito affermare che una psiche “malata” è incapace di senso del comico? Nella misura in cui è lecito dire che la capacità di ridere è costitu-tiva della differenza umana, non si può ridurre il senso del comico soltanto a una tipologia caratteriale.

E però, dopo l’interessamento di Freud per il motto di spiri-to, c’è stato in sostanza silenzio sull’argomento, almeno in ambito strettamente psicologico. Anche l’attenzione di Freud dipende co-munque dal suo modello di funzionamento dell’inconscio e rimane ad esso circoscritta: il piacere del motto di spirito e del comico in

quel vento, portando con sé migliaia di risate. È un presagio orri-bile della sua malattia».29 Jung stesso disattende qui il suo stesso concetto di simbolo e legge questo sogno, come sembra fare con tutto l’immaginario inimmaginabile dello Zarathustra, come un sintomo, un segno che conduce ad uno stato già noto. È divertente osservare la scena dal punto di vista di Zarathustra, e vedere disce-poli e psicologi accalcarsi per leggere la profezia tutti con l’identica tecnica di lettura, nonostante le disparità di contenuto:30 come il segno di qualcosa che deve venire, sia esso la salvezza o la malattia/il crollo, cioè come un’immagine prospettica, un anticipo di futuro, una profezia alla maniera moderna, non certo come la si intendeva nell’antichità dove invece conservava intatta la sua forza simbolica, attiva sulla situazione del presente. E questo quando il gesto del sogno è proprio quello di implodere in se stesso, ritirare la propria immagine, contrastare il movimento di ricerca e di penetrazione di Zarathustra che nel sogno apre porte su porte ed entra in stanze sempre più antiche e profonde, opporsi ad esso nell’unico modo concreto: con una forza cieca, senza immagini, che spinge nella di-rezione opposta e lo catapulta fuori, dalla stanza, dal sogno, dalla mestizia di chi cerca, attende o spera qualcosa.

Di fatto è doveroso, più che lecito, chiedersi quanto sia sosteni-bile la mossa pratica di Zarathustra, come sia articolabile concre-tamente il suo passo-oltre o a lato. Troppo simile a un atto volon-taristico, a una finzione spasmodica, eppure irriducibile a questi proprio in virtù del rapporto speciale che esso intrattiene con il tempo: proprio perché non si pensa in termini di superamento di ciò che è stato. Senza l’eterno ritorno, senza l’indifferenza per il su-peramento definitivo del passato, quel passo a lato di Zarathustra, la volontà attiva, la sua risata, si torcono in effetti in uno spasmo volontaristico, una smorfia isterica. Comprensibile in questo senso

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della figura del buffone, per lo più attraverso fonti letterarie ma ad opera di un docente di letteratura inglese che è anche psicanalista junghiano: W. Wil-leford, il Fool e il suo scettro. Viaggio nel mondo dei clown, dei buffoni e dei giullari, Moretti&Vitali, Bergamo 1998. Il corpus filosofico sul tema del comi-co e dell’umorismo è naturalmente ben più consistente. Diversi autori hanno, con maggiore o minore dovizia di riferimenti, e con maggiore o minore fedeltà alle fonti, raccolto, elencato e analizzato questo corpus. In ambito italiano, la rassegna più estesa si trova forse in P. Santarcangeli, Homo ridens, Olshki, Fi-renze 1989. Riflessioni su varie teorie della tradizione si trovano anche nella edizione italiana del libro di J. H. Goldstein e P. McGhee, la psicologia dello humour, Franco Angeli, Milano 1972, in G. Fara, F. Lambruschi, lo spirito del riso, Cortina, Milano 1987 e in G. Gulotta, G. Forabosco, L. Musu, il discorso spiritoso, McGraw-Hill, Milano 2001. Di J. H. Goldstein cfr. anche theretical notes on Humour, in “Journal of Communication”, vol. 26, n° 3, 1976, pp.104-112. Un approccio recente che offre una rassegna delle teorie sul comico anche in ambito psicologico, oltre che filosofico e sociologico, tenendo conto anche delle scienze cognitive e dei vantaggi nonché dei rischi del suo impiego pratico in ambito psicoterapico, è lo studio di R.A. Martin, the Psychology of Humor: An integrative Approach, Elsevier Academic Press, Burlington/San Diego /London 2007. Il pregio di questi studi è di fornire un colpo d’occhio sui vari fenomeni e sulle idee storiche del comico, ma quello che continua a mancare è una trattazione che riaffronti il comico con la stessa serietà teoretica con cui lo affrontò Freud. Forse perché questo implicherebbe una nuova teoria della psiche? Per una riflessione sul valore pratico del comico cfr. P. Virno, Motto di spirito e azione innovativa. Per una logica del cambiamento, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

33 G. Deleuze, Pensiero nomade, appendice a nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, p. 318.

31 Cfr. S. Freud, il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, vol. 5, 1972, p. 211.

32 Se si eccettua il saggio Psicologia della figura del Briccone, in Opere, cit., vol. 9, 1980, dove però, abbastanza stranamente, la carica comica di questa figura mitica incarnata in dèi ed eroi viene letta tutto sommato, per dirla nella ter-minologia di Nietzsche, come un fenomeno reattivo. Cfr. anche, a proposito

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determinante per il suo cammino sia personale che di studioso, e che l’elemento comico è fondamentale in Nietzsche, tanto quanto quello tragico da cui non è, di fatto, scindibile.

Se non riusciamo a leggere Nietzsche senza ridere molto, e a ridere spesso, ci dice Deleuze, è come se non leggessimo affat-to Nietzsche.33 Il che non vale solo per Nietzsche, ma per tutti quegli autori che compongono l’orizzonte della nostra «contro-cultura». Kafka, per esempio, di cui circola l’aneddoto per noi incomprensibile di come il pubblico fosse preso dalle più matte risate ascoltandolo leggere il suo Processo. «Non si può evitare di

generale verrebbe dal «risparmio» di energia psichica che le scor-ciatoie, le abbreviazioni inaspettate, i cortocircuiti di senso provo-cano. Sarebbe cioè un momento regressivo della psiche che può momentaneamente, per così dire, sospendere la sua complessità e la sua serietà (leggi: la complessità del pensiero logico-razionale indi-rizzato, come lo chiama Jung, e l’esclusività pregiudiziale di questo pensiero), e : tornare «allo stato d’animo dell’infanzia, nella quale non conoscevamo il comico, non eravamo capaci di motteggiare e non avevamo bisogno dell’umorismo per sentirci felici di vivere».31 Avrebbe quindi una funzione compensatoria, né più né meno del sogno di cui condivide alcuni meccanismi di funzionamento, e più in generale del sintomo: un compromesso questa volta momenta-neo, che consente uno sfogo, un riequilibrio e una ripresa delle fatiche psichiche della vita adulta.

Insomma, ciò che stuzzica l’interesse di Freud per questa capa-cità sembra essere anche ciò che gli impedisce di valutarne l’even-tuale portata per la conoscenza della psiche. Proprio la sua idea di sintomo rende attrattiva al suo occhio di studioso le manifestazio-ni del comico. Ma quella stessa idea è ciò che le riduce a un caso particolare di un funzionamento generale dell’inconscio. Quando invece, per esempio, già nelle considerazioni di Freud intorno al godimento infantile in cui ci calerebbe il comico, si potrebbe insi-nuare il sospetto che lì ci sia un altro atteggiamento di pensiero ad aver trovato una sopravvivenza sparuta nella civiltà moderna, la cui subalternità storica non ci consente però di bollarlo come inferiore.

Al contrario di Freud, che ha per lo meno mostrato un interes-se condizionato, Jung non sembra aver dato particolare rilievo alle manifestazioni del comico rispetto allo sviluppo e all’impiego delle energie psichiche.32 E la cosa potrebbe anche passare inosservata, se non fosse che il confronto constante con Nietzsche è stato così

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38 Ivi. Non è che l’interiorità sia di per sé negativa, esattamente come lo sviluppo delle forze reattive non è di per sé negativo. Benché questo non sfugga a De-leuze, affermazioni come quella sopra citata si prestano facilmente ad essere abusate come facili slogan che permettono una semplificazione insperata del-la questione: da una parte i ‘cultori dell’interiorità’, dall’altra il pensiero che pensa-fuori, che compie sempre un passo-a-lato. Eppure leggendo Nietzsche emerge chiaramente come forze reattive come la cattiva coscienza, il senso di colpa, tutto quanto va di pari passo con e favorisce l’interiorizzazione, possano anche essere sfruttate e vengano sfruttate attivamente nel corso della storia, così come il momento apollineo viene retto ancora dal dionisiaco ed è ciò che ne alimenta il fuoco divoratore nella tragedia attica.

34 Ivi, p. 319.35 Ivi.36 Ivi. Questo “fuori” su cui insiste Deleuze tramite Nietzsche non va preso trop-

po alla leggera. C’è un momento in cui Zarathustra osserva come tutto quanto si può dire e percepire non sia che interno, eppure non c’è modo di toccare un fuori, le parole non sono che strade immaginarie, «arcobaleni di ponti» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 87) impercorribili. Non servono per raggiungere le cose di cui parlano. Tutto ciò che il linguaggio umano tocca diventa di colpo inaccessibile in sé. “Fuori da qui”, come la cosa in sé della tradizione filosofica, è a sua vola un’immagine dell’interno, dall’interno. Non si può afferrare e raggiungere nulla, non si può mai uscire ed entrare in altro, solo moltiplicare i ponti, correre lungo le superfici, sfiorare le immagini. La danza non è immagine apollinea di esaltazione dionisiaca, ma ha questo valore molto concreto in Nietzsche, letterale: afferma subito un altro movimento, comporta un’altra percezione dello spazio che non sia quella ruotante intorno alle idee di penetrazione, intenzione, meta. Il punto è il movimento tangenziale, solo que-sto è reale: un pensiero che si allunga in margine alle caverne delle idee, sporge dal quadro, va alla deriva alla cornice dell’immagine, dell’io, del sé, della storia, del mondo. Anziché riprodursi sul “come se” che fa proliferare le derivazioni dall’unico ceppo (pensiamo a quanto arborea continua ad essere l’immagine dell’individuazione in Jung), uno scarto a lato, un “ciò nonostante” minimo, eppure abissale.

37 Ivi.

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rito di gravità, dalla scimmia di Zarathustra, «in breve, dal culto dell’interiorità».38

8. della “tragedia” che c’è nella teoria psicanalitica della psiche

Chiaramente la psicoterapia non è interessata ai casi in cui il senso del comico entra in funzione, semplicemente perché è inte-ressata alla malattia, e uno dei tratti distintivi della malattia sembra risiedere proprio nell’incapacità di ridere. Questa sembra essere in primo luogo incapacità di ridere di sé. Si può ridere solo se si è capaci di non isolare un movimento psichico rispetto a un altro, di non assolutizzarlo, di non convogliare il proprio divenire in una sorta di teatrino moderno, fatto di dramma, ruoli definiti e spetta-tori (l’io stesso) che si sentono rappresentati, travolti e identificati dalla vicenda o da qualcosa di particolare che vi è in gioco. La pos-sibilità stessa di un conflitto sembra darsi cioè proprio dove il senso del comico venga inibito o non riesca più a entrare in funzione.

In questo senso potrebbe diventare significativo il fatto che la visione psicanalitica della dinamica psichica sembri modellata su uno schema teorico in diversi punti sovrapponibile ad una certa idea di “tragico”: quella rintracciabile nella riflessione ottocente-sca sulla tragedia greca, dove il conflitto, la lotta tra forze opposte e equipollenti, l’ingorgo delle tensioni e il superamento dialettico

ridere quando si sbaragliano tutti i codici».34 «Una volta che il pensiero è entrato in rapporto con il fuori, si scatenano momenti di riso dionisiaco – è il pensiero all’aria aperta».35

«Innestare il pensiero sul fuori», su questo fuori, «è quanto i filosofi non hanno mai fatto. Anche quando hanno parlato di politica, anche quando hanno parlato di camminate all’aria aper-ta».36 Tanto meno gli psicologi, anche quando hanno parlato di adattamento, di cura, di un mondo che esiste ed è quello che è, con cui bisogna fare i conti: «certo, ci saranno sempre dei commenta-tori hegeliani, dei glossatori dell’interiorità, senza alcun senso del comico, pronti a dire: vedete, Nietzsche prende sul serio la cattiva coscienza, la trasforma in un momento del divenire-spirito della spiritualità. Su ciò che combina Nietzsche con la spiritualità glis-sano in fretta, perché sentono avvicinarsi il pericolo».37 Allora si afferrano forte a tutti quei tratti suscitati dalla seriosità, dallo spi-

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41 C.G. Jung, tipi psicologici, cit. p. 531.

39 Cfr. in particolare J-P. Vernant, P. Vidal-naquet, edipo senza complesso, in Mito e tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino 1976, pp. 64-87.

40 Conflitto e identificazione sono evidentemente i due perni intorno a cui sem-bra nuotare tanto la psicologia moderna quanto quel senso borghese del tra-gico che in fondo informa tuttora la nostra industria dell’intrattenimento (la nostra “arte”?), nonché l’industria dell’informazione.

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seguire né l’una né l’altra. Ne verrebbe una congestione insoppor-tabile se da questa tensione non sorgesse «una nuova funzione uni-ficatrice che conduce oltre gli opposti».41 Non è difficile ricono-scere anche qui tratti della comprensione dialettico-filosofica della tragedia greca (Hegel, Schelling, lo stesso Schopenhauer), che a sua volta eredita contributi dalla psicomachia medievale, ossia dal conflitto morale della coscienza cristiana. Un tema apparentemente archeologico e filologico-culturale, da addetti ai lavori, come quello del funzionamento originario della tragedia greca, può, se accosta-to in maniera opportuna, far smottare modelli conoscitivi in ambi-ti in apparenza estranei. È il merito di Nietzsche aver rinvenuto/inventato nella tragedia greca una dinamica che non funziona an-cora in base a un modello semplicemente conflittuale: apollineo e dionisiaco non sono riducibili a forze opposte in contrasto tra loro per la supremazia. Quando questo accade storicamente, quando il divenire si cristallizza in conflitto, è già avvenuto un rovesciamento fatale, le forze reattive hanno preso il sopravvento e controllano, sfruttano, tengono in ostaggio quelle attive. Dioniso non ha biso-gno di sottomettere alcunché. Esso non si oppone ad Apollo come entità separata, Apollo e Dioniso sono piuttosto lo stesso fenomeno visto da due prospettive diverse: dipende se si guarda al fuoco che brucia le immagini o all’immagine che indugia un secondo prima di divenire fuoco. Quando si estrae l’immagine cercando di salvar-la dal fuoco è già subentrata una prospettiva ulteriore, fatale per quanto la precede. Nietzsche la riconosce in Socrate come capo-stipite dello spirito conoscitivo moderno, che toglie d’un colpo il senso di un divenire che non sia pensabile come progresso, svilup-po direzionato, lotta e superamento. Perché questa cristallizzazione e riduzione del divenire abbia luogo, perché la psiche e la vita si facciano conflittuali, bisogna farsi “seri” in un senso particolare. Occorre disimparare una certa baldanza, una leggerezza per la qua-le l’identità è un fardello, e al massimo un punto d’appoggio per il movimento. Si potrebbe quasi dire che la tragedia greca stessa fosse ancora una misura collettiva contro questa “serietà”, che il conflitto

sono momenti determinanti. Si sa che già Freud trova nel mito gre-co materiale interessante sul comportamento delle forze psichiche, oltre che una fonte di suggerimenti terminologici. Ma sarebbe al-trettanto interessante chiedersi come lui stesso legga il mito. Perché i suoi studi e le sue interpretazioni sembrano presupporre una certa comprensione del tragico, che a sua volta potrebbe influenzare il suo modello di funzionamento della psiche. In questo senso la ce-lebre confutazione di Vernant e Vidal-Naquet dell’interpretazione freudiana del mito tragico non sembra preoccuparsi della vera que-stione in ballo: il punto non è davvero quanto la lettura psicanali-tica deformi la realtà storica della tragedia;39 questo è un dato che può importare al limite a filologi e a studiosi di letteratura, ma è di per se irrilevante per lo psicologo e lo psicoterapeuta a cui interessa l’uomo di adesso e la funzionalità pratica delle categorie di cui si serve la psicologia, e non certo la loro correttezza filologica (sulla quale a sua volta potrebbe avanzare “dubbi psicologici”: quanto è “obiettiva” una ricostruzione?). Il vero punto, quello che deve interessare tanto agli psicologi come agli studiosi di letteratura e di teatro, è semmai quanto la stessa teoria psicanalitica si modelli inav-vertitamente su una certa comprensione storica del tragico che ha nel conflitto e nell’identificazione il suo perno.40 Conflitto e iden-tificazione sono, di fatto, i due centri intorno a cui sembra nuotare tanto la psicologia moderna quanto quel senso borghese del tragico che in fondo informa tuttora la nostra industria dell’intrattenimen-to (la nostra “arte”?), nonché l’industria dell’informazione.

Anche nel modello junghiano della psiche umana il conflitto è l’elemento strutturale, oltre che l’occasione creativa. La dinamica del simbolo secondo Jung funziona esplicitamente secondo un modello conflittuale: quando urgenze in conflitto sono parimenti coscienti, e forti, si ha un «arresto del volere». Non è più possibile

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44 Ivi.

42 S. Freud, il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino 1971, p. 210.43 F. Nietzsche, epistolario 1880-1884, a cura di G. Campioni, Adelphi, Milano,

vol. IV, 2004, p. 273.

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che quella vita non è solo la sopravvivenza organica, e quella salute è quasi un atto di forza contro ogni evidenza. Da notare che, nel momento in cui scrive, Nietzsche gode di pessima salute, tormen-tato com’è da profonda depressione, idee di suicidio e da un uso eccessivo di narcotici. La salute e la vita di cui parla sono dunque qualcosa di strappato a forza, risicato in margine alla vita e alla sa-lute fisica e psichica: un ciò nonostante, appunto. «Che mi importa se i miei amici affermano che la mia attuale ‘libertà di spirito’ è una decisione eccentrica, tenuta ferma coi denti e strappata e imposta alle mie inclinazioni? Sia pure, questa sarà una ‘seconda natura’: ma io dimostrerò che solo attraverso questa seconda natura sono entrato in possesso della mia prima natura».44

Dal punto di vista del senso comune si potrà dire che questa “decisione” è un atto volontarista, un colpo di reni che contravvie-ne alla “natura” di un individuo e rischia di spezzargli la psiche, e si troverà facile prova di ciò nella fine terribile che ha fatto Nietzsche raccomandando invece la prudenza di non contraddire se stessi. Ma il punto è proprio: qual è la propria natura? La prima o la se-conda? Con quale forza siamo più propensi a schierarci, e questa propensione deve essere naturale per il semplice fatto che ci fa pro-pendere, che appare così naturale? Sono questi, tutto sommato, gli interrogativi con cui la psicologia moderna problematizza l’io e il sé e dà realtà all’inconscio. Sono gli interrogativi che Nietzsche già spinge ante litteram fino in fondo, dove perdono consistenza, diventano aporetici, mostrano il loro presupposto: la volontà di “natura”, per così dire, l’esigenza di una potenza determinata da re-alizzare, di un divenire da svolgere: «per quanto lontano uno possa spingere la conoscenza di sé, niente può essere più incompleto del quadro di tutti quanti gli istinti che costituiscono la sua natura. A stento potrà dare un nome ai più grossolani: il loro numero e la loro forza, il loro flusso e riflusso, il gioco alterno degli uni con gli altri, e soprattutto le leggi del loro nutrimento, gli rimarranno comple-tamente sconosciuti. Questo nutrimento, dunque diviene un’opera del caso […]». Se per Jung l’individuo psichico si sviluppa come

che in essa prende forma, l’irrigidimento in forze contrastanti, fosse il suo combustibile e non il suo fine poetico (così appare essere a Nietzsche già nella nascita della tragedia). Non occorre ridere manifestamente per essere nei pressi del comico, è sufficiente che siano, in un certo senso, le idee a ridere, a vibrare sotto l’azione di una forza che non contengono. Al contrario, alla base dell’idea stes-sa di conflitto sembra esserci in primo luogo proprio la possibilità di opporre tra loro tragico e comico. Chi come Nietzsche, o Kier-kegaard, o alcuni drammaturghi del novecento, ha saputo riflettere sulla tragedia greca al di fuori dello schema dialettico ottocentesco, non manca di sottolinearne invece la prossimità e reversibilità. Ne-gli appunti preparatori alla nascita della tragedia Nietzsche si rife-risce spesso all’arte di Dioniso come «arte tragi-comica», mentre nella nascita della tragedia descrive già l’apparire sulla scena della storia della commedia attica come un segno di decadenza del tragi-co. Quando l’attitudine tragica e quella comica risultano intrinse-camente opponibili, il tragico è già storicamente scomparso. Allora il senso del comico può diventare al massimo una compensazione, un allentamento momentaneo, una delle molteplici misure lenitive tra «diversivi», «surrogati» e «stupefacenti» con cui Freud vedeva diventare possibile la civiltà, e insieme il suo disagio.42 Niente più che un motto di spirito, appunto, o un isterismo.

9. della “decisione eccentrica” e della volontà che non si insegna né si impara

In una lettera del dicembre del 1882, poco prima di comincia-re a lavorare allo Zarathustra, Nietzsche descrive un mutamento radicale avvenuto negli ultimi sei anni nel suo «modo di pensare e di sentire» come ciò che lo ha «tenuto in vita» e «quasi dato la salu-te».43 È lui stesso a mettere in rilievo le due parole nel testo, segno

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46 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 45.47 C.G. Jung, tipi psicologici, in Opere, cit., vol. 6, 1969, p. 488.48 Ivi, p. 489.45 F. Nietzsche, Aurora, cit., p. 713.

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che la vuole sarà comunque un’altra. Questa continuerà a volere solo se stessa mentre la vuole, e come potrebbe essere altrimenti? Lo Zarathustra prolifera di casi di questo tipo: l’ombra, il mago, il mendicante, vogliono volere come Zarathustra, ed ecco che an-cora mettono in atto l’atteggiamento di tensione verso uno scopo da conseguire, una condizione da raggiungere e in cui riconoscer-si, ossia proprio quell’atteggiamento che la volontà di Zarathustra non è, anzi, semplicemente toglie. A spiegarla così in astratto suona capziosa, ma è esperienza d’ordine quotidiano. Per dirla con un paradosso del senso comune che forse permette di cogliere con un colpo d’occhio quanto detto: è come sforzarsi di fare le cose senza sforzo. «Ancora non sei libero», dice Zarathustra al giovanetto sul monte, «tu cerchi ancora la libertà».46

Non si può volere la volontà attiva come un fine: o essa è, o non è. Non si può volere superare l’umano: o lo si fa già nel caso concre-to, ricominciando ogni volta, senza poter accumulare crediti, o non lo si fa. Ma allora questo non è come dire che non possiamo impa-rare a volere diversamente? Che non possiamo avere per scopo il nostro cambiamento. Più o meno quanto la psicologia sa, e quanto Jung osserva una volta a proposito della funzione simbolica, il fatto che forze opposte si lascino «unire soltanto in modo pratico come compromesso o irrazionalmente, di modo che un novum sorga tra di loro, distinto da entrambi e però in grado di accogliere in ugual misura le loro energie come un’espressione di entrambi e insieme di nessuno dei due».47 E ancora: «una cosa del genere non può essere inventata col pensiero, escogitata razionalmente, può essere fatta solo vivendo».48

Il fatto stesso che Zarathustra torni tra gli uomini non in cerca di discepoli ma di amici è un segnale importante. Il fatto poi che di-scepoli si raccolgano attorno a lui cercando il maestro e il redentore dice qualcosa sulla volontà dei discepoli, da discepoli, e non certo su Zarathustra. Sin dalle prime battute di Zarathustra viene detto

una pianta, o un feto, per Nietzsche esso è più simile a una sorta di polpo, un polpo mutante, con la capacità di sviluppare e perde-re tentacoli a seconda delle situazioni della vita: «Ogni momento della nostra vita fa crescere alcuni tentacoli di quel polpo che è il nostro essere e ne fa intristire alcuni altri, a seconda del nutrimento che il momento porta o non porta con sé. I fatti che ci accadono […] sono in questo senso alimenti, ma sparsi con mano cieca, senza sapere niente dell’istinto che fa la fame e di quello che ha già il su-perfluo. E in conseguenza di questo nutrimento casuale delle parti, il polpo intero sviluppato diventerà qualcosa di altrettanto casuale di come lo sarà stato il suo divenire».45 Jung sembra continuare a pensare l’interno dall’interno, sotto forma di uno sviluppo organi-co: mentre libera la psiche dalla riduzione a una natura biologica, rimane pur sempre fedele a un modello naturale (archetipo?) se-condo cui, per così dire, ut natura anima non facit saltus. Invece che conoscere la natura della psiche umana in generale, conosci e dà un’occasione alla tua natura specifica, scova e matura il tuo destino come un’eredità genetica precostituita, una potenza aristo-telica che ha bisogno di essere attivata. Insomma, Jung non riesce ad abbandonare un modello di storia personale non differente da quello che immane agli storicismi delle scienze, l’idea di uno svilup-po continuo, laddove Nietzsche riconosce e ricerca fratture e forze eccentriche da cui ricominciare. Si tratterebbe allora di ripensare la psiche secondo un modello genealogico quale quello pensato da Nietzsche per la storia?

Un pensiero al di là della coscienza e dell’inconscio, del razio-nale e dell’irrazionale, che sfida anche queste contrapposizioni, una coscienza che non sia più una forza reattiva, che non si limiti più a reagire alla forze attive. Non è questa l’intuizione, l’invenzione di Nietzsche? La decisione eccentrica è un atto cosciente, certamente. Ma non è un’intenzione, un progetto. Non ha il tempo di esser-lo, risponde subito attivamente ad un’urgenza. La volontà di vita, la forza attiva, non può mai diventare l’oggetto di un’intenzione. Per il semplice fatto che fintantoché essa è uno scopo, la volontà

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49 C.G. Jung, ricordi, sogni, riflessioni, a cura di A. Jaffè, BUR, Milano 2007, p. 140.

50 C.G. Jung, tipi psicologici, cit., p. 149.

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che pesa sulla volontà così come la vuole la tradizione maggiore. To-glie speranza di fatto, ma solo in quanto la speranza consiste nell’im-mettere l’ennesimo rinvio, l’ennesima esitazione dall’unico punto. La perentorietà di questa ingiunzione è pari a quella di Cristo: «se il tuo occhio ti è molesto, cavalo!». Curare, correggere, migliorare, e tutta la casistica della crescita e dello sviluppo e la politica del “a poco a poco” e dei piccoli passi, qui non hanno alcun senso. Se la volontà che ti muove ti diventa molesta, è molesta alla radice. Si può solo togliere sostituendola con un’altra.

Si dirà: ma proprio questo è un atto follemente razionale, un’in-tenzione disperata, una sorta di autotrapianto dello spirito, fatica e finzione estrema della coscienza e dell’intelligenza che lottano contro la natura, contro l’anima. Fossero quest’ultime anche solo un’abitudine radicata in tutto il corpo, sradicarle sarebbe come voler operare chirurgicamente una rivoluzione molecolare. Può ap-parire un atto vertiginoso, quasi disumano, di cui pochi sono all’al-tezza, uomini superiori, appunto, figure di cui lo Zarathustra ci offre un’ampia carrellata, in grado di sormontarsi di grandi fatiche e grandi rinunce, e nello stesso gesto capaci di grandi ribellioni, di vivere nelle atmosfere più rarefatte e più ostili all’uomo. Un atto per pochi, insomma, e in fondo per nessuno.

La cosa più difficile, quella che appare più rara, da uomini elet-ti, è al tempo stesso la più semplice: basta un passo. Per questo è la più difficile, proprio perché è così semplice, perché si può fare subito, senza indugi e senza rinvii, senza mediazioni, tappe evo-lutive e preparazioni. Questo passo non si dà mai una volta per tutte. Mentre è davvero alla portata di tutti, tanto dell’uomo supe-riore come dell’uomo più piccolo. Tutti sono ugualmente distanti da questo passo-oltre/a lato/sotto le proprie immagini e le proprie rappresentanze. Non a caso Zarathustra è un libro che si dice non per pochi, ma per tutti e insieme per nessuno. Ancora una volta, dunque, non ha senso leggere Zarathustra in una prospettiva evo-lutiva, come una sorta di fenomenologia del cammino che porta dall’uomo all’oltre-uomo. Se un’immagine del genere si può ancora scorgere, è perché essa è ciò che il movimento di Zarathustra bru-cia, non quello che disegna, ma quello che viene a cancellare con i suoi passi di danza, non passi di un viaggio verso la meta.

chiaramente che non si tratta di cercare discepoli: Zarathustra non viene come un maestro. Non c’è modo di insegnare quello che è diventato. Non c’è modo di trasmettere l’urgenza della radicalità. Non può abbreviare il percorso di nessuno, farlo al posto di nessun altro. Ecco il paradosso di poter solo sperare in amici, gente che abbia sentito la stessa urgenza, che abbia attraversato esperienze analoghe. Con il rischio percepito che il tempo storico sia già ben oltre questa possibilità. Di certo non si può parlare come ricorda Jung a proposito della sua ricezione giovanile di Nietzsche, di una «puerile speranza [kindischer Hoffnung] di trovare uomini capaci di condividere la sua estasi e di intendere la sua ‘trasmutazione di tutti i valori’»,49 tanto poco quanto si può parlare di estasi.

La volontà attiva non si fa insegnare. O essa è subito, o non è. Suona come una condanna ad una natura, e certamente in questa luce può anche apparire plausibile un’interpretazione volgare, qua-si razzistica, dell’aristocraticismo di Nietzsche. Che senso ha, allora, scrivere un’opera come Zarathustra? Seguendo il ragionamento di Jung sarebbe altrettanto lecito chiedere: a che scopo, allora, un per-corso di cura o assistenza psicologica se il momento di progressione non può essere affare dell’intenzione e della coscienza, e assomiglia più a un “miracolo dell’inconscio”, come una volta Jung definisce la volontà ellenica come compare nella tragedia attica secondo la nascita della tragedia?50

In realtà, quello stesso aut-aut della volontà che o c’è fin da subi-to o non è, toglie speranza tanto quanto libera. Esso dice: puoi solo volere in questo modo o non volere in questo modo, ma non ha sen-so aspirare, lottare per, desiderare, rappresentare, avvicinarti a questo modo di volere. Non ti resta dunque che volere così, fin da ora! Puoi conoscere te stesso o puoi sporgere ogni volta dal tuo passato, ma se vuoi sporgere, lo devi fare e basta e non ‘prepararti’ a farlo. Questa è la dottrina della gioia e della «volontà che libera» di Zarathustra. Un volere di questo tipo non ha più niente del gravame e dello sforzo

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51 Nei seminari Jung sembra intendere l’eterno ritorno in versione ridotta, ricon-ducendolo alla saggezza del ciclo naturale (cfr. C.G. Jung, nietzsche’s Zarathu-stra, cit., pp. 1272-1273). Ma in questo modo l’accento viene a cadere sulla ne-cessità della morte e della rinascita, all’interno di un’economia di rigenerazione. Mentre per Nietzsche il punto centrale di quest’idea rimane l’impossibilità di superare definitivamente, una volta per tutte, quanto è umano-troppo-umano, che si tratti di malattia, paure, cattive abitudini, o più in generale di forze re-attive. Se inteso come l’infinito ciclo della natura l’eterno ritorno viene privato proprio di quel rospo così difficile da ingoiare che ricorre di continuo nell’im-maginazione di Nietzsche, e che infine è la rinuncia a una qualsiasi forma di “redenzione”, sacra o profana che sia. Ecco che allora suona facile e diventa facilmente ripetibile come una filastrocca o una «canzone da organetto», come rimprovera Zarathustra ai suoi animali. Una prova in più di quanto le differen-

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mediatezza viene parlato per l’ultima volta nel modo più grezzo e plateale dal nazismo. È chiaro che Jung non vuole capire l’eterno ritorno. E si capisce anche il perché, se solo si addotta il punto di vista di un terapeuta: nel mandare a gambe all’aria l’idea di pro-gresso, l’eterno ritorno liquida anche l’idea di curabilità, di gua-rigione, di una migliorabilità: nessuna meta è al riparo una volta per tutte dal punto di partenza, si è sempre ugualmente vicini alla propria piccola umanità, come anche ad uno scarto da essa. Quel-lo che Nietzsche sembra dire è: lasciate che tutto torni, anche le forze reattive sono utili, hanno sempre reso i loro servigi, purché sequestrate e rimanipolate da una volontà attiva. Avere per scopo il definitivo superamento di forze reattive è già la manifestazione di un atteggiamento reattivo. A scavare neanche tanto a fondo in ogni volontà di superare definitivamente (declinata in tutte le maniere e gli ambiti: guarire, elaborare, emancipare, rifondare, separare, sele-zionare) ci si imbatte nella volontà di annientare. L’eterno ritorno è il simbolo, il promemoria e lo stimolo con cui Nietzsche si salva da questo pericolo che lui stesso ha corso con la sua invettiva contro il tempo e la degenerazione della civiltà europea. Per cui può ben dire che Zarathustra è stato la sua cura contro l’umor cattivo, il suo rischio di limitarsi ad articolare risentimento verso le potenze storiche del risentimento.

Jung non lo capisce e riconduce Nietzsche allo stesso pericolo che questi invece affronta a viso aperto in Zarathustra.51 Ma que-

10. del cambiamento possibile e impossibile

Se c’è una cosa che uno sguardo psicologico è in grado di mette-re a fuoco, e sicuramente lo è quello particolare di Nietzsche, è che i limiti o i meriti nell’intelligere non sono mai semplicemente limiti o meriti dell’intelligenza (Platone coglieva in fondo la stessa cosa dall’altro lato, quando cozzava contro il paradosso di conoscere il bene e fare il male, ossia: il fatto che capire qualcosa non significhi anche saperla volere). Jung non capisce Nietzsche, ma è più esatto dire che si ostina a non capirlo, non lo vuole capire, o per dirla con Nietzsche, vuole proprio non-capirlo. Non vuole inoltrarsi fino in fondo nella differenza di Nietzsche, al punto da applicare al suo testo tecniche di lettura contro cui lui stesso ha teorizzato. Perché lo fa, e in maniera così sistematica, per anni, non solo per mesi? Che cosa teme? A quale intuizione reagisce? In realtà Jung non fa mistero di che cos’è in questione per lui, o meglio, qual è il pericolo che combatte o che lo spaventa, né qui in questi seminari, né altro-ve dove tratta del rapporto con Nietzsche: ora, sul finire degli anni trenta, si tratta di riconoscere una vicinanza sinistra tra la volontà di dominio che contagia euforicamente le masse e la volontà di po-tenza di Zarathustra. Al di là di tutte le distinzioni implicite e che abbiamo sopra in parte esplicitato (volontà di controllo, conflitto, conquista, che passa per la negazione dell’avversario, versus il gesto affermativo che non ha bisogno di distruggere, che non ha per fine né per mezzo necessario la distruzione), rimane l’immediatezza di un momento che di fatto sembra mettere in comunicazione queste due volontà come un passaggio segreto: l’idea che si possa andare oltre, che si possa superare d’un balzo il passato, quanto è fin qui avvenuto, le contraddizioni, il contesto in cui si è immersi, la tradi-zione, l’abitudine, l’inconscio stesso come rimosso e come poten-ziale, che si possa aprire un altro scenario che sospenda quello in cui siamo immersi e d’ora in poi si consista soltanto di questo gesto liberante, come nuovi nati, uomini fatti nuovi.

Una volta di più diremo che questo non è più Nietzsche, che l’eterno ritorno dell’identico rema proprio contro l’idea di supera-mento, avanzamento, rinnovamento come nuovo approdo e reden-zione definitiva. E che invece proprio questo linguaggio dell’im-

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54 C.G. Jung, la funzione trascendente, cit., p. 82.55 C.G. Jung, ricordi, sogni, riflessioni, cit., pp. 138-139.56 Il riferimento è ovviamente a A. Artaud, Van Gogh, il suicidato della società,

Adelphi, Milano 1988.

za più abissali spesso si trovino nelle vicinanze e nelle somiglianze più intime, proprio perché meglio mimetizzate. Tutto Zarathustra, sin dall’inizio ma in par-ticolare l’ultima parte, affronta proprio il pericolo di queste prossimità.

52 C.G. Jung, tipi psicologici, cit., p. 487.53 C. G. Jung, la struttura della psiche, cit., pp. 157-176, qui p. 176.

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veri» oppure non sono più «nulla»,54 il nostro tempo respira e vive in pieno questa deficienza. Sbarazzandosi del passato, costruendo l’illusione di farlo in una maniera che non ha mai potuto essere così realistica, si è sbarazzato in realtà dell’occasione di entrare in contatto con i propri simboli, di prendere coscienza delle idee che al fondo continuano a sostenerne la tendenza, le derive, i pericoli ormai conclamati, ossia del passato che continua inavvertitamente a proliferare in esso.

11. della speranza che c’è nell’essere incurabili

La follia di Nietzsche, o di tutti quegli artisti e pensatori che hanno conosciuto un destino analogo, rischia sempre di diventare la prova definitiva contro il loro pensiero. Lo stesso Jung ammette di avere temuto fin dal suo primo incontro con l’opera di Nietzsche di essere anche lui «uno di quelli»55 con un segreto che nessuno condivide e che lo isola dal resto del mondo. La tentazione di ve-dere nella follia l’esito di un pensiero troppo ardito, che si è spin-to oltre certi limiti (quali limiti? Di chi?) suona come una nemesi secolarizzata di dèi troppo umani contro la hybris di uomini che furono superiori semplicemente nel senso etimologico di “oltre-a”, eterogenei, non assimilabili. Ma l’unica cosa che dice la biografia di Nietzsche è la fatica immane che costa essere attivi nella cultura moderna e contemporanea dove tutto preme per lo sviluppo del-le forze di reazione, adattamento, miglioramento, rappresentanza. Ma questo dice ben poco contro Nietzsche e la sua follia, e al limite qualcosa o pure molto contro questo stato di cose. Artaud definì superbamente Van Gogh un suicidato dalla società:56 allo stesso modo si può dire che la pazzia è la via con cui la cultura dei con-temporanei e poi dei posteri può agevolmente far fuori Nietzsche.

sto, in fondo, non è granché interessante. Interessante semmai è che questo pericolo del superamento, l’idea di un nuovo inizio che non ha più nulla a che vedere con il passato concreto, Jung sembra vederlo come una catastrofe collettiva che va oltre la sua espres-sione particolare nel nazismo, e dilaga invece come un’impotenza dell’intera società contemporanea verso un’idea travolgente. Di fatto, un’idea di nuovo inizio e di liquidazione del passato sostiene tanto il nazismo, quanto il movimento di rivolta e rivoluzione lungo il novecento. La ritroviamo poi perfettamente applicata nella socie-tà liberista contemporanea, da cui, non a caso, i movimenti di pro-testa attuali fanno fatica a distinguersi. Si potrebbe dire: un unico archetipo informa manifestazioni così diverse. La stessa ricezione di Nietzsche, lo stesso Deleuze sembra rischiare di stare sotto il fa-scino del “nuovo”. Questo non significa dire che Deleuze è fascista, o che lo sia il nostro tempo. Significa solo che non si può combatte-re, arginare, disattivare un pericolo storico se l’idea che lo sostiene è la stessa che sostiene la nostra critica. O per parafrasare Jung: perché cambiamenti autentici abbiano luogo bisogna che siano ra-dicali, ossia che investano il simbolo, l’idea, l’atteggiamento che li presiede al loro fondo.52 Questa zona del cambiamento radicale è precisamente la sfera che Jung chiama «inconscio collettivo», lo strato delle «forze motrici spirituali e delle forme o categorie che le regolano, cioè gli archetipi», a cui risalgono «tutte le più forti idee e rappresentazioni dell’umanità». Non solo quelle religiose, ma an-che i «concetti centrali della scienza, della filosofia e della mora-le».53 Si tratta dunque di una dimensione satura di storia, di mito, di passato, e al tempo stesso eminentemente pratica, fino alla su-perficie dell’azione più quotidiana. Se è una grave «deficienza cul-turale» quella per cui i miti, i simboli, le immagini archetipiche così come i modelli teorici sono percepiti soltanto come «storicamente

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58 A. Sciacchitano, il demone del godimento, in AA.VV., Godimento e desiderio, in “aut aut”, 315, 2003, pp. 134-136.

59 Cfr. C.G. Jung, Simboli della trasformazione, in Opere, cit., vol. 5, 1965. Sia Jung che Freud devono, come ammettono essi stessi, questo fondamentale riconosci-mento di un impulso di distruzione e trasformazione al saggio della paziente e allieva, S. Spielrein, destruktion als Ursache des Werdens, che fu esposto a una delle riunioni della Società Psicanalitica di Vienna nel 1911 e poi rielaborato e pubblicato in: “Jahrbuch für psychoanalytische und psychopathologische For-schungen”, vol. IV, Leipzig/Wien 1912, tr. it. distruzione come causa del diveni-re, in “Giornale storico di psicologia dinamica”, vol. 1, n. 1, 1977.

57 Cfr. a proposito ovviamente S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, cit., vol. 9, 1986.

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mediche della psicoterapia. […] Il nuovo modello freudiano […] individuava nello psichico un nucleo patogeno fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua a ripetersi identicamente a se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità soggettivistica e contro ogni teleologia vitalistica. Ce n’era abbastanza per far crol-lare ogni illusione terapeutica. Parecchi allievi a questo punto ab-bandonarono il maestro che toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i piedi, alle loro illusioni umanitarie».58 Da questo momento in poi Freud non avrebbe più cambiato idea. Ciò significa che fino al 1939, anno della sua morte, il fondatore della psicoanalisi avreb-be sostenuto la sostanziale incurabilità del disagio psichico laddove in precedenza aveva affermato proprio il contrario.

Jung era stato tra i primi a rendersi conto che il cosiddetto im-pulso di morte non poteva essere letto soltanto in un conflitto irri-ducibile all’impulso di vita.59 La stessa rigidità nel contrapporli, nel vedere l’istinto distruttivo come negazione di vita tout court appare essere un’incapacità sopraggiunta in tempi relativamente recenti se soltanto si guarda a civiltà del passato dove morte, distruzione, dispendio non sembravano essere solo inconvenienti o al massimo mezzi della conservazione tramite rigenerazione, ma erano già un fine vitale, un’affermazione di vita. Freud tastava oscuramente nella filosofia del presocratico Empedocle con i suoi principi implican-tesi ed escludentesi di eros e thanatos un fenomeno che Nietzsche mezzo secolo prima aveva disseppellito dalla tragedia greca nel dio-nisiaco fissandone una peculiarità al limite dell’incomprensibile per i moderni: e cioè che la sua forza distruttiva non si lascia ridurre

Il dubbio è se l’alternativa vissuta da Nietzsche, adattamento o resistenza radicale, si ponga in termini così drastici, senza mezze misure, senza una terza via. Per Nietzsche questa drasticità è inevi-tabile e ovvia dal momento che le volontà che vi sono implicate vo-gliono in modo opposto. Date queste condizioni, una conciliazione potrebbe essere solo una finzione di superficie, o una resa di una delle due volontà. Per Zarathustra non c’è bisogno di “conciliarsi”, anzi, proprio questo costa uno sforzo massivo e inutile. Si tratta sol-tanto di buon umore e di quella compassione che viene dal sapersi saldi nella differenza, quanto basta perché anche se noi la perdiamo, essa non ci perda. È il dubbio, o meglio, la fiducia di Jung, che una terza via sia invece possibile. È una fiducia obbligata da terapeuta che deve aiutare a tornare a vivere e a trovare la via più semplice, quella meno conflittuale possibile per farlo. Tuttavia, già in questo potrebbe esserci una visione reattiva del conflitto e della tensione, che comunque comporta un grande impegno di forze. Di fatto, è tendenzioso che oggi ogni tensione venga sentita come un groviglio da sbrogliare, e che ogni sofferenza venga capita come un dolore opaco e sterile di cui liberarsi al più presto. È sintomatico che non si sappia pensare a una positività della sofferenza senza associarvi subito derive masochistiche, ma anche senza capire il masochista almeno come lo capisce Freud che vi riconosce a un certo punto un’espressione della pulsione di morte57 e che si arrende infine a riconoscere nella pulsione di morte una forza distruttiva enigmati-ca al cui servizio sembra porsi lo stesso principio di piacere. Più o meno a metà del proprio percorso scientifico e terapeutico Freud è costretto a legittimare con stupore un istinto distruttivo come istinto vitale di base che non sembra obbedire ad alcuna economia, funzione e utilità, nemmeno a quelle elementari di autoconserva-zione. Secondo qualcuno questa sorta di agnizione di un parados-sale momento distruttivo, che Freud dichiara di non comprende-re ancora, segnerebbe il vero atto di nascita della psicanalisi. Essa non può che cominciare con «la rinuncia alle pretese e alle finalità

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63 F. Nietzsche, la nascita della tragedia, cit., p. 121.64 Ivi.65 Ivi, p. 102.

60 Cfr. a questo proposito G. Deleuze, nietzsche e la filosofia, cit., pp. 244 s.61 Riguardo a ciò, cfr. già F. Nietzsche, la nascita della tragedia, cit., pp. 120-121.62 Cfr. C. G. Jung, Wotan, in Opere, cit., vol. 10/1, 1985, pp. 277-291.

Volontà della psicologia. nietzsche contra nietzsche e Jung contra JungMilena Massalongo

perciò rinvio del cambiamento. Forze veramente attive non conqui-stano, non negano e non sopprimono, semplicemente si affermano come si afferma un centro di gravità, e nell’affermarsi attirano nella propria orbita forze più deboli.

Quello di cui c’è bisogno non è un’«espressione intermedia» come la forza simbolica di Jung, capace di «trascendere» forze op-poste in conflitto tra loro, ma un rovesciamento più radicale e più immediato ancora di una rivoluzione, un’affermazione finalmente attiva davanti a cui è la stessa idea di un conflitto tra opposti a tramontare di schianto come una chimera. Questo Nietzsche butta in faccia all’epoca proprio nel momento in cui si va compiendo ciò che denuncia a più riprese già ne la nascita della tragedia e nel lavo-ro di preparazione delle inattuali come la malattia del nostro tem-po, la «mondanizzazione della cultura». Essa ha direttamente a che fare con l’incomprensione irriducibile nei confronti delle forze di-struttive, di cui l’insofferenza verso i “dolori della trasformazione” e la conseguente ansia di cura che dilaga negli ambiti più disparati sono espressione immediata. Da essa dipende lo sconcerto davan-ti all’“incurabile”, quello stesso sconcerto che fece probabilmente fuggire i discepoli di Freud dopo questa svolta del suo pensiero che sembrava rinunciare all’idea paradigmatica di guarigione. In fondo è questo che Nietzsche definisce la mancanza di senso tra-gico della modernità: quello «spirito ottimistico», quella «vittoria dell’ottimismo» sul «pessimismo pratico»63 per cui «tutti gli enigmi del mondo» diventano conoscibili e attingibili,64 ovvero finiti, asto-rici, e ogni cosa si fa migliorabile. È questo a concedere «al sapere e alla conoscenza la forza di una medicina universale»65 in grado di curare tanto il mondo come l’individuo. La medicina in senso stretto come le scienze, comprese quelle umane, nonché la prassi politica degli ultimi due secoli muovono dalla stessa idea originaria di una progredibilità.

Non si ha più l’organo per capire che la forza distruttiva di una

a una volontà di distruzione, all’intenzione di distruggere. Piuttosto sono le forme, i fini e i significati a liquefarsi perché non reggono l’esuberanza del suo divenire. Questo non è un passaggio da uno stadio all’altro (così piuttosto si diviene reattivamente), ma precede, elude ed eludendola dissolve la cristallizzazione nell’uno e nell’altro. Il conflitto invece, l’idea di conflitto, ovunque essa si presenti, sor-ge proprio come volontà di sopprimere il due, come “reductio ad unum”, come negazione del divenire che non cristallizza in finalità.

Comprendere questo, che la volontà dionisiaca è un’afferma-zione immediata che non ha bisogno di negare per essere, significa comprendere che la dialettica e il suo concetto di negazione, ogni lotta e volontà di supremazia, ogni concorrenza ed ogni aspirazione ad eccellere, ogni volontà di annientamento o di superamento defi-nitivo, sono esse stesse già espressione di forze reattive.60

Dal punto di vista di Nietzsche quello di cui c’è bisogno ora che viviamo immersi e agiti da forze di reazione, non è una composizio-ne, un compromesso, una dialettica, per quanto pratica, con le for-ze attive: anche quest’idea di conciliazione è un’espressione della reazione. Anche una rivoluzione nel senso di una presa di potere da parte delle forze attive sarebbe l’ennesima reazione, per il semplice fatto che una volontà di potere e di subordinazione è ancora estrin-secazione di forze reattive. Nietzsche poteva pensare ai movimenti socialisti e comunisti del suo tempo,61 noi potremmo pensare alla “rivoluzione” nazionalsocialista che Jung negli anni del seminario su Zarathustra e nel saggio su Wotan62 sembra leggere come un ritorno improvviso di quanto a lungo rimosso: gli effetti catastrofici sarebbero insomma dovuti alla pressione esplosiva di forze attive lungamente represse, che ora riemergono immediatamente, senza la mediazione del simbolico. Dal punto di vista di Nietzsche in quest’inconscio numinoso non ci sarebbe proprio niente di attivo. Questo Wotan così distruttivo è ancora in tutto e per tutto reazio-ne, volontà che ha il cambiamento per scopo, rappresentazione e

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1 F. Nietzsche, richard Wagner a Bayreuth, in Id., Scritti su Wagner, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1979, pp. 151s.

2 Nel 1888 Nietzsche rielaborò i ditirambi dello Zarathustra per farne una pub-blicazione autonoma, che uscì poi postuma. Cfr. W. Groddeck, die „dionysos-dithyramben“: Bedeutung und entstehung von nietzsches letztem Werk, De-Gruyter, Berlin 1991.

66 Il riferimento è ovviamente già a S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, Boringhieri, Torino 1976. Cfr. in proposito anche L. Binswanger, la guarigione infinita. Storia clinica di Aby Warburg, Neri Pozza, Vicenza 2005.

I linguaggi dell’inconscio collettivo.Richard Wagner e l’arte ditirambica di Nietzsche

nello Zarathustra.

Walter Busch

non conosco scritti estetici che portino alla luce quanto quelli wagneriani; tutto ciò che si può sapere sulla nascita dell’opera d’arte, si può apprendere da essi (…). i suoi scritti (…) sono tentativi di comprendere l’istinto che lo spinse alle sue opere, e per così dire di guardare negli occhi se stesse.1

1. Jung e l’arte moderna

C.G. Jung non si pronunciò in modo sistematico su tematiche re-lative all’arte, il suo rapporto con essa fu per lo più indiretto; perché arrivasse a scrivere di estetica furono necessarie, per così dire, delle spinte esterne, come quelle che gli vennero dagli scritti di Sigmund Freud e di Friedrich Nietzsche. Fu in particolare il lungo rappor-to tormentato con Nietzsche, e in particolare con l’opus magnum nietzscheano Così parlò Zarathustra, a costringerlo a esprimere dei “giudizi estetici”. Ciò accadde in particolar modo nei seminari de-dicati allo Zarathustra tenutisi a Zurigo tra il 1934 e il 1939. Le mie riflessioni metteranno in rilievo quegli aspetti che concernono la let-tura junghiana dei ditirambi contenuti in quest’opera.2

Almeno nella fase iniziale la visione junghiana del processo estetico è indubbiamente segnata dalla volontà di allontanarsi dalle

“malattia” deve diventare talmente forte da distruggere se stessa come l’involucro e la soluzione temporanea che è, come ogni altra cosa, opera, forma di vita o d’arte che sia. C’è speranza di guarigio-ne dove guarire non è più questione. Prima c’è solo malattia, nelle sue mille forme in cui essa si autopreserva, alcune di queste più accettabili e normali perché socialmente più proficue (che non vuol dire meno parassitarie, meno reattive) di altre. In questo senso è un buon segno che già sul nascere della psicologia moderna alcuni tra i suoi stessi fondatori abbiano sentito presto o tardi l’esigenza di confrontarsi con l’idea di una “interminabilità” della cura, e ciò non davvero in uno spirito rassegnato.66 Una certa psicoterapia svi-luppatasi nel dopoguerra e orientata verso la propria medicalizza-zione sembra invece riconoscere la propria missione nella direzione opposta, ossia nel curare al più presto. Il che fatalmente non può che significare: a forza di farmaci, e finzioni. Questa idea di cura, o liquidazione, finisce per coltivare in ogni ambito la molteplice malattia moderna di cui parla Nietzsche. Accade così che anche una tensione attiva, come può essere quella che ha attraversato tut-ta la vita malata e dolorosa di un Nietzsche, diventi comprensibile soltanto come nodo da sciogliere o come problema da togliere. Cu-rare vale qui decapitare quella forza cruciale da cui tutto dipende, proprio mentre agisce. Si può ragionevolmente obbiettare che non ogni malato è un Nietzsche, che non ogni tensione ha la capacità della sua tensione. Senza contare che, come si dice, “uno deve pur vivere”. Ma perché la ragionevolezza sia piena bisognerà controdo-mandare chi sia infine a stabilire di che cosa è capace una forza, e che cosa viva in colui che “deve pur vivere”.

Milena Massalongo