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Pragmatismo tutto orientale, musicalità molto occidentale,il pianista d’origine nipponica guarda alla musica come processo totalmente creativo

senza rinunciare alla melodia, cercando di portare avanti la lezione del maestrocon nuovi scenari strumentali e moderne sonorità

Come è entrata la musica nella tua vita?Mia madre suonava il koto ed il piano. Fu lei a farmiprendere lezioni di piano: ora sono felice che loabbia fatto, ma ricordo che all’inizio lo odiavo. Miopadre non ha mai suonato o ascoltato jazz, ma pos-sedeva una discreta collezione di musica classica,folk — chanson, canzoni, musica indiana, cinese, su-damericana, giapponese — e pure colonne sonore.

Due dei tuoi cd si chiamano “Brooklyn Moments”e “New York Moments”, sottotitolo “improvvisa-zione totale”: momenti, improvvisazione totalema anche avanguardia e free jazz sembrano es-sere parole chiave per descrivere la tua musica. Intanto, dovendo definire l’improvvisazione totale,direi che si tratta di una musica assolutamente im-provvisata cui pioniere e definitore è stato Keith Jar-rett. Questo genere richiede all’improvvisatore nonsolo di sperimentare su un tessuto sonoro — unaastrazione atonale-aritmica — ma anche di rappre-sentare in modo spontaneo tonalità e ritmo, e crearemelodie in forma di canzone.

Il musicista che ti ha condotto a qyesto genere?La musica improvvisata che ho ascoltato per prima èstato il “Köln Concert” di Jarrett. All’epoca pensavoche fosse bello, mi piaceva molto ma ritenevo nonfosse nulla di particolare: non ero ancora riuscito a

capire cosa fosse l’improvvisazione, ed il jazz eraper me un genere piuttosto noioso, anche se avevogià ascoltato alcuni album “classici”. Poi scoprii unaltro album di Jarrett, “My Song”, ed in particolareil brano Country mi fece impazzire. Perché potessicapire l’arte dell’improvvisazione avevo bisogno dipartire dal rapporto con la melodia: e così alla fineho capito in cosa consiste l’improvvisazione.

Trattandosi di musica basata su momenti unici edirripetibili, è certo più appagante dal vivo: perchédunque il pubblico dovrebbe ascoltare dei dischiregistrati in studio? I dischi sono comunque importanti, perché in questamusica l’improvvisatore deve correre il rischio dellaspontaneità. Questo significa che la qualità dell’im-provvisazione spesso diventa meno ideale: come es-seri umani, i musicisti hanno “giornate sì” e“giornate no”. Ciò influisce sulla qualità dell’improv-visazione, specie quella dei musicisti che si assu-mono quel rischio. Certo, la situazione ottimale siha quando il pubblico riesce ad esperire una “buona”improvvisazione direttamente dal vivo, ma non sem-pre avviene. Invece in un lavoro registrato è possi-bile selezionare l’improvvisazione basandosi sullasua qualità, ed inoltre il disco permette di ascoltareripetutamente l’improvvisazione, in modo da poterapprezzare per sempre i momenti “buoni”.

Nobu Stowes u l l e o rme d i J a r r e t t

di Andrew Rigmorefoto di Eisuke Koya

JazzColo[u]rs | maggio ’08 13

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Come può questo tipo di musica essere “melo-dica”?L’attributo melodico si riferisce qui all’aspetto dibase tonale e alla forma canzone delle melodie checaratterizzano l’improvvisazione totale, come in Jar-rett. Il contesto ritmo-tonale di questo tipo improv-visazione costringe la stessa all’interno di certilimiti, e la chiave per superare tali limiti è l’ascolto.Sebbene in generale apprezzi la cosiddetta “improv-visazione libera”, l’unico problema che ho con que-sto metodo è che il suo contesto e la sua direzionesono basati in prevalenza sull’astrazione atonale-aritmica, il che inficia la stessa nozione di improvvi-sazione “libera”: se la musica è davvero “libera”,perché allora deve intendersi solo come “astratta”?

Quanto conta un’elevata intesa in questi gruppi?Prima di ogni progetto di solito individuo l’idea chedia una direzione generale, un contesto all’improv-visazione. Ad esempio, per “Hommage an Klaus Kin-ski” il concetto era “l’improvvisazione totaleincontra la musica free da camera — à la Giuffre-Bley, per intenderci — su tele sonore”. Ho discussol’idea con Lee Pembleton e poi ho scelto i musicistiche meglio si adattavano al progetto. Un volta chetutti hanno inquadrato il concetto, lascio molta en-fasi alla “spontaneità”. L’elemento più importanterichiesto ai musicisti è la capacità di ascoltare,aspetto ancor più cruciale nell’improvvisazione to-

tale, che richiede loro di interagire all’interno di unadata configurazione tonale-ritmica senza la guida diuno spartito o strutture predeterminate.

Quindi all’interno della band chi segue chi?Per varie ragioni sono l’unico a farsi carico del ruolodi guida: intanto il piano è uno strumento domi-nante, e poi l’idea progettuale viene da me, quindimi tocca imprimere la direzione generale ed il con-testo dell’improvvisazione. Infine, quando suonotendo a muovermi su particolari progressioni tonali eaccordali, spesso con linee melodiche definite, macerco sempre di restare aperto ad un interplay spon-taneo.

In “Hommage an Klaus Kinski”, in cosa è consistitol’apporto compositivo di Pembleton come sounddesigner?Come suggerisce il sottotitolo “total-improvisationon sonic canvas” [improvvisazione totale su tele so-nore, ndr], il contributo di Lee è enorme: il conceptoriginale era di usare le “tele sonore” di Lee comepunto di partenza per l’improvvisazione totale, cosache è stata realizzata al meglio nelle tracce in duoed in trio con Ross Bonadonna. Per i brani in quin-tetto e quartetto l’interplay non rispondeva neces-sariamente all’idea originaria, mentre le sonorità diLee sono state molto usate come parte della forma-zione più estesa. Ma sono soddisfatto del risultato.

Sono molto cantabili le composi-zioni totalmente improvvisate diStowe, più esposto quando il suopiano si confronta con la batteria diMunshower e le risonanti percus-sioni di Roy, come nel live al “An dieMusik” di Baltimora che questo cddocumenta: una vivacità poggiatasul centro tonale degli arpeggi e icui colori sono assecondati dai cro-matismi ritmici. Fra occasionali mo-menti d’incertezza — che attestanola determinazione del leader nelportare avanti la sua idea musicale— tanti gli spunti che evolvono inuna felice intesa, sia in duo (comeDuo V, dove dall’iniziale figurazionedi Stowe scaturisce una fantasiosa

combinazione con rapide e dinamiche cadenze della batteria) sia intrio. A fianco di qualche episodio forse frutto di ingenuo entusiasmo— paradossalmente il piano solo pare sentire il peso della propria li-bertà ed il pianista talvolta non riesce a venir fuori da certi schemie progressioni tipici della musica leggera — si ritrovano coinvolgentilinee compositive laddove il piano ristà più a lungo su certe cellulearmoniche, dando ai compagni il modo di incastrarsi adeguata-mente: questi per esempio i tratti di Trio III. Pregevole il solo ditabla, inserito fra un motivo costituito da una fine melodia ed unaltro con una certa aura di mistero impressa dalle brevi figure te-matiche in tonalità minore, entrambi in duo. Le ultime due traccesono in trio, la pirma caratterizzata da una lunga intro percussiva,l’ultima che costituisce invece il bis del concerto, con una cavalcatadel piano puntualmente assecondata dai compagni di scena. Senza

dubbio più “progettuale” risultaHommage an Klaus Kinski, le cuiambientazioni scure rispecchiano leatmosfere spesso noir delle pelli-cole di Herzog. È sempre il pianistanipponico a condurre, ma qui lapresenza di altri musicisti gli forni-sce punti di riferimento che ne ren-dono la composizione estemporaneapiù ricca di spunti e meno divagante(Quintet III, con le ance di Siwula eBonadonna) restando nell’alveo diun free controllato e di ascolto re-ciproco. Le varie formazioni si muo-vono sui quadri sonori allestitispontaneamente da Pembleton:particolare il risultato dell’intera-zione con Stowe in Duo II-E e nel-l’autunnale Duo II-B, con il pianocalato nella cornice di un temporaleboschivo; in Quartet il clarinetto diRobinson, individuato il giro armo-nico modulato dal piano, vi sovrappone con acutezza le proprie im-provvisazioni; in Trio II è il tenore di Siwula ad insinuarsi fra lastruttura trillante del piano ed il denso sfondo alimentato da Pem-bleton; in Quintet I-D si incrociano i clarinetti di Bonadonna, Siwulae Robinson (quest’ultimo pure all’ocarina, a giocare sui registri alti).Se la versione di ’Round Midnight lascia a desiderare, soddisfacenteè l’affresco reso con Hommage an Klaus Kinski, dove a fare da con-tro-altare al piano si unisce pure la chitarra di Bonadonna, lasciandomirabilmente sospese le battenti linee melodiche del brano (conmotivi orientaleggianti) ad avvolgere l’ascoltatore._An.Rig.

SSTTOOWWEE--MMUUNNSSHHOOWWEERR--RROOYYAANN DDIIEE MMUUSSIIKK

(Soul Note - 121397-2)

Nobu Stowe (pn), Alan Mun-shower (bt), Badal Roy (tbls,vc)1. Duo I, 2. Trio I, 3. Duo V, 4. Trio II, 5. Duo IV, 6. Trio III, 7. Duo VII, 8. Solo Tabla, 9. Duo III, 10. Trio VI

SSTTOOWWEE--PPEEMMBBLLEETTOONNHHOOMMMMAAGGEE AANN KKLLAAUUSS KKIINNSSKKII

(Soul Note - 121337.2)

Nobu Stowe (pn), Lee Pemble-ton (snd desgn), Perry Robin-

son (cl, ocrn), Blaise Siwula (st,cl.al), John McLellan (dr), Ross

Bonadonna (cl.bs, sa, ch)1. Duo I-A, 2. Quintet III, 3. Trio III-B, 4. Duo II-E,

5. Quartet, 6. Trio II, 7. Quintet I-D, 8. Duo II-B,

9. Hommage an Klaus Kinski, 10. ’Round Midnight

14 JazzColo[u]rs | maggio ’08

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Come mai un tributo al grande attore Klaus Kinski? È stato del tutto casuale. Sono grande appassionatodei film di Wener Herzog, e mi era capitato di rive-derne alcuni con Kinski protagonista giusto la setti-mana prima della seduta di registrazione. Non avevointenzione di fare un omaggio a Kinski e non hoistruito i musicisti né prima né durante la registra-zione. Però c’è un brano che mi ha ricordato profon-damente lo scenario di “Fiztcarraldo” e la colonnasonora dei Popol Vuh: sentivo questo pezzo come unperfetto tributo a Klaus Kinski e così l’ho battezzato,sebbene di solito preferisca nomi più generici per lemie composizioni improvvisate. Alla fine quel titolos’è rivelato rappresentativo dell’intero album che hocosì dedicato anche a Florian Fricke dei Popol Vuh,scomparso nel 2002: in realtà il tributo è rivolto allamaestosa arte della terna Herzog-Kinski-Fricke. Unodei miei sogni sarebbe comporre la colonna sonoraper un film di Herzog: magari un giorno si avvererà!

Come hai conosciuto il chitarrista Dom Minasi?Dopo “Brooklyn Moments”, Ray Sage, il batterista,si offrì di finanziare un altro disco. Volevo aggiun-gere un’altra voce per differenziare la direzionedella musica rispetto ai dischi precedenti: sapevoche Blaise Siwula, il nostro sassofonista, aveva lavo-rato con Dom che sentivo sarebbe stato perfetto.Così ho chiesto a Blaise di invitarlo per quello chesarebbe diventato “New York Moments”.

Oggi la scena jazz di Tokyo è molto fremente: haimai pensato di tornarci?Mi piacerebbe tantissimo suonare a Tokyo o altrecittà giapponesi: spero possa avvenire presto, anchese al momento non ho in progetto di trasferirmi.

Molti esponenti dell’avanguardia danno ai proprilavori una forte marcatura derivante dalle loro ori-gini asiatiche: anche tu fai altrettanto? Molta musica cosiddetta “ethnic fusion” resta super-ficiale: per esempio è facile usare una scala penta-tonica con l’applicazione di certi modi, e collaborarecon un suonatore di koto in modo da apportare ele-menti giapponesi alla musica. Questo non significa,però, comprendere l’anima della musica giapponese,per cui io preferisco trovare una mia voce originale.

Molti dei musicisti che fanno musica improvvisataed estemporanea applicano l’elettronica ai lorostrumenti: cosa ne pensi?Non ho nulla in contrario ad applicare l’elettronicaagli strumenti, sebbene al momento io non vada inquesta direzione. Ritengo si stia abusando dell’elet-tronica come espediente più di quanto si dovrebbe,anche se questo problema non riguarda solo l’elet-

tronica “in sé”: elettronica, strumenti convenzionalio inventati, tecniche convenzionali o ampliate, teo-rie, idee, eccetera, sono solo strumenti per crearemusica, ma non il fine della musica. Purtroppo permolti musicisti, sia dell’avanguardia che del main-stream, gli strumenti sono invece diventati il fine.

Secondo te quale è la situazione del jazz attuale? Direi che non solo il jazz ma l’intera scena musicalesi è individualizzata, per cui è difficile vedere chia-ramente quale sia la tendenza del jazz odierno. Peròho le idee chiare sulle prospettive della mia musica.

Quali altri progetti hai in serbo per il futuro?Sebbene i lavori che fin qui ho pubblicato siano ba-sati sull’improvvisazione, al momento il progetto acui sto lavorando con Tyler Goodwin al basso e AlanMunshower alla batteria è il Trio Ricochet, basato sucomposizioni scritte. Questo trio ha un concept“post-fusion”, con un repertorio formato da mieibrani originali, standards e musica totalmente im-provvisata. Abbiamo già suonato al Blue Note di NewYork, alla Knitting Factory ed allo Smithsonian Insti-tute. Sarebbe magnifico poter pubblicare quantoprima il primo album di questa formazione, ma mal-grado molte etichette si siano mostrate interessateancora non è stato raggiunto alcun accordo. È possi-bile ascoltarne alcune tracce sul mio Myspace.

JazzColo[u]rs | maggio ’08 15