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Saggine Julia Kristeva Jean Vanier IL LORO SGUARDO BUCA LE NOSTRE OMBRE DONZELLI EDITORE Dialogo tra una non credente e un credente sull’handicap e la paura del diverso con una Prefazione di Gianfranco Ravasi Extrait de la publication

Transcript of JuliaKristeva · 2018-04-13 · Kristeva analizza la sconcertante figura, mostruosa e sa - crale al...

ISBN 978-88-6036-653-5

Sagginee 16,00

Julia KristevaJean Vanier

IL LORO SGUARDOBUCA LE NOSTRE OMBRE

«Caro Jean, perché, a proposito dei disabili, “lo sguar-do tarda a cambiare”? È un cambiamento epocale quel-lo che ci viene richiesto, perché concerne l’idea stessa diumanità. Tu e io affrontiamo qui l’immensa questione apartire dalla più temibile delle esclusioni. L’handicap cimette a confronto con la morte fisica e psichica, con lamortalità che opera dentro ciascuno di noi».

Julia Kristeva

«Cara Julia, la tua lettera arriva a me come un grido.Il grido di una donna e di una madre che raggiunge ilmio grido. È un grido che penetra il muro eretto intor-no ai nostri cuori per impedire all’altro, e soprattutto aldiverso, di entrare in noi».

Jean Vanier

Cos’hanno in comune una delle vocipiù autorevoli del pensiero laico occiden-tale contemporaneo come Julia Kristeva eJean Vanier, il filosofo cattolico fondatoredell’Arca, l’organizzazione internazionalesorta a tutela delle disabilità mentali?

Lo si scopre nel fitto dialogo che i dueintrecciano in queste pagine, nate da unoscambio epistolare durato oltre un anno eincentrato sulle loro rispettive esperienze:quella di psicanalista, scrittrice e soprattut-to madre, che vede Julia Kristeva impegna-ta da anni in una battaglia politica per assi-curare ai disabili una vita dignitosa nellasocietà, e quella di Vanier, che da quaranta-sei anni pratica e predica il vivere insiemealle persone portatrici di handicap.

Perché l’handicap fa tanta paura? Per-ché l’irriducibile differenza delle personeaffette da disabilità motorie, sensoriali epsico-mentali suscita distacco, angoscia epersino spavento? Come riuscire a cambia-re lo sguardo della società su queste perso-ne che la nostra cultura dell’efficienza, del-l’eccellenza e della competizione relega tragli esseri umani più «estranei»?

Sono questi alcuni degli interrogativicui Julia Kristeva e Jean Vanier cercano ri-sposte, nel pieno rispetto dei loro differen-ti punti di vista. Ma ecco che sul filo diquesti interrogativi si vanno dipanando al-tre domande di senso sul nostro viverepresente: perché desideriamo essere geni-tori? Cosa significa essere madre? Qual èil ruolo della religione? Fino a dove si

spingerà la scienza? Cosa può fare la fami-glia? E lo Stato?

Uno scambio di lettere tra due testimo-ni dell’esperienza dell’handicap – osserva ilcardinale Ravasi – in cui, «come nel piùemblematico e supremo degli epistolari,quello dell’apostolo Paolo, la concretezzasi insinua nella riflessione, l’affetto non esi-ta a inoltrarsi sui sentieri d’altura del miste-ro, la quotidianità lacerata si sottopone algiudizio della ragione e della fede. Alla finesi leva da una modesta radice un albero daltronco solido e dai rami possenti».

Julia Kristeva, semiologa, scrittrice e intellet-tuale, insegna Linguistica e Semiologia all’Univer-sità di Parigi. Esponente di spicco della correntestrutturalista francese, ha concentrato i suoi inte-ressi attorno ai temi della psicanalisi. Di Kristeva,Donzelli ha pubblicato, oltre alla grande trilogiadel «Genio femminile» (Colette, 2004; HannahArendt, 2005 e Melanie Klein, 2006), Bisogno dicredere (2006), Teresa, mon amour (2008) e La te-sta senza il corpo (2009).

Jean Vanier è nato a Ginevra, nel 1928, da fami-glia canadese. Laureatosi in filosofia a Parigi, ha in-segnato a Toronto.Nel 1963 conosce padre ThomasPhilippe, che lavorava in un istituto per persone han-dicappate vicino a Parigi. Segnato da quell’incontro,nel 1964 Vanier fonda l’Arca, che oggi conta 130 co-munità nei cinque continenti. Nel 1971, insieme aMarie-HélèneMathieu, dà vita al movimento Fede eLuce, che riunisce portatori di handicap, genitori eamici per condividere momenti di svago e di pre-ghiera. Da allora 1400 sono diventate le comunità diFede e Luce sparse nel mondo.

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JuliaKristeva

JeanVanier

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www.donzelli.it DONZELLI EDITORE

In copertina: Egon Schiele, Autoritratto con la mano sulla guancia (parti-colare), 1910, Albertina, Vienna.

Dialogo tra una non credente e un credentesull’handicap e la paura del diverso

con una Prefazione di

Gianfranco Ravasi

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Julia KristevaJean Vanier

IL LORO SGUARDOBUCA LE NOSTRE OMBRE

Dialogo tra una non credente e un credentesull’handicap e la paura del diverso

Prefazione di Gianfranco Ravasi

Traduzione di Alessia Piovanello

DONZELLI EDITORE

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Titolo originale:Leur regard perce nos ombres di Julia Kristeva e Jean Vanier

World copyright © LIBRAIRIE ARTHÈME FAYARD, 2011.

Jean Vanier ringrazia Marie-Hélène AupecleSito dell’Arche: www.arche-france.org/

Sito di Foi et Lumière: www.foietlumiere.org/site/032.html

© 2011 Donzelli editore, Romavia Mentana 2b

INTERNET www.donzelli.itE-MAIL [email protected]

ISBN 978-88-6036-653-5

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IL LORO SGUARDO BUCA LE NOSTRE OMBRE

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Prefazionedi Gianfranco Ravasi

Ogni introduzione a un testo rivela un duplice profi-lo che potremmo semplificare e sintetizzare col binomio«soggettivo-oggettivo». Da un lato, si delinea un aspettopersonale di conoscenza, di simpatia, di condivisione au-tobiografica; dall’altro, si punta al contenuto per rivelar-ne la struttura, i percorsi ideali, il valore tematico. Anchedi fronte a questo volume la nostra prefazione rivela ailettori questa duplicità. Partiamo dalla componente «sog-gettiva». Essa crea forse più imbarazzo in chi la testimo-nia perché, come diceva nei suoi Pensieri Pascal, le moiest haïssable, e che l’io sia un po’ odioso è legato al fattoche esso sembra stabilire ponti che altri non possono var-care e dai quali rimangono esclusi. Eppure penso che inquesto caso la mia attestazione possa aggiungere un piz-zico di gusto in più alla lettura del testo, cioè al successi-vo versante «oggettivo».

Facile è, penso, abbozzare un profilo biografico dei dueautori: basterebbe una semplice ricerca in internet per sco-prire quanto essi siano rilevanti e noti. D’altronde, la lorofama ha già da tempo varcato i confini della loro vicendapersonale. Julia Kristeva, infatti, lascia la sua Bulgaria d’o-

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Gianfranco Ravasi

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rigine e approda a Parigi, e in questa metropoli si avvia suun itinerario culturale di altissimo profilo che la farà in-contrare con Barthes, Foucault, Derrida e la condurrà a es-sere una figura imprescindibile in alcuni settori come quel-li della semiotica, della filosofia, della psicanalisi. Questiambiti saranno costellati di pubblicazioni dotate di un’in-tensa finezza intellettuale e di un particolare fascino lette-rario nel dettato, tanto che l’autrice sarà spinta a tentareanche il genere del romanzo.

Jean Vanier proviene per nascita dalla Svizzera, anch’e-gli giungerà a Parigi, ma solo dopo una carriera militarenella Marina del Canada, la patria paterna, che lo ospiteràsuccessivamente come docente a Toronto. La svolta radica-le della sua vita avverrà nell’incontro col domenicano padreThomas Philippe e nella fondazione della comunità del-l’Arche, ora diffusa in 34 paesi, al servizio dei disabili fisicie psichici. La sua è, certo, anche la fisionomia di un uomodi cultura (significativo è il suo amore per Aristotele, og-getto della sua tesi di laurea), ma domina in lui la statura deltestimone cristiano.

A questi scarni bozzetti biografici disponibili a tuttivorrei ora aggiungere – come dicevo – quella piccola «spe-zia» personale che rende appunto «soggettiva» la mia pre-sentazione e, quindi, anche la mia adesione al testo che se-guirà. La figura di Jean Vanier entra nella mia vita verso lafine degli anni settanta, dopo che era sbocciata, a partiredal 1971, una ramificazione dell’Arca (quest’ultima sortacome piccolo germoglio in una casetta dell’Oise francesedestinata a ospitare Raphaël e Philippe, i primi due disabi-li accolti da Vanier). Questo ramo particolare recava il ti-tolo Foi et Lumière e nella città in cui allora vivevo, Mila-no, si era allungato attraverso una piccola ma vivace co-

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Prefazione

VII

munità di persone handicappate e dei loro genitori e assi-stenti denominata appunto Fede e Luce. A guidarla era unmio amico e collega della Facoltà Teologica dell’Italia set-tentrionale, Pier Angelo Sequeri, la cui passione per la mu-sica aveva impresso un marchio particolare a quel gruppodi persone attraverso un originale progetto di musicotera-pia. Esso genererà per un certo periodo anche una rivista,«L’erbamusica», e soprattutto una sorprendente orchestra,l’Esagramma, capace di associare orchestrali disabili e abi-li in una perfetta armonia.

Jean Vanier era il nome che spesso risuonava in quellacomunità; circolavano anche alcuni suoi scritti (ricordo, adesempio, il luminoso La Communauté, lieu du pardon etde la fête del 1989 o l’intenso Toute personne est une hi-stoire sacrée del 1994); ma soprattutto era il suo progettointimamente cristiano, capace di intrecciare amore e cura,passione e dottrina, ad essere come una stella polare. Maiavrei pensato che – sia pure per un’occasione particolare –le nostre strade si sarebbero incontrate. Questo è avvenu-to il 24 marzo 2011, quando nella sede dell’Unesco a Pari-gi una lunga e vivace sessione fu dedicata a quel «Cortiledei Gentili» che proprio in quei giorni si stava inauguran-do e di cui ero promotore su impulso di Benedetto XVI. Sitrattava di uno spazio riservato al confronto tra credenti enon credenti attorno ai grandi temi umani e alle domandeche artigliano l’esistenza e la coscienza di tutti. Il «Corti-le» aveva aperto in quel luogo – così «universale» per lacultura dei popoli – un primo dialogo al quale avevo volu-to invitare, accanto a politici, ambasciatori e intellettuali,proprio lui, Jean Vanier.

E il suo fu un intervento emozionante: il confrontoteorico, per sua natura algido, diveniva incandescente at-

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Gianfranco Ravasi

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traverso le sue parole vibranti, intessute di esperienzeconcrete, nelle quali la fede si insediava, esaltandosi e sof-frendo. «Amare è rivelare chi sei e che l’altro è prezioso»,diceva Jean, ma in questo amore egli deponeva il semedello Spirito di Dio. In un suo scritto confessava: «Ciòche mi impressiona alla fine della Bibbia è un grido: Vie-ni, Gesù, vieni! Un grido di solitudine e di dolore», comequello che sorge dall’handicap ma anche da tante perso-ne esternamente «sane». E, come è noto, quel Gesù invo-cato non taceva ma rispondeva nell’Apocalisse: «Sì, verròpresto!».

Eccomi ora di fronte a Julia Kristeva. Anche lei mi è ve-nuta idealmente incontro sul finire degli anni settanta,quando lessi – devo confessarlo, con fatica perché il testoera limpido ma arduo – la sua Semeiotiké sulla «semanali-si», nella riedizione della collana «Points» di Seuil. La in-crociai ancora, sempre attraverso le sue pagine, quando colSoleil noir s’interessò del pianeta oscuro della depressione edella malinconia (nella Pinacoteca Ambrosiana, che alloradirigevo, amavo un dipinto un po’ enigmatico intitolato ap-punto Malinconia, opera del pittore svizzero-italiano delSeicentoGiovanni Serodine).Ma soprattuttomi impressio-narono, a partire dalla fine degli anni novanta in avanti, lesue diverse intercettazioni del tema religioso.

In un crescendo di curiosità e sintonia passai attraversola sua analisi del Féminin et le sacré, dell’orizzonte iride-scente dell’odio e del perdono (La haine et le pardon del2005) e, giunto a Roma, continuai a seguire il suo con-fronto sempre più intenso con la realtà del credere, comeaccadeva nel suggestivoCet incroyable besoin de croire del2007 e in quel gioiello che è Teresa, mon amour, «libro

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Prefazione

IX

sconvolgente e stupefacente», come lo definisce Vanier.Anche nelle pagine che ora seguiranno occhieggerà qua elà la «mia» Teresa d’Avila, come la chiama Julia Kristeva.La sua santità radicata nella carne, la sua «maternità» alter-nativa che «non gioisce di sé e per sé» ma «pensa dal pun-to di vista dell’altro» senza mai «abbassare le braccia»; lasua psiche scandita da «un’autoanalisi permanente» e chesi irradiava in un’esplosione poliedrica di esperienze: sonosolo alcuni spunti di un’ammirazione decisa e ben fondatache la studiosa confessa anche in queste pagine.

Emerge così un particolare côté della ricerca persona-le e intellettuale della Kristeva, quello della mistica. Inuna conferenza parigina del dicembre 2010, dedicata aquell’imponente figura intellettuale che è stata nell’Otto-cento il beato cardinale John Henri Newman (personag-gio anche a me caro, se non altro per il comune titolo car-dinalizio che ho l’onore ora di portare io stesso, quellodella chiesa romana di San Giorgio in Velabro), ella affer-mava: «La mistica apre la porta della fede a nuovi mondi:Meister Eckhart prepara il vocabolario della filosofia eu-ropea, mentre Teresa d’Avila avvia la transizione baroccaal secolo dei Lumi. Newman protegge il cattolicesimotanto dal moralismo protestante quanto dal criticismo ra-zionalista e rinsalda i fondamentali del cattolicesimo at-traverso una paziente descrizione del legame Padre/Figlioche sta dietro al Verbo, dimostrando che quell’esperienza“amorosa” è il fondamento ultimo del senso etico. Nellamistica riconosce il fermento necessario a rifondare ildogma, rendendolo più complesso e dinamico». Ma, pro-prio in questi ultimi anni, stava per accadere ciò che inpassato non avrei mai ritenuto possibile, l’incontro diret-to con Julia Kristeva.

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Gianfranco Ravasi

X

E questo è avvenuto a più riprese e in forme diverse. In-nanzitutto proprio in Vaticano, nel Pontificio Consigliodella Cultura, che ora presiedo, durante un suo passaggio daRoma. Poi, nel marzo 2011, alla Sorbona di Parigi, semprenel contesto del dialogo aperto dal citato «Cortile dei Gen-tili». Si tratta di un’espressione che rimanda al Tempio diGerusalemme frequentato anche da Gesù, ove ebrei e stra-nieri potevano in cortili adiacenti coesistere e incrociare i lo-ro sguardi: Kristeva ama la definizione coniata per il tempiodi Sion dal profeta Isaia (56,7): bet-tefillah lekôl-‘ammîm,«casa di preghiera per tutti i popoli». E, infine, l’esperienzasolenne e ufficiale di Assisi del 27 ottobre 2011, quando leiinterverrà pubblicamente davanti a Benedetto XVI e alle de-legazioni delle diverse religioni e confessioni del mondo riu-nite in un giorno di riflessione comune, così da portare an-che la voce dei non credenti che, però, s’interessano e s’in-terrogano sull’orizzonte della fede e dei temi anche penulti-mi e ultimi dell’essere e dell’esistere. La nostra è, dunque,una conoscenza recente ma continua e viva, un dialogo chesi affida anche ai brevi scritti che ci scambiamo e che ac-compagnano gli articoli che mi invia, spesso folgoranti nel-la loro essenzialità e creatività.

«Lettere in arcipelago» – come lei stessa le definisce –sono anche quelle che costituiscono la sostanza del libroche ora abbiamo tra le mani. Lasciamo così il versante piùpersonale e «soggettivo» per quello più testuale e «ogget-tivo», anche se è impossibile essere «asettici» di fronte apagine che fremono e sono intrise di passione, di tenerez-za, di sofferenza. In esse l’intelligenza si abbraccia all’amo-re. Nell’arco di un anno, dal 7 giugno 2009 al 22 agosto2010, Jean Vanier e Julia Kristeva hanno intessuto una cor-

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Prefazione

XI

rispondenza fatta di nove lettere del primo e di dieci piùuna email da parte della seconda. «Nell’epoca degli sms edi Facebook non pratichiamo più la corrispondenza comeuna delle belle arti: né testamento, né confessione, né ro-manzo… Tu e io – continua Julia – abbiamo scelto per lanostra corrispondenza un tema, un impegno, nella speran-za di farlo rivivere con coloro che lo sperimentano nellasofferenza e nel superamento, ma anche con coloro che sene ritengono risparmiati». Ben presto vedremo quale siaquesto tema. Bisogna, però, sottolineare che la ripresa delgenere epistolare divenuto nell’era informatica obsoleto oscarnificato ha un significato particolare. Come scriveval’erudito spagnolo secentesco Baltasar Gracián nel suoOracolo manuale, «una lettera è una conversazione scrit-ta», permette quel rigore che il semplice parlato fa spessoevaporare, ma anche favorisce la libertà della sincerità, se-condo il celebre motto delle Familiari di Cicerone, per ilquale epistula non erubescit, la lettera non arrossisce e nonteme la nudità dell’anima.

Come nel più emblematico e supremo degli epistolari,quello dell’apostolo Paolo, anche qui la concretezza si in-sinua nella riflessione, l’affetto non esita a inoltrarsi suisentieri d’altura del mistero, la quotidianità lacerata si sot-topone al giudizio della ragione e della fede. Alla fine si le-va da una modesta radice un albero dal tronco solido e dairami possenti. La radice è in un incontro a colazione nellasede originaria dell’Arca di Jean Vanier a Trosly-Breuil nelgiorno antecedente alla prima lettera: Julia ne parla conDavid, il figlio da lei avuto col suo compagno, lo scrittorePhilippe Sollers, un ragazzo colpito da una malattia neu-rologica. Egli si affaccerà in queste lettere, evocato con tut-ta la delicatezza di una madre ma anche con la certezza che

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Gianfranco Ravasi

XII

«David ha una bella bio-grafia, nella coabitazione con lasua fragile ed enigmatica zoé», secondo la nota distinzionesemantica tra i due termini greci. «Il mio David – confessaancora la madre – con le sue difficoltà psicomotorie, e for-se perché noi, suo padre e io, l’abbiamo circondato di tan-to amore, ma anche di esigenze e attività che non lo hannomai tagliato fuori dal mondo, vive la sua solitudine conuna serenità matura, che è divenuta per me un esempio e ilmiglior modo per andare incontro alla mia personale capa-cità di essere sola».

Da questa radice vibrante sorge il tronco dell’albero nelquale entrambi i corrispondenti progressivamente sembra-no scavare una sorta di piroga o canoa per navigare inizial-mente nel mare della sofferenza, ma poi anche nell’oceanoaperto dei misteri che ci avvolgono, coinvolgono e taloraanche travolgono. Lentamente il cammino da solitario si fasolidale, dal «Lei», il «Vous» francese, si passa al «tu», in uncrescendo di amicizia che non offusca mai il cielo cristalli-no della riflessione e dell’analisi, ma che lo rende più lumi-noso e caloroso, conducendo fino alla spontaneità dell’ab-braccio sulla strada comune, che spesso è un tracciato fati-coso di montagna. Il suggello finale sarà emozionante. Ju-lia: «Ero, sono e sarò nella tua Arca. La vulnerabilità estre-ma e il limite della vita trasformati in comunità». Jean:«Grazie, cara Julia, per questa corrispondenza. Spero cheessa continuerà sotto un’altra forma. Sì, tu hai fatto nasce-re in me un nuovo soffio di vita». Noi siamo invitati a na-vigare con loro in questo mare apparentemente tempesto-so, in realtà colmo di epifanie di «fede e luce». Bisogna,però, attrezzarsi per questo viaggio, ritrovando la purezzadi mente e di cuore e la libertà dagli stereotipi, riconqui-stando la capacità di stupirci perché, come ammoniva già

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Prefazione

XIII

Chesterton, «il nostro mondo non perirà certo per man-canza di meraviglie, bensì di meraviglia».

E la prima, dominante e sconcertante meraviglia che civiene incontro è quella della «vulnerabilità» della creaturaumana, coi suoi corollari di debolezza, di fragilità, di ver-gogna, di morte. Essa ha nelle persone handicappate quasiun’ipostasi che diventa un richiamo e persino una scossaper la nostra superficialità, perché è il loro sguardo a perfo-rare la nostra ombra, come dice il titolo dell’epistolario.Essere vulnerabili significa semplicemente essere umani equindi non possiamo sentirci estranei o relegare questa di-mensione solo a una determinata categoria di persone.Purtroppo ci imponiamo spesso una censura, per paura oinerzia o banalità: «l’umanesimo non osa avventurarsitroppo in tali contrade», osserva Kristeva; la società con-temporanea rigetta il peso delle domande che fioriscono suquesto terreno; la scienza rimanda al domani ciò che oggiè senza rimedio.

È quindi necessario il ritorno a un’etica autentica, cheriesca a far coabitare l’uomo col suo limite senza la narco-si dell’indifferenza o della rimozione, ma anche senza ladisperazione dell’impotenza. Scrive Vanier: «Un nuovoumanesimo implica un duro lavoro su se stessi. Come di-ceva Martin Luther King, per evitare di disprezzare gli al-tri, così differenti da noi, è indispensabile accettare se stes-si, con le proprie debolezze e i propri handicap». E a lui faeco Julia: «La convivenza con la nostra mortalità mi pare[…] la condizione essenziale per incontrare la vulnerabilitàaltrui», cambiando in tal modo il nostro sguardo su unarealtà apparentemente così «scandalosa» ed estranea allapersona abile. Continua Jean: «Per integrare la nostra mor-

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Gianfranco Ravasi

XIV

talità occorre aver osato l’incontro con l’altro più debole»,il quale ha già elaborato esistenzialmente la caducità. E suquesto terreno si innesta anche la fede.

Quando si muovono i passi su questo territorio esi-stenziale c’è una sorprendente figura che viene incontro aentrambi gli interlocutori: è il «Dio handicappato» cristia-no che si rivela nella sofferenza e nella morte di Cristo,«terribilmente umano e meravigliosamente divino», risor-to ma ancora con le piaghe della passione. Julia Kristeva ri-manda al saggio di Nancy L. Eisland, che nella sua carneha vissuto questa esperienza e ha intitolato il suo libro inmodo esplicito The Disabled God (1994), orientandoloverso una sorta di «teologia della disabilità». È questo Dio«vulnerabile e angosciato» il Dio che Vanier ha incontratoe gli ha cambiato la vita: «La mia fede in Dio non è una fe-de in un Dio di potenza, ma una fede in un Dio potenteche diviene impotente, che si fa povero per raggiungercinella nostra povertà umana». È la stessa intuizione del teo-logo martire Dietrich Bonhoeffer, che nel lager nazistascrive senza imbarazzo che «Dio in Cristo ci salva non invirtù della sua onnipotenza bensì della sua impotenza».Essa lo rende non solo vicino ma intimo all’umanità vul-nerabile e vulnerata. Una lettera impressionante, proprioper il confronto antitetico che propone, è quella in cui laKristeva analizza la sconcertante figura, mostruosa e sa-crale al tempo stesso, del «derattizzatore», delineato neldramma Il piccolo Eyolf di Ibsen (1894), una lettura fruttodi una sua visita in Norvegia.

Vogliamo lasciare ai lettori di seguire questo raccontotematico e le deduzioni che Julia fa attorno all’«elimi-nazione fisica dell’abietto, trasformata in sacrificio catarti-co che ribalta la repulsione nel meraviglioso, per non dire

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Prefazione

XV

nel sacro». Anche Jean è scosso dal dilemma: «uccidere odivinizzare il bambino che è soggetto di inquietudine?». Èuna sorta di choc che ha purtroppo non di rado riletture de-generi, orientate forse sommessamente o surrettiziamente aderive eutanasiche. Le figure di un Cristo, che non si ac-contenta di guarire il lebbroso ma «lo tocca» (Marco 1,41),e di Francesco che ne ricalca le orme, abbracciando un ma-lato di lebbra, diventano una parabola del superamento diogni retorica sacrale o secolare.

Ed è veramente significativo che tutte le lettere, puressendo intarsiate di rimandi culturali – che spaziano daAristotele a Gandhi, da Céline a Hillesum, da Voltaire asant’Ignazio di Loyola, da Diderot a santa Teresa d’Avi-la, da Beckett a Martin Luther King, da Montaigne a Junge Freud e al loro «caleidoscopio di interpretazioni» dellarealtà del limite e del dolore –, pur inoltrandosi spesso nelfirmamento delle intuizioni, delle interrogazioni radicali,delle analisi e delle riflessioni, sono sempre rette e anima-te da un’ininterrotta sequenza di vicende concrete. Sfila-no persone con le storie più diverse e complesse, non dirado commoventi, osservate non tanto sotto il velo dellapietas, bensì accolte nella loro dolente o serena verità,proprio perché la vulnerabilità è patrimonio «genetico»dello stesso essere uomini o donne.

Il tronco dell’albero di questo epistolario che, come sidiceva, offre l’imbarcazione per navigare nel mare della di-sabilità e dei suoi corollari, ci conduce però lungo rotte ra-mificate che approdano nell’oceano più vasto, rotte che ilettori potranno seguire con facilità. Ci sono, ad esempio,pagine molto belle sulla tenerezza. Julia parte da un dolcericordo delle sue origini ortodosse bulgare con la delizio-

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Gianfranco Ravasi

XVI

sa icona di Vladimir detta «della Vergine eléousa», la Ma-donna della tenerezza, una «virtù materna-e-paterna, prin-cipio fondatore dell’Arca». E Jean commenta che «la tene-rezza è frutto della libertà. Per suo tramite ci si libera dal-la pressione delle pulsioni e dei desideri» e da essa «scatu-riranno la creatività, i desideri molteplici, una sete, una lu-ce, un amore nuovi». Fine è anche l’analisi della costella-zione fatta di femminilità, maternità, generazione, fami-glia, così come intensa è l’attenzione alla solitudine la qua-le è «la singolarità che vive il desiderio ma è anche l’impo-tenza della comunione», come osserva Kristeva, distin-guendo così tra solitudine feconda, che può aprirsi all’inti-mità con se stessi e col divino, e isolamento gelido e steri-le, campo da gioco del demone della disperazione.

Non poteva mancare l’entrata in scena della psicanalisie del contributo che essa può offrire alla religione, nei cuiconfronti spesso è stata posta in alternativa: «la scopertadell’inconscio opera una rifusione tra fede e ragione». Ma,com’era prevedibile nel dialogo tra un credente appassio-nato e una non credente sensibile e aperta all’orizzontedella trascendenza, un itinerario vigoroso che si fa stradanell’oceano delle riflessioni più alte dei due interlocutori èquello della Chiesa, non solo per quanto riguarda l’impe-gno delle comunità cristiane verso l’handicap, come è te-stimoniato da un passo molto vivo di Giovanni Paolo II ci-tato da Vanier nella lettera del 3 febbraio 2010.

Sul tappeto si presentano anche questioni più contro-verse come l’antisemitismo cristiano, la disputa sulla figuradi Pio XII e la questione ebraica, che la Kristeva allarga al di-battito su Céline, l’assunzione di Maria, riletta con origina-lità da Jean – sulla scorta di Jung – come l’ingresso del fem-minile nella cerchia di Dio, anzi nel suo stesso cuore. Vanier

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Prefazione

XVII

non esita a fare la sua professione d’amore nei confrontidella Chiesa «che mi ha dato e mi dona la vita, nonostantela sua storia e le sue miserie». E c’è un’evocazione indirettadella celebre definizione di sant’Ambrogio della Chiesa, ca-sta meretrix. L’accezione normale di questo asserto è notaed è nella linea della frase appena citata dal fondatore del-l’Arca. Tuttavia il senso ambrosiano era diverso e inatteso:la Chiesa è come la prostituta biblica Rahab di Gerico(Giosuè 2) che accoglie tutti, anche gli esploratori nemiciebrei, cioè sani e malati, giusti o peccatori, rivelando la suauniversalità e la sua totale capacità di accoglienza.

Si apre, così, il capitolo sul dialogo interreligioso e in-terculturale. Come ribadisce Vanier, dobbiamo cercare difare delle religioni non prigioni o fortezze, ma oasi e fontiche dissetino i pellegrini dell’assoluto, aprendo i cuori allacreatività e alla libertà dell’amore. E la Kristeva componeun binomio che a me è molto caro e che ho spesso diffuso,quello che al «duello» tra le religioni e le culture, fondatosullo scontro, fa subentrare il «duetto» che crea armonia,pur essendo un confronto tra voci diverse, talora persinoantitetiche come possono essere un basso e un soprano, iquali senza rinunciare al loro timbro vocale scoprono laconsonanza e creano bellezza. Ecco, allora, la necessità deldialogo tra secolarizzazione e tradizione, tra credenti enon credenti, nella consapevolezza che, se forse il filo del-la tradizione spirituale è spezzato, resiste l’hard disk dellareligione che dev’essere però dotato di programmi capacidi generare ascolto nel mondo contemporaneo così muta-to e lontano.

Lasciamo ora al lettore, dopo questa lunga premessache ha intrecciato emozioni personali e anticipazioni te-

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Gianfranco Ravasi

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matiche, di gustare l’epistolario «narrativo» che si snoderà,seguendone anche le riprese che non sono mai ripetizionima che sono piuttosto comparabili a quelle «parodie» mu-sicali in cui brillava Bach. Il filo della riflessione, infatti, ri-torna non di rado su se stesso in maniera però sempre nuo-va. Il raggio tagliente dell’intelligenza di entrambi gli in-terlocutori si coniuga con l’umanità profonda dei lorocuori; la fede radiosa di Jean Vanier, nutrita di Vangelo, siabbraccia con l’umanesimo nobile e spirituale di Julia Kri-steva per ergere una barriera contro la seduzione della bar-barie che è infastidita dalla presenza della sofferenza e del-l’handicap e che vorrebbe semplicemente cancellarla pernon turbare la propria festa banale. Su tutto risplende la«professione di gioia» di Vanier, anche nella debolezza del-la nuova tappa della sua ormai lunga vita: «Mi sento felicedi vivere e di esistere, provo come una sorta di pienezzache sgorga dal più profondo del mio essere».

Roma, settembre 2011 Card. Gianfranco Ravasi

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Il loro sguardobuca le nostre ombre

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