Jan Potocki Manoscritto Trovato a Saragozza

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Jan Potocki Manoscritto Trovato a Saragozza

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Jan Potocki

Manoscritto trovato a Saragozza

Titolo originale:

Manuscrit trouvé à Saragosse

Traduzione di Anna Devoto

Testo stabilito e presentato

da Roger Caillois

Biblioteca Adelphi

Copyright 1958

Librairie Gallimard

Copyright 1965

Adelphi Edizioni S’p’A’, Milano

Nona edizione: settembre 1990

Adelphi Edizioni

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Destinata a diventare uno dei classici della letteratura polacca, quest’opera scritta in francese all’inizio del 1800, ha avuto peripezie tra le più singolari che la storia della letteratura ricordi. Si deve al noto critico e scrittore Roger Caillois di averla riscoperta per il lettore occidentale pubblicando in Francia, nel 1958, la parte del testo originale arrivata fino a noi, e facendola precedere da una prefazione che racconta la complicata storia del libro: una storia di manoscritti smarriti, di pubblicazioni parziali a Pietroburgo e a Parigi, di plagi successivi (in cui troviamo implicati anche alcuni nomi illustri, come quelli di Charles Nodier e di Washington Irving) che mettono capo a un piccolo scandalo tra letterati e a un processo. Del testo integrale, andato smarrito, esiste solo, da oltre un secolo, una traduzione polacca, non sappiamo quanto fedele.

Jan Potocki, l’autore di questo libro, è un nobile polacco, appartenente all’alta società cosmopolita della fine del Settecento, di casa in tutte le capitali d’Europa, viaggiatore curioso e attento che soggiorna a lungo nel Marocco e si spinge persino, al seguito di un’ambasceria russa, ai confini tra la Mongolia e la Cina. Uomo politico illuminato, legato ad ambienti giacobini, poi consigliere privato dello zar Alessandro I, studioso infaticabile d’antichità, autore di lucide relazioni di viaggio e di opere storico-etnografiche (oggi lo si considera uno dei fondatori dell’archeologia slava), Potocki diede sfogo al sottofondo raffinatamente morboso del suo temperamento nel Manoscritto trovato a Saragozza, un’opera di fantasia che lo tenne occupato negli ultimi dodici anni della sua vita, fino al suicidio avvenuto nel 1815.

Il Manoscritto è una serie di storie di fantasmi, incapsulate l’una nell’altra come scatole cinesi: «un decamerone nero», si potrebbe definire, che tuttavia si stacca dal decorativismo esteriore e gratuito dell’«orrido» romantico per raggiungere l’allucinante suggestione dei grandi simboli indecifrabili. In esso si ritrovano tutti gli elementi del romanticismo nero, banditi e zingare, forche e cabalisti, caverne misteriose e locande malfamate, amori scabrosi e apparizioni diaboliche; ma al lettore attento non potrà sfuggire come tutto questo armamentario tradizionale soggiaccia all’ambivalenza di fondo dell’autore, che, da un lato, sente l’attrazione del magico e anche del macabro, dall’altro il bisogno «illuministico» di liberarsene. In questa tensione intima, una forza visionaria, che crea figure e favole che ci toccano profondamente, si apre la strada in mezzo a situazioni francamente comiche, buffonesche, spesso di puro stampo libertino. Gli effetti sorprendenti che ne derivano, forse anche per l’atmosfera spagnola di cui le storie sono impregnate, richiamano vivo alla nostra mente il nome di Goya, che Potocki conobbe e a cui è attribuito un suo ritratto.

Pu4skin rimase affascinato dal Manoscritto, tanto da cominciarne una traduzione in versi. Ma è solo oggi, dopo la riscoperta di Caillois, che questo libro si è rivelato a noi come un anello dei più preziosi in quella catena di narrativa che, partendo dalle Mille e una notte di Galland, e passando per il Vathek di Beckford, arriva alle sfrenate fantasie di Hoffmann e alla letteratura onirica dei nostri giorni.

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Prefazione

Discendente di un’illustre famiglia polacca, contemporaneo di grandi avvenimenti, cui talvolta prese anche parte direttamente, il conte Jan Poto-cki (1761-1815) acquista durante la sua vita una strana reputazione di eccentrico e di erudito. Sale in pallone con l’aeronauta Blanchard, impresa di minore importanza ma di maggior eco che non quella di annotare, per primo, il linguaggio segreto dei principi circassi durante le loro riunioni liturgiche. Frequenta i salotti parigini d’avanguardia e in seguito si lega coi Giacobini.

Fonda una stamperia e si dichiara contrario alla monarchia ereditaria, mentre poi scrive una farsa in cui ridicolizza i democratici. Viaggia dal Marocco fino ai confini della Mongolia.

Combatte contro i Russi e diventa consigliere privato dello zar Alessandro I. E’ uno dei fondatori dell’archeologia slava e, prima di darsi una morte orribile, porta a termine un lungo romanzo pieno di estro che lascia quasi completamente inedito. L’opera, scritta in francese, come del resto tutte le altre sue, rimane praticamente sconosciuta. Tanto più facile è il plagiarla. A Parigi essa diventa oggetto di un processo clamoroso.

Il manoscritto originale è perduto, ma la traduzione polacca, apparsa nel 1847 e ristampata più volte, diventa quasi un classico di quella letteratura, poco letto, del resto, come molti classici. Più di un secolo dopo, nel 1958, in seguito a una circostanza quanto mai fortuita, la prima parte dell’opera, intitolata «Manoscritto trovato a Saragozza», viene ritrovata e pubblicata nella sua lingua originale. Per lo stile e per il contenuto si può ritenere un autentico capolavoro. La letteratura francese se ne trova improvvisamente arricchita, come, del resto, la letteratura fantastica del mondo intero, di cui questo testo, indipendentemente dai suoi altri meriti, costituisce un esempio tra i più alti. Vale la pena di esaminare più da vicino la carriera di un uomo e il destino di un’opera ugualmente straordinari.

Jan Potocki è nato l’8 marzo 1761. Egli compie degli studi seri prima in Polonia, poi a Ginevra e a Losanna. Viaggia in Italia e si spinge fino in Sicilia. In quel tempo s’interessa alla matematica e alle scienze naturali, ma ben presto è attirato dalla storia, in cui egli finirà per trovare la propria vera vocazione. Per alcuni anni, tuttavia, si dedica al mestiere delle armi. Nel 1779, di passaggio a Malta, dà la caccia ai pirati barbareschi sui vascelli dell’Ordine.

Nel 1780 si comincia la pubblicazione, a cura di Naruszewicz, della «Histoire de la Nation polonaise». A causa della scarsità di fonti e di documenti l’opera manca del primo volume, quello che dovrebbe trattare delle origini. Potocki decide allora di raccogliere il materiale necessario per trarre dall’oblio quel passato sconosciuto, inaccessibile forse, in ogni caso sepolto sotto i sedimenti confusi di una storia intricata. Una fatica immensa, ostinata, feconda. La sua perseveranza mette capo alla pubblicazione di molte opere erudite che sono all’origine dell’archeologia slava e la cui pubblicazione avviene fra il 1789 e il 1810.

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Gli studi eruditi non impediscono a Potocki di indulgere al suo gusto per i viaggi. Visita di nuovo l’Italia, poi la Tunisia, la Spagna, più tardi la Turchia, la Grecia e l’Egitto, poi l’Illiria e la Lusazia. Dal 1785 al 1787 si stabilisce a Parigi dove, in un’ala del Palais-Royal, risiede la madre di sua moglie, la principessa Elisabeth Lubomirska, amica della principessa de Lamballe e della quale Marmontel diceva che conosceva la lingua francese meglio dei tre quarti dei membri dell’«Institut». Potocki lavora nelle biblioteche e nello stesso tempo frequenta la società. Discute di filosofia nel salotto di Mme Helvétius e si lega di amicizia con Volney, il pessimismo e il fatalismo del quale lo seducono in ugual misura. E’ ormai conquistato dalla filosofia dei lumi e ad essa rimane fedele. Pare tuttavia che egli abbia frequentato anche la confraternita dei «Lanturlerus», che predica uno spiritualismo sincretico e, cosa bizzarra, conta tra i suoi membri il futuro zar Paolo I e il futuro martire della Rivoluzione, Lepeletier de Saint-Fargeau. Comunque sia, partigiano deciso di Diderot, di Holbach, di Helvétius e di La Mettrie, egli è sedotto dalle idee progressiste allora in voga. Raggiunge i Paesi Bassi in rivolta contro lo «Stathouder». Lì assiste all’annientamento delle milizie borghesi ad opera dell’armata prussiana. Potocki ne trae una diffidenza tenace verso la Prussia, che considera come l’incarnazione nefasta delle forze reazionarie. Il suo amico Klaproth scriverà più tardi:

«Nato in Polonia, il conte Poto-cki doveva essere seguace, nella sua giovinezza, di quella libertà che è sempre in pericolo quando se ne parla troppo. Era, in lui, un sentimento onorevole, come lo è in tutti coloro che non cercano di far carriera parlando continuamente di libertà. Sembra che in occasione di un viaggio che egli fece in Olanda nel 1787, durante la rivoluzione contro lo «Stathouder», lo spettacolo del furore popolare abbia singolarmente diminuito il suo entusiasmo per la libertà dei popoli e per la felicità che questa riversa sul genere umano».

E’ possibile che l’età abbia temperato l’entusiasmo del giovane fautore delle idee nuove, ma niente permette di supporre che il suo soggiorno ad Amsterdam gli abbia fatto cambiare opinione. Egli rientra precipitosamente in Polonia per farsi eleggere alla Grande Dieta come deputato della Posnania, provincia che egli ha scelto perché non vi possiede terre. Vuole che la sua elezione sia dovuta soltanto al proprio merito. In realtà, solo i nobili hanno il diritto di voto e il suo nome è illustre in tutto il paese.

Potocki denuncia il pericolo prussiano e indirizza al re Stanislao-Augusto un memoriale in cui sottolinea l’importanza delle frontiere occidentali e la necessità di vigilare attentamente alla loro intangibilità. Si dichiara in favore di una tassa volontaria destinata ad accrescere le forze armate del paese, e vi contribuisce con un quinto delle proprie rendite personali.

Nello stesso tempo chiede alla Dieta l’abolizione della servitù e la partecipazione del Terzo Stato. Fa parte della Commissione dell’Educazione Nazionale: a lui si attribuisce l’introduzione dell’insegnamento obbligatorio della storia dell’Oriente persino nelle scuole di grado inferiore. Poiché la censura e la timidezza degli stampatori non gli permettono di pubblicare i suoi progetti e i suoi libelli, impianta in

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casa sua una «Stamperia Libera» («Wolny Dnukarnia») dove pubblica opuscoli liberali, anticlericali, rivoluzionari, tra cui una specie di manuale della guerra clandestina destinato ai franchi tiratori e ai partigiani. Disegna perfino la loro futura uniforme, che, all’occasione, indossa egli stesso.

Intitola l’opuscolo con la formula del «senatus consultus» con cui i dittatori, a Roma, prendevano possesso della loro carica: «Ne quid detrimenti res publica capiat».

Nel 1789 per mezzo di quella stessa «Stamperia Libera», ripubblica il suo «Voyage en Turquie et en Egypte fait en l’année 1784», già stampato a Parigi nel 1788, poi i due volumi del suo «Essai sur l’Histoire universelle et Recherches sur la Sarmatie».

Un’impresa l’ha, intanto, reso celebre. Nel luglio 1788, Stanislao-Augusto ha invitato a Varsavia l’aeronauta Jean-Pierre-François Blanchard. Queste prime ascensioni sono molto pericolose: nel 1784 Pilâtre du Rozier era perito insieme col suo passeggero nel pallone in fiamme. Ma tutta l’Europa si appassiona a questi primi tentativi di conquista del cielo. Blanchard ha aggiunto alla navicella del suo pallone delle velature mobili e un’elica verticale. Potocki vi prende posto insieme con un servo turco, che desidera seguirlo, e con un barboncino. Il pallone resta in aria per circa un’ora, poi atterra a Wola, non lontano da Varsavia. Potocki aveva avuto il tempo di fare alcune osservazioni sui venti. Dei cavalieri vanno incontro agli aeronauti per portarli in trionfo alla capitale. Il re fa coniare all’Hôtel des Monnaies una medaglia commemorativa. Potocki è l’eroe del giorno.

Nel 1791 va in Marocco, poi in Portogallo e in Spagna. E’ costretto a sostare a Tangeri, che una squadra di navi spagnole bombarda per rappresaglia in seguito a un’incursione barbaresca sulle coste di Andalusia. Il sultano Mulay-Yesid lo riceve come una specie di ambasciatore ufficioso. Potocki si interessa in egual modo ai costumi della popolazione a agli intrighi della corte. Egli annota ogni particolare, ne esamina la ragion d’essere e le conseguenze.

Al ritorno passa dalla Francia. Suo cugino, il principe Alessandro Lubomirski, l’introduce nel «club» dei Giacobini, dove egli prende la parola; si acclama il «cittadino-conte», che porta ai rivoluzionari parigini il saluto dei popoli emancipati. E’ ricevuto da Condorcet e da La Fayette. Stringe rapporti con Talma. Assiste a molte sedute dell’Assemblea legislativa. Nell’insieme, egli appare come un testimone, volta a volta entusiasta e inquieto, degli sviluppi di una trasformazione da lui tanto auspicata qualche anno prima. Dopo un giro in Inghilterra, rientra in Polonia, accompagnato da un ex combattente della guerra di Indipendenza americana, di nome Mazzei, agente a Parigi di Stanislao-Augusto, e ben presto ritenuto agente in Polonia dei «club» parigini.

Pare ormai che le idee di Potocki abbiano subìto un profondo mutamento. Egli scrive infatti: «Addio, belle speranze dell’anno scorso! La libertà sopravviverà, ma per quel che riguarda la felicità pubblica, questa generazione non può che dirle addio...».

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Di nuovo in patria, mentre si stampa una parte delle sue memorie e riflessioni sotto il titolo di «Voyage dans l’Empire du Maroc» (volume tirato in cento esemplari soltanto, come tutte le sue opere), egli partecipa in qualità di capitano del genio, e agli ordini del fratello Sévérin, a una sfortunata campagna, fomentata e sostenuta dalla Russia, contro la confederazione di Targovica. La campagna dura due mesi. Potocki scrive a Stanislao-Augusto che quelle battaglie non sono state che un «omaggio reso alle leggi dell’onore militare».

Nell’agosto del 1792 raggiunge la moglie nel castello di Lancut, presso la principessa Lubomirska. Il castello è pieno di emigrati francesi, tra i quali il vescovo di Laon, Louis-Hector de Sabran.

Sono feste, giochi e ricevimenti continui, passeggiate in gondola, balli e rappresentazioni teatrali in cui ospiti e invitati si distribuiscono le parti. Si supplica Jan Potocki di rinnovare il repertorio. Rifacendosi agli spettacoli visti in Italia, che continuano la tradizione della Commedia dell’arte, scrive (in francese, naturalmente) sei canovacci o «parades» che egli stesso qualifica come stravaganze drammatiche e nelle quali manifesta una vena burlesca di tono stranamente moderno. Una di esse è una parodia piuttosto licenziosa delle opere teatrali che Mme de Genlis aveva composto poco tempo prima per il divertimento e l’edificazione delle fanciulle di famiglia nobile. In un’altra «Cassandre démocrate», si prende gioco della fraseologia degli oratori rivoluzionari, che pare abbiano deluso Potocki durante il suo secondo soggiorno a Parigi.

L’anno successivo, il 1793, egli pubblica queste «Parades» dedicandole a sua cognata, nata principessa Sapieha, che ne aveva interpretato le parti principali. Queste rappresentazioni hanno molto successo. Il principe Enrico di Prussia chiede all’autore di scrivere qualcosa per le truppe francesi che egli ospita nella sua residenza di Rheinsberg. Potocki scrive una «commedia mescolata a canzonette, in due atti e in versi», «Les Bohémiens d’Andalousie» (1794). Essa non aggiunge niente alla sua gloria.

Non si tratta che di divertimenti, di intermezzi senza importanza che a malapena lo distraggono dai suoi lavori scientifici. L’anno dopo, Potocki pubblica ad Amburgo il «Voyage dans quelques Parties de la Basse-Saxe pour la Recherche des Antiquités slaves ou vendes, fait en 1794 par le comte Jan Potocki». A Vienna, nel 1796, pubblica un «Mémoire sur un nouveau Péryple [sic] du Pont-Euxin, ainsi que sur la plus ancienne Histoire des Peuples du Taurus, du Caucase et de la Scythie». Lo stesso anno, a Brunswick, pubblica in quattro volumi dei «fragments historiques et géographiques sur la Scythie, la Sarmatie et les Slaves».

Nel 1797 e nel 1798, viaggia in Ucraina e nel Caucaso per raccogliere sul posto la documentazione di cui ha bisogno per la sua grande opera. Questa vede la luce a Pietroburgo nel 1802. Dedicata ad Alessandro I, e una «Histoire primitive des Peuples de la Russie, avec une Exposition complète de toutes les Notions locales, nationales et traditionnelles necessaires à l’Intelligence du quatrième Livre d’Hérodote».

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Il titolo indica chiaramente quale sia il proposito essenziale dell’autore: spiegare il presente mediante il passato e viceversa.

Insieme etnografo, archeologo, geografo, filologo, Potocki mette a raffronto la lingua, i costumi, le istituzioni dei popoli che studia con i dati che trova negli scrittori antichi. Ha una memoria sorprendente: quando si imbatte in un uso strano, lo ricollega immediatamente a un costume simile di cui ha letto la descrizione in qualche autore greco o latino. Darò un esempio di questo metodo, che, in seguito, doveva rivelarsi così utile per gli storici delle religioni:

«Verso i primi giorni di settembre, ogni principe circasso lascia la propria casa, si ritira su qualche montagna o nel cuore di una foresta e vi costruisce una capanna di frasche. Lo seguono i suoi gentiluomini fidati, mentre nessun membro della famiglia osa avvicinarsi, neppure un fratello. Tutti quanti sono mascherati: hanno cioè il viso coperto, e non parlano circasso ma un certo dialetto che si chiama «chakobza». Là si recano gli amici segreti del principe che hanno rubato e rapinato insieme a lui, di qualunque nazione essi siano, Misdieghi, Osseti, ecc’; anche loro sono mascherati, perché potrebbero incontrare persone con le quali sono in rapporti di vendetta e che li assassinerebbero. Solo il principe li conosce tutti, ed egli è il centro di tutti i misteri. Questo ritiro dura sei settimane, durante le quali piccoli gruppi di persone mascherate si allontanano per andare a rubare nei dintorni, e poiché tutti stanno bene in guardia, ci sono molti morti e feriti, anche tra i principi; essi, infatti, non si fanno riconoscere, altrimenti sarebbero risparmiati. Io conosco già molte parole del dialetto «chakobza» e mi propongo di completare il mio vocabolario a Georgievsk, dove mi è stato indicato qualcuno che ne ha la chiave. Nel dialogo di Luciano intitolato «Gli Sciti, o dell’Amicizia», ci sono cose che hanno un rapporto evidente con quest’uso circasso, e mi dispiace molto di non avere il mio Luciano con me». (1)

Quali che siano i loro meriti, le opere di Potocki non incontrano il successo che ci si poteva aspettare. Non ne viene riconosciuta l’originalità e si finge di vedere in lui soltanto un gran signore che si occupa di tutto da dilettante e che per capriccio va a smarrirsi nell’erudizione. Il suo lavoro sulle antichità slave non viene accettato come primo volume dell’opera di Naruszewicz.

L’«His-toire primitive» è vivamente criticata, e Potocki non entra, come era sua speranza e ambizione, all’Accademia Imperiale delle Scienze.

Alessandro I lo nomina tuttavia consigliere privato e lo decora dell’ordine di san Vladimiro: magra e paradossale consolazione per un uomo che ha sacrificato allo studio la carriera e gli onori, ai quali la nascita e il talento lo destinavano.

Nel 1803, Potocki si reca in Italia, dove resta fino alla primavera dell’anno successivo. Lo interessa determinare la cronologia dell’Oriente antico: egli cerca di stabilire delle corrispondenze tra le date della storia egiziana, della Bibbia, della storia assira e della più antica storia greca. A Roma entra in relazione con il cardinale Borgia e con l’egittologo Jörgen Zoëga, console generale di Danimarca.

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Nel 1804, Potocki pubblica a Pietroburgo un’opera sulla Crimea, la «Histoire ancienne du Gouvernement de Kherson»; l’anno successivo una «Histoire ancienne du Gouvernement de Podolie» e una «Chronologie des deux premiers Livres de Manethon». (2) Egli però desidera estendere le sue tavole sinottiche all’Estremo Oriente, in particolare alla Cina. Grazie all’influenza del principe Adam Czartoryski, ministro degli Affari esteri dello zar, è nominato capo della missione scientifica al seguito dell’ambasceria del conte Golovkin. Partita nel maggio 1805, la spedizione non riesce a raggiungere Pechino ma soltanto le frontiere della Cina, che oltrepassa di poco.

In origine l’ambasceria doveva contare 240 persone. I Cinesi, che avevano voluto limitare il numero dei partecipanti a 90, ne accettarono alla fine 124. Credono di ricevere dei vassalli e pretendono le nove genuflessioni di rito davanti al Figlio del Cielo.

Dopo lunghi negoziati, l’ambasceria oltrepassa finalmente la frontiera della Mongolia il 18 dicembre, e con 28 gradi sotto zero si dirige verso Urga, oggi Ulan-Bator. Il tè gela nelle tazze e i fuochi d’artificio non riscaldano nessuno. Le questioni di etichetta ricominciano. Il Prefetto cinese, che doveva scortare i Russi fino a Pechino, chiede a Golovkin di scoprirsi davanti alle fiaccole che rappresentano l’Imperatore e accetta i regali offertigli soltanto come il tributo di un popolo sottomesso. La rottura non tarda a prodursi: i Cinesi restituiscono ai Russi i loro regali, accompagnandoli con una lettera insolente. I Russi rifiutano di riprenderli e li buttano fuori dal campo. Dopo undici giorni di marcia, l’ambasceria rientra in territorio siberiano dove i Cinesi, a loro volta, depositano i regali che per nessun motivo vogliono conservare.

Personalmente Potocki non ha partecipato a quelle dispute in cui ciascuna delle due parti trova l’altra stravagante, illogica, testarda e piena di intollerabili pretese. Ma egli analizza magistralmente le cause dei malintesi nel rapporto che manda a Czartoryski, e che è stato ritrovato recentemente negli archivi di famiglia. Deplora particolarmente la presunzione e la mancanza d’informazione dell’ambasciatore di Alessandro; non cessa di ripetere quanto si debba rimpiangere, nel caso particolare, che i diplomatici non abbiano letto i rapporti dei missionari; soprattutto, sottolinea l’importanza della differenza di mentalità e di sistema di governo.

Più tardi redigerà pure un memoriale per il Dipartimento asiatico di Pietroburgo, dove insisterà sull’avvenire economico della Siberia. Ne riporta, intanto, molti oggetti, vasi e bronzi destinati a ornare il castello di Lancut.

Poco tempo dopo Czartorysky lascia il ministero. Privato ormai della sua protezione, Potocki abbandona Pietroburgo e si stabilisce in Ucraina, vicino a Tulczyn, dove ha il piacere di incontrare il vecchio poeta Trembecki. Nel 1810, pubblica a Pietroburgo i «Principes de Chronologie pour les Temps antérieurs aux Olympiades», (3) poi un «Atlas archéologique de la Russie européenne»; infine, nel 1811, una «Description de la nouvelle Machine pour battre la Monnaie».

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Nel 1812, si ritira nella sua proprietà di Uladowka, in Podolia, da cui non esce se non per lavorare nella biblioteca di Krzemieniec. E’ nevrastenico, in preda a frequenti depressioni, e soffre inoltre di dolorosissime nevralgie. Durante questi accessi di malinconia, egli lima la palla d’argento che sormonta il coperchio della sua teiera.

Il 20 novembre 1815, la palla ha le dimensioni volute. Dopo averla fatta benedire dal cappellano del castello, la introduce nella canna della sua pistola e si fa saltare le cervella.

Nel 1818 Klaproth, che l’aveva accompagnato in Mongolia, fu incaricato di disegnare una carta dell’Impero cinese. Egli si accorse che un arcipelago del Mar Giallo, nella baia di Corea, non era mai stato registrato: si tratta di una ventina di isole del Liaotung situate fra il 39o e il 40o grado di latitudine nord e tra il 120o e il 121o grado di longitudine est. Per onorare la memoria del dotto che fu suo protettore, egli le chiama Isole Potocki. Ultima ironia della sorte, la denominazione non è stata riportata negli atlanti moderni.

Tale è la carriera ufficiale del conte Jan Potocki. Il giorno del suicidio, la sua carriera segreta era appena iniziata. Essa risale senza dubbio al 1803. Prima di partire per la Cina nel maggio 1805, Potocki fece stampare a Pietroburgo l’inizio di un romanzo misterioso che rimase allo stato di bozze. Una prima serie di fogli finisce alla pagina 158, in fondo alla quale si legge: «Fin du premier Décaméron», e sotto: «Copié à 100 exemplaires». Il testo della seconda serie è bruscamente interrotto a metà di una frase, alla fine della pagina

48. La frase doveva continuare sulla pagina 49 con cui iniziava il tredicesimo foglio di stampa, che senza dubbio non fu mai stampato, come del resto i fogli successivi.

Si tratta di una serie di novelle suddivise in «giornate», come negli antichi «decameroni» o «eptameroni», e legate tra loro da un filo piuttosto debole. Il testo è interrotto durante il racconto della tredicesima «giornata».

Di questa opera ho avuto tra le mani due esemplari. Il primo è conservato alla biblioteca di Leningrado col numero di catalogo 6’11’224. Si compone di due serie di fogli rilegate insieme. Sul dorso della rilegatura c’e una sola parola su due righe: «Potockiana». All’interno del libro, sul verso della copertina, è incollata una striscia di carta con l’indicazione manoscritta seguente:

«Il conte Jean Potocki ha fatto stampare questi fogli a Pietroburgo nel 1805, poco prima della sua partenza per la Mongolia (al tempo dell’invio di un’ambasceria in Cina), senza titolo né fine, riservandosi di continuare o meno in seguito, quando la sua fantasia, a cui ha dato libero corso in quest’opera, lo invitasse a farlo».

Il secondo esemplare contiene soltanto la prima serie di fogli. Lo si trova alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Rilegato in marocchino rosso, porta sul taglio l’indicazione: «Premier Décaméron». La collocazione è 4o Y2 3 059. Il titolo è scritto a penna sul risguardo: «[His-toire d’]Alphonse van Worden [ou] [tirée d’un]

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manuscrit trouvé à Saragosse». (4) Sotto, a matita, figura il nome dell’autore: Potocki Jean. Il testo stampato non va oltre la pagina 156. Le ultime due sono ricopiate a penna. Manca la seconda serie di fogli. Il testo comporta numerose correzioni a matita, la maggior parte solo tipografiche. Altre propongono veri cambiamenti di stile.

Sul riguardo è incollato un frammento di bozza in colonna, sul retro del quale si decifra una nota manoscritta assai interessante e su cui dovrò ritornare.

Al ritorno dalla Mongolia, nel 1806, Potocki non continua la stampa del romanzo. Parecchi esemplari delle bozze circolano già nei salotti letterari di Pietroburgo. Nel 1809 Friedrich Adelung, ex direttore del teatro tedesco di Pietroburgo, pubblica a Lipsia una traduzione tedesca di questa prima parte col titolo: «Abentheuer in der Sierra Morena, aus den Papieren des Grafen von X’X’X’ I’ Band». La fama dell’opera non cessa di crescere. Sembra a questo punto che Potocki permetta che sia fatta una copia del seguito del romanzo. Resta il fatto che una seconda parte dell’opera viene pubblicata a Parigi nel 1813 da Gide figlio, rue Colbert n’ 2, vicino alla rue Vivienne, e H’ Nicolle, rue de Seine n’ 12. Comprende quattro sottili volumi in 12o con il titolo: «Avadoro, Histoire espagnole», di M’L’C’J’ P’, cioè di M’ Le Comte Jan Potocki. Racconta, intrecciandole, le avventure capitate al capo di una tribù di zingari e quelle che a lui vengono narrate. Sostanzialmente è il seguito del testo di Pietroburgo, di cui riprende le due ultime «giornate» nelle quali il capo degli zingari appariva già: il nuovo romanzo inizia alla sua entrata in scena, cioè con la dodicesima «giornata».

Pubblicate in tre volumi l’anno seguente, nello stesso formato, dallo stesso Gide figlio, questa volta rue Saint-Marc n’ 20, «Les Dix Journées de la Vie d’Alphonse van Worden» riproducono il testo stampato a Pietroburgo, a parte qualche ritocco; mancano tuttavia le «giornate» 12 e 13, che erano state appena ristampate in «Avadoro», e la «giornata» 11, tolta senza dubbio perché contiene soltanto due storie conosciute, l’una tratta da Filostrato, l’altra da Plinio il Giovane. (5) In compenso, l’opera termina con un episodio ancora inedito, la «Storia di Rebecca», che corrisponde alla «giornata» 14 del testo integrale.

Si ignora se queste due edizioni siano apparse col consenso, per iniziativa o sotto il controllo dell’autore. In ogni caso il testo presenta numerose sviste ed è amputato degli intermezzi sensuali, così caratteristici dell’opera. Il manoscritto originale non fu ritrovato, e ciò nonostante le ricerche che la contessa Edling intraprese su preghiera di Puskin il quale possedeva le due edizioni parigine e ammirava molto l’elemento pittoresco e fantastico dell’opera. Puskin cominciò anche a mettere in versi, in russo, le «Dix Journées de la Vie d’Alphonse van Worden». Di questo progetto abbandonato rimane un breve frammento di una cinquantina di versi.

Anche Mickiewicz e Slowacki conobbero l’opera e l’apprezzarono.

Nel 1822, Charles Nodier pubblica a Parigi, presso Samson e Nadau, con le sue iniziali, un volumetto di storie di fantasmi intitolato «Infernaliana». Da pagina 95 a pagina 111 vi figurano le «Aventures de Thibaud de La Jacquière», che riproducono,

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riassumendolo e qualche volta semplificandolo, il testo della decima «giornata» del romanzo di Potocki, senza fare tuttavia alcun riferimento alla fonte. E’ invece da notare come Poto-cki citi la fonte del proprio racconto: le «Relations curieuses de Hapelius», cioè una opera dell’erudito Eberhard Werner Happel (1647-1690). In realtà, l’episodio si trovava già in «Les Histoires mémorables ou tragiques de ce temps par François de Rosset» (1619). Il confronto dei testi non lascia tuttavia il minimo dubbio: è il racconto di Potocki che Nodier ha utilizzato.

Nel 1829 viene pubblicata a Parigi, in due volumi, una scelta delle opere erudite di Potocki curata da Klaproth, «Membro delle società asiatiche di Parigi, Londra e Bombay», (6) lo stesso che nel 1805 aveva accompagnato Potocki da Kazan fino alle frontiere della Mongolia. Questa pubblicazione, che contiene una bibliografia delle opere erudite di Poto-cki, menziona alla fine il «Manoscritto trovato a Saragozza», «Avadoro» e «Alphonse van Worden» con le seguenti osservazioni:

«Oltre alle opere erudite, il conte Jean Potocki ha anche scritto un romanzo molto interessante, di cui sono state pubblicate soltanto alcune parti; ha per soggetto le avventure di un gentiluomo spagnolo discendente dei Gomelez, e quindi di estrazione mora. In quest’opera l’autore dipinge alla perfezione i costumi degli Spagnoli, dei Mussulmani, e dei Siciliani; i caratteri sono delineati con grande verità; in una parola, è uno dei libri più attraenti che siano mai stati scritti. Sfortunatamente ne esistono soltanto alcune copie manoscritte. Quella che fu inviata a Parigi per esservi pubblicata, è rimasta tra le mani della persona incaricata di rivederla prima della stampa. C’è da augurarsi che una delle cinque, che io so esistere in Russia e in Polonia, veda presto o tardi la luce, perché è un libro che, non diversamente da «Don Chisciotte» e «Gil Blas», non invecchierà mai».

Il plagio di Nodier in «Infernaliana» non fu l’ultimo. Nel 1834-35 un poligrafo di nome Maurice Cousin pubblica, con lo pseudonimo di conte de Courchamps, dei cosiddetti «Souvenirs de la Marquise de Créquy». Per dare un saggio delle memorie, non meno apocrife, di Cagliostro, egli vi trascrive parola per parola (t’ Iii, pp’ 323-59) «La storia di Giulio Romati e della Principessa di Monte-Salerno», contenuta nella tredicesima «giornata» del romanzo di Poto-cki, intitolandola «Le Paradis sur Terre». Ma Courchamps, ormai che si è messo su questa strada, ci prende gusto. A partire dall’ottobre 1841 egli pubblica a puntate nel giornale «La Presse» una serie di testi che presenta come estratti dalle memorie inedite di Cagliostro: il primo racconto, «Le Val funeste», non è che la copia esatta delle «Dix Journées de la Vie d’Alphonse van Worden»; il secondo, «Histoire de Don Benito d’Almusenar», quella non meno fedele di «Avadoro». Il 13 ottobre 1841, «Le National» denuncia il plagio. Per provarlo, questo giornale avverte i lettori che il giorno dopo lo stesso testo sarebbe apparso sia su «Le National» sia su «La Presse». Cosí infatti avviene: «La Presse» lo stampa dal manoscritto fornito da Courchamps e «Le National» traendolo dall’edizione parigina firmata M’L’C’J’P’.

Tutti possono constatare che il testo di Courchamps segue parola per parola quello di Potocki, eccezion fatta per alcune espressioni come, ad esempio, «bouches collées

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dans un baiser» o «succubes», censurate, dice «Le National» del 4 febbraio 1842, «per non allarmare il pudore del visconte Delaunay». Courchamps replica dicendo di aver avuto fra le mani gli originali fin dal 1810, e di averli prestati, alla fine di quello stesso anno, a un nobile polacco, il conte di Paç...; da ciò le iniziali M’L’C’J’P’. Egli può così affermare che «alcuni di quegli aneddoti sono stati pubblicati «illecitamente» venti anni fa».

Pretende, in una parola, di essere stato lui il derubato, facendo inoltre notare che «il nome di un conte Potocki non è mai figurato su nessuna di quelle pubblicazioni». «La Presse», che pagava a Courchamps cento franchi a puntata per un testo inedito, provata la truffa, gli intenta un processo e reclama venticinquemila franchi di danni. A questo processo, che fece molto scalpore e in cui Courchamps fu difeso da Berryer, Léon Duval, che è l’avvocato di «La Presse», esibisce un esemplare delle bozze stampate a Pietroburgo nel 1805 con un disegno e una dedica manoscritta di Potocki al suo amico, generale Sénovert. Courchamps viene svergognato. (7)

Chi aveva denunciato su «Le National» il plagio di Courchamps era stato Stahl, grande amico della famiglia Nodier. Ho già detto che sull’esemplare delle bozze di Pietroburgo in possesso della Biblioteca Nazionale è incollata una nota manoscritta. La riporto qui sotto (le parole tra parentesi quadre sono biffate nell’originale): «Non si può forse supporre che [il conte P’] [sia Nodier] che [il] sia Nodier che Klaproth ha voluto designare, nel 1829, come la persona [fra le mani della quale il] incaricata di rivedere prima della stampa il «Manuscrit trouvé a Saragosse» e tra le cui mani è rimasta la copia manoscritta? E [non sarà Nodier che con il consen...] non è probabile [che detentore] che avendo fra le mani [un man...] l’opera del conte Jean Poto-cki, abbia pensato di trarne il maggior prodotto possibile, letterariamente e finanziariamente parlando? Ma non è meno sorprendente che egli abbia ritenuto di dover mantenere il silenzio al tempo dello scandaloso processo intentato al conte de Courchamps che [due parole cancellate e illeggibili] aveva creduto di poter pubblicare nel... il Giorn’ «La Presse» nel 1841-1842, dapprima con il titolo di «Le Val funeste», poi con quello di «Hist’ de don Benito d’Almusenar», alcuni cosiddetti estratti dei «Mémoires inédits de Cagliostro» i quali non erano altro che la riproduzione di «Avadoro» e delle «Journées de la Vie d’Alphonse van Worden».

Questo «Val funeste» era un furto manifesto. Nodier, che è m’ soltanto nel 1844 avrebbe potuto illuminare la giustizia a questo riguardo e invece se n’è stato zitto [quattro parole cancellate e illeggibili]».

Sull’esemplare è impresso un timbro in rosso con la scritta: «dono n’ 2693». Questo numero d’ordine corrisponde a un dono fatto il 6 agosto 1889 da Mme Bourgeois, nata Barbier. E’ quindi molto probabile che l’accusatore di Nodier sia Antoine-Alexandre Barbier, l’autore del «Dictionnaire des Anonymes», il quale infatti attribuisce a Potocki «Avadoro» e «Van Worden».

Nel 1866, in «Enigmes et Découvertes bibliographiques», Paul Lacroix, contro ogni evidenza, contesta a Potocki tale paternità.

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Egli è persuaso che Barbier si sia lasciato sviare da false informazioni e che alcune «circostanze particolari» abbiano impedito a Charles Nodier di rivendicare come suoi «Alphonse van Worden» e «Avadoro». In quanto a lui, a suo tempo non aveva esitato, fondandosi su pure ragioni stilistiche, ad attribuire a Nodier le due opere. Ora ha la prova di non essersi sbagliato:

«Ebbene! Sedici anni fa avevo indovinato giusto. Charles Nodier è realmente il solo autore di «Avadoro» e delle «Dix Journées de la Vie d’Alphonse van Worden»: esiste il manoscritto autografo; è qui sotto i miei occhi... Avviso al futuro editore delle opere complete del nostro amico Charles Nodier».

Rimane il fatto che questo misterioso manoscritto, sul quale Lacroix non ci dà alcun particolare e che oggi costituirebbe una terribile prova contro Nodier, non poteva affatto essere di mano di quest’ultimo.

L’anno dopo, Auguste Ladrague, bibliotecario del conte Uvarov, pubblica in «Le Bibliophile belge» (Bruxelles 1867, pp’ 290-94) un articolo in cui, rifacendosi alla bibliografia russa di Storch e Adelung (Pietroburgo 1810), descrive l’edizione del 1805, che vi figura sotto il numero 508, e precisa che il manoscritto è costituito da quattro tomi. Anche lui suppone che sia stato Nodier a occuparsi di far uscire «Avadoro» e «Van Worden». L’enigma rimane.

Se non altro, il processo del 1842 ha attirato l’attenzione sull’opera di Potocki. Nel 1855 Washington Irving, nella sua raccolta «Wolfert’s Roost and Other Stories», introduce un racconto, «The Grand Prior of Malta», che è una pura e semplice traduzione della «Storia del Commendatore di Toralva» quale appare in «Avadoro». Nel racconto che precede «The Grand Prior of Malta», Irving spiega di aver sentito narrare la storia successiva da un certo cavaliere L...,

(8) ma che, avendo perduto i suoi appunti, ha ritrovato più tardi una storia analoga in alcune memorie francesi pubblicate sotto il nome e l’autorità del grande avventuriero Cagliostro. In campagna, durante una giornata di neve, egli si è divertito a tradurla in inglese «per un gruppo di giovani riuniti intorno all’albero di Natale». ****** Citando Cagliostro, Irving ci dà la prova di aver trovato in «La Presse» il testo di cui ha fatto uso. Probabilmente non ha mai saputo che, così facendo, si appropriava delle pagine scritte da un gran signore polacco morto da molto tempo. Possiamo perdonare a Irving una traduzione che, d’altronde, egli presenta come tale, anche se poi lascia credere che si tratti di un’astuzia di scrittore per accreditare un’opera di fantasia.

Al tempo del processo di Courchamps viveva a Parigi un emigrato polacco, Edmund Chojecki, che collaborava a vari giornali francesi sotto lo pseudonimo di Charles Edmond. Costui ebbe tra le mani la copia integrale del romanzo inviata a Parigi a un misterioso destinatario, e la tradusse in polacco. Nel 1847 la sua traduzione esce a Lipsia in sei volumi col titolo «Rckopis Znaleziony w Saragossie», cioè «Manoscritto trovato a Saragozza», titolo che sembrava esser stato quello preferito da Poto-cki e di cui, del resto, egli dà una spiegazione nell’«Avvertenza». Questa, certamente posteriore al 1809, data della spedizione francese in Spagna,

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appare nell’edizione parigina delle «Dix Journées» del 1814. In una lettera, Potocki chiama il suo romanzo «Journées espagnoles»; Stanislas Potocki lo chiama «Au Milieu des Pendus»; Pierre Wiaziemski, Puskin e la contessa Edling lo indicano con il titolo «Les trois Pendus», con evidente allusione ai macabri episodi delle prime «giornate».

La traduzione di Chojecki fu ristampata nel 1857, preceduta da una biografia dell’autore, poi nel 1863 a Bruxelles, nel 1917 da Lorentowicz nella sua collana «Les Muses», e infine nel 1950 a Varsavia. Leszek Kukulski ne curò un’edizione critica nel 1956, accompagnata da uno studio e da note. Egli mette a raffronto la versione polacca col testo francese e dà alcuni esempi dei numerosi cambiamenti fatti dal traduttore, il quale pare si sia preso delle grandi libertà con l’originale.

L’opera, quale ci è dato di leggere nella traduzione di Chojecki, comprende un’«avvertenza», sessantasei «giornate» (che nella prima redazione sembra siano state soltanto sessanta) e una conclusione.

Una serie di storie, d’ispirazione diversa e che spesso s’intrecciano l’una all’altra, sono raccolte in un’unica cornice. Se si eccettuano le «Parades» - brevi scritti di circostanza – e la commedia del 1794, è la sola opera di fantasia scritta da quest’uomo di scienza, da questo scrupoloso erudito. Sembra che egli vi abbia lavorato per dodici anni, dal 1803 al 1815; non si tratta dunque di un capriccio o di un divertimento senza importanza. Wiaziemski racconta a questo proposito che, essendo la contessa Potocka afflitta da una lunga malattia, il marito prese l’abitudine di leggerle le «Mille e una notte». Quando ebbe finito, la contessa reclamò altre storie dello stesso genere. Pare che allora Poto-cki abbia scritto ogni giorno un capitolo nuovo, che poi leggeva la sera alla convalescente. Ma si tratta soltanto di una leggenda, nata senza dubbio a causa della struttura del romanzo. Quest’opera complessa, in cui si fondono le conoscenze di uno storico appassionato dell’antichità, le riflessioni di un filosofo, i ricordi di un viaggiatore pronto a cogliere il particolare pittoresco o significativo, non può in realtà essere stata scritta alla giornata senza un piano preciso. Sotto la varietà e la libertà fantastica degli episodi si dissimula l’esperienza di una vita intera.

Nelle prime «giornate» il ricorso al fantastico costituisce la particolarità di maggior rilievo. Lo scenario, e i fantasmi che vi compaiono, sono presi in prestito dal «roman noir», ma si ha l’impressione che un genere letterario spesso puerile assuma ad un tratto in queste pagine una densità e una portata nuove, che le pone su un piano del tutto diverso. Queste «giornate», che sono in realtà delle «notti», continuano le «féeries» di Cazotte e preannunziano gli spettri di Hoffmann. Senza dubbio, esse devono qualcosa anche al «Vathek» di Beckford (apparso in traduzione inglese, a Londra, nel 1786 e, nel testo originale francese, a Parigi, l’anno successivo), di cui Potocki è probabilmente venuto a conoscenza in occasione dei suoi soggiorni a Parigi e a Londra del 1791. Per molti aspetti queste «giornate» appartengono ancora al Xviii secolo: le scene galanti, il gusto per l’occultismo, l’immoralità sorridente e

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intelligente, lo stile, infine, di un’elegante asciuttezza, agevole, sobrio e preciso, senza sbavature né eccessi. Per altre particolarità, esse anticipano il romanticismo: annunziano i fremiti nuovi che una diversa sensibilità richiederà ben presto al fascino dell’orrido e del macabro. L’opera segna perciò una tappa decisiva nell’evoluzione del genere.

Le parti pubblicate a Pietroburgo nel 1804-5 presentano tuttavia anche un altro interesse che risiede, se così posso dire, in un’«organizzazione» dell’elemento fantastico del tutto nuova e originale. Come non sentire la singolarità di una struttura romanzesca fondata sulla ripetizione della stessa peripezia? E’ infatti sempre la stessa storia che i personaggi di questo nuovo «Decamerone» si narrano, a mano a mano che le loro avventure li portano a incontrarsi: una situazione sempre identica, riprodotta e moltiplicata come se degli specchi malefici la riflettessero ininterrottamente. La storia, molto varia nei particolari, è sempre quella degli incontri e degli amori di un viaggiatore con due sorelle, le quali lo attirano nel loro letto comune, talvolta da sole, talvolta insieme con la loro madre. Vengono poi le apparizioni, gli scheletri, i castighi soprannaturali.

Nell’edizione del 1814 la natura piuttosto scabrosa di questi episodi è molto diluita. Ma essa appare chiarissima nella versione semiprivata di Pietroburgo. Sono, del resto, storie che non offendono mai il buon gusto, come sapeva scriverle il Settecento, e in cui i gesti più conturbanti sono velati, ma non dissimulati. Le due sorelle sono mussulmane, e ciò permette di attribuire ai costumi dell’«harem» il fatto che esse trovino così naturale dividersi lo stesso uomo, senza per questo rinunciare a divertirsi fra loro. La vera natura delle due donne si rivela a poco a poco, finché esse appaiono quello che sono realmente, cioè delle creature demoniache, dei succubi, o delle entità astrologiche legate alla costellazione dei Gemelli.

L’autore ha saputo variare il suo tema con ammirevole ingegnosità.

L’ossessione prodotta nei suoi stessi personaggi, e poi nel lettore, dalla ripetizione di avventure tra loro simili, crea un forte effetto letterario. Tanto più che all’angoscia di una duplicazione infinità si aggiunge quella di un improvviso intervento del soprannaturale nell’esistenza, fino allora banale, di un eroe intercambiabile.

Il ripetersi identico di uno stesso avvenimento nell’irreversibile tempo umano e un tema che ritorna assai spesso nella letteratura fantastica. Ma non conosco combinazioni tanto ardite, deliberate e sistematiche, dei due poli dell’Inammissibile – l’irruzione dell’insolito assoluto e la ripetizione dell’unico per eccellenza – volte a raggiungere, come qui, un culmine di terrore in cui il prodigio implacabile, ricorrente, aggredisce con le sue armi la stabilità del mondo e si rivela ben presto non più come un miracolo scandaloso, ma come la minaccia di una legge impossibile. Quello che non può avvenire, avviene; quello che può avvenire soltanto una volta, si ripete. E le due cose si compongono dando inizio a una nuova, terribile, specie di regolarità.

In seguito, lo stesso tema ritorna, ossessivo, come nella «Storia del terribile pellegrino Hervas». Altri episodi fanno del «Manoscritto trovato a Saragozza» una specie di florilegio di storie di fantasmi tratte da scrittori dell’antichità, da

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compilazioni medioevali o secentesche, talvolta dal folklore dei paesi visitati da Poto-cki. Ma, a un certo punto del testo, l’atmosfera diventa più picaresca che soprannaturale. I travestiti assumono una parte preponderante: i fantasmi non sono ormai più che dei vivi mascherati.

Tutto si chiarisce alla fine. Qualche ingegnoso artificio spiega il prodigio che prima aveva ispirato terrore. Questo cede il posto alla malizia, il miracolo alla regìa e il fantastico all’illusionismo.

In questa ultima parte dell’opera, Potocki si serve largamente dei suoi viaggi e delle sue capacità di osservazione. L’azione si svolge sia in Egitto, sia a Roma o al Messico e, grazie all’intervento dell’Ebreo errante, risale con facilità il corso del tempo.

Nella sua prefazione al «Manoscritto trovato a Saragozza», Leszek Kukulski, senza disconoscere i meriti dell’autore nel campo del racconto fantastico, vede in lui soprattutto il difensore degli Enciclopedisti contro Chateaubriand. Potocki ha potuto incontrare quest’ultimo, grazie al cardinale Borgia, durante un suo soggiorno a Roma nel 1803-4. In ogni caso, non v’è alcun dubbio che il «Manoscritto» accenna a più riprese a una filosofia della storia che si oppone punto per punto a quella propugnata in «Le Génie du Christianisme». L’opera sarebbe così, secondo questa interpretazione, un trattato polemico, mascherato sotto forma di romanzo: Potocki avrebbe avuto l’intenzione di combattere le tesi di Chateaubriand non tanto da un punto di vista razionalistico quanto mostrando che il cristianesimo non è che un fenomeno storico in mezzo a tanti altri, nato in un’epoca e in un ambiente determinati, col favore di circostanze che ne spiegano la natura e il successo. Insomma, sotto il velo della finzione, Potocki traccerebbe l’abbozzo di un corso di storia comparata delle religioni. E, in verità, la sua vasta erudizione gli permette di individuare numerose analogie fra i dogmi e i riti cristiani, da una parte, e alcune credenze o pratiche più antiche, dall’altra. In particolare, con una rara prescienza, egli intuisce l’importanza di sètte ascetiche come gli Esseni e i Sabei, e noi sappiamo quanto doveva dargli ragione, su questo punto, la recente scoperta dei manoscritti del Mar Morto. Dal punto di vista filosofico, Hervas, l’onnisciente empio, padre del pellegrino maledetto, non sarebbe che il portavoce di Potocki, fedele discepolo dei materialisti francesi del Settecento. In un modo analogo Kukulski, interpreta numerosi altri episodi del romanzo come altrettanti apologhi in cui l’autore espone una morale razionale, esente da pregiudizi e libera dal senso, ormai superato, dell’onore feudale.

Io non sono affatto sicuro che il «Manoscritto» risponda a tali intenzioni didattiche. Dubito, anzi, che la preoccupazione di combattere «Le Génie du Christianisme» possa metter capo a un’argomentazione così velata, così indiretta, dove niente sembra fare allusione all’opera controversa. Personalmente non vedo in Potocki né un nemico così deciso di Chateaubriand né un difensore così puntiglioso di Diderot o di La Mettrie. Che l’opera sia di ispirazione libertina, non è certo possibile contestarlo.

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Potocki non ha rinnegato i suoi maestri. Egli è sicuramente un enciclopedista, ma innanzitutto è un enciclopedico.

Sotto una forma piacevole, immaginosa, spesso ironica, egli ci dà una somma, non delle conoscenze del suo tempo, ma delle sue proprie, che sono eccezionalmente vaste e che, nell’àmbito dei suoi studi personali, superano quelle dei contemporanei più agguerriti.

Ecco perché nel libro si possono trovare tracce di una storia delle religioni, di una filosofia, di un’etica, come, del resto, spigolare notizie che riguardano terre lontane e civiltà scomparse, o trovare esempi diversi delle superstizioni e delle aberrazioni degli uomini, dei loro difetti, delle loro passioni, del loro coraggio. L’autore ha letto molto, ha viaggiato molto; è un osservatore perspicace, ha una memoria infallibile e un’immaginazione ardita. Ha le qualità che ci vogliono per affrontare un’impresa smisurata, quasi contraddittoria.

I meriti letterari dell’opera sono eccezionali, e le ambizioni che essa rivela ancor di più. Non bisogna dimenticare che queste avventure fantastiche sono state scritte da un uomo di più di quarant’anni che si è sempre dedicato alla ricerca erudita, e che, mentre le scrive, lavora a stabilire le tavole di concordanza tra civiltà diverse, risalendo fino al più lontano passato. Egli porta innanzi le due opere di pari passo fino alla sera che precede il gesto fatale che porrà fine alla sua vita. Potocki era un uomo intraprendente, ardente, impetuoso, avido di esperienza e di sapere: un’avidità che, unita alle delusioni subite nel corso della sua attività politica, lo spinse, suppongo, a trovar rifugio nell’archeologia; ma ciò non lo soddisfece mai del tutto. Venne un momento in cui egli desiderò controbilanciare una scienza frammentaria, lontana, indifferente, ricca d’ipotesi insieme fragili e vane, con la creazione di un vasto affresco, movimentato e brulicante come la vita stessa. Volle dire tutto: ciò che sentiva, ciò che pensava, ciò che sapeva.

Perché tutta la prima parte della sua opera pulluli di spettri e di demoni, resta un mistero. Se ne può forse trovare la chiave soltanto nell’orrore stesso della sua morte volontaria. C’era qualcosa in Potocki che voleva a tutti i costi che il sipario della sua «Comédie humaine» si alzasse su uno scenario così singolare, in cui apparizioni e allucinazioni, succubi e impiccati, mescolando le angosce sorelle della lussuria e della dannazione, servissero allo scopo di affascinare il suo eroe. Quali che siano l’interesse e il valore del resto dell’opera, è proprio con questa parte, mi pare, che Potocki ha arricchito la letteratura francese, soprattutto quella fantastica, di un capolavoro, di uno dei rari romanzi che ne rinnovano la forza e ne assicurano la dignità. Scrivo «dignità», ma penso all’oscura efficacia che egli senza dubbio attribuiva a quei terrori, a quei presentimenti, e immagino un’altra e più segreta giustificazione. Se mi rifaccio un’ultima volta a quei ricorsi senza fine che, come un rimorso tenace, si ostinano a contestare l’ordine razionale così penosamente raggiunto, e che sembrava a Potocki una conquista decisiva, mi dico allora che quella rivincita delle tenebre, illusoria ma inquietante, può utilmente impedire all’«esprit de

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rigueur» di soccombere alla compiacenza, e fargli ricordare che l’abisso, da cui è per miracolo uscito, resta insondabile e ricco di forze indomite.

Sono l’originalità, la forza, la qualità di questo apporto alla letteratura fantastica che mi è parso essenziale fare conoscere.

Nelle prime quattordici «giornate» del «Manoscritto trovato a Saragozza», il soprannaturale fa da protagonista. Io le riporto integralmente, seguendo il testo di Pietroburgo, il solo di cui siamo sicuri che l’autore abbia sorvegliato la stampa. Vi aggiungo gli episodi che in «Avadoro, storia spagnola» s’ispirano agli stessi temi, li rinnovano o li prolungano.

Roger Caillois

NOTE:

(1) Voyage dans les Steps [sic] d’Astrakhan et du Caucause, ecc’, edito da Klaproth, Paris 1829, pp’ 168-169.

(2) Kukulski afferma di conoscere un memoriale intitolato: Dynasties du second Livre de Manethon, Firenze 1803. Non so se si tratti della stessa opera o di una prima versione di quella del 1805.

(3) Che si tratti della stessa opera segnalata da Kukulski con il titolo: Principes de Chronologie pour les quatorze Siècles qui ont précédé la première Olympiade vulgaire (Krzemieniec, 1815)?

(4) Le parole fra parentesi quadre sono biffate.

(5) Storie di Atenagora (Plinio, Lettere, Vii, 27) e di Menippo (Filostrato, Vit’ Apoll’, Iv, 25).

(6) Voyage dans les Steps [sic] d’Astrakhan et du Caucause, ecc’, Paris 1829, t’ I, p’ Xvi.

(7) J’M’ Quérard: Les Supercheries littéraires dévoilées, t’ I, Paris 1847, «Cagliostro», pp’ 177-193.

(8) Il cavaliere Landolini, incontrato da Irving a Malta nel 1805 o 1806. Cfr’ Stanley T’ Williams: The Life of Washington Irving, New York 1935, I, 62; Ii, 325.

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Avvertenza

Mi trovavo all’assedio di Saragozza come ufficiale dell’esercito francese. Alcuni giorni dopo la presa della città, essendomi spinto in un luogo un po’ fuori mano, scorsi una casetta di belle proporzioni in cui, almeno in un primo tempo, credetti che nessun francese avesse ancora messo piede.

Mi venne la curiosità di entrare. Bussai alla porta ma mi accorsi che non era chiusa. La spinsi e entrai. Provai a chiamare, a cercare qualcuno, ma invano. Mi parve che fosse già stato portato via tutto quello che poteva avere un certo valore; sui tavoli e nei mobili non restavano che oggetti di poca importanza. Scorsi soltanto in un angolo, per terra, parecchi quaderni scritti. Diedi un’occhiata a quello che contenevano. Si trattava di un manoscritto spagnolo; benché conoscessi molto poco la lingua, ne sapevo tuttavia abbastanza per capire che quel libro poteva essere divertente: vi si parlava di briganti, di spettri, di cabalisti, e niente era più adatto a distrarmi dalle fatiche della campagna militare quanto la lettura di un romanzo bizzarro. Convinto che quel libro non sarebbe mai più tornato al suo legittimo proprietario, non esitai a impadronirmene.

Fummo in seguito obbligati a lasciare Saragozza. Rimasto, per disavventura, separato dal grosso dell’esercito, fui catturato dai nemici insieme col mio distaccamento; credetti che fosse la mia fine.

Giunti nel posto che avevano stabilito, gli Spagnoli cominciarono a spogliarci di tutto quanto avevamo. Io chiesi di conservare un solo oggetto che non poteva esser di alcuna utilità per loro, cioè il libro che avevo trovato. Dapprima fecero qualche difficoltà, poi chiesero il parere del capitano che, dopo aver dato un’occhiata al manoscritto venne da me e mi ringraziò di aver conservato intatta un’opera a cui egli attribuiva grande importanza, in quanto conteneva la storia di un suo avo. Gli raccontai come mi fosse capitata fra le mani; egli mi condusse con sé e, durante il soggiorno piuttosto lungo che feci in casa sua, dove venni trattato molto bene, lo pregai di tradurmi l’opera in francese. Io la scrissi sotto la sua dettatura.

Parte prima

Prima giornata

Il conte d’Olavidez non aveva ancora fondato colonie straniere nella Sierra Morena; questa catena impervia che separa l’Andalusia dalla Mancia era allora abitata soltanto da contrabbandieri, banditi, e qualche vagabondo, che si diceva mangiassero i viaggiatori dopo averli assassinati; da cui il proverbio spagnolo: Las Gitanas de Sierra Morena quieren carne de hombres. (1)

Non è tutto. Il viaggiatore che si azzardava in questa contrada selvaggia veniva assalito, si diceva, da mille terrori capaci di raggelare il coraggio dei più arditi. Udiva

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voci lamentose mescolarsi al rumore dei torrenti e ai sibili della tempesta, luci ingannevoli lo sviavano, e mani invisibili lo sospingevano verso abissi senza fondo.

A dire la verità, alcune ventas, o locande, isolate, si trovavano sperdute su questo pauroso cammino, ma degli spettri, più diabolici degli osti stessi, avevano forzato questi ultimi a cedere loro il posto e a ritirarsi in paesi dove il loro riposo non fosse più turbato se non dai rimproveri della coscienza, fantasmi questi con cui i locandieri sanno venire a patti; il padrone della locanda di Anduhhar prendeva a testimonio San Giacomo di Compostella della veridicità di quei racconti straordinari. Egli aggiungeva inoltre che gli arcieri della Santa Hermandad si erano rifiutati di impegnarsi in qualsiasi spedizione nella Sierra Morena, e che i viaggiatori prendevano la strada di Jaen o quella dell’Estremadura.

Io gli risposi che questa scelta poteva convenire a viaggiatori comuni, ma che il re, don Filippo V, avendo avuto la benevolenza di onorarmi della nomina a capitano delle Guardie valloni, le sacre leggi dell’onore mi prescrivevano di recarmi a Madrid per la via più breve, senza domandare se fosse la più pericolosa.

• Mio giovane signore, - riprese l’oste – vostra merced mi permetterà di farle osservare che se il re l’ha onorato di una compagnia delle guardie prima che l’età abbia onorato della più leggera peluria il mento di vostra merced, sarebbe consigliabile dare prove di prudenza; ora io dico che quando i demoni si impadroniscono di una contrada...

Ne avrebbe detto di più, ma io spronai il cavallo e mi arrestai soltanto quando mi credetti fuori portata dei suoi ammonimenti: allora mi voltai e lo vidi che gesticolava ancora e mi indicava da lontano la strada dell’Estremadura. Il mio servo Lopez, e Moschito il mio zagal, (2) mi guardavano con un’aria da far pietà, che significava più o meno la stessa cosa. Finsi di non capirli affatto e mi addentrai nella brughiera dove poi fu fondata la colonia chiamata la Carlota.

Nello stesso luogo dove oggi c’è la stazione di posta, allora c’era un rifugio, ben noto ai mulattieri, che lo chiamavano Los Alcornoques, o le querce verdi, perché due begli alberi di questa specie facevano ombra a una copiosa sorgente che un abbeveratoio di marmo accoglieva. Eran la sola acqua e la sola ombra che si potessero trovare da Anduhhar fino alla locanda detta Venta Quemada. Questa locanda era costruita al centro di un deserto, ma grande e spaziosa.

Era propriamente un antico castello dei Mori, che il marchese di Penna-Quemada aveva fatto riparare, e da lì gli veniva il nome di Venta Quemada. Il marchese l’aveva affittato a un borghese di Murcia, che vi aveva impiantato una locanda, la più importante che ci fosse su quella strada. I viaggiatori dunque partivano la mattina da Anduh-har, pranzavano a Los Alcornoques con le provviste che si erano portati dietro, e poi dormivano alla Venta Quemada; spesso vi passavano anche il giorno seguente, per prepararsi a valicare le montagne e fare nuove provviste; tale era appunto il programma del mio viaggio.

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Ma quando già ci stavamo avvicinando alle querce verdi, e parlavo a Lopez dello spuntino che contavamo di fare lì, mi accorsi che Moschito non era con noi, non diversamente dalla mula carica delle nostre provviste. Lopez mi disse che il ragazzo era rimasto indietro qualche centinaio di passi, per accomodare qualcosa al basto della sua cavalcatura. L’aspettammo; poi, fatto qualche passo, ci arrestammo per aspettarlo ancora; lo chiamammo, tornammo indietro per cercarlo; tutto invano. Moschito era scomparso portando via con sé le nostre più care speranze, cioè tutto il nostro pranzo. Io ero l’unico a digiuno perché Lopez non aveva smesso di rosicchiare un formaggio del Toboso, di cui si era provvisto; ma non era per questo più allegro, e borbottava fra i denti «che il locandiere di Anduhhar l’aveva pur detto, e che i demoni si erano sicuramente portati via il disgraziato Moschito».

Arrivati a Los Alcornoques, trovai sull’abbeveratoio un paniere riempito con foglie di vite; sembrava esser stato pieno di frutta e dimenticato da qualche viaggiatore. Vi frugai con curiosità ed ebbi il piacere di scoprire quattro bei fichi e un’arancia. Offrii due fichi a Lopez, ma egli li rifiutò, dicendo che poteva aspettare fino a sera; dunque mangiai io tutta la frutta, dopo di che volli dissetarmi alla sorgente vicina. Lopez me lo impedì con il pretesto che l’acqua dopo la frutta mi avrebbe fatto male, e che aveva da offrirmi un resto di vino di Alicante. Accettai la sua offerta, ma non appena il vino fu nel mio stomaco sentii una grande oppressione al cuore. Vidi la terra e il cielo girare sulla mia testa, e sarei certo svenuto se Lopez non si fosse affrettato a soccorrermi; mi fece rinvenire e mi disse che questo mancamento non doveva affatto spaventarmi, non essendo che un effetto della fatica e della debolezza. Infatti non solo mi sentii ristabilito, ma anche in uno stato di forza e di eccitazione che aveva qualche cosa di straordinario. La campagna mi sembrava smaltata di colori vivissimi; ai miei occhi gli oggetti scintillavano come gli astri nelle notti estive, e sentivo le arterie pulsare, specie alle tempie e alla gola.

Lopez, vedendo che il mio malessere non aveva avuto seguito, non poté trattenersi dal ricominciare le sue lamentele:

• Ahimè! - diceva – perché non ho dato ascolto a Fra Geronimo della Trinidad, monaco, predicatore, confessore e oracolo della nostra famiglia. Egli è cognato del genero della cognata del suocero di mia suocera, ed essendo così il nostro parente più prossimo, in casa non si fa nulla se non dietro i suoi consigli. Non ho voluto seguirli e ne sono giustamente punito. Mi aveva pur detto che gli ufficiali delle Guardie valloni erano gente eretica, cosa che si riconosce facilmente dai loro capelli biondi, dagli occhi azzurri e dalle guance rosse, mentre i vecchi cristiani hanno il colore di Nostra Signora d’Atocha, dipinta da San Luca.

Arrestai questo torrente di impertinenze ordinando a Lopez di darmi il fucile a due colpi e di restare accanto ai cavalli mentre io sarei salito su qualche roccia lì vicino nel tentativo di scoprire Moschito, o almeno le sue tracce. A tale proposta, Lopez scoppiò in lacrime e, gettandosi alle mie ginocchia, mi scongiurò, in nome di tutti i santi, di non lasciarlo solo in un luogo tanto pericoloso.

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Allora mi offrii di custodire io il cavallo, mentre lui sarebbe andato in ricognizione, ma questa prospettiva gli parve ancora più terribile. Tuttavia gli diedi tante buone ragioni per andare a cercare Moschito, che mi lasciò partire. Poi trasse di tasca un rosario e si mise in preghiera vicino all’abbeveratoio.

Le cime su cui volevo salire erano più lontane di quanto non mi fossero parse; impiegai circa un’ora a raggiungerle, e, quando ci fui, non vidi altro che la piana deserta e selvaggia, nessuna traccia di uomini, animali o abitazioni, nessuna via se non la strada maestra che avevo seguìto, dove non passava una persona: dovunque un silenzio assoluto. Io lo ruppi con le mie grida, che più di un’eco ripeté in lontananza. Infine ripresi il cammino dell’abbeveratoio, dove trovai il mio cavallo legato a un albero, ma Lopez, Lopez era scomparso.

Avevo due alternative: tornare a Anduhhar o continuare il mio viaggio. La prima soluzione non mi passò neppure per la mente. Balzai sul mio cavallo, e mettendolo subito al trotto più veloce, in due ore arrivai alle rive del Guadalquivir, che lì non è affatto il fiume tranquillo e superbo il cui corso maestoso cinge le mura di Siviglia.

Il Guadalquivir, allo sbocco delle montagne, è un torrente senza sponde né fondo, e sempre muggente contro le rocce che ne contengono l’impeto.

La vallata di Los Hermanos inizia là dove il Guadalquivir si allarga nella pianura; era chiamata così perché tre fratelli, ancor meno uniti dai legami di sangue che dalla loro inclinazione per il brigantaggio, ne avevano fatto per molto tempo il teatro delle loro gesta. Dei tre fratelli, due erano stati presi, e se ne vedevano i corpi pendere a una forca all’entrata della valle, ma il maggiore, chiamato Zoto, era evaso dalle prigioni di Cordova, e correva voce che si fosse ritirato nella catena degli Alpuharras.

Si raccontavano delle cose ben strane sui due fratelli impiccati; non che se ne parlasse come di fantasmi, però si affermava che i loro corpi, animati da non so quali demoni, si liberassero di notte e abbandonassero la forca per andare a tormentare i vivi. E questo passava per così sicuro che un teologo di Salamanca ne aveva fatto oggetto di una dissertazione per dimostrare che i due impiccati erano delle specie di vampiri, e che, comunque, questa tesi non era più incredibile dell’altra, cosa che anche i più increduli concedevano senza difficoltà. Correva anche qualche voce che questi due uomini fossero innocenti, e che, condannati ingiustamente, se ne vendicassero, con il consenso divino, sui viaggiatori e gli altri passanti. Poiché avevo sentito molto parlare di tutto questo a Cordova, ebbi la curiosità di avvicinarmi alla forca. Lo spettacolo era tanto più ripugnante in quanto quei laidi cadaveri, agitati dal vento, ondeggiavano a più non posso, mentre orribili avvoltoi li tiravano di qua e di là per strapparne brandelli di carne; distolsi lo sguardo con orrore e mi addentrai nel sentiero fra le montagne.

Bisognava convenire che la vallata di Los Hermanos sembrava molto adatta a favorire le gesta dei banditi e a servir loro da rifugio. Il cammino era interrotto ora da rocce staccatesi dalla cima dei monti, ora dagli alberi abbattuti dalla tempesta. In molti punti il sentiero traversava il letto del torrente o passava davanti a profonde caverne, il cui aspetto sinistro ispirava diffidenza.

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Fuori da quella valle, ne imboccai un’altra, e scoprii la venta che doveva essere il mio albergo, ma, anche così da lontano, non ne presagivo niente di buono. Infatti notai che mancavano finestre e imposte; i camini non fumavano; non vedevo alcun movimento nei dintorni, e non sentivo i cani avvertire del mio arrivo. Ne dedussi che la locanda era una di quelle abbandonate, come mi aveva detto l’albergatore di Anduhhar.

Più mi avvicinavo alla venta, e più il silenzio mi sembrava profondo. Finalmente arrivai e vidi una cassetta per le elemosine con su una scritta così concepita: Signori viaggiatori, abbiate la carità di pregare per l’anima di Gonzalez di Murcia, già locandiere della Venta Quemada. Soprattutto, continuate il vostro cammino e non passate qui la notte, per nessuna ragione.

Decisi subito di sfidare i pericoli di cui la scritta mi minacciava. Non che fossi convinto dell’inesistenza degli spiriti; ma si vedrà più avanti che tutta la mia educazione era stata impostata sull’onore, che io facevo consistere nel non dar mai alcun segno di paura.

Poiché il sole era tramontato in quel momento, volli approfittare della luce rimasta e percorrere tutti gli angoli di quella dimora, non tanto per rassicurarmi contro le potenze infernali che ne avessero preso possesso, quanto per cercare del cibo, perché quel poco che avevo mangiato a Los Alcornoques aveva potuto rinviare ma non soddisfare l’imperiosa necessità che ne avevo. Attraversai molte stanze e sale. La maggior parte erano rivestite di mosaico fino ad altezza d’uomo, e i soffitti erano in legno, lavorato con quell’arte in cui i Mori mettevano tutta la loro magnificenza. Visitai le cucine, le soffitte e le cantine; queste ultime erano scavate nella roccia, alcune comunicavano con delle gallerie sotterranee che sembravano penetrare molto addentro nella montagna; ma non trovai cibo in alcun luogo. Finalmente, poiché la luce finiva del tutto, andai a prendere il cavallo che avevo legato nella corte, lo portai in una scuderia dove avevo visto un po’ di fieno, e andai a sistemarmi in una camera dove c’era un giaciglio, il solo che fosse rimasto in tutta la locanda. Avrei desiderato molto avere un lume, ma la fame che mi tormentava aveva questo di buono, che mi impediva di dormire.

Intanto, più la notte diventava fitta, più i miei pensieri s’incupivano. Ora riflettevo sulla sparizione dei miei due domestici, ora sui mezzi di provvedere al mio nutrimento. Pensavo che dei ladri, usciti improvvisamente da qualche cespuglio o da qualche trappola sotterranea, avessero attaccato successivamente Lopez e Moschito mentre erano soli, e che io fossi stato risparmiato soltanto perché la mia divisa militare non prometteva una vittoria così facile. La mia fame mi occupava più di tutto il resto; ma avevo visto delle capre sulla montagna; probabilmente erano custodite da un capraio, e costui doveva certo avere una piccola provvista di pane da mangiare col latte. Inoltre, facevo un certo assegnamento sul mio fucile. Ma di ritornare sui miei passi, ed espormi alle beffe dell’oste di Anduhhar, questo ero ben deciso a non farlo. Lo ero, al contrario, e molto fermamente, a continuare il mio cammino.

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Esaurito questo tipo di riflessioni, non potevo fare a meno di riandare con la mente la famosa storia dei falsari e qualche altra dello stesso genere, con le quali la mia infanzia era stata cullata.

Pensavo anche alla scritta sulla cassetta per le elemosine. Non credevo che il diavolo avesse torto il collo all’oste, ma sulla sua tragica fine non ci capivo nulla.

Le ore passavano così in un profondo silenzio, quando il suono inatteso di una campana mi fece trasalire dalla sorpresa. Sonò dodici colpi, e, come si sa, i fantasmi hanno il potere di agire solo dalla mezzanotte fino al primo canto del gallo. Dico che ne fui sorpreso, e avevo ragione di esserlo, perché la campana non aveva affatto sonato le altre ore, e poi il suo rintocco mi sembrava avesse qualcosa di lugubre. Un momento dopo, la porta della camera si aprì, e vidi entrare una figura tutta nera, ma non terrificante, perché era una bella negra seminuda, con un candeliere in ciascuna mano.

La negra venne fino a me, mi fece una profonda riverenza, e mi disse in ottimo spagnolo:

• Signor cavaliere, delle dame straniere che passano la notte in questa locanda vi pregano di voler dividere con loro la cena. Abbiate la cortesia di seguirmi.

Seguii la negra di corridoio in corridoio, fino a una sala ben illuminata, al centro della quale una tavola era imbandita con tre coperti e ornata di vasi giapponesi e di caraffe di cristallo di rocca. In fondo alla sala c’era un magnifico letto. Molte negre sembravano affrettarsi ad apparecchiare, quando, a un certo momento, si schierarono rispettosamente da un lato, e io vidi entrare due dame la cui carnagione di gigli e di rose era in perfetto contrasto con l’ebano delle loro servette. Le due dame si tenevano per mano; erano vestite con un gusto bizzarro, o almeno mi parve tale, ma che, per la verità, è diffuso in molti paesi della costa di Barbaria, come potei constatare in seguito nei miei viaggi. Ecco dunque com’era questo costume: in realtà, non consisteva che di una camicia e di un corsetto. La camicia era di tela fin sotto la cintura, più in giù di velo di Mequinez, specie di stoffa che sarebbe molto trasparente se dei larghi nastri di seta, intessuti, non la rendessero più adatta a velare quelle grazie che ci guadagnano a essere intuite. Il corsetto, sfarzosamente ricamato di perle e guarnito di fibbie di brillanti, copriva giusto il seno; non aveva maniche, mentre quelle della camicia, anch’esse di velo, erano ripiegate e annodate dietro il collo. Le loro braccia nude erano ornate di braccialetti, sia ai polsi sia sopra il gomito. I piedi di queste dame, se si fosse trattato di diavolesse, sarebbero stati forcuti o muniti di artigli; ma non era certo così: essi erano nudi dentro una piccola pantofola ricamata, e la caviglia era ornata di un anello tempestato di grossi brillanti.

Le due sconosciute si avanzarono verso di me con un’aria disinvolta e affabile. Erano due bellezze perfette, l’una alta, slanciata e splendente, l’altra tenera e timida. Quella maestosa aveva un corpo magnifico, e i lineamenti altrettanto. La minore era rotondetta, con le labbra un po’ sporgenti, le palpebre semichiuse, e quel po’ di pupille che si potevano intravvedere erano nascoste da ciglia di una lunghezza straordinaria. La maggiore mi rivolse la parola in castigliano e disse:

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• Signor cavaliere, vi ringraziamo della vostra bontà per aver accettato questo piccolo spuntino; credo che dobbiate averne bisogno.

Disse queste ultime parole con un’aria così maliziosa, che io quasi la sospettai d’aver fatto rapire la mula con le nostre provviste; d’altra parte, le sostituiva così bene che non era il caso di aversela a male.

Ci sedemmo a tavola, e la stessa dama, avanzando verso di me un vaso del Giappone, mi disse:

• Signor cavaliere, troverete qui un’olla podrida (3) fatta di ogni genere di carni, tranne una sola, perché noi siamo fedeli, voglio dire mussulmane.

• Bella sconosciuta, - le risposi – mi sembra che abbiate detto bene. Senza dubbio voi siete fedeli, è la religione dell’amore. Ma degnate soddisfare la mia curiosità prima del mio appetito: ditemi chi siete.

• Mangiate pure, Signor cavaliere, - riprese la bella Mora – non è certo con voi che serberemo l’incognito. Io mi chiamo Emina e mia sorella Zibeddé. Abitiamo a Tunisi, ma la nostra famiglia è originaria di Granata, e dei nostri parenti alcuni sono rimasti in Spagna, dove professano in segreto la legge dei loro padri. Abbiamo lasciato Tunisi otto giorni fa, e siamo sbarcate vicino a Malaga su una spiaggia deserta, poi abbiamo attraversato le montagne tra Sohha e Antequerra, e siamo arrivate in questo luogo solitario per cambiarci d’abito e prendere tutte le disposizioni necessarie alla nostra sicurezza. Signor cavaliere, vedete dunque che il nostro viaggio è un segreto importante affidato alla vostra lealtà.

Assicurai le belle che non avevano da temere alcuna indiscrezione da parte mia, poi mi misi a mangiare, un po’ golosamente a dir la verità, ma pure con quel certo garbo contenuto che un giovane usa volentieri quando si trova, solo del suo sesso, in compagnia femminile.

Quando fu evidente che la mia prima fame era placata, e mi rivolgevo a ciò che in Spagna chiamano las dolces, la bella Emina ordinò alle negre di mostrarmi come si danza nel loro paese. Sembrò che nessun ordine potesse esser loro più gradito. Ubbidirono con una vivacità che rasentava la licenza. Credo anzi che sarebbe stato difficile por fine alla loro danza; ma io domandai alle loro belle padrone se anch’esse qualche volta ballassero. Per tutta risposta, si alzarono e chiesero delle nacchere. La danza stava tra il bolero di Murcia e la foffa che si balla negli Algarves; chi è stato in queste province potrà farsene un’idea. Tuttavia non comprenderà mai il fascino che vi aggiungeva la grazia naturale delle due Africane, sottolineata dai diafani veli di cui erano rivestite.

Per un po’ le contemplai con una specie di sangue freddo, poi i loro movimenti affrettati da una cadenza più viva, il rumore assordante della musica moresca, i miei sensi eccitati dal cibo inatteso, tutto, in me e fuori di me, cospirava a turbarmi la ragione. Non sapevo più se fossi con delle donne oppure con degli insidiosi succubi. (4) Non osavo vedere – non volevo guardare. Mi coprii gli occhi con la mano, e mi sentii mancare.

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Le due sorelle si avvicinarono e ciascuna prese una delle mie mani.

Emina chiese se stessi male. La rassicurai. Zibeddé mi domandò che cosa fosse un medaglione che vedeva sul mio petto e se fosse il ritratto di un’amante.

• E’ un gioiello – le risposi – che mi diede mia madre e che ho promesso di portare sempre. Contiene un frammento della vera croce.

A queste parole vidi Zibeddé indietreggiare e impallidire.

• Vi turbate, - le dissi – tuttavia la croce può spaventare soltanto lo spirito delle tenebre.

Emina rispose per sua sorella:

• Signor cavaliere, - mi disse – sapete che noi siamo mussulmane, e non dovete esser sorpreso del dolore mostrato da mia sorella. Io lo condivido. Ci rincresce molto di vedere un cristiano in voi che siete il nostro parente più prossimo. Questo discorso vi meraviglia, ma vostra madre non era una Gomelez? Noi siamo della stessa famiglia, che è poi una branca di quella degli Abenceragi; ma mettiamoci su questo divano e vi spiegherò meglio.

Le negre si ritirarono. Emina mi fece sedere nell’angolo del divano e si mise al mio fianco, le gambe incrociate sotto di sé. Zibeddé si sedette dall’altro lato, appoggiandosi al mio cuscino, ed eravamo tutt’e tre così vicini che il loro respiro si confondeva col mio.

Emina parve un istante assorta, poi, guardandomi col più vivo interesse, mi prese la mano e disse:

• Caro Alfonso, è inutile nascondervelo, non è il caso che ci ha portato qui. Vi attendevamo; se la paura vi avesse fatto prendere un’altra strada, avreste perso la nostra stima per sempre.

• Voi mi adulate, Emina, - le risposi – e non vedo quale interesse possiate prendere al mio coraggio.

• Ci interessiamo molto a voi, - riprese la bella Mora – ma forse ne sarete meno lusingato quando saprete che siete all’incirca il primo uomo che abbiamo visto. Voi vi meravigliate, e sembrate dubitarne. Vi avevo promesso la storia dei nostri antenati, ma forse sarà meglio cominciare con la nostra.

NOTE:

(1) Le gitane della Sierra Morena vogliono carne d’uomo.

(2) Mulattiere.

(3) In quasi tutte le regioni spagnole è il piatto principale della giornata. Consiste di un misto di carni bollite con l’aggiunta di prosciutto e salsicce.

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(4) Spiriti demoniaci che assumono sembianze femminili per tentare gli uomini durante la notte.

Storia di Emina

e di sua sorella Zibeddé

• Noi siamo figlie di Gasir Gomelez, zio materno del dey di Tunisi attualmente regnante, non abbiamo mai avuto fratelli, non abbiamo conosciuto affatto nostro padre, così che, chiuse dentro le mura del serraglio, non avevamo alcuna idea del vostro sesso. Tuttavia, poiché ambedue avevamo per natura un’estrema inclinazione alla tenerezza, ci siamo amate l’un l’altra con molta passione. Questo attaccamento cominciò dalla prima infanzia. Piangevamo quando volevano separarci, anche per pochi istanti. Se una veniva rimproverata, l’altra scoppiava in lacrime. Passavamo le giornate giocando alla stessa tavola, ci coricavamo nello stesso letto.

Questo sentimento così vivo sembrava crescere con noi, e prese nuova forza per una circostanza che vi narrerò. Io avevo allora sedici anni, e mia sorella quattordici. Da molto tempo avevamo notato dei libri che mia madre ci nascondeva con cura. Dapprima non ci avevamo fatto molta attenzione, già molto annoiate dai libri sui quali imparavamo a leggere; ma la curiosità era cresciuta con gli anni. Cogliemmo l’istante in cui l’armadio proibito era aperto, e prelevammo alla svelta un piccolo volume che si scoprì essere: Gli amori di Medgenun e di Leillé, tradotto dal persiano da Ben-omri.

Quest’opera divina, che descrive con parole di fiamma tutte le delizie dell’amore, illuminò le nostre giovani menti. Non potevamo comprenderla bene poiché non avevamo mai visto qualcuno del vostro sesso, ma ne ripetevamo le espressioni. Parlavamo il linguaggio degli amanti; e alla fine volemmo amarci alla loro maniera. Io presi la parte di Medgenun, mia sorella quella di Leillé. Dapprima le dichiarai la mia passione con dei fiori disposti in un certo modo, specie di cifrato misterioso molto in uso in tutta l’Asia. Poi feci parlare i miei sguardi, mi prosternai ai suoi piedi, baciai l’orma dei suoi passi, scongiurai gli zeffiri di portarle i miei teneri lamenti, e credevo di infiammarne l’alito con l’ardore dei miei sospiri.

Zibeddé, fedele alle lezioni del suo autore, mi concesse un incontro. Mi gettai alle sue ginocchia, le baciai le mani, bagnai i suoi piedi di lacrime; la mia amante dapprima faceva una dolce resistenza, poi mi permetteva di rubarle qualche favore; e finalmente si abbandonò al mio ardore impaziente. In verità le nostre anime sembravano confondersi, e ancora adesso ignoro che cosa potrebbe renderci più felici di quanto non lo fossimo allora.

Non so più per quanto tempo ci dilettammo con queste scene appassionate, ma alla fine le sostituimmo con sentimenti più tranquilli. Prendemmo gusto allo studio di qualche scienza, soprattutto alla conoscenza delle piante, che studiavamo nelle opere del celebre Averroè.

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Mia madre, persuasa che non ci si potesse troppo premunire contro la noia dei serragli, vide di buon occhio il nostro desiderio di avere un’occupazione. Fece venire dalla Mecca una santa donna, chiamata Hazereta, o la santa per eccellenza. Costei ci insegnò la legge del profeta; le sue lezioni si svolgevano in quel linguaggio così puro e armonioso che si parla nella tribù dei Koraisch. Noi non ci stancavamo mai di ascoltarla, e sapevamo a memoria quasi tutto il Corano. Poi mia madre stessa ci apprese la storia del nostro casato, e mise tra le nostre mani un gran numero di libri di memorie, alcuni in arabo, altri in spagnolo. Ah, caro Alfonso, come la vostra legge ci parve odiosa! Come odiavamo i vostri preti persecutori! E al contrario quanto ci interessavamo a tanti celebri sventurati, il cui sangue scorre nelle nostre vene.

Ora ci entusiasmava Said Gomelez, che subì il martirio nelle prigioni dell’Inquisizione, ora il suo nipote Leiss, che per lungo tempo condusse sulle montagne una vita selvaggia, non molto differente da quella delle bestie feroci. Caratteri simili ci fecero amare gli uomini; avremmo voluto vederne, e spesso salivamo sulla terrazza per scorgere da lontano la gente che si imbarcava sul lago da La Goletta, o quelli che andavano ai bagni di Hamam-Nef. Se non avevamo del tutto dimenticato le lezioni dell’innamorato Medgenun, pure non le ripetevamo più insieme. Mi sembrò anzi che la tenerezza per mia sorella non avesse più il carattere di una passione, ma un fatto nuovo mi dimostrò il contrario.

Un giorno, mia madre condusse da noi una principessa del Tafilet, donna di una certa età; le facemmo le nostre migliori accoglienze.

Quando se ne fu andata, mia madre mi disse che mi aveva richiesto in matrimonio per suo figlio, e che mia sorella avrebbe sposato un Gomelez. Questa notizia fu per noi un fulmine a ciel sereno; dapprima ne fummo colpite a tal punto da perdere l’uso della parola. Poi l’infelicità di vivere l’una senza l’altra si dipinse ai nostri occhi con tanta forza che ci abbandonammo alla più terribile disperazione.

Ci strappammo i capelli, riempimmo il serraglio di urla. Insomma le nostre dimostrazioni di dolore rasentarono la pazzia. Mia madre, spaventata, promise di non forzare le nostre inclinazioni; ci assicurò che potevamo restar zitelle, o sposare lo stesso uomo. E tali assicurazioni ci calmarono un po’.

Qualche tempo dopo, mia madre ci comunicò che aveva parlato al capo della nostra famiglia, il quale ci concedeva di avere lo stesso marito, a condizione che fosse un uomo del sangue dei Gomelez.

Non rispondemmo subito, ma questa idea di avere un marito in comune ci sorrideva ogni giorno di più. Noi non avevamo mai visto un uomo, né giovane né vecchio, se non da molto lontano, ma siccome le donne giovani ci sembravano più attraenti di quelle vecchie, volevamo che il nostro sposo fosse giovane. Speravamo anche che egli ci avrebbe spiegato qualche passaggio del libro di Ben-Omri, di cui non avevamo afferrato bene il senso.

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A questo punto Zibeddé interruppe la sorella e, stringendomi nelle sue braccia, mi disse:

• Caro Alfonso, peccato che non siate mussulmano! Quale sarebbe la mia felicità di vedervi fra le braccia di Emina, di contribuire ai vostri diletti, di unirmi alle vostre strette, perché insomma, caro Alfonso, nella nostra casa come in quella del profeta, i figli di una figlia hanno gli stessi diritti del ramo maschile. Dipenderebbe soltanto da voi essere il capo della nostra famiglia, che è vicina a estinguersi. Basterebbe solo aprire gli occhi alle sante verità della nostra legge.

Questo mi parve tanto simile a un’insinuazione di Satana che già credevo di vedere le corna sulla bella fronte di Zibeddé. Balbettai qualche parola pia. Le due sorelle indietreggiarono un poco. Emina prese un contegno più serio e continuò in questi termini:

• Signor Alfonso, vi ho parlato troppo di mia sorella e di me. Non era mia intenzione; mi ero messa qui soltanto per raccontarvi la storia dei Gomelez, da cui voi discendete in linea materna. Ecco dunque ciò che vi dovevo dire.

Storia del castello

di Cassar-Gomelez

• Il capostipite della nostra razza fu Massud Ben-Taher, fratello di Jussuf Ben-Taher, il quale è penetrato in Spagna alla testa degli Arabi e ha dato il suo nome al monte di Gebal-Taher, che voi pronunciate Gibilterra. Massud, che aveva molto contribuito al successo delle loro armi, ottenne dal califfo di Bagdad il governo di Granata, dove restò fino alla morte del fratello. Ci sarebbe rimasto più a lungo, essendo amato sia dai mussulmani che dai Mozarabi, cioè dai cristiani rimasti sotto il dominio arabo, se non avesse avuto a Bagdad dei nemici che lo calunniarono presso il Califfo. Egli venne a sapere che la sua caduta era decisa e risolse di allontanarsi. Radunò dunque i suoi e si ritirò nelle Alpuharras, che sono, come sapete, una continuazione dei monti della Sierra Morena, e questa catena separa il regno di Granata da quello di Valenza.

I Visigoti, ai quali abbiamo tolto la Spagna, non erano penetrati affatto nelle Alpuharras. Le valli erano in gran parte deserte. Solo in tre di esse abitavano i discendenti di un antico popolo spagnolo.

Li chiamavano i Turduli: costoro non riconoscevano né Maometto né il vostro profeta nazareno; le loro credenze religiose e le loro leggi erano contenute in canti che i padri insegnavano ai figli: avevano avuto dei libri che si erano poi perduti.

Massud sottomise i Turduli più con la persuasione che con la forza: ne imparò la lingua e insegnò loro la legge mussulmana. I due popoli si fusero per via di matrimoni: proprio a questa mescolanza e all’aria delle montagne dobbiamo il colorito vivo che vedete a mia sorella e a me, e che distingue le donne dei Gomelez. Tra i Mori si vedono numerose donne dalla pelle bianchissima, ma sono sempre pallide.

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Massud prese il titolo di sceicco e fece costruire una fortezza che chiamò Cassar-Gomelez. Giudice più che sovrano della sua tribù, egli era in ogni momento accessibile e se ne faceva un dovere, ma l’ultimo venerdì di ogni luna prendeva congedo dalla famiglia, si rinchiudeva in un sotterraneo del castello e ci restava fino al venerdì seguente.

Queste sparizioni diedero luogo a differenti congetture: alcuni dicevano che il nostro sceicco avesse dei colloqui con il dodicesimo Iman, che deve comparire sulla terra alla fine dei secoli. Altri credevano che nel nostro sotterraneo fosse incatenato l’Anticristo.

Altri ancora pensavano che i sette dormienti vi giacessero con il loro cane Caleb. Massud non si curò di queste voci; continuò a governare il suo piccolo popolo fin quando le sue forze glielo permisero. Poi scelse l’uomo più prudente della tribù, lo nominò suo successore, gli consegnò la chiave del sotterraneo, e si ritirò in un eremo dove visse ancora molti anni.

Il nuovo sceicco governò come il predecessore, scomparendo anche lui all’ultimo venerdì di ogni luna. Tutto continuò allo stesso modo fino a quando Cordova ebbe califfi propri, indipendenti da quelli di Bagdad. Allora i montanari delle Alpuharras, che avevano preso parte a questa rivoluzione, cominciarono a stabilirsi nelle pianure, dove furono conosciuti con il nome di Abenceragi, mentre conservarono il nome di Gomelez quelli che rimasero fedeli allo sceicco di Cassar-Gomelez.

Intanto gli Abenceragi acquistarono le più belle terre del regno di Granata e le più belle case della città. Il loro lusso attirò l’attenzione della gente, e si credette che il sotterraneo dello sceicco racchiudesse un tesoro immenso, ma la cosa non poté essere accertata, perché gli Abenceragi stessi non conoscevano la fonte delle loro ricchezze.

Poiché alla fine questi splendidi regni si attirarono le vendette celesti, essi caddero nelle mani degli infedeli. Granata fu presa, e otto giorni dopo il celebre Gonzalve di Cordova venne nelle Alpuharras, alla testa di tremila uomini. Allora era nostro sceicco Hatem Gomelez, che si presentò a Gonzalve e gli offrì le chiavi del suo castello; lo spagnolo gli domandò anche quelle del sotterraneo.

Lo sceicco gliele diede senza difficoltà. Gonzalve volle scendervi in persona: non vi trovò che una tomba e dei libri, per cui si prese gran gioco di tutti i racconti che gli erano stati fatti e si affrettò a ritornare a Valladolid, dove lo richiamavano l’amore e la galanteria.

In seguito la pace regnò sulle nostre montagne, finché Carlo salì al trono. A quel tempo era nostro sceicco Sefi Gomelez. Costui, per motivi mai ben conosciuti, fece sapere al nuovo imperatore che gli avrebbe rivelato un segreto importante se egli avesse inviato negli Alpuharras qualche signore di sua fiducia. Non passarono quindici giorni che Don Ruiz di Toledo si presentò ai Gomelez da parte di Sua Maestà, ma scoprì che lo sceicco era stato assassinato il giorno precedente. Don Ruiz diede la caccia a qualcuno, se ne stancò presto, e tornò a corte.

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Intanto il segreto degli sceicchi era rimasto in potere dell’assassino di Sefi. Costui, che si chiamava Billah Gomelez, radunò gli anziani della tribù e provò loro la necessità di prendere precauzioni per custodire un segreto così importante. Fu deciso di istruirne più membri della famiglia Gomelez, ma che ciascuno di loro sarebbe stato iniziato soltanto a una parte del mistero, e anche questo solo dopo aver dato splendide prove di coraggio, di prudenza e di fedeltà.

Qui Zibeddé interruppe ancora sua sorella e le disse: - Cara Emina, non credete che Alfonso avrebbe resistito a tutte le prove? Ah, chi potrebbe dubitarne! Caro Alfonso, peccato che non siate mussulmano! Immensi tesori sarebbero forse in vostro potere.

Ecco, ancora una volta, qualcosa che assomigliava moltissimo allo spirito delle tenebre, il quale, non avendo potuto indurmi in tentazione con la voluttà, cercava di farmi soccombere con l’amore per l’oro. Ma le due bellezze mi si fecero più vicine, e mi sembrava proprio di toccare dei corpi e non degli spiriti. Dopo un momento di silenzio, Emina riprese il filo della sua storia:

• Caro Alfonso, - mi disse – conoscete bene le persecuzioni che abbiamo subìto sotto il regno di Filippo, figlio di Carlo. I bambini venivano portati via e allevati nella fede cristiana. Si davan loro tutti i beni dei genitori che erano rimasti fedeli. Fu allora che un Gomelez venne accolto nel Teket dei Dervisci di San Domenico e raggiunse la carica di Grande Inquisitore.

A questo punto udimmo il canto del gallo, e Emina smise di parlare.

Il gallo cantò ancora. Una persona superstiziosa avrebbe potuto aspettarsi di vedere le due belle dileguarsi su per la cappa del camino. Non fu così, ma esse parvero pensierose e preoccupate.

Emina fu la prima a rompere il silenzio:

• Amabile Alfonso, - mi disse – il giorno è vicino, le ore da passare ancora insieme sono troppo preziose per sciuparle a raccontare delle storie. Noi non possiamo essere vostre spose se voi non abbraccerete la nostra santa legge. Ma vi è concesso di vederci in sogno. Acconsentite?

Acconsentii a tutto.

• Non basta, - riprese Emina con l’aria della più grande dignità – non basta, caro Alfonso; è anche necessario che vi impegniate sulle sacre leggi dell’onore a non tradire mai i nostri nomi, la nostra esistenza e tutto quello che sapete di noi. Osate prendere questo solenne impegno?

Promisi tutto quello che volevano.

• E’ sufficiente; - disse Emina – sorella, portate la coppa consacrata da Massud, nostro capostipite.

Mentre Zibeddé andava a prendere il vaso incantato, Emina si era inginocchiata a terra e recitava preghiere in lingua araba. Zibeddé riapparve con una coppa che mi

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sembrò intagliata in un unico smeraldo, e vi bagnò le labbra. Emina fece altrettanto, poi mi ordinò di mandar giù d’un fiato il resto del liquore.

Le obbedii.

Emina mi ringraziò della mia docilità e mi abbracciò con molta tenerezza. Poi Zibeddé incollò la sua bocca sulla mia e parve non potersene distaccare. Infine mi lasciarono dicendo che le avrei riviste, e consigliandomi di addormentarmi il più presto possibile.

Tanti avvenimenti bizzarri, racconti meravigliosi e sentimenti inattesi avrebbero avuto senza dubbio di che farmi riflettere tutta la notte; ma, devo ammetterlo, i sogni che mi avevano promesso mi interessavano più di tutto il resto. Mi affrettai a svestirmi e a coricarmi nel letto preparato per me. Fatto questo, constatai con piacere che il letto era molto largo, e che i sogni non hanno bisogno di tanto posto. Avevo appena avuto il tempo di fare queste riflessioni che un sonno irresistibile appesantì le mie palpebre, e tutte le menzogne della notte si impadronirono dei miei sensi. Li sentii fuorviati da magiche illusioni; il pensiero, trasportato mio malgrado sulle ali del desiderio, mi conduceva in mezzo ai serragli dell’Africa e si impossessava delle grazie rinchiuse tra quelle mura per dar forma ai miei chimerici godimenti. Mi sentivo sognare, eppure avevo la coscienza di non abbracciare dei sogni. Mi perdevo nell’onda delle più folli illusioni, ma mi ritrovavo sempre con le mie belle cugine. Mi addormentavo sul loro seno, mi svegliavo tra le loro braccia. Ignoro quante volte ho creduto di provare queste dolci alternative.

Seconda giornata

Finalmente mi svegliai per davvero; il sole mi bruciava le palpebre

• le aprii con fatica. Vidi il cielo. Vidi che mi trovavo all’aperto.

Ma il sonno appesantiva ancora i miei occhi. Non dormivo più, ma non ero ancora sveglio. Visioni di supplizi si avvicendavano le une alle altre. Ne fui atterrito, e mi levai a sedere di soprassalto.

Dove trovare le parole per esprimere l’orrore che s’impadronì di me? Ero sdraiato sotto la forca di Los Hermanos. I cadaveri dei due fratelli di Zoto non erano appesi, ma coricati accanto a me. Si sarebbe detto che io avessi passato la notte con loro. Riposavo su pezzi di corda, rottami di ruote, resti di carcasse umane, e gli orribili stracci che la putrefazione aveva staccato dai corpi.

Pensai di non essere ancora ben sveglio e di fare un sogno penoso.

Chiusi gli occhi e cercai nella memoria dove fossi stato la sera prima... In quel momento sentii degli artigli affondarsi nei miei fianchi. Vidi, appollaiato su di me, un’avvoltoio che stava divorando uno dei miei compagni di giaciglio. Il dolore causatomi dalla morsa dei suoi artigli finì di svegliarmi del tutto. Vidi accanto a me i miei abiti e mi affrettai a indossarli. Quando fui vestito, volli uscire dal recinto della forca, ma trovai la porta inchiodata e invano provai a sfondarla. Dovetti per forza

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scalare quella triste muraglia. Ci riuscii e, appoggiandomi a una delle colonne della forca, mi misi a esaminare il paesaggio circostante. Lo riconobbi facilmente. Ero proprio all’imbocco della valle di Los Hermanos, e non lontano dalle rive del Guadalquivir.

Continuando a osservare, scorsi vicino al fiume due viaggiatori, l’uno dei quali preparava uno spuntino mentre l’altro teneva due cavalli per la briglia. Fui così felice di vedere degli uomini, che il mio primo impeto fu di gridar loro: Agur, Agur! Che vuol dire, in spagnolo, Buongiorno, o Vi saluto.

I due viaggiatori videro gli atti di cortesia che venivan loro rivolti dall’alto della forca e parvero un istante indecisi, ma, di colpo, montarono sui cavalli, li misero al galoppo più veloce, e presero la via degli Alcornoques. Gridai loro di fermarsi, ma invano; più io gridavo, e più loro davano colpi di sperone ai cavalli. Quando li ebbi persi di vista, pensai a lasciare il mio posto. Saltai a terra e mi feci un po’ male.

Zoppicando leggermente, raggiunsi le rive del Guadalquivir e vi trovai la colazione abbandonata dai due viaggiatori; niente poteva venirmi più a proposito, perché mi sentivo spossato. C’era della cioccolata che bolliva ancora, dello sponhao inzuppato nel vino di Alicante, pane e uova. Per prima cosa ristorai le mie forze, poi mi misi a riflettere su quanto mi era accaduto durante la notte. I ricordi erano molto confusi, ma ciò che mi rammentavo benissimo era di aver dato la mia parola d’onore di custodirne il segreto, e io ero ben risoluto a mantenerla. Una volta deciso questo, mi restava soltanto da stabilire l’immediato da farsi, cioè la strada da prendere; e mi parve che le leggi dell’onore mi obbligassero più che mai a passare per la Sierra Morena.

Il lettore forse si sorprenderà di vedermi così preoccupato della mia gloria, e così poco degli avvenimenti del giorno precedente; ma questo modo di pensare era ancora un effetto dell’educazione ricevuta, come si vedrà dal seguito del racconto. Per il momento ritorno a quello del mio viaggio.

Ero molto curioso di sapere ciò che i diavoli avevano fatto del mio cavallo, che avevo lasciato alla Venta Quemada; e poiché, d’altra parte, quella era la mia strada, decisi di passarci. Dovetti fare a piedi tutta la vallata di Los Hermanos e quella della venta, cosa che non mancò di stancarmi e di farmi desiderare molto di ritrovare il mio cavallo. Lo ritrovai, in effetti; era nella stessa scuderia dove l’avevo lasciato, e appariva vivace, ben curato e strigliato di fresco. Non avevo idea di chi avesse potuto prendersi questa cura, ma avevo visto tante cose straordinarie che su questa non mi soffermai a lungo. Mi sarei senz’altro avviato, se non avessi avuto la curiosità di percorrere ancora una volta l’interno della locanda. Ritrovai la stanza dove avevo dormito, ma, nonostante le ricerche, mi fu impossibile trovare quella dove avevo visto le belle Africane. Mi stancai di cercarla più a lungo, montai a cavallo e continuai la mia strada.

Al mio risveglio sotto la forca di Los Hermanos, il sole era già a metà del suo corso. Avevo impiegato più di due ore ad arrivare alla venta. Sicché, dopo un altro paio di

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leghe, dovetti pensare a un rifugio, ma non vedendone alcuno, continuai sempre a camminare.

Finalmente scorsi da lontano una cappella gotica e una capanna che pareva essere la dimora di un eremita. Erano lontane dalla strada maestra, ma poiché cominciavo ad aver fame, non esitai a fare questa deviazione per procurarmi del cibo. Arrivato lì, attaccai il cavallo a un albero. Poi bussai alla porta dell’eremo e ne vidi uscire un religioso dall’aspetto venerabile. Egli mi abbracciò con tenerezza paterna, poi mi rivolse queste parole:

• Entrate, figlio mio; fate presto. Non passate la notte fuori, dovete temere il tentatore. Il Signore ha ritirato la sua mano dal nostro capo.

Ringraziai l’eremita della bontà che mi dimostrava, e gli dissi che avevo un estremo bisogno di mangiare.

Mi rispose:

• Pensate alla vostra anima, figlio mio. Venite nella cappella.

Prosternatevi davanti alla croce. Io penserò ai bisogni del vostro corpo. Ma farete un pasto frugale, come ci si può aspettare da un eremita.

Passai nella cappella, e realmente pregai, perché non ero un miscredente, e anzi ignoravo che ve ne fossero; questo era ancora un effetto della mia educazione.

Passato un quarto d’ora, l’eremita venne a cercarmi e mi condusse nella sua capanna, dove trovai uno spuntino preparato con una certa cura. C’erano delle olive eccellenti, cardi conservati nell’aceto, cipolle dolci con salsa, e biscotti al posto del pane. C’era anche una piccola bottiglia di vino. L’eremita disse che non ne beveva mai, ma che lo teneva per il sacrificio della messa. Allora mi astenni anch’io dal vino, ma gustai il resto del pasto con grande piacere.

Mentre gli stavo facendo onore, vidi entrare nella capanna una figura più terrificante di tutto quanto avessi visto fino allora. Era un uomo apparentemente giovane, ma orribilmente magro. Aveva i capelli irti e un occhio accecato, da cui usciva del sangue. La lingua pendeva fuori dalla bocca e lasciava colare una bava schiumosa.

Indossava un abito nero abbastanza decente, ma era il suo solo indumento, non aveva né calze né camicia.

Questo orrendo personaggio non disse niente a nessuno e andò a rannicchiarsi in un angolo, dove restò immobile come una statua, l’unico occhio fissato su un crocifisso che teneva in mano. Quando ebbi finito di mangiare, domandai all’eremita chi fosse quell’uomo.

Egli mi rispose:

• Figlio mio, quest’uomo è un indemoniato che io esorcizzo, e la sua terribile storia mostra assai bene il fatale potere che l’angelo delle tenebre usurpa in questa infelice contrada; il racconto potrebbe essere utile alla vostra salvezza, e io gli ordinerò di farvelo.

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Allora, voltandosi verso l’indemoniato, gli disse:

• Pacheco, Pacheco! Nel nome del tuo redentore, ti ordino di raccontare la tua storia.

Pacheco lanciò un urlo terribile e cominciò in questo modo.

Storia dell’indemoniato Pacheco

• Sono nato a Cordova, dove mio padre viveva in uno stato di grande agiatezza. Mia madre è morta tre anni fa. In un primo tempo mio padre parve rimpiangerla molto, ma, dopo qualche mese, avendo avuto occasione di fare un viaggio a Siviglia, s’innamorò di una giovane vedova, chiamata Camilla di Tormes. Costei non godeva di una troppo buona reputazione, e molti amici di mio padre cercarono di distoglierlo da questa relazione; ma, a dispetto di tutti i loro sforzi, il matrimonio ebbe luogo due anni dopo la morte di mia madre.

Le nozze si fecero a Siviglia e, qualche giorno dopo, mio padre tornò a Cordova con Camilla, la sua nuova sposa, e una sorella di Camilla che si chiamava Inesilla.

La mia nuova matrigna corrispose perfettamente alla cattiva opinione che la gente aveva di lei, e in casa esordì col voler ispirarmi l’amore. Non ci riuscì. Mi innamorai tuttavia, ma di sua sorella Inesilla. E la mia passione divenne così prepotente che andai a gettarmi ai piedi di mio padre per chiedergli la mano di sua cognata.

Egli mi rialzò con gentilezza, poi mi disse: «Figlio mio, vi proibisco di pensare a questo matrimonio, e ve lo proibisco per tre ragioni. Primo: sarebbe molto sconveniente che voi diventaste in qualche modo cognato di vostro padre. Secondo: i santi canoni della Chiesa non approvano affatto queste specie di matrimoni. Terzo: non voglio che voi sposiate Inesilla». E dopo avermi messo al corrente di queste tre ragioni, mi voltò le spalle e se ne ando.

Mi ritirai nella mia camera e mi abbandonai alla disperazione. La matrigna, subito informata dal marito di ciò che era accaduto, venne a trovarmi e mi disse che avevo torto ad affliggermi; che, se non potevo diventar lo sposo di Inesilla, potevo esserne il cortehho, cioè l’amante, e che se ne sarebbe occupata lei; ma, nello stesso tempo, dichiarò il suo amore per me e fece valere il sacrificio che faceva cedendomi alla sorella. Prestai fin troppo ascolto a dei discorsi che lusingavano la mia passione, ma Inesilla era così modesta da sembrarmi impossibile che si potesse mai indurla a corrispondere al mio amore.

In questo periodo, mio padre decise di fare un viaggio a Madrid, con l’intenzione di brigarvi per ottenere il posto di corregidor (1) di Cordova, e condusse con sé la moglie e la cognata. La sua assenza doveva durare soltanto due mesi, ma questo tempo mi parve interminabile, lontano com’ero da Inesilla.

Quando i due mesi furono all’incirca trascorsi, ricevetti una lettera di mio padre, nella quale mi ordinava di andargli incontro e di aspettarlo alla Venta Quemada, all’imbocco della Sierra Morena.

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Qualche settimana prima non mi sarei deciso facilmente a passare per la Sierra Morena, ma avevano proprio allora impiccato i due fratelli di Zoto. La loro banda era stata dispersa, e le strade sembravano abbastanza sicure.

Partii dunque da Cordova verso le dieci del mattino, e andai a dormire a Anduhhar, da un oste fra i più chiacchieroni che ci fossero in Andalusia. Gli ordinai un pasto abbondante, ne mangiai una parte e serbai il resto per il viaggio.

Il giorno dopo pranzai a Los Alcornoques con gli avanzi del giorno prima, e arrivai la sera stessa alla Venta Quemada. Non vi trovai mio padre, ma, poiché nella lettera mi ordinava di aspettarlo, mi ci adattai tanto più volentieri in quanto mi trovavo in una locanda spaziosa e comoda. L’albergatore che la teneva era allora un certo Gonzalez di Murcia, un buon uomo, benché un po’ fanfarone, che non mancò di promettermi un pasto degno di un grande di Spagna. Mentre si dava da fare a prepararlo, io andai a passeggiare sulle rive del Guadalquivir, e quando tornai alla locanda, vi trovai una cena che, in realtà, non era affatto cattiva.

Finito di mangiare, dissi a Gonzalez di prepararmi il letto. Allora vidi che si turbava, e mi tenne alcuni discorsi che non avevano molto senso. Alla fine mi confessò che la locanda era posseduta dai fantasmi, che lui e la sua famiglia passavano tutte le notti in una piccola fattoria sulle rive del fiume, e aggiunse che, se anch’io avessi voluto dormire lì, mi avrebbe fatto preparare un letto vicino al suo.

Questa proposta mi parve molto inopportuna; gli dissi che poteva andarsene a dormire dove voleva e che mi mandasse i miei servi.

Gonzalez mi obbedì, poi si ritirò scotendo la testa e alzando le spalle.

Un istante dopo arrivarono i miei domestici; anche loro avevano sentito parlare dei fantasmi e vollero convincermi a passare la notte alla fattoria. Accolsi i loro consigli un po’ brutalmente e ordinai di farmi il letto nella stessa stanza dove avevo mangiato. Mi obbedirono benché a malincuore e, quando il letto fu pronto, mi scongiurarono ancora, le lacrime agli occhi, di recarmi a dormire alla fattoria. Davvero spazientito dai loro ammonimenti, mi lasciai andare a qualche manifestazione che valse a metterli in fuga, e, poiché non avevo l’uso di farmi svestire dai miei servi, facilmente feci a meno di loro per andarmi a coricare: tuttavia erano stati più attenti di quanto non lo meritassero i miei modi nei loro riguardi.

Avevano lasciato vicino al letto una candela accesa, un’altra di ricambio, due pistole e qualche volume la cui lettura poteva tenermi sveglio, ma la verità è che avevo perso il sonno.

Trascorsi un paio d’ore un po’ a leggere, un po’ a rivoltarmi nel letto. Alla fine sentii il suono di una campana o di un orologio che batté mezzanotte. Ne fui sorpreso, non avendo sentito sonare le altre ore. Poco dopo la porta si aprì, e vidi entrare la mia matrigna: era in camicia da notte e teneva in mano un candeliere. Si avvicinò camminando sulla punta dei piedi, il dito sulla bocca, come per impormi il silenzio. Poi posò il candeliere sul mio comodino, si sedette sul letto, mi prese una mano, e mi parlò in questo modo: «Mio caro Pacheco, ecco il momento in cui posso darvi i

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piaceri che vi avevo promesso. Siamo arrivati in questa bettola da un’ora». Vostro padre è andato a dormire alla fattoria, ma quando ho saputo che voi eravate qui ho ottenuto il permesso di passarvi la notte con mia sorella Inesilla. Essa vi aspetta, ed è pronta a non rifiutarvi niente; ma devo informarvi delle condizioni che ho poste alla vostra felicità. Voi amate Inesilla, e io amo voi. Non bisogna che, di noi tre, due siano felici a spese dell’altro. Esigo che un unico letto ci serva questa notte. Venite». La mia matrigna non mi lasciò il tempo di risponderle; mi prese per la mano e mi condusse di corridoio in corridoio, finché non fummo arrivati a una porta, dove si mise a guardare per il buco della serratura.

Quando ebbe guardato abbastanza, mi disse: «Va tutto bene, guardate voi stesso». Presi il suo posto, e vidi davvero l’incantevole Inesilla nel suo letto; ma com’era lontana dalla modestia che le avevo sempre vista! L’espressione degli occhi, il respiro turbato, il colorito vivace, l’atteggiamento, tutto in lei provava che era in attesa di un amante.

Camilla, dopo avermi lasciato guardare bene, mi disse: «Mio caro Pacheco, rimanete a questa porta, e quando sarà tempo, verrò ad avvertirvi».

Dopo che fu entrata, mi rimisi al buco della serratura e vidi molte cose che ho difficoltà a raccontare. Prima Camilla si svestì, direi meticolosamente, poi, entrando in letto con sua sorella, le disse: «Mia povera Inesilla, è proprio vero che vuoi un amante? Povera bambina, tu non sai il male che ti farà. Prima ti batterà a terra, ti schiaccerà, e poi ti pesterà, ti squarcerà». Quando Camilla credette di aver istruito abbastanza la sua allieva, venne ad aprirmi la porta, mi condusse al letto della sorella e si coricò con noi.

Cosa posso dire di quella notte fatale? Diedi fondo a ogni delizia e a ogni crimine. A lungo combattei contro il sonno e la natura per prolungare i miei infernali piaceri. Finalmente mi addormentai, e mi svegliai il giorno dopo sotto la forca dei fratelli di Zoto, coricato fra i loro infami cadaveri.

L’eremita, a questo punto, interruppe l’indemoniato e mi disse:

• Ebbene, figlio mio, che ve ne sembra? Non sareste stato atterrito di trovarvi coricato fra due cadaveri?

Gli risposi:

• Padre mio, voi mi offendete. Un gentiluomo non deve mai avere paura, e ancor meno quando ha l’onore di essere capitano delle Guardie valloni.

• Ma, figlio mio, - riprese l’eremita – avete mai sentito dire che una simile avventura sia capitata a qualcuno?

Esitai un istante, poi dissi:

• Se questa avventura è capitata al signor Pacheco, può essere capitata anche ad altri. Giudicherò ancora meglio se vorrete ordinargli di continuare la storia.

L’eremita si voltò dalla parte dell’indemoniato e gli disse:

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• Pacheco, Pacheco! Nel nome del tuo redentore, ti ordino di continuare la tua storia.

Pacheco lanciò un urlo terribile e continuò così:

• Ero mezzo morto quando lasciai la forca. Mi trascinai senza saper dove. Finalmente, incontrai dei viaggiatori che ebbero pietà di me e che mi riportarono alla Venta Quemada. Lì trovai il locandiere e i miei servi, molto in pena per me. Domandai se mio padre avesse dormito alla fattoria. Mi risposero che non era venuto nessuno.

Non potei risolvermi di restare più a lungo alla venta, e ripresi il cammino di Anduhhar. Non vi arrivai che dopo il tramonto.

L’albergo era pieno, mi fecero un letto nella cucina e mi ci coricai, ma non potei dormire, non riuscendo a dimenticare gli orrori della notte precedente.

Avevo lasciato una candela accesa sul camino della cucina. Tutt’a un tratto, si spense, e sentii improvvisamente come un brivido mortale gelarmi il sangue.

Qualcuno mi tolse la coperta, poi sentii una vocina che diceva: «Sono Camilla, la tua matrigna, ho freddo, mio piccolo cuore, fammi posto sotto la tua coperta». E un’altra voce: «Io sono Inesilla.

Lasciami entrare nel tuo letto. Ho freddo, ho freddo». Poi sentii una mano gelata afferrarmi sotto il mento. Radunai tutte le mie forze e dissi ad alta voce: «Vattene, Satana!». Allora le vocine mi dissero: «Perché ci scacci? Non sei tu il nostro piccolo marito? Abbiamo freddo. Faremo un po’ di fuoco». E subito dopo vidi davvero la fiamma nel focolare della cucina. Quando divenne più chiara, non scorsi Inesilla e Camilla, ma i due fratelli di Zoto appesi nel camino.

Quella visione mi mise fuori di me. Uscii dal letto. Saltai dalla finestra e cominciai a correre per la campagna. Per un momento potei illudermi di essere scampato a tanti orrori, ma, quando mi voltai, mi accorsi che ero inseguito dai due impiccati. Ricominciai a correre, e vidi che gli impiccati erano rimasti indietro. Ma la mia gioia non fu di lunga durata. Quegli esseri detestabili si misero a roteare su se stessi e in un istante furono su di me. Corsi ancora, finché le forze non mi abbandonarono.

Allora sentii che uno degli impiccati mi afferrava per la caviglia del piede sinistro. Volli svincolarmi, ma l’altro mi tagliò la strada. Mi si parò davanti strabuzzando gli occhi e tirando fuori una lingua rossa come il ferro rovente. Chiesi grazia. Fu invano. Con una mano mi prese alla gola e con l’altra mi strappò l’occhio che mi manca. Poi entrò nell’orbita con la lingua rovente. Mi lambì il cervello, facendomi ruggire dal dolore.

Allora l’altro impiccato, che mi aveva afferrato la gamba sinistra, volle anche lui giocar d’artigli. Prima cominciò a solleticarmi la pianta del piede che teneva stretta. Poi, quel mostro, ne strappò la pelle, ne separò tutti i nervi, li mise a nudo, e volle sonarvi come su uno strumento musicale; ma, poiché non davo un suono che potesse

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fargli piacere, affondò il suo sperone nel mio ginocchio, strinse i tendini e cominciò a torcerli, come si fa per accordare un’arpa.

Infine si mise a sonare sulla mia gamba, di cui aveva fatto un salterio. Udii il suo riso diabolico. Agli spaventosi mugolii che il dolore mi strappava, fecero coro le urla infernali. Ma quando sentii lo stridore dei denti dei dannati, mi sembrò che ciascuna delle mie fibre fosse stritolata tra le loro mascelle. Finalmente persi conoscenza.

Il giorno dopo, alcuni pastori mi trovarono nella campagna e mi portarono a questo eremo. Ho confessato i miei peccati, e ai piedi della croce ho trovato qualche sollievo ai miei mali.

E qui Pacheco lanciò un terribile urlo e tacque.

Allora prese la parola l’eremita e mi disse:

• Caro giovane, vedete la potenza di Satana, pregate e piangete. Ma è tardi. Bisogna separarci. Non vi propongo di dormire nella mia cella, perché Pacheco, durante la notte, fa degli urli che potrebbero darvi fastidio. Andate a dormire nella cappella. Sarete sotto la protezione della croce, che trionfa sui demoni.

Risposi all’eremita che avrei dormito dove voleva. Portammo nella cappella un lettino di cinghie. Mi coricai, e l’eremita mi augurò la buona notte.

Quando fui solo, il racconto di Pacheco mi tornò alla mente. Vi trovai molte affinità con le mie proprie avventure, e ci pensavo ancora quando sentii sonare la mezzanotte. Non sapevo se fosse l’eremita che sonava, o se avessi ancora a che fare con i fantasmi.

Sentii raspare alla porta. Vi andai e chiesi:

• Chi va là?

Una vocina mi rispose:

• Abbiamo freddo, apriteci, siamo le vostre mogliettine.

• Già, maledetti impiccati, - risposi loro – tornate alla vostra forca e lasciatemi dormire.

Allora la vocina mi disse:

• Ti beffi di noi perché sei dentro una cappella, ma vieni un po’ fuori.

• Ci vengo subito – risposi loro.

Andai a cercare la mia spada per uscire, ma trovai la porta chiusa.

Lo dissi ai fantasmi, ma non risposero. Mi coricai e dormii fino al mattino.

NOTE:

(1) Governatore di provincia.

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Terza giornata

Fui svegliato dall’eremita, che parve molto contento di vedermi sano e salvo. Mi abbracciò, mi bagnò le guance di lacrime, e mi disse:

• Figlio mio, questa notte sono successe cose strane. Dimmi la verità, hai dormito alla Venta Quemada? I demoni si sono impossessati di te? C’è ancora rimedio. Vieni ai piedi dell’altare e confessa le tue colpe. Fai penitenza.

L’eremita si dilungò in simili esortazioni. Poi tacque attendendo la mia risposta. Allora gli dissi:

• Padre mio, mi sono confessato partendo da Cadice. Da allora, non credo di aver commesso nessun peccato mortale, se non forse in sogno.

E’ vero che ho dormito alla Venta Quemada. Ma se ho visto qualche cosa, ho delle buone ragioni per non parlarne affatto.

Tale risposta parve sorprendere l’eremita. Mi accusò di essere in preda al demone dell’orgoglio e volle convincermi della necessità di una confessione generale; ma vedendo che la mia ostinazione era invincibile, abbandonò un po’ il suo tono apostolico e, prendendo un’aria più naturale, mi disse:

• Figlio mio, il vostro coraggio mi stupisce. Ditemi chi siete.

Quale educazione avete ricevuta? Credete agli spettri o non ci credete? Non rifiutatevi di soddisfare la mia curiosità.

Gli risposi:

• Padre mio, il vostro desiderio di conoscermi non può che farmi onore, e ve ne sono obbligato, come è mio dovere. Permettete che mi alzi, verrò a trovarvi all’eremo, e lì vi informerò di tutto quello che vorrete sapere sul mio conto.

L’eremita mi abbracciò ancora e se ne andò.

Quando fui vestito, andai a trovarlo. Stava riscaldando del latte di capra, che mi offrì con dello zucchero e del pane; quanto a lui mangiò radici cotte nell’acqua.

Terminata la colazione, l’eremita si voltò verso l’indemoniato, e gli disse:

• Pacheco, Pacheco! Nel nome del tuo redentore, ti ordino di condurre le mie capre sulla montagna.

Pacheco lanciò un orribile urlo e se ne andò. Allora cominciai la mia storia, che gli narrai così.

Storia di Alfonso van Worden

• Sono il discendente di una famiglia molto antica, che però non ha mai avuto grande fama, e meno ancora sostanze. Tutto il nostro patrimonio è sempre consistito soltanto in un feudo nobile, chiamato Worden, dipendente dal circondario di Borgogna, e situato nel mezzo delle Ardenne.

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Mio padre, avendo un fratello maggiore, dovette contentarsi di un’esigua quota legittima, sufficiente, tuttavia, a mantenerlo onorevolmente nell’esercito. Egli fece tutta la guerra di Successione, e, quando venne la pace, il re Filippo V gli conferì il grado di luogotenente colonnello delle Guardie valloni.

Regnava allora nell’esercito spagnolo un certo concetto del punto d’onore, spinto fino al più eccessivo scrupolo; mio padre andava ancora al di là di quest’eccesso, e in verità non si può biasimarlo, poiché l’onore è l’anima e la vita di un militare. A Madrid non si faceva un solo duello di cui mio padre non regolasse il cerimoniale, e quando lui diceva che le scuse erano sufficienti, ognuno si riteneva soddisfatto. Se per caso qualcuno non si dimostrava contento, aveva subito a che fare con mio padre stesso, che non mancava di sostenere con la spada il valore di ciascuna delle sue decisioni. Inoltre egli teneva un libro bianco, nel quale scriveva la storia di ogni duello con tutte le circostanze relative, cosa che gli dava il grande vantaggio di potersi poi pronunciare con giustizia in tutti i casi imbarazzanti.

Occupato quasi soltanto dal suo tribunale di sangue, mio padre si era mostrato poco sensibile agli incanti dell’amore, ma finalmente il suo cuore fu toccato dalle grazie di una damigella, ancora abbastanza giovane, chiamata Uraque de Gomelez, figlia dell’oidor (1) di Granata, della stirpe degli antichi re del paese. In breve, degli amici comuni riuscirono ad avvicinare le parti interessate, e il matrimonio fu concluso.

Mio padre ritenne opportuno di invitare alle sue nozze tutti coloro coi quali si era battuto, s’intende quelli che non aveva ucciso. Egli se ne trovò a tavola centoventidue, perché tredici erano assenti da Madrid, e di altri trentatré, coi quali si era battuto nell’esercito, non aveva più notizie. Mia madre mi ha detto spesso che questa festa era stata straordinariamente allegra e che vi era regnata la più grande cordialità, cosa che posso credere facilmente, perché mio padre aveva, in fondo, un cuore eccellente, ed era amato moltissimo da tutti quanti.

Dal canto suo, egli era molto attaccato alla Spagna, e non l’avrebbe mai lasciata; ma, due mesi dopo il matrimonio, ricevette una lettera, firmata dal magistrato della città di Bouillon. Gli si annunciava che suo fratello era morto senza figli, e che il feudo toccava in eredità a lui. Questa notizia lo gettò nel più gran turbamento, e mia madre mi ha raccontato che egli era allora così assente, da non poterne cavare una parola. Alla fine, aprì la sua cronaca dei duelli, scelse i dodici uomini di Madrid che ne avevano fatti di più, li invitò a casa sua e tenne loro questo discorso: «Miei cari compagni d’armi, sapete bene quante volte io ho messo a posto la vostra coscienza in casi in cui l’onore sembrava compromesso. Oggi, io stesso mi vedo obbligato ad affidarmi ai vostri lumi, perché temo che il mio proprio giudizio mi faccia difetto, o meglio, che sia offuscato da qualche sentimento di parzialità. Ecco la lettera che mi mandano i magistrati di Bouillon, la cui testimonianza è rispettabile, sebbene non siano dei gentiluomini.

Ditemi voi se l’onore mi obbliga ad abitare il castello dei miei padri, o se devo continuare a servire il re don Filippo, che mi ha colmato dei suoi benefici e che

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ultimamente mi ha elevato al rango di brigadiere generale. Lascio la lettera sulla tavola e me ne vado.

Tornerò fra mezz’ora per sapere che cosa avrete deciso». Dopo aver parlato in tal modo, uscì. Trascorsa mezz’ora, rientrò e fece una votazione. Trovò cinque voti a favore del servizio, e sette per andare a vivere nelle Ardenne. Si adattò senza discutere alla decisione della maggioranza.

Mia madre sarebbe volentieri rimasta in Spagna, ma era così attaccata al suo sposo che egli non si accorse neppure della sua ripugnanza a espatriare. E così si occuparono soltanto dei preparativi del viaggio e di qualche persona che doveva farne parte, al fine di rappresentare la Spagna nel bel mezzo delle Ardenne.

Benché io non fossi ancora al mondo, mio padre, che non dubitava della mia venuta, pensò che era tempo di darmi un maestro d’armi. A questo scopo, egli posò gli occhi su Garcias Hierro, il miglior sotto-maestro di scherma che ci fosse a Madrid. Questo giovane, stanco di ricevere ogni giorno stoccate nella piazza della Cevada, si decise facilmente a partire. D’altro lato mia madre, non volendo partire senza un cappellano, scelse Innigo Velez, teologo laureato a Cuenza. Anche lui avrebbe dovuto istruirmi: nella religione cattolica e nella lingua castigliana. Tali preparativi per la mia educazione furono fatti un anno e mezzo prima della mia nascita.

Quando mio padre fu pronto a partire, andò a prender congedo dal re, e, secondo l’uso della corte di Spagna, mise un ginocchio a terra per baciargli la mano, ma, facendolo, il cuore gli si serrò talmente che svenne, e fu necessario portarlo a casa. Il giorno dopo andò a prender congedo da Don Fernando de Lara, allora primo ministro.

Questo signore lo ricevette con straordinario riguardo, informandolo che il re gli accordava una pensione di dodicimila reali, con il grado di sergente general, equivalente a quello di maresciallo di campo. Mio padre avrebbe dato un po’ del suo sangue per la soddisfazione di gettarsi ancora una volta ai piedi del suo padrone, ma, poiché aveva già preso congedo, si accontentò di esprimere in una lettera una parte dei sentimenti di cui era pieno il suo cuore.

Finalmente lasciò Madrid spandendo molte lacrime.

Scelse la strada di Catalogna per rivedere ancora una volta i paesi dove aveva fatto la guerra e prendere congedo da qualcuno dei suoi antichi camerati, di stanza su quella frontiera. Poi entrò in Francia per la via di Perpignano.

Nessun avvenimento spiacevole turbò il viaggio fino a Lione, ma, partito da questa città con dei cavalli di posta, mio padre fu sorpassato da una vecchia vettura da viaggio, che, essendo più leggera, arrivò per prima al posto di ricambio. Mio padre, arrivato un istante dopo, vide che si attaccavano già i cavalli alla vettura.

Subito afferrò la sua spada e, avvicinatosi al viaggiatore, gli chiese il permesso di parlargli un momento in privato. Il viaggiatore, che era un colonnello francese, vedendogli l’uniforme di ufficiale generale, per fargli onore prese anche lui la spada. Poi entrarono in un albergo che si trovava di faccia alla stazione di posta e chiesero una camera. Quando furono soli, mio padre disse all’altro viaggiatore:

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«Signor cavaliere, la vostra vettura ha sorpassato la mia carrozza per arrivare alla posta prima di me. Tale condotta, che, in sé e per sé, non è un insulto, ha tuttavia qualcosa di sgarbato di cui credo dovervi chiedere ragione».

Il colonnello, molto sorpreso, gettò tutta la colpa sui postiglioni, e assicurò che da parte sua non ne aveva alcuna.

«Signor cavaliere,» riprese mio padre «neppure io pretendo di considerare questa una faccenda seria e mi accontenterò del «primo sangue»».

E così dicendo, trasse la spada.

«Aspettate ancora un momento!» disse il francese «A me sembra che non siano affatto i miei postiglioni che hanno sorpassato i vostri, ma che siano i vostri che, andando più lentamente, sono rimasti indietro».

Mio padre, dopo aver un po’ riflettuto, disse al colonnello: «Signor cavaliere, credo che abbiate ragione e, se mi aveste fatto questa osservazione prima che io avessi tratto la spada, probabilmente non ci saremmo battuti, ma capirete bene che al punto in cui stanno le cose ci vuole un po’ di sangue».

Il colonnello, che senza dubbio trovò quest’ultima ragione abbastanza buona, trasse anche lui la spada. Il duello non fu lungo.

Mio padre, sentendosi ferito, abbassò subito la punta della spada e fece molte scuse al colonnello per il fastidio che gli aveva dato; quest’ultimo rispose offrendo i suoi servigi, diede il suo indirizzo di Parigi, montò in vettura e si rimise in viaggio.

Dapprima mio padre giudicò molto leggera la sua ferita, ma di ferite era così coperto che un nuovo colpo poteva cadere soltanto su una vecchia cicatrice. Infatti la stoccata del colonnello aveva riaperto un’antica ferita di moschetto da cui la pallottola non era mai uscita. Il piombo fece nuovi sforzi per venir fuori, e finalmente uscì dopo due mesi di medicazioni; allora ci si rimise in viaggio.

Arrivato a Parigi, la prima preoccupazione di mio padre fu di rendere omaggio al colonnello, che era poi il marchese di Urfé.

Costui era uno degli uomini di corte fra i più considerati. Ricevette mio padre con tutti gli onori, e gli offrì di presentarlo al ministro, come pure alle migliori famiglie. Mio padre lo ringraziò e lo pregò di presentarlo soltanto al duca di Tavannes, allora decano dei marescialli, perché voleva essere informato di tutto ciò che riguardava il tribunale del punto d’onore, di cui aveva sempre avuto il più alto concetto, e di cui in Spagna aveva spesso parlato come di un’istituzione molto saggia e che volentieri avrebbe visto introdotta nel suo regno. Il maresciallo lo ricevette con molta gentilezza e lo raccomandò al cavaliere di Bélièvre, primo esente dei signori marescialli e relatore del loro tribunale.

Poiché il cavaliere andava spesso da mio padre, venne a conoscenza della sua cronaca dei duelli. Quest’opera gli parve unica nel suo genere e gli chiese il permesso di mostrarla ai signori marescialli, i quali la giudicarono come il loro primo esente e fecero chiedere a mio padre il favore di poterne fare una copia per custodirla

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nell’archivio del loro tribunale. Nessuna proposta avrebbe potuto lusingarlo maggiormente: egli ne provò una gioia indicibile.

Simili testimonianze di stima gli rendevano il soggiorno parigino molto gradevole, ma mia madre la pensava diversamente. Essa si era fatta un dovere non soltanto di non imparare il francese, ma anche di non ascoltare quando si parlava tale lingua. Il suo confessore Innigo Velez non smetteva di ironizzare amaramente sulle libertà della Chiesa gallicana, e Garcias Hierro terminava ogni discorso col dire che i Francesi erano delle canaglie.

Finalmente lasciarono Parigi e, dopo quattro giorni, arrivarono a Bouillon. Mio padre si fece riconoscere dal magistrato e prese possesso del suo feudo.

Il tetto dei nostri avi, privato della presenza dei suoi padroni, lo era anche di una parte delle sue tegole, tanto che pioveva sia nelle stanze che nel cortile, con la differenza che il selciato del cortile asciugava molto presto, mentre nelle stanze l’acqua aveva formato delle pozze che non asciugavano mai. Questa inondazione domestica non dispiacque a mio padre, poiché gli ricordava l’assedio di Lerida, dove aveva trascorso tre settimane con le gambe nell’acqua.

Tuttavia la sua prima preoccupazione fu di mettere all’asciutto il letto della sua sposa. Nel salone c’era un camino alla fiamminga, intorno al quale potevano scaldarsi comodamente quindici persone, e la cui cappa formava come un tetto sostenuto da ogni lato da due colonne. La gola del camino fu chiusa e, sotto, fu collocato il letto di mia madre, con il comodino e una seggiola; poiché il focolare era rialzato di un piede, ne risultava una specie d’isola non facilmente abbordabile.

Mio padre si sistemò dall’altro lato del salone, su due tavole unite con delle assi, e tra il suo letto e quello della moglie fu costruita una passerella, rafforzata nel mezzo da una specie di diga fatta di bauli e di casse. Quest’opera fu compiuta il giorno stesso del nostro arrivo, e io venni al mondo esattamente nove mesi dopo.

Mentre si lavorava con molto impegno alle riparazioni più necessarie, mio padre ricevette una lettera che lo colmò di gioia.

Era firmata dal maresciallo di Tavannes, e questo signore gli chiedeva la sua opinione circa una questione d’onore di cui il tribunale si occupava. Quell’autentico favore sembrò a mio padre di un tale peso che volle celebrarlo offrendo una festa a tutto il vicinato. Ma non esistevano vicini, cosicché la festa si limitò a un fandango eseguito dal maestro d’armi e dalla signora Frasca, prima cameriera di mia madre.

Rispondendo alla lettera del maresciallo, mio padre chiese che, in seguito, gli venissero comunicati gli estratti delle controversie portate in tribunale. Questa concessione gli fu accordata, e, il primo giorno di ogni mese, egli riceveva un plico, che per più di quattro settimane era sufficiente ai discorsi e alle chiacchiere spicciole, intorno al grande camino nelle serate d’inverno, e su due panche messe davanti alla porta del castello in estate.

Durante il periodo di gravidanza di mia madre, il marito continuò a parlare del figlio che avrebbe avuto, e pensò a darmi un padrino. Mia madre era propensa per il

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maresciallo di Tavannes, o per il marchese di Urfé. Mio padre ammetteva che sarebbe stato un grande onore per noi, ma, nel timore che questi due signori credessero di fargliene troppo, si decise, con una delicatezza molto opportuna, per il cavaliere di Bélièvre che, da parte sua, accettò con stima e riconoscenza.

Finalmente nacqui. A tre anni tenevo già un piccolo fioretto, e a sei potevo tirare un colpo di pistola senza battere ciglio... Avevo circa sette anni quando ricevemmo la visita del mio padrino. Questo gentiluomo aveva preso moglie a Tournai, dove ricopriva la carica di luogotenente della connétablie e di relatore del punto d’onore.

Queste sono funzioni la cui istituzione risale al tempo dei giudizi di Dio e che in seguito sono state deferite al tribunale dei marescialli di Francia.

La signora di Bélièvre aveva una salute molto delicata, e il marito la conduceva alle acque di Spa. Ambedue mi dimostrarono un grandissimo affetto e, non avendo figli, scongiurarono mio padre di affidare loro la mia educazione, che infatti non avrebbe potuto essere curata in una contrada solitaria com’era quella del castello di Worden. Mio padre acconsentì, indotto soprattutto dalla carica di relatore del punto d’onore, la quale gli garantiva che, nella casa di Bélièvre, mi avrebbero senza dubbio inculcato molto presto tutti i princìpi che un giorno avrebbero dovuto determinare la mia condotta.

Dapprima si discusse se farmi accompagnare da Garcias Hierro, poiché mio padre riteneva che il modo più nobile di battersi fosse quello con la spada nella mano destra e il pugnale nella sinistra, genere di scherma del tutto sconosciuto in Francia. Ma siccome mio padre aveva preso l’abitudine di tirare a piastrone tutte le mattine con Hierro, e poiché questo esercizio era diventato necessario alla sua salute, non credette di doversene privare.

Si discusse anche se inviare con me il teologo Innigo Velez, ma poiché mia madre sapeva sempre soltanto lo spagnolo, era molto naturale che non potesse privarsi di un confessore che conosceva questa lingua. Così non ebbi presso di me i due uomini che, prima della mia nascita, erano stati destinati alla mia educazione.

Tuttavia mi diedero un valletto spagnolo per mantenermi nell’uso di questa lingua.

Partii per Spa col mio padrino; vi passammo due mesi; poi facemmo un viaggio in Olanda e arrivammo a Tournai verso la fine dell’autunno. Il cavaliere di Bélièvre si mostrò perfettamente degno della fiducia accordatagli da mio padre e, durante sei anni, non trascurò niente di quanto potesse contribuire a fare di me, un giorno, un eccellente ufficiale. Al termine di questo periodo, la signora di Bélièvre morì; suo marito lasciò le Fiandre per stabilirsi a Parigi, e io fui richiamato alla casa paterna.

Dopo un viaggio reso piuttosto spiacevole dalla stagione avanzata, arrivai al castello circa due ore dopo il tramonto, e ne trovai gli abitanti raccolti intorno al grande camino. Mio padre, benché lieto di vedermi, non si abbandonò però a dimostrazioni che avrebbero potuto compromettere quella che voi Spagnoli chiamate la gravedad.

Mia madre invece mi bagnò di lacrime. Il teologo Innigo Velez mi diede la sua benedizione, e lo spadaccino Hierro mi presentò un fioretto. Eseguimmo un assalto in

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cui me la cavai in modo superiore alla mia età. Mio padre era troppo buon conoscitore per non accorgersene, e la gravità cedette il posto alla più viva tenerezza.

Poi venne servita la cena, dove ci fu molta allegria.

Dopo mangiato ci raccogliemmo di nuovo intorno al camino, e mio padre disse al teologo: «Reverendo Don Innigo, mi fareste piacere se andaste a cercare il vostro grosso volume nel quale ci sono tante storie meravigliose, e se ne leggeste qualcuna».

Il teologo salì nella sua stanza e ne ritornò con un in-folio rilegato in pergamena bianca, ingiallita dal tempo. L’aprì a caso e lesse quanto segue.

NOTE:

(1) Uditore di tribunale.

Storia di Trivulzio da Ravenna

• C’era una volta, in una città d’Italia chiamata Ravenna, un giovane chiamato Trivulzio. Egli era bello, ricco, e pieno di un’alta opinione di se stesso. Le ragazze di Ravenna si mettevano alla finestra per vederlo passare, ma nessuna gli piaceva. Oppure, se talvolta si invaghiva dell’una o dell’altra, non glielo dimostrava, temendo di farle troppo onore; alla fine tutto il suo orgoglio non poté resistere davanti alle grazie della giovane e bella Nina dei Gieraci. Trivulzio si degnò di dichiararle il suo amore. Nina rispose che il signor Trivulzio le faceva un grande onore, ma che dall’infanzia amava suo cugino Tebaldo dei Gieraci, e che avrebbe amato sempre e soltanto lui.

A questa risposta inattesa, Trivulzio se ne andò manifestando il più grande furore.

Otto giorni dopo, una domenica, poiché tutti i cittadini di Ravenna andavano alla chiesa metropolitana di San Pietro, Trivulzio scorse tra la folla Tebaldo che dava il braccio a sua cugina. Si tirò il mantello fino agli occhi e li seguì. Quando furono nella chiesa, dove non è permesso nascondere il viso, i due innamorati si sarebbero facilmente accorti che Trivulzio li seguiva se non fossero stati occupati solo dal loro amore, a cui pensavano più che alla messa, il che è un grande peccato.

Intanto Trivulzio aveva preso posto in un banco dietro di loro.

Sentendo tutti i loro discorsi la sua ira se ne alimentava. A un certo punto un sacerdote salì sul pulpito e disse: «Fratelli miei, sono qui per fare le pubblicazioni delle nozze di Tebaldo e Nina dei Gieraci; qualcuno si oppone al loro matrimonio?». «Io!» gridò Trivulzio, e nello stesso tempo diede venti colpi di pugnale ai due innamorati. Si tentò di arrestarlo, ma egli vibrò altri colpi, uscì dalla chiesa, poi dalla città, e raggiunse lo Stato di Venezia.

Trivulzio era orgoglioso, viziato dalla fortuna, ma aveva un’anima sensibile. I rimorsi vendicarono le sue vittime, ed egli trascinò un’esistenza deplorevole di città

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in città. Passati alcuni anni, i suoi genitori sistemarono la faccenda, ed egli poté tornare a Ravenna, ma non era più lo stesso Trivulzio, raggiante di felicità e fiero delle sue fortune. Era così cambiato che la stessa nutrice non lo riconobbe.

Fin dal primo giorno del suo arrivo, Trivulzio chiese dov’era la tomba di Nina. Gli fu detto che essa era sepolta con il cugino nella chiesa di San Pietro, quasi nello stesso punto dov’erano stati uccisi. Trivulzio vi andò tremando e, quando fu presso la tomba, l’abbracciò versando un torrente di lacrime.

Per quanto grande fosse il dolore che provò in quel momento l’infelice assassino, sentì che il pianto l’aveva sollevato. Perciò diede la sua borsa al sacrestano e ottenne da lui di poter entrare nella chiesa quando volesse. Finì così per recarvisi tutte le sere, e il sacrestano, ormai abituato, vi faceva poca attenzione.

Una sera Trivulzio, non avendo dormito la notte precedente, si addormentò vicino alla tomba, e, quando si svegliò, trovò la chiesa sprangata. Senz’altro si decise a passarvi la notte, poiché godeva a mantener viva la sua tristezza e a nutrire la sua malinconia. Sentì sonare le ore una dopo l’altra, e avrebbe voluto che fosse giunta quella della sua morte.

Finalmente sonò mezzanotte. Allora la porta della sacrestia si aprì, e Trivulzio vide entrare il sacrestano con la lanterna in una mano e una scopa nell’altra. Ma questo sacrestano era soltanto uno scheletro. Aveva una traccia di pelle sul viso, e come degli occhi molto infossati, ma la cotta aderente alle ossa mostrava bene che era completamente scarnificato.

L’orrendo sacrestano posò la lanterna sull’altare maggiore e accese i ceri come per i vespri. Poi si accinse a scopare la chiesa e a spolverare i banchi. Passò più volte vicino a Trivulzio, ma con l’aria di non accorgersi di lui.

Poi andò alla porta della sacrestia e sonò la campanella che c’è sempre lì. Allora i sepolcri si aprirono e vi apparvero i morti, avvolti nei loro sudari, che intonarono delle litanie con accenti molto malinconici.

Dopo aver così salmodiato per qualche tempo, un morto, vestito dì una cotta e una stola, salì sul pulpito e disse: «Fratelli miei, sono qui per fare le pubblicazioni delle nozze di Tebaldo e Nina dei Gieraci; dannato Trivulzio, fate voi opposizione?».

A questo punto mio padre interruppe il teologo, e, voltandosi verso di me, mi disse: «Alfonso, figlio mio, al posto di Trivulzio, avreste avuto paura?». Gli risposi: «Mio caro padre, credo che avrei avuto una paura enorme». Allora mio padre si alzò, furioso, e si precipitò sulla sua spada con l’intenzione di trafiggermi da parte a parte. Gli altri gli si pararono davanti, e alla fine riuscirono un po’ a placarlo. Tuttavia, quando ebbe ripreso il suo posto, mi lanciò un’occhiata terribile e mi disse: «Figlio indegno di me, la tua vigliaccheria in qualche modo fa disonore al reggimento delle Guardie valloni, nel quale avevo intenzione di farti entrare».

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Dopo questi duri rimproveri che per poco non mi fecero morire di vergogna, vi fu un grande silenzio. Garcias lo ruppe per il primo e, rivolgendosi a mio padre, gli disse:

«Monsignore, se osassi dire il mio parere a Vostra Eccellenza, questo sarebbe di provare al Signore vostro figlio che non esistono fantasmi, né spettri, né morti che cantano litanie, e che non possono esisterne. In questo modo non ne avrebbe certo paura».

«Signor Hierro,» rispose mio padre piuttosto acido «voi dimenticate che ieri ho avuto l’onore di mostrarvi una storia di fantasmi scritta di propria mano dal mio bisavolo».

«Monsignore,» riprese Garcias «io non smentisco il bisavolo di Vostra Eccellenza».

«Che cosa intendete» disse mio padre «per «non smentisco»? Non sapete che questa espressione suppone la possibilità di una smentita da voi data al mio bisavolo?».

«Monsignore» disse ancora Garcias «so bene di valere troppo poco perché Monsignore il vostro bisavolo potesse desiderare di trarre da me una qualsiasi soddisfazione».

Allora mio padre, assumendo un’aria ancora più terribile, disse: «Hierro, che il cielo vi preservi dal fare delle scuse, perché queste supporrebbero un’offesa».

«Insomma» disse Garcias «non mi rimane che sottomettermi al castigo che a Vostra Eccellenza piacerà di infliggermi in nome del suo bisavolo; soltanto, per l’onore della mia professione, vorrei che questa pena mi fosse assegnata dal nostro cappellano, perché la possa considerare come una penitenza ecclesiastica».

«Non è una cattiva idea;» disse allora mio padre con un tono più tranquillo «mi ricordo di aver scritto in altri tempi un piccolo trattato sulle soddisfazioni ammissibili nei casi in cui non può aver luogo il duello. Lasciate che vi rifletta».

Egli parve dapprima riflettere su questo argomento, ma, di riflessione in riflessione, finì per addormentarsi nella poltrona.

Mia madre dormiva già, il teologo pure, e Garcias non tardò a seguire il loro esempio. Allora credetti bene di ritirarmi, e così trascorse il primo giorno del mio ritorno alla casa paterna.

Il giorno dopo, mi esercitai alle armi con Garcias. Andai a caccia.

Poi cenammo e, quando ci si fu alzati da tavola, mio padre pregò ancora il teologo di andare a cercare il suo grosso volume. Il reverendo obbedì, l’aprì a caso, e lesse quanto segue.

Storia di Landolfo da Ferrara

• In una città d’Italia chiamata Ferrara, c’era un giovane chiamato Landolfo. Costui era un libertino senza religione, guardato con orrore da tutte le anime pie di quel paese. Questo malvagio amava moltissimo frequentare le cortigiane, e aveva

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fatto il giro di tutte quelle della città, ma nessuna gli piaceva tanto quanto Bianca de Rossi, perché costei superava tutte le altre in impurità.

Bianca non solo era una libertina interessata e depravata, ma voleva anche che i suoi amanti compissero per lei atti che li disonorassero, e pretese da Landolfo che la conducesse tutte le sere a casa sua, e la facesse cenare con la madre e la sorella. Landolfo andò subito da sua madre e le fece la proposta, come fosse la cosa più giusta di questo mondo. La buona donna scoppiò in lacrime e scongiurò il figlio di aver riguardo della reputazione di sua sorella. Landolfo rimase sordo alle sue preghiere, promettendo solo di mantener la cosa il più possibile segreta, poi andò da Bianca e la condusse a casa sua.

La madre e la sorella di Landolfo ricevettero la cortigiana meglio di quanto non meritasse. Ma questa, vedendo la loro bontà, raddoppiò l’insolenza; a tavola tenne discorsi molto licenziosi, e alla sorella del suo amante diede delle lezioni di cui quest’ultima avrebbe volentieri fatto a meno. Poi le fece capire, e così a sua madre, che avrebbero fatto bene ad andarsene perché voleva rimaner sola con Landolfo.

Il giorno dopo, la cortigiana raccontò questa storia a tutta la città, e per più giorni non si parlò d’altro. Tanto, che la voce pubblica giunse ben presto a Odoardo Zampi, fratello della madre di Landolfo. Odoardo non era uomo che si potesse offendere impunemente.

Egli credette di esserlo nella persona di sua sorella, e, lo stesso giorno, fece assassinare l’infame Bianca. Landolfo, andando a trovare la sua amante, la trovò pugnalata e immersa nel proprio sangue. Egli venne a sapere ben presto che era stato lo zio a compiere il delitto.

Allora corse da lui per punirlo, ma lo trovò circondato dai più animosi della città che si presero gioco del suo risentimento.

Landolfo, non sapendo su chi sfogare la sua furia, corse dalla madre, con l’intenzione di coprirla di insulti. La povera donna era con sua figlia, e stava per mettersi a tavola. Quando vide entrare il figlio, gli chiese se Bianca sarebbe venuta a cena. «Potesse venire,» disse Landolfo «e portarti all’inferno, con tuo fratello e tutta la famiglia Zampi». La povera madre cadde in ginocchio e disse: «Oh, Dio mio, perdonategli queste bestemmie!».

In quel momento la porta si aprì con fracasso, e videro entrare un pallido spettro, dilaniato da colpi di pugnale, che aveva tuttavia una spaventosa rassomiglianza con Bianca.

La madre e la sorella di Landolfo si misero in preghiera, e Dio fece loro la grazia di poter sostenere questo orribile spettacolo senza che morissero dalla paura.

Il fantasma avanzò a passi lenti e si sedette a tavola come per mangiare. Landolfo, con un coraggio che solo il demonio poteva ispirargli, osò prendere un piatto e offrirglielo. Il fantasma aprì una bocca così grande che la testa parve dividersi in due, e ne uscì una fiamma rossastra. Poi avanzò una mano tutta bruciata, prese un boccone, l’inghiottì, e lo si sentì cadere sotto la tavola. In questo modo inghiottì

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l’intera pietanza, e tutti i bocconi caddero sotto la tavola. Quando il piatto fu vuoto, lo spettro, fissando Landolfo con occhi spaventosi, gli disse: «Landolfo, quando io ceno qui, ci dormo anche. Andiamo, mettiti a letto».

A questo punto mio padre interruppe il cappellano, e, voltandosi verso di me, mi disse: «Alfonso, figlio mio, al posto di Landolfo, avreste avuto paura?». Gli risposi: «Mio caro padre, vi assicuro che non avrei provato il più leggero spavento». Egli parve soddisfatto di questa risposta e fu molto allegro durante tutto il resto della serata.

I nostri giorni trascorrevano così, senza che nulla ne alterasse l’uniformità. Se non per il fatto che, nella stagione buona, invece di metterci intorno al camino, ci si sedeva su delle panche vicino alla porta. Sei anni trascorsero in quella dolce tranquillità, e ora mi sembrano altrettante settimane.

Quando ebbi concluso il mio diciassettesimo anno, mio padre pensò di farmi entrare nel reggimento delle Guardie valloni, e di ciò scrisse a quelli dei suoi vecchi camerati sui quali faceva più affidamento. Quei degni e rispettabili militari usarono per me tutto il loro prestigio e ottennero una nomina a capitano. Quando mio padre ne ricevette la notizia, provò un’emozione così viva che si temette per la sua vita. Ma si ristabilì ben presto, e non pensò più che ai preparativi della mia partenza. Volle che viaggiassi per mare, per entrare in Spagna da Cadice e presentarmi subito a Don Enrico de Sa, comandante della provincia, colui che più aveva contribuito alla mia nomina.

Quando la vettura da viaggio era già attaccata, nella corte del castello, mio padre mi condusse nella sua camera e, dopo aver chiuso la porta, mi disse: «Mio caro Alfonso, sto per confidarvi un segreto che ho avuto da mio padre, e che voi confiderete soltanto a vostro figlio, quando lo crederete degno».

Poiché non dubitavo che si trattasse di qualche tesoro nascosto, gli risposi che avevo sempre considerato l’oro soltanto come un mezzo per aiutare gli infelici.

Ma mio padre disse: «No, mio caro Alfonso, non si tratta né di oro né di argento. Voglio insegnarvi un colpo segreto, col quale, parando col contro e portando a segno la stoccata di fianco, siete sicuro di disarmare il vostro avversario». Allora prese due fioretti, mi mostrò il colpo in questione, mi diede la sua benedizione e mi accompagnò alla carrozza. Baciai ancora la mano di mia madre e partii.

Andai in vettura fino a Flessingue, dove trovai un vascello che mi portò a Cadice. Don Enrico de Sa mi accolse come se fossi stato un suo proprio figlio; si occupò del mio equipaggiamento e mi raccomandò due domestici, dei quali uno si chiamava Lopez e l’altro Moschito. Da Cadice sono andato a Siviglia, e da Siviglia a Cordova, poi sono arrivato a Anduhhar, dove ho preso la strada della Sierra Morena. Ho avuto la sfortuna di essere separato dai miei domestici nei pressi dell’abbeveratoio di Los Alcornoques. Tuttavia, sono arrivato lo stesso giorno alla Venta Quemada, e, ieri sera, nel vostro eremo.

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• Mio caro ragazzo, - mi disse l’eremita – la vostra storia mi ha molto interessato, e vi sono grato che abbiate voluto raccontarmela.

Adesso vedo bene che, dal modo in cui siete stato allevato, la paura è un sentimento che vi deve essere del tutto estraneo. Ma, poiché avete dormito alla Venta Quemada, temo davvero che siate esposto alle ossessioni dei due impiccati, e che vi tocchi la triste sorte dell’indemoniato.

• Padre mio, - risposi all’anacoreta – questa notte ho riflettuto molto al racconto del Signor Pacheco. Benché egli abbia il diavolo in corpo, non è per questo meno gentiluomo e, a tale titolo, lo credo incapace di mancar di rispetto alla verità. Ma Innigo Velez, cappellano del nostro castello, mi ha detto che sebbene ci siano stati degli indemoniati nei primi secoli della Chiesa, adesso non ce ne sono più, e la sua testimonianza mi pare tanto più rispettabile in quanto mio padre mi ha ordinato di credere a Innigo in tutti i campi che hanno rapporto con la nostra religione.

• Ma, - disse l’eremita – non avete visto l’orrendo aspetto di Pacheco, e come i demoni l’hanno reso guercio?

Gli risposi:

• Padre mio, il Signor Pacheco può aver perso l’occhio in un’altra maniera. Del resto, su tutte queste cose io mi rimetto a quelli che ne sanno più di me. A me basta non aver paura né dei fantasmi né dei vampiri. Tuttavia, se volete darmi qualche sacra reliquia per preservarmi dalle loro imprese, vi prometto di portarla con fede e venerazione.

Mi parve che l’eremita sorridesse un po’ di questa ingenuità, poi mi disse:

• Vedo, mio caro ragazzo, che avete ancora della fede, ma temo che non sappiate perseverarvi. Questi Gomelez, da cui voi discendete in linea femminile, sono tutti nuovi cristiani. Qualcuno, a quanto si dice, è anzi mussulmano in fondo all’animo. Se vi offrissero una fortuna immensa per cambiare religione, l’accettereste?

• No, certo, - gli risposi – mi sembra che abiurare la propria religione, o tradire la propria bandiera, siano due cose ugualmente disonorevoli.

Anche qui l’eremita parve sorridere, poi disse:

• Vedo con dispiacere che le vostre virtù riposano su un concetto dell’onore fin troppo esagerato, e vi avverto che non troverete più Madrid così pronta a tirare di scherma come al tempo di vostro padre.

Inoltre, le virtù hanno altri fondamenti più sicuri. Ma non voglio trattenervi oltre, perché avete davanti una giornata dura prima di arrivare alla Venta del Penon, o locanda del masso. L’oste vi è rimasto a dispetto dei ladri, perché conta sulla protezione di una banda di zingari accampata nei dintorni. Dopodomani arriverete alla Venta de Cardenas, e là sarete ormai fuori dalla Sierra Morena. Ho messo qualche provvista nelle tasche della vostra sella.

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Ciò detto, mi abbracciò teneramente, ma non mi diede reliquie per preservarmi dai demoni. Non volli insistere oltre e montai in sella.

Cammin facendo, mi misi a riflettere sulle massime che avevo appena ascoltato, non potendo concepire che per le virtù ci fossero basi più solide del concetto dell’onore che, da solo, mi sembrava comprendere tutte le virtù. Ero ancora occupato in questi pensieri quando un cavaliere, sbucando all’improvviso da dietro una roccia, mi tagliò la strada, e mi disse:

• Vi chiamate Alfonso?

Gli risposi di sì.

• Se è così, - disse il cavaliere – vi arresto in nome del re e della santa Inquisizione. Consegnatemi la vostra spada.

Obbedii senza replicare. Allora il cavaliere diede un fischio e vidi gente armata piombare da tutte le parti su di me. Mi legarono le mani dietro la schiena, poi prendemmo una scorciatoia fra le montagne che, dopo un’ora, ci condusse a una fortezza. Il ponte levatoio si abbassò e noi entrammo. Eravamo ancora sotto il torrione quando venne aperta una porticina laterale e fui gettato in una prigione, senza che si dessero neppure la pena di disfare i lacci che mi avvincevano i polsi.

La prigione era del tutto senza luce e, non avendo le mani libere per tastare davanti a me, avrei fatto fatica a camminare senza dar di naso contro i muri. Per questo mi sedetti dove mi trovavo, e, come ci si può facilmente immaginare, mi misi a riflettere sulla ragione del mio imprigionamento. La mia prima e sola idea fu che l’Inquisizione avesse catturato le mie belle cugine e che le negre avessero detto tutto quanto era accaduto alla Venta Quemada. Nella supposizione che io fossi interrogato sul conto delle belle Africane, non avevo che la scelta, o di tradirle e mancare alla mia parola d’onore, o di negare di conoscerle, ciò che mi avrebbe coinvolto in una serie di vergognose menzogne. Dopo essermi un po’ consultato con me stesso sul partito da prendere, mi decisi per il silenzio più assoluto, e presi la ferma risoluzione di non rispondere niente a qualsiasi interrogatorio.

Una volta risolto questo dubbio, mi misi a pensare agli avvenimenti dei due giorni precedenti. Non dubitavo che le mie cugine fossero delle donne in carne e ossa. Ne ero certo per non so quale sentimento, più forte di tutto quanto mi era stato detto sul potere dei demoni. In quanto allo scherzo di mettermi sotto la forca, ne ero molto indignato.

Intanto le ore passavano. Cominciavo ad aver fame e, poiché avevo inteso dire che le prigioni qualche volta sono fornite di pane e di una brocca d’acqua, mi misi a cercare con le gambe e coi piedi se non trovassi qualche cosa di simile. Infatti sentii subito un corpo estraneo, che scoprii essere la metà di un pane. La difficoltà stava nel portarlo alla bocca. Mi sdraiai vicino al pane e cercai di afferrarlo con i denti, ma mi scappava e scivolava via, non trovando resistenza. Lo spinsi fino ad appoggiarlo contro il muro; allora potei mangiare, poiché il pane era tagliato nel mezzo. Se fosse stato intero non avrei potuto addentarlo. Trovai anche una brocca, ma non mi fu

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possibile bere. Avevo appena bagnato le labbra che tutta l’acqua si versò. Spinsi le mie ricerche più lontano: trovai della paglia in un angolo e mi coricai. Le mie mani erano annodate ad arte, cioè molto solidamente, ma senza farmi male. Così non ebbi difficoltà ad addormentarmi.

Quarta giornata

Mi sembrò di aver dormito molte ore, quando vennero a svegliarmi.

Vidi entrare un Domenicano, seguìto da parecchi uomini dall’aspetto minaccioso. Alcuni tenevano delle fiaccole, altri degli strumenti a me del tutto sconosciuti che pensai dovessero servire alla tortura.

Ricordai le mie decisioni e le ribadii entro di me. Pensai a mio padre: egli non aveva mai subìto la tortura, ma non aveva forse sofferto tra le mani dei chirurghi mille operazioni dolorose? Sapevo che le aveva sopportate senza un solo lamento. Decisi di imitarlo, di non proferire una parola e, se fosse possibile, di non lasciarmi sfuggire un gemito. L’inquisitore si fece dare una seggiola, si sedette accanto a me e prendendo un’aria dolce e paterna mi tenne più o meno questo discorso:

• Mio caro, tenero ragazzo, ringrazia il cielo che ti ha condotto in questo carcere. Ma, dimmi, perché ci sei? Quali colpe hai commesso? Confessati, versa le tue lacrime sul mio petto. Non mi rispondi? Ahimè, ragazzo mio, hai torto. Noi non facciamo interrogatori, è questo il nostro metodo. Lasciamo al colpevole la cura di accusarsi da sé. Tale confessione, benché un po’ forzata, non è priva di qualche merito, soprattutto quando il colpevole denuncia i suoi complici. Non rispondi? Peggio per te. Dunque, bisognerà metterti sulla traccia. Conosci due principesse di Tunisi? O piuttosto due infami streghe, esecrabili vampiri e demoni incarnati? Non dici niente. Che si facciano venire quelle due Infanti della corte di Lucifero!

A questo punto furono condotte le due cugine, che avevano come me le mani legate dietro la schiena. Poi l’inquisitore continuò in questi termini:

• Ebbene, mio caro figlio, non le riconosci? Continui a tacere. Mio caro figlio, non ti spaventare di ciò che sto per dirti. Ti si farà un po’ di male. Vedi queste due tavole: ci metteremo le tue gambe legandole strettamente con una corda. Poi, in mezzo, saranno infilati i cunei che vedi qui, e conficcati a colpi di martello. Prima di tutto, i tuoi piedi si gonfieranno. Poi, il sangue sgorgherà dagli alluci, e le unghie di tutte le altre dita cadranno. Infine ti si spezzerà la pianta del piede, e si vedrà uscire grasso mescolato a carni maciullate. Sentirai molto male. Non rispondi niente; eppure questa è soltanto la tortura normale. Intanto, perderai i sensi. Ecco delle boccette, piene di diverse essenze, con cui ti si farà rinvenire. Quando sarai tornato in te, verranno tolti questi cunei per mettere questi altri, molto più grossi. Al primo colpo, si spezzeranno ginocchia e caviglie. Al secondo, le gambe si fenderanno per tutta la loro lunghezza. Ne uscirà il midollo, misto a sangue, e colerà su questa paglia. Non vuoi parlare?... Avanti, date inizio alla tortura.

I carnefici mi afferrarono le gambe e le legarono tra le assi.

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• Non vuoi parlare?... Mettete i cunei... Non vuoi parlare?...

Alzate i martelli.

In quel momento si udì una scarica di armi da fuoco. Emina gridò:

• O, Maometto! Siamo salvi. Zoto è venuto in nostro aiuto.

Zoto entrò con la sua banda, cacciò fuori i carnefici e attaccò l’inquisitore a un anello fissato nel muro della prigione. Poi ci slegò, le due More e me. Il primo uso che esse fecero della libertà delle loro braccia fu di gettarmele al collo. Fummo separati. Zoto mi disse di montare a cavallo e di precederli, assicurando che mi avrebbe ben presto seguìto con le due dame.

L’avanguardia con cui partii era formata di quattro cavalieri.

All’alba arrivammo in un luogo assolutamente deserto dove si trovò un posto di ricambio. Poi proseguimmo per alte cime e creste di montagne coperte di neve.

Verso le quattro arrivammo a certi anfratti rocciosi dove dovevamo pernottare, ma io mi rallegrai di esservi giunto ancora con la luce, perché la vista era meravigliosa, e soprattutto doveva parer tale a me che conoscevo soltanto le Ardenne e la Zelanda. Ai miei piedi si stendeva quella bella Vega di Granata, che gli abitanti di quella città chiamano, per contrasto, la Nuestra Vegilla. La vedevo in tutta la sua estensione, con le sei città e i quaranta villaggi. Vedevo il corso tortuoso del Genil, i torrenti che si precipitavano dall’alto degli Alpuharras, boschetti, fresche ombre, edifici, giardini e un’infinità di quintas, o fattorie. Felice di poter abbracciare con lo sguardo tante cose belle in una sola volta, mi abbandonai alla contemplazione. Sentii che stavo innamorandomi della natura.

Dimenticai le cugine, le quali tuttavia arrivarono di lì a poco in lettighe issate su cavalli. Esse presero posto su dei cuscini, nella grotta, e quando si furono un po’ riposate dissi loro:

• Mie signore, non mi lamento affatto della notte passata alla Venta Quemada, ma vi confesso che è finita per me in un modo più che spiacevole.

Emina mi rispose:

• Mio Alfonso, accusateci soltanto della parte bella dei vostri sogni! Ma di che cosa vi lamentate? Non avete avuto forse l’occasione di dimostrare un coraggio più che umano?

• Come, - le risposi – qualcuno dubiterebbe del mio coraggio? Se sapessi dove trovarlo, mi batterei con lui sopra un mantello o col fazzoletto in bocca.

Emina mi rispose:

• Non so che cosa intendiate col vostro fazzoletto e il vostro mantello. Ci sono cose che non posso dirvi. Altre che io stessa non so. Io eseguo soltanto gli ordini del capo della nostra famiglia, successore dello sceicco Massud, che conosce l’intero segreto del Cassar-Gomelez. Tutto quanto posso dirvi, è che voi siete il nostro parente più prossimo. L’oidor di Granata, padre di vostra madre, aveva avuto un

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figlio che fu stimato degno di essere iniziato. Questi abbracciò la religione mussulmana e sposò le quattro figlie del dey di Tunisi, allora regnante. Soltanto la minore ebbe dei figli, e questa è nostra madre. Poco tempo dopo la nascita di Zibeddé, mio padre e le altre tre mogli morirono in una pestilenza che, a quell’epoca, spopolò tutta la costa di Barbaria... Ma tralasciamo queste cose che forse un giorno saprete. Parliamo di voi, della riconoscenza che vi dobbiamo, o piuttosto della nostra ammirazione per le vostre virtù. Con quale indifferenza avete assistito ai preparativi del supplizio! Quale rispetto religioso per la vostra promessa! Sì, Alfonso, voi superate tutti gli eroi della nostra razza, e noi ormai vi apparteniamo.

Zibeddé, che lasciava volentieri parlare la sorella quando la conversazione era seria, riprendeva i suoi diritti quando questa assumeva il tono del sentimento. Insomma, fui lusingato, carezzato, contento di me e degli altri. Poi arrivarono le negre; fu portata la cena, e Zoto stesso ci servì, con i segni del più profondo rispetto.

Dopodiché le negre prepararono per le mie cugine un letto abbastanza comodo, in una specie di grotta. Io andai a coricarmi in un’altra, e gustammo tutti un riposo di cui avevamo bisogno.

Quinta giornata

Il giorno dopo, la carovana fu pronta di buon’ora. Discendemmo le montagne e girammo entro valli incassate, o piuttosto in fondo a burroni che sembravano raggiungere le viscere della terra. Essi tagliavano la catena dei monti in tante direzioni differenti che era impossibile orientarsi o sapere da quale parte si andava.

Camminammo così per sei ore, poi arrivammo alle rovine di una città abbandonata e deserta. Lì, Zoto ci fece smontare e, conducendomi a un pozzo, mi disse:

• Signor Alfonso, fatemi la cortesia di guardare in questo pozzo e di dirmi che cosa ne pensate.

Gli risposi che vedevo dell’acqua e che pensavo fosse un pozzo.

• Ebbene, - riprese Zoto – vi sbagliate, perché questa è l’entrata del mio palazzo.

Ciò detto, mise la testa nel pozzo e lanciò un grido particolare.

Allora vidi dapprima alcune assi che uscirono da un punto giù nel pozzo e si disposero a qualche piede sopra il pelo dell’acqua. In seguito, un uomo armato uscì dalla stessa apertura, e poi un altro.

Si arrampicarono fuori dal pozzo e, quando arrivarono su, Zoto mi disse:.

• Signor Alfonso, ho l’onore di presentarvi i miei due fratelli, Cicio e Momo. Probabilmente avete visto i loro corpi appesi a una certa forca, ma stanno bene lo stesso, e vi saranno sempre fedeli, poiché sono, come me, al servizio e al soldo del grande sceicco dei Gomelez.

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Gli risposi che ero molto contento di vedere i fratelli di un uomo che pareva mi avesse reso un servizio importante.

Fu necessario risolverci a scendere nel pozzo. Venne portata una scala di corda, di cui le due sorelle si servirono con maggior destrezza di quanto non mi fossi aspettato. Scesi dopo di loro.

Arrivati alle assi, trovammo una porticina laterale, attraverso la quale si poteva passare solo abbassandosi molto. Ma subito dopo ci trovammo su una bella scala, tagliata nella roccia e rischiarata da alcune lampade. Discendemmo più di duecento gradini. Finalmente entrammo in una dimora sotterranea, con una infinità di saloni e di stanze. Le stanze abitate erano tappezzate in sughero, ciò che le preservava dall’umidità. In seguito ho visto a Cintra, vicino a Lisbona, un convento costruito nella roccia le cui celle erano tappezzate nella stessa maniera, e che per questo è chiamato il convento di sughero. Inoltre dei fuochi vivaci, opportunamente disposti, davano al sotterraneo di Zoto una temperatura piacevolissima. I cavalli che servivano alla sua cavalleria erano sparsi nelle vicinanze. Tuttavia, in caso di bisogno, li si poteva ritirare anch’essi nelle viscere della terra, attraverso un’apertura che immetteva in una valle vicina, con un ordigno fatto apposta per issarli, che però era usato raramente.

• Tutte queste meraviglie, - mi disse Emina – sono opera dei Gomelez. Essi scavarono questa roccia al tempo in cui erano padroni del paese, o meglio finirono di scavarla, perché, al loro arrivo, gli idolatri che abitavano gli Alpuharras erano già molto avanti nel lavoro. I sapienti sostengono che proprio in questo luogo c’erano le miniere d’oro della Betica, e antiche profezie annunciano che tutta la contrada un giorno ritornerà in potere dei Gomelez. Che ne dite, Alfonso? Sarebbe un bel patrimonio!

Questo discorso di Emina mi parve molto inopportuno. Glielo feci capire, poi, cambiando argomento, le chiesi quali fossero i suoi progetti per l’avvenire.

Emina mi rispose che, dopo quanto era successo, non potevano più restare in Spagna, ma che volevano riposarsi un po’ fino al momento in cui fosse stato preparato il loro imbarco.

Ci fu servita una cena molto abbondante, ricca soprattutto di selvaggina e di frutti canditi. I tre fratelli ci servirono con la più grande premura. Feci notare alle cugine che era impossibile trovare degli impiccati più cortesi. Emina ne convenne e, rivolgendosi a Zoto, gli disse:

• Voi e i vostri fratelli dovete aver avuto delle avventure ben strane; ci fareste un gran piacere se ce le raccontaste.

Zoto, dopo essersi fatto un po’ pregare, prese posto vicino a noi e cominciò così.

Storia di Zoto

• Sono nato nella città di Benevento, capitale del ducato omonimo.

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Mio padre, che si chiamava Zoto come me, era un armaiolo, abile nella sua professione. Ma siccome nella città ce n’erano altri due, anche più rinomati, il suo mestiere era appena sufficiente a mantenerlo, con la moglie e i tre figli, cioè i miei due fratelli e me.

Tre anni dopo il matrimonio di mio padre, una sorella minore di mia madre sposò un mercante d’olio, chiamato Lunardo, che per le nozze le regalò due orecchini d’oro, con una catenella pure d’oro da mettere al collo. Di ritorno dal matrimonio, mia madre parve piombare in una cupa malinconia. Il marito volle saperne la causa; essa si schermì a lungo, ma alla fine confessò che moriva dalla voglia di avere degli orecchini e una collana come sua sorella. Mio padre non rispose niente. Egli possedeva un fucile da caccia di bellissima fattura, con le pistole e il coltello da caccia lavorati allo stesso modo. Il fucile poteva tirare quattro colpi senza essere ricaricato. Mio padre vi aveva lavorato quattro anni. Lo valutava trecento once d’oro di Napoli. Recatosi da un amatore, gli vendette il tutto per ottanta once. Poi andò ad acquistare dei gioielli come li desiderava sua moglie, e glieli portò. Mia madre, lo stesso giorno, corse a mostrarli alla moglie di Lunardo, e i suoi orecchini furono giudicati persino un po’ più ricchi di quelli della sorella, ciò che le fece un estremo piacere.

Ma, otto giorni dopo, la moglie di Lunardo venne da mia madre per restituirle la visita. Aveva le trecce avvolte a cercine e fermate da uno spillone d’oro, la cui capocchia formava una rosa di filigrana ornata di un piccolo rubino. Questa rosa d’oro conficcò una spina crudele nel cuore di mia madre, che ricadde nella sua malinconia e ne uscì soltanto quando il marito le ebbe promesso uno spillone uguale a quello della sorella. Tuttavia, poiché mio padre non aveva denaro né mezzi per procurarselo, e un simile spillone costava quarantacinque once, divenne ben presto malinconico quanto la moglie lo era stata qualche giorno prima.

Nel frattempo, mio padre ricevette la visita di un bravo del paese, chiamato Grillo Monaldi, che venne da lui per farsi pulire le pistole. Monaldi, accortosi della tristezza di mio padre, gliene chiese la ragione, ed egli non gliela nascose. Dopo un momento di riflessione, Monaldi gli parlò così: «Signor Zoto, io vi sono debitore più di quanto non pensiate. L’altro giorno è stato trovato, per caso, il mio pugnale nel corpo di un uomo assassinato sulla strada di Napoli. Il tribunale ha fatto portare questo pugnale da tutti gli armaioli, e voi avete generosamente testimoniato di non averlo mai visto. Eppure, era un’arma che voi stesso avete foggiato e venduto proprio a me. Se aveste detto la verità, potevate procurarmi qualche guaio. Eccovi dunque le quarantacinque once di cui avete bisogno, e, oltre a ciò, la mia borsa vi sarà sempre aperta». Mio padre accettò con riconoscenza, andò ad acquistare uno spillone d’oro adorno di un rubino, e lo portò alla moglie che non mancò di sfoggiarlo il giorno stesso davanti all’orgogliosa sorella.

Di ritorno a casa, mia madre era sicura che avrebbe presto rivisto la signora Lunardo ornata di qualche nuovo gioiello. Ma quest’ultima aveva ben altri progetti. Voleva andare in chiesa seguìta da un lacchè in livrea ingaggiato per l’occasione, e ne

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aveva fatto la proposta al marito. Lunardo, uomo molto avaro, aveva sì acconsentito all’acquisto di qualche pezzo d’oro che, in fondo, gli sembrava altrettanto sicuro sulla testa di sua moglie che nel proprio cassetto. Ma non fu la stessa cosa quando gli fu proposto di dare un’oncia d’oro a un briccone, soltanto per stare una mezz’ora dietro il banco di sua moglie. Tuttavia, le insistenze della signora Lunardo furono così pressanti e tanto spesso ripetute, che finalmente si decise a seguirla lui stesso in abito da lacchè. La signora Lunardo trovò che, per quest’uso, suo marito andava bene quanto un altro, e la domenica dopo volle presentarsi alla parrocchia seguìta da questo lacchè di nuova specie. I vicini risero un po’ di quella mascherata, ma mia zia attribuì i loro motteggi soltanto all’invidia che li divorava.

Quando fu vicina alla chiesa, i mendicanti si misero a fare un grande schiamazzo, e gridarono nel loro gergo: «Mira Lunardu che fa lu criadu de sua mugiera». Tuttavia, poiché i pezzenti spingono la loro sfacciataggine solo fino a un certo punto, la signora Lunardo poté entrare liberamente in chiesa, dove le furono resi tutti gli onori. Le venne offerta l’acqua benedetta e fu fatta sedere in un banco, mentre mia madre se ne stava in piedi, confusa con tutte le donne del ceto più basso.

Tornata a casa, prese subito un abito blu di mio padre e cominciò a guarnirne le maniche con un avanzo di bandoliera gialla già appartenuta alla giberna di un micheletto. Mio padre, sorpreso, domandò che cosa facesse. Mia madre gli raccontò tutta la storia della sorella, e come suo marito avesse avuto la compiacenza di seguirla in livrea. Mio padre le assicurò che lui non avrebbe mai avuto questa compiacenza. Ma, la domenica seguente, diede un’oncia d’oro a un lacchè, il quale seguì mia madre in chiesa, dove essa fece una figura ancora più bella di quanto non avesse fatto la signora Lunardo la domenica prima.

Lo stesso giorno, subito dopo la messa, Monaldi venne da mio padre e gli tenne questo discorso: «Mio caro Zoto, sono informato della rivalità in fatto di stravaganze che c’è tra vostra moglie e sua sorella. Se non vi ponete rimedio, sarete infelice per tutta la vita.

Perciò non avete che due soluzioni: l’una, di correggere vostra moglie, l’altra, di scegliere un mestiere che vi permetta di soddisfare il suo gusto di spendere. Nel primo caso, vi offro una bacchetta di nocciolo, di cui mi sono servito con la mia defunta moglie finché è vissuta. Esistono altre bacchette di nocciolo, che si prendono per i due estremi, che si muovono nella mano, e servono a scoprire sorgenti d’acqua e anche tesori. Questa qui non ha affatto le stesse proprietà. Ma se la prendete da un capo e applicate l’altro sulle spalle della vostra sposa, vi assicuro che la correggerete facilmente di tutti i suoi capricci.

Se, al contrario, scegliete la soluzione di soddisfare tutte le fantasie di vostra moglie, vi offro l’amicizia della più brava gente di tutta Italia. Costoro si riuniscono volentieri a Benevento, poiché è una città di frontiera. Credo che mi intendiate, perciò pensateci su». Dopodiché Monaldi gli lasciò la bacchetta di nocciolo sul banco e se ne andò.

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Nel frattempo mia madre, dopo la messa, era andata a mostrare il suo lacchè sul Corso e ad alcune sue amiche. Alla fine rientrò tutta trionfante, ma il marito l’accolse in modo molto diverso di quanto essa non si aspettasse. Con la mano sinistra le afferrò il braccio sinistro e, presa con la destra la bacchetta, cominciò a mettere in esecuzione i consigli di Monaldi. La moglie svenne. Mio padre maledì la bacchetta, chiese perdono, l’ottenne, e la pace fu ristabilita.

Qualche giorno dopo, mio padre andò a trovare Monaldi per dirgli che il legno di nocciolo non aveva avuto buon risultato e che si raccomandava ai bravos di cui gli aveva parlato. Monaldi gli rispose: «Signor Zoto, è abbastanza sorprendente che, non avendo il coraggio di infliggere a vostra moglie la minima punizione, abbiate quello di aspettare la gente al margine di un bosco. Ma tutto è possibile, e il cuore umano nasconde ben altre contraddizioni. Sono volentieri disposto a presentarvi ai miei amici, ma prima bisogna che abbiate commesso almeno un assassinio. Tutte le sere, quando avrete finito il vostro lavoro, prendete una spada lunga, infilatevi alla cintura un pugnale e passeggiate con aspetto un po’ altero verso la porta della Madonna, forse verrà qualcuno a ingaggiarvi. Addio. Possa il cielo benedire le vostre imprese».

Mio padre fece ciò che Monaldi gli aveva consigliato e presto si accorse che molti cavalieri della sua risma, e gli sbirri, lo salutavano con aria di complicità. Dopo quindici giorni di questo esercizio, una sera fu avvicinato da un uomo ben vestito, che gli disse: «Signor Zoto, ecco cento once per voi. Entro mezz’ora vedrete passare due giovani con delle piume bianche sul cappello. Vi avvicinerete con l’aria di voler far loro una confidenza, e direte a mezza voce: «Chi di voi è il marchese Feltri?». Uno dei due dirà: «Sono io». Voi gli vibrerete una pugnalata al cuore. L’altro giovane, che è un vigliacco, fuggirà. Allora voi finirete Feltri. Quando il colpo sarà fatto, non andate a rifugiarvi in una chiesa. Ritornate tranquillamente a casa vostra, io vi seguirò da vicino».

Mio padre eseguì puntualmente le istruzioni ricevute e, quando fu di ritorno, vide arrivare lo sconosciuto al cui odio aveva reso servizio. Costui gli disse: «Signor Zoto, sono molto sensibile a quanto avete fatto per me. Ecco ancora una borsa di cento once, che vi prego di accettare, ed eccovene un’altra dello stesso valore che presenterete al primo uomo inviato dalla giustizia che verrà da voi».

Così detto, lo sconosciuto se ne andò.

Poco dopo, il capo degli sbirri si presentò da mio padre, che gli diede subito le cento once destinate alla giustizia: questi allora lo invitò a una cena amichevole a casa sua. Si recarono in un alloggio addossato alla prigione pubblica e trovarono come convitati il bargello e il confessore dei carcerati. Mio padre era un po’ emozionato, come lo si è generalmente dopo il primo delitto.

L’ecclesiastico, notando il suo turbamento, gli disse: «Signor Zoto, niente tristezza. Le messe nella cattedrale costano dodici tarì ciascuna. Si dice che il marchese Feltri sia stato assassinato. Fate dire una ventina di messe per la pace della sua anima, e vi sarà data per giunta un’assoluzione generale». Dopodiché non si parlò più dell’accaduto, e la cena fu molto allegra.

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Il giorno dopo, Monaldi venne da mio padre e si complimentò con lui per il modo in cui si era comportato. Mio padre volle rendergli le quarantacinque once, ma Monaldi gli disse: «Zoto, voi offendete la mia suscettibilità. Se mi parlate ancora di questo denaro, crederò che mi rimproveriate di non aver fatto abbastanza. La mia borsa è a vostra disposizione e potete contare sulla mia amicizia. Non vi nasconderò più che io stesso sono il capo della banda di cui vi ho parlato. Questa è composta di gente d’onore e di puntigliosa onestà.

Se volete farne parte, dite che andate a Brescia a comperare delle canne di fucile, e venite a raggiungerci a Capua. Alloggiate alla Croce d’oro, e non preoccupatevi del resto».

Mio padre partì tre giorni dopo e fece una campagna tanto onorevole quanto lucrativa.

Benché il clima di Benevento sia molto dolce, egli, non ancora avvezzo al mestiere, non volle lavorare nella cattiva stagione.

Stabilì il suo quartiere d’inverno in seno alla famiglia, e la moglie ebbe un lacchè alla domenica, fibbie d’oro sul suo corsetto nero, e un gancio d’oro a cui erano appese le chiavi.

Verso primavera, avvenne che mio padre fosse chiamato in strada da un domestico sconosciuto, che gli disse di seguirlo alla porta della città. Qui trovò un signore di una certa età e quattro uomini a cavallo. Il signore gli disse: «Signor Zoto, ecco una borsa di cinquanta zecchini. Vi prego di volermi seguire in un castello vicino, e di permettere che vi si bendino gli occhi». Mio padre acconsentì a tutto e, dopo un percorso abbastanza lungo e molte svolte, arrivarono al castello del vecchio signore. Lo fecero salire e gli tolsero la benda. Allora vide una donna mascherata, legata a una poltrona e con un bavaglio sulla bocca. Il vecchio signore gli disse: «Signor Zoto, eccovi ancora cinquanta zecchini. Fatemi il favore di pugnalare mia moglie». Ma mio padre rispose: «Signore, vi siete sbagliato sul mio conto. Io aspetto le persone all’angolo di una via o le assalgo in un bosco, come conviene a un uomo d’onore, ma non mi assumo certo il compito di carnefice».

Ciò detto, gettò le due borse ai piedi del vendicativo marito.

Costui non insisté oltre, gli fece bendare di nuovo gli occhi e ordinò alla sua gente di ricondurlo alle porte della città. Questa azione nobile e generosa fece molto onore a mio padre, ma subito dopo ne compì un’altra che fu ancora più universalmente approvata.

Vivevano a Benevento due gentiluomini, di cui uno era il conte Montalto e l’altro il marchese Serra. Il conte Montalto fece chiamare mio padre e gli promise cinquecento zecchini per assassinare Serra.

Mio padre accettò l’incarico, ma chiese tempo, perché sapeva che il marchese stava molto in guardia.

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Due giorni dopo, il marchese Serra fece chiamare mio padre in un luogo appartato e gli disse: «Zoto, ecco una borsa di cinquecento zecchini. E’ vostra se mi date la parola d’onore di pugnalare Montalto». Mio padre prese la borsa e gli disse: «Signor marchese, vi do la mia parola d’onore che ucciderò Montalto. Ma bisogna che vi confessi che ho dato anche a lui la parola d’onore di fare morire voi». Il marchese disse ridendo: «Spero bene che non lo farete». Mio padre rispose molto seriamente: «Perdonatemi, signor marchese, ma l’ho promesso e lo farò».

Il marchese fece un balzo indietro e trasse la spada. Ma mio padre tirò dalla cintura una pistola e gli fracassò la testa. Subito dopo andò da Montalto per annunciargli che il suo nemico era defunto. Il conte l’abbracciò e gli diede i suoi cinquecento zecchini. Allora mio padre confessò con un’aria un po’ confusa che il marchese, prima di morire, gli aveva dato cinquecento zecchini per assassinare lui. Il conte disse che era felice di aver prevenuto il suo nemico. «Signor conte» gli rispose mio padre «ciò non vi servirà a nulla, perché ho dato la mia parola». E così dicendo gli vibrò una pugnalata. Il conte, cadendo, gettò un grido che attirò i suoi domestici. Mio padre si sbarazzò di loro a colpi di pugnale e guadagnò le montagne, dove trovò la banda di Monaldi. Tutti i bravos che la componevano fecero a gara nell’elogiare un così devoto attaccamento alla parola data. Vi assicuro che questo fatto è ancora, per così dire, sulla bocca di tutti e che a Benevento se ne parlerà per molto tempo.

A questo punto della storia, uno dei fratelli di Zoto venne a dirgli che si richiedevano degli ordini a proposito dell’imbarco.

Allora egli ci lasciò, chiedendo il permesso di riprendere il giorno dopo il filo del racconto. Ma ciò che aveva detto mi dava molto da pensare. Egli non aveva cessato di vantare l’onore, la delicatezza, la puntigliosa onestà di gente per la quale la forca sarebbe stata una pena troppo lieve. L’abuso di queste parole, di cui si serviva con tanta sicurezza, mi confondeva tutte le idee.

Emina, accortasi che avevo la mente altrove, me ne chiese la ragione. Le risposi che la storia del padre di Zoto mi ricordava quanto avevo inteso dire, due giorni prima, da un certo eremita, che cioè le virtù avevano basi più sicure che non il punto d’onore. Emina mi rispose:

• Mio caro Alfonso, rispettate questo eremita, e credete alle sue parole. Lo ritroverete più di una volta durante la vostra vita.

Poi le due sorelle si alzarono e si ritirarono con le negre nell’interno dell’appartamento, cioè nella parte del sotterraneo loro destinata. Tornarono per la cena, e poi ciascuno andò a coricarsi.

Ma quando nella caverna tutto fu tranquillo, vidi entrare Emina, che, come Psyche, reggeva una lampada in una mano, mentre con l’altra conduceva la sorella minore, più bella dell’amore stesso. Il mio letto era fatto in modo che poterono sedercisi ambedue. Poi Emina mi disse:

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• Caro Alfonso, ti ho detto che eravamo tue. Che il grande sceicco ci perdoni se anticipiamo un poco il suo consenso.

Le risposi:

• Bella Emina, perdonatemi anche voi. Se questa è ancora una prova a cui sottoponete la mia virtù, temo che essa non se la caverà troppo bene.

• Si è già provveduto, - rispose la bella Africana e, appoggiando la mia mano sulla sua anca, mi fece toccare una cintura che non era certo quella di Venere, per quanto mostrasse l’arte e il genio del marito di quella dea. La cintura era chiusa da un lucchetto di cui le cugine non possedevano la chiave, o almeno così mi assicurarono.

Messo così al sicuro il centro stesso del pudore, non ci si preoccupò affatto di contestarmene la superficie. Zibeddé si ricordò del ruolo d’amante che una volta aveva studiato con la sorella.

Quest’ultima vedeva tra le mie braccia l’oggetto dei suoi finti amori e abbandonava i suoi sensi a questa dolce contemplazione. La minore, arrendevole, viva, ardente, divorava col tatto e penetrava con le carezze. Quei momenti furono inoltre riempiti da non so che cosa – da progetti vagamente abbozzati, da tutto quel dolce cinguettio di giovani che si trovano tra il ricordo di una felicità recente e la speranza di una futura.

Finalmente il sonno venne ad appesantire le belle palpebre delle mie cugine, ed esse si ritirarono nei loro appartamenti. Quando fui solo, pensai che sarebbe stato ben sgradevole svegliarmi ancora una volta sotto la forca. Non feci che ridere di quest’idea, eppure non mi abbandonò fino a quando mi addormentai.

Sesta giornata

Fui svegliato da Zoto, il quale mi disse che avevo dormito a lungo e che la colazione era pronta. Mi vestii in fretta e raggiunsi le cugine, che mi attendevano nella sala da pranzo. I loro occhi mi accarezzavano ancora, e sembravano più occupate a pensare alla notte precedente che alla colazione davanti a loro. Sparecchiata la tavola, Zoto si sedette vicino a noi e riprese in questo modo a raccontare la sua storia.

Seguito della storia di Zoto

• Quando mio padre andò a raggiungere la banda di Monaldi, io potevo avere sette anni, e ricordo che ci misero in prigione, mia madre, i miei due fratelli e me. Ma questo per pura formalità; poiché mio padre non aveva dimenticato la parte che spettava a quelli della giustizia, essi si convinsero facilmente che non avevamo alcuna relazione con lui.

Il capo degli sbirri ebbe particolarmente cura di noi durante la nostra detenzione, e ne abbreviò anche il termine. All’uscita dalla prigione, mia madre fu molto bene accolta dai vicini e da tutto il quartiere, poiché nel mezzogiorno d’Italia i banditi sono gli eroi del popolo, come in Spagna lo sono i contrabbandieri. Avevamo quindi la

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nostra parte nella stima universale, e io in particolare ero guardato come il re dei monelli della nostra strada.

Verso quel tempo, Monaldi fu ucciso in un’impresa, e mio padre, che prese il comando della banda, volle esordire con un’azione brillante.

Andò ad appostarsi sulla strada di Salerno, per aspettarvi una rimessa di denaro fatta dal viceré di Sicilia. L’impresa riuscì, ma mio padre fu ferito alle reni da un colpo di moschetto che lo rese inabile a continuare il servizio più a lungo. Il momento in cui prese congedo dalla banda fu straordinariamente commovente. Si dice persino che molti banditi piangessero; cosa che sarebbe difficile a credersi se io stesso non avessi pianto una volta nella vita, cioè dopo aver pugnalato la mia amante, come vi racconterò a suo tempo.

La banda non tardò a sciogliersi; qualcuno dei nostri bravi andò a farsi impiccare in Toscana, gli altri raggiunsero Testa-Lunga, che cominciava ad acquistare una certa reputazione in Sicilia. Mio padre stesso passò lo stretto e si recò a Messina, dove chiese asilo agli Agostiniani del Monte. Egli consegnò il suo piccolo gruzzolo nelle mani di quei padri, fece pubblica penitenza, e si stabilì sotto il portico della loro chiesa, dove conduceva una vita molto tranquilla, con la libertà di passeggiare nei giardini e nei cortili del convento. I monaci gli davano la minestra, e lui mandava a prendere un paio di piatti a un’osteria vicina. Per giunta il frate infermiere gli medicava anche le ferite.

Suppongo che a quel tempo mio padre ci facesse avere delle forti somme, perché in casa nostra regnava l’abbondanza. Mia madre partecipò ai divertimenti del carnevale e, durante la quaresima, fece un presepio, o presepe, con pupazzetti, castelli di zucchero, e altri balocchi di questo genere, che sono molto in voga in tutto il reame di Napoli e rappresentano un oggetto di lusso per il borghese. Anche mia zia Lunardo ebbe un presepio, ma non era neppure da paragonare al nostro.

Per quanto io ricordo di mia madre, mi sembra che fosse molto buona, e spesso l’abbiamo vista piangere sui pericoli cui si esponeva il marito, ma qualche trionfo riportato sulla sorella o sui vicini asciugava prestissimo le sue lacrime. La soddisfazione che le procurò il suo bel presepio fu l’ultimo piacere di questo genere che essa poté gustare. Non so come, si prese una pleurite di cui morì dopo qualche giorno.

Alla sua morte, non avremmo saputo che cosa fare di noi se il bargello non ci avesse preso in casa sua. Passammo lì qualche giorno, dopodiché fummo consegnati a un mulattiere col quale traversammo tutta la Calabria e arrivammo a Messina dopo tredici giorni. Mio padre era già informato della morte della moglie. Ci accolse con molta tenerezza, ci fece dare una stuoia accanto alla sua e ci presentò ai monaci, che ci aggregarono ai bambini del coro. Servivamo la messa, smoccolavamo le candele, accendevamo le lampade, e, a parte questo, eravamo delle birbe matricolate non meno che a Benevento.

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Dopo aver mangiato la minestra dei monaci, mio padre ci dava un tarì ciascuno, con cui potevamo comprare castagne e croccanti, e poi andavamo a giocare al porto per tornare soltanto a notte fatta.

Insomma eravamo dei monelli felici quando un fatto, che ancor oggi non posso ricordare senza un moto di rabbia, decise la sorte di tutta la mia vita.

Una domenica, quando incominciavano i vespri, tornai al portico della chiesa con una manciata di castagne che avevo comperato per me e i miei fratelli, e stavo dividendole quando vidi arrivare uno splendido tiro a sei, preceduto da due cavalli dello stesso colore che correvano in libertà, un lusso che ho visto soltanto in Sicilia.

La portiera della carrozza si aprì, e ne vidi scendere prima un gentiluomo braciere, che diede il braccio a una bella dama, poi un abate e infine un ragazzino della mia età, grazioso d’aspetto e magnificamente vestito all’ungherese, come spesso si usava allora vestire i bambini. Il piccolo giustacuore era di velluto azzurro, ricamato in oro e guarnito di zibellino; gli scendeva fino a metà gamba e copriva anche una parte degli stivaletti, di marocchino giallo. Il berretto, anch’esso di velluto azzurro e guarnito di zibellino, era sormontato da un fiocco di perle che ricadeva su una spalla. La cintura era fatta di nappe e cordoncini d’oro, e la piccola sciabola era ornata di pietre preziose. Per finire, egli teneva in mano un libro di preghiere rilegato con placche d’oro.

Io fui così meravigliato di vedere un abito tanto bello su di un ragazzo della mia età che, non sapendo bene quel che facevo, andai da lui e gli offrii due castagne che avevo in mano, ma quel pessimo soggetto, invece di ricambiare il piccolo gesto di amicizia che gli facevo, con tutta la forza del suo braccio mi diede il libro di preghiere sul naso. Ebbi l’occhio sinistro quasi pesto, e un fermaglio del libro essendo penetrato in una narice, la lacerò in modo che in un istante fui coperto di sangue. Allora mi parve di sentire il signorino lanciare delle terribili urla, ma io avevo, per così dire, perduto conoscenza. Quando ripresi i sensi, mi trovavo presso la fontana del giardino, attorniato da mio padre e dai miei fratelli che mi lavavano il viso e cercavano di arrestare l’emorragia.

Intanto, mentre ero ancora tutto insanguinato, vedemmo arrivare il signorino, seguìto dal suo abate, dal gentiluomo braciere, e da due valletti, uno dei quali teneva un fascio di verghe. Il gentiluomo spiegò in poche parole che la signora principessa di Rocca-Fiorita esigeva che io fossi frustato a sangue in riparazione dello spavento che avevo causato a lei come al suo Principino, e senza indugio i valletti passarono all’esecuzione della sentenza. Mio padre, che temeva di perdere il suo asilo, dapprima non osò dir niente, ma poi, vedendo che mi si batteva senza pietà, non poté contenersi e, rivolgendosi al gentiluomo con l’accento stesso del furore soffocato, gli disse: «Fatela finita, o altrimenti ricordatevi che ho assassinato persone che ne valevano dieci della vostra risma». Il gentiluomo, considerando che tali parole racchiudevano un profondo significato, ordinò di por fine al mio supplizio, ma, quando ancora io ero coricato sul ventre, il Principino si avvicinò e mi diede un calcio sul viso dicendomi: «Managia la tua facia de banditu».

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Quest’ultimo insulto spinse la mia rabbia al colmo. Posso affermare che da quel momento la mia infanzia ebbe fine, o almeno che non ho più gustato le dolci gioie di quell’età, e in seguito, per lungo tempo, non ho potuto guardare a sangue freddo un uomo vestito riccamente.

Bisogna proprio dire che la vendetta è il peccato originale del nostro paese, poiché, sebbene avessi soltanto otto anni, notte e giorno non pensavo più ad altro che a punire il Principino. Mi svegliavo di soprassalto, sognando di tenerlo per i capelli e di bastonarlo, e, di giorno, meditavo di fargli del male da lontano, poiché dubitavo molto che mi si permettesse di avvicinarlo. Inoltre, volevo fuggire dopo aver fatto il colpo. Finalmente decisi di lanciargli una pietra sul viso, specie di esercizio in cui me la cavavo già abbastanza bene; tuttavia, per mantenermi addestrato, scelsi un bersaglio contro il quale mi esercitavo quasi tutto il giorno.

Una volta mio padre mi chiese che cosa stessi facendo. Gli risposi che era mia intenzione di spaccar la faccia al Principino, e poi di fuggire e diventare bandito. Mio padre parve non credere a quanto dicevo, ma mi sorrise in maniera tale da rafforzarmi nel mio progetto.

Finalmente giunse la domenica fissata per la mia vendetta. Apparve la carrozza e tutti ne discesero. Ero molto emozionato, ma mi ripresi. Il mio piccolo nemico mi individuò tra la folla e mi mostrò la lingua. Io tenevo stretta la mia pietra, la lanciai ed egli cadde riverso.

Mi misi subito a correre e mi fermai soltanto all’altro capo della città. Là incontrai un piccolo spazzacamino di mia conoscenza che mi chiese dove andassi. Gli raccontai tutta la storia, ed egli mi condusse subito dal suo padrone. Costui, che aveva bisogno di ragazzi e non sapeva dove prenderli per un mestiere così pesante, mi accolse con piacere. Mi disse che nessuno mi avrebbe riconosciuto una volta che avessi avuto il viso sporco di fuliggine, e che saper arrampicarsi su per i camini era una scienza spesso molto utile. In questo non mi ha certo ingannato. Devo all’abilità che acquistai allora se spesso ho avuto salva la vita. In un primo tempo la polvere dei camini e l’odore della fuliggine mi diedero fastidio, ma poi mi ci abituai, essendo in quell’età in cui ci si abitua a tutto. Erano circa sei mesi che esercitavo quel mestiere, quando mi capitò l’avventura che ora vi narrerò.

Mi trovavo su un tetto e tendevo l’orecchio per sapere da quale canna mi sarebbe giunta la voce del padrone. Mi parve di sentirlo gridare dal camino più vicino a me. Mi calai giù, ma scoprii che sotto il tetto la canna si divideva in due. A quel punto, avrei dovuto chiamare, ma non lo feci e, storditamente, decisi per una delle due aperture. Mi lasciai scivolar giù e mi trovai in un bel salone, dove la prima cosa che scorsi fu il mio Principino in camicia, che giocava al volano.

Benché quel piccolo sciocco avesse senza dubbio già visto altri spazzacamini, pensò bene di prendermi per il diavolo. Si inginocchiò pregandomi di non portarlo via e promettendomi di essere molto buono.

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Le sue promesse mi avrebbero forse commosso, ma avevo in mano il mio scopetto di spazzacamino e la tentazione di usarlo era diventata troppo forte; inoltre, mi ero sì vendicato del colpo datomi dal Principino col libro di preghiere, e in parte delle frustate, ma avevo ancora sullo stomaco il calcio che mi aveva dato in viso dicendo: «Managia la tua facia de banditi». Infine, a un napoletano piace vendicarsi piuttosto un po’ di più che un po’ di meno.

Così, staccai un fascio di verghe dalla scopa. Poi lacerai la camicia del Principino e, quando la sua schiena fu nuda, lacerai anche quella, o almeno la conciai abbastanza malamente; ma la cosa più strana fu che la paura gli impediva di gridare.

Quando credetti di aver fatto abbastanza, mi pulii il viso e gli dissi: «Ciucio maledetto io no zuno lu diavolu, io zuno lu piciolu banditu delli Augustini». Allora il Principino ritrovò l’uso della parola e si mise a gridare al soccorso, ma non aspettai che arrivasse qualcuno e risalii da dove ero sceso.

Quando fui sul tetto, sentii ancora la voce del padrone che mi chiamava, ma non pensai opportuno rispondere. Cominciai a correre di tetto in tetto, finché arrivai a quello di una scuderia davanti alla quale c’era un carro di fieno. Dal tetto balzai sul carro e dal carro a terra. Poi arrivai correndo al portico degli Agostiniani, dove raccontai a mio padre tutto ciò che mi era capitato. Mio padre mi ascoltò con grande interesse, poi mi disse: «Zoto, Zoto! Già vegio che tu sarai banditu». Poi, voltandosi verso un uomo che gli stava accanto, gli disse: «Padron Lettereo prendetelo chiutosto vui».

Lettereo è un nome di battesimo proprio di Messina. Viene da una lettera che la Vergine deve aver scritto agli abitanti di quella città e che deve aver datato nell’anno 1452 dalla nascita di mio figlio. I Messinesi sono tanto devoti a questa lettera quanto i Napoletani lo sono al sangue di San Gennaro. Vi racconto questo particolare perché un anno e mezzo dopo ho rivolto alla Madonna della lettera una preghiera che credo sia stata l’ultima della mia vita.

Padron Lettereo, dunque, era capitano di un pinco armato, in apparenza, per la pesca del corallo; ma, in realtà, egli era contrabbandiere e anche pirata, secondo l’occasione. Cosa quest’ultima che gli capitava raramente, poiché non aveva cannoni ed era costretto a sorprendere le navi in spiagge deserte.

A Messina tutto ciò era risaputo, ma Lettereo faceva il contrabbandiere per conto dei principali mercanti della città. I doganieri vi avevano la loro parte e, comunque, il Padrone passava per essere molto generoso di coltellade, il che incuteva timore a coloro che avrebbero voluto procurargli dei fastidi. Per giunta aveva un aspetto davvero imponente; l’altezza e la robustezza sarebbero bastate a farlo notare, ma tutto il resto vi si accordava così bene che i timorosi non potevano guardarlo senza provare un moto di spavento. Il suo viso, già molto bruno, era reso ancora più scuro dalle numerose cicatrici lasciategli da uno scoppio di polvere da sparo, e la pelle grigiastra era ornata di molti e strani disegni.

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Quasi tutti i marinai del Mediterraneo hanno l’uso di farsi tatuare le braccia e il petto con numeri, profili di galere, croci e altri simili fregi. Ma Lettereo era andato ancora più in là. Su una guancia portava tatuato un crocifisso e sull’altra una madonna, delle quali immagini, però, non si vedeva che la parte superiore, poiché quella inferiore era nascosta da una folta barba, mai toccata dal rasoio e contenuta entro certi limiti soltanto dalle forbici. A questo aggiungete degli anelli d’oro alle orecchie, un berretto rosso, una cintura dello stesso colore, una giubba senza maniche, pantaloni alla marinara, braccia e piedi nudi, e le tasche piene d’oro. Tale era il Padrone.

Si dice che nella sua giovinezza avesse avuto degli amori fortunati con donne della più alta società. Egli era tuttora il cocco delle donne della sua condizione e il terrore dei loro mariti.

Infine, per farvi conoscere ancor meglio Lettereo, vi dirò che era stato l’amico intimo di un uomo veramente di merito che, in seguito, ha fatto parlare di sé sotto il nome di capitan Pepo. Insieme avevano servito tra i corsari di Malta. Poi Pepo era entrato al servizio del re, mentre Lettereo, a cui l’onore stava meno a cuore che il denaro, aveva preso la decisione di arricchirsi con qualsiasi mezzo e, nello stesso tempo, era diventato l’irriconciliabile nemico del suo antico camerata.

Mio padre, che nel suo asilo non aveva niente da fare se non curarsi la ferita di cui non sperava più la completa guarigione, conversava volentieri con gli eroi della sua risma. In questo modo si era legato con Lettereo e, raccomandandomi a lui, aveva ragione di sperare che non sarei stato rifiutato. Infatti non si sbagliò.

Lettereo fu anzi sensibile a quel segno di amicizia. Promise a mio padre che il mio noviziato sarebbe stato meno duro di quanto lo è di solito per un mozzo di vascello, e l’assicurò che, essendo già stato spazzacamino, mi sarebbero bastati due giorni per imparare ad arrampicarmi durante le manovre.

In quanto a me, ero felice, poiché il mio nuovo stato mi sembrava più nobile che non spazzare i camini. Abbracciai mio padre e i miei fratelli e insieme a Lettereo mi incamminai allegramente verso la nave. Quando fummo a bordo, il Padrone radunò il suo equipaggio (una ventina di uomini il cui aspetto corrispondeva abbastanza bene al suo) e mi presentò a questi signori facendo loro il seguente discorso: «Anime managie, quista criadura è lu filiu de Zotu, se uno de vui autri li mette la mano sopra io li mangio l’anima».

Questa raccomandazione ebbe tutto l’effetto che doveva avere.

Volevano perfino che mangiassi alla mensa comune, ma, poiché vidi due mozzi della mia età che servivano i marinai e mangiavano i loro resti, ne seguii l’esempio. Mi lasciarono fare e anzi mi amarono di più. Ma quando poi si vide come salivo sull’antenna, ciascuno si affrettò a darmi testimonianze di stima. Nelle vele latine, l’antenna sta al posto del pennone, ma è molto meno pericoloso tenersi sui pennoni, perché sono sempre in una posizione orizzontale.

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Spiegammo le vele e, dopo tre giorni, arrivammo alle bocche di San Bonifacio, che separano la Sardegna dalla Corsica. Vi trovammo più di sessanta barche occupate nella pesca del corallo. Anche noi ci mettemmo a pescare, o almeno facevamo finta. Ma io in particolare imparavo moltissimo, tanto che nello spazio di quattro giorni nuotavo e mi tuffavo come i più coraggiosi dei miei compagni.

Dopo otto giorni la nostra piccola flottiglia fu dispersa dal Gregal – è il nome che nel Mediterraneo si dà a un vento di nord-est.

Ciascuno si salvò come poté. In quanto a noi, arrivammo a gettar l’àncora in un luogo conosciuto sotto il nome di rada di San Pietro. E’ una spiaggia deserta sulla costa della Sardegna. Vi trovammo una polacra veneziana, che sembrava aver sofferto molto per la tempesta.

Il nostro padrone formulò subito dei progetti su questa nave e le gettò l’àncora molto vicino. Poi fece scendere una parte dell’equipaggio nella stiva, perché sembrasse che ci fossero pochi uomini. Era una precauzione quasi superflua, perché le navi latine hanno sempre più uomini delle altre.

Lettereo, che continuava a osservare l’equipaggio veneziano, vide che era composto soltanto dal capitano, dal sottocapo, da sei marinai e da un mozzo. Notò inoltre che la vela di coffa era strappata e che stavano ammainandola per ripararla, poiché i mercantili non hanno vele di ricambio. Forte di queste osservazioni, mise otto fucili e altrettante sciabole nella scialuppa, coprì il tutto con una tela incatramata e decise di attendere il momento favorevole.

Quando il tempo si fu rimesso al bello, i marinai salirono sulla vela di gabbia per spiegarla, ma, poiché essi non ce la facevano, salì anche il sottocapo, seguito dal capitano. Allora Lettereo fece scendere la scialuppa in mare, ci si calò con sette uomini e abbordò da dietro la polacra. Il capitano, sul pennone, gridò loro: «A larga ladron, a larga!». Ma Lettereo spianò il fucile minacciando di uccidere il primo che volesse scendere. Il capitano, che sembrava un uomo deciso, si lanciò sulle sartie per calarsi giù. Lettereo lo colpì al volo. Cadde in mare e non lo si rivide più. I marinai chiesero grazia. Lettereo lasciò quattro uomini per tenerli a bada e, con gli altri tre, si mise a perlustrare l’intero vascello. Nella stanza del capitano trovò un barile, di quelli in cui si mettono le olive, ma, poiché era piuttosto pesante e cerchiato accuratamente, pensò che potevano esserci dentro altre cose, l’aprì e fu gradevolmente sorpreso di trovarvi molti sacchi d’oro. Non chiese di più e sonò la ritirata. Il manipolo tornò a bordo, e noi spiegammo le vele. Passando dietro alla nave veneziana gridammo ancora, per scherno: «Viva San Marco!».

Cinque giorni dopo arrivammo a Livorno. Subito il Padrone andò dal console di Napoli con due dei suoi, e gli fece la sua relazione: come il suo equipaggio fosse venuto a lite con quello di una polacra veneziana, e come il capitano di questa fosse stato disgraziatamente urtato da un marinaio e fosse caduto in mare. Una parte del barile di olive servì a dare a questo racconto l’aria della più grande verosimiglianza.

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Lettereo, che aveva un deciso gusto per la pirateria, senza dubbio avrebbe tentato altre imprese del genere, ma a Livorno gli fu proposto un nuovo commercio al quale diede la preferenza. Un ebreo, chiamato Nathan Levi, avendo notato che il papa e il re di Napoli guadagnavano molto sulle loro monete di rame, volle anche lui prender parte a tale guadagno. Perciò fece fabbricare delle monete simili in una città d’Inghilterra chiamata Birmingham. Quando ne ebbe una certa quantità, stabilì uno dei suoi uomini alla Flariola, borgo di pescatori situato sulla frontiera dei due Stati, e Lettereo s’incaricò di trasportarvi e sbarcare la mercanzia.

Il profitto fu considerevole e, per più di un anno, non facemmo altro che andare e venire, sempre carichi delle nostre monete romane e napoletane. Forse avremmo potuto continuare a lungo i nostri viaggi, ma Lettereo, che aveva un genio per le speculazioni, propose all’ebreo di far fabbricare anche monete d’oro e d’argento.

Quest’ultimo seguì il suo consiglio e stabilì a Livorno stessa una piccola manifattura di zecchini e scudi. I nostri guadagni eccitarono la gelosia dei potenti. Un giorno che Lettereo era a Livorno, pronto ad alzare le vele, vennero a dirgli che il capitano Pepo aveva avuto ordine dal re di Napoli di catturarlo, ma che non poteva mettersi in mare prima della fine del mese. Questa falsa notizia non era che una scaltrezza di Pepo, che aveva già preso il mare da quattro giorni.

Lettereo ne fu la vittima. Infatti il vento era favorevole, egli credette di poter fare ancora un viaggio e alzò le vele.

Il giorno dopo, all’alba, ci trovammo in mezzo alla squadriglia di Pepo, composta di due galeotte e di due brigantini. Eravamo circondati e non c’era modo di scappare. Lettereo aveva la morte negli occhi. Spiegò tutte le vele e si diresse sulla capitana. Pepo era sul ponte e dava ordini per l’abbordaggio. Lettereo prese un fucile, lo puntò e gli ferì un braccio. Tutto questo fu cosa di pochi secondi.

Subito dopo, le quattro navi puntarono su di noi, e sentivamo da tutti i lati: «Maina ladro, Maina can Senzafede». Lettereo virò a babordo, in modo che la nostra banda rasentava la superficie dell’acqua. Poi, rivolgendosi all’equipaggio, ci disse: «Anime managie, io in galera non ci vado. Pregate per me la santissima Madonna della lettera». Ci inginocchiammo tutti e Lettereo si mise in tasca delle palle di cannone. Credemmo che volesse gettarsi in mare.

Ma l’astuto pirata non la pensava così. C’era un grosso barile pieno di monete legato sopravvento. Lettereo si armò di una scure e tagliò la gomena. Subito il barile rotolò sull’altra banda, e poiché noi eravamo già molto inclinati, ci fece capovolgere del tutto. Dapprima, noi che stavamo in ginocchio finimmo tutti sulle vele e, quando la nave si inabissò, queste, per la loro elasticità, ci rigettarono fortunatamente a molte tese dalla parte opposta.

Pepo ci ripescò tutti, tranne il capitano, un marinaio e un mozzo.

A mano a mano che ci tiravano fuori dall’acqua, venivamo legati strettamente e gettati nella stiva della capitana. Quattro giorni dopo approdammo a Messina. Pepo fece avvertire i giudici che aveva da consegnare dei soggetti degni della loro

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attenzione. Il nostro sbarco non mancò di una certa pompa. Era proprio l’ora del Corso, quando tutta la nobiltà passeggia su quella che si chiama la Marina. Noi marciavamo tristemente, preceduti e seguìti dagli sbirri.

Fra gli spettatori si trovò ad esserci il Principino. Come mi vide, mi riconobbe e gridò: «Ecco lu piciolu banditu delli Augustini». E così dicendo, mi saltò addosso, mi afferrò per i capelli e mi graffiò il viso. Poiché avevo le mani legate dietro la schiena, facevo fatica a difendermi.

Tuttavia, ricordando una mossa che avevo visto fare a Livorno da alcuni marinai inglesi, liberai la testa e diedi un gran colpo nello stomaco del Principino. Egli cadde riverso. Poi, alzandosi furibondo tirò fuori dalla tasca un piccolo coltello e tentò di ferirmi. Lo evitai e, facendogli lo sgambetto, lo buttai a terra molto malamente; anzi, cadendo, si ferì col coltello che aveva in mano. La principessa, arrivata in quel momento, voleva farmi battere ancora dalla sua gente. Ma gli sbirri si opposero e ci condussero in prigione.

Il processo al nostro equipaggio non fu lungo; furono condannati a ricevere «il tratto di corda» e poi a passare il resto dei loro giorni in galera. In quanto al mozzo che era scappato e a me, fummo rilasciati perché non avevamo l’età legale. Quando ci fu resa la libertà, andai al convento degli Agostiniani. Ma non vi trovai più mio padre. Il frate portiere mi disse che era morto e che i miei fratelli erano andati mozzi su una nave spagnola. Chiesi allora di parlare al priore. Fui introdotto e raccontai la mia breve storia, senza dimenticare il colpo di testa e lo sgambetto dati al Principino. Sua Reverenza mi ascoltò con molta bontà, poi mi disse: «Ragazzo mio, vostro padre, morendo, ha lasciato al convento una somma considerevole. Era una ricchezza mal guadagnata alla quale voi non avete alcun diritto. E’ nelle mani di Dio e deve essere impiegata al mantenimento dei suoi servi. Tuttavia abbiamo osato toglierne qualche scudo e li abbiamo dati al capitano spagnolo che si è preso con sé i vostri fratelli. In quanto a voi, non possiamo più darvi asilo in questo convento, per riguardo alla Signora Principessa di Rocca-Fiorita, nostra illustre benefattrice. Ma, ragazzo mio, voi andrete nella fattoria che abbiamo ai piedi dell’Etna, e lì passerete tranquillamente gli anni dell’infanzia». Ciò detto, il priore chiamò un converso e gli diede gli ordini circa il mio futuro.

Il giorno dopo partii col converso. Arrivati alla fattoria vi fui installato. Di tanto in tanto venivo mandato in città per alcune commissioni che riguardavano gli approvvigionamenti. Durante quelle brevi scappate feci il possibile per evitare il Principino. Ma, una volta che comperavo delle castagne per la via, egli si trovò a passar di lì, mi riconobbe e mi fece duramente fustigare dai suoi lacchè.

Qualche tempo dopo, m’introdussi in casa sua travestito: mi sarebbe certo stato facile assassinarlo, e mi pento tutti i giorni di non averlo fatto. Ma allora non mi ero ancora familiarizzato con operazioni del genere, e mi accontentai di maltrattarlo. Durante i primi anni della mia giovinezza non sono mai passati sei mesi, e nemmeno quattro, senza che io non incontrassi quel maledetto Principino che, spesso, aveva su di me il vantaggio del numero.

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Finalmente compii quindici anni e, in quanto all’età e alla ragione, ero un bambino, ma per la forza e il coraggio ero quasi un uomo, cosa che non deve affatto sorprendere se si pensa che l’aria di mare e poi quella delle montagne avevano rinsaldato il mio temperamento.

Avevo dunque quindici anni quando vidi per la prima volta il bravo e degno Testa-Lunga, il più onesto e virtuoso bandito che ci sia mai stato in Sicilia. Domani, se voi lo permettete, vi farò conoscere quest’uomo, la cui memoria vivrà eternamente nel mio cuore. Per adesso sono obbligato a lasciarvi, l’amministrazione della mia caverna esige cure attente alle quali non posso sottrarmi.

Zoto ci lasciò, e ciascuno di noi fece sul suo racconto riflessioni consone al proprio carattere. Io confessai di non poter rifiutare una specie di stima a degli uomini coraggiosi come quelli che ci aveva descritto. Emina sosteneva che il coraggio non merita la nostra stima se non quando lo si usa per far rispettare la virtù. Zibeddé disse che un piccolo bandito di sedici anni poteva ben ispirare l’amore.

Cenammo, poi ciascuno andò a coricarsi. Le due sorelle vennero ancora a sorprendermi. Emina mi disse:

• Mio Alfonso, sareste capace di fare un sacrificio per noi? Si tratta del vostro interesse più che del nostro.

• Mia bella cugina, - le risposi – tutti questi preamboli non sono necessari. Ditemi con semplicità cosa desiderate.

• Caro Alfonso, - riprese Emina – quel gioiello che portate al collo, e che voi dite essere un pezzo della vera croce, ci offende e ci raggela.

• Oh! Per questo gioiello, - dissi subito – non me lo chiedete neppure. Ho promesso a mia madre di non abbandonarlo mai e io mantengo tutte le promesse che faccio. Non sarete voi a dubitarne.

Le mie cugine non risposero, fecero il broncio per un po’, poi si raddolcirono, e la notte passò più o meno come la precedente. Ciò vuol dire che le cinture non furono molestate.

Settima giornata

La mattina dopo mi svegliai più presto del giorno precedente e andai a trovare le cugine. Emina leggeva il Corano, Zibeddé si provava collane di perle e scialli. Interruppi quelle serie occupazioni con dolci carezze, ispirate dall’amicizia non meno che dall’amore. Poi pranzammo. Finito il pasto Zoto venne a riprendere il filo della sua storia, ciò che fece in questi termini.

Seguito della storia di Zoto

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• Avevo promesso di parlarvi di Testa-Lunga. Manterrò la parola. Il mio amico era un pacifico abitante di Val-Castera, piccolo borgo ai piedi dell’Etna. Egli aveva una bella moglie. Un giorno il giovane principe di Val-Castera, visitando le sue proprietà, vide questa donna che era venuta a ossequiarlo insieme alle altre mogli dei notabili. Il presuntuoso giovanotto, ben lontano dall’essere sensibile all’omaggio che, con le mani della bellezza, gli veniva offerto dai suoi vassalli, si occupò soltanto delle grazie della signora Testa-Lunga. Senza preamboli le fece capire l’effetto che produceva sui suoi sensi e le mise una mano nel corsetto. In quell’istante il marito si trovava dietro la moglie. Trasse di tasca un coltello e lo conficcò nel cuore del giovane principe. Credo che al suo posto qualsiasi uomo d’onore avrebbe agito così.

Dopo questo fatto, Testa-Lunga si nascose in una chiesa, dove rimase fino a notte. Ma ritenendo di dover prendere altre precauzioni per il futuro, decise di raggiungere alcuni banditi che da poco si erano rifugiati sulle cime dell’Etna. Vi andò e i banditi lo riconobbero per loro capo.

In quel tempo l’Etna aveva vomitato un’incredibile quantità di lava, e approfittando di quelle fiumane incandescenti, Testa-Lunga si servì di quei covi i cui accessi erano noti soltanto a lui per rafforzarsi. Quando ebbe provveduto in tal modo alla propria sicurezza, questo capo ardito si rivolse al viceré per chiedergli la grazia per sé e i suoi compagni. Il governo rifiutò, nel timore, immagino, di compromettere la sua autorità. Allora Testa-Lunga iniziò delle trattative con i più importanti massari delle terre vicine. E disse loro: «Rubiamo in comune, io verrò con le mie richieste, voi mi darete ciò che vorrete, e sarete pur sempre al coperto di fronte ai vostri padroni».

Era sempre rubare, ma Testa-Lunga spartiva tutto fra i compagni e teneva per sé soltanto lo stretto necessario. Anzi, se egli traversava un villaggio faceva in modo che i suoi pagassero ogni cosa il doppio, tanto che ben presto divenne l’idolo del popolo delle Due Sicilie.

Vi ho già detto che molti uomini della banda di mio padre avevano raggiunto Testa-Lunga, il quale per alcuni anni si tenne a sud dell’Etna per fare scorribande nella Val di Noto e nella Val di Mazara. Ma all’epoca di cui vi parlo, cioè quando io ebbi compiuto quindici anni, la banda ritornò nella Val Demoni, e un bel giorno la vedemmo capitare nella fattoria dei monaci.

Tutto quel che voi potete immaginare di intrepido e di affascinante sarebbe ancora troppo poco per descrivere gli uomini di Testa-Lunga.

Divise da micheletti, una reticella di seta sui capelli, una cintura di pistole e pugnali; una spada lunga, e un fucile uguale, tale era più o meno il loro equipaggiamento di guerra. Rimasero tre giorni a mangiare i nostri polli e a bere il nostro vino. Al quarto fu loro annunciato che un distaccamento di dragoni di Siracusa si avanzava con l’intento di accerchiarli. Questa notizia li fece ridere a crepapelle. Si posero in agguato in una strada incassata, attaccarono il distaccamento e lo dispersero. Erano uno contro dieci, ma ciascuno di loro aveva dieci bocche da fuoco, e della migliore qualità.

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Dopo la vittoria, i banditi tornarono alla fattoria, e io, che li avevo visti battersi da lontano, ne fui così entusiasta che mi gettai ai piedi del capo scongiurandolo di accogliermi nella sua banda.

Testa-Lunga domandò chi fossi. Risposi che ero il figlio del bandito Zoto. A quel nome amato, tutti coloro che avevano servito sotto mio padre mandarono un grido di gioia. Poi uno di loro, prendendomi fra le sue braccia, mi pose sulla tavola e disse: «Camerati, il luogotenente di Testa-Lunga è stato ucciso nel combattimento; non sappiamo come sostituirlo. Che il piccolo Zoto sia il nostro luogotenente! Non vedete che ai figli dei duchi e dei principi vengono dati dei reggimenti? Quello che si fa per loro, facciamolo noi per il figlio del prode Zoto. Garantisco che egli si renderà degno di tale onore». Questo discorso valse grandi applausi all’oratore, e io fui eletto all’unanimità.

In principio il mio grado era soltanto uno scherzo, e tutti i banditi scoppiavano dal ridere chiamandomi: «Signor tenente». Ma furono costretti a cambiar tono. Non soltanto ero sempre il primo all’attacco e l’ultimo a coprire la ritirata, ma nessuno di loro era bravo come me quando si trattava di spiare i movimenti del nemico o di assicurare il riposo della banda. Talvolta mi arrampicavo sulla cima delle rocce per osservare un più ampio tratto di campagna e fare i segnali convenuti, e talvolta passavo intere giornate proprio in mezzo ai nemici, scendendo da un albero soltanto per arrampicarmi su un altro. Spesso mi è capitato anche di passare le notti sui più alti castagni dell’Etna. E quando non potevo più resistere al sonno, mi legavo ai rami con una cinghia. Tutto ciò non mi riusciva molto difficile, essendo stato mozzo e spazzacamino.

Insomma tanto feci che la sicurezza comune mi fu interamente affidata. Testa-Lunga mi amava come un figlio, ma, se posso dirlo, io acquistai una rinomanza che quasi superava la sua, e le imprese del piccolo Zoto divennero in Sicilia il soggetto di tutte le conversazioni. Tanta gloria non mi rese però insensibile alle dolci distrazioni proprie della mia età. Vi ho già detto che, da noi, i banditi erano gli eroi del popolo, e potete esser certi che le pastorelle dell’Etna non mi avrebbero negato il loro cuore; ma il mio era destinato a cedere a grazie più delicate, e l’amore gli riservava una conquista più lusinghiera.

Ero luogotenente da due anni, e ne avevo quasi diciotto, quando la nostra banda fu obbligata a ritornare verso il sud, poiché una nuova eruzione del vulcano aveva distrutto i nostri abituali rifugi. Dopo quattro giorni arrivammo a un castello, chiamato Rocca-Fiorita, principale feudo e maniero del Principino, il mio nemico.

Io non pensavo più alle offese da lui ricevute, ma il nome del luogo rinnovò tutto il mio rancore. Ciò non deve affatto sorprendervi: nei nostri climi, i cuori sono implacabili. Se il Principino fosse stato nel suo castello, credo che avrei messo questo a ferro e fuoco. Mi limitai a fare più danni che potei, e i miei compagni mi assecondavano del loro meglio, conoscendone i motivi. I domestici del castello, che in un primo tempo avevano voluto opporre resistenza, cedettero del tutto di fronte al

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buon vino del loro padrone che noi spandevamo a fiotti. Furono dei nostri. Insomma, trasformammo Rocca-Fiorita in un vero paese di cuccagna.

Questa vita durò cinque giorni. Al sesto, le nostre spie mi avvertirono che stavamo per essere attaccati da tutto il reggimento di Siracusa, e che il Principino sarebbe venuto subito dopo con la madre e molte dame di Messina. Feci ritirare la mia banda, ma io restai per curiosità, e mi sistemai sulla cima di una folta quercia che si trovava all’estremità del giardino. Tuttavia ebbi la precauzione di fare un buco nel muro del giardino per facilitare la mia fuga.

Finalmente vidi arrivare il reggimento, che si accampò davanti alla porta del castello dopo aver collocato tutt’intorno delle sentinelle.

Poi arrivò una fila di lettighe con dentro le dame, e nell’ultima c’era il Principino in persona, sdraiato su una pila di cuscini. Egli discese con fatica, sorretto da due scudieri, si fece precedere da un drappello di soldati e, quando seppe che nessuno di noi era rimasto nel castello, vi entrò con le dame e alcuni gentiluomini del seguito.

Proprio ai piedi del mio albero c’era una sorgente di acqua fresca, una tavola di marmo e delle panche. Era la parte più curata del giardino. Supposi che la compagnia non avrebbe tardato a venire, e decisi di aspettare per osservarla più da vicino. Infatti, trascorsa mezz’ora, vidi arrivare una giovinetta circa della mia età. Gli angeli non sono più belli, e l’impressione che mi fece fu così forte e improvvisa che sarei forse caduto dalla cima dell’albero se non fossi stato legato con la cinghia, cosa che facevo qualche volta per riposarmi con più tranquillità.

La giovinetta aveva gli occhi bassi e l’aria della più profonda malinconia. Si sedette su una panca, si appoggiò sulla tavola di marmo e versò molte lacrime. Senza sapere troppo quello che facevo, mi lasciai scivolare a terra dal mio albero e mi collocai in modo da poterla vedere senza farmi scorgere. In quel momento vidi avanzare il Principino con un mazzo di fiori in mano. Erano circa tre anni che non lo incontravo. Si era formato, di viso era bello, benché abbastanza insulso.

Quando la giovinetta lo vide, la sua fisionomia manifestò un disprezzo di cui le fui molto grato. Tuttavia il Principino le si accostò, con un’aria contenta di sé, e le disse:

«Mia cara fidanzata, ecco un mazzo che vi darò se mi promettete di non parlarmi mai più di quel piccolo pezzente di Zoto».

La damigella rispose:

«Signor principe, mi sembra che voi abbiate torto di porre delle condizioni ai vostri favori; e poi, anche se io non vi parlassi più dell’avvenente Zoto, tutta la casa ve ne parlerebbe ugualmente. La vostra stessa nutrice non vi ha detto di non aver mai visto un così bel ragazzo? Eppure eravate presente».

Il Principino, punto sul vivo, replicò:

«Signorina Silvia, ricordatevi che siete la mia promessa sposa».

Silvia non rispose nulla e scoppiò in lacrime.

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Allora il Principino, furioso, le disse:

«Spregevole creatura, poiché sei innamorata di un bandito, ecco quello che ti meriti!».

E così dicendo le diede uno schiaffo.

Allora la damigella gridò:

«Zoto, perché non sei qui a punire questo vigliacco!».

Non aveva finito di parlare che io mi mostrai e dissi al principe: «Dovresti riconoscermi. Sono un bandito e potrei assassinarti. Ma rispetto Madamigella che si è degnata di chiamarmi in suo aiuto, e voglio battermi alla maniera di voialtri nobili».

Avevo con me due pugnali e quattro pistole. Ne feci due parti, le posi a dieci passi l’una dall’altra, e lasciai la scelta al Principino. Ma il disgraziato era caduto privo di sensi su una panca.

Allora Silvia intervenne e mi disse:

«Prode Zoto, io sono nobile e povera. Domani avrei dovuto sposare il principe, oppure entrare in convento. Non farò né l’una né l’altra cosa. Voglio essere tua per la vita».

E si gettò nelle mie braccia.

Potete credere che non mi feci pregare. Tuttavia bisognava impedire che il principe ostacolasse la nostra ritirata. Presi un pugnale e, servendomi di una pietra come di un martello, gli inchiodai la mano sulla panca dove era seduto. Egli mandò un grido e svenne di nuovo.

Uscimmo attraverso il buco che avevo fatto nel muro del giardino e risalimmo sulla cima dei monti.

Tutti i miei compagni avevano delle amanti; essi furono molto contenti che anch’io ne avessi una, e le loro belle giurarono di ubbidire in tutto alla mia.

Avevo trascorso quattro mesi con Silvia, quando fui obbligato a lasciarla per rendermi conto dei cambiamenti che l’ultima eruzione aveva prodotto nel nord. Durante questo viaggio scoprii nella natura incanti di cui prima non mi ero accorto. Notai dei praticelli, delle grotte, dei recessi ombrosi, là dove prima avrei visto soltanto luoghi adatti alle imboscate o alla difesa. Insomma Silvia aveva intenerito il mio cuore di brigante. Esso non tardò tuttavia molto a riacquistare tutta la sua ferocia.

Ma torniamo al mio viaggio al nord della montagna. Mi esprimo così perché i Siciliani, quando parlano dell’Etna, dicono sempre il monte

• o il monte per eccellenza. Come prima cosa mi diressi verso quella che noi chiamiamo la torre del Filosofo, ma non potei arrivarci. Un baratro apertosi sui fianchi del vulcano aveva vomitato un torrente di lava che, dividendosi un po’ al di sopra della torre e ricongiungendosi un miglio più in basso, vi formava un’isola inaccessibile.

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Capii subito l’importanza di questa posizione, tanto più che nella torre stessa avevamo una provvista di castagne che non volevo perdere. A forza di cercare, ritrovai un cunicolo sotterraneo, dove ero passato altre volte, che mi condusse fino ai piedi, o meglio all’interno della torre stessa. Subito decisi di sistemare in quest’isola tutta la nostra tribù femminile. Vi feci costruire delle capanne di frasche e ne ornai una il meglio possibile. Poi tornai al sud, da dove condussi con me tutta la colonia, che rimase incantata del nuovo asilo.

Adesso, quando mi ricordo del tempo passato in quel felice soggiorno, lo ritrovo come un’isola in mezzo alle crudeli traversie che hanno sconvolto la mia vita. Eravamo separati dagli uomini da torrenti di fiamme; quelle dell’amore accendevano i nostri sensi. Lì, tutto obbediva ai miei ordini e tutto era sottoposto ai voleri della mia cara Silvia. Infine, per colmare la mia felicità, vennero a trovarmi i miei due fratelli. Ambedue avevano avuto delle avventure interessanti, e posso assicurarvi che, se qualche giorno vorrete ascoltarne il racconto, esso vi darà più soddisfazione del mio.

Ci sono pochi uomini che nella loro vita non possano contare dei giorni felici ma non so se ce ne siano che possano contare degli anni felici. In quanto a me, la mia felicità non durò neppure un anno. I bravos della banda erano molto onesti fra di loro. Nessuno avrebbe osato mettere gli occhi sull’amante di un compagno, e meno ancora sulla mia. La gelosia era quindi bandita dalla nostra isola, o meglio era soltanto esiliata per qualche tempo, poiché questa furia ritrova anche troppo facilmente la via dei luoghi dove abita l’amore.

Un giovane bandito chiamato Antonino si innamorò di Silvia, e poiché la sua passione era violenta, non poteva nasconderla. Iostesso me ne accorsi, ma, vedendolo molto triste, pensai che la mia amante non lo ricambiasse e rimasi tranquillo. Avrei solo voluto guarire Antonino, che amavo per il suo valore. Nella banda c’era un altro brigante chiamato Moro che, invece, detestavo per la sua vigliaccheria e che Testa-Lunga avrebbe dovuto scacciare da tempo se mi avesse dato ascolto.

Moro seppe guadagnarsi la fiducia del giovane Antonino, e gli promise di assecondare il suo amore. Seppe anche farsi ascoltare da Silvia facendole credere che io avevo un’amante in un villaggio vicino. Silvia ebbe paura di spiegarsi con me. Prese un contegno riservato che io attribuii a un mutamento di sentimenti nei miei riguardi. Nello stesso tempo Antonino, consigliato da Moro, raddoppiò le assiduità presso Silvia, e prese un’aria soddisfatta che mi fece supporre che lei lo rendesse felice.

Non avevo esperienza nello sbrogliare trame di questo genere.

Pugnalai Silvia e Antonino. Questi, prima di morire, mi svelò il tradimento di Moro. Il pugnale sanguinante in mano, andai a cercare lo scellerato. Egli ne fu atterrito, cadde in ginocchio, e mi confessò che il principe di Rocca-Fiorita l’aveva pagato per farmi morire insieme a Silvia, e infine che si era aggregato alla nostra banda soltanto per attuare questo piano. Pugnalai anche lui. Poi mi recai a Messina e, dopo essermi introdotto dal principe col favore di un travestimento, lo mandai all’altro mondo a

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raggiungere il suo confidente e le mie due altre vittime. Così finì la mia felicità e anche la mia gloria. Il mio coraggio si mutò in una completa indifferenza per la vita, e poiché avevo la stessa indifferenza per la sicurezza dei miei compagni, persi ben presto la loro fiducia.

Posso assicurarvi che da allora sono diventato un brigante dei più comuni.

Poco tempo dopo, Testa-Lunga morì di una pleurite, e tutta la sua banda si disperse. I miei fratelli, che conoscevano bene la Spagna, mi persuasero ad andarvi. Mi misi alla testa di dodici uomini, andai nella baia di Taormina e mi ci tenni nascosto per tre giorni. Il quarto, ci impadronimmo di un brigantino con il quale approdammo sulle coste dell’Andalusia.

Benché in Spagna ci siano molte catene montuose che potevano offrirci rifugi eccellenti, diedi la preferenza alla Sierra Morena, e non ebbi occasione di pentirmi. Mi impadronii di due convogli di monete pregiate e feci altri colpi importanti.

Alla fine i miei successi preoccuparono la corte. Il governatore di Cadice ebbe l’ordine di prenderci, vivi o morti, e mobilitò più di un reggimento. D’altro lato, il grande sceicco dei Gomelez mi propose di entrare al suo servizio e mi offrì un rifugio in questa nostra caverna. Lo accettai senza esitare.

Il tribunale di Granata non volle darsi per vinto. Poiché non era possibile scovarci, fece prendere due pastori della valle e li fece impiccare come se fossero i fratelli di Zoto. Conoscevo questi due uomini e so che hanno commesso molti delitti. Eppure si dice che essi siano adirati per essere stati impiccati al nostro posto, e che di notte scendano dalla forca per combinare un’infinità di disastri. Io non ne sono stato testimone e non so che cosa dirvi. Però è vero che mi è capitato molte volte di passare vicino alla forca durante la notte e con la luna piena, e ho notato che i due impiccati non c’erano, mentre al mattino erano di nuovo lì.

• Ecco, miei cari padroni, il racconto che mi avete chiesto. Credo che i miei fratelli, la cui vita non è stata così selvaggia, avrebbero avuto delle cose più interessanti da dirvi, ma non ne avranno il tempo, perché il nostro imbarco è pronto, e ho ordini precisi perché abbia luogo domani mattina.

Zoto si ritirò, e la bella Emina disse tristemente:

• Quest’uomo aveva ben ragione, il tempo della felicità ha poco posto nella vita umana. Qui abbiamo passato tre giorni che forse non ritroveremo mai più.

La cena non fu per niente allegra e io mi affrettai ad augurare la buona notte alle cugine. Speravo di rivederle nella mia camera da letto e di riuscire meglio a dissipare la loro malinconia.

Vennero anche più presto del solito, e, per colmo di felicità, tenevano le cinture in mano. Tale segno non era difficile da intendere. Tuttavia Emina si prese la pena di spiegarmelo. Mi disse:

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• Caro Alfonso, voi non avete posto limite alla vostra devozione per noi e noi non vogliamo porne alla nostra riconoscenza. Forse saremo separati per sempre. Questo sarebbe, per altre donne, un motivo di mostrarsi severe, ma noi vogliamo vivere nel vostro ricordo, e se le donne che vedrete a Madrid ci supereranno per le grazie dello spirito e del corpo, almeno non avranno il vantaggio di sembrarvi più tenere o più appassionate. Tuttavia, mio caro Alfonso, è ancora necessario che rinnoviate la promessa da voi già fatta di non tradirci, e giuriate ancora di non credere al male che vi diranno di noi.

Non potei impedirmi di sorridere un po’ dell’ultima clausola, ma promisi quello che volevano e ne fui ricompensato dalle più dolci carezze. Poi Emina mi disse ancora:

• Mio caro Alfonso, questa reliquia che avete al collo ci dà fastidio. Non potete deporla un istante?

Rifiutai, ma Zibeddé aveva in mano delle forbici, me le passò dietro al collo e tagliò il nastro. Emina si impadronì della reliquia e la gettò in una fenditura della roccia.

• La riprenderete domani; - mi disse – intanto, mettetevi al collo questa treccia fatta dei miei capelli e di quelli di mia sorella; per giunta il talismano che vi è attaccato preserva dall’incostanza, se pure qualche cosa può preservarne gli amanti.

Poi Emina si tolse una spilla d’oro che le tratteneva i capelli e se ne servì per chiudere accuratamente le cortine del letto.

Seguirò il suo esempio, e stenderò un velo sul resto della scena.

Basterà sapere che le mie belle amiche diventarono le mie spose.

Senza dubbio ci son dei casi in cui la violenza non può senza delitto spargere sangue innocente. Ma ce ne sono altri in cui tanta crudeltà serve l’innocenza facendola apparire in pieno risalto. Questo fu anche il nostro caso, e io ne conclusi che le mie cugine non avevano avuto una parte molto reale nei miei sogni della Venta Quemada.

Finalmente i nostri sensi si acquietarono, e noi eravamo abbastanza tranquilli allorché una fatale campana sonò mezzanotte. Non potei impedirmi una certa sorpresa, e dissi alle cugine che temevo fossimo minacciati da qualche avvenimento sinistro:

• Lo temo quanto voi, - rispose Emina – e il pericolo è vicino, ma ascoltate bene quanto vi dico: non credete al male che vi racconteranno di noi. Non credete neppure ai vostri occhi.

In quel momento, le tende del letto si aprirono con fracasso, e vidi un uomo dall’aspetto maestoso, vestito alla moresca. In una mano teneva l’Alcoran e nell’altra una sciabola. Le mie cugine si gettarono ai suoi piedi e gli dissero:

• Possente sceicco dei Gomelez, perdonateci!

Lo sceicco rispose con una voce terribile:

• Adonde estan las fahhas? (Dove son le vostre cinture?).

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Poi, voltandosi verso di me, disse:

• Infelice nazareno, hai disonorato il sangue dei Gomelez. Devi farti maomettano o morire.

Sentii un terribile urlo, e scorsi l’indemoniato Pacheco che mi faceva dei segni in fondo alla stanza. Anche le mie cugine lo videro.

Si alzarono con furore, afferrarono Pacheco e lo trascinarono fuori dalla stanza.

• Infelice nazareno, - riprese ancora lo sceicco dei Gomelez – bevi in un sol colpo il liquido contenuto in questa coppa, o morirai di una morte vergognosa, e il tuo corpo, sospeso fra quelli dei fratelli di Zoto, diventerà preda degli avvoltoi e trastullo degli spiriti delle tenebre, i quali se ne serviranno per le loro infernali metamorfosi.

Mi parve che in una simile occasione l’onore mi comandasse il suicidio. Gridai con dolore:

• Oh! Padre mio, al mio posto avreste fatto come me.

Poi presi la coppa e la vuotai d’un fiato. Provai un gran malessere e caddi privo di conoscenza.

Ottava giornata

Poiché ho l’onore di raccontarvi la mia storia, capite bene che non sono affatto morto per il veleno che avevo creduto di bere. Caddi solo svenuto e non so per quanto tempo. Tutto quello che so è che mi son svegliato sotto la forca di Los Hermanos e, questa volta, con un certo piacere, perché almeno avevo la soddisfazione di constatare che non ero morto. Non mi svegliai neppure fra i due impiccati: ero alla loro sinistra, e alla loro destra vidi un altro uomo; presi anche lui per un impiccato, dato che sembrava senza vita e aveva una corda al collo. Tuttavia mi accorsi che dormiva e lo svegliai. Lo sconosciuto, vedendo dove si trovava, si mise a ridere e disse:

• Bisogna convenire che, nello studio della cabala, si va soggetti a spiacevoli equivoci. I cattivi geni sanno assumere tante forme che non si sa mai con quale si ha a che fare. Ma, - aggiunse – perché mai ho una corda al collo? Credevo di avere una treccia di capelli.

Poi mi vide e mi disse:

• Ah! Voi, voi siete un po’ troppo giovane per un cabalista. Ma anche voi avete una corda al collo.

Infatti ce l’avevo. Mi ricordai che Emina mi aveva messo al collo una treccia intessuta dei suoi capelli e di quelli di sua sorella, e non sapevo che cosa pensarne.

Il cabalista mi fissò qualche istante e poi disse:

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• No, non siete dei nostri. Vi chiamate Alfonso, vostra madre era una Gomelez; siete capitano delle Guardie valloni, coraggioso, ma ancora un po’ ingenuo. Non importa, dobbiamo uscir di qui, e poi vedremo il da farsi.

La porta della forca era aperta. Ne uscimmo e vidi ancora la maledetta valle di Los Hermanos. Il cabalista mi chiese dove volessi andare. Gli risposi che ero deciso a continuare la strada per Madrid.

• Bene, - mi disse – anch’io vado da quella parte, ma cominciamo col prendere un po’ di cibo.

Tirò fuori dalla tasca una tazza d’argento, un vaso pieno di una specie di lattuario e una bottiglia di cristallo con un liquore giallastro. Mise nella tazza una cucchiaiata di lattuario, vi versò qualche goccia di liquore e mi disse di bere il tutto. Non me lo feci ripetere poiché mi sentivo mancare. L’elisir era meraviglioso. Ne provai un tale ristoro che non esitai ad avviarmi a piedi, cosa che altrimenti mi sarebbe sembrata difficile.

Il sole era già abbastanza alto quando scorgemmo la sinistra Venta Quemada. Il cabalista si fermò e disse:

• Ecco una locanda dove questa notte mi è stato giocato un tiro ben crudele. Eppure bisogna entrarci. Vi ho lasciato delle provviste che ci rinfrancheranno.

Infatti entrammo nella catastrofica venta e nella sala da pranzo trovammo una tavola apparecchiata, dove facevano bella mostra di sé un pâté di pernice e due bottiglie di vino. Il cabalista sembrava avere un ottimo appetito, e il suo esempio mi incoraggiò, perché altrimenti non so se ce l’avrei fatta a mangiare: tutto quanto avevo visto da qualche giorno sconvolgeva talmente i miei sensi che non sapevo più quel che facessi, e, se qualcuno vi si fosse provato, sarebbe riuscito a farmi dubitare persino della mia propria esistenza.

Finito di mangiare, facemmo il giro delle camere e arrivammo a quella in cui avevo dormito il giorno della mia partenza da Anduhhar.

Riconobbi il mio disgraziato giaciglio e, sedutomi lì, mi misi a riflettere su quanto mi era capitato e soprattutto sugli avvenimenti della caverna. Mi ricordai dell’avvertimento di Emina di non credere al male che mi avrebbero detto di lei.

Ero assorto in queste riflessioni quando il cabalista mi fece notare qualcosa che brillava fra le assi sconnesse del pavimento.

Guardai più da vicino e vidi che si trattava della reliquia che le due sorelle mi avevano tolto dal collo. Avevo visto che l’avevano gettata in una fenditura della roccia della caverna, e ora la ritrovavo in una fessura del pavimento. Cominciai a credere che, in realtà, non fossi uscito da quella disgraziata locanda, e che l’eremita, l’inquisitore e i fratelli di Zoto fossero altrettanti fantasmi prodotti da magici incantesimi. Intanto, con l’aiuto della spada raccolsi la reliquia e la rimisi al collo.

Il cabalista si mise a ridere e mi disse:

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• Questo dunque vi appartiene, Signor cavaliere. Se avete dormito qui, non mi meraviglio affatto che vi siate risvegliato sotto la forca. Comunque sia, bisogna che ci rimettiamo in cammino, così questa sera giungeremo all’eremo.

Riprendemmo la via, e non eravamo ancora a metà strada quando incontrammo l’eremita, che sembrava far molta fatica a camminare.

Come ci scorse da lontano, gridò:

• Ah! Mio giovane amico, vi cercavo, tornate al mio eremo.

Strappate la vostra anima alle grinfie di Satana, ma sorreggetemi.

Per voi ho fatto terribili sforzi.

Ci riposammo, poi riprendemmo il cammino, e il vecchio poté seguirci, appoggiandosi ora all’uno ora all’altro. Finalmente arrivammo all’eremo.

La prima cosa che vidi fu Pacheco, steso nel mezzo della stanza.

Sembrava in agonia, o almeno il suo petto era lacerato da quel terribile rantolo, ultimo presagio di una morte prossima. Volli parlargli, ma non mi riconobbe. L’eremita prese dell’acqua benedetta e ne asperse l’indemoniato dicendogli:

• Pacheco, Pacheco, in nome del tuo redentore, ti ordino di dirci che cosa ti è capitato questa notte.

Pacheco ebbe un fremito, fece risuonare un urlo prolungato, e cominciò così.

Racconto di Pacheco

• Padre mio, voi eravate nella cappella e cantavate le litanie quando sentii battere a questa porta e udii dei belati che erano del tutto simili a quelli della nostra capra bianca. Dunque credetti che fosse lei e che la povera bestia venisse a chiamarmi perché avevo dimenticato di mungerla. Lo credetti tanto più facilmente in quanto la stessa cosa era successa proprio qualche giorno prima. Allora uscii dalla vostra capanna e vidi infatti la capra bianca che mi voltava la schiena mostrandomi le mammelle gonfie. Volli afferrarla per renderle il servizio che mi chiedeva, ma mi sfuggì dalle mani, e ora fermandosi, ora scappando di nuovo mi condusse sull’orlo di un precipizio che si trova vicino al vostro eremo.

Arrivati lì, la capra bianca si mutò in un becco nero. Tale metamorfosi mi fece un’enorme paura e tentai di fuggire verso la nostra capanna, ma il becco nero mi tagliò la strada, e poi drizzandosi sulle zampe posteriori e guardandomi con occhi fiammeggianti, mi causò un tale spavento che ne rimasi agghiacciato.

Allora il maledetto becco cominciò a darmi delle cornate, sospingendomi verso il precipizio. Quando fui sull’orlo, si arrestò a godere delle mie angosce mortali. Poi, mi fece precipitare. Mi credevo ridotto in briciole, ma il becco arrivò in fondo al precipizio prima di me e mi accolse sul suo dorso senza che mi facessi male.

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Nuovi terrori non tardarono ad assalirmi, poiché, quando quella maledetta bestia mi ebbe sentito sul suo dorso, cominciò a galoppare in una maniera insolita. Con un solo balzo passava da una montagna all’altra, scavalcando le più profonde valli come se fossero state semplici fossati. Infine diede uno scossone, e io caddi non so come nel fondo di una caverna. Là vidi il giovane cavaliere che in questi ultimi giorni ha dormito nel nostro eremo. Egli stava sul suo letto e accanto a lui c’erano due bellissime ragazze, vestite alla moresca.

Queste due giovani donne, dopo avergli fatto delle carezze, gli tolsero dal collo una reliquia e, da quel momento, persero ai miei occhi ogni loro bellezza tanto che riconobbi in loro i due impiccati della valle di Los Hermanos. Ma il giovane cavaliere, scambiandole sempre per delle donne meravigliose, le chiamava con i nomi più teneri. Allora uno degli impiccati si tolse la corda che aveva al collo e la mise al collo del cavaliere, che gli testimoniò la sua riconoscenza con nuove carezze. Poi chiusero le tende, e non so che cosa abbiano fatto in seguito, ma penso che si trattasse di qualche orrendo peccato.

Io volevo gridare, ma non potei emettere alcun suono; tutto ciò durò qualche tempo. Poi una campana sonò mezzanotte, e subito dopo vidi entrare un demonio con due corna di fuoco e una coda infiammata sorretta da alcuni diavoletti.

Questo demonio teneva un libro in una mano e un forcone nell’altra.

Minacciò il cavaliere di ucciderlo se non avesse abbracciato la religione maomettana. Allora, vedendo il pericolo in cui si trovava l’anima di un cristiano, feci uno sforzo e mi sembrò di essere riuscito a farmi sentire. Ma, nello stesso istante, i due impiccati saltarono su di me e mi trascinarono fuori dalla caverna, dove ritrovai il becco nero. Uno dei due si mise a cavallo sul becco e l’altro sul mio collo, e poi ci costrinsero a galoppare per monti e per valli.

L’impiccato che portavo sul collo mi pungolava i fianchi a colpi di tallone. Ma poiché secondo lui non andavo abbastanza veloce, sempre correndo raccolse due scorpioni, se li attaccò ai piedi a guisa di speroni e cominciò a dilaniarmi le costole con la più incredibile barbarie. Finalmente arrivammo alla porta dell’eremo, dove mi lasciarono. Questa mattina, padre mio, mi avete trovato qui senza conoscenza. Quando mi vidi nelle vostre braccia, mi credetti salvo, ma il veleno degli scorpioni è penetrato nel mio sangue, mi dilania le viscere; non sopravviverò.

E qui l’indemoniato mandò un terribile urlo e tacque.

Allora parlò l’eremita e mi disse:

• Figlio mio, l’avete sentito. E’ possibile che voi abbiate avuto rapporti carnali con i due demoni? Venite, confessatevi, dite la vostra colpa. La clemenza divina è senza limiti. Non rispondete? Sareste forse caduto nella più empia pervicacia?

Dopo aver riflettuto un momento, risposi:

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• Padre mio, questo gentiluomo indemoniato ha visto cose diverse da me. Uno di noi ha avuto delle allucinazioni, e forse abbiamo visto male tutti e due. Ma ecco un gentiluomo cabalista che ha dormito anche lui alla Venta Quemada. Se egli volesse raccontarci la sua avventura, forse potremmo fare nuova luce sulla natura degli avvenimenti che ci preoccupano da qualche giorno.

• Signor Alfonso, - rispose il cabalista – le persone che, come me, si occupano di scienze occulte, non possono svelare tutto. Tuttavia proverò ad accontentare la vostra curiosità, per quanto mi sarà possibile, ma non questa sera. Se non vi dispiace, ceniamo e andiamo a coricarci; domani saremo più riposati.

L’anacoreta ci servì una cena frugale, e poi ciascuno pensò soltanto a coricarsi. Il cabalista pretese di aver delle ragioni per passare la notte vicino all’indemoniato, e io fui mandato nella cappella come l’altra volta. C’era ancora il mio letto di muschio. Mi coricai. L’eremita mi augurò la buona notte e mi avvertì che, per maggior sicurezza, andandosene avrebbe chiuso la porta.

Quando fui solo, pensai al racconto di Pacheco. Certamente l’avevo visto nella caverna. E così pure avevo visto le mie cugine saltare su di lui e trascinarlo fuori dalla stanza; ma Emina mi aveva avvertito di non pensare male di lei o di sua sorella. E poi i demoni che si erano impadroniti di Pacheco potevano anche offuscargli i sensi e assalirlo con ogni specie di visioni. Insomma cercavo ancora dei motivi per giustificare e amare le cugine, quando udii suonare mezzanotte...

Poco dopo, bussarono alla porta e sentii come dei belati di capra.

Afferrai la spada, andai all’uscio e dissi ad alta voce:

• Sei il diavolo? Allora, se ci riesci, prova ad aprire questa porta chiusa dall’eremita!

La capra tacque.

Andai a coricarmi e dormii fino al mattino.

Nona giornata

L’eremita venne a svegliarmi, si sedette sul mio letto e mi disse:

• Nuove ossessioni, ragazzo mio, hanno assalito questa notte il mio disgraziato eremo. Gli anacoreti della Tebaide non furono più esposti di noi alle malizie di Satana.

Non so più cosa pensare dell’uomo che è venuto con te e che si dice cabalista. Ha tentato di guarire Pacheco, e realmente gli ha giovato molto, ma non si è servito degli esorcismi prescritti dal rituale della nostra santa Chiesa. Vieni nella mia capanna, faremo colazione e poi gli chiederemo la sua storia, che ci ha promesso ieri sera.

Mi alzai e seguii l’eremita. Infatti trovai che le condizioni di Pacheco erano diventate più sopportabili e il suo volto meno repellente. Era sempre guercio, ma la lingua era rientrata in bocca.

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Non sbavava più e il suo unico occhio era meno truce. Feci i complimenti al cabalista, che mi rispose che quella era solo una debolissima prova delle sue capacità. Poi l’eremita portò la colazione, cioè latte ben caldo e castagne.

Mentre stavamo mangiando, entrò un uomo magro e pallido, il cui aspetto aveva qualche cosa di spaventoso, senza che si potesse dire con precisione che cosa, in lui, ispirasse un tale terrore... Lo sconosciuto si inginocchiò davanti a me e si tolse il cappello. Mi accorsi allora che aveva una benda sulla fronte. Egli mi porse il cappello con l’aria di chi chiede l’elemosina e io vi gettai una moneta d’oro. Lo strano mendicante mi ringraziò e aggiunse:

• Signor Alfonso, la vostra buona azione non andrà perduta. Vi avverto che una lettera importante vi aspetta a Puerto-Lapiche. Non entrate in Castiglia senza averla letta.

Dopo avermi dato questo consiglio, lo sconosciuto si mise in ginocchio davanti all’eremita che gli riempì il cappello di castagne.

Poi si inginocchiò davanti al cabalista, ma alzandosi subito gli disse:

• Da te non voglio niente. Se dici chi sono, te ne pentirai.

Poi uscì dalla capanna.

Quando il mendicante fu uscito, il cabalista si mise a ridere e ci disse:

• Per dimostrarvi quanto poco caso io faccia alle minacce di quell’uomo, vi dirò subito chi è: è l’Ebreo errante, di cui forse avete sentito parlare. Da circa millesettecento anni egli non si è mai seduto, né coricato, né riposato, né addormentato. Sempre camminando, mangerà le vostre castagne e da qui a domani mattina avrà fatto sessanta leghe. Di solito percorre in tutti i sensi i vasti deserti dell’Africa. Si nutre di frutta selvatica, e le bestie feroci non possono nuocergli per il sacro segno del Tau impresso sulla sua fronte, che egli copre con una benda, come avete visto. Non compare mai nelle nostre contrade a meno che non ne sia costretto dalle pratiche di qualche cabalista. Del resto vi assicuro che non sono stato io a farlo venire, poiché lo detesto. Devo però ammettere che è informato di molte cose, e vi consiglio, signor Alfonso, di non trascurare l’avvertimento che vi ha dato.

• Signor cabalista, - gli risposi – l’Ebreo mi ha detto che a Puerto-Lapiche c’è una lettera per me. Spero di esserci dopodomani, e non mancherò di chiederla.

• Non è necessario aspettare tan-to, - riprese il cabalista – e godrei ben poco credito nel mondo dei geni se non riuscissi a farvi avere prima questa lettera.

Allora si voltò dalla parte della sua spalla destra e pronunciò alcune parole con tono imperioso. Dopo cinque minuti, vedemmo cadere sulla tavola una grossa lettera con il mio indirizzo. L’aprii e lessi quanto segue:

«Signor Alfonso,da parte del nostro re Don Ferdinando Iv, vi faccio pervenire l’ordine di non entrare ancora in Castiglia. Attribuite questo rigore soltanto alla disgrazia che avete avuto di scontentare il santo tribunale, incaricato di conservare la

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purezza della fede nelle Spagne. Non diminuite il vostro zelo nel servire il re. Accluso a questa lettera troverete un congedo di tre mesi. Passate questo tempo sulle frontiere tra la Castiglia e l’Andalusia, senza farvi vedere troppo in nessuna di queste due province. Abbiamo avuto cura di tranquillizzare il vostro rispettabile padre, e di prospettargli questa faccenda in modo che non gli causi troppa pena».

Vostro affezionato

Don Sancho de Tor de Pennas,

ministro della Guerra.

La lettera era accompagnata da un congedo di tre mesi in piena regola e con tutte le firme e i sigilli di rito.

Ci rallegrammo con il cabalista per la velocità dei suoi corrieri.

Poi lo pregammo di mantenere la promessa di raccontarci cosa gli fosse capitato la notte precedente alla Venta Quemada. Come il giorno prima, ci rispose che nel suo racconto molte cose ci sarebbero state oscure, ma dopo aver riflettuto un istante, cominciò così.

Storia del cabalista

• In Spagna mi chiamano Don Pedro de Uzeda, e sotto questo nome possiedo un bel castello a una lega da qui. Ma il mio vero nome è Rabi Sadok Ben Mamun, e sono ebreo. Questa è una confessione un po’ pericolosa da farsi in Spagna, ma, oltre a fidarmi della vostra lealtà, vi avverto che non sarebbe molto facile nuocermi. L’influenza degli astri sul mio destino cominciò a manifestarsi al momento della mia nascita, e mio padre, che mi fece l’oroscopo, gioì molto quando scoprì che ero venuto al mondo esattamente all’entrata del sole nel segno della Vergine. A dire il vero, aveva impiegato tutta la sua arte perché avvenisse così, ma non aveva sperato tanta precisione nell’esito. Non ho bisogno di dirvi che mio padre, Mamun, era il primo astrologo del suo tempo. Ma la scienza degli astri era una delle meno importanti che egli possedesse, poiché aveva approfondito quella della cabala a un grado quale nessun rabbino aveva mai raggiunto prima di lui.

Quattro anni dopo la mia venuta al mondo, mio padre ebbe una figlia, che nacque sotto il segno dei Gemelli. Nonostante questa differenza, la nostra educazione fu la stessa. Io non avevo ancora compiuto dodici anni e mia sorella otto, che già sapevamo l’ebraico, il caldeo, il siro-caldeo, il samaritano, il copto, l’abissino e molte altre lingue morte o morenti. Inoltre eravamo in grado di combinare, senza ricorrere a una matita, tutte le lettere di una parola in tutte le maniere indicate dalle regole della cabala.

Sempre alla fine del mio dodicesimo anno, fummo ambedue messi letteralmente sotto chiave, e perché niente smentisse la pudicizia del segno sotto il quale ero nato, ci diedero da mangiare soltanto degli animali vergini, facendo attenzione a far mangiare a me dei maschi e a mia sorella delle femmine.

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Quando ebbi compiuto sedici anni, mio padre cominciò a iniziarci ai misteri della cabala Sefiroth. Per prima cosa mise nelle nostre mani il Sefer ha-Zohar, o libro luminoso, così chiamato perché non ci si capisce niente, tanto la luce che diffonde abbaglia gli occhi dell’intelletto. Poi studiammo lo Sifra de-Zeniutha, o libro occulto, il cui passo più chiaro può essere considerato un enigma. Finalmente arrivammo all’Idra Rabba e Idra Sutha, cioè al grande e piccolo Sanhedrin. Questi sono dialoghi in cui Rabbi Simon, figlio di Jochai, autore delle due altre opere, abbassando il suo stile a quello di una conversazione, finge di insegnare agli amici le cose più semplici e tuttavia svela loro i misteri più sorprendenti, o meglio tali rivelazioni ci vengono direttamente dal profeta Elia, il quale lasciò di nascosto la dimora celeste e assistette a quell’assemblea sotto il nome di Rabbi Abba. Forse voialtri vi illudete di esservi fatta qualche idea di tutti quei divini scrittori attraverso la traduzione latina pubblicata insieme all’originale caldeo nell’anno 1684, in una cittadina della Germania chiamata Francoforte. Ma noi ridiamo della presunzione di chi crede che per leggere basti l’organo fisico della vista. Potrebbe bastare, in realtà, per certe lingue moderne, ma nell’ebraico ogni lettera è un numero, ogni parola una combinazione sapiente, ogni frase una formula spaventosa che, pronunciata con tutte le aspirazioni e gli accenti dovuti, potrebbe inabissare le montagne e disseccare i fiumi. Voi sapete bene che Adonai creò il mondo con la parola, poi si fece parola egli stesso. La parola percuote l’aria e lo spirito, agisce sui sensi e sull’anima. Benché profano, vi sarà facile concluderne che essa è la vera intermediaria fra la materia e le intelligenze di ogni ordine. Quanto posso dirvi è che tutti i giorni noi acquistavamo non solo nuove conoscenze ma anche un nuovo potere e, se non osavamo farne uso, almeno avevamo la gioia di sentire queste nostre forze e di averne l’intima convinzione. Ma le nostre felicità cabalistiche furono presto interrotte dal più funesto degli avvenimenti.

Ogni giorno, mia sorella e io notavamo che nostro padre Mamun perdeva le sue forze. Egli pareva uno spirito che avesse rivestito forma umana soltanto per essere percettibile ai sensi grossolani degli esseri sublunari. Finalmente un giorno ci fece chiamare nel suo studio. Il suo aspetto era così venerabile e divino che, con un moto involontario, ambedue ci inginocchiammo. Egli ci lasciò in ginocchio e, mostrandoci una clessidra, ci disse: «Prima che la sabbia sia tutta passata, io non sarò più. Non perdete nessuna delle mie parole.

Figlio mio, prima di tutto mi rivolgo a voi; vi ho scelto delle spose celesti, figlie di Salomone e della regina di Saba. La loro nascita le destinava a essere solo delle semplici mortali. Ma Salomone aveva rivelato alla regina il grande nome di colui che è. La regina lo proferì nell’istante stesso del parto. Accorsero i geni del grande oriente e ricevettero le due gemelle prima che avessero toccato l’impura dimora che ha nome terra. Le portarono nella sfera delle figlie di Elohim dove esse ricevettero il dono dell’immortalità, con il potere di comunicarlo a colui che avrebbero scelto per loro comune sposo. Sono esse quelle due spose ineffabili alle quali ha alluso loro padre nel suo Schir ha-schirim, o Cantico dei cantici. Studiate questo divino epitalamio di nove in nove versi. A voi, figlia mia, destino nozze ancora più belle: i

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due Thamim, coloro che i Greci hanno conosciuto sotto il nome di Dioscuri, e i Fenici sotto quello di Kabires; in una parola, i Gemelli celesti. Saranno i vostri sposi

• che dico? Il vostro cuore sensibile, temo che un mortale... - La sabbia scorre. Muoio». Dopo queste parole, mio padre si dileguò, e al suo posto trovammo soltanto un poco di cenere brillante e leggera.

Raccolsi quei resti preziosi, li racchiusi dentro un’urna e li posi nel tabernacolo interno della nostra casa, sotto le ali dei cherubini.

Potete ben credere che la speranza di godere dell’immortalità e di avere due spose celesti m’infuse nuovo ardore per le scienze cabalistiche, ma passarono degli anni prima che osassi elevarmi a tali altezze, e io mi accontentavo di sottomettere ai miei incantesimi alcuni geni del diciottesimo grado. Tuttavia, facendomi a poco a poco ardito, l’anno passato tentai un lavoro sui primi versetti del Schir ha-schirim. Avevo appena scritto una riga che si udì un frastuono terribile, e sembrò che il mio castello rovinasse sulle fondamenta. Non mi spaventai affatto; anzi ne dedussi che la mia operazione era riuscita. Passai alla seconda riga; quando fu terminata, una lampada che stava sul tavolo saltò sul pavimento, fece qualche balzo e andò a fermarsi davanti a un grande specchio in fondo alla stanza. Guardai nello specchio e vidi la punta di due bellissimi piedi femminili. Poi due altri piedini. Arrivai a lusingarmi fino al punto di pensare che quegli incantevoli piedi appartenessero alle celesti figlie di Salomone, ma non credetti di dover spingere oltre le mie operazioni.

Le ripresi la notte seguente, e vidi i quattro piedini fino alla caviglia. Poi, la notte dopo, vidi le gambe fino al ginocchio, ma il sole uscì dal segno della Vergine e fui obbligato a interrompere.

Quando il sole fu entrato nel segno dei Gemelli, mia sorella fece operazioni simili alle mie ed ebbe una visione non meno straordinaria, che non vi dirò in quanto lei non c’entra niente con la mia storia.

Quest’anno mi preparavo a ricominciare quando venni a sapere che un famoso adepto doveva passare da Cordova. Una discussione a questo proposito con mia sorella mi indusse ad andare a incontrarlo al suo passaggio. Partii un po’ tardi e per quel giorno arrivai soltanto alla Venta Quemada. Trovai la locanda abbandonata per la paura dei fantasmi, ma siccome io non li temo, mi sistemai nella sala da pranzo, e ordinai al piccolo Nemrael di portarmi da mangiare. Questo Nemrael è un genietto dalla natura molto vile che io uso per simili bisogne, ed è lui che è andato a prendere la vostra lettera a Puerto-Lapiche. Egli si recò ad Anduhhar, dove dormiva un priore dei Benedettini, s’impadronì senza cerimonie della sua cena e me la portò. Consisteva in quel pâté di pernice che avete trovato il giorno dopo. Quanto a me, ero stanco e lo toccai appena. Rimandai Nemrael da mia sorella e mi coricai.

Nel mezzo della notte fui svegliato da una campana che batté dodici colpi. Dopo questo preludio, mi aspettavo di vedere qualche fantasma, e mi preparavo anche a scacciarlo, perché in generale essi sono scomodi e fastidiosi. Ero in questa disposizione d’animo, quando vidi una forte luce su un tavolo che si trovava in mezzo

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alla stanza, e poi apparve un piccolo rabbino azzurro cielo, che si agitava davanti a un pulpito come fanno i rabbini quando pregano. Non era più alto di un piede, e non soltanto il suo abito era azzurro, ma anche il viso, la barba, il pulpito e il libro. Riconobbi subito che non era un fantasma, ma un genio del ventisettesimo grado. Non sapevo il suo nome e non lo conoscevo affatto. Tuttavia mi servii di una formula che ha un certo potere sugli spiriti in generale. Allora il piccolo rabbino azzurro cielo si voltò verso di me e mi disse: «Hai cominciato le tue operazioni a rovescio, ed ecco perché le figlie di Salomone ti si sono mostrate prima con i piedi. Comincia dagli ultimi versetti, e cerca subito il nome delle due beltà celesti».

Dopo aver parlato così, il piccolo rabbino scomparve. Quanto mi aveva detto andava contro tutte le regole della cabala. Tuttavia ebbi la debolezza di seguire il suo consiglio. Cominciai dall’ultimo versetto del Schir ha-schirim, e, cercando il nome delle due immortali, trovai Emina e Zibeddé. Ne fui molto sorpreso, tuttavia iniziai le evocazioni. Allora la terra mi tremò sotto i piedi in modo spaventoso; credetti di vedere i cieli crollare sulla mia testa, e caddi svenuto.

Quando ritornai in me, mi trovai in un luogo pieno di luce, fra le braccia di alcuni giovani più belli degli angeli. Uno di loro mi disse: «Figlio di Adamo, riprendi i sensi. Qui sei nella dimora di coloro che non sono morti. Siamo governati dal patriarca Enoch, che camminò davanti a Elohim e fu rapito al di sopra della terra. Il profeta Elia è il nostro gran sacerdote, e il suo carro sarà sempre al tuo servizio quando vorrai passeggiare in qualche pianeta. In quanto a noi, siamo degli Egregori, nati dagli amori dei figli di Elohim con le figlie dell’uomo. Tra noi vedrai anche alcuni Nefelim, ma pochi. Vieni, ti presenteremo al nostro sovrano».

Li seguii e arrivai ai piedi del trono sul quale sedeva Enoch; non riuscii a sostenere il fuoco dei suoi occhi, e non osavo alzare i miei più in alto della sua barba, abbastanza simile a quella pallida luce che vediamo intorno alla luna nelle notti umide. Temetti che le mie orecchie non potessero sostenere il suono della sua voce, ma essa era più dolce di quella degli organi celesti. E l’addolcì ancor di più per dirmi: «Figlio di Adamo, stanno per condurre qui le tue spose». Subito vidi entrare il profeta Elia, che teneva per mano due bellezze le cui attrattive non potrebbero essere concepite dai mortali. Le loro grazie erano così delicate che l’anima ne traspariva, e chiaramente si distingueva il fuoco delle passioni quando scivolava nelle vene e si mescolava al sangue. Dietro di loro, due Nefelim reggevano un treppiede di un metallo tanto più prezioso dell’oro quanto questo lo è del piombo. Le mie mani furono poste in quelle delle figlie di Salomone, e al mio collo fu messa una treccia intessuta dei loro capelli. Una fiamma viva e pura che uscì allora dal treppiede consumò in un istante quanto io avevo di mortale. Ci condussero a un giaciglio splendente di gloria e infuocato d’amore.

Fu aperta una grande finestra che comunicava con il terzo cielo, e i concerti degli angeli portarono al colmo il mio rapimento... Ma, ve lo devo dire, il giorno dopo mi svegliai sotto la forca di Los Hermanos, coricato vicino ai loro due infami cadaveri come il cavaliere qui presente. Ne dedussi di aver avuto a che fare con degli spiriti

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molto maligni e la cui natura non mi è ancora ben nota. Temo anche molto che tutta questa avventura mi nuoccia presso le vere figlie di Salomone, di cui non avevo visto che la punta dei piedi.

• Sventurato cieco, - disse l’eremita – che cosa rimpiangi? Tutto non è che un’illusione creata dalla tua arte funesta. I maledetti succubi che si sono presi gioco di te fecero subire allo sfortunato Pacheco i più orribili tormenti, e senza dubbio una simile sorte aspetta questo giovane cavaliere, che, per una funesta testardaggine, non vuole confessarci le sue colpe. Alfonso, figlio mio Alfonso, pentiti, sei ancora in tempo.

L’ostinazione dell’eremita nel chiedermi confessioni che non volevo fargli, mi spiacque molto. Risposi abbastanza freddamente che rispettavo le sue sante esortazioni, ma che mi attenevo soltanto alle leggi dell’onore. Poi si parlò d’altro.

Il cabalista mi disse:

• Signor Alfonso, poiché siete perseguitato dall’Inquisizione e il re vi ordina di passare tre mesi in questo deserto, vi offro il mio castello: vedrete mia sorella Rebecca, quasi altrettanto bella quanto sapiente. Sì, venite, voi discendete dai Gomelez, e questo sangue merita il nostro interesse.

Guardavo l’eremita per leggere nei suoi occhi che cosa pensasse di questa proposta. Il cabalista parve indovinare il mio pensiero, e, rivolto all’eremita, gli disse:

• Padre mio, vi conosco più di quanto non pensiate. Voi avete un grande potere grazie alla fede. Le mie vie non sono così sante, ma neppure diaboliche. Venite anche voi da me con Pacheco, che finirò di guarire.

L’eremita, prima di rispondere, si mise in preghiera, poi, dopo un momento di meditazione, venne da noi con aria sorridente e disse che era pronto a seguirci. Il cabalista si voltò dalla parte della sua spalla destra e ordinò che gli fossero portati dei cavalli. Un istante dopo ne vedemmo due alla porta dell’eremo, insieme a due mule su cui salirono l’eremita e l’indemoniato. Benché il castello fosse a una giornata di cammino, come ci aveva detto Ben Mamun, ci arrivammo in meno di un’ora.

Durante il viaggio, Ben Mamun mi aveva parlato molto della sua sapiente sorella, e io mi aspettavo di vedere una Medea dalla nera capigliatura che, con una bacchetta in mano, borbottava formule magiche, ma era un’idea completamente falsa. L’amabile Rebecca che ci ricevette sulla porta del castello era la più deliziosa e tenera bionda che si potesse immaginare; i suoi bei capelli dorati cadevano senza artificio sulle spalle. Una veste bianca la copriva con negligenza, ma era chiusa da fibbie di un valore inestimabile. Il suo aspetto esteriore denotava una persona che non si occupava mai del proprio abbigliamento, ma sarebbe stato difficile ottenere un miglior risultato occupandosene di più.

Rebecca saltò al collo del fratello e gli disse:

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• Quanto sono stata in pena per voi! Ho sempre avuto vostre notizie tranne la prima notte. Che cosa vi è successo?

• Vi racconterò tutto; - rispose Ben Mamun – per adesso pensate soltanto ad accogliere bene gli ospiti che vi porto: questo è l’eremita della valle, e questo giovane è un Gomelez.

Rebecca guardò con molta indifferenza l’eremita, ma quando posò gli occhi su di me parve arrossire e disse con aria piuttosto triste:

• Spero per la vostra felicità che non siate dei nostri.

Entrammo, e il ponte levatoio fu subito alzato dietro di noi. Il castello era assai vasto, e tutto sembrava nel più grande ordine.

Tuttavia notammo soltanto due domestici, cioè un giovane mulatto e una mulatta della stessa età. Per prima cosa Ben Mamun ci condusse nella sua biblioteca, una piccola stanza rotonda che serviva anche da sala da pranzo. Il mulatto venne a mettere una tovaglia, portò un’olla podrida e quattro coperti, poiché la bella Rebecca non sedette a tavola con noi. L’eremita mangiò più del solito e parve anche diventare più cordiale. Pacheco, sempre guercio, non dava tuttavia più segni di essere indemoniato. Era solo serio e silenzioso. Ben Mamun mangiò con buon appetito, ma aveva l’aria preoccupata e confessò che l’avventura del giorno precedente gli dava molto da pensare. Alzati da tavola, ci disse:

• Miei cari ospiti, ecco dei libri per passare il tempo (e il mio negro si farà premura di servirvi in tutto) ma permettetemi di ritirarmi con mia sorella per un lavoro importante. Ci rivedrete soltanto domani all’ora del pranzo.

Ben Mamun si ritirò, e ci lasciò, per così dire, padroni della casa.

L’eremita prese dalla biblioteca una leggenda dei padri del deserto e ordinò a Pacheco di leggergli qualche capitolo. Io invece uscii nella terrazza che guardava su un precipizio; in fondo scorreva un torrente che non si vedeva ma si sentiva mugghiare. Per quanto triste potesse sembrare quel paesaggio, mi misi a considerarlo con estremo piacere, o piuttosto mi lasciai andare ai sentimenti che quella vista m’ispirava. Non si trattava di malinconia, ma quasi di un annientamento di tutte le mie facoltà, frutto dei crudeli turbamenti ai quali ero esposto da qualche giorno. A forza di riflettere a quanto mi era successo e di non capire nulla, non osavo più pensarci, temendo di perdere la ragione. La speranza di passare qualche giorno tranquillo nel castello di Uzeda era ciò che per il momento mi riusciva più gradito. Dalla terrazza tornai nella biblioteca. Poi il giovane mulatto ci servì uno spuntino di frutta secca e carni fredde, tra le quali mancavano quelle impure. Infine ci separammo. L’eremita e Pacheco furono condotti in una camera, e io in un’altra.

Mi coricai e mi addormentai, ma poco dopo fui svegliato dalla bella Rebecca, che mi disse:

• Signor Alfonso, perdonatemi se oso interrompere il vostro sonno.

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Vengo dalla stanza di mio fratello. Abbiamo fatto i più spaventosi incantesimi per conoscere i due spiriti coi quali egli ha avuto a che fare nella venta, ma non siamo riusciti a niente. Supponiamo che a prendersi gioco di lui siano stati dei Baalim, sui quali non abbiamo alcun potere. Eppure la dimora di Enoch è realmente come l’ha vista mio fratello. Tutto ciò è di grande conseguenza per noi, e vi scongiuro di dirci che cosa ne sapete.

Dopo aver parlato così, Rebecca si sedette sul mio letto, ma lo fece così per fare, sembrando unicamente preoccupata degli schiarimenti che mi chiedeva. Tuttavia non li ottenne, e io mi accontentai di dirle che avevo impegnato la mia parola d’onore di non parlarne mai.

• Ma, signor Alfonso, - riprese Rebecca – come potete immaginare che una parola d’onore data a due demoni possa impegnarvi? Ora noi sappiamo che si tratta di due demoni femminili e che i loro nomi sono Emina e Zibeddé. Ma non conosciamo bene la natura di questi demoni, dato che nella nostra scienza, come in ogni altra, non si può sapere tutto.

Mi tenni sempre sulle negative e pregai la bella di non parlarne più. Allora lei mi guardò con una specie di benevolenza e mi disse:

• Come siete fortunato ad avere dei princìpi di virtù, con i quali dirigete tutte le vostre azioni e siete tranquillo nel cammino della vostra coscienza! Com’è differente la nostra sorte! Noi abbiamo voluto vedere ciò che non è concesso agli occhi degli uomini, e sapere ciò che la loro ragione non può comprendere. Non ero fatta per queste sublimi conoscenze. Che m’importa di un effimero impero sui demoni! Mi sarei volentieri contentata di regnare nel cuore d’uno sposo. Ma mio padre l’ha voluto, e io devo subire il mio destino.

Nel dire queste parole, Rebecca tirò fuori un fazzoletto e parve nascondere qualche lacrima, poi aggiunse:

• Signore Alfonso, permettetemi di tornare domani alla stessa ora e di fare ancora qualche sforzo per vincere la vostra ostinazione, o, come la chiamate voi, questo grande attaccamento alla vostra parola.

Presto il sole entrerà nel segno della Vergine, allora non ci sarà più tempo e succederà quel che vorrà.

Dicendomi addio, Rebecca mi strinse la mano con l’espressione dell’amicizia e parve tornare con dispiacere alle sue pratiche cabalistiche.

Decima giornata

Mi svegliai più presto del solito, e andai sulla terrazza per respirare più liberamente, prima che il sole arroventasse l’atmosfera. L’aria era calma. Lo stesso torrente sembrava mugghiare con minor furore e lasciava sentire il concerto degli uccelli. La pace degli elementi si comunicò alla mia anima così che potei riflettere con tranquillità su quanto mi era successo dalla partenza da Cadice. Alcune parole

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sfuggite a Don Emmanuel de Sa, governatore di questa città, che mi ricordai soltanto allora, mi fecero pensare che anche lui avesse a che fare con la misteriosa esistenza dei Gomelez, e che conoscesse anche una parte del loro segreto. Era stato lui a darmi i due valletti, Lopez e Moschito, e supposi che fosse per ordine suo che essi mi avevano lasciato all’imbocco della sciagurata valle di Los Hermanos. Le cugine mi avevano spesso fatto capire che si voleva mettermi alla prova. Pensai che alla venta mi avessero dato una bevanda per addormentarmi e che, durante il sonno, mi avessero trasportato sotto la forca. Pacheco poteva essere diventato guercio per tutt’altro incidente che per i suoi legami amorosi con i due impiccati, e la sua spaventosa storia poteva essere tutta un’invenzione. L’eremita, che cercava sempre di scoprire il mio segreto con la scusa della confessione, poteva essere un agente dei Gomelez che voleva mettere alla prova la mia discrezione. Mi pareva insomma di cominciare a vedere più chiaro nella mia storia e a spiegarla senza ricorrere agli esseri soprannaturali, quando sentii in lontananza una musica molto allegra il cui suono sembrava aggirare la montagna. Ben presto diventò più distinto, e vidi un lieto gruppo di zingari che avanzavano a passo cadenzato, cantando e accompagnandosi con i loro son-ah-has e cascarras. Piantarono il loro accampamento volante vicino alla terrazza e mi fu facile notare l’eleganza degli abiti e delle maniere. Supposi che fossero gli stessi zingari ladri sotto la cui protezione si era messo il locandiere di Cardeïas, a quanto mi aveva detto l’eremita, ma mi sembravano troppo delicati per essere dei briganti. Mentre li esaminavo, quelli drizzavano le tende, mettevano le olle sul fuoco, sospendevano le culle dei bambini ai rami degli alberi circostanti.

Finiti tutti i preparativi, di nuovo si lasciarono andare ai piaceri della loro vita vagabonda.

La tenda del capo era distinta dalle altre non solo per il bastone dal grosso pomo d’argento piantato all’ingresso, ma anche perché era ben rifinita e ornata di una ricca frangia, cosa insolita per le tende degli zingari. Ma quale non fu la mia sorpresa quando, all’aprirsi della tenda, vidi uscirne le mie cugine, in quell’elegante costume che in Spagna è detto alla Hitana Mahha. Esse si avanzarono fino alla terrazza, ma non parvero notarmi. Poi chiamarono le compagne, e cominciarono a danzare quel notissimo pollo dalle parole:

Quando me Paco me azze@ Las palmas para vaylar@ Me se puene el corpecito@ Como hecho de marzapan... (1)

Se la tenera Emina e la gentile Zibeddé mi avevano fatto girare la testa con le loro zimarre moresche, non mi incantarono meno in quel nuovo costume. Solo notai in loro un’espressione maligna e beffarda che, a dir la verità, si addiceva abbastanza bene a delle chiromanti ma lasciava presagire l’intenzione di giocarmi qualche altro tiro presentandosi a me in quella forma nuova e inattesa.

Il castello del cabalista era accuratamente sprangato, solo lui ne possedeva le chiavi, e io non avevo la possibilità di raggiungere gli zingari. Ma, passando attraverso un sotterraneo che finiva nel torrente ed era chiuso da una grata di ferro, potevo vederli da vicino e anche parlare con loro senza essere scorto dagli abitanti del castello.

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Andai dunque a quella porta segreta, e mi trovai separato dalle danzatrici soltanto dal letto del torrente. Ma non erano le mie cugine. Anzi mi parvero di aspetto piuttosto comune e conforme alla loro condizione.

Vergognandomi del mio errore, a passi lenti ripresi il cammino verso la terrazza. Quivi giunto, guardai ancora, e di nuovo riconobbi le cugine. Anch’esse sembrarono riconoscermi, scoppiarono a ridere e si ritirarono nelle loro tende.

Ero indignato. «Oh! Cielo!» mi dissi «sarebbe possibile che quei due esseri così amabili e amanti non siano altro che degli spiriti folletti, abituati a ingannare i mortali assumendo ogni specie di forme, forse delle streghe, o, cosa ancora più esecrabile, dei vampiri a cui il cielo avrebbe permesso di animare gli schifosi corpi degli impiccati della valle?». Prima mi sembrava che tutto questo potesse avere una spiegazione naturale, ma ora non sapevo più che cosa pensarne.

Mentre facevo tali riflessioni, rientrai nella biblioteca, dove trovai sulla tavola un grosso volume in caratteri gotici il cui titolo era: Strane relazioni di Hapelius. Il volume era aperto e la pagina sembrava essere stata piegata apposta all’inizio di un capitolo, in cui lessi la storia seguente.

NOTE:

(1) Quando Paco stringe forte@ Le mie mani per ballar@ Mi diventa il corpicino@ Come fosse un marzapan...

Storia di Thibaud de La Jacquière

• C’era una volta a Lione di Francia, città situata sul Rodano, un mercante molto ricco, chiamato Jacques da La Jacquière, anzi è meglio dire che costui prese il nome di La Jacquière soltanto quando ebbe lasciato il commercio e fu divenuto prevosto della città, carica che gli abitanti di Lione danno solo agli uomini con una grossa fortuna e un nome senza macchia. Tale era appunto il buon prevosto de La Jacquière, caritatevole verso i poveri e benefattore dei monaci e altri religiosi, che sono i veri poveri, secondo il Signore.

Ma non era affatto tale il figlio unico del prevosto, Messer Thibaud de La Jacquière, alfiere dei soldati del re. Soldataccio di razza e avido di colpi di spada, grande turlupinatore di fanciulle, arraffatore ai dadi, distruttore di vetri e di lanterne, bestemmiatore e spergiuro. Uno che spesso, per la strada, fermava il passante per barattare il suo vecchio mantello con uno nuovo o il feltro usato con uno migliore. Tanto che, sia a Parigi, sia a Blois, sia a Fontainebleau, e in altre dimore del re, non si parlava d’altro che di Messer Thibaud. Ma avvenne che il nostro buon sire di santa memoria Francesco I, alla fine si seccò del comportamento del giovane scavezzacollo e lo rispedì a Lione perché vi facesse penitenza nella casa di suo padre, il buon prevosto de La Jacquière, che allora abitava all’angolo della piazza Bellecour, all’imbocco della via Saint-Ramond.

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Il giovane Thibaud fu accolto nella casa paterna con la stessa gioia che se fosse arrivato carico di tutte le indulgenze di Roma.

Non solo venne per lui ucciso il vitello grasso, ma il buon prevosto diede per gli amici un banchetto che gli costò più scudi d’oro di quanto non fosse il numero dei convitati. Si fece anche di più. Si bevve alla salute del giovanotto, e ciascuno gli augurò saggezza e ravvedimento. Ma a lui spiacquero quei caritatevoli auguri. Prese dalla tavola una tazza d’oro, la riempì di vino, e disse: «Sacra morte del gran diavolo! Giuro con questo vino di dargli il mio sangue e la mia anima, se mai un giorno diventassi più galantuomo di quanto non sia». Queste terribili parole fecero drizzare i capelli in testa ai convitati. Si fecero il segno della croce, e qualcuno si alzò da tavola.

Anche Messer Thibaud si alzò, e andò a prendere una boccata d’aria sulla piazza di Bellecour, dove trovò due dei suoi vecchi compagni, libertini della stessa lega. Li abbracciò, li condusse a casa sua e fece portar loro molte bottiglie, senza occuparsi oltre di suo padre e di tutti i convitati.

Quel che Thibaud aveva fatto il giorno del suo arrivo, lo fece il giorno dopo e i giorni seguenti. Tanto che il buon prevosto ne ebbe il cuore straziato. Pensò di raccomandarsi al suo patrono, San Giacomo, e portò davanti alla sua immagine un cero di dieci libbre; ma, mentre stava per collocarlo sull’altare, lo fece cadere, e rovesciò una lampada d’argento che ardeva davanti al santo. Il prevosto, che aveva fatto fondere questo cero per un’altra occasione, ma a cui niente stava a cuore quanto la conversione del figlio, aveva fatto l’offerta con gioia. Tuttavia, quando vide il cero a terra e la lampada rovesciata, ne trasse un cattivo presagio e tristemente se ne tornò a casa.

Lo stesso giorno Messer Thibaud festeggiò ancora i suoi amici.

Tracannarono molte bottiglie, e poi, quando la notte era già inoltrata e molto buia, uscirono a prendere un po’ d’aria sulla piazza di Bellecour. Qui giunti, si presero tutti e tre a braccetto e passeggiarono così, con fare provocatorio, come i bellimbusti che si immaginano di attirare in questo modo gli sguardi delle ragazze. Ma per questa volta non c’era niente da guadagnarci, poiché non passavano né donne né ragazze, e neppure si poteva scorgerle alle finestre perché la notte era nera, come ho già detto. Sicché il giovane Thibaud, pronunciando a gran voce la sua solita bestemmia, disse: «Sacra morte del gran diavolo! Giuro sul mio sangue e la mia anima che, se la gran diavolessa sua figlia passasse di qui, le farei delle offerte d’amore, tanto mi sento riscaldato dal vino».

Queste parole non piacquero ai due amici di Thibaud, che non erano così grandi peccatori come lui. E uno gli disse: «Messere amico nostro, pensate che il diavolo è l’eterno nemico degli uomini, e che fa loro già abbastanza male senza che lo si inviti o se ne invochi il nome». «Come ho detto farò» rispose Thibaud.

In quel mentre i tre ribaldi videro sbucare da una via laterale una giovane donna velata, con una figura gentile che lasciava supporre la giovinezza più acerba. Un negretto le correva dietro. Questi fece un passo falso, cadde bocconi e ruppe la

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lanterna. La giovane sembrò atterrita e non sapeva più che cosa fare. Allora Messer Thibaud le si avvicinò con la più grande cortesia e le offrì il braccio per condurla a casa. La povera Dariolette (2) accettò dopo qualche esitazione, e Messer Thibaud, voltandosi verso i suoi amici, disse loro a mezza voce: «Ecco, vedete che colui che ho invocato non mi ha fatto aspettare. Vi auguro, dunque, la buona notte». I due amici compresero quel che voleva e si congedarono ridendo e augurandogli salute e felicità.

Thibaud diede dunque il braccio alla bella, mentre il negretto con la lanterna spenta li precedeva. Da principio la giovane dama pareva così turbata da reggersi solo a stento, ma a poco a poco si rassicurò e si appoggiò con più decisione al braccio del cavaliere; anzi qualche volta faceva dei passi falsi e gli stringeva il braccio per non cadere; allora il cavaliere, per sostenerla, premeva la mano di lei sul proprio cuore, cosa che del resto faceva con molta discrezione per non allarmare la preda.

In questo modo camminarono, e camminarono così a lungo che alla fine Thibaud credette che si fossero persi per le strade di Lione. Ma ne fu lietissimo, perché gli parve che in tal modo avrebbe approfittato più facilmente della bella smarrita. Tuttavia, volendo prima sapere con chi avesse a che fare, la pregò di sedersi su una panchina di pietra che s’intravvedeva vicino a una porta. Lei acconsentì e lui le si sedette accanto. Poi le prese una mano con fare galante e le disse molto gentilmente: «Bella stella errante, poiché la mia stella ha voluto che v’incontrassi nella notte, fatemi il favore di dirmi chi siete e dove abitate». Dapprima la giovane donna parve molto intimidita, ma a poco a poco si rassicurò e rispose così.

NOTE:

(2) Nome, nell’Amadigi di Gaula, di una confidente che aveva favorito gli amori di Périon e di élisène; deriva da dariole, che significa pasticcino alla crema.

Storia della gentile Dariolette

del castello di Sombre

• Il mio nome è Orlandine, o almeno così mi chiamavano le poche persone che abitavano con me il castello di Sombre, nei Pirenei. Là, non ho visto altri esseri umani oltre la mia governante sorda, una serva che balbettava tanto da poterla dire muta, e un vecchio portiere cieco.

Questo portiere non aveva molto da fare, dato che apriva la porta una volta all’anno, e precisamente a un signore che veniva da noi soltanto per farmi una carezza e parlare alla governante in dialetto basco, che non conosco. Per fortuna, quando fui chiusa nel castello sapevo già parlare, altrimenti non l’avrei certo imparato dai due compagni della mia prigionia. In quanto al portiere cieco, lo vedevo soltanto quando veniva a passarci il desinare attraverso le grate della nostra unica finestra. A dir la verità, la governante sorda mi gridava spesso all’orecchio non so quali lezioni di morale; ma le capivo proprio come se fossi stata sorda quanto lei, poiché mi parlava dei doveri del

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matrimonio senza dirmi che cosa fosse un matrimonio. Parlava inoltre di molte cose che poi non mi spiegava.

Spesso anche la serva balbuziente si sforzava di raccontarmi qualche storia che mi assicurava essere molto buffa, ma, non potendo mai arrivare alla seconda frase, era costretta a rinunciarvi, e se ne andava via balbettando scuse non meno impacciate delle sue storie.

Vi ho detto che avevamo una sola finestra, cioè una sola che desse sul cortile del castello. Le altre guardavano su un secondo cortile, che per via di qualche albero poteva esser considerato un giardino e che d’altra parte non aveva alcun’altra uscita se non quella che portava alla mia stanza. Vi coltivai dei fiori, e questo fu il mio unico passatempo. Dico male, ne avevo un altro, e del tutto innocente: era un grande specchio dove andavo a rimirarmi non appena alzata, anzi appena uscita dal letto. La governante, svestita come me, veniva anche lei a contemplarsi e io mi divertivo a paragonare la mia figura con la sua. Mi dedicavo a questo divertimento anche prima di coricarmi, quando la governante era già addormentata. Qualche volta mi immaginavo di vedere nello specchio una compagna della mia età che rispondeva ai miei gesti e condivideva i miei sentimenti. Più mi abbandonavo a quella illusione e più il gioco mi piaceva.

Vi ho detto che c’era un signore che veniva una volta all’anno per farmi una carezza e parlare basco con la governante. Un giorno questo signore, invece di farmi una carezza, mi prese per mano e mi condusse a una vettura a cignoni, dove mi chiuse insieme alla nutrice. Posso ben dire «mi chiuse», poiché la carrozza prendeva luce solo dall’alto. Ne uscimmo soltanto il terzo giorno, o meglio la terza notte, dato che la sera era molto avanzata. Un uomo aprì la portiera e ci disse: «Eccovi nella piazza di Bellecour, all’imbocco della via Saint-Ramond, ed ecco la casa del prevosto de La Jacquière. Dove volete esser condotte?». «Entrate nel primo portone dopo quello del prevosto» rispose la governante.

A questo punto il giovane Thibaud si fece attentissimo, poiché egli era davvero il vicino di un gentiluomo, chiamato il Sire di Sombre, che passava per essere di carattere geloso; e il detto Sire di Sombre si era più volte vantato davanti a Thibaud che un giorno avrebbe dimostrato come si possa avere una donna fedele. Nel suo castello allevava una Dariolette che sarebbe diventata sua moglie e avrebbe confermato le sue parole. Ma il giovane Thibaud non sapeva che essa si trovasse a Lione e fu ben contento di averla fra le mani.

Intanto Orlandine continuò così:

• Entrammo dunque in un portone, e mi fecero salire in alcune grandi e belle stanze, e di là, per una scala a chiocciola, in una torre da cui mi parve che avrei potuto vedere tutta Lione se fosse stato giorno, invece anche di giorno non avrei visto niente perché le finestre erano chiuse con un panno verde molto spesso. In compenso la torre era illuminata da un bel lampadario di cristallo, montato in smalto. La governante, dopo avermi fatto sedere, mi diede il suo rosario per farmi passare il tempo, e se ne andò chiudendo la porta a doppia e tripla mandata.

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Quando mi trovai sola, buttai via il rosario, presi delle forbici che tenevo alla cintura e aprii uno spiraglio nel panno verde che chiudeva la finestra. Allora ne vidi un’altra vicinissima a me, attraverso la quale scorsi una camera ben illuminata dove cenavano tre giovani cavalieri e tre ragazze, più belli e più allegri di tutto quanto si possa immaginare. Cantavano, ridevano, bevevano, si abbracciavano. Qualche volta si facevano anche qualche carezza, ma in tutt’altro modo dal signore del castello di Sombre, che pure vi veniva solo a quello scopo. Inoltre cavalieri e damigelle si svestivano via via un po’ di più, come facevo io la sera davanti al grande specchio, e davvero a loro si confaceva moltissimo, non già come alla mia vecchia governante.

E qui Messer Thibaud si rese conto che si trattava di un pranzo fatto il giorno prima con i suoi due amici. Passò il braccio intorno alla vita elastica e morbida di Orlandine e la strinse a sé.

• Sì, - disse lei – proprio così facevano i giovani cavalieri.

Davvero mi sembrava che tutti si amassero molto. Ma ecco che uno di quei giovani disse che lui sapeva amare meglio degli altri. «No, sono io, sono io» ribatterono gli altri due. «E’ lui, è l’altro» dissero le ragazze. Allora quello che si era vantato, per provare le sue parole, saltò fuori con una strana invenzione.

Qui Thibaud, ricordandosi che cosa era successo alla cena, per poco non soffocò dal ridere.

• Ebbene, - disse – bella Orlandine, qual era questa trovata del giovane?

• Ah! - riprese Orlandine – non ridete, signore, vi assicuro che era molto bella, e io stavo attentissima quando sentii la porta aprirsi. Ripresi immediatamente il rosario e entrò la governante.

Mi prese ancora per mano senza dirmi niente e mi fece salire in una carrozza, che non era chiusa come la prima, e avrei potuto vedere benissimo la città se non fosse stata notte fonda; capii solo che si andava molto lontano, finché arrivammo finalmente nella campagna ai margini della città. Ci arrestammo all’ultima casa del quartiere.

Apparentemente era solo una capanna, ricoperta per giunta di paglia, ma dentro molto graziosa, come vedrete se il negretto riconosce la strada, poiché vedo che ha trovato un po’ di fuoco e riaccende la sua lanterna.

E qui Orlandine terminò la sua storia. Messer Thibaud le baciò la mano e le disse: «Bella smarrita, fatemi il favore di dirmi se abitate sola in quella deliziosa casa». «Sola,» rispose la bella «con questo negretto e la governante. Ma non credo che lei possa tornare stasera. Il signore che mi faceva una carezza mi ha mandato a dire di andarlo a trovare presso una delle sue sorelle insieme alla governante, ma che non poteva mandare la carrozza perché era andata a prendere un prete. Perciò ci avviammo a piedi. Qualcuno ci ha fermato per dirmi che ero bella. La governante, che è sorda, ha creduto che mi ingiuriasse, e gli ha risposto per le rime. Sono arrivate altre persone e si sono messe di mezzo. Ho avuto paura e ho cominciato a correre. Il

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negretto mi ha seguito. E’ caduto. La lanterna si è rotta, e a questo punto, bel Sire, per mia fortuna vi ho incontrato».

Messer Thibaud, incantato dall’ingenuità di quel racconto, stava per rispondere con qualche galanteria quando il negretto ritornò con la lanterna accesa, la quale gli illuminò in pieno il viso; Orlandine gridò: «Che cosa vedo! Lo stesso cavaliere che ebbe quella bella trovata!». «Io in persona,» disse Thibaud «e vi assicuro che quanto ho fatto allora non è niente in confronto a quanto si potrebbe aspettare da me un’accorta e onesta damigella. Poiché quelle con cui mi trovavo erano tutt’altra cosa». «Eppure avevate l’aria di amarle tutte e tre» disse Orlandine. «Il fatto è che non ne amavo nessuna» rispose Thibaud.

Tra una parola e l’altra, sempre camminando e discorrendo, arrivarono in fondo al quartiere, a una capanna isolata di cui il negro aprì la porta con una chiave che teneva alla cintura.

L’interno non era certo quello di una capanna. C’erano degli splendidi arazzi di Fiandra con dei personaggi eseguiti e ritratti così bene da sembrare vivi; lampadari dai bracci di puro argento massiccio; ricchi mobili in avorio ed ebano; poltrone di velluto di Genova, ornate di frange d’oro, e un letto in marezzo di Venezia. Ma tutto ciò non occupava affatto l’attenzione di Thibaud. Egli vedeva soltanto Orlandine, e avrebbe desiderato molto essere alla conclusione dell’avventura.

Intanto il negretto venne a preparare la tavola, e Thibaud si accorse che non era un bambino, come in principio aveva creduto, ma una specie di vecchio nano tutto nero e di aspetto orrendo. Tuttavia l’ometto portò qualche cosa di tutt’altro che brutto. Si trattava di un bacile d’argento dorato nel quale fumavano quattro pernici appetitose e ben preparate, e sotto il braccio teneva una bottiglia di elisir. Thibaud non aveva ancora terminato di bere e mangiare che gli parve che un fuoco liquido gli circolasse nelle vene. In quanto a Orlandine, mangiava poco e guardava molto il suo convitato, ora con uno sguardo tenero e ingenuo, ora con occhi così pieni di malizia che il giovanotto ne era quasi imbarazzato.

Poi il negretto sparecchiò la tavola. Allora Orlandine prese Thibaud per la mano e gli disse: «Bel cavaliere, come volete che passiamo questa serata?». Thibaud non seppe che cosa rispondere. «Mi viene un’idea.» disse allora Orlandine «Ecco un grande specchio.

Proviamo a far delle smorfie, come facevo al castello di Sombre. Mi divertivo a vedere che la mia governante era fatta diversamente da me. Adesso voglio sapere se non sono diversa da voi».

Orlandine mise due seggiole davanti allo specchio, poi slacciò la gorgera di Thibaud e gli disse: «Il collo l’avete più o meno come il mio. Le spalle anche, ma il petto, che differenza! Anche il mio era così l’anno scorso, ma sono talmente ingrassata che non mi riconosco più. Su, toglietevi la cintura. Disfatevi del panciotto. Perché tutti questi lacci?...».

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Thibaud, non resistendo più, portò Orlandine sul letto di marezzo di Venezia e si stimò il più felice degli uomini...

Ma presto cambiò idea, perché sentì come degli artigli affondarglisi nella schiena: «Orlandine, Orlandine,» gridò «che cosa significa ciò?».

Orlandine non c’era più. Al suo posto Thibaud vide soltanto un viluppo orrendo di forme sconosciute e schifose. «Non sono Orlandine,» disse il mostro con voce spaventosa «sono Belzebù».

Thibaud volle invocare il nome di Gesù, ma Satana se ne accorse e lo afferrò alla gola con i denti, impedendogli di pronunciare quel santo nome.

L’indomani mattina, alcuni paesani che andavano a vendere la verdura al mercato di Lione sentirono dei gemiti in una casupola ai margini della strada che serviva da immondezzaio. Ci andarono e trovarono Thibaud disteso su una carogna mezzo imputridita. Lo presero, lo sdraiarono di traverso sulle loro ceste e lo portarono così dal prevosto di Lione... Il disgraziato La Jacquière riconobbe suo figlio.

Il giovane fu messo a letto. Ben presto parve riprendersi un po’, e con voce debolissima e quasi inintelligibile, disse: «Aprite a quel santo eremita, aprite a quel santo eremita». Dapprima nessuno capì.

Poi fu aperta la porta e si vide entrare un venerabile religioso che chiese di essere lasciato solo con Thibaud. Fu ubbidito e venne chiuso l’uscio dietro di loro. A lungo si sentirono le esortazioni dell’eremita alle quali Thibaud rispondeva con voce forte: «Sì, padre mio, mi pento e spero nella misericordia divina».

Poi, essendosi fatto silenzio, i familiari credettero di dover entrare. L’eremita era scomparso e Thibaud fu trovato morto con un crocifisso tra le mani.

Avevo appena finito questa storia che entrò il cabalista e sembrò volermi leggere negli occhi l’impressione che mi aveva fatto. In realtà me ne aveva fatta moltissima, non volli però farmene accorgere, e mi ritirai nella mia stanza. Lì, ripensai a quanto mi era capitato, e arrivai quasi a credere che i demoni avessero animato per ingannarmi dei corpi di impiccati, e che io fossi un secondo La Jacquière. Sonarono per la cena, ma il cabalista non vi partecipò.

Tutti mi parvero preoccupati poiché io stesso lo ero.

Dopo cena, tornai sulla terrazza. Gli zingari avevano piantato il loro campo a una certa distanza dal castello. Le enigmatiche zingare non comparvero. Scese la notte e mi ritirai in camera. A lungo attesi Rebecca. Non venne e mi addormentai.

Fine del primo decamerone

Parte seconda

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Undicesima giornata

Fui svegliato da Rebecca. Quando aprii gli occhi, la dolce israelita era già seduta sul mio letto e mi teneva una mano.

• Prode Alfonso, - mi disse – ieri avete voluto cogliere di sorpresa le due zingare, ma la grata del torrente era chiusa. Eccovi la chiave. Se oggi si avvicinano al castello, vi prego di seguirle, finanche al loro accampamento. Vi assicuro che farete un grande piacere a mio fratello se gliene darete notizie. In quanto a me, - aggiunse con tono malinconico – devo andarmene. Vuole così la mia sorte, la mia sorte bizzarra. Ah! Padre mio, perché non mi avete concesso un destino normale? Avrei saputo amare nella realtà e non in uno specchio.

• Che cosa volete dire con questo specchio?

• Niente, niente, - rispose Rebecca – un giorno lo saprete. Addio, addio.

L’ebrea si allontanò molto commossa, e non potei trattenermi dal pensare che avrebbe fatto fatica a conservarsi pura per i Gemelli celesti di cui, a quanto mi aveva detto il fratello, doveva essere la sposa.

Andai sulla terrazza. Gli zingari si erano allontanati ancora più che il giorno prima. Presi un libro in biblioteca, ma lessi poco. Ero distratto e preoccupato. Poi ci mettemmo a tavola. La conversazione ebbe per tema come al solito gli spiriti, gli spettri e i vampiri. Il nostro ospite disse che l’antichità ne aveva avuto delle idee vaghe sotto altri nomi, chiamandoli cioè empuse, larve e lamie, ma che gli antichi cabalisti valevano quanto quelli moderni, benché fossero noti soltanto sotto il nome di filosofi, nome che avevano in comune con molta altra gente priva di qualsiasi nozione sulle scienze occulte.

L’eremita parlò di Simone il Mago, ma Uzeda sostenne che Apollonio di Tiana doveva essere considerato il più grande cabalista di quel tempo, avendo egli acquistato uno straordinario potere su tutti gli esseri del mondo pandemoniaco. E a questo proposito, dopo esser andato a cercare un Filostrato nell’edizione di Morel del 1608, mise il naso nel testo greco; e senza mostrare il minimo imbarazzo nel capirlo, lesse in spagnolo quanto segue.

Storia di Menippo di Licia

• C’era a Corinto un licio di nome Menippo. Aveva venticinque anni, era uomo di fine ingegno e di bell’aspetto. In città si raccontava che fosse amato da una straniera bella e ricchissima, da lui conosciuta per caso. L’aveva incontrata sulla strada che porta a Chencreas, dove la donna l’avvicinò con molta grazia dicendogli: «Menippo, vi amo da molto tempo. Sono fenicia e abito all’estremità del sobborgo più vicino di Corinto. Se venite da me, mi ascolterete cantare. Berrete un vino come non avete mai bevuto. Non avrete alcun rivale da temere, e in me troverete sempre tanta fedeltà quanta è l’onestà che io attribuisco a voi». Il giovane, benché assennato, non seppe resistere a quelle belle parole proferite da una bella bocca, e si affezionò alla sua nuova amante.

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Quando Apollonio vide Menippo per la prima volta, si mise a considerarlo come uno scultore che volesse fare il suo busto. Poi gli disse:

«Bel giovane, voi accarezzate un serpente e un serpente vi accarezza».

Menippo fu sorpreso da questo discorso, ma Apollonio aggiunse: «Siete amato da una donna che non può essere vostra moglie. Credete che vi ami?».

«Certo,» rispose il giovane «mi ama molto».

«La sposerete?» chiese Apollonio.

«Sarà per me dolcissimo sposare una donna che amo».

«A quando le nozze?» disse Apollonio.

«Forse domani» rispose il giovane.

Apollonio tenne in mente l’ora del convito e, quando gli invitati furono riuniti, entrò nella sala e disse:

«Dov’è la bella che offre il banchetto?».

Menippo rispose:

«Non è lontana».

Poi si alzò, un po’ vergognoso.

Apollonio continuò:

«L’oro, l’argento e gli altri ornamenti di questa sala, appartengono a voi o a questa donna?».

«Sono suoi;» rispose Menippo «in quanto a me, non possiedo altro che il mio mantello da filosofo».

Allora Apollonio chiese:

«Avete mai visto i giardini di Tantalo che ci sono e non ci sono?».

I convitati risposero:

«Li abbiamo visti in Omero, poiché noi non siamo mai scesi agli Inferi».

Allora Apollonio disse loro:

«Ciò che vedete qui è come quei giardini. Tutto questo non è che apparenza senza nessuna realtà. E, perché possiate riconoscere la verità della mia affermazione, sappiate che questa donna è una di quelle empuse che comunemente sono chiamate larve o lamie. Esse sono avidissime non dei piaceri dell’amore, ma di carne umana. E proprio con le lusinghe del piacere attirano quelli che vogliono divorare».

«Badate alle vostre parole» intervenne la presunta fenicia.

E mostrandosi alquanto irritata, inveì contro i filosofi trattandoli da insensati. Ma ad alcune parole pronunciate da Apollonio, il vasellame d’oro e d’argento sparì. Scomparvero anche coppieri e cuochi. Allora l’empusa finse di piangere e pregò

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Apollonio di non tormentarla oltre. Ma poiché questi non le dava tregua, dovette alla fine ammettere chi era e confessare che aveva saziato Menippo di piaceri per poi divorarlo, e che amava mangiare i giovani più belli perché il loro sangue le faceva molto bene.

• Io credo, - disse l’eremita – che volesse divorare l’anima piuttosto che il corpo di Menippo, e che quell’empusa fosse soltanto il demone della concupiscenza. Ma non capisco quali fossero le parole che davano ad Apollonio un così grande potere. Perché, in fin dei conti, non era cristiano e non poteva usare le terribili armi che la Chiesa ci mette nelle mani; inoltre i filosofi furono in grado di usurpare un certo potere sui demoni prima della nascita di Cristo, ma la croce, che ha fatto tacere gli oracoli, a maggior ragione deve aver annientato ogni altro potere degli idolatri. E credo che Apollonio, ben lontano dal poter scacciare un qualsiasi demone, non si sarebbe imposto neppure all’ultimo dei fantasmi, poiché questo genere di spiriti torna sulla terra col consenso divino, e sempre per chiedere delle messe, prova questa che essi non esistevano ai tempi del paganesimo.

Uzeda fu di parere diverso. Sostenne che i pagani erano stati ossessionati dai fantasmi quanto i cristiani, benché senza dubbio per altri motivi; e per dimostrarlo, prese un volume delle Lettere di Plinio, e lesse quanto segue.

Storia del filosofo Atenagora

• In Atene c’era una casa molto spaziosa e comoda, ma malfamata e deserta. Spesso, nel più profondo silenzio notturno si sentiva un rumore di ferraglia e, ascoltando più attentamente, un rumore di catene che pareva giungere da lontano e via via avvicinarsi. Subito dopo appariva un fantasma dall’aspetto di vegliardo, magro, emaciato, con una lunga barba, i capelli irti, e delle catene alle mani e ai piedi che scoteva in modo spaventoso. Quell’orrenda apparizione toglieva il sonno, e l’insonnia causava delle malattie che finivano nel modo più triste. Infatti durante il giorno, sebbene lo spettro non apparisse più, l’impressione prodotta lo riportava sempre davanti agli occhi, e il terrore durava con la stessa intensità benché ne fosse scomparsa la causa. Alla fine, la casa fu abbandonata e lasciata interamente al fantasma. Fu messo però un cartello per avvertire che era in affitto o in vendita, nella speranza che qualcuno, ignaro di un così terribile inconveniente, potesse essere ingannato.

In quel tempo giunse ad Atene il filosofo Atenagora. Egli vede il cartello e domanda il prezzo. La sua modicità lo mette in sospetto.

Chiede informazioni. Gli viene raccontata la storia, che invece di farlo desistere dal contratto, lo induce a concluderlo immediatamente. Si stabilisce nella casa e verso sera ordina che gli venga preparato il letto nelle stanze che davano sulla facciata, che gli si portino le tavolette e il lume, e che i servi si ritirino in fondo alla casa. Atenagora, temendo che la sua immaginazione troppo libera, lasciandosi prendere da

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una frivola paura, dovesse costruirsi dei vani fantasmi, concentra la mente, gli occhi e le mani nello scrivere.

Nelle prime ore della notte il silenzio regnava in quella casa come dappertutto, ma più tardi il filosofo sente un cozzare di ferri, uno sbattere di catene. Non alza gli occhi, non lascia la penna, si rassicura e, per così dire, si sforza di non ascoltare.

Il fracasso aumenta. Ormai sembra essere arrivato alla porta della camera. Poi nella stanza stessa. Allora guarda, e vede lo spettro tale e quale gliel’avevano descritto. Stava in piedi e lo chiamava con un dito. Atenagora gli fa segno con la mano di aspettare un momento e continua a scrivere come niente fosse. Il fantasma ricomincia il fracasso con le catene, che fa rimbombare alle orecchie del filosofo.

Egli si volta, e scorge di nuovo il cenno di richiamo. Allora si alza, prende il lume e segue il fantasma. Questi camminava a passi lenti, come schiacciato dal peso delle catene. Giunto nel cortile della casa, di colpo scompare, e lascia lì il nostro filosofo, il quale, raccolte dell’erba e delle foglie, le mette nel punto in cui lo spettro si è dileguato, per poterlo riconoscere. Il giorno dopo va dai magistrati e li supplica che facciano scavare in quel luogo. Ciò viene fatto. Vi si trovano delle ossa scarnificate avvolte in catene.

Il tempo e l’umidità della terra avevano consunto la carne e non erano rimaste che delle ossa incatenate. Esse vengono raccolte e la città s’incarica di farle seppellire. E da quando al morto furono resi gli ultimi onori, la pace di quella casa non fu più turbata.

Terminata questa lettura, il cabalista aggiunse:

• Gli spiriti dei trapassati sono tornati in ogni tempo, come vediamo, reverendo padre, dalla storia della strega di Endor, ed è sempre stato in potere dei cabalisti di farli tornare. Tuttavia devo ammettere che sono avvenuti grandi cambiamenti nel mondo «demonagorico». E i vampiri, tra l’altro, sono un’invenzione nuova, se posso esprimermi così. Ne distinguo due specie: i vampiri di Ungheria e di Polonia, cadaveri che di notte escono dalle tombe e vanno a succhiare il sangue degli uomini; e i vampiri di Spagna, spiriti immondi che animano il primo corpo che trovano, gli dànno ogni specie di forma, e...

Vedendo dove voleva arrivare il cabalista, mi alzai da tavola, forse un po’ troppo bruscamente, e andai sulla terrazza. Non era ancora passata mezz’ora quando vidi le mie due zingare che sembravano avviate al castello, del tutto simili, a quella distanza, a Emina e Zibeddé. Decisi subito di fare uso della chiave. Andai nella mia stanza a cercare cappa e spada, e in un baleno scesi fino alla grata.

Ma una volta aperta, il più difficile restava da fare perché avevo ancora da passare il torrente. Per far questo dovetti seguire il muro della terrazza aggrappandomi ad alcuni ferri piantati lì apposta.

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Finalmente arrivai a un punto dove il letto del torrente era cosparso di grosse pietre, e saltando dall’una all’altra, mi trovai sulla riva opposta e faccia a faccia con le due zingare. Ma non erano le cugine.

Non ne avevano neppure i modi, che tuttavia erano diversi da quelli comuni e rozzi delle donne del loro popolo. Sembrava quasi che esse recitassero una parte. Per prima cosa vollero predirmi la fortuna.

Una mi aprì la mano e l’altra, fingendo di leggervi tutto il mio avvenire, mi disse nel suo gergo:

• Ah! Cavaliere, che vejo en vuestra bast. Dirvanos Kamela, ma por quen, por demonios.

Cioè: «Ah! Cavaliere, che vedo nella vostra mano? Molto amore, ma per chi? Per dei demoni!».

Potete credermi se dico che non avrei mai indovinato che Dirvanos Kamela volesse dire «molto amore» nel gergo delle zingare. Ma si preoccuparono di spiegarmelo, poi, prendendomi tutt’e due sottobraccio, mi condussero al campo, dove mi presentarono a un vecchio di bell’aspetto e ancora valido, che era loro padre. Con aria un po’ maliziosa il vecchio mi disse:

• Sapete, Signor cavaliere, che qui siete in mezzo a una banda di cui nel paese si parla un po’ male? Non avete un po’ paura di noi? Alla parola paura, tenevo già la mano sull’impugnatura della spada.

Ma il vecchio capo mi tese affettuosamente la mano e mi disse:

• Scusatemi, Signor cavaliere, non ho voluto offendervi, anzi ne sono così lontano che vi prego di passare qualche giorno con noi. Se un viaggio tra queste montagne può interessarvi, vi promettiamo di farvi vedere le più belle valli come le più tetre, i luoghi più ridenti e insieme quelli che si chiamano un bell’orrido; e se amate la caccia, avrete tutto il modo di soddisfare la vostra passione.

Accettai quella proposta con un piacere tanto più grande in quanto cominciavo a essere un po’ annoiato delle dissertazioni del cabalista e della solitudine del castello.

Allora il vecchio zingaro mi condusse nella sua tenda e mi disse:

• Signor cavaliere, questo padiglione sarà la vostra dimora per tutto il tempo che vorrete passare con noi, e vicino farò mettere una tenda dove dormirò io per poter vegliare meglio sulla vostra sicurezza.

Risposi al vecchio che, avendo l’onore di essere capitano delle Guardie valloni, dovevo cercare protezione solo nella mia propria spada.

Tale risposta lo fece ridere, e mi disse:

• Signor cavaliere, i moschetti dei nostri banditi ucciderebbero un capitano delle Guardie valloni come qualsiasi altra persona; ma una volta che essi saranno avvisati, potrete anche allontanarvi dalla nostra tribù. Fino a quel momento, sarebbe imprudente tentarlo.

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Il vecchio aveva ragione e mi vergognai un po’ della mia bravata.

Passammo la sera a gironzolare per il campo, a parlare con le giovani zingare, che mi parvero le più matte ma anche le più felici donne del mondo. Poi ci fu servita la cena. La tavola fu messa al riparo di un carrubo vicino alla tenda del capo. Ci stendemmo su pelli di cervo, e fummo serviti su una pelle di bufalo trattata come il marocchino, che fungeva da tovaglia. Le vivande erano ottime, specie la selvaggina. Il vino era versato dalle figlie del capo, ma preferivo l’acqua di fonte che sgorgava dalla roccia a due passi da noi. Lo stesso capo sostenne piacevolmente la conversazione. Sembrava a conoscenza delle mie avventure e me ne prediceva di nuove.

Poi venne l’ora di coricarsi. Mi fu preparato un letto nella tenda del capo e fu collocata una guardia davanti alla porta. Ma, verso la metà della notte, fui svegliato di soprassalto. Poi sentii che la mia coperta veniva sollevata da ambedue i lati e che qualcuno mi si stringeva addosso. «Buon Dio, pensai fra me, dovrò ancora svegliarmi fra i due impiccati?». Ma non mi soffermai su quell’idea. Pensai che quei modi facessero parte dell’ospitalità degli zingari, e che non si addiceva a un soldato della mia età non prestarsi al gioco. Poi mi addormentai, del tutto convinto di non trovarmi con i due impiccati.

Dodicesima giornata

Infatti non mi svegliai sotto la forca di Los Hermanos ma nel mio letto, al rumore che gli zingari facevano nel levare il campo.

• Alzatevi, Signor cavaliere, - mi disse il capo – dobbiamo fare un lungo tratto. Ma cavalcherete una mula che non ha l’uguale nelle Spagne, e non vi accorgerete neppure di andare.

Mi vestii in fretta e montai sulla mula. Ci mettemmo in testa con quattro zingari, molto bene armati. Il resto della tribù seguiva da lontano, preceduto dalle due giovani con le quali mi sembrava di aver passato la notte. Qualche volta la tortuosità dei sentieri fra le montagne faceva sì che io mi trovassi a qualche centinaia di piedi sopra o sotto di loro. Allora mi fermavo a osservarle, e mi sembrava fossero proprio le mie cugine. Il vecchio capo pareva divertirsi al mio imbarazzo.

Dopo ben quattro ore di marcia abbastanza sostenuta, arrivammo a una spianata sulla cima di una montagna, e vi trovammo un gran numero di merci in balle, di cui il vecchio capo zingaro fece subito l’inventario. Poi mi disse:

• Signor cavaliere, ecco qui delle mercanzie d’Inghilterra e del Brasile, tante da fornire i quattro regni di Andalusia, di Granata, di Valenza e di Catalogna. Il re risente alquanto del nostro piccolo commercio, ma si rifà da un’altra parte, e un po’ di contrabbando diverte e consola il popolo. D’altronde in Spagna non c’è uno che non lo faccia. Alcune di queste balle verranno deposte nelle caserme dei soldati, altre nelle celle dei monaci, e perfino nelle cripte dei morti. Le balle contrassegnate in

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rosso sono destinate a cadere in mano agli alguazil, (1) che se ne faranno un merito presso la dogana e saranno così più legati ai nostri interessi.

Ciò detto, lo zingaro fece nascondere le mercanzie in diversi anfratti delle rocce. Poi fece servire il pranzo in una grotta, da cui la vista si stendeva a perdita d’occhio, tanto che in lontananza l’orizzonte sembrava confondersi col cielo. Diventato ogni giorno più sensibile alle bellezze della natura, quella vista mi sprofondò in un vero rapimento, da cui fui riscosso dalle figlie del capo che portarono il pranzo. Da vicino, come ho già detto, non assomigliavano affatto alle mie cugine. I loro sguardi furtivi sembravano dirmi che erano contente di me, ma qualcosa mi avvertiva che non erano state loro a venirmi a trovare durante la notte.

Le belle portarono un’olla molto calda che dei servi, spediti avanti, avevano fatto cuocere tutta la mattina. Ne mangiammo in abbondanza, il vecchio capo ed io, con la differenza che lui inframmezzava il cibo con frequenti abbracci a un otre pieno di ottimo vino, mentre io mi accontentavo dell’acqua di una sorgente vicina.

Quando ci fummo saziati, gli manifestai una certa curiosità di conoscerlo meglio. Lui si schermì, io insistetti; alla fine acconsentì a raccontarmi la sua storia, che cominciò così.

NOTE:

(1) Sbirri.

Storia di Pandesowna,

capo degli zingari

• Tutti gli zingari di Spagna mi conoscono sotto il nome di Pandesowna. Nel loro gergo è la traduzione del mio nome di famiglia, Avadoro, poiché io non sono nato tra gli zingari. Mio padre si chiamava Don Felipe d’Avadoro ed era considerato l’uomo più severo e metodico del suo tempo. Anzi, lo era a tal punto, che se vi raccontassi la storia di una delle sue giornate, conoscereste subito quella della sua intera vita, o almeno di tutto il tempo trascorso fra i suoi due matrimoni, il primo, a cui devo la mia nascita, e il secondo che causò la sua morte, per la sregolatezza che portò nel suo modo di vivere.

Mio padre, quando ancora abitava nella casa paterna, fu preso da un tenero affetto per una lontana parente, che sposò non appena fu lui il capo della famiglia. Essa morì mettendomi al mondo, e mio padre, inconsolabile per la perdita, si chiuse in casa per molti mesi, senza voler ricevere neppure i parenti. Il tempo, che mitiga qualsiasi dolore, placò anche il suo, e un giorno finalmente lo si vide aprire la porta del balcone che dava sulla strada di Toledo. Respirò l’aria fresca per un quarto d’ora, poi andò ad aprire una finestra che dava su una via laterale. Scorse nella casa di fronte persone di sua conoscenza, e le salutò con aria abbastanza allegra. Continuò così nei

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giorni seguenti, e quel cambiamento nella sua vita venne alla fine a conoscenza di Fra Jeronimo Santez, Teatino e zio materno di mia madre.

Questo religioso si recò da mio padre, si rallegrò per la riacquistata salute, gli parlò poco dei conforti che offre la religione e molto del bisogno che aveva di distrarsi. Anzi, spinse la sua indulgenza fino a consigliargli di andare a teatro. Mio padre, che aveva la più grande fiducia in Fra Jeronimo, la sera stessa si recò al teatro de la Cruz. Si rappresentava un nuovo lavoro, sostenuto da tutto il partito dei Pollacos, mentre quello dei Sorices cercava di farlo cadere. Il gioco di queste due fazioni interessò tanto mio padre che, da allora, non mancò mai, per sua volontà, a un solo spettacolo. Anzi simpatizzò particolarmente col partito dei Pollacos, e andava al teatro del Principe soltanto quando quello de la Cruz era chiuso.

Dopo lo spettacolo, si metteva in fondo alla duplice ala che gli uomini formavano per costringere le donne a sfilare a una a una, ma non lo faceva come gli altri per esaminarle più a suo agio; al contrario, se ne interessava poco, e non appena l’ultima donna era passata, prendeva la strada della Croce di Malta, dove consumava un leggero pasto prima di rientrare a casa.

Al mattino, la prima cura di mio padre era di aprire il balcone che dava sulla strada di Toledo. Vi respirava l’aria fresca per un quarto d’ora. Poi andava ad aprire la finestra che dava sul vicoletto. Se c’era qualcuno alla finestra di fronte, salutava gentilmente, con un agur, e subito si ritirava. Questa parola agur era talvolta la sola che pronunciasse in tutto il giorno; poiché, per quanto si interessasse vivamente al successo di tutte le commedie che si davano al teatro de la Cruz, testimoniava quest’interesse solo battendo le mani e mai con parole. Se non c’era nessuno alla finestra di fronte, aspettava pazientemente che qualcuno apparisse per poter collocare il suo gentile saluto.

Poi andava alla messa dai Teatini. Al ritorno, trovava la camera rifatta dalla domestica e poneva una particolare cura nel rimettere ogni mobile nell’identico posto del giorno prima. Vi metteva un’attenzione straordinaria, e scopriva immediatamente la più piccola pagliuzza o granello di polvere sfuggiti alla scopa della domestica.

Quando era soddisfatto dell’ordine della sua stanza, prendeva compasso e forbici e tagliava ventiquattro pezzi di carta di grandezza uguale, li riempiva di un trinciato di tabacco del Brasile e ne faceva ventiquattro sigari così ben arrotolati, così compatti che si potevan considerare i sigari più perfetti di tutta la Spagna.

Fumava sei di quei capolavori contando le tegole del palazzo d’Alba, e sei contando le persone che entravano dalla porta di Toledo. Poi si voltava verso la porta della sua camera fino al momento in cui vedeva arrivare il pranzo.

Dopo pranzo fumava gli altri dodici sigari. Poi fissava gli occhi sulla pendola finché non suonasse l’ora dello spettacolo, e se non c’era spettacolo in nessun teatro, andava dal libraio Moreno, dove ascoltava parlare alcuni letterati, che là erano soliti ritrovarsi, ma senza mai unirsi alla conversazione. Se era malato, mandava a prendere da Moreno la commedia che si rappresentava al teatro de la Cruz, e quando arrivava

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l’ora dello spettacolo cominciava la lettura, senza dimenticare di applaudire tutti i passaggi che la fazione dei Pollacos soleva mettere in risalto.

Era una vita del tutto innocente, tuttavia mio padre, che voleva adempiere i suoi doveri religiosi, chiese ai Teatini un confessore.

Gli venne mandato il mio prozio, Fra Jeronimo Santez, che approfittò di quell’occasione per ricordargli la mia esistenza nella casa di Donna Felic Dalanosa, sorella della mia defunta madre. Sia per timore che la mia vista gli ricordasse la persona cara di cui senza colpa avevo causato la morte, sia che forse non desiderasse che le mie grida infantili turbassero le sue silenziose abitudini, fatto sta che mio padre pregò Fra Jeronimo di tenermi sempre lontano da lui, ma nello stesso tempo provvide al mio sostentamento, assegnandomi la rendita di una quinta, o fattoria, che possedeva nei dintorni di Madrid, e affidò la mia tutela al procuratore dei Teatini.

Ahimè! Sembra quasi che mio padre, allontanandomi in tal modo da lui, avesse qualche presentimento della straordinaria differenza di carattere che la natura aveva posto tra noi due. Perché avrete visto quanto fosse metodico e abitudinario nel suo modo di vivere, mentre oso assicurarvi che sarebbe impossibile trovare un uomo più incostante di quanto sia sempre stato io. Fui incostante perfino nell’incostanza, poiché nei miei vagabondaggi l’idea di una felicità tranquilla e di una vita ritirata non mi ha mai abbandonato e d’altra parte me ne ha sempre distolto il gusto del cambiamento. Tanto che, conoscendomi finalmente, ho posto fine a quelle inquiete alternative fissandomi in questa tribù di zingari. E’ certo una vita uniforme, appartata e monotona, ma almeno non ho la noia di avere sempre davanti agli occhi gli stessi alberi, le stesse rocce, o, cosa che mi sarebbe ancora più insopportabile, gli stessi muri e gli stessi tetti.

Qui interruppi il narratore e gli dissi:

• Signor Avadoro, o Pandesowna, penso che un’esistenza tanto errabonda abbia dovuto offrirvi avventure ben singolari.

• Infatti, signor cavaliere, - mi rispose lo zingaro – ho visto cose abbastanza straordinarie da quando vivo in questo deserto. Per il resto, la mia esistenza offre soltanto fatti piuttosto comuni, in cui di notevole non trovereste che l’entusiasmo che mi ha sempre preso per qualsiasi genere di vita, senza che per questo io ne seguissi mai alcuno per più di uno o due anni.

Dopo tale risposta, lo zingaro continuò così:

• Vi ho detto che mia zia Dalanosa mi aveva preso con sé. Non aveva figli, e sembrava aver riunito a mio vantaggio tutta l’indulgenza delle zie e delle madri messa insieme; in una parola, ero un bambino viziato. E lo diventai ogni giorno di più, perché via via che crescevo in forza e intelligenza, ero sempre più tentato di abusare delle bontà che si avevano nei miei riguardi. D’altra parte, non trovando mai opposizione alla mia volontà, spesso opponevo poca resistenza a quella degli altri, ciò che mi faceva quasi sembrare docile; inoltre mia zia aveva un certo sorriso tenero e carezzevole con cui accompagnava i suoi ordini, e in quei casi non mi ribellavo mai.

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Ero insomma tale che la buona Dalanosa si persuase che la natura, aiutata dalle sue cure, aveva creato in me un vero capolavoro. Ma alla sua felicità mancava un punto essenziale, e cioè di non poter rendere mio padre testimone dei miei pretesi progressi e convincerlo delle mie perfezioni; infatti egli si ostinava sempre a non vedermi.

Ma qual è l’ostinazione di cui una donna non verrebbe a capo? La signora Dalanosa agì con tanta costanza ed efficacia sullo zio Jeronimo che costui alla fine decise di approfittare della prima confessione di mio padre per fargli un caso di coscienza della sua crudele indifferenza verso un bambino che non poteva avere alcun torto nei suoi confronti.

Fra Jeronimo fece come aveva promesso alla zia. Ma mio padre non poté senza il più grande spavento pensare di ricevermi nella sua stanza. Allora il frate propose un incontro nel giardino del Buen Retiro; ma quella passeggiata non rientrava nell’itinerario metodico e uniforme da cui mio padre non si scostava mai. Preferì piuttosto ricevermi a casa sua, e Fra Jeronimo andò ad annunciare quella buona notizia alla zia, che credette di morirne di gioia.

Devo dirvi che dieci anni di ipocondria avevano molto aumentato le stranezze della vita casalinga di mio padre. Fra le altre manie, gli era venuta quella di fabbricare inchiostro, ed ecco come gli era nata questa passione. Un giorno che si trovava dal libraio Moreno insieme a molti fra i più begli ingegni di Spagna e qualche uomo di legge, la conversazione cadde sulla difficoltà di trovare del buon inchiostro.

Tutti dissero che non ne esisteva e che avevano tentato invano di farne. Moreno disse di avere nel suo magazzino una raccolta di ricette, dove si sarebbe certo trovato di che istruirsi in proposito.

Andò a cercare questo volume che lì per lì non trovò, e al suo ritorno la conversazione aveva cambiato soggetto: ci si era riscaldati per il successo di una nuova commedia e nessuno volle più parlare di inchiostro né ascoltare alcuna lettura al riguardo. Ma mio padre fu di parere diverso. Prese il libro, trovò subito la ricetta per la composizione dell’inchiostro e fu molto sorpreso di capire così bene una cosa che le più belle intelligenze di Spagna consideravano molto difficile. Infatti si trattava soltanto di mescolare della tintura di noce di galla con una soluzione di vetriolo e di aggiungervi della gomma. Tuttavia l’autore avvertiva che si sarebbe ottenuto del buon inchiostro soltanto se fabbricato in gran quantità in una volta sola; che bisognava tenere caldo il miscuglio e rimestarlo spesso, poiché la gomma, non avendo nessuna affinità con le sostanze metalliche, tendeva sempre a separarsene; che inoltre la gomma stessa tendeva a imputridire, cosa che si poteva evitare soltanto aggiungendovi una piccola dose d’alcool.

Mio padre acquistò il libro e già il giorno dopo si era procurato gli ingredienti necessari: una bilancia per le dosi e anche la più grande bottiglia che potesse trovare a Madrid, dato che l’autore raccomandava di fare l’inchiostro ogni volta in gran quantità.

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L’operazione riuscì perfettamente. Mio padre portò una bottiglia del suo inchiostro ai begli ingegni radunati nella bottega di Moreno.

Tutti lo trovarono magnifico, tutti ne vollero un poco.

Nella sua esistenza ritirata e silenziosa, mio padre non aveva mai avuto l’occasione di rendere servizio a chicchessia, e meno ancora di ricevere lodi. Trovò piacevole rendersi utile e più piacevole ancora essere lodato, e si appassionò in modo particolare a quella fabbricazione che gli procurava soddisfazioni così gradite. Vedendo che gli uomini di lettere di Madrid avevano esaurito in men che non si dica la più grande bottiglia che egli avesse potuto trovare in tutta la città, fece venire da Barcellona una damigiana, di quelle in cui i marinai del Mediterraneo mettono le loro riserve di vino. Così poté preparare in una sola volta venti bottiglie d’inchiostro, che gli uomini di lettere esaurirono come le prime, sempre colmandolo di lodi e ringraziamenti.

Ma più le bottiglie erano grandi, più crescevano gli inconvenienti.

Non si poteva scaldare il miscuglio e ancora meno mescolarlo bene, e soprattutto era difficile travasarlo. Allora mio padre si decise a far venire dal Toboso una di quelle grandi giare di terracotta usate per la fabbricazione del salnitro. Quando arrivò, la fece murare su un fornello in cui si mantenevano costantemente accese poche braci.

Un rubinetto applicato in fondo alla giara serviva a estrarne il liquido, e, salendo in piedi sul fornello, si riusciva a mescolare abbastanza comodamente con un mestolone di legno. Queste giare sono più alte di un uomo, e potete immaginare la quantità di inchiostro che mio padre faceva in una volta sola; aveva anzi cura di aggiungerne a mano a mano che ne toglieva. Era per lui una vera soddisfazione veder entrare la serva o il domestico di qualche famoso uomo di lettere per chiedergli dell’inchiostro; e quando questi pubblicava qualche opera che aveva risonanza letteraria e di cui si parlava da Moreno, sorrideva compiaciuto come se egli vi avesse in qualche modo contribuito. Insomma, per dirvi tutto, da allora mio padre fu conosciuto nella città soltanto sotto il nome di Don Felipe del Tintero Largo, o Don Filippo del Gran Calamaio, e il nome di Avadoro era ricordato soltanto da pochi.

Io sapevo tutto questo, avevo sentito parlare del carattere strano di mio padre, dell’ordine della sua camera, della sua grande giara d’inchiostro; e morivo dal desiderio di vedere coi miei occhi. In quanto alla zia, essa non dubitava che mio padre, non appena avesse avuto la fortuna di vedermi, avrebbe subito rinunciato a tutte le sue manie per non dedicarsi più ad altro che ad ammirarmi dalla mattina alla sera. Finalmente fu fissato il giorno della presentazione. Mio padre si confessava da Fra Jeronimo l’ultima domenica di ogni mese.

Il frate doveva ancora confermarlo nella risoluzione di vedermi, e poi annunciargli che l’avrei aspettato a casa sua dove l’avrebbe accompagnato. Mettendoci a parte di questo piano fra Jeronimo mi raccomandò di non toccare niente nella stanza di mio padre. Promisi tutto quel che volevano, e mia zia promise di sorvegliarmi a vista.

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Finalmente giunse la domenica tanto attesa. La zia mi fece indossare un abito di majo color di rosa, guarnito di frange d’argento, con bottoni fatti di topazi del Brasile. Mi assicurò che sembravo l’immagine stessa dell’amore e che mio padre sarebbe certo impazzito di gioia al vedermi. Pieni di speranze e di idee lusinghiere, ci incamminammo allegramente per la via delle Orsoline e raggiungemmo il Prado, dove molte donne si fermarono a farmi una carezza. Finalmente arrivammo nella via di Toledo, e poi nella casa di mio padre. Fummo introdotti nella sua stanza e la zia, che temeva la mia vivacità, mi mise in una poltrona, si sedette in faccia a me e mi afferrò le frange della sciarpa per impedirmi di alzarmi e di toccare qualche cosa.

Dapprima mi ripagai di quella costrizione esplorando con gli occhi tutti gli angoli della stanza, di cui ammirai l’ordine e la pulizia.

Il posto destinato alla fabbricazione dell’inchiostro era pulito e ordinato quanto il resto: la grande giara del Toboso faceva quasi da ornamento, e di fianco c’era un grande armadio a vetri dove erano disposti tutti gli ingredienti e gli strumenti necessari.

La vista di quell’armadio alto e stretto, messo lì vicino al fornello della giara, suscitò in me un desiderio improvviso e irresistibile di montarci sopra, e mi parve che niente sarebbe stato così divertente quanto vedere mio padre cercarmi invano in tutta la stanza, per poi scorgermi proprio nascosto sopra la sua testa. Con un movimento rapido come il pensiero, mi sbarazzai della sciarpa tenuta da mia zia, mi slanciai sul fornello e di là sull’armadio.

Lì per lì la zia non poté trattenersi dall’applaudire la mia prodezza. Poi mi scongiurò di scendere. In quel momento ci fu annunciato che mio padre stava salendo le scale. La zia si inginocchiò per pregarmi di lasciare il mio appostamento. Non potei resistere alle sue commoventi suppliche. Ma volendo scendere sul fornello, sentii che appoggiavo il piede sul bordo della giara. Volli trattenermi, ma mi accorsi che stavo per trascinare con me l’armadio.

Lasciai la presa e caddi nella giara dell’inchiostro. Sarei certo annegato, ma la zia prese il mestolo che serviva a mescolare l’inchiostro, diede un gran colpo sulla giara e la ruppe in mille pezzi. In quel momento entrò mio padre, vide un fiume d’inchiostro che inondava la sua stanza e una figura nera che la faceva rimbombare delle più terribili urla. Si precipitò giù per le scale, si slogò un piede e cadde svenuto.

In quanto a me, non urlai a lungo. L’inchiostro inghiottito mi causò un terribile malessere. Persi conoscenza e non la riacquistai del tutto se non dopo una lunga malattia, seguìta da un’altrettanto lunga convalescenza. Ciò che contribuì maggiormente alla mia guarigione fu la notizia datami dalla zia che avremmo lasciato Madrid e ci saremmo stabiliti a Burgos. L’idea di un viaggio mi entusiasmò a tal punto che si temette io perdessi la ragione. La mia grande gioia fu però turbata quando la zia mi domandò se volevo andare in carrozza con lei oppure esser portato in lettiga. «Né l’una né l’altra cosa, certo,» le risposi col più grande furore «non sono una donna. Voglio viaggiare a cavallo, o almeno su una mula, con un buon fucile di Segovia fissato alla sella, due pistole alla cintura, e una spada.

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Partirò soltanto a condizione che mi siano date tutte queste cose, ed è nel vostro interesse di darmele, poiché tocca a me difendervi».

Dissi mille altre follie del genere che mi parevano le cose più sensate, e che dovevano essere davvero divertenti sulla bocca di un ragazzo di undici anni.

I preparativi del viaggio mi offrirono l’occasione di svolgere un’attività intensissima. Andavo, venivo, salivo, portavo, davo ordini, ero insomma la vera mosca cocchiera e avevo un gran daffare, dato che mia zia, stabilendosi a Burgos, vi portava tutto il suo mobilio. Finalmente arrivò il felice giorno della partenza. Spedimmo il grosso del bagaglio per la via di Aranda, e noi prendemmo quella di Valladolid.

La zia, che prima voleva andare in carrozza, vedendo che io ero deciso a montare una mula, fece la stessa cosa. Invece della sella, le fu preparato un seggiolino comodissimo, issato su un basto e sormontato da un parasole. Uno zagal le camminava davanti per scacciare perfino l’ombra di un pericolo. Il resto del nostro convoglio, composto di dodici mule, aveva un bellissimo aspetto. E io, che mi consideravo il capo di quell’elegante carovana, un po’ mi tenevo alla testa di essa, un po’ chiudevo la marcia, sempre con qualche arma in mano, specialmente a tutte le svolte della strada e in altri luoghi sospetti.

E’ facile immaginarsi che non si presentò alcuna occasione di mostrare il mio valore, e così arrivammo felicemente ad Alabahos, dove trovammo due carovane numerose quanto la nostra. Le bestie stavano alla mangiatoia e i viaggiatori nella cucina all’altra estremità della scuderia, separata da questa soltanto da due gradini di pietra. A quel tempo erano così quasi tutte le locande di Spagna.

L’intera casa si componeva soltanto di una stanza lunghissima, di cui le mule occupavano la parte migliore e gli uomini la più piccola. Ma, anzi, c’era più allegria. Lo zagal, mentre strigliava le cavalcature, lanciava mille frecciate maliziose all’ostessa, che gli rispondeva con la vivacità del suo sesso e del suo stato, finché l’oste non interrompeva con la sua gravità quelle schermaglie che, sospese per un momento, ricominciavano un attimo dopo. Le serve facevano risonare la casa con le loro nacchere e danzavano al ritmo delle roche canzoni del capraio. I viaggiatori facevano conoscenza e si invitavano reciprocamente a cena. Poi ci si radunava intorno al focolare.

Ciascuno diceva chi era, da dove veniva, e talvolta raccontava la propria storia. Erano bei tempi. Oggi ci sono alberghi migliori, ma la vita socievole e tumultuosa che si faceva allora in viaggio aveva un fascino che non so descrivervi. Quanto posso dirvi è che quel giorno ne fui così sedotto che nel mio piccolo cervello decisi di viaggiare tutta la vita, promessa che infatti ho mantenuto.

Tuttavia una circostanza particolare mi rafforzò ancora in quella risoluzione. Dopo la cena, quando tutti i viaggiatori si furono radunati intorno al focolare e ciascuno ebbe raccontato qualche cosa sui paesi che aveva traversato, uno di loro, che non aveva ancora aperto bocca, disse: «Quanto vi è capitato nei vostri viaggi è

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interessantissimo da ascoltare e da ricordare. In quanto a me, vorrei proprio che non mi fosse capitato di peggio, ma, traversando la Calabria, mi è toccata un’avventura così straordinaria che non posso cancellarne il ricordo. Esso mi perseguita, mi ossessiona, avvelena tutte le gioie che potrei avere, ed è già molto se la malinconia che mi procura non mi toglie il senno». Un simile inizio eccitò moltissimo la curiosità dell’uditorio. Si insistette molto affinché alleviasse la sua pena raccontando una storia così straordinaria.

Egli si fece pregare un bel po’, poi cominciò così.

Storia di Giulio Romati

e della Principessa

di Monte-Salerno

• Il mio nome è Giulio Romati; mio padre, Pietro Romati, è il più illustre uomo di legge di Palermo, anzi dell’intera Sicilia. Come è facile supporre, egli ama molto una professione che gli permette un’esistenza onorevole. Ma ancor più egli ama la filosofia, a cui dedica tutti i momenti liberi dagli affari.

Senza vantarmi posso dire di aver seguìto le sue tracce in entrambe le direzioni, poiché all’età di ventidue anni ero già dottore in legge. E applicandomi poi alle matematiche e all’astronomia, vi ho fatto abbastanza progressi da poter commentare Copernico e Galileo.

Non vi dico queste cose per trarne vanto, ma poiché devo raccontarvi un’avventura singolarissima, non voglio passare per un credulone e un superstizioso. Sono così lontano da un simile errore che la teologia è forse l’unica scienza che abbia sempre trascurato. In quanto alle altre, mi ci dedicavo con lo zelo più infaticabile, non conoscendo che questo svago, l’alternare cioè uno studio all’altro.

Tanta applicazione influì sulla mia salute; e mio padre, non sapendo quale genere di distrazione potesse andarmi bene, mi propose di viaggiare, e pretese anzi che facessi il giro d’Europa e che tornassi in Sicilia soltanto dopo quattro anni.

Dapprima soffrii molto all’idea di separarmi dai miei libri, dallo studio, dall’osservatorio. Ma mio padre lo esigeva e io dovetti obbedire. Non appena in viaggio, si operò in me un cambiamento molto favorevole. Ritrovai l’appetito, le forze, in una parola la completa salute. Avevo iniziato il viaggio in lettiga, ma dopo due giorni presi una mula e ne fui contento.

Molte persone conoscono il mondo intero tranne il proprio paese.

Non volli che il mio potesse rimproverarmi una simile assurdità e cominciai col vedere le meraviglie che la natura ha distribuito con tanta larghezza nella nostra isola. Invece di seguire la costa da Palermo a Messina, passai per Castro Novo, Caltanissetta, e arrivai ai piedi dell’Etna in un villaggio di cui ho dimenticato il nome. Lì mi preparai al viaggio sul monte, con il proposito di dedicarvi un mese. Infatti ci rimasi tutto quel tempo, occupandomi in special modo di verificare alcune esperienze

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che sono state fatte da poco sul barometro. Di notte osservavo gli astri, ed ebbi la soddisfazione di scorgere alcune stelle che non erano visibili dall’osservatorio di Palermo, poiché si trovavano al di sotto del suo orizzonte.

Fu con vero rimpianto che lasciai quei luoghi, dove mi sembrava quasi di far parte delle luci eteree e della sublime armonia di quei corpi celesti di cui avevo tanto studiato le leggi. D’altronde è certo che l’aria rarefatta dell’alta montagna agisce sul nostro corpo in modo del tutto particolare, rendendo più frequente il polso e più rapida la respirazione. Finalmente lasciai il monte e scesi verso Catania.

In questa città abita una nobiltà altrettanto illustre ma più illuminata di quella di Palermo. Non che a Catania ci fossero molti appassionati delle scienze esatte, non certo più che nel resto dell’isola. Ma si occupavano molto di arte, di antichità, di storia antica e moderna, di tutti i popoli che hanno occupato la Sicilia. In particolar modo gli scavi e le bellissime cose che venivano alla luce formavano il soggetto di ogni conversazione.

Proprio allora era appena stato estratto dalle viscere della terra un marmo bellissimo, coperto di caratteri sconosciuti. Dopo averlo esaminato con attenzione, mi accorsi che l’iscrizione era in lingua punica; e l’ebraico, che conosco abbastanza bene, mi diede la possibilità di decifrarlo in modo da soddisfare tutti quanti. Questo successo mi valse un’accoglienza lusinghiera, e le persone più in vista della città vollero trattenermi con delle offerte abbastanza seducenti. Ma avendo lasciato la famiglia con altre intenzioni, le rifiutai e presi la strada di Messina. In questa città, famosa per il commercio, mi trattenni un’intera settimana. Dopodiché passai lo stretto e sbarcai a Reggio.

Fino allora il mio viaggio era stato soltanto di piacere, ma a Reggio l’impresa divenne più seria. Un bandito, di nome Zoto, affliggeva la Calabria e il mare era infestato da pirati tripolini.

Non sapevo proprio come fare per andare a Napoli, e se non fossi stato trattenuto da non so quale falso senso di vergogna, sarei tornato a Palermo.

Da una settimana ero ormai fermo a Reggio in preda a queste incertezze quando, un giorno, dopo aver passeggiato a lungo sul porto, mi sedetti su un mucchio di pietre, nella parte più solitaria della spiaggia. Qui mi si accostò un uomo di piacevole aspetto avvolto in un mantello scarlatto. Si sedette vicino a me senza fare complimenti; poi mi parlò così: «Il signor Romati è forse occupato in qualche problema d’algebra o di astronomia?». «Niente affatto,» risposi «il signor Romati vorrebbe soltanto andare a Napoli, e il problema che lo preoccupa in questo momento è di sapere come sfuggire alla banda del signor Zoto». Allora lo sconosciuto, assumendo un’aria molto seria, mi disse: «Signor Romati, il vostro talento fa già onore al paese, gliene farete ancora di più quando i viaggi da voi intrapresi avranno esteso la sfera delle vostre conoscenze. Zoto è troppo galantuomo per volervi ostacolare in una così nobile impresa.

Prendete queste piume rosse, mettetene una sul cappello; date le altre ai vostri servi e partite senza timore. In quanto a me, sono quello Zoto che temete tanto, e perché

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non possiate aver dubbi vi mostrerò gli strumenti della mia professione». Così dicendo, aprì il mantello e mi mostrò un cinturone di pistole e pugnali. Poi mi strinse affettuosamente la mano e scomparve.

A questo punto interruppi il capo degli zingari per dirgli che avevo sentito parlare di questo Zoto, e che conoscevo i suoi due fratelli.

• Anch’io li conosco! - riprese Pandesowna – Sono come me al servizio del grande sceicco dei Gomelez.

• Che cosa? Anche voi al suo servizio! - gridai con la più grande meraviglia.

In quel momento, uno zingaro venne a parlare all’orecchio del capo, che si alzò immediatamente, lasciandomi il tempo di riflettere su quanto avevo appena sentito. «Qual è dunque, dissi tra me, qual è questa potente associazione che sembra non avere altro fine che quello di nascondere non so quale segreto, o quello di incantarmi con magie che qualche volta riesco in parte a penetrare ma che poi, per altre circostanze, non tardano a farmi ripiombare nel dubbio? E’ chiaro che anch’io faccio parte di questa catena invisibile. E’ chiaro che mi si vuol legare ancora più strettamente». Tali riflessioni furono interrotte dalle figlie del capo che vennero a propormi una passeggiata. Accettai e le seguii; la conversazione si svolse in ottimo spagnolo e senza mescolarvi parole di erigonzo (o gergo zingaresco); avevano un ingegno coltivato e un carattere allegro e aperto. Dopo la passeggiata cenammo e andammo a coricarci.

Ma, la notte, niente cugine.

Tredicesima giornata

Il capo degli zingari mi fece servire un’abbondante colazione e mi disse:

• Signor cavaliere, i nemici sono vicini, cioè le guardie della dogana. E’ giusto ceder loro il campo di battaglia. Vi troveranno le balle loro destinate: il resto è già al sicuro. Fate colazione con comodo, poi partiremo.

Poiché già si scorgevano i doganieri sull’alto pendio della valle, mangiai in fretta, mentre il grosso della tribù ci precedeva. Errammo di monte in monte, inoltrandoci sempre più nei deserti della Sierra Morena. Finalmente ci fermammo in una gola molto profonda, dove eravamo già attesi e il nostro pasto era stato preparato. Finito che fu il pranzo, pregai il capo di continuare il racconto della sua vita, ciò che fece così.

Seguito della storia di Pandesowna

• Mi avete lasciato che ascoltavo tutt’orecchi la meravigliosa storia di Giulio Romati. Ecco dunque pressappoco come parlò.

Seguito della storia

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di Giulio Romati

• Il carattere di Zoto era conosciuto e tale da farmi credere ciecamente nelle assicurazioni che mi aveva dato. Tornai all’albergo molto soddisfatto e feci cercare dei mulattieri. Se ne offrirono molti, poiché i banditi non facevano alcun male né a loro né alle loro bestie. Scelsi l’uomo che tra quelli godeva della migliore reputazione. Presi una mula per me, una per il servo e due per il bagaglio. Il mulattiere capo aveva anche lui la sua mula e due servi che seguivano a piedi.

Partii il giorno dopo all’alba, e, non appena in cammino, scorsi dei gruppetti di banditi di Zoto che sembravano seguirmi da lontano, dandosi il cambio di tanto in tanto. Vedete bene che in questo modo non poteva accadermi niente di male.

Feci un viaggio molto piacevole e intanto la mia salute si consolidava di giorno in giorno. Ero soltanto a due giorni da Napoli, quando mi venne l’idea di fare una deviazione per passare da Salerno.

Era una curiosità del tutto naturale. Mi ero molto appassionato alla storia della rinascita delle arti, di cui la scuola di Salerno in Italia era stata la culla. Insomma, non so quale fatalità mi trascinasse verso un così funesto itinerario.

Lasciai la strada principale a Monte-Brugio, e, con l’aiuto di una guida del luogo, mi addentrai nella regione più selvaggia che si possa immaginare. Verso mezzogiorno arrivammo a una casupola in rovina che la guida mi assicurò essere una locanda, cosa di cui non mi accorsi affatto dall’accoglienza dell’oste. Infatti costui, ben lontano dall’offrirmi qualche provvista, mi pregò anzi di dargli una parte di quelle che potevo avere con me. Avevo infatti della carne fredda che divisi con lui, la guida e il servo, poiché i mulattieri erano rimasti a Monte-Brugio.

Lasciai quella cattiva locanda verso le due del pomeriggio; e poco dopo scoprii un grande castello sulla cima di un monte. Chiesi alla guida come si chiamasse quel luogo e se fosse abitato. Mi rispose che nel paese era chiamato semplicemente Lo Monte oppure Lo Castello; che il castello era completamente deserto e in rovina, ma che all’interno era stata costruita una cappella con alcune celle, dove i Francescani di Salerno tenevano di solito cinque o sei religiosi; e aggiunse con molta ingenuità: «Ci sono molte storie su questo castello, ma non posso dirvene nessuna, perché appena si comincia a parlarne, fuggo dalla cucina e vado da mia cognata, la Pepa, dove trovo sempre qualche padre Francescano che mi dà da baciare il suo scapolare».

Chiesi al ragazzo se saremmo passati vicini al castello. Rispose che saremmo passati a mezza costa del monte su cui era costruito.

Intanto il cielo si coprì di nubi, e verso sera un terribile temporale scoppiò sulle nostre teste. Ci trovavamo sul dosso di un monte che non offriva nessun riparo. La guida disse che conosceva una caverna dove avremmo potuto rifugiarci, ma che l’accesso ne era difficile. Volli tentare, ma ci eravamo appena inoltrati fra le rocce che un fulmine cadde proprio vicino a noi. La mia mula stramazzò a terra e io rotolai giù di qualche tesa. Mi aggrappai a un albero e, quando mi accorsi di essere salvo, chiamai i miei compagni, ma nessuno rispose.

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I lampi si succedevano con tanta rapidità che al loro chiarore riuscii a distinguere gli oggetti che mi circondavano e a spostarmi abbastanza facilmente. Mi avanzai aggrappandomi agli alberi, e arrivai così a una piccola caverna che non metteva capo a nessun sentiero praticabile e non poteva perciò essere quella dove la guida voleva condurmi.

Scrosci d’acqua, colpi di vento e tuoni si succedevano senza interruzione. Tremavo di freddo nei miei abiti fradici, e fui costretto a rimanere varie ore in quella spiacevole situazione. D’un tratto, mi pare di vedere delle fiaccole in fondo alla valle, sento delle voci. Penso che siano i miei compagni. Chiamo, mi si risponde.

Poco dopo vedo arrivare un giovane di bell’aspetto, con un seguito di servi, alcuni dei quali portavano fiaccole, altri fagotti di vestiti. Il giovane mi salutò con molto rispetto e mi disse: «Signor Romati, noi apparteniamo alla signora Principessa di Monte-Salerno.

La guida che avete preso a Monte-Brugio ci ha detto che vi eravate perso in queste montagne, e noi vi cerchiamo per ordine della Principessa. Prendete questi abiti e seguiteci al castello». «Come,» gli risposi «volete condurmi a quel castello disabitato che sta in cima al monte?». «Nient’affatto,» riprese il giovane «vedrete un palazzo superbo, e ne siamo lontani solo duecento passi».

Pensai che effettivamente qualche Principessa del luogo abitasse nei dintorni. Mi vestii e seguii il giovane. Ben presto mi trovai davanti a un portale di marmo nero, ma poiché le fiaccole non rischiaravano il resto dell’edificio, non potei farmene un’idea.

Entrammo. Il giovane mi lasciò ai piedi della scala, e quando ne ebbi montata la prima rampa, trovai una Dama di bellezza non comune che mi disse: «Signor Romati, la signora Principessa di Monte-Salerno mi ha incaricato di mostrarvi le bellezze di questa dimora». Le risposi che, se si doveva giudicare la Principessa dalle sue Dame d’onore, si poteva già averne un’idea delle più lusinghiere.

Infatti la Dama che doveva accompagnarmi era, come ho detto, di una bellezza perfetta, e aveva un aspetto così nobile che in un primo momento pensai che fosse la Principessa stessa. Notai anche che era vestita all’incirca come i nostri ritratti di famiglia del secolo scorso. Ma pensai che fosse l’abbigliamento delle Dame napoletane e che esse fossero ritornate alla vecchia moda.

Entrammo prima in una sala dove tutto era di argento massiccio. Il pavimento era in piastrelle d’argento, alcune opache, altre lucide.

La tappezzeria, pure d’argento massiccio, imitava un damasco con il fondo lucido e gli arabeschi in argento opaco. Il soffitto cesellato imitava a sua volta gli intarsi in legno degli antichi castelli.

Infine, i fregi, i bordi della tappezzeria, i lampadari, le cornici, le tavole erano dei capolavori di oreficeria. «Signor Romati,» mi disse la pretesa Dama d’onore «tutta questa ricchezza vi trattiene troppo a lungo. Questa non è che l’anticamera dove stanno i servi in livrea della signora Principessa». Non risposi nulla, e passammo in

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una stanza più o meno simile alla prima, se non che tutto era qui in argento dorato con ornamenti di quell’oro sfumato tanto di moda cinquant’anni fa. «Questa stanza,» disse la Dama «è l’anticamera dove stanno i gentiluomini d’onore, il Maggiordomo e gli altri ufficiali della casa. Non vedrete né oro né argento negli appartamenti della Principessa. La semplicità sola ha il diritto di piacerle. Potete giudicare da questa sala da pranzo». E aprì una porta laterale.

Entrammo in una sala le cui pareti erano rivestite di marmo colorato e avevano come fregio uno splendido bassorilievo in marmo bianco che risplendeva tutt’intorno. C’erano anche magnifiche credenze ricoperte di vasi di cristallo di rocca e di coppe della più fine porcellana delle Indie.

Poi rientrammo nell’anticamera degli ufficiali, da dove passammo nella sala di conversazione. «A mo’ di esempio,» disse la Dama «vi permetto di ammirare questa stanza». E ammirai davvero. La mia prima meraviglia fu per il pavimento. Era di lapislazzuli e pietre dure, lavorato a mosaico di Firenze, di cui una sola tessera costa più anni di fatica. Il disegno si ispirava a un’idea generale e offriva un insieme regolarissimo. Ma, esaminandone le diverse sezioni, ci si accorgeva che la più grande varietà nei particolari non toglieva niente all’effetto prodotto dalla simmetria. Infatti, benché si trattasse sempre dello stesso disegno, qui riproduceva un mazzo di fiori con tutte le sfumature di colore, là, erano conchiglie del più bello smalto; più lontano farfalle, altrove, colibrì. Insomma le più preziose pietre del mondo erano usate per imitare quanto di più bello ha la natura. Al centro di questo magnifico pavimento era raffigurato uno scrigno fatto di tutte le diverse varietà di pietre dure e contornato da fili di grosse perle. Il tutto assumeva il rilievo e il realismo dei mosaici fiorentini.

«Signor Romati,» mi disse la Dama «se vi soffermate su tutto, non finiremo più». Allora alzai gli occhi che caddero, dapprima, su un quadro di Raffaello, che sembrava essere il primo abbozzo della sua Scuola d’Atene, ma più bello di colori, in quanto era un dipinto a olio.

Poi notai un Ercole ai piedi d’Omfale. La figura dell’Ercole era di Michelangelo, mentre in quella della donna si riconosceva il pennello di Guido Reni. In breve ogni quadro di quella sala era più perfetto di tutto quanto avessi visto fino allora. Il colore della tappezzeria, un semplice velluto verde a tinta unita, faceva risaltare i dipinti.

Ai due lati di ogni porta c’erano delle statue un po’ più piccole del naturale. Erano quattro. Una era il celebre Amore di Fidia, di cui Frine pretese il sacrificio; la seconda, il Fauno dello stesso artista; la terza, la vera Venere di Prassitele, di cui quella dei Medici non è che una copia; la quarta, un Antinoo di eccezionale bellezza. C’erano anche dei gruppi nel vano di ogni finestra.

Intorno alla sala erano disposti dei cassettoni che invece di essere decorati in bronzo, mostravano dei veri e propri capolavori di cesellatura, in cui erano incastonati dei cammei come se ne trovano solo nei gabinetti dei re. I cassettoni racchiudevano una serie di medaglie d’oro del formato più grande. «E’ qui,» mi disse la Dama «che la Principessa trascorre i suoi pomeriggi; e l’esame di questa collezione

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dà luogo a conversazioni non meno istruttive che interessanti. Ma avete ancora molte cose da vedere. Seguitemi».

Entrammo allora nella camera da letto. Era una stanza ottagonale.

Aveva quattro alcove e altrettanti letti di un’ampiezza straordinaria. Non si vedevano né fregi, né tappezzeria, né soffitto.

Tutto era ricoperto di mussole indiane drappeggiate con grandissimo gusto, ricamate con arte sorprendente, e talmente fini da poter dar l’illusione di una nuvola che la stessa Aracne avesse saputo rinchiudere in un leggero ricamo. «Perché quattro letti?» chiesi alla Dama. «Per cambiare,» mi rispose «quando si ha troppo caldo o non si può dormire». «Ma perché letti così grandi?». «Perché,» replicò la Dama «la Principessa qualche volta vi accoglie le sue donne quando vuole chiacchierare prima di addormentarsi. Ma passiamo alla stanza da bagno».

Era una stanza rotonda tappezzata di madreperla con i bordi in drappo di Burgos. Invece di drappeggi, la parte alta delle pareti era guarnita di una rete di perle a maglie larghe, con una frangia pure di perle, tutte della stessa grandezza e della stessa acqua. Il soffitto era un unico cristallo, attraverso il quale si scorgevano nuotare pesci dorati della Cina. Al posto della vasca c’era un bacino rotondo, tappezzato tutt’intorno di muschio artificiale su cui erano state disposte le più belle conchiglie del mar delle Indie.

A questo punto non potei trattenermi dal manifestare la mia ammirazione, e dissi: «Ah! Signora, il Paradiso non è una dimora più bella!». «Il Paradiso!» esclamò la Dama con aria di smarrimento e di disperazione «il Paradiso! Costui ha parlato del Paradiso? Signor Romati, ve ne prego, non esprimetevi più in tal modo. Ve ne prego seriamente. Seguitemi».

Passammo allora in una colombaia piena di tutti gli uccelli tropicali e di tutti gli amabili cantori dei nostri climi. Vi trovammo una tavola preparata per me solo. «Ah! Signora,» dissi alla mia bella guida «come si può pensare di mangiare in un posto così divino? Vedo che voi non volete mettervi a tavola, e io non saprei risolvermi a mangiare da solo, a meno che non vi degniate di intrattenermi sulla Principessa che possiede tante meraviglie». La Dama sorrise con cortesia, mi servì, si sedette, e cominciò così: «Sono la figlia dell’ultimo principe di Monte-Salerno».

«Chi? Voi, Signora?».

«Volevo dire la Principessa di Monte-Salerno. Ma non m’interrompete più».

Storia della Principessa

di Monte-Salerno

• Il principe di Monte-Salerno, discendente degli antichi duchi di Salerno, era grande di Spagna, connestabile, grande Ammiraglio, grande Scudiere, grande Maestro della Casa, grande Cacciatore, insomma riuniva in sé tutte le grandi cariche del reame di Napoli.

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Ma, benché fosse al servizio del re, aveva anche lui una casa composta di gentiluomini di cui molti titolati. Tra questi c’era il marchese di Spinaverde, primo gentiluomo del Principe, di cui godeva tutta la fiducia, che divideva tuttavia con sua moglie, la marchesa di Spinaverde, prima Dama di camera della Principessa.

Io avevo dieci anni... Volevo dire che la figlia unica del Principe di Monte-Salerno aveva dieci anni, quando sua madre morì. A quell’epoca, gli Spinaverde lasciarono la casa del Principe, il marito per assumere l’amministrazione di tutti i feudi, la moglie per prendersi cura della mia educazione. Lasciarono a Napoli la figlia maggiore, chiamata Laura, che presso il Principe condusse una vita un po’ equivoca. Sua madre e la giovane Principessa vennero ad abitare a Monte-Salerno.

Ci si occupava poco dell’educazione di Elfrida, ma molto di quella delle persone del suo seguito. Veniva loro insegnato a prevenire ogni mio minimo desiderio.

«Ogni vostro minimo desiderio...» dissi alla Dama.

«Vi avevo pregato di non interrompermi» ribatté lei un po’ seccata.

Poi continuò così:

• Io mi divertivo a mettere alla prova in ogni maniera la sottomissione delle mie donne. Davo loro ordini contraddittòri che potevano eseguire solo in parte, e poi le punivo con pizzicotti o pungendole con delle spille nelle braccia e nelle cosce. Quelle mi lasciarono. La Spinaverde me ne diede delle altre, che se andarono a loro volta.

Intanto mio padre cadde ammalato, e noi tornammo a Napoli. Io lo vedevo poco, ma gli Spinaverde non lo abbandonavano un momento. Alla fine morì, dopo aver fatto un testamento nel quale nominava Spinaverde solo tutore della figlia e amministratore dei feudi e degli altri beni.

I funerali ci tennero impegnati per varie settimane, poi tornammo a Monte-Salerno, dove ricominciai a pizzicare le mie cameriere.

Passarono quattro anni in quelle innocenti occupazioni, per me tanto più piacevoli in quanto la Spinaverde mi assicurava ogni giorno che avevo ragione, che tutti erano lì per obbedirmi, e che coloro che non mi obbedivano abbastanza in fretta o abbastanza bene, meritavano ogni genere di punizione.

Ma un bel giorno, tuttavia, le mie donne mi lasciarono una dopo l’altra, e mi vidi sul punto di essere ridotta, la sera, a svestirmi da sola. Ne piansi di rabbia e corsi dalla Spinaverde, che mi disse: «Cara e dolce Principessa, asciugate i vostri begli occhi. Questa sera vi svestirò io, e domani vi porterò sei cameriere di cui sarete certamente contenta».

Il giorno dopo, al mio risveglio, la Spinaverde mi presentò sei bellissime fanciulle, la cui vista lì per lì mi causò una certa emozione. Anche loro sembravano turbate. Io fui la prima a riprendermi. Saltai dal letto in camicia, le abbracciai tutte e assicurai loro che mai sarebbero state sgridate o pizzicate. Infatti, anche se si mostravano goffe nel vestirmi, o osavano contrariarmi, non mi irritavo mai.

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«Ma signora,» dissi alla Principessa «queste fanciulle erano forse dei ragazzi travestiti».

La Principessa assunse un’aria di dignità e mi disse: «Signor Romati, vi avevo pregato di non interrompermi».

Poi riprese il filo del racconto:

• Il giorno in cui compii diciassette anni mi venne annunciata una visita illustre. Si trattava di un segretario di Stato, dell’ambasciatore di Spagna e del duca di Guadarrama. Quest’ultimo veniva a chiedermi in matrimonio. Gli altri due dovevano solo appoggiare la sua richiesta. Il giovane duca aveva il più bell’aspetto che sia dato immaginare, e non posso negare che mi abbia fatto una certa impressione.

La sera venne proposta una passeggiata nel parco. Avevamo appena fatto qualche passo che un toro infuriato sbucò fuori da un boschetto e piombò su di noi. Il duca gli corse incontro, il mantello in una mano e la spada nell’altra. Il toro si arrestò un istante, si avventò sul duca, s’infilzò da sé nella spada e gli cadde ai piedi. Ma il giorno dopo venni a sapere che il toro era stato messo lì apposta dallo scudiero del duca, e che il suo padrone aveva creato questa occasione per farmi una galanteria secondo l’uso del suo paese.

Allora, invece di essergliene grata, non potei perdonargli la paura che mi aveva fatto, e rifiutai la sua mano.

La Spinaverde mi fu grata del rifiuto. Colse l’occasione per farmi conoscere tutti i vantaggi della mia condizione e per dirmi quanto avrei perduto a cambiarla e a darmi un padrone. Qualche tempo dopo, lo stesso segretario di Stato venne ancora a trovarmi, accompagnato da un altro ambasciatore e dal principe regnante di Nudel-Hansberg.

Questo sovrano era grande, grosso, grasso, biondo, bianco, sbiadito, e volle intrattenermi sui maggioraschi che possedeva negli Stati ereditari; ma parlava italiano con accento tirolese. Io mi misi a parlare come lui; e scimmiottandolo lo assicurai che la sua presenza era indispensabile nei maggioraschi degli Stati ereditari. Se ne andò punto sul vivo. La Spinaverde mi colmò di carezze, e per essere più sicura di trattenermi a Monte-Salerno, fece eseguire tutte le meraviglie che vedete.

«Ah!» esclamai «ci è perfettamente riuscita. Questo luogo magnifico può essere chiamato un Paradiso in terra».

A tali parole la Principessa si alzò con indignazione e mi disse: «Romati, vi avevo pregato di non servirvi più di questa espressione».

Poi si mise a ridere in modo convulso e spaventoso, ripetendo in continuazione:

«Sì, il Paradiso, il Paradiso, ha una bella faccia tosta a parlare del Paradiso».

Questa scena diventava penosa. Finalmente la Principessa tornò seria, mi guardò con aria severa e mi ordinò di seguirla.

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Aprì una porta, e ci trovammo in un sotterraneo a volta, al di là del quale si scorgeva come un lago d’argento e che, in realtà, era di argento vivo. La Principessa batté le mani e comparve una barca guidata da un nano giallo. Vi salimmo e mi accorsi che il nano aveva la faccia d’oro, gli occhi di diamante, la bocca di corallo. Insomma, si trattava di un automa che per mezzo di piccoli remi fendeva l’argento vivo con molta abilità e faceva avanzare la barca. Questo barcaiolo di nuova specie ci condusse ai piedi di una rupe che si aprì, e noi entrammo in un altro sotterraneo dove mille automi ci offrirono il più singolare degli spettacoli. Pavoni facevano la ruota dispiegando una coda smaltata e ricoperta di pietre preziose.

Pappagalli dalle piume di smeraldo volavano sulle nostre teste. Negri di ebano ci presentavano piatti d’oro colmi di ciliegie di rubino e uve di zaffiro. Mille altre cose sorprendenti riempivano quelle volte meravigliose, di cui l’occhio non poteva scorgere la fine.

Allora, non so perché, fui ancora tentato di ripetere la parola Paradiso, per vedere l’effetto che avrebbe fatto sulla Principessa.

Cedetti a questa fatale curiosità, e le dissi: «In verità, Signora, si può dire che avete il Paradiso in terra». La Principessa mi fece il sorriso più amabile del mondo e mi disse: «Perché possiate giudicare meglio le bellezze di questa dimora, vi presenterò le mie sei cameriere». Prese una chiave d’oro che teneva alla cintura e andò ad aprire un grande cofano coperto di velluto nero e ornato di fregi in argento massiccio.

Quando il cofano fu aperto, ne vidi uscire uno scheletro che mi venne incontro con aria minacciosa. Sguainai la spada. Lo scheletro, strappandosi il braccio sinistro, se ne servì come di un’arma e mi aggredì con grande furore. Mi difesi abbastanza bene, ma dal cofano uscì un altro scheletro, strappò una costola al primo e mi colpì sulla testa. Lo afferrai alla gola, ma quello mi strinse con le braccia scarnite cercando di buttarmi a terra. Mi sbarazzai di lui, ma un terzo scheletro uscì dal cofano e si unì ai primi due. Allora comparvero anche gli altri tre. Non potendo sperare di cavarmela in un combattimento tanto ineguale, mi gettai in ginocchio e chiesi grazia alla Principessa.

La Principessa ordinò agli scheletri di rientrare nel cofano, poi mi disse: «Romati, ricordatevi tutta la vita di quanto avete visto qui». E così dicendo mi afferrò un braccio: lo sentii bruciare fino all’osso e caddi svenuto.

Non so quanto tempo restai in quello stato. Finalmente mi svegliai e sentii salmodiare non lontano da me. Vidi che mi trovavo in mezzo a vaste rovine. Cercai di uscire e arrivai in un cortile interno, dove scorsi una cappella e alcuni monaci che cantavano il mattutino.

Quando il servizio fu finito, il Superiore mi invitò a entrare nella sua cella. Lo seguii, e cercando di raccogliere le idee, gli raccontai che cosa mi era successo. Quando ebbi finito, il Superiore mi disse: «Ragazzo mio, non avete per caso qualche

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segno sul braccio che la Principessa ha afferrato?». Rimboccai la manica, e vidi il mio braccio tutto bruciacchiato e i segni delle cinque dita della Principessa.

Allora il Superiore aprì un cofano che si trovava vicino al suo letto, e ne tolse fuori una vecchia pergamena. «Ecco,» mi disse «la bolla della nostra fondazione; potrà darvi qualche chiarimento su quanto avete visto». Srotolai la pergamena e lessi quanto segue: «Nell’anno del Signore 1503, nono anno di Federico, Re di Napoli e di Sicilia, Elfrida di Monte-Salerno, spingendo l’empietà fino all’eccesso, si faceva gran vanto di possedere il vero paradiso e di rinunciare volontariamente a quello che noi attendiamo nella vita eterna. Ma, nella notte dal giovedì al venerdì santo, un terremoto fece sprofondare il suo palazzo, le cui rovine sono diventate dimora di Satana, e dove il nemico del genere umano ha inviato un’infinità di demoni che hanno a lungo ossessionato e ancora ossessionano con mille incantamenti coloro che osano avvicinarsi al Monte Salerno, e anche i buoni cristiani che abitano nei dintorni. E’ per questo che Noi, Pio Terzo, servo dei servi, ecc’, autorizziamo la fondazione di una cappella nella cinta stessa delle rovine, ecc’».

Non mi ricordo più il resto della bolla. Mi ricordo però che il Superiore mi assicurò che le ossessioni erano diventate molto più rare, ma che si rinnovavano qualche volta e specialmente nella notte dal giovedì al venerdì santo. Nello stesso tempo, mi consigliò di far dire delle messe per il riposo della Principessa e di assistervi in persona. Seguii il suo consiglio, poi ripartii per continuare il mio viaggio. Ma quanto ho visto in quella notte fatale mi ha lasciato un’impressione malinconica che niente può cancellare, e per di più il braccio mi fa soffrire molto.

Così dicendo, Romati si rimboccò la manica e ci mostrò il braccio, su cui si vedeva la forma delle dita della Principessa e come dei segni di bruciatura.

Qui interruppi il capo per dirgli che dal cabalista avevo sfogliato le svariate relazioni di Hapelius, e che vi avevo trovato una storia più o meno simile.

• Può darsi, - riprese il capo – forse Romati ha preso la sua storia in questo libro. Forse l’ha inventata. Comunque è sicuro che il suo racconto contribuì molto a darmi il gusto dei viaggi e anche una vaga speranza d’incontrare quelle avventure meravigliose che poi, invece, non incontravo mai. Ma tale è la forza delle impressioni ricevute nell’infanzia che quell’assurda speranza turbò a lungo i miei pensieri, e non ne sono mai guarito del tutto.

• Signor Pandesowna, - dissi allora al capo zingaro – non mi avete lasciato intendere che, da quando vivete in queste montagne, avete visto cose che si posson chiamare meravigliose?

• E’ vero, - mi rispose – ho visto cose che mi hanno ricordato la storia di Romati...

In quel momento uno zingaro venne a interromperci. Dopo aver parlato col suo capo in privato, quest’ultimo mi disse:

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• Non è opportuno rimanere qui. Domani di buon’ora lasceremo questi luoghi.

Ci separammo per raggiungere le nostre tende. Il mio sonno non fu interrotto come lo era stato la notte precedente.

Quattordicesima giornata (1)

Fummo a cavallo molto prima dell’aurora e ci addentrammo nei valloni deserti della Sierra Morena. Al levarsi del sole ci trovavamo su un’alta cima, da dove scoprii il corso del Guadalquivir e, più lontano, la forca di Los Hermanos. Quella vista, ricordandomi una notte deliziosa e gli orrori che avevano seguìto il mio risveglio, mi fece trasalire. Di lì scendemmo in una valle ridente ma molto solitaria, dove dovevamo fermarci. Furono piantate le tende, si fece colazione in fretta, e poi, non so perché, volli rivedere da vicino la forca e sapere se c’erano i fratelli di Zoto. Presi il fucile.

L’abitudine che avevo a orientarmi mi fece trovare facilmente la strada, e in poco tempo arrivai a quella dimora patibolare. La porta era aperta, in terra si vedevano stesi i due cadaveri: in mezzo, fra loro, una fanciulla che riconobbi per Rebecca.

La svegliai con la maggior dolcezza possibile; ma la sorpresa, che non potei del tutto evitarle, la mise in uno stato spaventoso. Fu presa da convulsioni, pianse e svenne, La sollevai tra le braccia e la portai a una sorgente vicina. Le gettai dell’acqua sul viso, e la feci a poco a poco rinvenire. Non avrei mai osato domandarle come fosse arrivata sotto quella forca, ma me ne parlò lei stessa.

• L’avevo pur previsto – mi disse – che la vostra discrezione mi sarebbe stata funesta. Non avete voluto raccontarci la vostra avventura e io sono diventata, come voi, la vittima di questi maledetti vampiri le cui detestabili astuzie hanno annientato in un batter d’occhio le lunghe precauzioni prese da mio padre per assicurarmi l’immortalità. Stento a persuadermi degli orrori di questa notte: tuttavia proverò a ricordarmeli e a raccontarveli; ma, perché mi possiate capire meglio, riprenderò la storia della mia vita da un po’ più lontano.

NOTE:

(1) Nell’edizione parigina dell’anno 1814, con quest’ultimo racconto si conclude l’ultima delle Dix Journées de la Vie d’Alphonse van Worden.

Storia di Rebecca

• Mio fratello, raccontandovi la sua storia, vi ha detto una parte della mia. A lui erano destinate per mogli le due figlie della regina di Saba, mentre a me si volle far sposare i due geni che presiedono alla costellazione dei Gemelli. Lusingato da un così bel matrimonio, mio fratello raddoppiò di ardore per le scienze cabalistiche. A

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me successe il contrario: sposare due geni mi sembrò una cosa terribile; non potei decidermi a comporre neppure due righe di cabala. Ogni giorno rimandavo il lavoro all’indomani, e finii quasi per dimenticare quest’arte, difficile quanto pericolosa.

Mio fratello non tardò ad accorgersi della mia negligenza; mi rivolse amari rimproveri, minacciò di lamentarsi con mio padre. Lo scongiurai di risparmiarmi. Egli promise di aspettare fino al sabato seguente, ma quel giorno, poiché non avevo fatto ancora nulla, entrò in camera mia a mezzanotte, mi svegliò e mi disse che avrebbe evocato la terribile ombra di Mamun. Mi gettai alle sue ginocchia; fu inesorabile. Lo sentii proferire la formula già inventata dalla strega di Endor. Subito mi apparve mio padre seduto su un trono d’avorio; l’occhio minaccioso m’ispirava il terrore: temetti di non sopravvivere alla prima parola che sarebbe uscita dalla sua bocca. Lo udii, tuttavia, egli parlò, o Dio d’Abramo! Pronunciò delle imprecazioni spaventose. Non vi ripeterò le sue parole...

Qui la giovane israelita si coprì il viso con le mani e parve fremere al solo pensiero di quella scena crudele. Ma si riprese e continuò così:

• Non udii la fine del discorso di mio padre; ero svenuta prima che avesse terminato. Tornata in me, vidi mio fratello che mi porgeva il libro dei Sefiroth. Credetti di svenire un’altra volta; ma fu necessario sottomettersi. Mio fratello, convinto che con me bisognasse ricominciare dai primi elementi, ebbe la pazienza di richiamarmeli a poco a poco alla memoria. Cominciai dalla composizione delle sillabe; passai a quella delle parole e delle formule. Così finii per appassionarmi a quella scienza sublime.

Passavo le notti nello studio che era servito da osservatorio a mio padre e andavo a coricarmi quando la luce del giorno veniva a disturbare le mie operazioni. Allora, cadevo dal sonno. La mulatta Zulica mi svestiva senza che quasi me ne accorgessi; dormivo qualche ora, poi tornavo a occupazioni per le quali, come vedrete, non ero fatta.

Conoscete Zulica, e avete avuto modo di notare le sue grazie: ne ha moltissime; gli occhi esprimono tenerezza; il sorriso le fa la bocca leggiadra; il corpo ha forme perfette. Un mattino tornavo dall’osservatorio e la chiamai per farmi svestire; lei non mi sentì.

Andai nella sua camera, attigua alla mia. La vidi alla finestra, sporta in fuori, seminuda, che faceva dei segni a qualcuno dall’altra parte della valle, mandando con la mano baci che sembrava accompagnare con tutta la sua anima. Io non avevo alcuna idea dell’amore: era la prima volta che l’espressione di questo sentimento colpiva i miei occhi. Ne fui talmente turbata e sorpresa che rimasi immobile come una statua. Zulica si voltò, un vivo rossore trasparì attraverso la pelle ambrata del suo seno e si diffuse su tutta la persona. Arrossii a mia volta, poi impallidii. Ero lì lì per svenire.

Zulica mi accolse tra le braccia, e il suo cuore, che sentii palpitare contro il mio, mi trasmise il disordine che regnava nei suoi sensi.

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Zulica mi svestì in fretta. Quando fui coricata, sembrò andarsene con piacere e, con un piacere ancora maggiore, chiudere la sua porta.

Poco dopo, sentii i passi di qualcuno che entrava nella sua camera.

Un moto tanto improvviso quanto involontario mi fece correre alla porta e guardare attraverso il buco della serratura. Vidi il giovane mulatto Tanzai; portava un mazzo di fiori che aveva appena còlto in campagna. Zulica gli corse incontro, prese i fiori a piene mani e li strinse al cuore. Tanzai si avvicinò per respirare il profumo che da loro si levava insieme ai sospiri dell’amante. Vidi chiaramente che Zulica era percorsa in tutte le sue membra da un fremito che mi parve di provare insieme a lei. Ella cadde nelle braccia di Tanzai, e io tornai a letto a nascondere la mia debolezza e la mia vergogna.

Il cuscino fu inondato dalle mie lacrime. I singhiozzi mi soffocavano e, nell’eccesso del dolore, gridai: «Oh! Mia centododicesima antenata, di cui porto il nome, dolce e tenera sposa di Isacco, se dal seno di vostro suocero, dal seno di Abramo, voi vedete lo stato in cui mi trovo, placate l’ombra di Mamun e ditegli che sua figlia è indegna degli onori cui egli la destina».

Le mie grida avevano svegliato mio fratello. Entrò in camera e, credendomi malata, mi fece prendere un calmante. Tornò a mezzogiorno, mi trovò il polso agitato e si offrì di continuare lui le mie operazioni cabalistiche. Accettai, poiché mi sarebbe stato impossibile lavorare. Verso sera mi addormentai ed ebbi sogni ben differenti da quelli che avevo avuto fino allora. Il giorno dopo sognavo anche da sveglia, o almeno avevo distrazioni che avrebbero potuto farlo credere. Gli sguardi di mio fratello mi facevano arrossire senza motivo. In quel modo passarono otto giorni.

Una notte mio fratello entrò in camera mia. Aveva sotto il braccio il libro dei Sefiroth e in mano una fascia costellata su cui erano scritti i settantadue nomi che Zoroastro ha dato alla costellazione dei Gemelli. «Rebecca,» mi disse «Rebecca, uscite da uno stato che vi disonora! E’ tempo che voi sperimentiate il vostro potere sugli spiriti elementari. E questa fascia costellata vi garantirà dalla loro insolenza. Sui monti qui attorno scegliete il luogo che vi sembrerà più adatto alle vostre operazioni. Considerate che la vostra sorte ne dipende». Ciò detto, mi trascinò fuori dalla porta del castello e chiuse l’inferriata dietro di me.

Abbandonata a me stessa, feci appello al mio coraggio. La notte era buia. Io ero in camicia, a piedi nudi, i capelli sciolti; tenevo il libro in una mano e la fascia magica nell’altra. Mi diressi di corsa verso il monte più vicino. Un pastore volle mettermi le mani addosso, io lo respinsi col libro che tenevo ed egli cadde morto ai miei piedi. Non ne sareste sorpreso se sapeste che la rilegatura era fatta con legno dell’arca, che ha la proprietà di far morire tutto ciò che tocca.

Il sole cominciava a levarsi quando arrivai sulla cima che avevo scelto per le mie operazioni. Potevo iniziarle soltanto l’indomani a mezzanotte. Mi ritirai in una caverna; vi trovai un’orsa con i suoi piccoli. L’orsa si slanciò su di me, ma la rilegatura del libro produsse il suo effetto, e l’animale cadde ai miei piedi. Le sue

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mammelle gonfie mi ricordarono che morivo dalla debolezza, e non avevo ancora alcun genio ai miei ordini, neppure il più piccolo spirito folletto. Decisi di sdraiarmi a terra vicino all’orsa e di succhiare il suo latte. Un po’ di calore, che l’animale conservava ancora, rendeva quel pasto meno disgustoso, ma gli orsacchiotti vennero a disputarmelo. Immaginate, Alfonso, una ragazzina di sedici anni, che non aveva mai lasciato i luoghi dove era nata, in quella situazione! Avevo in mano armi terribili, ma non me n’ero mai servita, e la minima disattenzione poteva rivolgerle contro di me.

Intanto l’erba si disseccava sotto i miei passi, l’aria si caricava di un vapore infuocato e gli uccelli morivano nel mezzo del volo.

Pensai che i demoni, avvertiti, cominciassero a radunarsi. Un albero si incendiò da solo; ne uscì un vortice di fumo che, invece di alzarsi, circondò la caverna e mi immerse nelle tenebre. L’orsa stesa ai miei piedi sembrò rianimarsi; i suoi occhi sfavillarono di un fuoco che per un attimo dissipò l’oscurità. Dalla sua gola uscì uno spirito maligno sotto forma di serpente alato. Era Nemrael, demone del più basso rango, destinato a servirmi. Ma subito dopo sentii parlare la lingua degli Egregori, i più illustri degli angeli caduti.

Capii che essi mi avrebbero fatto l’onore di assistere al mio ingresso nel mondo degli esseri intermediari. Questa lingua è la stessa che abbiamo nel libro di Enoch, opera che ho studiato in modo particolare.

Finalmente Semiaras, principe degli Egregori, si degnò di avvertirmi che era tempo di cominciare. Uscii dalla caverna, stesi in cerchio la fascia costellata, aprii il libro e pronunciai ad alta voce le terribili formule che fino allora avevo osato soltanto leggere con gli occhi... Capite bene, signor Alfonso, che non posso dirvi che cosa successe in quell’occasione, e voi non potreste comprenderlo. Vi dirò soltanto che acquistai un potere abbastanza grande sugli spiriti, e che mi fu insegnato il modo di farmi conoscere dai Gemelli celesti. Verso quell’epoca mio fratello vide la punta dei piedi delle figlie di Salomone. Aspettai che il sole entrasse nel segno dei Gemelli e, a mia volta, feci le operazioni.

Non dimenticai nulla per ottenere un completo successo, e, per non perdere il filo delle mie combinazioni, prolungai il lavoro sino a notte così inoltrata che alla fine, vinta dal sonno, dovetti cedergli.

Il giorno dopo scorsi nel mio specchio due figure umane che sembravano essere dietro di me. Mi voltai e non vidi niente. Guardai nello specchio e le scorsi di nuovo. Del resto, quell’apparizione non aveva nulla di spaventoso. Si trattava di due giovani dalla statura un po’ superiore a quella umana; anche le spalle erano più larghe, ma rotonde, quasi fossero del nostro sesso. Il petto pure era prominente come quello delle donne, ma i seni erano come quelli degli uomini. Le braccia ben tornite e di forma perfetta si riposavano sulle anche, nell’atteggiamento delle statue egiziane. I capelli, di un colore variegato d’oro e d’azzurro, ricadevano in grandi riccioli sulle spalle. Non vi parlo dei tratti del viso; potete immaginarvi se dei semidei siano belli! Perché,

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insomma, erano i Gemelli celesti. Li riconobbi dalle fiammelle che brillavano sulle loro teste.

• Com’erano vestiti questi semidei? - chiesi a Rebecca.

• Non lo erano affatto! - mi rispose – ciascuno aveva quattro ali, due delle quali erano ripiegate sulle spalle mentre le altre due si incrociavano sui fianchi. A dir la verità, quelle ali erano trasparenti come quelle delle mosche, ma tratti di porpora e d’oro, intrecciati al loro diafano tessuto, nascondevano tutto ciò che avrebbe potuto mettere in allarme il pudore.

Eccoli dunque, dissi fra me, gli sposi celesti ai quali son destinata. Non potei impedirmi di confrontarli nel pensiero al giovane mulatto che adorava Zulica. Ebbi vergogna di questo paragone.

Guardai nello specchio e mi parve di vedere i semidei lanciarmi un’occhiata piena di corruccio, come se avessero letto nel mio animo e si fossero offesi di quel pensiero involontario.

Per molti giorni non osai più alzare gli occhi sullo specchio.

Finalmente mi ci azzardai. I Gemelli divini tenevano le mani incrociate sul petto; il loro atteggiamento dolcissimo mi tolse ogni timidezza. Ma non sapevo che cosa dire. Per uscir d’imbarazzo, andai a cercare un volume delle opere di Edris, che voi chiamate Atlante; è quanto abbiamo di più bello in fatto di poesia. L’armonia dei versi di Edris ha qualche rassomiglianza con quella dei corpi celesti.

Poiché la lingua di quest’autore non mi è molto familiare, temendo di aver letto male, alzavo di sfuggita gli occhi sullo specchio, per vedere l’effetto prodotto sul mio uditorio: non potei che esserne contenta. I Thamim si guardavano l’un l’altro con aria d’approvazione, e talvolta gettavano nello specchio occhiate che non potevo incontrare senza emozione.

Entrò mio fratello, e la visione scomparve. Egli mi parlò delle figlie di Salomone di cui aveva visto la punta dei piedi. Era allegro: io condividevo la sua gioia. Mi sentivo penetrata da un sentimento che fino allora mi era stato sconosciuto. La viva emozione interiore che si prova nelle operazioni cabalistiche cedeva il posto a non so quale dolce abbandono di cui, fino allora, avevo ignorato l’incanto.

Mio fratello fece aprire la porta del castello; non era mai stata aperta dopo il mio viaggio sulla montagna. Gustammo il piacere della passeggiata e la campagna mi sembrò brillare dei più bei colori.

Anche negli occhi di mio fratello scorsi non so quale fuoco, ben diverso dall’ardore che si prova per lo studio. Ci inoltrammo in un boschetto d’aranci. Ciascuno sprofondò nei propri sogni, e rientrammo ancora pieni delle nostre fantasticherie.

Per svestirmi, Zulica mi portò uno specchio. Vidi che non ero sola; lo feci portar via, persuasa, come lo struzzo, di non essere vista se io stessa non vedevo. Mi coricai e mi addormentai, ma subito sogni bizzarri s’impadronirono della mia immaginazione. Mi sembrò di scorgere nell’abisso dei cieli due astri brillanti che si

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avanzavano maestosamente nello zodiaco. All’improvviso se ne allontanarono, e poi tornarono conducendo con loro la piccola nebulosa del piede di Auriga.

Quei tre corpi celesti continuarono insieme il loro cammino etereo; poi si fermarono e presero l’aspetto di una meteora infocata. In seguito mi apparvero sotto forma di tre anelli luminosi che, dopo aver girato vorticosamente per qualche tempo, si fissarono su uno stesso centro. Allora si mutarono in una specie di gloria o di aureola, che circondava un trono di zaffiro. Vidi i Gemelli tendermi le braccia e indicarmi il posto che dovevo occupare tra loro. Volli slanciarmi, ma in quel momento mi sembrò di vedere il mulatto Tanzai arrestarmi, afferrandomi per la vita. Ne provai sgomento e mi svegliai di soprassalto.

La stanza era buia e, attraverso le fessure della porta vidi la luce in camera di Zulica. La sentii lamentarsi e pensai fosse malata; avrei dovuto chiamarla, ma non lo feci. Non so quale storditezza mi fece ancora ricorrere al buco della serratura. Scorsi il mulatto Tanzai prendersi con Zulica delle libertà che mi agghiacciarono d’orrore. I miei occhi si chiusero e caddi svenuta.

Quando tornai in me, scorsi vicino al letto mio fratello insieme a Zulica. Le gettai uno sguardo folgorante e le ordinai di non presentarsi più davanti a me. Mio fratello mi chiese il motivo della mia severità. Gli raccontai, arrossendo, che cosa mi era successo durante la notte. Mi rispose che egli li aveva sposati il giorno precedente, ma che se ne pentiva non avendo previsto quello che sarebbe successo. In realtà, di profanato non c’era stato altro che la mia vista; ma l’estrema suscettibilità dei Thamim lo inquietava.

In quanto a me, avevo perso ogni sentimento eccetto quello della vergogna, e sarei morta piuttosto che posare gli occhi su uno specchio.

Mio fratello non conosceva il genere delle mie relazioni con i Thamim; ma sapeva che a loro non ero più sconosciuta, e vedendo che mi lasciavo sprofondare nella malinconia, ebbe paura che trascurassi le operazioni a cui avevo dato inizio. Il sole era prossimo a uscire dal segno dei Gemelli, ed egli pensò bene di dovermene avvertire. Mi risvegliai come da un sogno. Tremai dal timore di non rivedere più i Thamim e di separarmi da loro per undici mesi, senza sapere che posto avessi nel loro animo; avevo anche paura di essermi resa del tutto indegna della loro attenzione.

Decisi di andare in una sala superiore del castello che ha sulla parete uno specchio veneziano alto dodici piedi. Ma per tenere un certo contegno, presi con me il libro di Edris, dove c’è il suo poema sulla creazione del mondo. Mi sedetti molto lontano dallo specchio e cominciai a leggere a voce alta. Poi, interrompendomi e alzando la voce, osai chiedere ai Thamim se fossero stati testimoni di quelle meraviglie. Allora lo specchio veneziano si staccò dal muro e venne a mettersi davanti a me. Vi scorsi i Gemelli sorridermi con aria soddisfatta e annuire entrambi col capo per confermarmi che avevano realmente assistito alla creazione del mondo e che tutto si era svolto come dice Edris. Presi ancora più coraggio; chiusi il libro e congiunsi i miei sguardi a quelli dei miei amanti divini. Poco mancò che quell’istante di abbandono mi costasse caro. Avevo ancora troppo dell’umano per poter sostenere una comunione così

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intima. La fiamma che brillava nei loro occhi per poco non mi divorò; abbassai i miei e, dopo essermi un po’ ripresa, continuai la lettura. Capitai proprio sul secondo canto di Edris, dove questo principe dei poeti descrive gli amori dei figli di Elohim con le figlie degli uomini. Oggi è impossibile farsi un’idea di come si amassero in quella prima età del mondo. Le esagerazioni che io stessa non capivo bene, mi facevano spesso esitare. In quei momenti, i miei occhi si dirigevano involontariamente verso lo specchio; e mi sembrò di capire che i Thamim provavano un piacere sempre più vivo ad ascoltarmi. Mi tendevano le braccia; si avvicinarono alla mia sedia. Li vidi spiegare le ali brillanti che avevano alle spalle; distinsi anche un leggero ondeggiamento in quelle che servivano loro per cingersi i fianchi. Credetti quasi che stessero per spiegarle e mi coprii gli occhi con una mano. Nello stesso istante sentii posarvisi sopra un bacio, e un altro sulla mano in cui tenevo il libro. Ma, al tempo stesso, udii anche lo specchio che si rompeva in mille pezzi.

Compresi che il sole era uscito dal segno dei Gemelli, e che quello era un congedo che essi prendevano da me.

L’indomani, in un altro specchio, scorsi ancora come due ombre, o meglio come una leggera traccia delle due forme celesti. Il giorno dopo non vidi più niente. Allora, per alleviare la noia dell’assenza, passavo tutte le notti all’osservatorio e, con l’occhio incollato al telescopio, seguivo i miei amanti fino al loro tramonto. Erano già sotto l’orizzonte e io credevo di vederli ancora. Poi, quando la coda del Cancro scompariva alla mia vista, mi ritiravo e spesso il mio guanciale era bagnato di lacrime che non sapevo di versare e che erano senza motivo.

Intanto mio fratello, pieno d’amore e di speranza, si dedicava più che mai allo studio delle scienze occulte. Un giorno venne da me e mi disse che, da certi segni che aveva visto in cielo, pensava che un famoso adepto sarebbe passato da Cordova il 23 del nostro mese Thybi, a mezzanotte e quaranta minuti. Quel celebre cabalista viveva da più di cent’anni nella piramide di Saofis, ed era sua intenzione imbarcarsi per l’America. La sera andai nell’osservatorio. Constatai che mio fratello aveva ragione, ma il mio calcolo mi diede un risultato un po’ diverso dal suo. Egli sostenne che il suo era giusto, e poiché ci tiene molto alle sue opinioni, volle andare lui stesso a Cordova, per provarmi che aveva ragione. Avrebbe potuto fare il viaggio nel breve tempo che impiego io a raccontarvelo, ma volle concedersi il piacere della gita, e seguire il pendio delle colline, scegliendo la strada in cui i luoghi ameni avrebbero più contribuito a divertirlo e a distrarlo. Arrivò così alla Venta Quemada. Si era fatto accompagnare dal piccolo Nemrael, quello spirito maligno che mi era apparso nella caverna. Mio fratello gli ordinò di portargli da mangiare, e Nemrael rubò il pasto a un priore dei Benedettini e lo portò alla venta. Poi mio fratello mi rimandò lo spiritello, non avendone più bisogno. In quel momento ero nell’osservatorio e vidi nel cielo cose che mi fecero tremare per mio fratello. Ordinai a Nemrael di tornare alla venta e di non lasciare più il suo padrone.

Vi andò e tornò un istante dopo per dirmi che un potere superiore al suo gli aveva impedito di penetrare nell’interno della locanda. La mia inquietudine fu al colmo.

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Finalmente scorsi voi che arrivavate insieme a mio fratello. Nei vostri lineamenti ravvisai una sicurezza e una serenità che mi assicurarono che non eravate cabalista. Mio padre aveva predetto che avrei sofferto molto a causa di un mortale, ed ebbi paura che quel mortale foste voi. Ma presto altre cose mi assorbirono. Mio fratello mi raccontò la storia di Pacheco e che cosa era successo a lui stesso, ma aggiunse con mia grande meraviglia che non sapeva con quali specie di demoni avesse avuto a che fare.

Aspettammo la notte con la più grande impazienza e ci demmo ai più spaventosi incantesimi. Fu invano: non riuscimmo a saper niente sulla natura dei due esseri, e ignoravamo se mio fratello avesse realmente perduto a causa loro i suoi diritti all’immortalità. Pensai di poter avere qualche spiegazione da voi. Ma voi, fedele a non so quale parola d’onore, non avete voluto dirci niente.

Allora, per essere utile a mio fratello e tranquillizzarlo, decisi di passare io stessa una notte alla Venta Quemada. Sono partita ieri, e la notte era già avanzata quando giunsi all’imbocco della valle.

Radunai alcuni vapori con cui composi un fuoco fatuo, e gli ordinai di condurmi alla venta. Questo è un segreto conservato nella nostra famiglia, e proprio con un mezzo simile Mosè, fratello del mio sessantatreesimo avo, fece la colonna di fuoco che guidò gli Israeliti attraverso il deserto.

Il mio fuoco fatuo si illuminò molto bene e si incamminò davanti a me; ma non prese la via più breve. Mi accorsi della sua infedeltà, ma non vi feci abbastanza attenzione.

Quando arrivai, era mezzanotte. Entrando nel cortile della venta, vidi che c’era luce nella stanza centrale e sentii una musica molto armoniosa. Mi sedetti su una panchina di pietra, feci qualche operazione cabalistica, ma non produsse alcun effetto. E’ vero che quella musica m’incantava e mi distraeva al punto che adesso non potrei dirvi se le operazioni fossero ben fatte, e anzi suppongo di aver mancato in qualche punto essenziale. Ma allora credetti di aver proceduto regolarmente, e pensando che nell’albergo non ci fossero né demoni né spiriti, conclusi che c’erano solo degli uomini, e mi lasciai andare al piacere di ascoltarli cantare. Erano due voci accompagnate da uno strumento a corda, ma così melodiose e così bene accordate che nessuna musica terrena può esservi paragonata.

Le arie che quelle voci facevano risonare ispiravano una tenerezza così voluttuosa che io non posso neppure darne un’idea. Ascoltai a lungo, seduta sulla mia panca, e alla fine mi decisi a entrare, poiché ero venuta soltanto per quello. Salii dunque e nella stanza centrale trovai due giovani, grandi, ben fatti, che erano seduti a tavola e mangiavano, bevevano, cantavano di gran cuore. Avevano un costume orientale, erano acconciati con un turbante, petto e braccia nudi, e ricche armi alla cintura.

Questi due sconosciuti, che presi per dei Turchi, si alzarono, mi avvicinarono una sedia, mi riempirono piatto e bicchiere, e ricominciarono a cantare, accompagnandosi con una tiorba che suonavano un po’ l’uno un po’ l’altro.

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I loro modi liberi avevano qualche cosa di comunicativo. Non facevano complimenti e non ne feci neanch’io. Avevo fame, mangiai.

Non c’era acqua, bevetti del vino. Mi venne poi voglia di cantare con i giovani Turchi, che sembrarono felici di ascoltarmi. Cantai una seghidiglia spagnola. Essi risposero cantando sulle stesse rime.

Avendo domandato dove avessero imparato lo spagnolo, uno dei due mi rispose: «Noi siamo nati in Morea e, marinai di professione, abbiamo facilmente imparato la lingua dei porti che toccavamo. Ma lasciamo le seghidiglie, ascoltate le canzoni del nostro paese».

I loro canti avevano una melodia che faceva scivolare l’anima attraverso tutte le sfumature del sentimento, e quando si arrivava al culmine della commozione, accenti inattesi vi riportavano alla più sfrenata allegria.

Non mi lasciavo affatto illudere da tutto quel maneggio. Fissavo attentamente i pretesi marinai e mi sembrava che ambedue assomigliassero moltissimo ai miei Gemelli divini. «Voi siete Turchi,» dissi «e nati in Morea?». «Niente affatto.» mi rispose quello che non aveva ancora parlato «Siamo Greci, nati a Sparta. Ah! Divina Rebecca, come potete non riconoscermi, io sono Polluce e questo è mio fratello!».

Lo spavento mi tolse l’uso della parola, i pretesi Gemelli spiegarono le loro ali e io mi sentii sollevare nell’aria. Per una felice ispirazione, pronunciai un nome sacro che solo mio fratello ed io conosciamo. Nello stesso istante precipitai sulla terra, completamente stordita dalla caduta. Siete voi, Alfonso, che mi avete fatto riacquistare i sensi; qualcosa in fondo a me mi avverte che non ho perduto niente di quanto m’importa di conservare, ma sono stanca di tante meraviglie; sento che sono nata per restare una semplice mortale.

Qui Rebecca terminò il suo racconto. Ma su di me non fece l’effetto che lei si aspettava. Tutto quanto avevo visto e sentito di straordinario per quasi dieci giorni non m’impedì di credere che avesse voluto prendersi gioco di me. La lasciai piuttosto bruscamente, e mettendomi a riflettere su quanto mi era successo dalla partenza da Cadice, mi ricordai allora qualche parola sfuggita a Don Emmanuel de Sa, governatore di quella città, che mi fece pensare che egli non fosse del tutto estraneo alla misteriosa esistenza dei Gomelez. Era stato lui a darmi i due valletti, Lopez e Moschito. Mi misi in testa che essi mi avessero lasciato al misterioso imbocco di Los Hermanos per ordine suo. Le mie cugine, e Rebecca stessa, mi avevano spesso fatto capire che si voleva mettermi alla prova. Forse, alla venta, mi era stata data una bevanda per addormentarmi, dopodiché niente era più facile che trasportarmi durante il sonno sotto la forca fatale. Pacheco poteva aver perso un occhio per tutt’altro incidente che per il suo legame amoroso con i due impiccati, e la sua storia spaventosa poteva essere una favola.

L’eremita, che aveva sempre cercato di carpire il mio segreto, era senza dubbio un agente dei Gomelez che voleva mettere alla prova la mia discrezione. Infine Rebecca,

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suo fratello, Zoto e il capo degli zingari, tutte queste persone erano forse d’accordo per sconfiggere il mio coraggio.

Queste riflessioni, come si può ben capire, mi decisero ad aspettare a piè fermo il seguito delle avventure alle quali ero destinato e che il lettore conoscerà se accoglierà con favore la prima parte di questa storia. (2)

NOTE:

(2) Per «la prima parte di questa storia» è evidente che bisogna intendere le Dix Journées de la Vie d’Alphonse van Worden, cioè le «giornate» da 1 a 10 e la «giornata» 14 dell’opera completa.

Racconti tratti da

«Avadoro, storia spagnola»

Storia del terribile pellegrino

Hervas e di suo padre,

l’onnisciente empio

A qualcuno sembrerà che la conoscenza approfondita di cento discipline diverse debba superare le possibilità concesse a una mente umana: tuttavia, è sicuro che su ciascuna di esse Hervas scrisse un volume che iniziava con la storia di quella scienza e terminava con teorie ingegnosissime sui mezzi di arricchirla e, per così dire, di fare arretrare in tutti i sensi i limiti del sapere.

Hervas riusciva a tutto grazie all’economia del tempo e a una grande regolarità nella sua distribuzione. Si alzava prima dell’alba e si preparava al lavoro del suo ufficio con riflessioni affini alle operazioni che doveva svolgervi. Si recava dal ministro una mezz’ora prima degli altri e aspettava che suonasse l’ora dell’ufficio con la penna in mano e la testa sgombra da qualsiasi idea relativa alla sua opera. Giunta l’ora, iniziava i suoi calcoli e li sbrigava con una celerità sorprendente. Dopodiché passava dal libraio Moreno, di cui aveva saputo guadagnarsi la fiducia, prendeva i libri che gli occorrevano e li portava a casa. Usciva di nuovo per consumare un leggero pasto, rientrava prima dell’una e lavorava fino alle otto di sera. Poi giocava alla pelota con i ragazzini del vicinato, rientrava, prendeva una tazza di cioccolato, e andava a coricarsi. La domenica, passava tutto il giorno fuori di casa e meditava sul lavoro della settimana seguente. In questo modo Hervas poteva dedicare circa tremila ore all’anno alla sua opera universale, e così avendo fatto, al termine di quindici anni (quarantacinquemila ore) quella creazione sorprendente si trovò ad essere realmente conclusa senza che nessuno a Madrid lo sospettasse; infatti Hervas non era per nulla comunicativo e non parlava a nessuno della sua opera, volendo stupire il mondo col mostrargli tutto in una volta quel cumulo imponente di scienza. Così l’opera di

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Hervas si trovò ad essere finita proprio quando lui compiva quarant’anni, ed egli si rallegrava di entrare nella quarantina con una grande fama pronta ad affermarsi. Al tempo stesso, però, v’era una certa tristezza nel suo animo, poiché l’abitudine al lavoro, sostenuto dalla speranza, era stata per lui come una compagnia gradevole che riempiva ogni momento della sua giornata. Adesso aveva perso quella compagnia; e la noia, mai conosciuta prima, cominciava a farsi sentire. Quello stato, così nuovo per Hervas, gli alterò completamente il carattere. Invece di cercare la solitudine, lo si vedeva in ogni luogo pubblico. Là, sembrava che avvicinasse tutti; ma non conoscendo nessuno e non essendo abituato alla conversazione, egli passava via senza dire parola; e intanto pensava tra sé che ben presto tutta Madrid l’avrebbe conosciuto e che il suo nome sarebbe stato sulla bocca di tutti.

Tormentato dal bisogno di distrazione, Hervas ebbe l’idea di rivedere il luogo dov’era nato, borgo ignoto che sperava di rendere illustre. Da quindici anni non essendosi permesso altro divertimento se non quello di giocare alla pelota con i ragazzi del vicinato, egli si riprometteva un piacere del tutto particolare all’idea di poterla giocare nei luoghi dove aveva trascorso la prima infanzia.

Prima di partire Hervas volle godere della vista dei suoi cento volumi disposti su un unico palchetto. Affidò i manoscritti a un rilegatore raccomandandogli vivamente che sul dorso di ogni volume ci fosse per esteso il nome della materia e il numero del tomo, dal primo, cioè la Grammatica universale, fino al centesimo, cioè l’analisi. Dopo tre settimane, il rilegatore riportò l’opera. Il palchetto che doveva accoglierla era già pronto. Hervas vi collocò quella serie imponente di volumi e fece un bel falò di tutte le minute e gli appunti. Dopodiché, chiuse a doppia mandata la porta della sua stanza, vi pose il sigillo e partì per le Asturie.

La vista dei luoghi natii gli diede realmente tutto il piacere che se ne riprometteva. Mille ricordi, dolci e innocenti, gli strappavano lacrime di gioia, di cui vent’anni di aride meditazioni avevano, per così dire, essiccato le fonti. Il nostro poligrafo avrebbe volentieri passato il resto dei suoi giorni nel borgo natio; ma i cento volumi lo richiamavano a Madrid. Egli riprende la via della capitale, arriva a casa, trova intatto il sigillo sulla porta. Apre!... e vede i cento volumi fatti a pezzi, senza rilegatura, i fogli sparsi e confusi sul pavimento! Quell’orrenda vista gli sconvolge i sensi: cade in mezzo ai rimasugli dei suoi libri e perde perfino la coscienza della propria esistenza.

Ahimè! Ecco qual era la causa di quel disastro. Hervas non mangiava mai in casa. I topi, numerosi in tutte le case di Madrid, si guardavano bene dal frequentare la sua; non vi avrebbero trovato da rosicchiare che qualche penna; ma non fu la stessa cosa quando cento volumi pieni di colla fresca furono portati nella stanza e quella stanza venne abbandonata dal suo padrone il giorno stesso. I topi, attirati dall’odore della colla, incoraggiati dalla solitudine, si radunarono in folla, misero tutto sottosopra, rosicchiarono, divorarono... Hervas, riprendendo i sensi, vide uno di quei mostri che stava tirando in un buco gli ultimi fogli della sua Analisi. Mai, forse, la collera era entrata nel suo animo: egli ne sentì il primo accesso, si precipitò sul rapitore della sua geometria trascendente ma sbatté la testa contro il muro e cadde svenuto.

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Riprese i sensi una seconda volta, raccolse i pezzetti disseminati sul pavimento della stanza e li gettò in un cofano. Poi vi si sedette sopra e si lasciò andare ai più tristi pensieri. Ben presto fu assalito da un brivido che, il giorno dopo, degenerò in una febbre biliosa, comatosa e maligna.

Hervas, privato della gloria ad opera dei topi, abbandonato dai medici, non fu però lasciato al suo destino dall’infermiera. Essa continuò a curarlo e ben presto una crisi benigna gli salvò la vita.

Quest’infermiera era una ragazza di trent’anni, di nome Marica; era venuta a curarlo per amicizia, poiché qualche volta alla sera Hervas discorreva con suo padre, un calzolaio del vicinato. Hervas, ormai convalescente, capì quanto dovesse a quella brava ragazza.

• Marica, - le disse – mi avete salvato e ora addolcite il mio ritorno alla vita. Che cosa posso fare per voi?

• Signore, - rispose quella ragazza – potreste fare la mia felicità, ma non oso dirvi come.

• Dite, dite, e siate certa che se la cosa sarà in mio potere, la farò.

• Ma se vi chiedessi di sposarmi?

• Acconsento, e con tutto il cuore. Mi nutrirete quando starò bene, mi curerete quando sarò malato; e mi difenderete dai topi quando sarò lontano. Sì, Marica, vi sposerò quando vorrete, e prima sarà, meglio sarà.

Hervas non era ancora completamente guarito quando aprì il cofano che conteneva i resti della sua summa. Tentò di mettere insieme i fogli, ed ebbe una ricaduta che lo lasciò debolissimo. Quando fu in condizione di poter uscire, andò dal ministro delle finanze, gli fece presente che aveva lavorato quindici anni e preparato degli allievi capaci di sostituirlo, che la sua salute era rovinata e che perciò chiedeva di andare a riposo con una pensione equivalente alla metà del suo stipendio. In Spagna questa specie di favori non è molto difficile da ottenere; Hervas ebbe quanto aveva chiesto, e sposò Marica.

Il nostro sapiente cambiò allora il suo modo di vivere. Prese alloggio in un quartiere solitario e si propose di non uscire più di casa se non dopo aver ricostituito il manoscritto dei cento volumi. I topi avevano roso tutta la carta là dov’era più vicina al dorso dei libri, risparmiando solo l’altra metà di ogni pagina, e per di più anche queste mezze pagine erano a brandelli. Tuttavia esse servirono a Hervas per ricordargli l’intero testo. Fu così che si accinse a rifare tutta l’opera. Contemporaneamente, ne creò un’altra di genere molto diverso. Marica mi diede alla luce, me, peccatore e reprobo.

Ah! senza dubbio il giorno della mia nascita fu una festa per l’Inferno; i fuochi eterni di quell’orrenda dimora brillarono di un nuovo splendore e i demoni aggravarono i supplizi dei dannati per godere meglio delle loro urla.

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Venni al mondo, e mia madre sopravvisse soltanto qualche ora alla mia nascita. Hervas non aveva mai conosciuto né l’amore né l’amicizia se non attraverso una definizione di questi due sentimenti che aveva posto nel suo sessantasettesimo volume. Ma la perdita della moglie gli dimostrò che era stato creato per sentire l’amicizia e l’amore: lo accasciò più della perdita dei cento tomi in ottavo divorati dai topi. La casa di Hervas era piccola, e a ogni mio strillo risonava tutta quanta: era impossibile che ci restassi. Mi accolse mio nonno, il calzolaio Marañon, che sembrò lusingatissimo di avere in casa il nipote, figlio di un contador (1) e gentiluomo.

Mio nonno, nonostante il suo umile stato, godeva di grande agiatezza. Appena fui in grado di frequentarla, mi mandò a scuola. E quando ebbi compiuto sedici anni, mi vestì con eleganza e mi diede i mezzi per portare a spasso per Madrid il mio ozio. Egli si credeva ripagato delle spese quando poteva dire: My nieto el hijo del contador, mio nipote, il figlio del contador. Ma torniamo a mio padre e al suo triste destino, fin troppo conosciuto: possa servire di lezione e di monito agli empi!

Diego Hervas passò otto anni a riparare il danno che gli avevano fatto i topi. La sua opera era quasi ricostituita quando dei giornali stranieri che caddero tra le sue mani gli provarono che la scienza aveva fatto, a sua insaputa, notevoli progressi. Quest’aggiunta alle sue pene lo fece sospirare ma, non volendo lasciar l’opera incompleta, a ogni scienza aggiunse le nuove scoperte. Questo lavoro l’occupò ancora quattro anni. Passò così dodici anni senza uscire di casa, dedicandosi quasi interamente alla sua opera. Quella vita sedentaria finì di rovinargli la salute. Ebbe una sciatica ostinata, mal di reni, calcoli alla vescica, e tutti i sintomi precursori della gotta. Ma finalmente la summa in cento volumi fu compiuta. Hervas chiamò a casa sua il libraio Moreno, figlio di quello che aveva messo in vendita la sua sfortunata Analisi.

• Signore, - gli disse – ecco cento volumi che racchiudono tutto il sapere umano fino ad oggi. Quest’opera farà onore alle vostre stampe, e, oso dirlo, alla Spagna. Non chiedo nulla per me, abbiate solo la bontà di stamparmi, e che la mia memorabile fatica non vada interamente perduta!

Moreno aprì tutti i volumi, li esaminò con cura, e gli disse:

• Signore, m’incarico dell’opera, ma è necessario che vi decidiate a ridurla a venticinque volumi.

• Andatevene, - gli rispose Hervas – andatevene; tornate alla vostra bottega a stampare quei guazzabugli romanzeschi o pedanteschi che fanno la vergogna della Spagna. Lasciatemi, Signore, coi miei calcoli e il mio genio, che, se fosse stato meglio conosciuto, mi sarebbe valso la stima generale. Ma non ho più niente da chiedere agli uomini, e meno ancora ai librai; lasciatemi.

Moreno se ne andò, e Hervas cadde nella più nera malinconia; aveva continuamente davanti agli occhi i cento volumi, figli del suo genio, concepiti con diletto, prodotti con una fatica che aveva pure le sue gioie, e ora sprofondati nell’oblio. Vedeva la sua intera vita perduta, la sua esistenza annientata nel presente e nel futuro.

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Allora anche il suo spirito, esercitato a penetrare tutti i misteri della natura, si volse disgraziatamente verso l’abisso delle miserie umane. A forza di misurarne la profondità, vide il male dovunque, non vide altro che il male, e disse in cuor suo: «Autore del male, chi sei?».

Ebbe orrore egli stesso di quest’idea e volle esaminare se il male, per esistere, dovesse necessariamente esser stato creato. Poi studiò lo stesso problema sotto un punto di vista più ampio. Si rivolse alle forze della natura, attribuendo alla materia un’energia che gli parve adatta a spiegare ogni cosa senza dover ricorrere alla creazione.

Per quanto riguarda l’uomo e gli animali, dovevano l’esistenza, secondo lui, a un acido generatore che, facendo fermentare la materia, le dava delle forme costanti, più o meno come gli acidi cristallizzano le basi alcaline e terrose in poliedri sempre simili.

Considerava le sostanze fungose prodotte dal legno umido come l’anello che lega la cristallizzazione dei fossili alla riproduzione dei vegetali e degli animali e che ne mostra, se non l’identità, almeno l’analogia.

Sapiente com’era, Hervas non ebbe difficoltà a sostenere il suo falso sistema con prove sofistiche fatte apposta per trarre in errore le menti. Per esempio, sosteneva che i muli, derivanti da due specie, potevano esser paragonati ai sali a base mista, la cui cristallizzazione è confusa. L’effervescenza prodotta da alcune terre mescolate ad acido, si avvicinava a suo parere alla fermentazione dei vegetali muscosi, e quest’ultima gli parve essere un principio di vita che non aveva avuto la possibilità di svilupparsi per mancanza di circostanze favorevoli.

Hervas aveva osservato che i cristalli, formandosi, si ammassavano nelle parti più illuminate del recipiente, e con difficoltà si formavano al buio; e poiché la luce è parimenti favorevole alla vegetazione, considerò il fluido luminoso come uno degli elementi di cui si componeva l’acido universale che animava la natura; d’altronde aveva constatato che la luce rendeva rosse col tempo le carte di color azzurro; motivo di più per considerarla un acido. (2) Hervas sapeva che nelle latitudini settentrionali, vicino al Polo, il sangue, per mancanza di calore sufficiente, è esposto a un’alcalescenza che poteva essere arrestata soltanto con la somministrazione di acidi. Ne concluse che il calore, potendo in alcune occasioni esser sostituito da un acido, doveva essere esso stesso una specie di acido, o almeno uno degli elementi dell’acido universale.

Hervas sapeva che si era potuto vedere il tuono inacidire e far fermentare i vini. Aveva letto in Sanchuniathon che, all’inizio del mondo, gli esseri destinati a vivere erano stati come risvegliati alla vita da violenti tuoni, e il nostro disgraziato sapiente non aveva timore di appoggiarsi su quella cosmogonia pagana per affermare che la materia della folgore aveva forse sviluppato per la prima volta l’acido generatore, infinitamente vario ma costante nella riproduzione delle stesse forme.

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Cercando di penetrare i misteri della creazione, Hervas avrebbe dovuto ricondurne la gloria al creatore; e piacesse al cielo che l’avesse fatto! Ma il suo buon angelo l’aveva abbandonato, e la sua mente, sviata dall’orgoglio del sapere, lo espose senza difesa alle magiche seduzioni degli spiriti superbi, la cui caduta trascinò con sé quella del mondo. Ahimè! Mentre Hervas innalzava i suoi pensieri colpevoli oltre le sfere dell’umana intelligenza, la sua spoglia mortale era minacciata da una prossima dissoluzione. Per rovinarlo molti mali acuti si aggiunsero alle malattie croniche. La sciatica, ormai molto dolorosa, gli tolse l’uso della gamba destra; la renella, diventata calcolosa, gli lacerava la vescica; l’umore artritico gli aveva incurvato le dita della mano sinistra e minacciava le giunture della destra; infine, la più cupa ipocondria distruggeva le forze dell’anima come quelle del corpo. Ebbe paura di avere dei testimoni del suo crollo e finì per respingere le mie cure e rifiutare di vedermi.

Per unico domestico aveva un vecchio invalido che, nel servirlo, impiegava tutte le forze che gli restavano. Ma cadde ammalato anche lui, e mio padre fu allora costretto a sopportarmi presso di sé. Poco dopo, mio nonno Maraïon fu preso da un attacco di febbre violenta. La malattia durò solo cinque giorni. Sentendo avvicinarsi la fine, mi fece chiamare e mi disse:

• Blaz, mio caro Blaz, ricevi la mia ultima benedizione. Sei nato da un padre sapiente, e piacesse al cielo che lo fosse meno! Fortunatamente per te, tuo nonno è un uomo semplice, nella sua fede e nelle sue opere, e ti ha allevato nella stessa semplicità: non lasciarti traviare da tuo padre. Da qualche anno, egli ha praticato poco la religione e le sue opinioni sono tali che degli eretici ne avrebbero vergogna. Blaz, diffida della saggezza umana. Fra qualche istante ne saprò più io di tutti i filosofi. Blaz, Blaz, ti benedico, muoio.

E infatti morì. Gli resi gli ultimi onori e tornai da mio padre, dove non ero stato da quattro giorni. In quello stesso tempo anche il vecchio invalido era morto, e i confratelli della carità si erano incaricati di seppellirlo. Sapevo che mio padre era solo e volevo dedicarmi a servirlo, ma, entrando in casa, uno spettacolo straordinario colpì i miei occhi e mi fermò pieno d’orrore nella prima stanza.

Mio padre si era tolto gli abiti e si era ricoperto di un lenzuolo come di un sudario. Era seduto e guardava tramontare il sole. Dopo averlo contemplato a lungo alzò la voce e disse:

• Astro, i cui ultimi raggi hanno colpito i miei occhi per l’ultima volta, perché hai illuminato il giorno della mia nascita? Avevo forse chiesto di nascere? E perché sono nato? Gli uomini mi hanno detto che possedevo un’anima, e io me ne sono occupato anche a spese del mio corpo. Ho coltivato il mio spirito, ma i topi l’hanno divorato, i librai l’hanno disdegnato. Di me non resterà niente; io muoio tutt’intero, altrettanto oscuro che se non fossi nato. O nulla, accogli dunque la tua preda!

Rimase alcuni istanti in balìa di cupe riflessioni; poi prese un bicchiere che mi sembrò pieno di vino vecchio, alzò gli occhi al cielo e disse:

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• O mio Dio, se ne esiste uno, abbi pietà della mia anima, se ne ho una.

Vuotò il bicchiere e lo posò sulla tavola, poi si mise la mano sul cuore, come se lo sentisse stretto dall’angoscia. Aveva preparato un’altro tavolo, vi aveva messo dei cuscini; vi si sdraiò sopra, incrociò le mani sul petto, e non proferì più parola.

Vi meraviglierete che, vedendo tutti quei preparativi di suicidio, non mi sia precipitato sul bicchiere, o che non abbia chiamato aiuto; io stesso ne sono sorpreso, o meglio sono sicurissimo che un potere soprannaturale mi inchiodava al mio posto, senza lasciarmi alcuna libertà di movimento; i capelli mi si drizzarono in testa.

I confratelli della carità, che avevano sotterrato il nostro invalido, mi trovarono in quello stato; videro mio padre steso sul tavolo coperto da un sudario, e chiesero se fosse morto. Risposi che non ne sapevo niente. Mi chiesero chi avesse messo quel lenzuolo.

Risposi che se ne era rivestito lui stesso. Osservarono attentamente il corpo e lo trovarono senza vita. Videro il bicchiere con un avanzo di liquido e lo presero per esaminarlo. Poi se ne andarono dando segni di scontento e lasciandomi in un estremo abbattimento. In seguito vennero quelli della parrocchia. Mi fecero le stesse domande e se ne andarono dicendo:

• E’ morto come è vissuto; non spetta a noi di sotterrarlo.

Restai solo con il morto. Il mio scoraggiamento era tale che avevo perso ogni facoltà di agire e anche di pensare. Mi buttai sulla poltrona su cui avevo visto mio padre e ripiombai nella mia immobilità.

Venne la notte; il cielo si caricò di nuvole, una ventata improvvisa spalancò la finestra: un lampo azzurrognolo sembrò percorrere la stanza e poi lasciarla più scura di prima. In quel buio, mi parve distinguere delle forme fantastiche; poi mi sembrò di sentire mio padre emettere un lungo gemito, ripetuto da echi lontani attraverso lo spazio notturno. Volli alzarmi, ma ero trattenuto al mio posto e nell’impossibilità di fare qualsiasi movimento. Un freddo glaciale mi penetrò nelle membra; sentii un brivido di febbre; le visioni si mutarono in sogni, e il sonno s’impadronì dei miei sensi.

Mi svegliai di soprassalto: vidi sei lunghi ceri gialli accesi presso il corpo di mio padre, e un uomo seduto di fronte a me che sembrava spiare il momento del mio risveglio. Aveva un aspetto maestoso e imponente; era alto, i capelli neri, un po’ crespi, gli ricadevano sulla fronte, lo sguardo era vivo e penetrante, ma insieme dolce e tentatore: per il resto, portava la gorgiera e il mantello grigio, all’incirca come si vestono i gentiluomini di campagna.

Quando lo sconosciuto vide che ero sveglio, mi sorrise con aria affabile e mi disse:

• Figlio mio (vi chiamo così perché vi considero come se già mi apparteneste), voi siete abbandonato da Dio e dagli uomini, e la terra si è chiusa davanti alle spoglie di questo saggio che vi diede alla luce; ma noi non vi abbandoneremo.

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• Signore, - gli risposi – dicevate, credo, che sono abbandonato da Dio e dagli uomini. In quanto agli uomini, è vero, ma non credo che Dio possa mai abbandonare una delle sue creature.

• La vostra osservazione – disse lo sconosciuto – è giusta sotto certi aspetti; ma questo ve lo spiegherò un’altra volta. Intanto, per convincervi dell’interesse che abbiamo per voi, vi offro questa borsa; vi troverete mille doppie; un giovane deve avere delle passioni e i mezzi per soddisfarle; non risparmiate quest’oro e contate sempre su di noi.

Poi lo sconosciuto batté le mani. Comparvero sei uomini mascherati che portarono via il corpo di Hervas; i ceri si spensero e l’oscurità divenne profonda. Non vi restai a lungo: a tentoni cercai la porta, raggiunsi la strada e, alla vista del cielo stellato, mi sembrò di respirare più liberamente. Anche le mille doppie che sentivo in tasca contribuivano a darmi coraggio. Attraversai Madrid e arrivai in fondo al Prado, là dove poi fu collocata una colossale statua di Cibele; mi sdraiai su una panchina e non tardai ad addormentarmi.

Il sole era già abbastanza alto quando mi svegliai, e la cagione ne fu, credo, un leggero colpo di fazzoletto sul viso; infatti, destandomi, vidi una fanciulla che, servendosi del fazzoletto come di uno scacciamosche, allontanava gli insetti che avrebbero potuto turbare il mio sonno. Ma ciò che mi parve più strano era che la mia testa riposava morbidamente sulle ginocchia di un’altra fanciulla, di cui sentivo il dolce respiro giocherellare coi miei capelli. Non mi ero quasi mosso; ero libero di prolungare la situazione fingendo di dormire ancora. Chiusi dunque gli occhi e, poco dopo, sentii una voce che, con un tono di lieve rimprovero ma senza asprezza, diceva, rivolgendosi alle fanciulle che mi cullavano:

• Celia, Zorilla, che cosa fate qui? Vi credevo in chiesa, ed ecco che vi trovo immerse in un’adorazione tutta speciale!

• Ma mamma, - rispose la ragazza che mi serviva da cuscino – non mi avete detto che le opere avevano il loro merito quanto la preghiera? E non è un’opera di carità prolungare il sonno di questo povero ragazzo che deve aver passato una pessima notte?

• Certo, - replicò la voce, più con divertimento che con rampogna – certo è molto meritorio, ed ecco un’idea che prova, se non la vostra devozione, almeno la vostra innocenza; ma adesso, mia caritatevole Zorilla, mettetemi giù pian piano la testa di questo giovane e rientriamo.

• Ah! Mia buona mamma, - riprese la fanciulla – vedete come dorme tranquillamente; invece di svegliarlo dovreste sciogliergli la gorgiera che lo soffoca.

• Già, - disse la madre – mi date proprio un bell’incarico; ma vediamo un po’: davvero ha l’aria molto dolce.

E intanto la mano della madre passò con delicatezza sotto il mio mento e sciolse la gorgiera.

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• Così sta ancora meglio, - disse Celia, che non aveva ancora parlato – e respira più liberamente: vedo che c’è qualcosa di dolce nel compiere buone azioni.

• Questa osservazione, - disse la madre – dimostra molto giudizio; ma non bisogna spingere la carità troppo lontano. Su, Zorilla, posate questa giovane testa sulla panchina e andiamocene.

Zorilla mi passò dolcemente le mani sotto il capo e ritrasse le ginocchia. Allora mi parve inutile fare più a lungo l’addormentato, mi rizzai a sedere e aprii gli occhi: la madre gettò un grido, le ragazze vollero fuggire, ma io le trattenni.

• Celia! Zorilla! - dissi loro – siete belle quanto innocenti, e voi, che sembrate loro madre solo perché le vostre grazie sono più formate, permettete che prima di lasciarvi io possa dedicare qualche istante all’ammirazione che tutte e tre m’ispirate.

Quel che dicevo era la verità: Celia e Zorilla sarebbero state delle bellezze perfette se non fosse per l’estrema giovinezza, che non aveva ancora dato loro il tempo di svilupparsi, e la madre, che aveva a malapena trent’anni, non ne dimostrava neppure venticinque.

• Signor cavaliere, - mi disse quest’ultima – se avete finto di dormire, avreste dovuto convincervi dell’innocenza delle mie figlie e farvi una buona opinione della loro madre. Non temo dunque di perdere nella vostra considerazione pregandovi di accompagnarmi a casa. Una conoscenza iniziata in modo così singolare sembra destinata a farsi più intima.

Le seguii. Arrivammo alla loro casa che dava sul Prado. Le ragazze andarono a occuparsi della cioccolata. La madre, dopo avermi fatto sedere al suo fianco, mi disse:

• Vedete una casa un po’ più ricca di quanto non convenga al nostro presente stato. L’avevo presa in tempi migliori. Adesso vorrei subaffittare il piano nobile, ma non oso farlo; le circostanze in cui mi trovo esigono una riservatezza estrema.

• Signora, - le risposi – anch’io ho delle ragioni per vivere molto appartato e, se vi convenisse, prenderei volentieri il quarto principal (o appartamento nobile).

Così dicendo, tirai fuori la borsa, e la vista dell’oro allontanò qualsiasi obiezione che la dama avrebbe potuto farmi. Pagai in anticipo tre mesi d’affitto e altrettanto di pensione. Fu stabilito che mi sarebbe stato servito da mangiare in camera mia e che avrei avuto a disposizione un valletto di fiducia, anche per le commissioni fuori casa. Zorilla e Celia, ricomparse con la cioccolata, furono informate delle condizioni dell’accordo e il loro sguardo parve prendere possesso della mia persona; ma gli occhi della madre sembravano volerglielo disputare. Quella piccola schermaglia di civetteria non mi sfuggì; ne affidai l’esito al destino, e io pensai a sistemarmi nella mia nuova abitazione. Questa in breve fu fornita di tutto quanto poteva contribuire a rendermela gradevole e comoda.

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Ora Zorilla mi portava l’occorrente per scrivere, ora Celia veniva a guarnire la tavola con una lampada o con qualche libro. Niente era trascurato. Le due belle arrivavano separatamente e, quando s’incontravano da me, erano risa a non finire. La madre aveva il suo turno: si occupò soprattutto del mio letto, vi fece mettere lenzuola di tela d’Olanda, una bella coperta di seta e una pila di cuscini.

Queste sistemazioni mi occuparono tutta la mattina. Venne mezzogiorno e fu apparecchiato in camera mia; ne fui lietissimo: amavo vedere tre graziose persone che si sforzavano di piacermi e che volevano godere in qualche misura della mia benevolenza, ma c’è tempo per tutto e io ero più che contento di abbandonarmi al mio appetito in pace e senza distrazioni.

Dunque pranzai. Poi presi cappa e spada e andai a passeggiare in città. Mai avevo provato tanto piacere; ero indipendente, avevo le tasche colme d’oro, ero pieno di salute, di vigore e, grazie alle carezze delle tre dame, ero fiero di me stesso, poiché un giovane ha tanta stima di sé quanto è il favore di cui gode presso il bel sesso.

Entrai da un gioielliere e acquistai qualche gioiello. Poi andai a teatro e infine rientrai a casa. Trovai le tre dame sedute sulla porta. Zorilla cantava accompagnandosi con la chitarra, le altre due facevano un ricamo a rete.

• Signor cavaliere, - mi disse la madre – avete preso alloggio da noi e ci dimostrate una grande fiducia senza neppure sapere chi siamo. Ma sarebbe bene che v’informaste. Sappiate dunque, Signor cavaliere, che mi chiamo Iñez Santarez, vedova di Don Juan Santarez, corregidor della Avana. Mi aveva sposata senza beni, e così mi ha lasciata, con le due figlie che vedete. Ero anzi molto turbata della mia vedovanza e della mia povertà, quando ricevetti una lettera del tutto inattesa di mio padre. Mi permetterete di tacerne il nome.

Ahimè! Anche lui aveva lottato tutta la sua vita contro la sventura, ma finalmente, a quanto mi comunicava la sua lettera, occupava ora un posto brillante come tesoriere al ministero della guerra. La lettera conteneva una rimessa di duemila doppie e l’ordine di venire a Madrid. Ci venni infatti, ma per apprendere che mio padre era accusato di concussione, anzi di alto tradimento, e detenuto nel castello di Segovia. Tuttavia era stata affittata per noi questa casa. Mi ci sono sistemata e vivo in grande solitudine, senza ricevere assolutamente nessuno, tranne un giovane impiegato al ministero della guerra: egli viene a riferirmi quello che riesce a sapere sul processo di mio padre. Tolto lui, nessuno conosce i nostri rapporti con l’infelice detenuto.

E nel terminare il discorso, la signora Santarez versò qualche lacrima.

• Non piangere, mamma, - le disse Celia – c’è un limite a tutto, e senza dubbio deve essercene anche alle disgrazie. Ecco già qui un giovane cavaliere dall’aspetto molto simpatico; il suo incontro mi pare di buon augurio.

• Davvero, - disse Zorilla – da quando è qui lui, la nostra solitudine non mi sembra aver più nulla di triste.

La signora Santarez mi gettò un’occhiata in cui ravvisai tristezza e tenerezza insieme. Anche le figlie mi guardarono, poi abbassarono gli occhi, arrossirono, si

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turbarono e rimasero pensose: ero dunque amato da tre deliziose donne; la situazione mi pareva invidiabile.

A questo punto un giovane alto e ben fatto si avvicinò a noi, prese per mano la signora Santarez, la condusse qualche passo più lontano ed ebbe con lei un lungo colloquio; poi essa me lo presentò dicendo:

• Signor cavaliere, ecco Don Cristobal Sparadoz, di cui vi ho parlato, il solo uomo che vediamo a Madrid. Vorrei procurare anche a lui il piacere della vostra conoscenza; ma sebbene abitiamo la stessa casa, non so con chi ho l’onore di parlare.

• Signora, - le dissi – sono nobile e asturiano; il mio nome è Leganez.

Ritenni opportuno di tacerle il nome di Hervas, che poteva essere conosciuto.

Il giovane Sparadoz mi squadrò con aria arrogante e sembrò perfino volermi rifiutare il saluto. Entrammo in casa e la signora Santarez fece servire uno spuntino di frutta e pasticcini. Ero ancora il centro di tutte le attenzioni delle tre belle, tuttavia mi accorsi anche degli sguardi e delle civetterie che avevano per oggetto il nuovo venuto. Ne fui ferito, e volendo riportare tutto l’interesse su di me, fui il più possibile amabile e brillante.

Nel bel mezzo del mio trionfo, Don Cristobal accavallò la gamba destra sul ginocchio sinistro e guardandosi la suola della scarpa disse:

• In verità, da quando è morto il calzolaio Maraïon, non è più possibile a Madrid avere una scarpa ben fatta.

E mi guardò con aria beffarda e sprezzante.

Il calzolaio Maraïon era precisamente il mio nonno materno, colui che mi aveva allevato e a cui dovevo moltissimo; ma certo peggiorava molto il mio albero genealogico, o almeno così mi parve. Pensai che sarei scaduto nella considerazione delle tre dame se fossero venute a sapere che avevo avuto un nonno calzolaio. Tutta la mia allegria scomparve; gettavo verso Don Cristobal delle occhiate ora corrucciate, ora tetre e sprezzanti. Mi proposi di proibirgli di mettere piede in quella casa. Se ne andò; io lo seguii con l’intenzione di farglielo capire; lo raggiunsi in fondo alla strada e gli feci il bel discorsetto che gli avevo preparato. Credevo che si sarebbe seccato. Invece affettò un’aria gentile, mi prese sotto il mento come per accarezzarmi, ma d’improvviso mi sollevò da terra; poi con una mossa del piede, di quelle che si chiamano sgambetti, mi fece cadere bocconi nel fossatello. Stordito dal colpo, mi rialzai coperto di fango, e pieno di rabbia tornai a casa. Le dame si erano coricate.

Mi misi a letto ma non potei dormire: mi tenevano sveglio due passioni, amore e odio; quest’ultimo era tutto concentrato su Don Cristobal. Non così per l’amore, di cui il mio cuore era pieno, ma che non era fissato. Celia, Zorilla e la madre occupavano di volta in volta i miei pensieri; le loro immagini carezzevoli, confondendosi nei miei sogni, mi ossessionarono per il resto della notte.

Mi svegliai molto tardi. Aprendo gli occhi, vidi la signora Santarez seduta ai piedi del letto: sembrava avesse pianto.

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• Mio giovane cavaliere, - mi disse – sono venuta a rifugiarmi da voi; c’è su della gente che mi chiede del denaro, e io non ne ho da dargliene. Ho dei debiti, ahimè! Ma non bisognava forse nutrire e vestire quelle povere bambine? Hanno già anche troppe privazioni! E qui la signora Santarez si mise a singhiozzare, e i suoi occhi, pieni di lacrime, si dirigevano involontariamente verso la mia borsa, che si trovava vicino a me sul comodino. Compresi quel muto linguaggio. Rovesciai l’oro sopra il comodino; a occhio ne feci due parti uguali e ne offrii una alla signora Santarez: essa non si aspettava quell’atto di generosità. Prima sembrò impietrita dalla sorpresa, poi mi prese le mani, le baciò con trasporto, le strinse al cuore, e infine raccolse l’oro dicendo:

• Oh! Bambine mie, mie care bambine!

Poi arrivarono le figlie e anche loro mi baciarono le mani. Tutte quelle testimonianze di riconoscenza m’infiammarono il sangue, già fin troppo acceso dai sogni.

Mi vestii in fretta e volli prendere un po’ d’aria su una terrazza della casa; passando davanti alla stanza delle fanciulle, le sentii singhiozzare e abbracciarsi piangendo. Ascoltai un momento, poi entrai. Celia mi disse:

• Ascoltatemi, troppo caro e troppo amabile ospite: ci trovate nella più grande agitazione; da quando siamo al mondo, nessuna nube aveva turbato i sentimenti che nutrivamo l’una per l’altra ed eravamo unite dall’affetto più ancora che dal sangue; ma le cose erano mutate da quando voi siete qui: la gelosia si era insinuata nei nostri animi, e saremmo forse arrivate a odiarci; la naturale bontà di Zorilla ha prevenuto una così terribile sventura. Essa si è gettata tra le mie braccia, le nostre lacrime si sono mescolate e i nostri cuori si sono riavvicinati. Adesso, nostro caro ospite, spetta a voi di riconciliarci del tutto; prometteteci di non amare una più dell’altra, e se avete qualche carezza da farci, distribuitela imparzialmente fra noi due.

Che cosa dovevo rispondere a quell’invito fervido e incalzante? Le strinsi una alla volta fra le mie braccia; asciugai le loro lacrime, e la tristezza cedette il posto alle più tenere follie.

Insieme passammo sulla terrazza, dove ci trovò la signora Santarez.

La contentezza di aver pagato i debiti l’inebriava di gioia. M’invitò a pranzo chiedendomi di dedicarle tutta quella giornata. Il pasto ebbe un tono di confidenza e d’intimità. I domestici furono allontanati; a turno servirono le due fanciulle. La signora Santarez, sfinita dalle emozioni provate, bevve due bicchieri di un generoso vino di Rota. I suoi occhi, un po’ turbati, divennero ancora più brillanti. Si animò molto, e le figlie avrebbero anche potuto essere gelose; ma rispettavano troppo la madre perché l’idea potesse sfiorarle. Quest’ultima, tradita dal sangue che il vino aveva acceso, era tuttavia ben lontana da qualsiasi libertinaggio.

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Da parte mia, non pensavo neppure a progetti di seduzione. I nostri seduttori erano il sesso e l’età. I dolci impulsi della natura ci avvolgevano in un incanto inesprimibile; facevamo fatica a lasciarci.

Il tramonto ci avrebbe alla fine separato, se io non avessi fatto venire dei rinfreschi da un sorbettiere vicino; il loro arrivo ci fece piacere, essendo un pretesto per restare insieme: fin lì tutto andava benissimo. Ci eravamo appena rimessi a tavola, quando vedemmo capitare Cristobal Sparadoz. Alla sua vista, provai una sensazione molto sgradevole; il mio cuore aveva per così dire preso possesso di quelle dame, e il fatto che i miei diritti fossero compromessi mi causava un vero dolore.

Don Cristobal non vi fece alcuna attenzione, non più che alla mia persona. Salutò le dame, condusse la signora Santarez in fondo alla terrazza, ebbe con lei un lungo colloquio e poi venne a mettersi a tavola senza che nessuno l’avesse invitato. Mangiava, beveva e non diceva parola; ma quando la conversazione cadde sulle corride, egli respinse il suo piatto, picchiò il pugno sul tavolo e disse:

• Ah! Per san Cristoforo, mio patrono, perché devo essere impiegato negli uffici del ministro? Preferirei essere l’ultimo torero di Madrid che presidente di tutte le Cortes di Castiglia! E così dicendo tese il braccio come per trafiggere un toro e ci fece ammirare la sua possente muscolatura. Poi, per mostrare la sua forza, fece sedere le tre dame su una poltrona, vi passò sotto una mano e la portò in giro per tutta la stanza. Don Cristobal provava tanto gusto in quei giochi che li prolungò il più possibile; poi prese cappa e spada per andarsene. Fino allora non aveva fatto alcuna attenzione a me. Ma a quel punto, rivolgendomi la parola, mi disse:

• Amico mio gentiluomo, dopo la morte del calzolaio Maraïon, chi fa le scarpe più belle?

Alle dame quest’uscita sembrò soltanto un’assurdità, come Don Cristobal ne diceva abbastanza spesso. Ma io ne fui molto irritato: andai a cercare la spada e corsi dietro a Don Cristobal; lo raggiunsi in fondo a una viuzza; mi piantai davanti a lui e, sguainando la spada, gli dissi:

• Insolente, mi pagherai tutti questi vigliacchi affronti! Don Cristobal pose la mano sull’elsa; ma avendo scorto in terra un pezzo di bastone, lo raccolse, diede un colpo secco sulla lama della mia spada e me la fece saltar via di mano; poi mi si avvicinò, mi prese per la collottola, mi trascinò fino al fossatello e mi ci gettò come la sera precedente, ma con tanta violenza che rimasi stordito più a lungo.

Qualcuno mi tese la mano per rialzarmi; riconobbi il gentiluomo che aveva fatto portar via il corpo di mio padre e mi aveva dato le mille doppie. Mi gettai ai suoi piedi; egli mi rialzò con bontà e mi disse di seguirlo. Camminammo in silenzio e giungemmo al ponte del Mançanarez, dove c’erano due cavalli neri, sui quali galoppammo una mezz’ora lungo la riva. Arrivammo a una casa solitaria, le cui porte si aprirono da sole; la stanza in cui entrammo era tappezzata di saia scura e ornata di candelabri d’argento e di un braciere dello stesso metallo. Ci sedemmo lì accanto in due poltrone, e lo sconosciuto mi disse:

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• Signor Hervas, ecco come va il mondo il cui ordine, tanto ammirato, non brilla certo in quanto a giustizia distributiva; gli uni hanno ricevuto dalla natura una forza di ottocento libbre, gli altri di sessanta. E’ vero che si è inventato il tradimento, il quale ristabilisce un po’ l’equilibrio.

E così dicendo lo sconosciuto aprì un cassetto, ne prese un pugnale e proseguì:

• Vedete questo arnese; la parte inferiore, a forma di mezza oliva, termina con una punta più affilata di un capello; mettetevelo alla cintura. Addio, mio cavaliere; ricordatevi sempre del vostro buon amico, Don Belial de Gehenna. Quando avrete bisogno di me, venite dopo mezzanotte al ponte del Mançanarez; battete tre volte le mani e vedrete arrivare i cavalli neri. A proposito, dimenticavo l’essenziale; ecco un’altra borsa; usatene senza riguardo.

Ringraziai il generoso Don Belial e risalii sul cavallo nero; un negro montò sull’altro; arrivammo al ponte dove bisognava scendere, e me ne tornai al mio alloggio.

Rientrato a casa, mi coricai e mi addormentai, ma ebbi dei sogni penosi. Avevo messo il pugnale sotto il cuscino; mi parve che uscisse dal suo posto e mi penetrasse nel cuore. Vedevo anche Don Cristobal rapirmi le tre dame dalla casa.

La mattina il mio umore era cupo; la presenza delle fanciulle non mi calmò affatto. I loro sforzi per rallegrarmi ebbero un altro effetto, e le mie carezze furono meno innocenti. Quando ero solo, tenevo il pugnale in mano e minacciavo Don Cristobal credendo di vedermelo davanti.

Quel temibile personaggio comparve ancora in serata e non fece la minima attenzione a me; ma fu insistente con le donne. Le stuzzicò l’una dopo l’altra, le mandò in collera e poi le fece ridere. La sua balordaggine finì per piacere più della mia gentilezza.

Avevo ordinato una cena più raffinata che abbondante. Don Cristobal se la mangiò quasi da solo; poi riprese la cappa per andarsene. Prima di uscire, si voltò bruscamente verso di me e mi disse:

• Mio gentiluomo, che cos’è quel pugnale che vedo alla vostra cintura? Fareste meglio a mettervi una lesina da calzolaio.

Scoppiò in una gran risata e ci lasciò. Lo seguii e, raggiuntolo alla svolta di una via, passai alla sua sinistra e gli vibrai un colpo di pugnale con tutta la forza del braccio. Ma mi sentii respinto con altrettanta forza quanta ne avevo messa a colpire; e Don Cristobal, voltandosi con gran sangue freddo, mi disse:

• Straccione, non sai che porto una corazza?

Poi mi prese per la collottola e mi gettò nel fossatello. Ma per questa volta fui contento di esserci e che mi fosse stato risparmiato un assassinio. Mi rialzai con una specie di sollievo. Quella sensazione mi accompagnò fino al mio letto, e la notte trascorse più tranquilla della precedente.

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Al mattino le dame mi trovarono più calmo del giorno prima e se ne rallegrarono; ma non osai passare la sera con loro; temevo l’uomo che avevo voluto assassinare e pensavo che non avrei osato guardarlo in faccia. Trascorsi la serata passeggiando per le strade, arrabbiandomi moltissimo al pensiero del lupo che si era introdotto nel mio ovile.

A mezzanotte, andai al ponte e battei le mani; apparvero i cavalli neri; montai su quello che mi era destinato e seguii la mia guida fino alla casa di Don Belial. Le porte si aprirono da sole; il mio protettore mi venne incontro e mi condusse al braciere come l’altra volta.

• Ebbene! - mi disse con tono un po’ canzonatorio – ebbene! mio cavaliere, l’assassinio non è riuscito: fa lo stesso, si terrà conto dell’intenzione; per di più, abbiamo pensato noi a sbarazzarvi di un rivale così fastidioso. Sono state denunciate le indiscrezioni di cui si rendeva colpevole, e adesso è nella stessa prigione del padre della signora Santarez. Dipenderà dunque soltanto da voi mettere a profitto la vostra buona fortuna, un po’ meglio di quanto non abbiate fatto finora. Gradite il regalo di questa bomboniera, che contiene delle pasticche di una formula eccellente; offritele alle vostre dame e mangiatene voi stesso.

Presi la bomboniera, che emanava un gradevole profumo, e poi dissi a Don Belial:

• Non so bene che cosa intendiate per «mettere a profitto la mia buona fortuna». Sarei un mostro se abusassi della fiducia di una madre e dell’innocenza delle sue figlie; non sono così perverso come voi sembrate supporre.

• Non vi credo né più né meno cattivo – disse Don Belial – di quanto non lo siano tutti i figli di Adamo. Hanno degli scrupoli prima di commettere il delitto, e dei rimorsi dopo; e così si illudono di essere ancora un po’ attaccati alla virtù; ma potrebbero risparmiarsi questi sentimenti spiacevoli se volessero soltanto indagare che cos’è la virtù, qualità ideale di cui ammettono senza esame l’esistenza; e questo appunto deve collocarla nel numero dei pregiudizi, che sono delle opinioni ammesse senza un giudizio preliminare.

• Signor Don Belial, - risposi al mio protettore – mio padre mi aveva messo nelle mani il suo sessantaseiesimo volume, che trattava della morale. Secondo lui, il pregiudizio non era un’opinione ammessa senza un giudizio preliminare, ma un’opinione già giudicata prima che noi nascessimo e trasmessa come per eredità. Le abitudini dell’infanzia gettano nel nostro animo quel primo seme, l’esempio lo sviluppa, la conoscenza delle leggi lo rafforza; se noi vi ci conformiamo, siamo persone oneste; se facciamo più di quanto le leggi non comandino, siamo uomini virtuosi.

• Questa definizione, - disse Don Belial – non è cattiva, e fa onore a vostro padre; scriveva bene e pensava ancora meglio, forse voi farete come lui. Ma torniamo alla vostra definizione. Convengo con voi che i pregiudizi siano opinioni già giudicate; ma non è una ragione per non giudicare di nuovo quando il giudizio sia già formulato. Un’intelligenza curiosa di approfondire le cose sottoporrà i pregiudizi a un

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esame e indagherà anche se le leggi siano ugualmente obbligatorie per tutti. Infatti voi noterete che l’ordine legale sembra esser stato inventato a solo vantaggio di quei caratteri freddi e pigri che si ripromettono i piaceri dal matrimonio e il benessere dall’economia e dal lavoro. Ma i bei talenti, i caratteri ardenti, avidi d’oro e di piaceri, che vorrebbero divorare gli anni, per questi che cos’ha fatto l’ordine sociale? Dovrebbero passare la vita in prigione o finirla tra i supplizi. Per fortuna le istituzioni umane non sono realmente quelle che sembrano. Le leggi sono delle barriere: bastano per stornare i passanti; ma quelli che vogliono veramente superarle, ci passano sopra o sotto. E’ un argomento che mi porterebbe troppo lontano; si fa tardi. Addio, mio cavaliere; fate uso della bomboniera e contate sempre sulla mia protezione.

Presi congedo dal signor Don Belial e tornai a casa. Mi fu aperta la porta, raggiunsi il mio letto e cercai di addormentarmi. La bomboniera era su un comodino; emanava un profumo delizioso. Non potei resistere alla tentazione: mangiai due pasticche, mi addormentai e passai una notte agitatissima.

Alla solita ora arrivarono le mie giovani amiche. Notarono nel mio sguardo qualche cosa di singolare: e davvero io le vedevo con altri occhi; tutti i loro movimenti mi sembravano moine fatte apposta per piacermi; la stessa interpretazione davo ai loro discorsi più indifferenti; tutto in loro attirava la mia attenzione e mi faceva immaginare cose alle quali prima non avevo pensato.

Zorilla trovò la bomboniera; mangiò due pasticche e ne offrì a sua sorella. Subito quel che mi era parso di vedere, prese realtà: le due sorelle furono dominate da un qualche impulso interno e vi si abbandonarono senza conoscerlo; esse stesse ne furono spaventate e mi lasciarono con un resto di timidezza che aveva qualche cosa di selvaggio.

Entrò la madre: da quando l’avevo salvata dai creditori, aveva preso con me dei modi affettuosi; per qualche momento le sue carezze mi calmarono, ma, ben presto, la vidi con gli stessi occhi con cui vedevo le figlie. Si accorse di cosa mi stava succedendo e ne rimase confusa. I suoi sguardi, cercando di evitare i miei, caddero sulla fatale bomboniera; vi prese qualche pasticca e se ne andò. Tornò poco dopo, mi accarezzò ancora, mi chiamò figlio suo e mi strinse tra le braccia. Mi lasciò molto a malincuore e facendo un grande sforzo su se stessa. Il turbamento dei miei sensi raggiunse il furore: nelle vene sentivo circolare il fuoco, a malapena riuscivo a vedere gli oggetti intorno a me, una nebbia mi copriva la vista.

Mi avviai verso la terrazza: la porta delle fanciulle era socchiusa, non potei trattenermi dall’entrare; il disordine dei loro sensi era più grande del mio e mi spaventò. Volli strapparmi alle loro braccia, ma non ne ebbi la forza. Entrò la madre; il rimprovero si spense sulla sua bocca, e subito dopo perse il diritto di farcene.

La bomboniera era vuota, le pasticche esaurite, ma i nostri sguardi e i nostri sospiri sembravano ancora voler rianimare le fiamme spente. I nostri pensieri si nutrivano di ricordi criminosi e i nostri languori avevano le loro colpevoli delizie.

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E’ proprio del delitto soffocare i sentimenti naturali. La signora Santarez, abbandonata ai suoi desideri sfrenati, dimenticava che il padre languiva in una prigione e che forse la sentenza di morte era stata già pronunciata. Se lei non ci pensava, io ci pensavo ancora meno.

Ma una sera vidi entrare da me un uomo accuratamente avvolto nel suo mantello, cosa che mi causò qualche spavento; né fui troppo rassicurato al vedere che, per nascondersi meglio, si era anche messo una maschera. Il misterioso personaggio mi fece segno di accomodarmi, si sedette anche lui, e mi disse:

• Signor Hervas, mi pare che voi abbiate un legame con la signora Santarez; voglio confidarvi quanto la riguarda, e poiché la cosa è seria mi sarebbe penoso trattarne con una donna. La signora Santarez aveva concesso la sua fiducia a uno stordito di nome Cristobal Sparadoz. Costui è oggi nella stessa prigione in cui si trova il signor Goranez, padre della suddetta dama. Quel folle credeva di avere in mano il segreto di certi uomini potenti; ma di questo segreto sono io il solo depositario ed eccolo in poche parole. Fra otto giorni, una mezz’ora dopo il tramonto, passerò davanti a questa porta e dirò tre volte il nome del detenuto, Goranez, Goranez, Goranez. Alla terza volta mi darete una borsa di tremila doppie. Il signor Goranez non è più a Segovia, ma in una prigione di Madrid. La sua sorte sarà decisa prima della mezzanotte di quella sera. Ecco quanto vi dovevo dire; il mio incarico è assolto.

E, così detto, l’uomo mascherato si alzò e uscì.

Sapevo o credevo di sapere che la signora Santarez non aveva alcun mezzo pecuniario. Mi proposi dunque di ricorrere a Don Belial. Mi limitai a dire alla mia incantevole ospite che Don Cristobal non veniva più perché era diventato sospetto ai suoi superiori; che anch’io però avevo delle relazioni con certi uffici, e che c’erano buone ragioni di sperare in un completo successo. La speranza di salvare suo padre riempì la signora Santarez della più grande gioia.

A tutti i sentimenti che io già le ispiravo aggiunse anche la riconoscenza. Il dono della sua persona le parve meno criminoso. Le sembrava che un beneficio così grande dovesse assolverla. Nuovi piaceri occuparono ancora tutti i nostri momenti. Me ne strappai una notte per andare a trovare Don Belial.

• Vi attendevo, - mi disse – sapevo bene che i vostri scrupoli non sarebbero durati e i rimorsi ancora meno. Tutti i figli di Adamo sono fatti della stessa pasta; ma non mi aspettavo che vi sareste stancato così presto di piaceri che neppure i re di questo globo, i quali non possiedono la mia bomboniera, hanno mai gustato.

• Ahimè! Signor Belial, - gli risposi – una parte di quanto dite è fin troppo vera; ma non è vero che la mia situazione mi stanchi: temo anzi che se dovesse finire, la vita per me non avrebbe più interesse.

• Tuttavia siete venuto a chiedermi tremila doppie per salvare il signor Goranez, il quale dopo la sua grazia, prenderà con sé figlia e nipoti: egli ha già disposto per il loro matrimonio con due impiegati del suo ufficio. Vedrete nelle braccia di quei felici sposi due creature deliziose che vi avevano sacrificato la loro

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innocenza e che, come prezzo di una simile offerta, non chiedevano che una parte dei piaceri di cui voi eravate il centro. Ispirate più dall’emulazione che dalla gelosia, ciascuna di loro era felice del piacere che vi dava e godeva senza invidia di quello che voi dovevate all’altra. La madre, più sapiente e non meno appassionata, poteva, grazie alla mia bomboniera, vedere senza disappunto la felicità delle figlie. Dopo momenti simili, che cosa farete per tutto il resto della vita? Andrete a ricercare i legittimi piaceri del matrimonio o a sospirare per un po’ di sentimento presso qualche donnina allegra, la quale non potrà promettervi neppure l’ombra delle voluttà che nessun mortale prima di voi ha conosciuto?

Poi Don Belial, cambiando tono, mi disse:

• Ma no, ho torto; il padre della signora Santarez è realmente innocente ed è in vostro potere salvarlo; il piacere di fare una buona azione deve prevalere su tutti gli altri.

• Signore, parlate con gran freddezza delle buone azioni e con gran calore dei piaceri che, dopo tutto sono quelli del peccato. Si direbbe che desideriate la mia perdizione eterna. Sono tentato di credere che voi siate...

Don Belial non mi lasciò finire.

• Io sono – mi disse – uno dei più importanti membri di una potente associazione il cui scopo è di rendere gli uomini felici guarendoli dai vani pregiudizi che essi succhiano col latte della nutrice e che poi li intralciano in tutti i loro desideri. Abbiamo pubblicato dei libri ottimi dove dimostriamo a meraviglia che l’amore di sé è il principio di tutte le azioni umane, e che la dolce pietà, l’affetto filiale, l’amore tenero e ardente, la clemenza dei re, sono altrettante raffinatezze dell’egoismo. Ora, se l’amore di se stessi è il movente di ogni nostra azione, il compimento dei nostri desideri ne deve essere il fine naturale. I legislatori l’hanno capito perfettamente. Hanno fatto le leggi in modo che potessero essere eluse, e gli interessati a ciò non mancano certo.

• Ma come! - gli dissi – signor Belial, non considerate il giusto e l’ingiusto come delle qualità reali?

• Sono delle qualità relative. Ve lo farò capire con l’aiuto di una favola:

Dei piccolissimi insetti si arrampicavano sulla cima di alcune erbe alte. Uno di loro disse agli altri: «Vedete quella tigre sdraiata vicino a noi? E’ il più mite degli animali, non ci fa mai del male.

La pecora invece è un animale feroce; se ne arrivasse una, ci divorerebbe insieme all’erba che ci serve di asilo: ma la tigre è giusta, ci vendicherebbe».

Ne potete dedurre, signor Hervas, che tutte le idee sul giusto e l’ingiusto, sul bene e il male, sono relative e nient’affatto assolute o generali. Sono d’accordo con voi che esiste una specie di stupida soddisfazione, legata alle cosiddette buone azioni. Ne troverete certo se salverete il buon signor Goranez, accusato ingiustamente. Non dovete esitare a farlo se siete stanco di vivere con la sua famiglia. Rifletteteci, ne

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avete il tempo. Il denaro dev’essere consegnato sabato, mezz’ora dopo il tramonto. Venite qui la notte tra venerdì e sabato, le tremila doppie saranno pronte a mezzanotte precisa. Addio, gradite ancora questa bomboniera.

Tornai a casa e, cammin facendo, mangiai qualche pasticca. La signora Santarez e le figlie mi aspettavano ancora alzate. Volli parlare del prigioniero: non me ne diedero il tempo... Ma perché rivelare tanti vergognosi misfatti? Vi basterà sapere che, in balìa a desideri sfrenati, non eravamo più in grado di misurare il tempo e di contare i giorni; il prigioniero fu completamente dimenticato.

Il sabato stava per finire: il sole, tramontato dietro le nuvole, mi parve gettasse nel cielo riflessi di sangue. Improvvisi lampi mi facevano trasalire: cercavo di ricordarmi la mia ultima conversazione con Don Belial. A un tratto, sento una voce fonda e sepolcrale ripetere tre volte: Goranez, Goranez, Goranez.

• Giusto cielo! - gridò la signora Santarez – è uno spirito del cielo o dell’inferno; mi avverte che mio padre non è più! Avevo perso conoscenza; quando rinvenni, mi avviai verso il Mançanarez per fare un ultimo tentativo con Don Belial. Degli alguazil mi arrestarono e mi condussero in un quartiere a me del tutto sconosciuto, e in una casa non meno sconosciuta ma che riconobbi subito per una prigione. Mi misero i ferri e mi fecero entrare in un oscuro sotterraneo.

• Sei il giovane Hervas? - mi disse il mio compagno di sventura.

• Sì, - gli risposi – sono Hervas, e dalla voce riconosco che sei Cristobal Sparadoz. Hai notizie di Goranez? Era innocente?

• Lo era; - disse Don Cristobal – ma il suo accusatore aveva ordito una trama così sottile da metter nelle mani di Goranez stesso la sua perdita o la sua salvezza. Gli chiedeva tremila doppie: Goranez non ha potuto procurarsele e proprio adesso si è strangolato nella cella.

Anche a me è stata data la possibilità di strangolarmi o di passare il resto della vita al castello di Laroche, sulla costa africana. Ho scelto la seconda alternativa e mi riprometto di scappare appena possibile e di farmi maomettano. In quanto a te, amico mio, subirai una tortura speciale per farti confessare cose di cui non hai la minima idea: ma la tua relazione con la signora Santarez fa supporre che tu sappia tutto e sia complice di suo padre.

Si provi a immaginare un uomo con l’anima e il corpo ugualmente fiaccati dalla voluttà, e quest’uomo minacciato dagli orrori di un supplizio crudele e prolungato! Mi parve già di provare gli strazi della tortura, mi si drizzarono i capelli in testa; un brivido di terrore penetrò nelle mie membra, le quali non obbedirono più alla mia volontà, ma a dei moti subitanei e convulsi.

Un carceriere entrò nella cella a prendere Sparadoz. Questi, andandosene mi gettò un pugnale; non ebbi la forza di raccoglierlo, ancora meno avrei avuto quella di pugnalarmi. La mia disperazione era tale che la morte stessa non poteva darmi pace.

• O Belial! - esclamai – Belial! So bene chi sei, eppure io ti invoco!

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• Eccomi, - gridò lo spirito immondo – raccogli quel pugnale, fai colare il tuo sangue e firma la carta che ti porgo.

• Ah! Mio buon angelo, - gridai allora – mi hai proprio abbandonato?

• Troppo tardi lo invochi! - urlò Satana arrotando i denti e vomitando fiamme.

E nello stesso tempo m’impresse il suo sigillo sulla fronte. Provai un dolore cocente e svenni, o piuttosto caddi in estasi.

Un’improvvisa luce rischiarò la cella; un cherubino dalle ali splendenti mi porse uno specchio e mi disse:

• Vedi sulla tua fronte il Tau rovesciato; è il marchio dell’abiezione; lo vedrai su altri peccatori, ne riporterai dodici sulla via della salvezza e vi ritornerai tu stesso: prendi questo abito da pellegrino e seguimi.

Mi svegliai o credetti di svegliarmi: e realmente non ero più nella prigione ma sulla grande strada che conduce in Galizia; ero vestito da pellegrino.

Poco dopo passò una compagnia di pellegrini. Andavano a San Giacomo di Compostella; mi unii a loro e feci il giro di tutti i luoghi santi di Spagna. Volevo recarmi in Italia a visitare Loreto. Trovandomi nelle Asturie, presi la strada che passa per Madrid e, arrivato in questa città, andai al Prado e cercai la casa della signora Santarez.

Non riuscii a ritrovarla, benché riconoscessi tutte quelle del vicinato. Quei sortilegi mi provarono che ero ancora sotto il potere di Satana, e non osai spingere oltre le mie ricerche.

Visitai qualche chiesa, poi andai al Buen-Retiro. Il giardino era del tutto deserto. Scorsi soltanto un uomo seduto su una panchina. La grande croce di Malta ricamata sul mantello mi fece capire che era uno dei più importanti membri dell’ordine. Sembrava meditabondo, immobile anzi e come sprofondato nelle proprie riflessioni.

Avvicinandomi di più, mi parve di vedere sotto i suoi piedi un abisso in cui il suo volto si rifletteva rovesciato, come nell’acqua; ma qui l’abisso sembrava pieno di fuoco.

Quando mi accostai di più, l’illusione scomparve; ma osservando quell’uomo, vidi che portava in fronte il Tau rovesciato, quel marchio dell’abiezione che il cherubino mi aveva mostrato nello specchio sulla mia fronte.

Mi fu facile capire che mi trovavo in presenza di uno dei dodici peccatori che dovevo ricondurre sulla via della salvezza. Cercai di ottenere la sua fiducia: ci riuscii quando fu convinto che il mio scopo non era vana curiosità. Era necessario che mi raccontasse la sua storia. Gliela chiesi, ed egli la cominciò così.

NOTE:

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(1) Contabile.

(2) Hervas è morto intorno al 1660; le sue conoscenze di fisica non potevano che essere molto limitate; si riconosce qui l’acido base di Paracelso [nota all’edizione del 1813].

Storia del

commendatore di Toralva

Sono entrato nell’ordine di Malta prima di essere uscito dall’infanzia, accolto, come si dice, nella pagerie. Le protezioni che avevo a corte mi ottennero il comando di una galera a venticinque anni; e poiché l’anno seguente il Gran Maestro entrò in donnaison, mi conferì la migliore commenda della terra d’Aragona. Potevo perciò, e posso ancora, ambire alle supreme cariche dell’ordine. Ma poiché ci si arriva soltanto a un’età avanzata, e nell’attesa non avevo proprio niente da fare, seguii l’esempio dei nostri primi gran commendatori, che forse avrebbero dovuto darmene uno migliore. In una parola, occupai il mio tempo a fare all’amore, cosa che allora consideravo come un peccato tra i più veniali; e piacesse al cielo che non ne avessi commessi di più gravi! Quel che ho da rimproverarmi è un colpevole impeto di collera che mi ha fatto sfidare ciò che la nostra religione ha di più sacro; non posso pensarci senza terrore; ma non anticipiamo.

Voi saprete che a Malta abbiamo alcune famiglie nobili dell’isola che non entrano nell’ordine e non hanno alcuna relazione con i cavalieri di qualsiasi rango, riconoscendo soltanto il Gran Maestro, che è il loro sovrano, e il Capitolo, che è il suo consiglio.

Dopo questa classe ne viene una media di persone che esercitano i vari impieghi e che cercano la protezione dei cavalieri. Le dame di questa classe stanno per conto loro e sono designate, in italiano, col nome di onorate. E certamente lo meritano per la loro condotta irreprensibile e, se devo proprio dirvi tutto, per il mistero di cui circondano i loro amori.

Una lunga esperienza ha dimostrato alle dame onorate che il mistero era incompatibile con il carattere dei cavalieri francesi, o almeno che era rarissimo vedere la discrezione riunita a tutte le belle qualità che li distinguono. Ne è risultato che i giovani di quella nazione, abituati dovunque a brillanti successi con il bel sesso, a Malta devono limitarsi alle prostitute.

I cavalieri tedeschi, del resto poco numerosi, sono i preferiti dalle onorate, e credo che lo debbano al loro colorito bianco e roseo. Poi vengono gli Spagnoli, e probabilmente lo dobbiamo al nostro carattere, che passa per essere, e con ragione, onesto e fidato.

I cavalieri francesi, e soprattutto i Caravanistes, (1) si vendicano delle onorate prendendosi gioco di loro in tutti i modi, e specialmente svelandone gli intrighi segreti. Ma poiché formano un gruppo a sé e non si curano di imparare l’italiano, che è la lingua del paese, tutte le loro chiacchiere non fanno grande impressione.

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Vivevamo dunque in pace, come pure le nostre onorate, quando un vascello francese ci portò il commendatore di Foulequère, dell’antica famiglia dei siniscalchi di Poitou, discendenti dei conti di Angoulême. Costui era già stato altre volte a Malta e vi aveva sempre avuto delle questioni d’onore. Questa volta, veniva a sollecitare il generalato delle galere. Aveva superato i trentacinque anni e perciò ci si aspettava di trovarlo più posato. Infatti il commendatore non era più attaccabrighe e chiassoso come una volta; ma altezzoso, imperioso, e persino beffardo, tanto da pretendere una considerazione maggiore che se fosse stato il Gran Maestro in persona.

Il commendatore aprì casa: i cavalieri francesi vi si affollavano.

Noi ci andavamo poco, e finimmo per non andarci del tutto, poiché vi trovavamo una conversazione che verteva su argomenti a noi sgradevoli, e fra gli altri sulle onorate, che amavamo e rispettavamo.

Quando il commendatore usciva, lo si vedeva attorniato di giovani Caravanistes. Spesso li conduceva nella Via stretta, mostrava loro i punti dove si era battuto e raccontava le circostanze dei suoi duelli. E’ bene dirvi che, secondo le nostre usanze, il duello è proibito a Malta, tranne che nella Via stretta, una viuzza su cui non si apre nessuna finestra; è larga solo quanto basta perché due uomini possano mettersi in guardia e incrociare le spade. I duellanti non possono indietreggiare. Si mettono di traverso nella via e i loro amici fermano i passanti e fanno in modo che essi non siano disturbati. Quest’uso è stato introdotto in altri tempi per impedire gli assassinii; chi crede infatti di avere un nemico non passa per la Via stretta, e se l’assassinio viene commesso altrove, non si può più farlo ritenere un duello. D’altronde c’è la pena di morte per chi venga nella Via stretta armato di pugnale. Perciò il duello a Malta non solo è tollerato, ma è anzi permesso. Tuttavia questo permesso è per così dire tacito e, lungi dall’abusarne, se ne parla con una specie di vergogna, come di un’offesa alla carità cristiana e di qualcosa di sconveniente nella sede di un ordine monastico.

Le passeggiate del commendatore nella Via stretta erano quindi del tutto inopportune. Ebbero il pessimo effetto di rendere i Caravanistes francesi molto litigiosi, cosa a cui tendevano già abbastanza per conto loro.

Quelle brutte maniere andarono via via aumentando. I cavalieri spagnoli si fecero ancora più riservati; alla fine costoro si radunarono da me e mi chiesero che cosa si potesse fare per metter fine a una petulanza che diventava veramente intollerabile.

Ringraziai i miei compatrioti dell’onore che mi facevano accordandomi la loro fiducia e promisi di parlare al commendatore presentandogli la condotta dei giovani francesi come un abuso di cui lui solo poteva arrestare i progressi, e ciò in virtù della grande considerazione e del rispetto che egli godeva presso i tre gruppi di diversa lingua del suo paese. Mi ripromettevo di usare in questa spiegazione tutti i riguardi possibili, ma non speravo che potesse finire senza un duello; tuttavia, poiché il motivo di quel singolare combattimento mi faceva onore, non mi dispiaceva troppo di affrontarlo. Insomma, credo che mi lasciai trascinare da una certa antipatia che avevo per il commendatore.

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Si era allora nella settimana santa, e fu deciso che il mio incontro con il commendatore sarebbe avvenuto soltanto una quindicina di giorni dopo. Credo che egli ebbe notizia di quanto era successo in casa mia e che volesse prevenirmi attaccando lite.

Arrivammo al venerdì santo: voi sapete che, secondo l’uso spagnolo, se ci si interessa a una donna, la si segue in questo giorno di chiesa in chiesa per porgerle l’acqua benedetta. Lo si fa in parte per gelosia, nel timore che la offra un altro e colga così l’occasione per far conoscenza. Quest’uso spagnolo si era introdotto a Malta e perciò io seguivo una giovane onorata alla quale ero legato da molti anni; ma nella prima chiesa in cui essa entrò, il commendatore l’avvicinò prima di me e si interpose fra noi, voltandomi la schiena e indietreggiando ogni tanto per camminarmi sui piedi, cosa che fu notata.

All’uscita dalla chiesa, abbordai il mio uomo con aria indifferente e come se volessi parlare del più e del meno. Poi gli domandai in quale chiesa contava di andare: me la nominò. Mi offrii di mostrargli la via più breve e, senza che se ne accorgesse, lo condussi nella Via stretta. Arrivati lì, trassi la spada, ben certo che nessuno ci avrebbe disturbato in un giorno come quello, in cui tutti erano in chiesa.

Anche il commendatore sguainò la spada, ma ne abbassò la punta:

• Come! - mi disse – il venerdì santo!

Non volli sentir ragione.

• Ascoltate, - mi disse – sono più di sei anni che non ho fatto le mie devozioni: ho paura dello stato della mia coscienza. Fra tre giorni...

Io sono d’indole tranquilla, e voi sapete che le persone di tale carattere, una volta punte sul vivo, non sentono più ragione.

Obbligai il commendatore a mettersi in guardia; ma non so quale terrore si dipingeva sui suoi tratti. Si addossò al muro come se, prevedendo di essere atterrato, cercasse già un appoggio. Infatti alla prima stoccata lo trapassai da parte a parte. Abbassò la punta, si appoggiò contro il muro, e disse con un soffio di voce:

• Io vi perdono; possa perdonarvi il Cielo! Portate la mia spada a Tête-Foulque e fate dire cento messe nella cappella del castello.

E spirò. Al momento non feci una grande attenzione alle sue ultime parole, e se le ricordo è perché le ho sentite ripetere in seguito.

Feci il mio rapporto nella forma consueta. Posso dire che, davanti agli uomini, quel duello non mi fece nessun torto. Foulequère era odiato, e tutti ritennero che si fosse ben meritato la sua sorte; ma davanti a Dio il mio atto mi parve colpevolissimo, soprattutto per la mancanza dei sacramenti, e la coscienza mi moveva dei crudeli rimproveri. Tutto questo durò otto giorni.

Nella notte tra il venerdì e il sabato, fui svegliato di soprassalto e, guardando intorno, mi parve di trovarmi non nella mia stanza ma in mezzo alla Via stretta, steso

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sul selciato. Ero stupito di esserci quando vidi distintamente il commendatore addossato al muro. Lo spettro sembrò fare uno sforzo per parlare e mi disse:

• Portate la mia spada a Tête-Foulque e fate dire cento messe nella cappella del castello.

Non appena ebbi sentito queste parole caddi in un sonno letargico.

Il giorno dopo mi svegliai nella mia stanza e nel mio letto, ma avevo conservato nitido il ricordo della visione.

La notte seguente feci coricare un servo in camera mia e non vidi niente; così pure le notti successive. Ma in quella tra il venerdì e il sabato ebbi ancora la stessa visione, con la differenza che scorsi il servo steso sul selciato a qualche passo da me. Mi apparve lo spettro del commendatore e mi disse le stesse cose. E così fu in seguito tutti i venerdì. Il mio valletto, a sua volta, sognava di essere coricato nella Via stretta, ma non vedeva né sentiva il commendatore.

In un primo tempo non sapevo che cosa fosse Tête-Foulque, dove il commendatore voleva che portassi la sua spada: alcuni cavalieri di Poitiers m’informarono che si trattava di un castello a tre leghe dalla loro città, nel cuore di una foresta; che se ne raccontavano cose strane da quelle parti e vi si vedevano anche molti oggetti curiosi, come l’armatura di Foulque-Taillefer e le armi dei cavalieri da lui uccisi; era anzi consuetudine nella famiglia dei Foulequère di deporvi le armi che erano loro servite sia in guerra sia nei duelli.

Tutto ciò m’interessava; ma bisognava che pensassi alla mia coscienza.

Andai a Roma e mi confessai al gran penitenziere. Non gli nascosi la visione da cui ero sempre ossessionato. Egli non mi rifiutò l’assoluzione, ma me la diede condizionata alla penitenza fatta. Le cento messe al castello di Tête-Foulque ne facevano parte; ma il cielo accettò l’offerta, e, dal momento della confessione, cessai di essere ossessionato dallo spettro del commendatore. Da Malta avevo portato con me la sua spada e, non appena mi fu possibile, presi la strada della Francia.

Arrivato a Poitiers, trovai che la gente era informata della morte del commendatore e che egli non vi era più rimpianto che a Malta.

Lasciai in città il mio bagaglio, indossai un abito da pellegrino e presi una guida; a Tête-Foulque conveniva andare a piedi, e d’altronde la strada non era praticabile alle vetture.

Trovammo chiusa la porta del torrione; a lungo suonammo la campana, e finalmente comparve il castellano: era l’unico abitante di Tête-Foulque insieme a un eremita che attendeva al servizio della cappella e che trovammo in preghiera. Quando questi ebbe finito, gli dissi che ero venuto a chiedergli cento messe. Nello stesso tempo deposi la mia offerta sull’altare. Volli lasciarvi anche la spada del commendatore, ma il castellano mi disse che bisognava metterla nell’armeria, o sala d’armi, insieme a tutte le spade dei Foulequère morti in duello e di quelli da loro stessi uccisi; tale era l’uso consacrato. Seguii il castellano nell’armeria, dove infatti trovai spade di tutte le

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misure, come pure dei ritratti, a cominciare da quello di Foulque-Taillefer, conte di Angoulême, il quale fece costruire Tête-Foulque per un suo figlio bastardo, che fu siniscalco di Poitou e capostipite dei Foulequère di Tête-Foulque.

I ritratti del siniscalco e di sua moglie, posti ai due lati di un grande camino nell’angolo dell’armeria, erano di un grande verismo.

Anche gli altri ritratti erano ben dipinti, sebbene nello stile del tempo; ma nessuno faceva un effetto così sorprendente come quello di Foulque-Taillefer. Egli era raffigurato con un giustacuore di bufalo e la spada in mano, mentre afferrava lo scudo che uno scudiero gli porgeva. Quasi tutte le spade erano appese ai piedi di questo ritratto, dove formavano una specie di fascio.

Pregai il castellano di accendere il fuoco in quella sala e di portarvi la mia cena.

• In quanto alla cena, - mi rispose – sono d’accordo; vi propongo, però, mio caro pellegrino, di dormire in camera mia.

Chiesi il motivo di questa precauzione.

• Lo so io, - rispose il castellano – e vi preparerò un letto vicino al mio.

Accettai la sua proposta con tanto più piacere in quanto eravamo di venerdì e temevo un ritorno della mia visione.

Il castellano andò a occuparsi della mia cena e io mi misi a esaminare le armi e i ritratti. Questi, come ho detto, erano dipinti con grande verismo. A mano a mano che il giorno finiva, le tappezzerie di colore cupo si confusero, nell’ombra, con lo sfondo scuro dei quadri, e il fuoco del camino lasciava distinguere soltanto i volti: v’era in ciò qualcosa che intimoriva, o forse mi parve così perché lo stato della mia coscienza mi teneva in una paura continua.

Il castellano portò la cena, che consisteva in un piatto di trote pescate in un torrente vicino. Ebbi anche una bottiglia di vino abbastanza buono. Volevo che l’eremita sedesse a tavola con me, ma viveva solo di erbe cotte nell’acqua.

Sono sempre stato scrupoloso nella lettura del breviario, che è d’obbligo, almeno in Spagna, per i cavalieri professi. Lo tirai fuori perciò dalla tasca insieme al rosario e dissi al castellano che, non avendo ancora sonno, sarei rimasto a pregare fino a notte più avanzata, e che avrebbe dovuto solo mostrarmi la mia stanza.

• Sta bene; - mi rispose – a mezzanotte l’eremita verrà a dire le preghiere nella cappella attigua; scenderete allora questa scaletta e non potrete sbagliare a trovare la mia stanza, di cui lascerò la porta aperta. Non restate qui dopo mezzanotte.

Il castellano se ne andò. Cominciai a pregare e ogni tanto mettevo qualche ceppo sul fuoco. Ma non osavo troppo guardarmi in giro perché mi sembrava che i ritratti si animassero. Se ne fissavo uno per qualche istante, mi pareva che strizzasse gli occhi e torcesse la bocca, soprattutto il siniscalco e sua moglie che stavano ai due lati del camino. Credetti di vederli che mi gettavano occhiate piene di corruccio e si guardavano poi l’un l’altro. Il vento che si era alzato aumentò i miei terrori in quanto

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non solo faceva tremare i vetri ma agitava il fascio d’armi, e io trasalivo a quel rumore di ferri sbattuti. Intanto pregavo con fervore.

Finalmente sentii l’eremita salmodiare e, quand’ebbe finito, scesi la scala per raggiungere la stanza del castellano. Avevo in mano un mozzicone di candela, il vento lo spense e io risalii per riaccenderlo. Ma quale non fu la mia meraviglia nel vedere il siniscalco e la siniscalca scesi dai loro quadri e seduti accanto al fuoco! Parlavano familiarmente e si poteva sentire il loro discorso.

• Amica mia, - diceva il siniscalco – che vi sembra di codesto castigliano che ha il commendatore anciso senza elargirgli confessione?

• Mi sembra, - rispose lo spettro femminile – mi sembra, amor mio, esserci in questo fatto fellonia e malvagità. Epperciò reputo che messer Taillefer non lascerà il castigliano dal castello partire senza il guanto gettargli.

Atterrito, mi slanciai verso la scala, cercai a tentoni la porta del castellano e non riuscii a trovarla. Tenevo sempre in mano la candela spenta. Pensai di riaccenderla e mi rassicurai un po’; tentai di convincermi che le due figure viste davanti al camino erano esistite solo nella mia fantasia. Risalii la scala e, fermandomi sulla porta dell’armeria, constatai che infatti le due figure non erano accanto al fuoco, dove mi era parso di vederle. Entrai allora coraggiosamente, ma avevo appena fatto qualche passo che vidi in mezzo alla sala messer Taillefer, in guardia, che mi presentava la punta della spada. Volli tornare sulla scala ma la porta era ostruita da una figura di scudiero che mi gettò una manopola. Non sapendo più che cosa fare, afferrai una spada dal fascio d’armi e mi buttai sul mio fantomatico avversario. Mi parve di averlo tagliato in due, ma subito ricevetti una stoccata sotto il cuore che mi bruciò come un ferro rovente. Il mio sangue inondò la sala e svenni.

Il mattino dopo mi svegliai nella camera del castellano. Questi, non vedendomi arrivare, aveva preso dell’acqua benedetta ed era venuto a cercarmi. Mi aveva trovato steso sul pavimento, privo di sensi ma senza nessuna ferita. Quella che avevo creduto di ricevere non era che un’allucinazione. Il castellano non fece domande e mi consigliò solo di lasciare il castello.

Partii e mi diressi verso la Spagna. Impiegai otto giorni fino a Bayonne. Vi giunsi un venerdì e presi alloggio in una locanda. Nel cuore della notte mi svegliai di soprassalto e vidi davanti al mio letto messer Taillefer che mi minacciava con la spada. Feci il segno della croce e lo spettro sembrò dileguarsi in fumo. Ma sentii la stessa trafittura che avevo creduto di ricevere al castello di Tête-Foulque. Ebbi la sensazione di essere immerso nel mio sangue.

Volli chiamare e lasciare il letto, ma l’una e l’altra cosa mi erano impossibili. Quell’angoscia inesprimibile durò fino al primo canto del gallo. Allora mi riaddormentai; ma il giorno dopo ero ammalato e in uno stato da far pietà. Ho avuto la stessa visione tutti i venerdì. Gli atti di devozione non hanno potuto liberarmene. La malinconia mi condurrà alla tomba, dove scenderò senza essermi liberato dal

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potere di Satana. Un resto di speranza nella misericordia divina mi sostiene ancora e mi fa sopportare le mie disgrazie.

Il commendatore di Toralva era un uomo religioso. Benché avesse fatto torto alla religione battendosi senza consentire all’avversario di mettersi in ordine colla sua coscienza, mi fu facile fargli capire che, se voleva veramente liberarsi dalle ossessioni di Satana, doveva visitare i luoghi santi, che nessun peccatore cercherà mai senza trovarvi i conforti della grazia.

Toralva si lasciò persuadere facilmente. Abbiamo visitato insieme i luoghi santi della Spagna. Poi siamo passati in Italia: abbiamo visto Loreto e Roma. Il gran penitenziere gli ha dato non più soltanto l’assoluzione condizionata, ma quella totale, e accompagnata dall’indulgenza papale. Toralva, completamente liberato, è tornato a Malta e io sono venuto a Salamanca.

NOTE:

(1) Giovani cavalieri, così detti perché partecipavano alle spedizioni contro i Turchi al fine di depredare i convogli (caravanes) che navigavano fra Alessandria e Costantinopoli.

Storia di Leonora

e della duchessa d’Avila

Il cavaliere di Toledo, diventato gran commendatore e sottopriore di Castiglia, lasciò Malta investito dalle nuove dignità, e mi invitò a fare con lui un giro attraverso l’Italia; vi acconsentii molto volentieri. Ci imbarcammo per Napoli dove giungemmo senza incidenti.

Non ne saremmo partiti molto presto se per le belle dame fosse stato così facile trattenere l’amabile Toledo quanto lo era per lui lasciarsi prendere ai loro lacci; ma la sua suprema abilità era di abbandonare le belle senza che avessero neppure il coraggio di offendersi. Lasciò dunque i suoi amori di Napoli per provare nuove catene, successivamente a Firenze, Milano, Venezia e Genova. Solo l’anno seguente arrivammo a Madrid.

Il giorno stesso del suo arrivo, Toledo andò a rendere omaggio al re; poi prese il più bel cavallo della scuderia del duca di Lerma, suo fratello, a me ne fu dato uno altrettanto bello, e insieme andammo a mescolarci alla schiera di coloro che, al Prado, caracollavano a fianco delle carrozze delle dame.

Un superbo equipaggio colpì i nostri occhi: era una carrozza aperta occupata da due dame in mezzo lutto. Toledo riconobbe la fiera duchessa d’Avila e si affrettò a renderle omaggio. L’altra dama si voltò; egli non la conosceva e parve colpito dalla sua bellezza.

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Quella sconosciuta non era altri che la bella duchessa di Sidonia, la quale aveva appena lasciato il suo ritiro per rientrare in società: essa riconobbe il suo ex prigioniero e si mise un dito sulla bocca per raccomandarmi di tacere; poi rivolse i begli occhi su Toledo che lasciò trasparire, nei suoi, non so quale espressione tra seria e timida che non gli avevo mai visto davanti a nessuna donna.

La duchessa di Sidonia aveva dichiarato che non si sarebbe più sposata, la duchessa d’Avila che non si sarebbe sposata mai: un cavaliere di Malta era proprio quel che ci voleva come compagnia.

Esse fecero i primi approcci con Toledo, che vi accondiscese con la miglior grazia del mondo. La duchessa di Sidonia, senza mostrare di conoscermi, seppe rendermi gradito alla sua amica: formammo così una specie di quartetto che si ritrovava sempre in mezzo al tumulto delle feste. Toledo, amato per la centesima volta nella sua vita, amava per la prima. Io provai a offrire i miei rispettosi servigi alla duchessa d’Avila: ma prima di raccontarvi dei miei rapporti con questa dama, devo dire qualche parola sulla situazione in cui si trovava allora.

Il duca d’Avila, suo padre, era morto durante il nostro soggiorno a Malta; la fine di un ambizioso produce sempre un grande effetto sugli uomini: è una grande caduta, tutti ne rimangono scossi e sorpresi. A Madrid ci si ricordò dell’infanta Beatrice, della sua segreta unione col duca. Si riparlò di un figlio su cui riposavano i destini di quel casato. Tutti si aspettavano che il testamento del defunto potesse dare degli schiarimenti: quest’attesa fu delusa, il testamento non chiarì niente. La corte non ne parlò più; ma l’altera duchessa d’Avila rientrò nel mondo più superba, più sdegnosa e più lontana che mai dall’idea del matrimonio.

Io sono nato in un’ottima famiglia; ma con le idee spagnole, nessuna parità poteva esistere fra la duchessa e me, ed era soltanto come un protetto di cui voleva fare la fortuna che essa poteva degnarsi di tenermi vicino. Toledo era il cavaliere della dolce Sidonia; io ero, per così dire, lo scudiero della sua amica.

Quel grado di schiavitù non mi spiaceva affatto: senza tradire la mia passione, potevo prevenire i desideri di Beatrice, eseguire i suoi ordini, insomma assoggettarmi interamente a tutti i suoi desideri. E mentre servivo la mia sovrana, stavo bene attento che nessuna parola, nessuno sguardo, nessun sospiro tradisse i sentimenti del mio cuore; il timore di offenderla, e più ancora quello di essere bandito dalla sua presenza, mi davano la forza di vincere la mia passione. Durante tutto quel periodo di dolce servaggio, la duchessa di Sidonia non perse l’occasione di mettermi in buona luce presso la sua amica; ma i favori ottenuti per me arrivavano tutt’al più a qualche affabile sorriso che esprimeva soltanto protezione.

Questo durò più di un anno: vedevo la duchessa in chiesa o al Prado; prendevo gli ordini per la giornata, ma non andavo da lei. Un giorno mi fece chiamare; la trovai attorniata dalle sue donne mentre lavorava al telaio. Mi fece sedere e, prendendo un’aria altera, mi disse:

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• Signor Avadoro, farei poco onore al sangue da cui provengo se non usassi il credito di cui gode la mia famiglia per ricompensare gli omaggi che ogni giorno mi rendete: lo stesso mio zio Sorriente me l’ha fatto notare e vi offre un brevetto di colonnello nel reggimento che porta il suo nome: gli farete l’onore di accettare? Pensateci su.

• Signora, - le risposi – ho legato la mia sorte a quella del caro Toledo e chiedo solo gli incarichi che egli otterrà per me. In quanto agli omaggi che ho la fortuna di rendervi tutti i giorni, la loro ricompensa più dolce sarebbe il permesso di continuarli.

La duchessa non rispose e, con un lieve cenno del capo, mi fece segno di andarmene.

Otto giorni dopo fui di nuovo chiamato dall’altera duchessa; mi ricevette come la prima volta e mi disse:

• Signor Avadoro, non posso sopportare che voi vogliate vincere in generosità i d’Avila, i Sorriente e tutti i grandi il cui sangue scorre nelle mie vene; ho da farvi nuove proposte, vantaggiose per il vostro avvenire: un gentiluomo, la cui famiglia è molto legata a noi, ha fatto una grossa fortuna nel Messico, ha un’unica figlia con un milione di dote...

Non lasciai che la duchessa terminasse la frase e, alzandomi con una certa indignazione, le dissi:

• Signora, benché il sangue dei d’Avila e dei Sorriente non scorra nelle mie vene, il cuore che queste nutrono è troppo in alto perché un milione possa raggiungerlo.

Ero sul punto di andarmene, ma la duchessa mi pregò di sedermi di nuovo, ordinò alle sue donne di passare nell’altra stanza e di lasciare la porta aperta, poi mi disse:

• Signor Avadoro, non mi resta da offrirvi che una sola ricompensa, e il vostro zelo per i miei interessi mi fa sperare che non rifiuterete: si tratta di rendermi un servizio importantissimo.

• E veramente, - le risposi – la gioia di servirvi è la sola ricompensa che vi chiederò.

• Avvicinatevi, - mi disse la duchessa – dall’altra stanza potrebbero sentirci. Avadoro, senza dubbio saprete che mio padre è stato lo sposo segreto dell’infanta Beatrice, e forse vi avranno detto, con grande mistero, che ne aveva avuto un figlio; in realtà egli stesso aveva fatto correre una simile voce, ma per sviare meglio i cortigiani. La verità è che aveva una figlia, e che essa vive ancora; è stata allevata in un convento vicino a Madrid; mio padre, morendo, mi ha rivelato il segreto della sua nascita, che lei stessa ignora, e mi ha anche spiegato i progetti che aveva fatto su di lei; ma la sua morte ha troncato ogni cosa. Oggi sarebbe impossibile riannodare i fili degli ambiziosi intrighi che egli aveva ordito a questo proposito; la completa legittimazione di mia sorella sarebbe, credo, impossibile da ottenere, e il primo passo

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che potremmo fare provocherebbe forse l’eterna reclusione di quell’infelice. Sono stata a trovarla: Leonora è una buona ragazza, semplice e allegra, e ho provato per lei un vero affetto; ma la badessa ha tanto detto che mi assomigliava che non ho più osato tornare. Tuttavia, mi sono dichiarata sua protettrice e ho lasciato credere che essa fosse uno dei frutti degli innumerevoli amori che mio padre ha avuto nella sua giovinezza. Poco tempo fa la corte ha fatto prendere al convento informazioni che mi inquietano, e io sono decisa a farla venire a Madrid.

In via Retrada possiedo una casa di modesta apparenza: ne ho fatto affittare un’altra di fronte e vi prego di sistemarvi lì e di vigilare sul tesoro che vi affido: ecco l’indirizzo del vostro nuovo alloggio e una lettera che presenterete alla badessa delle Orsoline del Peïon; prenderete con voi quattro uomini a cavallo e un legno a due mule; con mia sorella verrà una governante che le resterà vicino: voi avrete a che fare solo con costei. Ma non potrete entrare in casa: la figlia di mio padre e di un’infanta deve almeno avere una reputazione senza macchia.

Ciò detto, la duchessa fece quel leggero cenno del capo che era solita fare come invito a congedarsi; allora la lasciai e per prima cosa andai a vedere il mio nuovo alloggio. Era comodo e bene arredato: vi misi due domestici fidati e continuai ad abitare presso Toledo.

Visitai anche la casa di Leonora: vi trovai due donne destinate a servirla e un vecchio domestico della casa d’Avila che non portava la livrea; la casa era provvista con larghezza ed eleganza di tutto quanto è necessario a una vita borghese.

Il giorno dopo, presi quattro uomini a cavallo e andai al convento del Peïon. Fui introdotto nel parlatorio della badessa. Lesse la mia lettera, sorrise e sospirò:

• Dolce Gesù! - disse – quanti peccati si commettono al mondo: sono ben contenta di averlo abbandonato. Ad esempio, mio cavaliere, la damigella che venite a prendere assomiglia alla duchessa d’Avila; ma come le assomiglia! Due immagini del dolce Gesù non sono più identiche. E chi sono i genitori della damigella? Non se ne sa niente. Il compianto duca d’Avila (Dio possa proteggere la sua anima)...

Probabilmente la badessa non avrebbe finito tanto presto di chiacchierare, ma le feci presente che avevo fretta di sbrigare il mio incarico. La badessa scosse la testa, proferì molti ahimè! E dolci Gesù, poi mi disse di andare a parlare con la guardiana.

Vi andai: la porta del chiostro si aprì e ne uscirono due dame molto accuratamente velate; senza dir parola salirono in vettura; io montai a cavallo e le seguii in silenzio. Quando fummo vicini a Madrid, le precedetti e le accolsi sulla porta di casa. Non salii; andai nella casa di fronte, da dove le vidi prendere possesso della loro.

Mi parve, effettivamente, che Leonora assomigliasse molto alla duchessa; ma aveva la carnagione più bianca, i capelli erano biondissimi, e sembrava più grassottella; così giudicai dalla mia finestra, ma Leonora non stava abbastanza ferma perché potessi distinguere bene i suoi lineamenti. Poco dopo la governante fece mettere le imposte, le chiuse a chiave e io non potei vedere più nulla.

Dopo pranzo andai dalla duchessa a renderle conto di quanto avevo fatto.

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• Signor Avadoro, - mi disse – Leonora è destinata al matrimonio.

Secondo i nostri costumi, non potete essere ammesso in casa sua; tuttavia dirò alla governante di lasciare aperta un’imposta dalla parte dove sono le vostre finestre; ma esigo che le vostre persiane siano chiuse. Dovete rendermi conto di quanto fa Leonora. Forse per lei sarebbe pericoloso conoscervi, soprattutto se voi avete per il matrimonio l’avversione che mi avete dimostrato l’altro giorno.

• Signora, - le risposi – vi dicevo soltanto che l’interesse non potrebbe decidermi al matrimonio; tuttavia avete ragione, non conto di sposarmi.

Lasciai la duchessa; mi recai da Toledo, che però non misi a parte dei nostri segreti, poi andai nella casa di via Retrada. Le imposte della casa di fronte, e perfino le finestre, erano aperte. Il vecchio lacché Androdo sonava la chitarra; Leonora danzava il bolero con una vivacità e una grazia che non mi sarei aspettato da una pensionante delle Carmelitane, giacché presso di loro era stata allevata ed era entrata dalle Orsoline solo dopo la morte del duca. Leonora fece mille pazzie, pretendendo di far ballare la governante con Androdo.

La mia meraviglia era enorme al vedere che la seria duchessa d’Avila avesse una sorella d’umore così allegro. D’altronde la rassomiglianza era sorprendente; io ero, in fondo, innamoratissimo della duchessa, e la sua immagine vivente non poteva mancare di interessarmi molto: mi lasciavo andare al piacere di contemplarla quando la governante chiuse l’imposta.

Il giorno dopo andai dalla duchessa e la informai di quanto avevo visto. Non le nascosi l’estremo piacere che mi avevano procurato gli ingenui divertimenti di sua sorella. Osai perfino attribuire il mio eccessivo rapimento alla sua spiccata aria di famiglia.

Poiché ciò somigliava vagamente a una specie di dichiarazione, la duchessa parve irritarsene: divenne ancora più seria.

• Signor Avadoro, - mi disse – qualunque sia la rassomiglianza fra le due sorelle, vi prego di non confonderle negli elogi che vorrete farne; tuttavia venite domani; devo fare un viaggio e desidero vedervi prima della mia partenza.

• Signora, - le dissi – anche se il vostro sdegno dovesse annientarmi, i vostri lineamenti sono impressi nella mia anima come lo sarebbe l’immagine di qualche divinità: siete troppo al di sopra di me perché io osi elevare fino a voi un pensiero amoroso; ma oggi i vostri tratti divini li ritrovo in una giovane fanciulla allegra, franca, semplice, naturale, che mi preserverà dall’amarvi in lei.

A mano a mano che parlavo, il volto della duchessa diventava più severo; mi aspettavo di essere bandito dalla sua presenza. Non fu così; mi ripeté semplicemente di tornare il giorno dopo.

Pranzai da Toledo e la sera tornai al mio posto di osservazione. Le finestre della casa di fronte erano aperte e potevo vedere tutto l’appartamento. Con grandi scoppi di risa Leonora stendeva lei stessa sulla tavola una tovaglia bianchissima con due

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semplici coperti; portava solo il corsetto e le maniche della camicia erano rimboccate fino alle spalle.

Furono chiuse finestre e imposte; ma quel che avevo visto aveva prodotto in me una forte impressione; e qual è il giovane che possa vedere senza emozione l’interno di una casa dove vive una graziosa fanciulla?

Non so bene che cosa balbettai il giorno dopo alla duchessa; essa parve temere una dichiarazione e, affrettandosi a parlare, mi disse:

• Signor Avadoro, come vi ho detto ieri io devo partire. Passerò qualche tempo nel mio ducato d’Avila; ho concesso a mia sorella di passeggiare dopo il tramonto senza allontanarsi troppo da casa: se quindi volete avvicinarla, la governante è avvertita e vi lascerà parlare quanto vorrete. Cercate di conoscere l’intelligenza e il carattere di questa fanciulla: me ne riferirete al mio ritorno.

Poi un cenno del capo mi avvertì di prendere congedo. Mi costò molto lasciare la duchessa; ero veramente innamorato di lei: la sua estrema fierezza non mi scoraggiava, al contrario pensavo che se si fosse decisa a prendere un amante, lo avrebbe scelto al di sotto di lei, cosa non molto rara in Spagna; insomma qualcosa mi diceva che un giorno avrebbe potuto amarmi, ma, a dir la verità, non so da dove mi venisse questo presentimento; certo non vi poteva contribuire la sua condotta nei miei confronti. Pensai a lei tutto il giorno, ma, verso sera, mi tornò in mente sua sorella: andai così in via Retrada. C’era un bel chiaro di luna: riconobbi Leonora e la governante, sedute su una panchina vicino alla loro porta. Anche la governante mi riconobbe, mi venne incontro e m’invitò a sedermi accanto alla sua pupilla; poi si allontanò.

Dopo un momento di silenzio, Leonora mi disse:

• Siete voi dunque quel giovane che mi è permesso di vedere? Avrete dell’amicizia per me?

Le risposi che ne avevo già molta.

• Ebbene! Fatemi il piacere di dirmi come mi chiamo.

• Vi chiamate Leonora.

• Non è questo che vi domando; devo avere un altro nome. Non sono più così ingenua come lo ero dalle Carmelitane: allora credevo che il mondo fosse popolato soltanto da suore e confessori; ma adesso so che ci sono mariti e mogli che non si lasciano né di giorno né di notte, e che i figli portano il nome del padre: ecco perché voglio sapere il mio.

Poiché le Carmelitane, specie in alcuni conventi, hanno una regola molto severa, non fui sorpreso che Leonora avesse conservato fino a vent’anni tanta ingenuità; le risposi che la conoscevo soltanto sotto il nome di Leonora. Aggiunsi che l’avevo vista danzare nella sua stanza e che certo non aveva imparato questo dalle Carmelitane.

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• No, - mi rispose – dalle Carmelitane mi aveva messo il duca d’Avila. Dopo la sua morte sono entrata dalle Orsoline, dove una pensionante m’insegnava a danzare, un’altra a cantare; per quel che riguarda il modo in cui i mariti vivono con le mogli, tutte le pensionanti delle Orsoline me ne hanno parlato, e fra loro non è un segreto. Quanto a me, vorrei proprio avere un nome e per questo dovrei sposarmi.

Poi Leonora parlò del teatro, delle passeggiate, delle corride, e mostrò un gran desiderio di vedere tutte queste cose. M’intrattenni ancora con lei qualche volta e sempre di sera. Dopo otto giorni, ricevetti dalla duchessa la seguente lettera:

«Avvicinandovi a Leonora, io speravo che essa prendesse della simpatia per voi. La governante mi assicura che i miei desideri si sono avverati. Se la devozione che avete per me è autentica, sposate Leonora; considerate che un rifiuto mi offenderebbe».

Risposi così:

«Signora,la devozione per la Vostra Grandezza è il solo sentimento che possa occupare la mia anima: quelli che si devono a una sposa non vi troverebbero forse più posto. Leonora merita un marito che non pensi ad altro che a lei».

Ricevetti la risposta seguente:

«E’ inutile nascondervelo più a lungo, voi siete pericoloso per me, e rifiutando la mano di Leonora mi avete dato il piacere più vivo che abbia mai provato in vita mia: ma sono decisa a vincermi, e perciò vi offro la possibilità di sposare Leonora o di essere per sempre bandito dalla mia presenza, forse anche dalla Spagna. Il mio credito a corte arriverà a questo ed oltre. Non mi scrivete più. La governante avrà le mie istruzioni».

Per quanto innamorato fossi della duchessa, tanta alterigia mi diede il diritto di irritarmi; per un momento fui tentato di confessare tutto a Toledo e di mettermi sotto la sua protezione; ma Toledo, sempre innamorato della duchessa di Sidonia, era molto legato alla sua amica e non mi avrebbe certo aiutato contro di lei; allora decisi di tacere e, la sera, mi misi alla finestra per vedere la mia futura sposa.

Le finestre erano aperte, vedevo fino in fondo alla stanza. Leonora sedeva in mezzo a quattro donne occupate a prepararla. Portava un abito bianco di seta ricamato d’argento, una corona di fiori, una collana di diamanti. Sopra le misero un velo bianco che la ricopriva dalla testa ai piedi.

Tutto ciò mi meravigliava un poco. Poi la mia sorpresa aumentò. In fondo alla stanza fu portato un tavolo, che venne parato come un altare. Vi misero sopra delle candele e comparve un prete accompagnato da due gentiluomini, che non potevano esser lì se non come testimoni; mancava ancora lo sposo. Sentii bussare alla porta.

Apparve la governante.

• Siete atteso. - mi disse – Pensereste forse di opporvi ai voleri della duchessa?

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La seguii. La sposa non si tolse il velo; misero la sua mano nella mia: in una parola, ci sposarono.

I testimoni si complimentarono con me e con mia moglie, di cui non avevano visto il viso, e se ne andarono. La governante ci condusse in una camera debolmente illuminata dai raggi della luna e chiuse la porta su di noi.

Il modo di vivere con mia moglie corrispose a quello strano matrimonio. Dopo il tramonto, le sue imposte si aprivano, e io potevo vedere tutto l’interno dell’appartamento; di sera lei non usciva più e io non avevo modo di avvicinarla. Verso mezzanotte, la governante veniva a prendermi e mi riconduceva a casa prima dell’alba.

Di lì a otto giorni la duchessa tornò a Madrid; la rividi, ma ero un po’ confuso: avevo profanato il mio culto per lei e me lo rimproveravo. Lei invece mi trattava con grande amicizia. Quando eravamo soli la sua fierezza scompariva; ero un fratello e un amico.

Una sera che rincasavo, mentre stavo chiudendo la porta, mi sentii afferrare per la falda dell’abito. Mi voltai e riconobbi Busqueros.

• Ah! Ah! Vi ho pescato! - mi disse – Il signore di Toledo mi ha detto che non vi vedeva più e che avevate dei misteriosi intrighi.

Gli ho chiesto solo ventiquattro ore per scoprirli e ci sono riuscito. Ah! Ragazzo mio, mi devi del rispetto perché ho sposato la tua matrigna.

Queste poche parole mi ricordarono quanto Busqueros avesse contribuito alla morte di mio padre. Non potei fare a meno di mostrargli la mia malevolenza e me ne sbarazzai.

Il giorno dopo andai dalla duchessa e le dissi di quello sgradevole incontro. Mi parve ne restasse molto colpita.

• Busqueros, - mi disse – è una volpe a cui niente sfugge: bisogna sottrarre Leonora alla sua curiosità. Oggi stesso la faccio partire per Avila. Non me ne vogliate, Avadoro, ma è per assicurare la vostra felicità.

• Signora, - le dissi – l’idea della felicità sembra supporre l’adempimento dei desideri, e io non ho mai desiderato di essere lo sposo di Leonora. Tuttavia è vero che adesso mi sono affezionato a lei e che l’amo ogni giorno di più, se pure questa espressione mi è permessa dato che di giorno non la vedo mai.

La stessa sera andai in via Retrada, ma non trovai nessuno: porta e finestre erano chiuse.

Qualche giorno dopo Toledo mi fece chiamare nel suo studio e mi disse:

• Avadoro, ho parlato di voi al re. Sua Maestà vi affida un incarico a Napoli. Temple, quel simpatico inglese, mi ha fatto fare delle proposte; desidera vedermi a Napoli e, se non posso andarci io, vuole che siate voi ad andarci. Il re non giudica

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opportuno che io faccia questo viaggio e vuole mandare voi. Ma, - aggiunse Toledo – non mi sembra che siate troppo lusingato da questa idea.

• Sono lusingatissimo dalla bontà di Sua Maestà, ma ho una protettrice e non vorrei far niente senza la sua approvazione.

Toledo sorrise e mi disse:

• Ho parlato alla duchessa; andate da lei questa mattina.

Vi andai. La duchessa mi disse:

• Mio caro Avadoro, voi conoscete la presente situazione della monarchia spagnola. Il re è prossimo alla fine e con lui finisce la linea austriaca; in circostanze così critiche, ogni buon spagnolo deve dimenticare se stesso e, se può servire il suo paese, non deve lasciarsene sfuggire l’occasione. Vostra moglie è al sicuro, ma non vi scriverà. Io le servirò da segretaria. Se devo credere alla governante, presto potrò annunciarvi qualcosa che vi legherà ancor di più a Leonora.

E così dicendo, la duchessa abbassò gli occhi, arrossì, poi mi fece cenno di ritirarmi.

Presi le istruzioni dal ministro. Concernevano la politica estera e si estendevano anche all’amministrazione del reame di Napoli, che si voleva legare più che mai alla Spagna. Partii il giorno dopo e feci il viaggio con tutta la rapidità possibile.

Nel compiere il mio incarico misi tutto lo zelo che si può avere per un primo lavoro. Ma, nei momenti di ozio, i ricordi di Madrid riprendevano il sopravvento sul mio animo. La duchessa mi amava, nonostante tutto; me l’aveva confessato. Diventata mia cognata, era guarita di ciò che questo sentimento poteva avere di appassionato; ma aveva conservato un affetto di cui mi dava infinite prove. Leonora, misteriosa dea delle mie notti, mi aveva offerto con l’imene la coppa delle voluttà; il ricordo di lei regnava sui miei sensi come sul mio cuore e il mio rimpianto arrivava quasi alla disperazione; se si eccettuano quelle due donne, il bel sesso mi era indifferente.

Le lettere della duchessa mi arrivavano nel plico del ministro. Non erano firmate e la scrittura era contraffatta. Seppi così che Leonora avanzava nella sua gravidanza, ma che era sofferente e soprattutto estenuata. Poi appresi di essere padre e che Leonora era stata molto male. Le notizie sulla sua salute sembravano formulate in modo da prepararne altre ancora più tristi.

Finalmente vidi arrivare Toledo quando meno me l’aspettavo. Si gettò nelle mie braccia.

• Vengo – mi disse – per gli interessi del re; ma sono le duchesse che mi mandano.

E così dicendo mi consegnò una lettera. L’aprii tremando, ne presentivo il contenuto. La duchessa mi annunciava la morte di Leonora offrendomi tutti i conforti della più tenera amicizia.

Toledo, che da tempo aveva su di me il più grande ascendente, se ne servì per calmare il mio animo. In un certo senso io non avevo conosciuto affatto Leonora; ma

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era la mia sposa, e il pensiero di lei s’identificava col ricordo delle gioie della nostra breve unione. Il dolore mi lasciò molto malinconico e abbattuto.

Toledo prese su di sé la cura degli affari e, quando furono conclusi, tornammo insieme a Madrid. Vicino alle porte della capitale, mi fece scendere, e, prendendo per vie traverse, mi condusse al cimitero delle Carmelitane; là mi mostrò un’urna di marmo nero sulla cui base si leggeva: Leonora Avadoro. Quella tomba fu bagnata dalle mie lacrime; vi ritornai più volte prima di vedere la duchessa. Essa non ne fu offesa: anzi, la prima volta che la vidi, mi testimoniò un affetto che rasentava l’amore. Poi mi condusse nell’interno del suo appartamento e mi mostrò un bambino nella culla: la mia emozione era al colmo. Misi un ginocchio a terra, la duchessa mi tese una mano per rialzarmi. Io la baciai: essa mi fece cenno di ritirarmi.

Il giorno dopo andai dal ministro e, con lui, dal re. Toledo, inviandomi a Napoli, aveva voluto avere un pretesto per farmi accordare dei favori, e così fui nominato cavaliere di Calatrava.

Questo titolo, senza mettermi al livello dei ranghi più elevati, serviva nondimeno ad avvicinarmici. Con Toledo e le due duchesse mi trovai in una posizione che non era più di inferiorità; d’altronde ero opera loro, e sembrava che si compiacessero ad elevarmi.

Poco tempo dopo la duchessa d’Avila m’incaricò di seguire un suo affare al consiglio di Castiglia; vi misi l’impegno che si può immaginare e una prudenza che aumentò la stima di cui già godevo presso la mia protettrice. La vedevo tutti i giorni, e sempre più affettuosa. A questo punto comincia la parte fantastica della mia storia.

Al ritorno dall’Italia avevo ripreso ad abitare presso Toledo; ma la casa di via Retrada era rimasta a me. Vi facevo dormire un domestico chiamato Ambrosio. La casa di fronte, dove mi ero sposato, apparteneva alla duchessa, ma era chiusa e disabitata. Un mattino, Ambrosio venne a pregarmi di mettere qualcuno al suo posto, soprattutto qualcuno coraggioso, perché dopo mezzanotte tirava una brutta aria, come del resto dall’altra parte della via.

Volli farmi spiegare di quale natura fossero le apparizioni; Ambrosio mi confessò che la paura non gli aveva permesso di distinguere nulla. Inoltre era deciso a non dormire più in via Retrada, né solo né in compagnia. Questi discorsi punsero la mia curiosità. Mi decisi a tentare l’avventura la notte stessa. La casa era ancora provvista di qualche mobile. Vi andai dopo cena. Feci coricare un valletto sulla scala e io occupai la stanza che dava sulla via, di fronte alla vecchia abitazione di Leonora. Presi qualche tazza di caffè per non addormentarmi e sentii suonare la mezzanotte. Ambrosio mi aveva detto che era l’ora del fantasma.

Perché niente lo allarmasse, spensi la candela. Ben presto vidi una luce nella casa di fronte. Passò di stanza in stanza e da un piano all’altro; le imposte mi impedivano di vederne la provenienza. Il giorno dopo feci chiedere alla duchessa le chiavi della casa e vi penetrai. La trovai completamente vuota e mi assicurai bene che non ci fosse nessuno. A ogni piano staccai un’imposta e poi andai a sbrigare i miei affari.

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La notte seguente ripresi il mio posto e, quando sonò mezzanotte, ricomparve la stessa luce. Ma questa volta vidi bene da dove proveniva. Una donna vestita di bianco e con una lampada in mano attraversò lentamente tutte le stanze del primo piano, passò al secondo e scomparve. La lanterna l’illuminava troppo debolmente perché potessi distinguere i suoi lineamenti; ma la capigliatura bionda mi fece riconoscere Leonora.

Non appena fu giorno andai a trovare la duchessa. Non c’era; mi recai da mio figlio. Mi accorsi che le donne erano agitate e inquiete. Dapprima non vollero spiegarsi. Poi la nutrice mi disse che la notte era entrata una donna tutta vestita di bianco con una lampada in mano che aveva guardato a lungo il bambino, l’aveva benedetto e se n’era andata.

Rientrò la duchessa. Mi fece chiamare e mi disse:

• Ho le mie ragioni per desiderare che vostro figlio non stia più qui. Ho dato ordini perché gli venga preparata la casa di via Retrada: vi abiterà con la nutrice e con la donna che passa per sua madre. Vi proporrei di starci anche voi, ma la cosa potrebbe avere degli inconvenienti.

Le risposi che avrei tenuto la casa di fronte e che qualche volta vi avrei dormito.

Gli ordini della duchessa furono eseguiti; ebbi cura di far dormire mio figlio nella stanza che dava sulla via e di non far rimettere le imposte.

Sonò mezzanotte, e io mi misi alla finestra. Nella stanza di fronte vidi il bambino addormentato, come pure la nutrice. Apparve la donna vestita di bianco con la lucerna in mano. Si avvicinò alla culla, osservò per molto tempo il bambino, lo benedisse. Poi venne alla finestra e guardò a lungo dalla mia parte. Uscì quindi dalla stanza e potei vedere la luce al piano superiore. Infine la stessa donna apparve sul tetto, ne percorse con piede leggero lo spigolo, passò su un tetto vicino e sparì alla mia vista.

Ero turbato, lo confesso. Dormii poco e il giorno dopo attesi mezzanotte con impazienza. Sonarono le ore e andai alla finestra.

Poco dopo vidi entrare non già la donna bianca, ma una specie di nano dalla faccia bluastra, con una gamba di legno e una lanterna in mano.

Si avvicinò al bambino, lo guardò attentamente, poi andò alla finestra, vi si sedette con le gambe incrociate e cominciò a considerarmi con attenzione. Dopodiché saltò dalla finestra nella strada, o meglio parve scivolarvi, e venne a bussare alla mia porta.

Dalla finestra gli chiesi chi fosse. Invece di rispondermi, mi disse:

• Juan Avadoro, prendi cappa e spada e seguimi.

Obbedii, scesi in strada e a una ventina di passi scorsi il nano zoppicante sulla sua gamba di legno che mi mostrava il cammino con la lanterna. Dopo un centinaio di passi, prese a sinistra e mi condusse in quel quartiere deserto che si estende tra via Retrada e il Mançanarez. Passammo sotto una volta e entrammo in un patio (in

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Spagna si chiama patio quel cortile interno dove non entrano le carrozze). In fondo al patio c’era una piccola facciata gotica che sembrava essere il portale di una cappella. Ne uscì la donna bianca.

Il nano m’illuminò il viso con la lanterna.

• E’ lui, - gridò la donna – è proprio lui, il mio sposo, il mio caro sposo!

• Signora, - le dissi – pensavo che foste morta!

• Sono viva!

E infatti era proprio lei. La riconoscevo dal suono della voce, e più ancora dall’ardore delle sue legittime effusioni. Il loro impeto non mi lasciò il piacere di far domande su quel che la nostra situazione aveva di straordinario: non ne ebbi neppure il tempo.

Leonora mi sgusciò dalle braccia e si perse nell’oscurità. Il nano zoppo mi offrì l’aiuto del suo lanternino e io lo seguii attraverso rovine e quartieri completamente deserti. A un tratto la lanterna si spense. Il nano, che volli richiamare, non rispose alle mie grida.

Decisi di stendermi a terra e di aspettare così il giorno. Mi addormentai. Quando mi svegliai era giorno fatto. Mi trovai coricato vicino a un’urna di marmo nero su cui lessi, in lettere d’oro: Leonora Avadoro. In una parola, ero vicino alla tomba di mia moglie.

Allora mi ricordai gli avvenimenti della notte e ne fui più che turbato. Da tempo non mi ero accostato al tribunale della penitenza.

Andai dai Teatini e chiesi del mio prozio, il padre Jeronimo: era ammalato. Si presentò un altro confessore e gli chiesi se fosse possibile che i demoni rivestissero forme umane.

• Senza dubbio, - mi rispose – i succubi sono formalmente menzionati nella Summa di San Tommaso, ma è un caso riservato. Quando qualcuno si astiene a lungo dai sacramenti, i demoni prendono su di lui un certo potere. Si mostrano sotto forma di donne e inducono in tentazione. Se voi credete, figlio mio, di aver incontrato dei succubi, ricorrete al gran penitenziere. Affrettatevi, non perdete tempo.

Risposi che mi era capitata una strana avventura in cui ero stato vittima di allucinazioni e gli chiesi il permesso di interrompere la confessione.

Andai da Toledo. Mi disse che mi avrebbe portato a cena dalla duchessa d’Avila e che vi sarebbe stata anche la duchessa di Sidonia.

Vedendomi preoccupato, me ne chiese il motivo. Ero infatti pensieroso e non riuscivo a fissare la mente su niente di sensato. Anche alla cena delle duchesse fui triste; ma la loro allegria era così viva, e Toledo vi corrispondeva così bene, che finii per condividerla.

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Durante la cena avevo notato cenni di intesa e delle risa che sembravano riferirsi a me. Lasciammo la tavola e il nostro quartetto, invece di andare in sala, si avviò verso gli appartamenti interni.

Quando ci fummo, Toledo chiuse la porta a chiave e mi disse:

• Illustre cavaliere di Calatrava, inginocchiatevi davanti alla duchessa. Essa è vostra moglie da più di un anno. Non venite ora a dirci che lo sospettavate. Le persone a cui racconterete la vostra storia forse lo indovineranno, ma la grande abilità sta nell’impedire che il sospetto nasca, ed è quello che noi abbiamo fatto. A dir la verità, i misteri dell’ambizioso d’Avila ci hanno servito molto. Egli aveva veramente un figlio che intendeva far riconoscere. Quel figlio è morto, e allora egli ha preteso dalla figlia che non si sposasse mai affinché i feudi tornassero ai Sorriente, che sono un ramo dei d’Avila. La fierezza della nostra duchessa le faceva desiderare di non avere padrone. Ma dopo il nostro ritorno da Malta, questa fierezza non sapeva bene, neppure lei, dove fosse andata a finire e correva il rischio di fare un tremendo naufragio. Fortunatamente per la duchessa d’Avila, essa ha un’amica che è anche la vostra, mio caro Avadoro. La duchessa si è interamente confidata con lei, e insieme ci siamo concertati su queste cose che ci stavano tanto a cuore. Allora abbiamo inventato una Leonora, figlia del duca e dell’infanta, che non era altri se non la duchessa stessa, con una parrucca bionda e leggermente imbellettata. Ma voi non vi sognavate neppure di riconoscere la vostra fiera sovrana nell’ingenua pensionante delle Carmelitane. Ho assistito a qualche recita di questa parte, e vi assicuro che sarei stato ingannato quanto voi.

La duchessa, vedendo che rifiutavate i più brillanti partiti per il solo desiderio di restarle legato, si è decisa a sposarvi. Voi siete uniti davanti a Dio e alla Chiesa, ma non davanti agli uomini, o almeno cerchereste invano le prove del vostro matrimonio. Così la duchessa non vien meno agli impegni da lei presi.

Voi vi siete dunque sposati, e le conseguenze hanno obbligato la duchessa a passare qualche mese nelle sue terre per sottrarsi agli sguardi dei curiosi. Busqueros era appena arrivato a Madrid. Io l’ho messo sulle vostre piste e in seguito, col pretesto di fargli perdere le tracce, abbiamo fatto partire Leonora per la campagna. Poi ci ha fatto comodo far partire voi per Napoli, poiché non sapevamo più che cosa dirvi di Leonora, e la duchessa non voleva rivelarsi a voi se non quando un pegno vivente del vostro amore fosse venuto ad aggiungersi ai vostri diritti.

E qui, mio caro Avadoro, imploro da voi il perdono. Ho immerso il pugnale nel vostro petto quando vi ho annunciato la morte di una persona che non era mai esistita. Ma i sentimenti da voi provati non sono andati perduti: la duchessa è commossa di vedere come voi l’abbiate amata così perfettamente sotto due forme tanto diverse. Da otto giorni, brucia dal desiderio di farsi riconoscere. Qui il colpevole sono ancora io: mi sono ostinato a far tornare Leonora dall’altro mondo. La duchessa si è prestata volentieri a fare la donna biancovestita, ma non fu lei a correre così agilmente sullo spigolo del tetto vicino; quella Leonora era soltanto un piccolo spazzacamino.

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Lo stesso bricconcello è tornato la notte dopo, vestito da diavolo zoppo; si è seduto sulla finestra ed è scivolato nella strada lungo una corda preparata apposta. Non so che cosa sia successo nel patio dell’antico convento delle Carmelitane; ma questa mattina vi ho fatto seguire e ho saputo che vi eravate confessato a lungo. Non mi piace avere a che fare con la Chiesa e temo le conseguenze di uno scherzo spinto troppo lontano. Così, non mi sono più opposto al desiderio della duchessa, e abbiamo deciso che la rivelazione sarebbe avvenuta oggi.

Tale fu più o meno il discorso dell’amabile Toledo. Ma io non l’ascoltavo; ero ai piedi di Beatrice: una deliziosa confusione le si dipingeva sul viso, che esprimeva la confessione piena della sua sconfitta. La mia vittoria non aveva e non ebbe mai che due testimoni, ma non mi fu per questo meno cara.

Fine...