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James Henry IL GIRO DI VITE Il racconto ci aveva tenuti col fiato sospeso attorno al focolare, ma, salvo l'ovvia osservazione che esso era raccapricciante, come dovrebbe in fondo essere ogni strana storia narrata la vigilia di Natale in una vecchia casa, non ricordo che suscitasse alcun commento, sinché qualcuno ebbe a dire che quello era il primo caso a sua conoscenza in cui una prova del genere fosse toccata ad un fanciullo. Si trattava, ricordo, di un'apparizione in una casa altrettanto vecchia di quella che ci aveva riuniti per l'occasione: una visione spaventosa apparsa ad un bambino che dormiva nella stanza della madre, e che l'aveva destata con il suo terrore; destata non per vincere quell'incubo e farlo teneramente riaddormentare, ma perché ella stessa, prima di esservi riuscita, si trovasse davanti alla medesima visione che lo aveva sconvolto. Fu questa osservazione a provocare da parte di Douglas - non immediatamente, ma più tardi nella serata - una risposta che ebbe l'interessante conseguenza su cui richiamo la vostra attenzione. Qualcun altro prese a raccontare una storia di scarso interesse, e mi accorsi che Douglas non l'ascoltava. Questo fu per me il segno che anche lui aveva qualcosa da dirci, e che si trattava soltanto di aspettare. In effetti aspettammo due sere; ma quella sera stessa, prima che ci separassimo, egli ci anticipò quel che aveva in mente. «Convengo pienamente - nei riguardi del fantasma di Griffin o di quel che fosse - che il suo apparire dapprima al bambino (e di un'età così tenera), aggiunge alla vicenda un fascino particolare. Ma, per quanto ne so, non è la prima volta che un fenomeno tanto affascinante coinvolge un bambino. Se la presenza di un bambino dà all'effetto un altro giro di vite, che direste di due bambini?...» «Diremmo, naturalmente,» esclamò qualcuno, «che darebbero due giri di vite. E anche che vogliamo conoscerne la storia.» Mi sembra ancora di vedere Douglas ritto davanti al camino, le spalle al fuoco, le mani in tasca, lo sguardo rivolto, dall'alto in basso, al suo interlocutore. «Nessuno all'infuori di me, finora, ne ha mai sentito parlare. È semplicemente troppo orribile.» Parecchie voci, com'era ovvio, dichiararono che questo conferiva alla cosa un estremo interesse, e il nostro amico, con arte sottile, si preparò il trionfo volgendo gli occhi su di noi ed aggiungendo: «È al di là di ogni immaginazione. Non conosco nulla che gli si possa paragonare.» «Per terrore allo stato puro?» ricordo di aver chiesto. Sembrò voler dire che la cosa non era tanto semplice; che non trovava le parole per definirla. Si passò la mano sugli occhi, fece una smorfia leggera, come di pena. «Per spavento... spavento che ti stringe alla gola!» «Oh, che delizia!» strillò una delle donne. Non le badò; guardava me, ma come se, invece di me, vedesse quello di cui

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James Henry

IL GIRO DI VITE

Il racconto ci aveva tenuti col fiato sospeso attorno al focolare, ma, salvo l'ovvia osservazione che esso era raccapricciante, come dovrebbe in fondo essere ogni strana storia narrata la vigilia di Natale in una vecchia casa, non ricordo che suscitasse alcun commento, sinché qualcuno ebbe a dire che quello era il primo caso a sua conoscenza in cui una prova del genere fosse toccata ad un fanciullo. Si trattava, ricordo, di un'apparizione in una casa altrettanto vecchia di quella che ci aveva riuniti per l'occasione: una visione spaventosa apparsa ad un bambino che dormiva nella stanza della madre, e che l'aveva destata con il suo terrore; destata non per vincere quell'incubo e farlo teneramente riaddormentare, ma perché ella stessa, prima di esservi riuscita, si trovasse davanti alla medesima visione che lo aveva sconvolto. Fu questa osservazione a provocare da parte di Douglas - non immediatamente, ma più tardi nella serata - una risposta che ebbe l'interessante conseguenza su cui richiamo la vostra attenzione. Qualcun altro prese a raccontare una storia di scarso interesse, e mi accorsi che Douglas non l'ascoltava. Questo fu per me il segno che anche lui aveva qualcosa da dirci, e che si trattava soltanto di aspettare. In effetti aspettammo due sere; ma quella sera stessa, prima che ci separassimo, egli ci anticipò quel che aveva in mente. «Convengo pienamente - nei riguardi del fantasma di Griffin o di quel che fosse - che il suo apparire dapprima al bambino (e di un'età così tenera), aggiunge alla vicenda un fascino particolare. Ma, per quanto ne so, non è la prima volta che un fenomeno tanto affascinante coinvolge un bambino. Se la presenza di un bambino dà all'effetto un altro giro di vite, che direste di due bambini?...» «Diremmo, naturalmente,» esclamò qualcuno, «che darebbero due giri di vite. E anche che vogliamo conoscerne la storia.» Mi sembra ancora di vedere Douglas ritto davanti al camino, le spalle al fuoco, le mani in tasca, lo sguardo rivolto, dall'alto in basso, al suo interlocutore. «Nessuno all'infuori di me, finora, ne ha mai sentito parlare. È semplicemente troppo orribile.» Parecchie voci, com'era ovvio, dichiararono che questo conferiva alla cosa un estremo interesse, e il nostro amico, con arte sottile, si preparò il trionfo volgendo gli occhi su di noi ed aggiungendo: «È al di là di ogni immaginazione. Non conosco nulla che gli si possa paragonare.» «Per terrore allo stato puro?» ricordo di aver chiesto. Sembrò voler dire che la cosa non era tanto semplice; che non trovava le parole per definirla. Si passò la mano sugli occhi, fece una smorfia leggera, come di pena. «Per spavento... spavento che ti stringe alla gola!» «Oh, che delizia!» strillò una delle donne. Non le badò; guardava me, ma come se, invece di me, vedesse quello di cui

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parlava. «Per assoluta, sovrannaturale ripugnanza e orrore e pena.» «Bene, allora,» dissi, «mettiti a sedere e comincia.» Si voltò verso il fuoco, con un calcio smosse un ceppo, lo fissò per un istante. Poi si voltò di nuovo verso di noi: «Non posso cominciare. Devo prima scrivere in città.» Queste parole furono accolte da un unanime mormorio di disappunto e da molte rimostranze; al che, col suo fare preoccupato, si spiegò. «La storia è scritta. Si trova in un cassetto chiuso a chiave... non ne è uscita per anni. Potrei scrivere al mio domestico e mandargli la chiave; lui potrebbe inviarmi il plico così come lo trova.» Sembrava che rivolgesse tale proposta a me in particolare, quasi che mi chiedesse un aiuto per vincere la sua esitazione. Aveva spezzato uno strato di ghiaccio, il prodotto di chissà quanti inverni; aveva avuto buone ragioni per il suo lungo silenzio. Agli altri la dilazione non piacque, ma furono proprio i suoi scrupoli che mi affascinarono. Lo scongiurai di spedire la lettera con la prima posta, e di accordarsi con noi per una sollecita lettura; infine gli chiesi se l'esperienza in questione fosse stata la sua. Stavolta la sua risposta fu pronta. «Grazie a Dio, no!» «E il resoconto è tuo? Hai registrato tu la cosa?» «Nient'altro che l'impressione. L'ho incisa qui» (si toccò il cuore). «Non l'ho mai perduta.» «Ma il tuo manoscritto, allora...?» «È vergato con un inchiostro vecchio, sbiadito, in una bellissima grafia.» Esitò di nuovo. «Di una donna. È morta da vent'anni. Mi mandò quelle pagine prima di morire.» Tutti adesso stavano in ascolto, e qualcuno naturalmente fece un commento malizioso o almeno tentò di trarne delle illazioni. Ma se Douglas lasciò cadere le illazioni senza sorridere, lo fece anche senza irritarsi. «Era una persona piena di fascino, ma aveva dieci anni più di me. Era l'istitutrice di mia sorella,» disse quietamente. «Era la più piacevole donna con quella occupazione che io abbia mai conosciuto; e avrebbe potuto farsi onore in qualunque altra. È stato molto tempo fa, e l'episodio accadde molto prima ancora. Io allora ero al Trinity College, e la trovai a casa quando vi tornai per le vacanze del secondo corso. Vi restai molto quell'anno... era un anno dolcissimo; nelle sue ore libere talvolta passeggiavamo e conversavamo in giardino... e in quelle occasioni fui colpito dal suo acume e dalla sua simpatia. Oh si, non sorridete: mi piaceva moltissimo, e ancora oggi mi rallegro nel pensare che anch'io le piacevo. Altrimenti, non mi avrebbe raccontato quella storia, Non l'aveva mai raccontata a nessuno. E lo credevo, non soltanto perché me lo diceva, ma perché sapevo che era così. Ne ero certo; lo vedevo. Ne comprenderete facilmente il motivo quando mi avrete ascoltato.» «Perché la vicenda era stata tanto spaventosa?» Continuò a guardarmi fisso. «Tu lo comprenderai facilmente,» ripeté, «tu lo comprenderai.» Lo fissai anch'io. «Capisco. Era innamorata.» Rise per la prima volta. «Tu sei acuto. Sì, era innamorata. Cioè, lo era stata. Venne fuori... non poteva raccontare la storia senza che venisse fuori. Me ne accorsi, ed

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ella comprese che me n'ero accorto; ma nessuno dei due ne parlò. Ricordo l'ora e il luogo... l'angolo del prato, l'ombra dei grandi faggi e il lungo, infuocato pomeriggio d'estate. Non era una scenografia da dare i brividi; ma...» Si allontanò dal fuoco e tornò a sprofondarsi nella sua poltrona. «Riceverai il plico per giovedì mattina?» gli chiesi. «Probabilmente non prima della seconda posta.» «Bene, allora; dopo pranzo...» «Ci rivedremo tutti qui?» Ci guardò di nuovo uno ad uno. «Nessuno parte?» Lo disse quasi con un tono di speranza. «Ci saremo tutti!» «Io ci sarò... e anch'io!» gridarono le signore che avevano già fissato la loro partenza. La signora Griffin, tuttavia, manifestò il bisogno di un ulteriore chiarimento. «Di chi era innamorata?» «Il racconto lo dirà,» mi presi la briga di rispondere. «Oh, io non posso aspettare il racconto!» «Il racconto non lo dirà,» fece Douglas, «perlomeno non lo dirà esplicitamente, a chiare lettere.» «Che peccato. È l'unico modo che io capisca.» «Non ce lo vuoi dire tu, Douglas?» interloquì qualcun altro. Balzò di nuovo in piedi. «Sì... domani. Adesso devo andare a letto. Buona notte.» E rapidamente, impugnando un candeliere, ci lasciò, alquanto sconcertati. Dal fondo del grande atrio scuro ci giunse l'eco dei suoi passi sulle scale; dopodiché la signora Griffin prese la parola. «Bene, se non so di chi era innamorata lei, so di chi era innamorato lui.» «Lei aveva dieci anni di più,» disse suo marito. «Raison de plus... a quell'età! Graziosa, però, questa sua lunga reticenza.» «Quarant'anni!» precisò Griffin. «E infine quest'esplosione.» «L'esplosione,» ribattei, «farà di giovedì sera un'occasione memorabile», e si trovarono tutti tanto d'accordo con me che, alla luce di ciò, ogni altra cosa ci apparve priva di interesse. L'ultima storia, per quanto incompleta e simile all'inizio di un racconto a puntate, era stata narrata; con strette di mano e «strette di candeliere», come disse qualcuno, andammo tutti a letto. Seppi il giorno dopo che una lettera contenente la chiave era partita, con la prima posta, alla volta dell'appartamento londinese di Douglas; ma, a dispetto o forse proprio a causa di questa notizia, lo lasciammo in pace sino a dopo il pranzo, sino all'ora della sera, cioè, che meglio si accordasse con il genere di emozioni su cui contavamo. Egli divenne allora così ciarliero che più non potevamo desiderare, e ce ne spiegò persino la ragione. Ce la spiegò di nuovo davanti al camino del salone, lo stesso dove la sera prima si era manifestato il nostro tranquillo stupore. Apparve chiaro che il resoconto che aveva promesso di leggerci aveva davvero bisogno, per essere compreso a fondo, di poche parole di introduzione. Lasciatemi dire chiaramente, una volta per tutte, che tale

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resoconto, che io più tardi trascrissi fedelmente di mio pugno, è quello che io darò qui di seguito. Il povero Douglas, prima di morire, quando cioè capì che la fine era imminente, mi affidò il manoscritto che quella volta gli fu recapitato il terzo giorno, e che nello stesso luogo cominciò a leggere la sera del quarto al nostro circolo ristretto e silenzioso, suscitando un'impressione senza pari. Le signore in partenza che avevano promesso di restare, naturalmente, e grazie al cielo, partirono: partirono, costrette dai loro impegni, e divorate da una curiosità, destata come ammisero, dai piccoli particolari con cui Douglas aveva già stuzzicato il nostro interesse. Ma questo fatto rese soltanto più scelto e compatto il suo piccolo uditorio, e lo tenne attorno al focolare, soggiogato da un'emozione comune. Douglas aveva cominciato col dirci che il racconto scritto iniziava la narrazione dal momento in cui, in un certo senso, era già avviata. Bisognava infatti sapere, prima di tutto, che la sua vecchia amica, la minore delle numerose figlie di un povero parroco di campagna, a vent'anni, all'inizio della sua carriera di insegnante, si era recata a Londra, tutta trepidante, per rispondere di persona all'annuncio per il quale aveva già avuto un breve scambio di corrispondenza con l'inserzionista. Questa persona si rivelò - quando lei si presentò per essere esaminata in una casa di Harley Street che la impressionò per vastità e imponenza - questo probabile padrone, dicevo, si rivelò un gentiluomo, uno scapolo nel fiore degli anni, un personaggio insomma che non era mai comparso, se non in sogno o in un vecchio romanzo, a una ragazza emozionata ed ansiosa proveniente da un vicariato dell'Hampshire. Si può descrivere facilmente questo tipo; perché, fortunatamente, è di quelli che non scompaiono mai. Era bello, ardito e attraente, affabile, gaio e garbato. La colpì, inevitabilmente, per la sua cortesia dolce e splendida, ma ciò che più la conquistò e le diede quel coraggio di cui più tardi fece mostra, fu che egli le presentò tutto come una sorta di favore, una grazia di cui le sarebbe stato obbligato per sempre. Lo giudicò ricco, ma terribilmente stravagante: lo vide in un alone di eleganza portentosa, di bellezza, di prodigalità, di abituale galanteria. La sua residenza cittadina era una grande casa piena di ricordi di viaggio e di trofei di caccia; ma era nella sua casa di campagna dell'Essex, antica dimora della sua famiglia, che la invitava a recarsi immediatamente. A causa della morte in India dei loro genitori, egli era diventato tutore di un nipotino e di una nipotina, figli di un suo fratello minore, un militare, che aveva perduto due anni prima. Questi due bambini, per una sorte delle più strane per un uomo nelle sue condizioni - un uomo solo senza esperienza e senza un filo di pazienza - pesavano interamente sulle sue spalle. Ne era nata una grave preoccupazione e, senza dubbio per colpa sua, una serie di sbagli grossolani; ma egli provava un'immensa pietà per i due piccoli, e aveva fatto tutto ciò che aveva potuto; in particolare li aveva mandati nell'altra sua casa, poiché il posto più adatto per loro era evidentemente la campagna, e li aveva tenuti là sin da principio, con le migliori persone che potesse trovare per accudirli, separandosi per questa ragione persino dai propri servitori, e andando egli stesso, non appena gli era possibile, a vedere come stavano. La cosa più imbarazzante era che i due

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orfanelli non avevano praticamente nessun altro al mondo, e che gli affari assorbivano quasi tutto il suo tempo. Li aveva sistemati a Bly, dimora salubre e sicura, e aveva messo a capo di quella piccola colonia - ma solo ai gradi più bassi - una eccellente donna, la signora Grose, che era stata a suo tempo cameriera di sua madre e che, ne era certo, sarebbe piaciuta alla sua visitatrice. La signora Grose badava ora all'andamento della casa e fungeva provvisoriamente da istitutrice della bambina, a cui - non avendo figli suoi - era profondamente affezionata. Il personale di servizio era molto numeroso, ma naturalmente la signorina che avrebbe dovuto recarsi laggiù in qualità di istitutrice avrebbe avuto pieni poteri. Avrebbe inoltre dovuto, durante le vacanze, prendersi cura del bambino, che da un trimestre era in collegio (era forse troppo giovane per andarci, ma che altro si poteva fare?) e che, dato che le vacanze stavano per cominciare, sarebbe stato di ritorno da un giorno all'altro. Nei primi tempi ai due bambini aveva badato una signorina che avevano avuto la sfortuna di perdere. Persona degnissima, si era presa cura di loro in maniera splendida sino alla sua morte: grave contrattempo che, per l'appunto, non aveva lasciato altra alternativa che il collegio per il piccolo Miles. La signora Grose, da allora, aveva fatto quanto poteva per l'educazione e le necessità pratiche di Flora; c'erano, oltre a lei, una cuoca, una cameriera, una donna che si occupava della cascina, un vecchio pony, un vecchio stalliere e un vecchio giardiniere, tutti parimenti rispettabili. Douglas aveva tracciato il quadro sino a quel punto, quando qualcuno fece una domanda. «E di che cosa morì l'istitutrice precedente?... di un eccesso di rispettabilità?» La risposta del nostro amico fu immediata. «Lo si saprà in seguito. Non voglio anticipare.» «Scusatemi... credevo fosse proprio quello che state facendo.» «Al posto della nuova istitutrice,» insinuai, «io avrei voluto sapere se l'incarico comportava...» «Necessariamente un pericolo di morte?» Douglas completò il mio pensiero. «In effetti lo voleva sapere, e lo seppe. Sentirete domani che cosa seppe. Nel frattempo, com'era naturale, la proposta le apparve leggermente inquietante. Era giovane, inesperta, impressionabile: le si spalancava davanti la prospettiva di gravi doveri e di scarsa compagnia, di una solitudine quasi senza confini. Esitò... chiese un paio di giorni per consigliarsi e riflettere. Ma il salario che le veniva offerto superava di gran lunga le sue modeste pretese, e in un secondo colloquio decise di correre il rischio, e accettò.» E Douglas, a questo punto, fece una pausa che, a beneficio della compagnia, mi spinse a dire: «La morale della favola è che lo splendido giovinotto la affascinò al punto di farla cedere.» Douglas si alzò e, come aveva fatto la sera prima, si avvicinò al camino, smosse col piede un tizzone, e se ne stette immobile per un po', voltandoci la schiena. «Lo vide solo due volte.» «Sì, ma in questo sta tutta la bellezza della sua passione.»

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Sorprendendomi un poco, a questo punto, Douglas si voltò verso di me. «Sì, in

questo stava la bellezza. Altre,» proseguì, «non avevano ceduto. Egli le espose francamente tutte le difficoltà che aveva incontrato... a molte candidate le sue condizioni erano apparse proibitive. In certa misura, ne erano spaventate. Suonava poco chiaro, suonava strano; soprattutto a causa della condizione principale.» «Che era...?» «Che non lo avrebbe mai dovuto disturbare... mai, per nessuna ragione: né farlo chiamare, né lamentarsi, né scrivere; doveva risolvere tutti i problemi da sola, ricevere dal suo avvocato tutto il denaro occorrente, assumersi ogni responsabilità e lasciarlo tranquillo. Gli promise di far così, e mi raccontò che quando, sollevato, felice, le tenne per un attimo le mani tra le sue, ringraziandola del sacrificio, si sentì già ricompensata.» «Ma fu solo quella la sua ricompensa?» chiese una signora. «Non lo vide mai più.» «Oh!» esclamò la signora; e questa, poiché il nostro amico ci lasciò immediatamente, fu l'unica parola di qualche importanza pronunciata sull'argomento sino alla sera seguente, quando, accanto al fuoco, seduto nella poltrona migliore, Douglas aprì un sottile quaderno di foggia antiquata, dalla sbiadita copertina rossa e dai tagli dorati. Ci volle in realtà più d'una serata per leggerlo, ma, alla prima occasione, la stessa signora pose un'altra domanda. «Che titolo gli avete dato?» «Nessuno.» «Oh, io ne ho uno!» esclamai. Ma Douglas, senza badare a me, aveva cominciato a leggere con voce limpida e netta: quasi la versione sonora della bella grafia dell'autrice. I Ricordo l'intero inizio come un succedersi di alti e bassi, una piccola altalena di emozioni giuste e sbagliate. Dopo lo slancio che, in città, mi aveva spinto ad accogliere il suo invito, passai un paio di giorni pessimi sotto ogni profilo... mi ritrovai di nuovo piena di dubbi, e sicura di aver commesso un errore. In questo stato d'animo trascorsi le lunghe ore del viaggio in una diligenza oscillante e sobbalzante che mi portò alla fermata di posta dove dovevo trovare una vettura della casa. Questa comodità, mi fu detto, era stata predisposta, e trovai infatti, sul finire di un pomeriggio di giugno, una spaziosa carrozza ad attendermi. Viaggiando a quell'ora, in una giornata incantevole, attraverso una campagna in cui la dolcezza dell'estate sembrava offrirmi un amichevole benvenuto, ripresi coraggio e, mentre svoltavamo nel viale, provai un senso di sollievo che probabilmente non era altro che la prova di quanto mi fossi lasciata abbattere. Forse avevo aspettato, o temuto, qualcosa di tanto malinconico che quello che mi accolse costituì una piacevole sorpresa. Ricordo la gradevolissima impressione che produsse in

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me la grande, luminosa facciata, con le sue finestre aperte e le tende nuove e un paio di domestiche che guardavano giù; ricordo il prato e i fiori dai colori accesi e lo stridere delle ruote sulla ghiaia e le cime degli alberi intrecciate e i larghi cerchi delle cornacchie in volo e il loro gracchiare nel cielo d'oro. La scena aveva una grandiosità tale da umiliare al confronto la mia già modesta dimora, ed ecco che subito apparve sulla soglia dell'ingresso principale, tenendo per mano una bambina, una persona piena di dignità, che mi fece una compita riverenza, quasi che fossi la padrona o un'ospite di gran riguardo. L'idea che del posto mi era stata data ad Harley Street era assai più modesta, sicché, nel ricordarmene, mi convinsi che il proprietario era davvero un gentiluomo di razza, e immaginai che le soddisfazioni che mi aspettavano sarebbero state superiori a quanto mi era stato promesso. Non provai alcuna delusione sino al giorno seguente, poiché trascorsi ore di vera esaltazione facendo conoscenza con la più piccola dei miei allievi. La bambina che stava in compagnia della signora Grose mi apparve di colpo una creatura così incantevole da farmi ritenere una gran fortuna l'avere a che fare con lei. Era la più bella bambina che io avessi mai visto, e in seguito mi stupii che il mio padrone non me ne avesse parlato di più. Dormii poco quella notte: ero troppo eccitata; e questo, ricordo, stupì anche me; l'eccitazione non mi lasciava, aggiungendosi all'impressione prodotta in me dalla viva gentilezza con cui ero stata trattata. La camera solenne e spaziosa, una delle migliori della casa, l'ampio letto regale (o così almeno sembrava a me), le sontuose cortine ricamate, i lunghi specchi in cui, per la prima volta nella mia vita, potevo vedermi da capo a piedi, tutto mi colpiva (insieme con il fascino straordinario della mia piccola allieva) come troppe cose belle in una volta sola. Mi apparve anche chiaro, sin dal primo momento, che con la signora Grose avrei potuto stringere quei rapporti di amicizia sopra i quali, strada facendo, in diligenza, avevo rimuginato fin troppo. L'unica cosa che, in questo primo contatto, avrebbe potuto risvegliare la mia inquietudine, era il suo evidentissimo sollievo nel vedermi. Nel giro di mezz'ora mi accorsi che era così felice di incontrarmi - quella brava donna semplice, linda, robusta, piena di salute - da doversi sicuramente controllare per non darlo troppo a vedere. Mi meravigliai persino un poco del fatto che cercasse di non mostrarlo, e questo se ci avessi riflettuto con una punta di sospetto, avrebbe dovuto mettermi a disagio. Ma era un conforto pensare che non ci sarebbero state ombre sul rapporto che avrei stretto con una bambina così gioiosa e raggiante come la mia piccola allieva, e il ricordo della sua angelica bellezza fu probabilmente, più di tutto, la causa dell'agitazione che, prima di giorno, mi spinse ad alzarmi numerose volte e a passeggiare per la stanza sino a che mi fossero familiari i contorni di ogni cosa; a spiare, dalla finestra spalancata, il lontano albeggiare del giorno estivo, a cercar di scoprire, sin dove arrivava lo sguardo, le altre sezioni della casa, e a tendere l'orecchio per afferrare - mentre nella penombra evanescente i primi uccelli cominciavano a cinguettare - certi rumori meno naturali che mi pareva d'aver udito, provenienti dall'interno e non dall'esterno della casa. C'era stato un momento in cui avevo creduto di riconoscere, debole e lontano, il pianto di un

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bambino; ce n'era stato un altro in cui mi ero accorta di sussultare al passaggio, davanti alla mia porta, di un passo leggero. Ma tali impressioni non erano tanto marcate da non potersi facilmente respingere, ed è soltanto alla luce (o dovrei dire piuttosto: «alla tenebra») degli avvenimenti successivi che mi tornano adesso alla mente. Sorvegliare, istruire, «formare» la piccola Flora doveva decisamente bastare a rendere felice e utile la mia vita. Da basso ci eravamo già accordate che, dopo quella prima notte, lei avrebbe dormito con me: a questo scopo il suo bianco lettino era già stato sistemato nella mia camera. Mi ero assunta l'incarico di occuparmi di lei completamente, e se era rimasta ancora per una notte con la signora Grose, lo si doveva soltanto al fatto che io ero un'estranea, e lei timida di natura. A dispetto di questa timidezza (che la bambina stessa, nel più singolare dei modi, aveva riconosciuto con franchezza e coraggio, permettendo così, con la profonda, soave serenità di un putto di Raffaello, che noi due ne discutessimo, gliela imputassimo e decidessimo in proposito), ero pienamente sicura che me la sarei rapidamente conquistata. Una parte della simpatia che già provavo per la signora Grose derivava anche da questo, dal piacere che manifestava per la mia ammirazione e la mia meraviglia nel sedere ad una tavola illuminata da quattro alte candele, con la mia allieva che mi stava di fronte tutta allegra nel suo seggiolone, un bavaglino al collo, e pane e latte davanti. C'erano naturalmente delle cose che alla presenza di Flora potevamo dirci soltanto con sguardi sorpresi e compiaciuti o con allusioni indirette ed oscure. «E il bimbo... le somiglia? È altrettanto straordinario?» Non bisognerebbe adulare i bambini. «Oh, signorina, molto straordinario. Se già pensate tanto bene di questa!...» e se ne stette li, con un piatto in mano, a contemplare la nostra compagna, che volgeva su di noi uno sguardo tanto placido e celestiale che ci dispensava dal trattenerci. «Ebbene, se già penso così...?» «Allora il signorino vi conquisterà!» «Bene, mi sembra di esser venuta solo per questo, per farmi conquistare. Temo, tuttavia,» mi ricordo di aver aggiunto d'impulso, «di lasciarmi conquistare un po' troppo facilmente. Anche a Londra sono stata conquistata!» Vedo ancora il largo volto della signora Grose mentre ascoltava le mie parole. «A Harley Street?» «A Harley Street.» «Be', signorina, non siete la prima... e non sarete nemmeno l'ultima.» «Oh,» dissi ridendo, «non ho la presunzione d'essere l'unica. L'altro mio allievo, comunque, se ho ben capito, arriva domani?» «Non domani, signorina... venerdì. Arriverà con la diligenza, come voi, sotto la sorveglianza del postiglione, e troverà ad aspettarlo la stessa vostra vettura.» Avanzai subito il suggerimento che la cosa più opportuna, nonché gentile e amichevole, sarebbe stata dunque che, all'arrivo della diligenza, io mi trovassi ad aspettarlo con la sua sorellina; un suggerimento che la signora Grose accolse tanto

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favorevolmente che io, in certa misura, interpretai il suo comportamento come una sorta di confortante impegno - sempre mantenuto in seguito, grazie al cielo! - d'essere solidale con me in ogni punto. Oh, com'era contenta della mia presenza! Quello che provai il giorno dopo non era niente che, a mio giudizio, si potesse onestamente chiamare una reazione all'euforia dell'arrivo; era probabilmente, e al massimo, un leggero senso di oppressione prodotto da una più precisa valutazione della misura del mio impegno, mentre lo esaminavo e lo analizzavo in tutti i suoi aspetti. Le mie responsabilità avevano, in effetti, un'estensione e un peso a cui non ero preparata, e di fronte ai quali, sulle prime, mi trovai leggermente sgomenta, ma anche orgogliosa. Le lezioni, in tale stato di agitazione, subirono naturalmente qualche rinvio; pensai che il mio primo dovere fosse quello di creare una profonda intimità tra me e la bambina, con le arti più gentili di cui ero capace. Passai la giornata all'aperto insieme a lei; convenimmo, con sua grande soddisfazione, che sarebbe toccato a lei, a lei sola, di farmi conoscere il luogo. Me lo fece visitare passo a passo, stanza per stanza, segreto per segreto, commentando ogni cosa con il suo chiacchiericcio infantile, incoerente e delizioso, e con il risultato che, nel giro di mezz'ora, eravamo diventate grandissime amiche. Durante il nostro piccolo giro, fui colpita dalla sicurezza e dal coraggio con cui, piccola com'era, affrontava il percorso; in camere vuote e corridoi bui, su scale a chiocciola che mi costringevano a fare una sosta e persino sulla cima di una vecchia torre quadrata e merlata che mi dava le vertigini, il suo cinguettio mattutino, la sua tendenza a dirmi molte più cose di quante ne chiedesse, suonavano festosi e mi stimolavano. Non ho più visto Bly dal giorno in cui ne sono partita, e certamente apparirebbe oggi, al mio sguardo più vecchio e sperimentato, più piccolo e angusto. Ma, mentre la mia piccola guida dai capelli d'oro e dalla vestina azzurra danzava avanti a me da un angolo all'altro e sgambettava lungo i corridoi, Bly mi apparve come un castello da romanzo abitato da un folletto rosa, un luogo che in qualche modo, per passatempo di una mente infantile, avesse preso forma e colori dai libri di racconti e dalle favole. Non era forse un libro di fiabe, quello su cui m'ero appisolata per sognare? No: era una casa grande, brutta, vecchia, ma comoda, che incorporava alcune parti di una costruzione anche più antica, mezzo rifatta e mezzo utilizzata, in cui immaginavo che fossimo smarriti quasi come un pugno di passeggeri su una grande nave alla deriva. E, cosa strana, al timone c'ero io! II

Me ne resi conto quando, due giorni dopo, mi recai in carrozza con Flora ad accogliere il signorino, come diceva la signora Grose; e ancor più per un incidente che, la seconda sera, mi aveva profondamente sconcertata. Il primo giorno nel complesso, come ho riferito, era stato rassicurante; ma dovevo vederlo chiudere nella più viva

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apprensione. Nella posta di quella sera, che giunse tardi, c'era una lettera per me, composta tuttavia, come scoprii, di poche parole di pugno del padrone, che a sua volta ne conteneva un'altra, indirizzata a lui, con il sigillo ancora intatto. «Questa lettera, la riconosco, proviene dal direttore del collegio, un seccatore insopportabile. Leggetela, per favore; trattate con lui; ma non me ne parlate. Nemmeno una parola. Parto!» Ruppi il sigillo con grande sforzo; tanto grande che mi ci volle un bel po' di tempo per venirne a capo; poi portai la lettera ancora chiusa in camera mia, e cominciai a leggerla soltanto poco prima di andare a letto. Avrei fatto meglio ad aspettare sino al mattino, perché mi procurò un'altra notte insonne. Non avendo a chi chiedere consiglio, il giorno dopo, ero piena di inquietudine; e lo divenni a un punto tale che alla fine decisi di confidarmi almeno con la signora Grose. «Che cosa significa? Il bambino è stato mandato via dal collegio.» Mi lanciò uno sguardo che al momento mi impressionò; poi, assunta di colpo un'aria assente, parve volerlo recuperare. «Ma non li rimandano tutti...?» «A casa? Sì, ma soltanto per le vacanze. Miles invece non potrà più tornare in collegio.» Consapevole del mio sguardo attento, arrossì. «Non vogliono più tenerlo?» «Si rifiutano nel modo più assoluto.» A queste parole alzò gli occhi, che aveva distolto da me; li vidi pieni di lacrime. «Che cosa ha fatto?» Esitai; poi giudicai più semplice tenderle la lettera. Ma il gesto, tuttavia, servì soltanto a farle portare le mani dietro la schiena, senza prenderla. Scosse mestamente il capo, dicendo: «Queste cose non fanno per me, signorina.» La mia consigliera non sapeva leggere! Trasalii per il mio errore e, cercando di attenuarlo per quanto potevo, apersi la lettera per leggergliela; quindi, esitando, la piegai di nuovo e la rimisi in tasca. «È davvero cattivo?» Aveva ancora gli occhi pieni di lacrime. «Dicono così quei signori?» «Non entrano nei particolari. Esprimono soltanto il loro rincrescimento per l'impossibilità di tenerlo ancora. E questo può voler dire solo una cosa.» La signora Grose ascoltava con muta emozione; si astenne dal chiedermi quale potesse essere questa cosa; sicché poco dopo, per dare alla faccenda un minimo di coerenza e chiarirla a me stessa, con il solo aiuto della sua silenziosa presenza proseguii: «Cioè che può esser di danno ai suoi compagni.» A queste parole, con uno dei bruschi mutamenti di umore propri delle anime semplici, si infiammò di colpo. «Il padroncino Miles!... Lui esser di danno?» C'era un tale flusso di buona fede nelle sue parole che, per quanto non avessi mai visto il bambino, fui spinta dalle mie stesse paure ad aggrapparmi all'assurdità di quell'idea. E mi trovai all'istante, per venire incontro alla mia amica, a commentare sarcasticamente: «Ai suoi piccoli, innocenti compagni!» «È semplicemente spaventoso dire cose tanto crudeli!» esclamò la signora Grose. «Non ha ancora dieci anni.»

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«Sì, sì; sembra davvero incredibile.» Mi fu evidentemente grata di questa affermazione. «Prima vedetelo, signorina. Poi provate a crederlo!» Immediatamente, sentii di nuovo l'urgente desiderio di conoscerlo; era l'inizio di una curiosità che, nelle ore successive, si sarebbe acuita fino a darmi pena. La signora Grose, a quanto potei giudicare, era consapevole dell'effetto che aveva prodotto su di me, e insisté con sicurezza. «Potreste pensare altrettanto della signorina. Dio la benedica,» aggiunse un attimo dopo, «ma guardatela!» Mi voltai e vidi Flora - che, dieci minuti prima, avevo lasciato, nello studio con un foglio di carta bianca, una matita, e una fila di begli «o» rotondi davanti - ferma sulla soglia della porta spalancata. Con il suo fare grazioso, ella mostrava uno straordinario distacco dai compiti che non le erano graditi; tuttavia i suoi occhi, accesi dalla gran luce dell'infanzia, sembravano spiegare la sua condotta semplicemente come il risultato dell'affetto che aveva concepito per me, e che l'aveva costretta a seguirmi. Non mi occorreva altro perché sentissi tutta la forza del paragone della signora Grose: strinsi la mia allieva tra le braccia e la coprii di baci a cui si mescolava un singhiozzo di ammenda. Per tutto il resto della giornata, tuttavia, andai in cerca di altre occasioni per avvicinare la mia collega, specialmente quando, verso sera, cominciai a sospettare che stesse cercando di evitarmi. La raggiunsi, ricordo, sulla scala; scendemmo i gradini insieme, e giunte in fondo la trattenni, prendendola per un braccio. «Da quello che mi avete detto stamattina, devo concludere che voi non lo avete mai visto comportarsi male.» Gettò indietro la testa; era chiaro che, nel frattempo, e con molta onestà, aveva deciso l'atteggiamento da prendere. «Oh, mai visto... non voglio dire questo!» Ero di nuovo turbata. «Allora lo avete visto...?» «Ma sì, signorina, grazie al cielo!» Riflettei sulla risposta prima di prenderla per buona. «Volete dire che un ragazzo che non si è mai...?» «Non è un ragazzo, per me!» La strinsi più forte. «Vi piace che siano dei monelli?» Poi, anticipando la sua risposta: «Piace anche a me!» aggiunsi in fretta. «Ma non sino al punto di contaminare...» «Contaminare?» La mia parolona la disorientava. Gliela spiegai: «Corrompere.» Mi guardava fisso, mentre finalmente afferrava il significato di quel che avevo detto; ma il risultato fu una strana risata. «Avete forse paura che corrompa lei?» Pose la domanda con un'ironia tanto franca e sottile che con una risata simile alla sua, e senza dubbio un po' sciocca, cedetti per il momento alla paura del ridicolo. Ma il giorno dopo, mentre si avvicinava l'ora di montare in carrozza, tornai improvvisamente alla carica in un'altra parte della casa. «Che tipo era la signorina che stava qui prima?»

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«L'ultima istitutrice? Anche lei era giovane e carina... giovane e carina quasi quanto voi, signorina.» «Ah, allora spero che la giovinezza e la bellezza le siano state d'aiuto!» ricordo di aver detto impetuosamente. «Sembra che ci preferisca giovani e belle!» «Oh, è proprio così,» confermò la signora Grose. «Era quello che cercava in tutte!» Aveva appena pronunciate quelle parole e già cercava di correggerle: «Voglio dire che questo è il suo gusto, il gusto del padrone.» Rimasi di stucco. «Ma di chi parlavate prima?» Si sforzò di apparire disinvolta, ma arrossì. «Ma come, di lui.» «Del padrone?» «E di chi altro?» Era talmente evidente che non ci potesse essere nessun altro che un attimo dopo avevo già dimenticato l'impressione che, inavvertitamente, lei avesse detto più di quanto voleva; pertanto le chiesi solo quel che desideravo sapere. «E lei aveva mai notato nulla nel bambino...?» «Che non andava? Non me l'ha mai detto.» Ebbi uno scrupolo, ma lo dominai. «Era premurosa... piena di attenzioni?» La signora Grose si sforzò di apparire coscienziosa. «Per certe cose... sì.» «Ma non in tutto?» Prese ancora tempo per riflettere. «Be', signorina... se n'è andata. Non voglio fare pettegolezzi.» «Vi capisco perfettamente,» mi affrettai a rispondere; ma, un istante dopo, ritenni di non venir meno a questa concessione insistendo: «È morta qui?» «No... se n'era andata.» Non so che cosa ci fosse in quella concisione della signora Grose che mi suonava strano. «Se n'era andata per morire altrove?» La signora Grose guardava dritto davanti a sé, fuori della finestra, ma io sentii che, almeno in teoria, avevo il diritto di sapere che cosa ci si aspettava dalle giovani assunte a Bly. «Volete dire che si ammalò, e che se ne tornò a casa?» «A quanto sembra, non si era ammalata in questa casa. La lasciò a fine d'anno per passare a casa sua, come diceva, una breve vacanza, a cui certamente le dava diritto il tempo che aveva trascorso qui. Avevamo qui allora una giovane, una bambinaia che era rimasta, una ragazza sveglia e brava; e fu lei a occuparsi dei bambini durante la vacanza. Ma la nostra signorina non tornò più, e proprio quando mi aspettavo che tornasse il padrone mi fece sapere che era morta.» Riflettei per un po'. «Ma di che cosa?» «Non me l'ha mai detto! Scusatemi, signorina,» disse la signora Grose, «ma adesso devo tornare alle mie faccende.» III

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Il suo voltarmi le spalle a quel modo non fu per fortuna, date le mie vive preoccupazioni, un affronto che potesse compromettere lo sviluppo della nostra reciproca stima. Dopo che ebbi accompagnato a casa il piccolo Miles, ci sentimmo anzi più unite che mai dal mio stupore, dalla mia totale commozione: ero infatti pronta a gridare che era mostruoso che un bambino come quello che avevo appena conosciuto fosse messo al bando. Arrivai con un leggero ritardo, e mi sembrò - nel vederlo sulla porta della locanda dove lo aveva lasciato la diligenza, gli occhi che mi cercavano ansiosamente - che fosse circondato e permeato dalla stessa luminosa freschezza, dalla stessa fragrante purezza che fin dal primo momento avevo notato nella sua sorellina. Era incredibilmente bello, e la signora Grose non aveva esagerato: davanti a lui, ogni cosa fu cancellata da uno slancio di appassionata tenerezza. Quello che all'istante mi rapì il cuore fu qualcosa di celeste, qualcosa che non avevo mai trovato, nello stesso grado, in altri bambini: la sua tranquilla, indescrivibile aria di non conoscere altro al mondo che l'amore. Era impossibile avere una brutta fama e, insieme, quell'aria di dolcezza infinita; sicché, mentre tornavo a Bly con lui, ero semplicemente sbalordita (è la parola giusta, non mi sentivo offesa) per il contenuto dell'orribile lettera che tenevo in camera mia, chiusa in un cassetto. Appena mi fu possibile scambiare qualche parola in privato con la signora Grose, le dichiarai che la cosa era persino grottesca. Mi comprese immediatamente. «Volete dire quell'accusa crudele...?» «Non regge assolutamente. Ma guardatelo, cara signora!» Sorrise alla mia pretesa d'aver scoperto il suo fascino. «Vi assicuro, signorina, che non faccio altro! Allora, che direte?» aggiunse subito dopo. «In risposta alla lettera?» Avevo già deciso. «Niente.» «E a suo zio?» Fui categorica. «Niente.» «E al bambino?» Fui stupefacente. «Niente.» Si asciugò vigorosamente la bocca con il grembiule. «Allora sarò al vostro fianco. Andremo sino in fondo.» «Andremo sino in fondo!» Le feci eco con ardore, tendendole la mano come per stringere un patto. La trattenne un momento, poi, con la mano libera, sollevò di nuovo il grembiule. «Vi dispiace, signorina, se mi prendo la libertà di...» «Darmi un bacio? No!» Strinsi tra le braccia quella buona creatura, e, dopo che ci fummo abbracciate come sorelle, mi sentii ancora più forte e piena di indignazione. Questo fu tutto, per il momento: ma un momento così pieno che, ripensandoci ora, mi accorgo di dover fare un certo sforzo per ritrovarne gli esatti contorni. Ciò a cui ripenso con stupore è lo stato di cose che avevo accettato. Mi ero impegnata, con la mia compagna, ad andare sino in fondo, e, a quanto pare, ero preda di un incantesimo capace

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di nascondere l'ampiezza e la reale difficoltà di un simile impegno. Ero sollevata da un'onda enorme di entusiasmo e di pietà. Trovavo semplice, nella mia ignoranza, nella mia confusione e, forse, nella mia presunzione, ritenere di poter trattare con un ragazzo il quale, nella sua educazione alle cose del mondo, era soltanto agli inizi. Non riesco neppure a ricordare, oggi, quali progetti avessi per lui una volta che, terminate le vacanze, avrebbe dovuto riprendere gli studi. Avevamo stabilito, in teoria, che egli dovesse prendere lezioni da me durante quell'incantevole estate; ma ora mi accorgo che, per intere settimane, fui piuttosto io a prendere lezioni. Imparai qualcosa (certamente all'inizio) che non avevo appreso dalla mia vita modesta e limitata: imparai a divertirmi, e persino a saper divertire, e a non pensare al domani. Era la prima volta, in un certo senso, che mi accorgevo dello spazio e dell'aria e della libertà, di tutta la musica dell'estate e dei misteri della natura. E poi c'era la considerazione che godevo... e la considerazione era tanto dolce. Oh, era una trappola... non premeditata, ma profonda, per la mia immaginazione, per la mia sensibilità, forse per la mia vanità; per qualunque cosa, in me, fosse vulnerabile. Insomma, per dire come erano le cose: non stavo più in guardia. Loro mi davano così poco pensiero... erano di una gentilezza d'animo così straordinaria. Ero solita chiedermi, ma anche questo in modo incoerente, come li avrebbe trattati l'aspro futuro (ogni futuro è aspro), e se li avrebbe feriti. Erano nel fiore della salute e della felicità; eppure - come se mi fosse stata affidata una coppia di «altezze», di principi del sangue, per i quali ogni cosa, per esser giusta, deve essere vigilata e protetta - la sola forma che, per gli anni a venire, vedessi possibile per loro nelle mie fantasticherie era un prolungamento romantico, davvero regale, del giardino e del parco. Può darsi, naturalmente, e soprattutto, che ciò che accadde in seguito e all'improvviso conferisca a quel primo periodo il fascino della calma... quella penombra quieta in cui qualcosa si acquatta e prende vigore. E infatti il cambiamento fu simile al balzo di una belva. Nelle prime settimane, i giorni erano lunghi; spesso, al colmo della loro bellezza, mi regalavano ciò che io chiamavo la «mia» ora, l'ora in cui - essendo venuto e trascorso per i miei allievi il tempo di prendere il tè e di andare a letto - mi restava, prima di ritirarmi definitivamente, un breve intervallo di solitudine. Per quanto mi piacessero i miei compagni, questa era l'ora del giorno che amavo di più; e l'amavo soprattutto quando, mentre la luce del giorno svaniva - o, per meglio dire, il giorno indugiava, e gli ultimi richiami degli uccelli risuonavano, nel cielo di porpora, dagli alberi antichi - potevo passeggiare nel parco e godere, quasi con una sensazione di possesso che mi divertiva e insieme mi lusingava, della bellezza e del decoro del luogo. Era un piacere per me in quei momenti sentirmi tranquilla e in pace con la mia coscienza; e anche forse pensare che con la mia discrezione, con il mio calmo buon senso e in generale con le mie alte qualità davo senza dubbio piacere - se mai lui vi avesse pensato! - alla persona che mi aveva convinto con le sue pressioni. Ciò che stavo facendo era quanto egli aveva ardentemente sperato e mi aveva chiesto direttamente, e che io fossi in grado, dopo tutto, di farlo, mi dava una gioia anche più grande di quella che avrei potuto aspettarmi.

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Oso dire che mi consideravo, per farla breve, una giovane eccezionale, e mi dava conforto il fatto che questo sarebbe stato sempre più manifesto a tutti. Bene, avevo proprio bisogno di essere eccezionale per poter affrontare le cose eccezionali che, di lì a poco, avrebbero cominciato a verificarsi. Accadde all'improvviso, un pomeriggio, nel bel mezzo dell'ora che chiamavo mia: i bambini erano a letto, ed io ero uscita per la mia passeggiata. Uno dei pensieri (che ora non ho la minima esitazione ad annotare) che erano soliti accompagnarmi in quel mio vagabondare era che sarebbe stato incantevole, degno di un romanzo incantevole, incontrare improvvisamente qualcuno. Qualcuno che mi apparisse laggiù, alla svolta del sentiero, e che - fermo davanti a me - mi sorridesse con l'aria di approvarmi. Non chiedevo niente di più... chiedevo soltanto che sapesse; e il solo modo per esser certa che sapeva, sarebbe stato di leggerlo sul suo bel viso, rischiarato dalla luce gentile di quella consapevolezza. Tutto ciò - intendo dire soprattutto quel volto - era esattamente presente al mio spirito, quando, alla prima di quelle straordinarie occasioni, sul finire di una lunga giornata di giugno, mi fermai di colpo uscendo da uno dei boschetti, in vista della casa. Ciò che mi aveva fatto fermare di colpo (preda di un turbamento assai più grande di quanto sarebbe stato giustificato da una apparizione) era l'impressione che la mia fantasia, in un lampo, fosse diventata realtà. Egli era là!... ma su in alto, oltre il prato, proprio sulla cima della torre dove, la prima mattina, mi aveva condotto la piccola Flora. Quella torre era una delle due costruzioni quadrate, assurde, merlate, che per non so quale ragione, e sebbene io vi vedessi solo minime differenze, erano distinte in Torre vecchia e Torre nuova. Si ergevano ai lati opposti della casa, ed erano probabilmente due scherzi architettonici, riscattati in certa misura dal fatto di non essere del tutto isolate, né di un'altezza troppo pretenziosa, mentre la loro antichità vistosa e falsa risaliva a un risveglio di architettura romantico che costituiva già un rispettabile passato. Io le ammiravo, ci fantasticavo sopra, dal momento che tutti potevamo ricavare qualche profitto, specialmente quando torreggiavano nella foschia, dall'imponenza dei loro bastioni; e tuttavia non sembrava quello il luogo più degno per l'immagine che avevo così spesso invocato. Nel limpido crepuscolo quell'immagine produsse in me, ricordo, due emozioni ben distinte, le quali non furono, in definitiva, che due moti separati di sorpresa. La seconda sorpresa fu la violenta percezione dell'errore della prima: l'uomo che vedevo non era infatti la persona che avevo precipitosamente supposto. Ne provai un tale turbamento che, dopo tanti anni, non posso sperare di darne una descrizione precisa. Si ammetterà che un uomo sconosciuto, in un posto solitario, sia causa di paura per una ragazza cresciuta in famiglia; e la figura che mi stava di fronte, bastarono pochi secondi perché ne fossi sicura, non assomigliava minimamente né a qualcuno che conoscessi né all'immagine che mi era familiare. Non l'avevo veduto a Harley Street, non l'avevo veduto da nessuna parte. Per giunta il luogo, in maniera davvero singolare, era diventato all'istante, e per il solo fatto di quella apparizione, perfettamente desolato. Si rinnova interamente in me, mentre stendo qui la mia testimonianza con una pacatezza che non

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avevo mai avuto prima, la sensazione di quel momento. Era come se, nell'istante in cui mi rendevo conto di quello che vedevo, ogni cosa fosse stata toccata dalla morte. Odo ancora, mentre scrivo, la quiete intensa in cui si spensero tutti i rumori della sera. Le cornacchie smisero di gracchiare nel cielo d'oro, e l'ora amica smarrì per il momento tutta la sua voce. Ma nient'altro era mutato nella natura, a meno che non fosse per un mutamento che io vedevo con eccezionale nitidezza. L'oro era ancora sospeso nel cielo, l'aria era tersa, e l'uomo che mi osservava da sopra i merli spiccava come un ritratto nella sua cornice. Ecco perché pensai, con straordinaria rapidità, a tutte le persone che avrebbe potuto essere e che non era. Ci eravamo fissati di lontano abbastanza a lungo perché avessi modo di chiedermi con ansia chi mai fosse, e di provare, come conseguenza della mia incapacità di trovare la risposta, uno stupore che si faceva sempre più intenso. Il grande problema (o almeno uno dei più grandi) che sorge a riguardo di certi fatti, è quello di stabilire, in seguito, quanto essi siano durati. Ebbene, questa mia avventura durò (e voi pensate ciò che vi pare) il tempo necessario perché io formulassi una dozzina di ipotesi, nessuna delle quali mi parve soddisfacente, sul fatto che c'era in casa - e da quanto tempo, oltretutto? - una persona che ignoravo. Durò inoltre il tempo sufficiente perché io mi adombrassi un poco nel pensare che la mia posizione era tale da rendere inammissibile che io ignorassi la presenza di quella persona. Durò, infine, quel che ci voleva perché il visitatore (e c'era una punta di insolenza, adesso che ci penso, nella strana familiarità che dimostrava nel restare senza cappello) mi potesse fissare dal suo posto, rivolgendomi nella luce che se ne andava la stessa domanda, lo stesso interrogativo che suscitava in me la sua presenza. Eravamo troppo distanti per poterci rivolgere la parola, ma ci fu un momento in cui, se fossimo stati più vicini, una parola di sfida tra di noi, rompendo il silenzio, sarebbe stata il giusto risultato di quel nostro reciproco e sfrontato fissarci. Egli stava nell'angolo più lontano della casa, dritto come un fuso, pensai, e con entrambe le mani sul parapetto. Sicché lo vidi, così come vedo le lettere che vado tracciando su questa pagina; poi, un minuto dopo, come per rendere più interessante lo spettacolo, lentamente cambiò di posto... passò, guardandomi fisso per tutto il tempo, all'angolo opposto della piattaforma. Sì, ebbi la netta sensazione che durante quello spostamento non mi levasse mai gli occhi di dosso, e in questo momento vedo ancora la sua mano passare da un merlo all'altro, mentre lui si muoveva. Giunto all'angolo opposto si fermò, ma meno a lungo, continuando però a fissarmi intensamente. Si voltò; e per me questo fu tutto. IV

Non si può certo dire che in quell'occasione non mi aspettassi di saperne di più, tanto a fondo ero stata colpita e sconvolta. C'era un «segreto» a Bly... un mistero

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d'Udolfo oppure un pazzo, un parente di cui non si deve parlare, tenuto laggiù in un isolamento insospettato? Non saprei dire per quanto tempo vi rimuginai sopra, o per quanto tempo, sospesa tra curiosità e paura, rimasi sul luogo dove avevo avuto quel traumatico incontro; ricordo soltanto che quando rientrai in casa, la notte era scesa. Nel frattempo, l'agitazione si era certamente impadronita di me, al punto che, aggirandomi sempre nel medesimo posto, dovevo aver percorso circa tre miglia; ma mi sarebbe toccato in seguito un tale cumulo di angosce che quel primo segno di allarme era un brivido ancora relativamente umano. L'aspetto più singolare della vicenda (singolare quanto tutto il resto) mi apparve chiaro allorché incontrai nell'atrio la signora Grose. La scena mi ricompare davanti nelle sue linee generali... riprovo l'impressione che mi fecero, rientrando, l'ampio spazio a pannelli bianchi, vivamente illuminato dalle lampade, con i suoi ritratti e il tappeto rosso, e il dolce sguardo meravigliato dalla mia amica, che immediatamente mi disse di aver sentito la mia mancanza. Compresi subito, in questo contatto con lei, che - con quella sua tranquilla cordialità, con quella semplice ansia dissipata dalla mia comparsa - la signora Grose non sapeva nulla che avesse a che fare con l'incidente che ero pronta a raccontarle. Non avevo immaginato che il suo viso amico mi avrebbe tanto rianimata, e in certo qual modo misurai la gravità di quanto avevo veduto dall'esitazione che provai a parlarne. Quasi nient'altro, in tutta questa storia, mi appare tanto strano quanto il fatto che alla paura che cominciava ad invadermi si mescolasse, per così dire, l'istinto di risparmiare la mia compagna. Di conseguenza, per ragioni che allora non avrei saputo spiegare, si compì in me, in quell'atrio accogliente e sotto il suo sguardo, un rapido rivolgimento interiore: giustificai con una vaga scusa il mio ritardo e, prendendo a pretesto la bellezza della notte, la rugiada abbondante e i piedi bagnati, mi ritirai il più presto possibile in camera mia. Lì, fu tutt'altra cosa; lì, per molti giorni appresso, fu davvero una strana faccenda. Di giorno in giorno vi furono ore, o almeno dei momenti, strappati anche ai doveri più elementari, in cui dovetti chiudermi in camera a pensare. Non tanto perché il nervosismo superasse ormai la mia capacità di resistenza, quanto perché avevo una gran paura di arrivare a quel punto; poiché la verità, chiara e semplice, che dovevo affrontare adesso era che non potevo spiegarmi in nessun modo la presenza di quel visitatore con cui ero giunta in contatto in un modo tanto inesplicabile e tuttavia, almeno mi sembrava, tanto intimo. Mi ci volle però poco tempo per rendermi conto che avrei potuto, anche senza un'inchiesta formale e senza domande sospette, scoprire ogni complicazione domestica. La scossa che avevo subita doveva aver acuito tutte le mie facoltà; dopo tre soli giorni, come risultato di una semplice e più accorta vigilanza, ero infatti sicura che i domestici non si erano approfittati né fatti gioco di me. Qualunque cosa fosse ciò che io sapevo, intorno a me nessuno ne sapeva nulla. C'era dunque una sola conclusione sensata: qualcuno si era preso una libertà molto discutibile. Era questo che mi ripetevo quando correvo a chiudermi in camera mia. Tutti noi, collettivamente, eravamo stati vittime di un'intrusione; qualche viaggiatore privo di scrupoli, curioso di vecchie dimore, era penetrato in casa senza essere visto, s'era goduto il panorama dal posto più indicato, e

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poi era uscito furtivamente così com'era entrato. Se mi aveva squadrato con tanta sfrontatezza, ciò andava imputato semplicemente alla sua maleducazione. Dopotutto, il lato buono della cosa era che certamente non l'avremmo più rivisto. Non era poi tanto buono, lo ammetto, da impedirmi di considerare che ciò che rendeva davvero tutto il resto molto poco significativo era il mio delizioso compito. Il mio compito delizioso era nient'altro che la mia vita con Miles e Flora, e che tanto più mi piaceva quanto più mi rendevo conto di potermici dedicare anima e corpo nonostante le mie preoccupazioni. L'attrattiva dei miei piccoli incarichi era una gioia continua, che mi portava a meravigliarmi continuamente dei miei vani timori originari, del disgusto che avevo provato all'inizio per il probabile, prosaico grigiore del mio incarico. Non doveva esserci, a quanto sembrava, né prosaico grigiore né sfibrante fatica; sicché come poteva non essere delizioso un lavoro che si presentava come quotidiana bellezza? C'era in esso tutto il sapore delle fiabe infantili e delle prime poesie imparate a scuola. Non voglio dire con questo, naturalmente, che studiassimo soltanto favole e poesie; voglio dire che non so esprimere altrimenti il tipo di interesse che i miei piccoli compagni mi ispiravano. Come potrei descriverlo se non dicendo che, invece di far l'abitudine a loro (e si tratta di una cosa meravigliosa per un'istitutrice: chiamo a testimoni tutte le mie colleghe!) facevo sempre nuove scoperte? C'era però, con sicurezza, una direzione in cui tali scoperte si arrestavano: la più fitta oscurità continuava a regnare sulla condotta del bambino in collegio. Tuttavia, l'ho già detto, mi era stato subito concesso di affrontare quel mistero senza angoscia. Forse sarebbe anche più vicino alla verità dire che - senza una parola - il bambino stesso aveva chiarito tutto, rendendo assurda l'intera accusa. Le mie conclusioni sbocciarono come la sua rosea innocenza: egli era semplicemente troppo delicato e schietto per il piccolo mondo, orrido e sudicio, del collegio, e per questo aveva pagato. Riflettei amaramente che la rivelazione di tale diversità, di tali superiori qualità, finisce inevitabilmente per suscitare la vendetta della maggioranza (in cui si possono benissimo includere direttori scolastici stupidi e sordidi). Entrambi i bambini erano di una gentilezza di modi (era il loro unico difetto, che del resto non aveva fatto di Miles una femminuccia) che li rendeva, come dire?, quasi impersonali, e certamente impossibili da punire. Erano come i cherubini dell'aneddoto che, moralmente, almeno, non avevano niente che si potesse frustare! Ricordo che specialmente nei riguardi di Miles provavo l'impressione che non avesse alcun passato. Non che ci si possa aspettare molto da un fanciullo, ma c'era qualcosa, in quel bel bambino, di straordinariamente sensitivo, eppure straordinariamente felice, che, più che in ogni altra creatura della sua età che avessi conosciuto, mi colpiva come qualcosa che si rinnovasse ogni mattino. Egli non aveva mai sofferto, nemmeno per un istante. Presi questo come la prova diretta che non gli era mai stato inflitto un vero castigo. Se si fosse comportato male, ne avrebbe subito la logica conseguenza, e anch'io, di riflesso, me ne sarei accorta... ne avrei trovato le tracce. Non avevo trovato nulla, invece: dunque era un angelo. Non parlava mai del collegio, non accennò mai a un compagno o a un insegnante; e, per parte mia, ero troppo disgustata per alludervi. Naturalmente ero

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vittima di un incantesimo, e la cosa meravigliosa è che, fin da allora, me ne rendevo conto perfettamente. Tuttavia mi abbandonavo ad esso; era un antidoto per ogni cruccio, e di crucci ne avevo più d'uno. In quei giorni, infatti, mi giungevano lettere preoccupanti da casa, dove le cose non andavano bene. Ma, accanto ai miei bambini, quale altra cosa al mondo contava? Era questa la domanda che ero solita ripetermi durante le furtive scappatelle in camera mia. Ero abbagliata dalla loro amabile grazia. Una domenica - per proseguire il racconto - piovve tanto a lungo e tanto a dirotto che non potemmo recarci in chiesa in corteo; come conseguenza, con il trascorrere del giorno, mi ero accordata con la signora Grose che, se verso sera il tempo fosse migliorato, saremmo andate insieme alla funzione vespertina. Fortunatamente la pioggia cessò, ed io mi preparai per la passeggiata al villaggio che, attraverso il parco e lungo la strada maestra, richiedeva una ventina di minuti. Scendendo le scale per incontrarmi con la mia collega nell'atrio, mi ricordai di un paio di guanti a cui avevo dato qualche punto (con una pubblicità forse non edificante) mentre con i bambini prendevo il tè, che la domenica veniva eccezionalmente servito in quel freddo e pulito tempio di mogano e di ottone che era la sala da pranzo «dei grandi». I guanti li avevo lasciati là, e vi andai per prenderli. Il giorno era piuttosto grigio, ma la luce del pomeriggio non era del tutto scomparsa, e mi permise, nel varcare la soglia, non soltanto di riconoscere, su una sedia vicina alla grande finestra chiusa, ciò che cercavo, ma anche di accorgermi di una persona che, dalla parte esterna della finestra, guardava nella stanza. M'era bastato fare un passo: la visione era stata istantanea, e perfettamente chiara. La persona che guardava nella stanza era la stessa che mi era già apparsa. Mi riapparve così non direi con maggior nitidezza (cosa che sarebbe stata impossibile), ma con una vicinanza che rappresentava un passo avanti nei nostri rapporti e che, mentre lo guardavo, mi gelò il sangue. Era lo stesso... era lo stesso, e lo vedevo come la prima volta, dalla cintola in su, poiché la finestra, sebbene la stanza da pranzo fosse al pianterreno, era più alta della terrazza sulla quale egli si trovava. Il suo volto era premuto contro il vetro, eppure l'effetto di questa visione ravvicinata, strano a dirsi, fu soltanto quello di farmi capire quanto intensa fosse stata la prima. Si trattenne solo per pochi secondi, ma abbastanza per convincermi che anche lui mi aveva vista e riconosciuta; e fu come se lo avessi guardato per anni, e lo conoscessi da sempre. Accadde però qualcosa che non era avvenuta la volta precedente: il suo sguardo che si fissava sul mio viso attraverso i vetri dall'altro lato della stanza, era duro e scrutatore come la prima volta, ma mi abbandonò per un attimo, durante il quale lo seguii e lo vidi posarsi successivamente su diverse altre cose. Immediatamente, un'altra certezza mi sconvolse: non era venuto per me, era venuto per qualcun altro. Questa fulminea consapevolezza (perché proprio di consapevolezza si trattava, per quanto mescolata alla paura) produsse in me, mentre me ne stavo lì, un effetto straordinario, una vibrazione improvvisa di dovere e di coraggio. Dico coraggio perché senza dubbio ero completamente fuori di me. Lasciai di corsa la sala da pranzo, raggiunsi l'ingresso della casa, in un attimo fui nel viale e, voltato il più rapidamente possibile l'angolo della terrazza, gettai lo sguardo lungo la facciata. Ma quello sguardo

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non mi rivelò nulla... il mio visitatore era svanito. Mi fermai, e quasi svenni per il sollievo; ma tenevo il luogo sotto controllo... gli diedi il tempo di ricomparire. Lo chiamo tempo, ma quanto durò? Oggi non posso precisare la durata di quegli avvenimenti. Dovevo aver smarrito la nozione del tempo: i fatti non potevano esser durati tanto quanto allora mi sembrava. La terrazza, il luogo intero, il prato e il giardino al di là, tutto quello che potevo vedere del parco erano assolutamente deserti. C'erano cespugli e grossi alberi, ma ricordo di aver avuto la chiara certezza che non nascondessero nessuno. Mi tenni a quella convinzione; poi, istintivamente, invece di tornare sui miei passi, andai alla finestra. Avvertivo confusamente che dovevo mettermi nello stesso luogo nel quale egli era stato. E così feci; schiacciai il viso contro il vetro e guardai nella stanza, come lui aveva fatto. Proprio in quel momento, quasi per permettermi di giudicare l'ampiezza del suo campo visivo, la signora Grose entrò dall'atrio, come io avevo fatto poco prima. Ebbi così la perfetta ripetizione di ciò che era già accaduto. Mi vide come io avevo visto il mio visitatore; si arrestò di colpo come avevo fatto io; le feci provare, in parte, la stessa scossa che io avevo ricevuto. Impallidì, facendomi chiedere se anch'io fossi impallidita tanto. In breve, mi fissò, e quindi si ritrasse esattamente come avevo fatto io. Compresi che usciva dalla casa per raggiungermi, e che presto l'avrei incontrata. Rimasi dove mi trovavo, e mentre l'aspettavo più di un pensiero mi attraversò la mente. Ma ne voglio ricordare qui uno solo: mi chiesi perché anche lei si fosse spaventata. V

Oh, me lo fece sapere non appena mi fu davanti girando l'angolo della casa. «Che cosa vi è accaduto, in nome di Dio...?» Era rossa e ansante. Non dissi nulla sino a quando non mi fu vicina. «A me?» Dovevo avere un'espressione ben curiosa. «Si vede?» «Siete bianca come un lenzuolo. Avete un'aria spaventosa.» Riflettei un attimo; ora potevo affrontare senza scrupoli l'innocenza più assoluta. L'esigenza di rispettare il candore della signora Grose mi era caduta dalle spalle, senza un fruscio, e se esitai per un istante, non fu per nascondere ciò che sapevo. Le tesi una mano, ed ella la prese; strinse; la strinsi con forza per un po, contenta di sentirmela vicino. Il suo timido sussulto di sorpresa mi fu un poco d'aiuto. «Siete venuta a prendermi per andare in chiesa, naturalmente, ma io non posso venirci.» «È capitato qualcosa?» «Sì, e voi ora lo dovete sapere. Avevo un'aria molto strana?» «Alla finestra? Terribile!» «Ebbene,» dissi, «ero spaventata.» Gli occhi della signora Grose dicevano molto chiaramente che lei non desiderava essere spaventata a sua volta, ma dissero anche che

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conosceva troppo bene gli obblighi della sua posizione per non esser pronta a condividere con me qualunque inconveniente. Oh, era scritto che ne dovesse condividere molti! «Proprio quello che voi avete visto un momento fa dalla finestra della sala da pranzo ne era l'effetto. Quel che ho visto io, un attimo prima, era assai peggio.» Mi strinse più forte la mano. «Che cos'era?» «Un uomo stranissimo. Guardava dentro.» «Che uomo stranissimo?» «Non ne ho la minima idea.» La signora Grose si guardò intorno, invano. «Ma dove è andato?» «Ne so ancora meno.» «Lo avevate già visto?» «Sì... una volta. Sulla Torre vecchia.» Non poté fare altro che guardarmi più fisso. «Volete dire che è uno sconosciuto?» «Oh, assolutamente!» «E non me ne avete detto nulla?» «No... per certe ragioni. Ma adesso che avete indovinato...» Gli occhi rotondi della signora Grose affrontarono l'accusa. «Io non ho indovinato!» disse molto tranquillamente. «Come lo potrei, se voi stessa non sapete cosa pensarne?» «Non lo so nella maniera più assoluta.» «Lo avete visto soltanto sulla torre?» «E proprio in questo punto, un attimo fa.» La signora Grose si guardò di nuovo attorno. «Che cosa faceva sulla torre?» «Se ne stava lassù e mi fissava.» Rifletté un momento. «Era un signore?» Scoprii che non avevo bisogno di pensarci su. «No.» Mi guardava con crescente stupore. «No.» «Allora non è nessuno del posto? Nessuno del villaggio?» «Nessuno... nessuno. Non ve l'ho detto, ma me ne sono accertata.» Emise un leggero sospiro di sollievo: stranamente, sembrava andare un po' meglio. Ma fu solo questione di un attimo. «Ma allora, se non è un signore...» «Che cosa è? È un orrore.» «Un orrore?» «È... Dio mi aiuti se lo so!» Ancora una volta la signora Grose si guardò attorno; fissò lo sguardo all'infinito, nelle tenebre che si andavano addensando, poi, riprendendosi, si rivolse a me con una brusca incoerenza. «A quest'ora dovremmo essere in chiesa.» «Oh, non me la sento di andare in chiesa!» «Non potrebbe farvi bene?» «Non ne farebbe a loro...!» esclamai, accennando alla casa. «Ai bambini?»

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«Non li posso lasciare proprio adesso.» «Avete paura...?» Parlai con estrema chiarezza. «Ho paura di lui.» Sul largo volto della signora Grose apparve a questo punto, e per la prima volta, un remoto, debole lampo di comprensione; in qualche modo vi colsi il tardivo spuntare di un'idea che io non le avevo suggerito e che mi era ancora completamente oscura. Ricordo di aver pensato subito che avrei potuto strapparle al riguardo qualche confidenza; e sentivo che la cosa era legata al desiderio, da lei immediatamente dimostrato, di saperne di più. «Quando è successo... sulla torre?» «Verso la metà del mese. A questa stessa ora.» «Quasi al buio,» disse la signora Grose. «Oh no, non proprio. Lo vidi come vedo voi. «Ma come era potuto entrare?» «E come era potuto uscire,» risi. «Non ho avuto modo di chiederglielo! Stasera, lo vedete,» continuai, «non ce l'ha fatta ad entrare.» «Si limita a spiare?» «Spero che si limiterà a questo!» Ora aveva lasciato la mia mano; e aveva distolto un poco lo sguardo da me. Attesi un momento; poi proruppi: «Andate in chiesa. Arrivederci. Io devo vigilare.» Lentamente, si volse ancora verso di me. «Avete paura per loro?» Ci scambiammo un altro lungo sguardo. «E voi no?» Invece di rispondermi, si fece più vicina alla finestra, e per un po' premette il viso contro il vetro. «Era così che lui guardava,» continuai. Non si mosse. «Quanto tempo è rimasto qui?» «Sinché non sono corsa fuori. Ero uscita per sorprenderlo.» La signora Grose finalmente si voltò, e il suo viso era divenuto ancora più espressivo. «Io non sarei uscita.» «E nemmeno io!» risi. «Eppure sono uscita. Ho dei doveri.» «Anch'io ho i miei,» replicò; e subito dopo aggiunse: «A chi somiglia?» «Non so che cosa darei per potervelo dire. Ma non somiglia a nessuno.» «A nessuno?» mi fece eco. «Non porta cappello.» Poi, leggendo sul suo viso che già questo particolare era sufficiente a farle ricordare, con crescente sgomento, un certo ritratto, aggiunsi rapidamente pennellata a pennellata. «Ha i capelli rossi, molto rossi, molto ricciuti, e una faccia pallida, allungata, dai lineamenti regolari e piacevoli; e piccoli, curiosi favoriti, rossi come i capelli. Le sopracciglia sono però più scure, notevolmente arcuate e danno l'impressione d'esser molto mobili. Gli occhi sono penetranti, strani... in un modo orribile; ma posso dire con precisione soltanto che sono piuttosto piccoli e molto fissi. La bocca è grande, con labbra sottili, e, se si escludono i piccoli favoriti, è perfettamente rasato. Nell'insieme, mi fa pensare ad un attore.» «Un attore!» Era impossibile assomigliare a un attore meno della signora Grose in

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quel momento. «Non ne ho mai visto uno, ma immagino che siano così. È alto, agile, dritto come un fuso,» continuai. «Ma un signore no, assolutamente no.» Mentre parlavo, la mia compagna era ulteriormente impallidita; i suoi occhi tondi s'erano spalancati, e la sua mite bocca si aprì. «Un signore?» balbettò confusa, stupita. «Un signore lui?» «Allora lo conoscete?» Cercò visibilmente di riprendersi. «Ma è un bell'uomo?» Trovai il modo di aiutarla. «Notevolmente bello.» «E vestito...?» «Con i vestiti di un altro. Sono eleganti, ma non sono suoi.» Si lasciò sfuggire un gemito soffocato di approvazione. «Sono i vestiti del padrone!» Colsi la palla al balzo. «Allora lo conoscete davvero?» Esitò, ma soltanto per un attimo. «Quint!» esclamò. «Quint?» «Peter Quint... il suo domestico personale, il suo cameriere quando lui stava qui!» «Quando stava qui?» Ancora boccheggiando, ma pronta ad aiutarmi, mi fornì gli altri particolari. «Non portava mai cappello, ma si metteva... insomma, erano scomparsi alcuni panciotti! Erano qui tutt'e due... l'anno scorso. Poi il padrone se ne andò, e Quint rimase, solo.» Insistetti, ma un poco esitante. «Solo?» «Solo con noi.» Poi, come se estraesse le parole dal profondo, aggiunse: «A capo di tutti noi.» «E che ne è stato di lui?» Tardò tanto a rispondermi, che mi sentii ancor più rimescolata. «Se n'è andato anche lui,» sbottò alla fine. «Andato dove?» Un'espressione indicibile, a questa mia domanda, le si dipinse sul viso. «Dio sa dove! È morto.» «Morto?» quasi gridai. La signora Grose sembrò chiamare a raccolta tutte le sue forze, piantandosi più saldamente al suolo per affermare quella stupefacente verità. «Sì. Il signor Quint è morto.» VI

Ci volle, naturalmente, più di quella particolare circostanza per renderci entrambe pienamente consapevoli di ciò che ormai, giorno per giorno, avremmo dovuto affrontare

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come meglio potevamo: vale a dire la mia terribile suscettibilità a impressioni analoghe a quelle di cui era stato allora un così vivido esempio, e la conseguente conoscenza (una conoscenza mezzo costernazione e mezzo compassione) che la mia compagna aveva fatto di quella suscettibilità. Nessuna di noi due, quella sera, dopo la rivelazione che per più di un'ora mi aveva lasciato tanto prostrata, s'era recata in chiesa per la funzione; c'era invece stata una piccola funzione privata a base di lacrime e di voti, di preghiere e di promesse, culmine di una serie di richieste e di impegni reciproci che aveva avuto luogo immediatamente dopo che ci eravamo rifugiate e chiuse a chiave nello studio per una spiegazione esauriente. Il risultato della spiegazione consistette semplicemente nel ridurre ai termini essenziali la nostra situazione. Lei, da parte sua, non aveva visto nulla, nemmeno l'ombra di un'ombra, e nessuno in casa, all'infuori dell'istitutrice, si era trovato nella situazione dell'istitutrice; tuttavia la signora Grose, senza dubitare della mia salute mentale, accettò la verità così come gliela presentavo, e finì per dimostrarmi, in quell'occasione, una tenerezza mista a rispetto, una viva comprensione del mio più che discutibile privilegio; e il profumo di quegli atteggiamenti è rimasto nella mia memoria come il segno della più dolce delle carità umane. Quella sera arrivammo di comune accordo alla conclusione che, tutt'e due insieme, avremmo potuto affrontare meglio gli avvenimenti; e non ero neppure sicura che non fosse lei, malgrado la mia prova le fosse stata risparmiata, a dover portare il fardello più pesante. Credo che già sapessi allora, come seppi più tardi, quello che ero in grado di affrontare per proteggere i miei allievi; ma mi ci volle un po' più di tempo per essere pienamente sicura che la mia onesta alleata era pronta a mantenere i termini di un impegno tanto rischioso. Ero una compagna piuttosto strana (quasi quanto lei lo era per me); ma, riandando mentalmente a quello che ci toccò sopportare, mi accorgo quanto saldamente ci unì quella sola idea che, per buona fortuna, poteva darci forza. E fu quell'idea, quel secondo impulso che mi trasse definitivamente fuori, per così dire, dalla segreta camera della mia paura. Potevo almeno uscire a prendere una boccata d'aria in cortile, dove la signora Grose poteva raggiungermi. Ricordo ora perfettamente in che modo curioso ritrovai tutte le mie energie prima che ci separassimo per la notte. Avevamo esaminato ripetutamente ogni particolare di ciò che avevo visto. «Cercava qualcun altro, voi dite... qualcuno che non eravate voi?» «Cercava il piccolo Miles.» Ora vedevo tutto con prodigiosa chiarezza. «Ecco chi cercava.» «Ma come lo sapete?» «Lo so, lo so, lo so!» La mia esaltazione cresceva. «Ed anche voi lo sapete, mia cara!» Non lo negò, ma io sentivo di non aver nemmeno bisogno di quella controprova. Un momento dopo, ad ogni modo, ella riprese: «E se lo avesse visto?» «Il piccolo Miles? È proprio questo che desidera!» Parve di nuovo immensamente sconvolta. «Il bambino?» «Dio non voglia! L'uomo. Lui vuole apparire a loro.» Che potesse davvero

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riuscirci era un pensiero orribile, eppure, in certa misura, potevo tenerlo a bada; cosa che del resto, mentre indugiavamo lì, riuscivo a dimostrare praticamente. Ero assolutamente certa che avrei rivisto quel che già avevo visto, ma qualcosa mi diceva che se mi fossi offerta bravamente come l'unico bersaglio di quella esperienza, se avessi accettato, invocato, e infine superato tutto quanto, io sola sarei servita da capro espiatorio e, così facendo, avrei salvaguardato la tranquillità dei miei compagni. I bambini, in particolar modo, li avrei posti al riparo, e salvati in via assoluta. Ricordo una delle ultime cose che dissi alla signora Grose quella sera. «Mi colpisce il fatto che i miei allievi non abbiano mai parlato...» Mi teneva gli occhi addosso mentre io, pensierosa, mi interruppi. «Della sua permanenza qui e del tempo che hanno passato con lui?» «Di quel tempo, del suo nome, della sua presenza; della sua storia, in una parola.» «Oh, la signorina non se ne ricorda. Lei non ha mai sentito o conosciuto.» «Le circostanze della sua morte?» Riflettevo intensamente. «Forse no. Ma Miles dovrebbe ricordare... Miles dovrebbe ricordare.» «Ah, non mettetelo alla prova!» proruppe la signora Grose. Le restituii lo sguardo che mi aveva lanciato. «Non abbiate paura.» Continuavo a riflettere. «Però è piuttosto strano.» «Che non ne abbia mai parlato?» «Nemmeno la minima allusione. E voi mi dite che erano "grandi amici"?» «Oh, lui no!» dichiarò con enfasi la signora Grose. «Era un capriccio di Quint. Di giocare con lui, voglio dire... di viziarlo.» Tacque per un momento; poi aggiunse: «Quint si prendeva sin troppe libertà.» Questo mi diede, per quel che ricordavo di quel viso - e che viso! - un'improvvisa sensazione di disgusto. «Sin troppe libertà con il mio bambino?» «Troppe con tutti!» Rinunciai, per il momento, ad analizzare più a fondo questa descrizione, accontentandomi di pensare che poteva riferirsi almeno in parte a parecchi abitanti della casa, a quella mezza dozzina di cameriere e di uomini di fatica che ancora si trovavano nella nostra piccola colonia. Ma bastava ancora a nutrire i nostri timori il fatto, in apparenza fortunato, che nessuna storia equivoca, nessun pettegolezzo da sguatteri, a memoria d'uomo, aveva mai riguardato quella vecchia e gentile dimora. Essa non aveva né cattivo nome né brutta fama, e la signora Grose, con ogni evidenza, desiderava soltanto stringersi a me e rabbrividire in silenzio. La misi persino alla prova, alla fine. Lo feci a mezzanotte, quando già teneva la mano sulla porta dello studio per prender congedo. «Allora mi assicurate (e la cosa è molto importante) che egli era assolutamente e notoriamente cattivo?» «Oh, non notoriamente. Io lo sapevo... ma il padrone no.» «E voi non glielo diceste mai?» «Be', non gli piacevano i pettegolezzi... odiava le lamentele. Tagliava subito corto con le faccende di questo tipo, e se la gente andava bene a lui...»

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«Non voleva più essere seccato?» Tutto questo si accordava abbastanza bene con l'impressione che aveva fatto a me: non era uomo che amasse i guai, e forse non era nemmeno troppo esigente nella scelta delle persone che lo circondavano. Tuttavia, insistetti con la mia interlocutrice. «Vi assicuro che io gliene avrei parlato!» Afferrò il mio rimprovero. «Penso anch'io di avere sbagliato. Ma la verità è che avevo paura.» «Paura di che?» «Delle cose che poteva fare quell'uomo. Quint era così astuto... così accorto.» Fui colpita da quelle parole più di quanto, probabilmente, non lasciassi apparire. «Non avevate paura di niente altro? Non del suo influsso...?» «Il suo influsso?» ripeté con espressione d'angoscia e d'attesa, mentre io esitavo. «Sulle piccole e innocenti e preziose vite. Erano affidate a voi.» «No, non erano affidate a me!» ribatté recisamente e malinconicamente. «Il padrone aveva fiducia in lui e lo aveva sistemato qui perché si diceva che non godeva buona salute e che l'aria di campagna gli avrebbe fatto bene. E così poteva dire la sua su tutto. Sì,» lo ammise, «persino su di loro.» «Loro... quell'individuo?» Soffocai un grido. «E voi potevate sopportarlo?» «No, non potevo... e non posso nemmeno adesso!» E la povera donna scoppiò in lacrime. Dal giorno dopo, come ho detto, i bambini furono sotto una sorveglianza rigorosa e continua; eppure, quanto spesso e con quale passione, in quella settimana, tornammo sull'argomento! Per quanto ne avessimo discusso a lungo, quella domenica sera, io fui ancora perseguitata, soprattutto nelle prime ore (si può facilmente immaginare se io dormissi), dal dubbio che non mi avesse detto tutto. Per parte mia non avevo omesso nulla, ma c'era qualcosa che la signora Grose mi aveva tenuto nascosto. Verso mattina, peraltro, mi convinsi che ciò non era dipeso da una mancanza di sincerità, ma dal fatto che entrambe eravamo piene di timori. In realtà mi sembra, ripensandoci, che quando il sole del giorno dopo fu alto nel cielo io avevo ormai letto senza requie, nei fatti che ci stavano davanti, tutto il significato che avrebbero ricevuto dalle successive e più crudeli circostanze. Il massimo rilievo era per ora assicurato alla sinistra figura di quell'uomo da vivo (il morto poteva aspettare ancora un po'!) e ai mesi da lui trascorsi a Bly, che, messi insieme, rappresentavano un periodo formidabile. Quel triste periodo era terminato soltanto quando, all'alba di un giorno d'inverno, Peter Quint era stato trovato morto stecchito sulla strada che portava al villaggio da un contadino che si recava per tempo al lavoro: la catastrofe era spiegata (superficialmente almeno) da una ferita al capo ben visibile; una ferita che poteva esser stata prodotta (e, stando alle conclusioni finali, era andata proprio così) da uno scivolone fatale (nel buio e dopo aver lasciato la taverna) sul ripido pendio ghiacciato: una strada sbagliata, al termine della quale si trovava. Il pendio ghiacciato, l'errore di strada fatto di notte e dopo aver bevuto, spiegarono molto, anzi, in pratica, tutto, dopo l'inchiesta e le interminabili chiacchiere; ma c'erano state tante cose nella sua vita (strane traversie e pericoli, eccessi segreti, vizi non soltanto sospettati) che

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avrebbero spiegato molto di più. Faccio fatica a raccontare la mia storia con parole che possano dare un quadro credibile del mio stato d'animo; ma in quei giorni ero letteralmente capace di provare felicità nello straordinario slancio di eroismo che la circostanza richiedeva. Comprendevo allora che ero stata chiamata ad un compito ammirevole e difficile; e che ci sarebbe stato qualcosa di grande nel dimostrare (oh, alla persona giusta!) che sarei riuscita là dove molte altre ragazze avrebbero fallito. Mi fu d'immenso aiuto (confesso che nel ripensarci, quasi mi congratulo con me stessa) l'aver considerato la mia missione con tanta forza e tanta semplicità. Io ero là per proteggere e difendere le più trascurate e più amabili creature del mondo, la cui invocazione d'aiuto era, all'improvviso, diventata anche troppo imperiosa, così da essere una pena acuta, costante, per ogni cuore che palpitasse per loro. Tutti quanti noi eravamo davvero tagliati fuori dal resto del mondo; eravamo uniti dallo stesso pericolo. Loro non avevano altri che me ed io... be', io avevo loro. Era, per farla breve, una magnifica occasione. Occasione che mi si presentava in un'immagine più che concreta. Io ero uno schermo... e dovevo stare davanti a loro. Quanto più avessi veduto io, tanto meno avrebbero visto loro. Presi a sorvegliarli con un'ansia nascosta, un'eccitazione segreta che avrebbe potuto benissimo, a lungo andare, trasformarsi in qualcosa di molto prossimo alla follia. Ciò che mi salvò, lo comprendo ora, fu che le mie sensazioni si trasformarono in qualcosa di completamente diverso. L'ansia non durò... fu spazzata via da prove spaventose. Prove, sì, lo ripeto... dal momento in cui mi resi pienamente conto della situazione. Questo momento datò da un'ora del pomeriggio che trascorsi per caso nel parco in compagnia della minore dei miei allievi. Avevamo lasciato Miles dentro casa, sul cuscino rosso di un ampio sedile ricavato nel vano di una finestra; aveva espresso il desiderio di terminare un libro, ed ero stata lieta di incoraggiare un proposito tanto lodevole in un ometto a cui si poteva rimproverare soltanto qualche scoppio eccessivo di vivacità. Sua sorella, al contrario, era stata prontissima ad uscire, ed io passeggiai con lei una mezz'ora, cercando di stare all'ombra, perché il sole era ancora alto e la giornata eccezionalmente calda. Mentre camminavamo, mi resi conto, una volta di più, di come lei riuscisse, al pari del fratello (e si trattava di una incantevole qualità di entrambi), a lasciarmi sola con i miei pensieri senza dare l'impressione diabbandonarmi, e a tenermi compagnia senza per questo riuscire appiccicosa. Non erano mai importuni, eppure non si mostravano mai sbadati. Tutta la mia sorveglianza consisteva in realtà nell'osservarli mentre si divertivano immensamente senza di me: e questo sembrava uno spettacolo allestito da loro con cura particolare, allo scopo di coinvolgermi nella parte di ammiratrice appassionata. Mi muovevo in un mondo di loro invenzione... né del resto avevano occasione di entrare nel mio; sicché il mio tempo era impegnato nel rappresentare, per loro, qualche persona o cosa straordinaria che il gioco momentaneamente richiedeva; il che, grazie al mio incarico superiore ed onorevole, rappresentava una sinecura felice e molto rispettabile. Non ricordo che cosa fossi in quell'occasione; ricordo soltanto che ero qualcosa molto importante e molto quieta, e che

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Flora stava giocando con grande impegno. Eravamo sulla riva del laghetto e, poiché avevamo cominciato da poco a studiare geografia, il laghetto era il mar d'Azov. All'improvviso, in quelle circostanze, mi resi conto che, sull'altra sponda del mar d'Azov, avevamo uno spettatore interessato. Il modo con cui questa certezza si concretò in me fu la cosa più strana del mondo... la più strana, cioè, se si fa eccezione per quella ancora più strana in cui rapidamente si trasformò. Ero seduta con qualche lavoro tra le mani (poiché rappresentavo qualcosa che poteva star seduta) sul vecchio sedile di pietra che dominava lo stagno; e in questa posizione cominciai ad avvertire con sicurezza, pur senza vederla direttamente, la lontana presenza di una terza persona. I vecchi alberi, i fitti cespugli facevano un'ombra ampia e piacevole, ma tutto era soffuso del fulgore di quell'ora calda e quieta. Non v'era nulla di ambiguo tutt'intorno; assolutamente nulla, almeno, nella convinzione che si andava formando in me a proposito di ciò che avrei potuto vedere dritto davanti a me, al di là del laghetto, se solo avessi alzato gli occhi. Li tenevo, in quel duro attimo, fissi sul cucito che mi occupava, e mi par di sentire ancora lo spasmo dello sforzo che feci per non alzarli sin che non mi fossi calmata abbastanza da poter decidere sul da farsi. C'era là, in piena vista, un oggetto estraneo... una figura a cui negai all'istante, appassionatamente, il diritto di trovarsi dov'era. Ricordo di aver fatto tutte le ipotesi possibili al riguardo, dicendo a me stessa che non vi sarebbe stato niente di più naturale, per esempio, dell'apparizione di uno degli uomini che lavoravano nella tenuta, o anche di un messaggero, di un portalettere, di un garzone di bottega venuto dal villaggio. Ma questi pensieri ebbero scarso effetto sulla mia pratica certezza, in quanto io ero già convinta, pur senza avere ancora alzato lo sguardo, che non c'entravano per nulla con la specie e il contegno del nostro visitatore. Non c'era niente di più naturale del fatto che cose del genere fossero ciò che assolutamente non erano. Della precisa identità dell'apparizione mi sarei resa conto non appena il piccolo orologio del mio coraggio avesse segnato il momento esatto; frattanto, con uno sforzo che mi costò non poco, rivolsi lo sguardo alla piccola Flora, che, in quell'istante, si trovava pochi metri più in là. Per un attimo, per l'ansia e il terrore che anche lei potesse vedere qualcosa, il mio cuore cessò di battere; e trattenni anche il respiro nell'attesa che un suo grido, un suo improvviso, innocente segno di curiosità o di allarme, me lo confermasse. Aspettai, ma nulla avvenne; poi (e sento che c'è qualcosa di più spaventoso, in questo, di tutto ciò che ho ancora da raccontare) fui pervasa sulle prime dalla sensazione che, da circa un minuto, non faceva più alcun rumore; e quindi mi accorsi che, sempre da un minuto, giocando, aveva rivolto la schiena all'acqua. Questa era la sua posizione quando finalmente la guardai... la guardai con la precisa convinzione che eravamo ancora sottoposte, tutt'e due, a un'osservazione diretta e personale. La bambina aveva raccolto un pezzetto di legno piatto, con un piccolo foro che evidentemente le aveva suggerito l'idea di infilarvi un altro legnetto a mo' di albero maestro per farne una barca. Mentre la fissavo, era intenta a cercar di fissare, con grande cura, quel secondo frammento di legno. L'aver visto quel che stava facendo mi confermò nella mia convinzione a tal punto che, pochi istanti dopo, sentii che ero pronta a tutto.

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Allora distolsi di nuovo lo sguardo e affrontai quel che dovevo affrontare. VII

Appena mi fu possibile andai in cerca della signora Grose; e non so dare un'idea precisa di come superai l'intervallo di tempo. Però mi sento ancora gridare, mentre mi gettavo dritta tra le sue braccia: «Essi sanno... è troppo mostruoso: sanno, sanno!» «E che cosa mai...?» Sentivo la sua incredulità, mentre mi sorreggeva. «Ma come, tutto quello che noi sappiamo... e il cielo sa che altro ancora!» Poi, mentre lei mi lasciava andare, le spiegai l'accaduto, e forse lo spiegai soltanto allora con piena coerenza anche a me stessa. «Due ore fa, in giardino,» riuscivo appena ad articolare le parole, «Flora ha visto!» La signora Grose accolse queste parole come avrebbe potuto accogliere un pugno nello stomaco. «Ve lo ha detto lei?» domandò, ansante. «Non una parola... e qui sta tutto l'orrore della cosa. Ha tenuto ogni cosa per sé! Una bambina di otto anni, quella bambina!» Lo stupore che provavo era ancora indicibile. La signora Grose, naturalmente, poteva solo sbalordire di più. «Ma allora come lo sapete?» «Ero là... ho visto coi miei occhi: ho visto che si rendeva perfettamente conto.» «Volete dire che si rendeva conto della presenza di lui?» «No... di lei.» Mi accorgevo, nel parlare, che sul mio viso si stavano inseguendo prodigiose espressioni, perché le vedevo lentamente riflesse dal volto della mia compagna. «Un'altra persona... questa volta; ma una figura di orrore e malignità quasi altrettanto inconfondibili: una donna in nero, pallida e orrenda... con un'espressione poi, e una faccia!... sull'altra sponda del laghetto. Ero là con la bimba... tranquilla in quel momento; e proprio allora è venuta.» «Venuta come... da dove?» «Da dove vengono loro! È semplicemente apparsa ed è rimasta lì, ma non troppo vicina.» «E senza avvicinarsi di più?» «Oh, per l'effetto che mi faceva e per quello che sentivo, avrebbe potuto essere vicina come adesso lo siete voi!» La mia amica, per un singolare impulso, arretrò di un passo. «Era qualcuno che voi non avevate mai visto?» «Sì. Ma era qualcuno che la bambina conosceva. Qualcuno che voi avevate visto.» Poi, per rivelarle a quale conclusione ero pervenuta: «La donna che mi ha preceduta... quella che è morta.» «La signorina Jessel?»

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«La signorina Jessel. Non mi credete?» Incalzai. Si voltò da una parte e dall'altra, agitatissima. «Come potete esserne certa?» La domanda, nello stato in cui mi trovavo, mi strappò un moto di impazienza. «Allora chiedetelo a Flora... lei ne è sicura!» Ma non avevo ancora finito di parlare, che subito mi ripresi. «No, per l'amor di Dio, non lo fate! Direbbe che non è vero... mentirebbe!» La signora Grose non era ancora sconvolta al punto di rinunciare ad un atto istintivo di protesta. «Ah, come potete pensare...?» «Perché vedo chiaro. Flora non vuole che io sappia.» «Allora è soltanto per risparmiarvi.» «No, no... ci sono degli abissi, degli abissi! Più ci ripenso e più vedo a fondo, e più vedo a fondo a più ho paura. Non so più che cosa non vedo, che cosa non mi fa paura!» La signora Grose si sforzò di seguirmi. «Volete dire che avete paura di vederla di nuovo?» «Oh, no; quello non è niente... a questo punto!» Poi mi spiegai: «Ho paura di non

rivederla.» Ma la mia compagna restava soltanto smarrita. «Non vi capisco.» «Ecco, ho paura che la bambina vada avanti con questa storia (e la bambina lo farà certamente) senza che io lo sappia.» Davanti a una simile possibilità, la signora Grose per un attimo parve venir meno, ma si riprese subito, quasi spinta dalla forza positiva della consapevolezza di quello che, avessimo ceduto soltanto di un pollice, ci sarebbe stato realmente da affrontare. «Mio Dio... dobbiamo tenere la testa a posto! E dopo tutto, se lei non ci fa caso...!» Provò persino un lugubre scherzo. «Forse le piace!» «Piacerle queste cose... a una bimbetta!» «E questa non è un'altra prova della sua santa innocenza?» chiese con aria di sfida la mia amica. Per un attimo, quasi mi convinse. «Oh, dobbiamo attaccarci a questo... dobbiamo tenerci ben salde all'idea! Se non è una prova di quel che dite, è una prova di... Dio sa cosa! Perché quella donna è l'orrore degli orrori.» A queste parole, la signora Grose tenne per un po' gli occhi fissi a terra; poi, rialzandoli, «Ditemi come fate a saperlo,» disse. «Allora ammettete che lo sia?» esclamai. «Ditemi come fate a saperlo,» ripeté semplicemente la mia amica. «A saperlo? Perché l'ho vista. Per come guardava.» «A voi, intendete dire... così malignamente?» «Mio Dio, no... questo avrei potuto sopportarlo. A me non ha dato nemmeno un'occhiata. Fissava soltanto la bambina.» La signora Grose tentò di immaginare la scena. «La fissava?» «Ah, con quegli occhi spaventosi!»

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Mi fissò negli occhi, quasi che i miei somigliassero davvero a quelli. «Volete dire con antipatia?» «Dio ci aiuti, no. Con qualcosa di molto peggio.» «Peggio dell'antipatia?» Ciò la lasciava davvero perplessa. «Con una determinazione... indescrivibile. Con un'intenzione quasi furibonda.» La feci impallidire. «Intenzione?» «Di impadronirsi di lei.» La signora Grose, guardandomi appena negli occhi, rabbrividì e andò alla finestra; e mentre stava lì a guardar fuori, completai la mia osservazione. «Ecco che cosa sa Flora.» Poco dopo, si voltò. «Quella persona era vestita di nero, avete detto?» «Era in lutto... un lutto piuttosto povero, quasi logoro. Ma... sì... era di una bellezza straordinaria.» Comprendevo ora a che punto, a passo a passo, avevo portato la vittima delle mie confidenze, poiché le mie ultime parole la colpirono visibilmente. «Oh, bella... molto bella davvero.» Insistei: «Meravigliosamente bella. Ma infame.» Lentamente mi tornò vicina. «Miss Jessel... era infame.» Ancora una volta, mi prese una mano tra le sue, tenendola stretta quasi per darmi forza contro la crescita di spavento che quella rivelazione poteva provocare. «Tutt'e due erano infami,» disse finalmente. Così, per un po', guardammo in faccia la verità ancora una volta; e fu per me un vero aiuto vedere come stavano realmente le cose. «Apprezzo,» dissi, «l'estremo riserbo che vi ha impedito di parlare sino ad ora; ma è certamente arrivato il momento di rivelarmi tutto.» Parve accondiscendere alle mie parole, ma tuttavia restava in silenzio; sicché continuai: «Ora devo saperlo. Di che cosa è morta? Avanti, c'era qualcosa tra loro due.» «C'era tutto.» «A dispetto della differenza...?» «Oh, della differenza di rango, di condizione.» Lo confessò gemendo. «Lei era una signora.» Ci pensai sopra, e compresi di nuovo. «Si... era una signora.» «E lui così terribilmente al di sotto,» disse la signora Grose. Sentii che non era davvero opportuno insistere, in simile compagnia, sul posto che un domestico occupa nella scala sociale; ma nulla mi vietava di adottare lo stesso metro con cui la mia compagna misurava la degradazione di colei che mi aveva preceduto. Il modo di trattare la cosa c'era, e io lo usai; con facilità tanto maggiore quanto più netta mi stava davanti agli occhi la visione (sin troppo chiara) del domestico «personale» del nostro datore di lavoro. Intelligente e di bell'aspetto, ma anche impudente, pieno di sé, vizioso, depravato. «Quel tale era spregevole.» La signora Grose rifletté, come se la faccenda, a questo punto, richiedesse delle sfumature. «Non ho mai visto nessuno come lui. Faceva quel che voleva.» «Di lei?» «Di tutti loro.»

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Ora, era come se la signorina Jessel fosse riapparsa negli occhi della mia amica. A me almeno sembrò che, per un attimo, la rievocassero così distintamente come quando l'avevo veduta vicino allo stagno; e dichiarai risolutamente: «Anche lei, però, lo doveva desiderare!» Il volto della signora Grose dimostrò che era stato davvero così, ma la donna aggiunse nello stesso momento: «Poveretta... ha pagato per questo!» «Allora, sapete di che cosa è morta?» chiesi. «No, non so niente. Non volevo sapere; ero contentissima di non aver saputo nulla; e ringraziai il cielo che fosse ben lontana da qui!» «Però, vi eravate fatta allora una vostra idea...» «A proposito della vera ragione della sua partenza? Oh si... quanto a quello. Non avrebbe potuto restare. Ma pensate, un'istitutrice... proprio in questa casa! Più tardi immaginai... e lo immagino ancora... quel che immagino è spaventoso.» «Non così spaventoso come quello che immagino io,» replicai; e con ciò le lasciai certo intravedere (me ne rendevo conto anche troppo bene) l'ampiezza e l'amarezza della mia disfatta. Ciò non mancò di suscitare, una volta di più, la sua compassione, e quella nuova manifestazione di bontà vinse ogni mia resistenza. Scoppiai in lacrime, proprio come avevo fatto scoppiare in lacrime lei, la volta prima; mi strinse al suo seno materno, e i miei lamenti dilagarono. «Non ce la faccio!» singhiozzai disperatamente. «Non li posso né salvare né proteggere! È assai peggio di quanto immaginassi... sono perduti!» VIII

Quanto avevo detto alla signora Grose era purtroppo molto vicino al vero: c'erano, nella faccenda che le avevo esposto, abissi e possibilità che non avevo il coraggio di misurare; sicché, dopo che ci fummo unite in un rinnovato senso di stupore, convenimmo entrambe ch'era nostro dovere resistere alle fantasie più stravaganti. Se tutto il resto ci sfuggiva, dovevamo tenere almeno la testa a posto... benché fosse assai difficile di fronte a quello che, nella nostra prodigiosa vicenda, era ormai impossibile mettere in dubbio. Nella tarda serata, mentre tutta la casa dormiva, ne riparlammo in camera mia; e la signora Grose giunse al punto di convenire con me che era assolutamente certo che io avevo veduto proprio quello che avevo veduto. Trovai che, per convincerla completamente, non avevo che da chiederle come mai, se avevo «sognato» tutto quanto, mi era stato possibile fare, di ognuna delle persone che mi erano apparse, un ritratto che ne rivelava, sin nei minimi particolari, i tratti caratteristici... un ritratto che l'aveva subito messa in grado di riconoscerli e di nominarli. Ella desiderava naturalmente (ed era difficile rimproverarla per questo) metter tutto a tacere; ed io mi affrettai ad assicurarle che il mio stesso interessamento nella faccenda aveva ormai assunto la forma della ricerca febbrile di una via di scampo. Convenni con lei che era

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probabile che, col ripetersi delle apparizioni (davamo per scontato che si sarebbero ripetute), mi sarei assuefatta al pericolo; dichiarando apertamente che il mio rischio personale era diventato di colpo la più piccola delle mie preoccupazioni. Intollerabile era invece il mio più recente sospetto: e tuttavia, persino a questa complicazione le ultime ore della giornata avevano recato qualche rimedio. Lasciandola dopo il mio primo accesso di disperazione, ero naturalmente ritornata dai miei allievi, associando il miglior rimedio per il mio turbamento a quella sensazione di fascino che essi suscitavano; sensazione che, già mi ero resa conto, era qualcosa su cui potevo contare con certezza e che non mi era mai venuta meno. In altre parole, mi ero immersa di nuovo nella particolare compagnia di Flora, e mi ero accorta (quasi con ebbrezza) che sapeva appoggiare la sua consapevole manina proprio sul punto dolente. Mi aveva osservato con soave curiosità, e poi mi aveva accusata francamente d'aver «pianto». Credevo di aver cancellato i brutti segni delle lacrime; ma nell'effusione di quella carità infinita arrivai letteralmente a rallegrarmi (almeno per un attimo) che non fossero del tutto scomparsi. Contemplare l'azzurro profondo degli occhi della bambina, e ritenere che quella dolcezza fosse il trucco di una precoce malizia, sarebbe stato rendermi colpevole di un cinismo a cui, naturalmente, preferivo sacrificare il mio giudizio e, per quanto m'era possibile, la mia inquietudine. Non potevo sacrificare il mio giudizio soltanto perché lo volevo, ma potevo ripetere alla signora Grose (come mi ripetevo più volte, facendo le ore piccole) che con la voce dei bimbi che echeggiava nell'aria, la pressione dei loro corpi sul petto, e il contatto dei loro volti fragranti contro la guancia, tutto scompariva, tranne la loro bellezza e la loro innocenza senza difese. Era un peccato tuttavia, e lo dico una volta per tutte, che dovessi ugualmente ricordare quei gesti scaltri che nel pomeriggio, vicino al laghetto, avevano reso miracolosa la padronanza di me stessa. Era un peccato che fossi costretta ad analizzare nuovamente la certezza raggiunta in quel momento, e ripetere in che modo ero stata toccata dalla rivelazione che l'inconcepibile comunione da me sorpresa in quella circostanza era un fatto abituale per tutt'e due. Era un peccato che dovessi di nuovo farfugliare le ragioni per cui non avevo dubitato neppure per un attimo, e con mia grande delusione, che la bambina vedesse la nostra visitatrice proprio come io in quel momento vedevo la signora Grose, e che la bimba desiderasse, pur avendo una visione di quella fatta, farmi credere che non vedeva nulla, ed allo stesso tempo, senza scoprirsi, cercare d'indovinare se io avessi veduto qualcosa! Era un peccato che dovessi descrivere ancora una volta le piccole, portentose astuzie con le quali aveva cercato di distogliere la mia attenzione... il percettibilissimo accrescersi della sua vivacità, il maggior fervore del gioco, il canto, il chiacchiericcio senza senso e l'invito a ruzzare. Tuttavia, se io non mi fossi abbandonata a questo esame, con lo scopo di provare che non c'era nulla, mi sarei anche lasciata sfuggire i due o tre deboli motivi di conforto che ancora mi restavano. Ad esempio, non avrei potuto ripetere solennemente alla mia amica che ero certa (ed era tanto di guadagnato) di non essermi tradita io. Non sarei stata spinta dal bisogno di sapere, da un soprassalto di disperazione (non so veramente come

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esprimermi) a invocare nuovamente un chiarimento che non si poteva ottenere se non mettendo la mia compagna con le spalle al muro. Lei mi aveva già detto molto, un po' alla volta, e stimolata da me; ma un piccolo, tetro enigma, dal lato in ombra delle cose, veniva di tanto in tanto a sfiorarmi la fronte come l'ala di un pipistrello; e ricordo come in quell'occasione (il sonno della casa, il pericolo e la veglia comuni sembrarono venirmi in aiuto) sentii tutta l'importanza di dare al velario l'ultimo strappo. «Non credo a nulla di così orribile,» ricordo d'aver detto. «No, diciamolo una buona volta, mia cara, io non lo credo. Ma se lo credessi, sapete, c'è una cosa che esigerei da voi all'istante, e senza risparmiarvi nulla... oh, proprio nulla! A che cosa pensavate quando, mentre eravamo turbate per la lettera giunta dal collegio, prima che Miles ritornasse, diceste, cedendo alla mia insistenza, che non pretendevate che non fosse mai, alla lettera, stato "cattivo"? Non è "mai", alla lettera, stato cattivo in queste settimane che ho trascorso con lui e in cui l'ho osservato tanto da vicino; è stato un imperturbabile, piccolo prodigio di bontà deliziosa ed amabile. Dunque, avreste potuto benissimo giurare su di lui, se non aveste saputo, com'era evidente, che c'era un'eccezione. Qual era la vostra eccezione, e a quale circostanza della vostra personale esperienza vi riferivate?» Era una domanda assai grave e diretta, ma non eravamo certo in vena di leggerezze, e, in ogni caso, prima di ricevere dall'alba grigia l'ammonimento di separarci, avevo la risposta. Quello che la mia compagna aveva pensato s'accordava alla perfezione con tutto il resto. Era, né più né meno, il fatto che, per un periodo di parecchi mesi, Quint e il bambino erano stati continuamente insieme. E in verità lei aveva osato criticare la convenienza e sottolineare l'incongruenza di una simile intimità, spingendosi sino al punto di parlare francamente dell'argomento con la signorina Jessel. La signorina Jessel, con modi a dir poco singolari le aveva detto di badare ai fatti suoi, e la buona donna, a questo punto, si era rivolta direttamente al piccolo Miles. Dietro mia insistenza, fini per confessarmi quel che gli aveva detto: che a lei non andava che i giovani signori dimenticassero il loro rango. Dopo di che, com'è naturale, insistetti per sapere il resto. «Gli avete ricordato che Quint era soltanto un volgare servo ?» «Potete ben dirlo! E, per prima cosa, la sua risposta fu cattiva.» «E poi?» Attesi. «Riferì a Quint le vostre parole?» «No, questo no. È proprio quello che non avrebbe mai fatto!» Cercava di farmi impressione. «Ero sicura, ad ogni modo,» aggiunse, «che non l'avesse fatto. Ma nego invece certe circostanze.» «Quali circostanze?» «Che se ne andavano in giro assieme come se Quint fosse il suo precettore (uno dei migliori, per giunta), e come se la signorina Jessel fosse al servizio esclusivo della padroncina. Voglio dire quando Miles andava a spasso con quell'individuo, e trascorreva con lui ore intere.» «Allora ha eluso l'argomento... ha detto di non averlo fatto?» Il suo cenno d'assenso fu abbastanza chiaro da farmi aggiungere, un momento dopo: «Capisco. Ha

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mentito.» «Oh!» mormorò la signora Grose. Quel mormorio suggeriva che la cosa importava poco, e lo sottolineò con un'altra osservazione. «Vedete, dopo tutto alla signorina Jessel non importava. Non glielo proibiva.» Riflettei. «Vi disse questo per giustificarsi?» A questa domanda cedette ancora terreno. «No, non me ne ha mai parlato.» «Non vi ha mai parlato di lei e di Quint?» Capì, arrossendo visibilmente, dove intendevo arrivare. «Be', non ha mai dato a vedere nulla. Negava,» ripeté, «negava». Signore, come la incalzai allora! «Sicché, comprendevate che lui sapeva che cosa c'era tra quei due sciagurati?» «Non lo so... non lo so!» gemette la povera donna. «E invece lo sapete, poveretta,» replicai. «Soltanto non avete la mia terribile capacità d'immaginazione, e nascondete, per timidezza e pudore e delicatezza, persino quell'impressione che in passato, quando dovevate brancolare in silenzio, senza il mio aiuto, vi rendeva infelice più di tutto. Ma finirò con lo strapparvela! C'era qualcosa nel bambino che vi suggeriva» continuai «che lui coprisse e dissimulasse la loro relazione.» «Oh, non poteva impedire...» «Che voi veniste a sapere la verità? Lo credo bene! Ma, mio Dio,» proruppi con veemenza, fremendo al solo pensarci, «come tutto questo dimostra che cosa erano riusciti a fare di lui!» «Ah, nulla che adesso non sia cambiato in meglio!» commentò lugubremente la signora Grose. «Non mi stupisco più dell'aria strana che avevate,» insistetti, «quando vi parlai della lettera giunta dal collegio!» «Mi chiedo se avevo l'aria strana quanto voi,» replicò con familiare energia. «E se allora era cattivo come sembra, come mai adesso è un angioletto?» «È vero... se in collegio era un discolo! Come mai, come mai? Bene,» dissi torturandomi, «dovete domandarmelo ancora, ma non sarò in grado di darvi una risposta prima di qualche giorno. Però, domandatemelo di nuovo!» esclamai, in un tono tale che la mia amica mi guardò stupefatta. «Vi sono direzioni nelle quali sarà bene che per ora io non mi avventuri.» E per il momento ritornai al suo primo esempio (quello a cui aveva alluso poco prima), vale a dire la rassicurante capacità del bambino di commettere di quando in quando una marachella. «Se Quint (a proposito della rimostranza che faceste all'epoca di cui parlate) non era che un servo volgare, immagino che una delle cose che Miles vi ha risposto è che l'eravate anche voi.» Anche allora il suo cenno d'assenso fu così eloquente che continuai: «E voi glielo avete perdonato?» «Voi non l'avreste fatto?» «Oh, si!» e ci lasciammo andare ad una manifestazione di ilarità che suonò strana, in quella quiete. Poi proseguii: «Ad ogni modo, mentre lui stava con l'uomo...» «La signorina Flora era con la donna. Era una cosa che andava bene a tutti loro!»

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E andava bene anche a me, sin troppo bene; voglio dire che si accordava alla perfezione con il sospetto mortale che cercavo a tutti i costi di proibire a me stessa. Ma riuscii tanto bene a impedirmi di formulare quel pensiero che, per il momento, non darò altri chiarimenti al riguardo, se non quello che può essere fornito dall'ultima frase che rivolsi alla signora Grose. «Il fatto che abbia mentito e che sia stato impudente mi sembra, lo confesso, un sintomo meno incoraggiante di quello che avevo sperato di conoscere da voi a proposito del prorompere nel bimbo dell'umana natura. Tuttavia,» dissi pensierosa, «ne terrò conto, perché sento più che mai che devo vigilare.» Un attimo dopo, arrossivo nel vedere dall'epressione del viso della mia amica come lei gli avesse perdonato più completamente di quanto la mia tenerezza fosse spinta a fare dall'aneddoto che mi aveva raccontato. Questo fu chiaro quando, sulla porta dello studio, prese congedo da me. «Certamente non lo vorrete accusare...» «Di coltivare una relazione che mi nasconde? Ah, ricordate che, sino a prova contraria, non accuso nessuno.» Poi, prima di chiudere la porta dietro a lei che si disponeva ad andare in camera sua passando per un altro corridoio, dissi come conclusione: «Devo soltanto aspettare.» IX Aspettai e aspettai, e il correr dei giorni si portava via un po' della mia costernazione. Infatti, un piccolissimo numero di quei giorni, trascorsi a tener d'occhio i miei allievi senza che accadesse il minimo incidente, bastò a passare come un colpo di spugna sulle amare fantasticherie, e persino sugli odiosi ricordi. Ho già parlato della mia inclinazione ad arrendermi alla loro straordinaria grazia infantile come di un sentimento che pensavo di poter coltivare attivamente, e si può facilmente immaginare se trascurassi ora di attingere a questa fonte tutto quanto poteva dare. Lo sforzo per lottare contro la luce che si era fatta in me, risultava certamente più strano di quanto io non possa dire; tuttavia la tensione sarebbe stata anche più grande se non fosse stata premiata tanto frequentemente dal successo. Ero solita chiedermi come mai i miei piccoli allievi non indovinassero che io pensavo di loro cose assai strane; e il fatto che queste cose li rendevano anche più interessanti non m'era certo di aiuto per tenerli all'oscuro. Tremavo, al pensiero che si accorgessero di quanto più immensamente interessanti erano diventati. Ad ogni modo, anche mettendo le cose sotto la luce peggiore, come facevo spesso nelle mie meditazioni, ogni ombra gettata sulla loro innocenza costituiva soltanto (puri e predestinati com'erano) una ragione in più per affrontare i miei rischi. C'erano momenti in cui, spinta da un impulso irresistibile, li afferravo e me li stringevo al cuore. E subito dopo mi domandavo: «Che cosa ne penseranno? A questo modo non mi tradisco?» Sarebbe stato facile, nell'analizzare sino a che punto potevo tradirmi, cadere in una ragnatela di pensieri tristi e folli; ma la vera ragione delle ore di pace che ancora riuscivo

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a godere stava, lo sento, nel fatto che il fascino immediato dei miei compagni era un sortilegio ancora efficace, anche se minacciato da un sospetto di ipocrisia. Perché, se non mi sfuggiva che le brevi esplosioni della mia ardente tenerezza potevano suscitare i loro sospetti, ricordo anche di essermi domandata se per caso non c'era qualcosa di singolare anche nell'evidente accrescersi delle loro manifestazioni di affetto. Durante quel periodo mi dimostrarono un attaccamento stravagante e anormale; me lo spiegavo dicendomi che, dopotutto, non era che la graziosa risposta di bambini continuamente riveriti e accarezzati. L'omaggio di cui erano così prodighi ebbe in realtà un eccellente effetto sui miei nervi, come se non mi fossi mai presa la briga, per così dire, di sorprenderli con le mani nel sacco. Penso che non avessero mai desiderato come ora di fare tante cose per la loro povera protettrice; voglio dire (benché si applicassero sempre più e sempre meglio allo studio, cosa che naturalmente mi procurava un enorme piacere) distrarla, divertirla, prepararle sorprese; leggerle qualcosa, raccontarle storie, rappresentarle sciarade, saltarle addosso mascherati da animali o da personaggi storici; e soprattutto stupirla con «pezzi» che avevano segretamente imparato a memoria e che potevano recitare all'infinito. Non riuscirei mai (nemmeno se mi abbandonassi completamente all'onda dei ricordi) a descrivere sino in fondo la stupenda, segreta attenzione (tenuta sotto una sorveglianza anche più segreta) che dedicavo in quel tempo alle loro giornate così piene. Mi avevano dimostrato sin dal principio una inclinazione per ogni cosa, una disposizione a imparare tutto che, dietro uno stimolo nuovo, dava splendidi risultati. Adempivano ai loro piccoli compiti come se ne ricavassero un vero piacere, e indulgevano, per il solo gusto di esercitare le loro doti, a piccoli miracoli mnemonici che non avevo loro imposto. Mi spuntavano davanti non soltanto mascherati da tigri o da antichi romani, ma anche da personaggi di Shakespeare, da astronomi e da navigatori. Il caso era talmente singolare che contribuì largamente al fatto che anche oggi non riesco a spiegare diversamente: alludo alla mia anormale tranquillità riguardo alla scelta di una nuova scuola per Miles. Quel che ricordo è che mi accontentavo, per il momento, di non riaprire la questione, e che quella soddisfazione doveva esser scaturita dall'impressione prodotta in me dalle sue continue sorprendenti prove d'intelligenza. Era troppo intelligente perché potesse nuocergli una mediocre istitutrice, la figlia di un pastore; e il più strano, se non il più brillante dei fili della ragnatela mentale di cui ho parlato era la sensazione (avrei saputo rendermene conto chiaramente, se solo avessi osato analizzarla) che egli fosse in preda ad un'influenza che agiva come un formidabile incitamento sulla sua giovane vita intellettuale. Se era facile ammettere, tuttavia, che un bambino come quello potesse ritardare la propria entrata in una scuola, era altrettanto ovvio che il fatto che fosse stato «buttato fuori» da un maestro di scuola costituiva un mistero inesplicabile. Aggiungo che, stando in loro compagnia (avevo cura in quel periodo di non lasciarli quasi mai), non riuscivo a seguire a lungo nessuna pista. Vivevamo in una nuvola di musica, di amore, di successi e di rappresentazioni teatrali tutte per noi. Entrambi i bambini avevano spiccate inclinazioni musicali; ma soprattutto il maggiore era meravigliosamente in grado di

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afferrare e di ripetere qualunque ritornello. Il pianoforte dello studio risuonava delle più strane improvvisazioni; e, in mancanza di musica, tenevano conciliaboli in un angolo, al termine dei quali uno dei due, al colmo dell'eccitazione, si preparava ad una nuova «entrata». Avevo avuto anch'io dei fratelli, e non era una novità per me che le bambine potessero essere le schiave idolatre dei loro fratellini. Quello che era davvero sorprendente era che ci fosse al mondo un bambino capace di dimostrare tanta considerazione per un'età, un sesso e un'intelligenza inferiori. Erano straordinariamente uniti, e dire che non litigavano mai e non si lamentavano l'uno dell'altra equivarrebbe a rivolgere un complimento molto rozzo al carattere squisito della loro gentilezza. Talvolta, in verità, quando cadevo in un comportamento grossolanamente sospettoso, scoprivo le tracce di qualche loro piccolo complotto per tenermi occupata mentre uno di loro se la svignava. Suppongo che in ogni diplomazia vi sia un lato naïf; ma se i miei allievi si prendevano gioco di me, lo facevano certamente con il minimo di volgarità. Fu altrove che, dopo un periodo di tranquillità, trionfò la cattiveria. Mi accorgo di tirar davvero troppo per le lunghe; è ora che mi decida al gran passo. Nel proseguire il racconto di ciò che vidi di orribile a Bly, io non soltanto metto alla prova la più generosa buona fede (e di ciò mi preoccupo poco); ma (e questa è un'altra faccenda) rinnovo anche le mie sofferenze, percorro nuovamente, sino alla fine, quella strada dolorosa. Giunse improvvisamente un'ora dopo la quale, se guardo indietro, mi pare che tutto sia stato pura sofferenza; ma sono arrivata finalmente al duro nocciolo della questione, e la via di scampo più sicura sta nell'andare avanti. Una sera (senza che nulla me ne avvertisse o mi ci preparasse) sentii passare su di me il soffio ghiacciato che mi aveva accolto la notte del mio arrivo, e che la prima volta (tanto più leggero, come ho accennato) non avrebbe forse lasciato in me nessun ricordo e il mio soggiorno successivo non fosse stato tanto agitato. Non mi ero ancora coricata; leggevo, seduta, alla luce di due candele. C'era a Bly una stanza piena di vecchi libri, tra cui alcuni romanzi del secolo scorso che, sebbene godessero di cattiva fama, erano penetrati (per lo più sotto forma di un esemplare scompagnato) in quella casa isolata, eccitando la mia inconfessata, giovanile curiosità. Ricordo che avevo tra le mani l'Amelia di Fielding; e anche che ero perfettamente sveglia. Ricordo, inoltre, d'aver avuto una vaga idea che fosse molto tardi, ma non volevo guardare l'orologio. Rivedo infine le bianche cortine che avvolgevano, secondo la moda del tempo, la testata del letto di Flora, e che proteggevano, come mi ero assicurata da un pezzo, la pace perfetta del suo sonno infantile. Ricordo, per farla breve, che, malgrado fossi molto interessata alla mia lettura, voltando una pagina smarrii all'improvviso il filo della storia, e alzai gli occhi dal libro per fissare la porta della camera. Rimasi un momento in ascolto, ricordando quella vaga sensazione che avevo avuto, la prima notte, che qualcosa di indefinibile si aggirasse per la casa, e notai che attraverso la finestra aperta una brezza leggera agitava la tenda, chiusa a metà. Allora, con tutti i segni di una determinazione che sarebbe apparsa magnifica, se qualcuno fosse stato presente per ammirarla, posai il libro, mi alzai e, presa una candela, uscii senza esitare dalla camera. Dal corridoio, dove la mia candela

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rompeva appena l'oscurità, senza far rumore mi tirai dietro la porta e la chiusi a chiave. Non posso dire adesso che cosa mi spingesse o mi guidasse, ma andai diritta lungo la galleria, tenendo alta la candela, finché non fui in vista del finestrone che dominava l'ampio giro della scala. A quel punto, mi resi conto di colpo di tre cose. In pratica furono simultanee, e tuttavia si susseguirono in tre lampi successivi. La mia candela, in seguito a un brusco movimento, s'era spenta, e mi accorgevo, dalla finestra priva di tende, che la prima, incerta luce del giorno la rendeva inutile. Pur senza la candela, un istante dopo sapevo che c'era qualcuno sulla scala. Parlo di cose in successione, ma non ebbi bisogno di molti secondi per mettermi in condizione d'affrontare un terzo incontro con Quint. L'apparizione aveva raggiunto il pianerottolo a metà scala, ed era di conseguenza nel punto più vicino alla finestra dove, vedendomi, si fermò di colpo e mi fissò, esattamente come mi aveva fissato dalla torre e dal giardino. Mi riconobbe, come io l'avevo riconosciuto; e restammo così, faccia a faccia, a fissarci intensamente, nell'alba fredda e grigia, all'incerto chiarore che passava dal finestrone e si rifletteva nella lucida scala di quercia. In quel momento egli era davvero, nel senso più assoluto, una presenza viva, detestabile, pericolosa. Ma non era questa la meraviglia delle meraviglie; riservo questa definizione ad una circostanza del tutto diversa: la circostanza che la paura, senza ombra di dubbio, mi aveva abbandonata, e che non v'era nulla in me che rifiutasse di incontrarlo e d'affrontarlo. Dopo quel momento straordinario provai angosce infinite, ma, grazie a Dio, mai più terrore. Ed egli sapeva che non ne provavo... in capo ad un momento ne ero magnificamente certa. Sentii, in uno slancio di fiduciosa fierezza, che se avessi tenuto il campo ancora per un minuto, non avrei avuto (almeno per qualche tempo) più a che fare con lui; e durante quel minuto la cosa fu viva ed atroce come un incontro reale; atroce proprio perché era viva ed umana, come avrebbe potuto esserlo incontrare all'alba, in una casa addormentata, un nemico, un avventuriero, un criminale. Era il mortale silenzio del nostro lungo sguardo, scambiato così da vicino, a dare a quell'orrore, per mostruoso che fosse, l'unica nota di soprannaturale. Se avessi incontrato un assassino in quel luogo e a quell'ora, avremmo almeno parlato. Qualcosa di animato sarebbe corso tra noi; se non fosse accaduto altro, uno di noi si sarebbe mosso. Quel momento si prolungò talmente che poco mancava cominciassi a dubitare d'esser viva io stessa. Non so esprimere ciò che accadde poi, se non dicendo che il silenzio (era questa, in un certo senso, una prova della mia forza) divenne l'elemento in cui vidi scomparire la forma di lui; la vidi voltarsi, come avrei potuto veder girare su se stesso, in seguito a un ordine, il miserabile a cui essa aveva un tempo appartenuto; con gli occhi che tenevo fissi su quella schiena ignobile, che nessuna gobba avrebbe potuto maggiormente sfigurare, la vidi scendere in fretta i gradini, e sparire nella tenebra in cui si smarriva l'altra rampa della scala. X

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Rimasi per qualche tempo in cima alla scala, ma a poco a poco si fece strada in me la certezza che il mio visitatore se n'era andato, che non c'era più davvero: allora ritornai nella mia stanza. La prima cosa che colpì il mio sguardo, alla luce della candela che avevo lasciata accesa, fu il lettino vuoto di Flora; questo fatto mi mozzò di colpo il fiato, e mi riempì di tutto il terrore che, cinque minuti prima, ero riuscita a vincere. Mi slanciai dove l'avevo lasciata: il piccolo copriletto di seta e le lenzuola erano in disordine, ma le cortine bianche erano state tirate con cura, allo scopo d'ingannarmi; poi al rumore dei miei passi, con mio indicibile sollievo, rispose un altro suono: mi accorsi che la tenda della finestra si muoveva, e la bambina, chinandosi, emerse tutta lieta dall'altro lato. Se ne stava lì avvolta nel suo grande candore e nella sua piccola camicia da notte, coi suoi piedini rosa nudi e i riccioli d'oro luminosi. Aveva un'aria molto grave, e mai, prima d'allora, avevo avuto l'impressione di perdere un vantaggio da poco acquistato (quel vantaggio che mi aveva appena dato un brivido così prodigioso), come quando mi resi conto che mi stava rivolgendo un rimprovero. «Cattiva, dove siete

stata?» Invece di rimproverarla a mia volta per la sua indisciplina, mi sentii obbligata a darle delle spiegazioni. Ma si spiegò anche lei, con la più amabile e premurosa semplicità. Si era accorta improvvisamente che non ero più nella stanza, ed era saltata da letto per vedere che cosa mi fosse capitato. Per la gioia di rivederla, ero caduta a sedere, sentendomi, ma soltanto allora, venir meno; e Flora mi era corsa accanto, e si era arrampicata sulle mie ginocchia, ponendo nella piena luce della candela il suo meraviglioso visino, ancora arrossato dal sonno. Ricordo di aver chiuso gli occhi per un momento coscientemente arresa all'eccessiva bellezza che splendeva nelle sue pupille azzurre. «Cercavi di vedermi dalla finestra?» chiesi. «Pensavi che stessi passeggiando nel parco?» «Be', sapete, io pensavo che ci fosse qualcuno...» Me lo disse sorridendo, senza esitare. Oh, come la guardai allora! «E hai visto qualcuno?» «Ah, no!» replicò quasi delusa, con infantile incongruenza, benché prolungasse quel «no» con infinita dolcezza. In quel momento, nello stato di agitazione in cui mi trovavo, credetti fermamente che mentisse; e se chiusi gli occhi ancora una volta fu soltanto perché ero turbata dall'idea di dover scegliere uno dei tre o quattro modi che avevo per reagire. Uno di questi mi tentò, per un momento, con una forza così singolare che, per resistervi, dovetti stringere la piccina in un abbraccio spasmodico, ma che lei sopportò (con mia grande meraviglia) senza un grido e senza dar segno di paura. Perché non giungere con lei ad una spiegazione lì, sul momento, e farla finita? Perché non buttarle tutto in pieno viso, in quel delizioso visino illuminato? «Tu lo vedi, tu lo vedi, tu sai di vedere e già sospetti che io lo creda; e dunque, perché non confessarmelo francamente, in modo che si possa almeno dividere il peso della verità, e forse imparare, nella stranezza del nostro destino

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comune, dove siamo, e che cosa tutto questo significa?» Questo impulso, ahimè, se ne andò così com'era venuto: se mi ci fossi subito abbandonata, mi sarei almeno risparmiata... vedrete in seguito che cosa. Invece, balzai di nuovo in piedi, guardai il suo letto e mi risolsi a un pietoso compromesso. «Perché hai tirato le cortine per farmi credere che eri ancora al tuo posto?» Flora rifletté candidamente; poi, con il suo celeste sorriso: «Perché non mi piace farvi paura!» «Ma se pensavi che ero uscita...» Non si scompose affatto; volse lo sguardo alla fiamma della candela, come se la domanda fosse irrilevante, o comunque impersonale come «Fra' Martino campanaro» o «Quanto-fa-nove-per-nove». «Oh, ma sapete benissimo,» rispose con ineccepibile buon senso, «che potevate tornare, cara, e che siete ritornata!» E poco dopo, quando si fu coricata di nuovo, dovetti restare a lungo china su di lei, tenendole la mano, per dimostrarle che riconoscevo l'opportunità del mio ritorno. Potete immaginare che cosa fossero le mie notti, a partire da quella. Più volte mi capitava di restare in piedi sino a non so quale ora; coglievo il momento in cui la mia compagna di stanza sicuramente dormiva per scivolare fuori e andare pian piano su e giù per il corridoio, e mi spingevo persino al punto dove avevo incontrato Quint l'ultima volta. Ma non lo incontrai più in quel luogo; e posso anche dire subito che non lo rividi mai più nella casa. Perdetti invece l'occasione di avere un'altra avventura sulla scala. Una volta, mentre dall'alto guardavo giù, ravvisai la presenza di una donna, seduta su uno degli ultimi gradini con le spalle rivolte verso di me, piegata in due e con la testa tra le mani, in atteggiamento di dolore. Ero là da un momento appena, quando svanì, senza guardarmi. Nondimeno, sapevo esattamente quale spaventoso volto poteva mostrare; e mi chiesi se, trovandomi al pianterreno invece che in cima alla scala, avrei avuto nell'andar su lo stesso coraggio che avevo avuto ultimamente con Quint. Tuttavia le occasioni di aver coraggio non mi mancarono davvero. L'undicesima notte dopo il mio ultimo incontro con quel signore (ormai le contavo una per una) ebbi un allarme che rischiò di superare le mie forze e che, per il suo carattere particolarmente inaspettato, costituì il più grave turbamento che avessi mai provato. Era precisamente la prima notte di quel periodo in cui, stanca per le continue veglie, avevo creduto di potermi coricare all'ora che prima mi era abituale senza dar prova di negligenza. Mi addormentai immediatamente e il mio sonno durò, come seppi dopo, sino all'una circa; ma quando mi svegliai, sedetti di colpo sul letto, completamente sveglia, come se una mano mi avesse scosso. Avevo lasciato una candela accesa, ma ora era spenta, ed ebbi immediatamente la certezza che l'avesse spenta Flora. Saltai subito dal letto e, nel buio, andai diritta al suo: era vuoto. Uno sguardo alla finestra mi illuminò ulteriormente, e la luce di un fiammifero completò il quadro. La bambina si era alzata di nuovo (questa volta spegnendo la candela) e ancora una volta, allo scopo di guardare o di rispondere a qualcuno, s'era rannicchiata dietro la tenda e spiava nella notte. Che ora vedesse qualcosa (il che, come m'ero assicurata, non

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era accaduto la volta precedente) mi fu provato dal fatto che non fu distratta né dalla luce che avevo accesa, né dai movimenti precipitosi con cui mi ero infilata le pantofole ed una vestaglia. Nascosta, protetta, assorta, si appoggiava evidentemente al davanzale (la finestra si apriva verso l'esterno) e si abbandonava completamente all'osservazione. Una gran luna pacifica, che le era d'aiuto, mi aveva dato una ragione di più per affrettarmi. Era faccia a faccia con l'apparizione che avevamo incontrato vicino al laghetto, e poteva comunicare con quella come non aveva potuto fare prima. Quel che dovevo fare era raggiungere attraverso il corridoio, senza disturbarla, un'altra finestra dello stesso lato della casa. Andai alla porta senza essere udita; la varcai, la chiusi, e dall'esterno accostai l'orecchio, per sentire se mai facesse qualche rumore. Mentre ero nel corridoio, mi caddero gli occhi sulla porta del fratello, soltanto pochi passi più in là, e che, indicibilmente, destava di nuovo in me quello strano impulso che ho già chiamato la mia tentazione. E se fossi entrata dritta nella stanza, per andare alla sua finestra?... e se, arrischiandomi a svelare il motivo del mio gesto al suo stupore infantile, avessi preso il resto del mistero al laccio della mia audacia? Questo pensiero mi affascinava talmente che avanzai sino alla soglia, prima di arrestarmi. Con l'orecchio teso sino allo spasimo, immaginavo che tutto fosse possibile; mi chiedevo se anche il suo letto fosse vuoto, e anche lui segretamente di vedetta. Passò un minuto interminabile, senza suoni, spirato il quale il mio impulso cedette. Egli era tranquillo; poteva essere innocente; il rischio era orribile; tornai sui miei passi. C'era sì, una figura nel parco... una figura che vagava per strappare uno sguardo, il visitatore con cui Flora era impegnata; ma quel visitatore non aveva nulla a che fare con il mio bambino. Esitai ancora, ma per altre ragioni, e per qualche secondo soltanto; poi, avevo fatto la mia scelta. A Bly c'era abbondanza di camere vuote, e fu solo questione di scegliere la più adatta. Questa, mi fu chiaro all'improvviso, era la camera del piano di sotto (ma ancora più elevata del giardino), situata in quell'angolo massiccio della casa che ho chiamato la Torre vecchia. Era una stanza ampia, quadrata, arredata con qualche pretensione da camera da letto, ma tanto scomoda per le sue stravaganti dimensioni che non era occupata da anni, sebbene la signora Grose la tenesse perfettamente in ordine. L'avevo spesso ammirata, e sapevo come muovermici; dovevo soltanto, una volta superata la stretta al cuore provocata da quell'abbandono, attraversarla ed aprire, il più silenziosamente possibile, una delle imposte. Fatto questo, scoprii il vetro senza far rumore e, appoggiandovi il viso, potei constatare (dato che l'oscurità esterna era molto meno profonda) che guardavo nella direzione voluta. Quindi, vidi qualcosa di più. La luna rendeva la notte straordinariamente chiara, e mi lasciò vedere, sul prato, una persona rimpicciolita dalla distanza, che se ne stava lì immobile e come incantata, gli occhi fissi nella mia direzione... a guardare non tanto me, quanto qualcosa che si trovava apparentemente sopra di me. Era chiaro che c'era un'altra persona sopra di me... c'era una persona sulla torre; ma la presenza sul prato non era affatto quella che avevo sospettato, e incontro alla quale mi ero precipitata con tanta sicurezza. La persona sul prato (mi sentii male mentre lo constatavo) era il povero, piccolo Miles.

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XI Solamente sul tardi del giorno dopo parlai con la signora Grose, perché la cura che mettevo nel non perder di vista i miei allievi mi rendeva spesso difficile incontrarla a tu per tu; e molto più perché sentivamo entrambe l'importanza di non provocare (sia nella servitù che nei bambini) il sospetto di una segreta agitazione o di discussioni misteriose. A questo proposito, ricavavo una grande sicurezza dal suo aspetto sereno. Il viso fresco di lei nulla rivelava agli altri delle mie orribili confidenze. Mi credeva sino in fondo, ne ero certa: se non l'avesse fatto, non so che cosa sarebbe stato di me, perché non avrei certo potuto sostenere da sola quella prova. Ma ella costituiva un magnifico omaggio a quella cosa benedetta che è la mancanza di immaginazione, e dato che vedeva nei nostri piccoli allievi soltanto bellezza e amabilità, felicità e intelligenza, non poteva essere in comunicazione diretta con la fonte dei miei timori. Se in essi fosse comparso il minimo segno di scoramento o di tristezza, il suo smarrimento, risalendo alle cause, avrebbe certamente eguagliato il loro; ma, nello stato presente delle cose, sentivo, mentre li sorvegliava con le grosse braccia bianche incrociate e la serenità dipinta sul volto, che ringraziava il Signore perché, anche se rovinati in parte, i suoi bambini erano ancora buonissimi. Le vampate della fantasia cedevano il posto, nella sua mente, a una sorta di fuoco calmo, da caminetto, ed io avevo già cominciato a capire che, mentre il tempo passava senza altri incidenti, si faceva strada in lei la convinzione che i nostri piccini avrebbero potuto, dopo tutto, badare a se stessi, e che dunque la sua maggiore sollecitudine doveva andare al triste caso rappresentato dalla loro istitutrice. Questo, per quanto mi riguardava, era una reale semplificazione: potevo impegnarmi a fare in modo che il mio volto non rivelasse nulla agli altri, ma sarebbe stata un'enorme preoccupazione in più se avessi dovuto controllare anche il suo. Nell'ora di cui stavo parlando, mi aveva raggiunta, cedendo alle mie insistenze, sulla terrazza, dove, col declinare della stagione, il sole pomeridiano era ormai piacevole; e sedemmo insieme, mentre, davanti a noi (a qualche distanza, ma a portata di voce), i bambini andavano tranquillamente su e giù. Camminavano adagio, affiancati, sul prato sotto di noi; il bambino leggeva ad alta voce un libro di fiabe e passava un braccio sulle spalle della sorellina, quasi per assicurarsi della sua presenza. La signora Grose li osservava con serena placidità; poi colsi in lei, benché nascosto, lo sforzo mentale di penetrare nel mio animo per scoprirvi il rovescio della medaglia. Avevo fatto di lei un ricettacolo di cose orrende; ma nella pazienza che mostrava per la mia pena, si rivelava un curioso riconoscimento alla superiorità delle mie doti e della mia condizione. Offriva il suo animo alle mie confidenze nello stesso modo che, se avessi voluto preparare un filtro da streghe e darglielo da bere, mi avrebbe teso una bella casseruola luccicante. Tale era in tutto e per tutto il suo atteggiamento quando, nel mio resoconto

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degli avvenimenti della notte, giunsi alla risposta datami da Miles allorché, avendolo visto in un'ora così eccezionale, quasi nello stesso punto dove si trovava in quel momento, ero scesa a prenderlo; stando alla finestra, m'ero infatti decisa a quella soluzione, temendo di allarmare la casa con un richiamo rumoroso. Le avevo già lasciato capire la poca speranza che avevo, a dispetto della sua intensa partecipazione, di trasmetterle l'emozione che mi aveva dato la magnifica trovata con cui quando fummo rientrati, il bambino aveva risposto alla mia sfida, finalmente espressa in modo chiaro. Non appena ero comparsa al chiaro di luna sulla terrazza, mi era venuto incontro senza esitare; allora, senza una parola, lo avevo preso per mano e lo avevo guidato, al buio, su per quella scala dove Quint aveva vagato, bramoso di lui, e lungo il corridoio in cui avevo ascoltato e tremato, sino alla sua camera deserta. Non una parola, cammin facendo, era stata scambiata tra di noi, ed io mi chiedevo - oh, come me lo chiedevo! - se stesse frugando nella sua piccola mente per trovare una spiegazione plausibile e non troppo grottesca. Avrebbe certamente dovuto lambiccarsi il cervello, ed io stavolta provai, al pensiero del suo possibile imbarazzo, un curioso senso di trionfo. Che trappola ingegnosa per l'imperscrutabile! Non avrebbe più potuto esibire il suo finto candore; allora, come diavolo se la sarebbe cavata? In verità, col palpito emozionante di questa domanda, pulsava in me anche il silenzioso interrogativo di sapere come diavolo avrei fatto io. Mi trovavo insomma costretta ad affrontare, come non mai, tutto il rischio connesso, persino ora, al risuonare della mia spaventosa nota. Ricordo, infatti, che, entrati nella sua cameretta, dove il letto era ancora intatto, e la finestra spalancata ai raggi della luna diffondeva una luce così chiara che non c'era bisogno di accendere nemmeno un fiammifero... ricordo, dicevo, che di colpo mi sentii venir meno, e mi lasciai cadere sulla sponda del letto vinta dall'idea che egli doveva sapere, ormai, fino a che punto, come si suol dire, mi «aveva in pugno». Armato della sua intelligenza, poteva fare ciò che gli piaceva, sinché avessi continuato ad alimentare quella vecchia tradizione che vuole i maestri colpevoli di instillare nei giovani superstizioni e paure. Mi aveva davvero in pugno, e in un pugno di ferro; perché, chi mi avrebbe mai assolta, chi mi avrebbe salvato dalla forca, se, col più lieve tremito di una proposta, fossi stata io la prima ad introdurre nel nostro perfetto rapporto un elemento così ripugnante? No, no, era inutile cercare di farlo capire alla signora Grose (ed è quasi altrettanto inutile cercare di spiegarlo qui) fino a che punto, durante il nostro duello rapido e aspro, nel buio, egli provocasse la mia ammirazione. Fui, naturalmente, piena di dolcezza e di pietà; mai, mai prima avevo posato le mani sulle sue piccole spalle con la tenerezza che sentivo allora, mentre, appoggiata al letto, lo avevo a tiro. Non avevo altra alternativa che rivolgergli la domanda, una specie di domanda, almeno. «Adesso devi parlare... e dirmi tutta la verità. Perché sei uscito? Che cosa facevi là fuori?» Vedo ancora il suo meraviglioso sorriso, il bianco dei suoi occhi bellissimi, lo splendore dei dentini che scintillavano nella penombra. «Se vi dico il perché, mi capirete?» A queste parole, mi sentii il cuore in gola. Stava davvero per dirmi il perché?

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Mi mancò la voce per incoraggiarlo, e mi accorsi che rispondevo soltanto con una smorfia vaga e forzata di assenso. Egli era la gentilezza fatta persona, e, mentre io continuavo ad assentire, sembrava, più che mai, un principino di fiaba. Fu proprio la sua allegria a concedermi una tregua. Ma sarebbe stata così grande se fosse stato realmente sul punto di dirmi tutta la verità? «Be',» disse infine, «precisamente perché faceste quel che avete fatto.» «Fatto cosa?» «Perché, tanto per cambiare, pensaste che sono cattivo!» Non dimenticherò mai la dolcezza e il brio con cui pronunciò quell'aggettivo, né come, per concludere, si chinò in avanti e mi baciò. Quella fu, praticamente, la fine di tutto. Gli restituii il bacio e, mentre lo stringevo per un attimo tra le braccia, dovetti fare uno sforzo supremo per non piangere. Mi aveva reso conto della sua condotta esattamente nel modo che non mi permetteva di chiedere di più, e fu soltanto per confermare che accettavo la sua risposta se gli domandai, dopo aver gettata un'occhiata nella camera: «Allora non ti sei spogliato per niente?» Sembrò, letteralmente, splendere nell'ombra. «Per niente. Sono rimasto in piedi a leggere.» «E quando sei sceso?» «A mezzanotte. Quando sono cattivo, sono cattivo!» «Vedo, vedo... davvero una bella cosa. Ma come potevi essere sicuro che io lo avrei saputo?» «Oh, mi ero messo d'accordo con Flora.» Come erano pronte le sue risposte! «Lei doveva alzarsi e guardare fuori.» «Ed è proprio quello che ha fatto.» Ero io a cadere nel tranello! «Così vi ha disturbata e, per vedere quello che stava guardando, anche voi avete guardato... avete visto.» «Mentre tu,» completai, «rischiavi di prendere un accidente stando fuori di notte!» Era così felice per la sua prodezza, che si permise di assentire, tutto raggiante. «Come avrei potuto, altrimenti, essere abbastanza cattivo?» chiese. E, dopo un altro abbraccio, l'incidente e il colloquio furono chiusi, con un formale riconoscimento, da parte mia, di tutte le riserve di bontà che aveva dovuto impiegare per permettersi un simile scherzo. XII

La particolare impressione che avevo ricevuto, ripeto, mi parve difficile da presentare alla signora Grose alla luce del giorno, benché la rafforzassi riferendo un'altra osservazione che Miles aveva fatto prima che ci separassimo. «Tutto sta in una mezza dozzina di parole,» le dissi, «parole che mettono davvero a punto la questione. "Pensate

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un po' a quello che potrei fare!" mi ha detto per provarmi quanto sia buono. Sa benissimo che cosa "potrebbe" fare. Ne ha dato un saggio a quelli del collegio.» «Signore, come siete cambiata!» esclamò la mia amica. «Io non cambio... spiego le cose come stanno, semplicemente. Potete star sicura che quei quattro si incontrano di continuo. Se in una di queste ultime notti foste stata con l'uno o con l'altra dei due bambini, lo avreste capito chiaramente. Più ho osservato e più ho atteso, più mi sono resa conto che, in mancanza d'altre prove, sarebbe sufficiente il sistematico silenzio di ciascuno di loro. Mai, nemmeno a fior di labbro, hanno formulato un'allusione ai loro antichi amici, né Miles ha mai accennato alla sua espulsione dal collegio. Oh, sì, possiamo star qui sedute a guardarli, e loro possono darcela a bere sin che vogliono; ma persino quando fingono d'esser perduti nelle loro fiabe, sono sprofondati nella visione dei morti che ritornano. Lui non sta affatto leggendo,» dichiarai, «stanno parlando di loro... stanno parlando di orribili cose! Lo so, mi sto comportando come una pazza, ed è un miracolo che non lo sia davvero. Quello che ho visto io, vi avrebbe fatta impazzire; ma ha reso me soltanto più lucida, mi ha fatto comprendere molte altre cose.» La mia lucidità doveva sembrare terribile, ma le amabili creature che ne erano vittime, passando e ripassando davanti a noi unite dalla loro dolcezza, davano alla mia collega qualcosa a cui aggrapparsi; ed io sentivo sino a che punto vi si tenesse stretta mentre, senza scomporsi al soffio della mia passione, continuava a mangiarli con gli occhi. «Quali altre cose avete compreso?» «Ma come, tutte quelle che mi hanno incantata, affascinata, eppure, in fondo, me ne rendo conto in un modo così strano, ingannata e turbata. La loro bellezza più che terrena, la loro bontà assolutamente innaturale, tutto ciò non è che un gioco,» continuai, «un'ostentazione, un inganno!» «Da parte di quei piccoli cari...?» «Che sono ancora due amabili bambocci? Sì, per quanto folle possa parere!» Il solo fatto di formulare quel giudizio mi aiutò realmente a delinearlo, a risalire alla sua fonte e a costruirlo interamente. «Non sono stati buoni, sono stati soltanto assenti. È stato facile vivere con loro semplicemente perché vivono una vita tutta loro. Non sono miei... non sono vostri. Sono di lui, sono di lei!» «Di Quint e della donna?» «Di Quint e della donna. Vogliono arrivare a loro.» Oh, come, a questo punto, la signora Grose parve studiarli con cura! «Ma perché?» «Per amore di tutto il male che, in quei giorni terribili, la coppia ha inculcato in loro. E nutrirli ancora di quel male, continuare l'opera infernale, è lo scopo del loro ritorno.» «Perdinci!» disse la mia amica senza fiato. L'esclamazione era popolare, ma dimostrava un'autentica accettazione dell'ulteriore prova da me fornita di quello che doveva essere accaduto in quei giorni amari: perché v'erano stati certamente giorni

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peggiori dei presenti. Nulla avrebbe potuto giustificarmi più di quel semplice consenso, dettato dalla sua esperienza, riguardo all'abisso di depravazione che già sospettavo in quella coppia di malfattori. Fu di sicuro perché vinta dal flusso dei ricordi se un momento dopo si lasciò sfuggire: «Erano davvero delle canaglie! Ma che cosa possono fare ora?» proseguì. «Fare?» ripetei come un'eco, così forte che Miles e Flora, passando da lontano, si fermarono un momento a guardarci. «Non fanno già abbastanza?» domandai in un tono più basso, mentre i bambini, dopo averci sorriso e fatto un cenno col capo e scoccato un bacio sulla punta delle dita, riprendevano la loro commedia. Per un momento questa attirò la nostra attenzione; poi risposi: «Possono distruggerli!» A queste parole la mia compagna si voltò, ma la domanda che mi rivolse era muta, ed ebbe solo l'effetto di rendermi più esplicita. «Non sanno ancora esattamente come fare... ma ci stanno provando con tutte le loro forze. Si fanno vedere solo attraverso le cose, per così dire, o al di là di esse... in strani luoghi e in punti elevati, sulla cima delle torri, sui tetti delle case, fuori delle finestre, sulla sponda opposta degli stagni; ma c'è un sottile proposito, da entrambe le parti, di accorciare le distanze e superare l'ostacolo; e il successo dei tentatori è soltanto questione di tempo. Non hanno che da insistere nelle loro pericolose tentazioni.» «Perché i bambini accorrano?» «E periscano nel tentativo!» La signora Grose lentamente si alzò, ed io aggiunsi, presa da scrupolo: «A meno che, naturalmente, noi riusciamo a impedirlo!» Stando in piedi davanti a me, che restavo seduta, si sforzava visibilmente di valutare la situazione. «Lo zio deve impedirlo. Sta a lui portarli via.» «E chi lo convincerà?» Fino a quel momento aveva fissato lo sguardo lontano, ma ora girò verso di me il suo volto stupito. «Voi, signorina.» «Scrivendogli che la sua casa è intossicata, e che i suoi nipotini sono pazzi?» «Ma se lo sono, signorina?» «E se lo sono anch'io, volete dire? Sono proprio delle belle notizie da trasmettergli, da parte di una istitutrice il cui compito principale stava nell'evitargli ogni seccatura.» La signora Grose rifletté, seguendo di nuovo i bambini con lo sguardo. «Sì, lui odia veramente le seccature. È stata la ragione principale...» «Per la quale quei due mascalzoni hanno potuto ingannarlo così a lungo? Certamente, anche se gli ci deve esser voluta una bella dose di indifferenza. Tuttavia, poiché io non sono una canaglia, non lo ingannerò.» Per tutta risposta, la mia compagna dopo un momento sedette di nuovo e mi strinse il braccio. «Ad ogni modo, fatelo venire qui da voi.» La guardai stupita. «Qui da me?» Ebbi improvvisamente paura di quello che avrebbe potuto fare. «Lui?» «Dovrebbe essere qui... dovrebbe aiutarci.»

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Balzai in piedi, e penso di averle mostrato un viso più alterato che mai. «Mi vedete chiedergli una visita?» No, fissandomi in volto, non poteva certamente vedermi fare una cosa simile. Sul mio viso poteva invece leggere (una donna può sempre leggere in un'altra donna) quello che io stessa mi immaginavo: la derisione, il divertimento, il disprezzo di lui per la mia mancanza di rassegnazione al fatto di esser lasciata sola, e per il bel meccanismo che avevo messo in moto allo scopo di richiamare la sua attenzione sui miei fascini trascurati. La signora Grose non sapeva (nessuno lo sapeva) quanto ero stata fiera di servirlo e di rispettare il nostro accordo; ma nondimeno comprese, credo, nel suo giusto valore l'ammonimento che le rivolsi. «Se mai doveste perdere la testa al punto di mandarlo a chiamare a nome mio...» Era veramente spaventata. «Sì, signorina?» «Vi lascerei sui due piedi, lui e voi.» XIII

Stare in loro compagnia era sempre una cosa lieta, ma parlare con loro si rivelò, al solito, una prova superiore alle mie forze...: presentò, all'atto pratico, difficoltà insormontabili tanto quanto le precedenti. Questa situazione si protrasse per un mese, con nuove aggravanti e segni particolari, il più tipico dei quali, di giorno in giorno più marcato, era un'aria di ironica consapevolezza da parte dei miei allievi. Non era frutto soltanto, ne sono certa oggi come allora, della mia infernale immaginazione: era assolutamente facile accorgersi che erano al corrente del mio imbarazzo, e che quello strano tipo di rapporto trasformava in una certa maniera, e per un tempo piuttosto lungo, l'atmosfera nella quale vivevamo. Non voglio dire con questo che fossero insolenti o facessero qualcosa di volgare, poiché non correvano pericoli del genere: voglio dire, invece, che l'innominabile e intoccabile ingigantiva tra di noi, più grande di tutto il resto, e che tanto sforzo per evitare di parlarne non avrebbe potuto aver successo senza un solido, tacito compromesso. Era come se, di quando in quando, ci imbattessimo in argomenti davanti ai quali dovevamo arrestarci, come se di colpo dovessimo uscire da vicoli che scoprivamo ciechi, o chiudessimo con un lieve tonfo che attirava gli sguardi degli uni sugli altri (ogni tonfo era, come tutti i tonfi, sempre un poco più forte di quanto avessimo desiderato) le porte che indiscretamente avevamo aperte. Tutte le strade portano a Roma, e c'erano certi momenti in cui avrebbe dovuto colpirci l'idea che quasi ogni materia di studio o argomento di conversazione sfioravano un terreno proibito. Era un terreno proibito la questione del ritorno dei morti in generale e di qualunque cosa, in particolare, potesse sopravvivere, nella memoria, degli amici che i bambini avevano perduto. C'erano giorni in cui avrei giurato che l'uno dicesse all'altra, con una specie di invisibile gomitata: «Stavolta crede di farcela... ma non ci riuscirà!» «Farcela» poteva essere per esempio, e una volta tanto, permettersi una diretta allusione alla signora che li

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aveva preparati per esser affidati alle mie cure. Essi avevano un desiderio insaziabile e delizioso per certi avvenimenti della mia vita, che avevo narrato loro tante e tante volte; sapevano a menadito tutto ciò che mi era accaduto, conoscevano sin nei minimi particolari la storia delle più insignificanti avventure che erano capitate a me, ai miei fratelli, alle mie sorelle, al cane e al gatto di casa, come anche molte altre cose sul carattere eccentrico di mio padre, sui mobili e la disposizione della nostra casa, e sulle chiacchiere delle vecchie del mio villaggio. C'erano abbastanza cose di cui parlare, una dopo l'altra, a patto di saper tirar via e di sapere, istintivamente, quando era il momento di sorvolare. Avevano un'arte tutta loro per tirare i fili della mia fantasia e della mia memoria; e niente altro, forse, quando ripensai in seguito a tali circostanze, mi dava maggiormente il sospetto d'esser sorvegliata di nascosto. In ogni caso, eravamo a nostro agio soltanto quando parlavamo della mia vita, del mio passato e dei miei amici; una condizione che li spingeva ogni tanto, senza la minima necessità, a trasformarsi in piacevoli curiosoni. Ero invitata - senza alcuna relazione apparente - a ripetere di nuovo la famosa arguzia di una certa signora, o a confermare particolari già ben noti sull'intelligenza del puledro del presbiterio. Era in parte in simili momenti, in parte in altri, del tutto diversi, che la mia prova, come l'ho chiamata, diventava più dura, data la svolta che avevano preso gli avvenimenti. Il fatto che i giorni passavano senza altri incontri avrebbe dovuto, pare, calmare un po' i miei nervi sovreccitati. Dopo la leggera emozione di quella seconda notte sul pianerottolo, quando notai la presenza di una donna in fondo alle scale, non avevo più visto nulla, fuori o dentro la casa, che sarebbe stato meglio non vedere. Molte volte, girando un angolo, mi ero aspettata di imbattermi in Quint, e più d'una situazione m'era sembrata favorevole, tanto era sinistra, all'apparizione della signorina Jessel. L'estate era declinata, l'estate se n'era andata; l'autunno era piovuto su Bly, portandoci via metà della nostra bella luce. Il luogo, con il suo cielo grigio e ghirlande di fiori appassiti, i suoi spazi spogli e foglie morte sparse, era come un teatro dopo lo spettacolo... con i programmi cincischiati sparsi al suolo. Lo stato del tempo, le sfumature dei rumori e del silenzio, l'indicibile sensazione d'esser giunta al momento

giusto, mi riportavano alla memoria, abbastanza a lungo perché potessi afferrarla, l'atmosfera di quella sera di giugno trascorsa all'aperto, quando vidi Quint per la prima volta, o quando quell'altra volta, dopo averlo visto attraverso il vetro della finestra, lo cercai invano nei boschetti circostanti. Riconoscevo i segni, i portentosi presagi... riconoscevo il momento, il luogo. Ma tutto restava incompiuto e vuoto, e io continuavo a non esser molestata; se si può dire così di una giovane donna la cui sensibilità, nel modo più straordinario, non era stata smussata, ma anzi resa più acuta. Avevo detto, durante la mia conversazione con la signora Grose a proposito dell'orribile scena di Flora vicino al laghetto (e forse avevo stupito la buona donna dicendole così) che ora mi sarebbe dispiaciuto assai di più perdere il mio potere che non di conservarlo. Avevo anche espresso l'idea fissa che mi ero messa in testa: vedessero o no i bambini i due spettri (perché non era ancora definitivamente provato che li vedessero) preferivo

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infinitamente, per salvaguardarli, correre tutto il rischio da sola. Ero pronta a conoscere il peggio. Quello che avevo previsto di più spiacevole era che i miei occhi fossero chiusi mentre i loro erano spalancati. Orbene, adesso i miei occhi, a quanto pareva, erano

davvero chiusi... conclusione per la quale sembrava da bestemmiatori non ringraziare Dio. C'era, ahimè, una difficoltà anche in questo: lo avrei ringraziato con tutta l'anima, se non avessi avuto in misura proporzionale la convinzione che i miei allievi nascondevano un segreto. Come descrivere, oggi, le strane tappe della mia ossessione? Certe volte, quando eravamo assieme, avrei potuto giurare che, in mia presenza, ma senza che ne avessi la diretta sensazione, ricevevano, letteralmente, la visita di persone note e gradite. In quei momenti, se non fossi stata trattenuta dal pensiero che il rimedio potesse essere peggiore del male, la mia esaltazione sarebbe liberamente esplosa. «Loro due sono qui, sono qui, piccoli disgraziati,» avrei urlato, «e ora non potete negarlo!» I piccoli disgraziati negavano con tutta la forza della loro amabilità e della loro tenerezza, nelle cui profondità cristalline - come il guizzo di un pesce nella corrente - scintillava ironicamente il vantaggio che avevano su di me. In verità, il mio turbamento era stato più profondo di quanto credessi, la notte in cui, mentre sotto le stelle andavo alla ricerca di Quint o della signorina Jessel, avevo scoperto il bambino sul cui riposo intendevo vegliare, e che nel rientrare aveva conservato - trasferendolo, sin dal primo momento, su di me - il dolce sguardo con cui si era compiaciuta di giocare, dall'alto dei merli, la ripugnante apparizione di Quint. Se si trattava di provar spavento, certamente la mia scoperta in quella circostanza mi aveva spaventata più di qualunque altra, e proprio dallo stato successivo dei miei nervi ricavavo le conclusioni cui ero giunta. Ne ero tormentata a tal punto che qualche volta, nei momenti più impensati, mi chiudevo in camera per ricordarmi ad alta voce (procurandomi al tempo stesso un fantastico sollievo e una rinnovata disperazione) la strada che mi avrebbe permesso di giungere al traguardo. L'avvicinavo ora da un lato ora dall'altro, mentre mi aggiravo inquieta nella stanza, ma al momento di pronunciare i nomi propri, il coraggio mi abbandonava sempre. Mentre le parole mi morivano sulle labbra, mi dicevo che forse, pronunciandoli, avrei facilitato i miei allievi a rappresentarsi qualcosa d'infame, e avrei violato il più raro caso di delicatezza istintiva che mai aula scolastica, probabilmente, avesse conosciuto. Quando mi dicevo: «Loro hanno abbastanza tatto per tacere, e tu, con tutta la fiducia che ti dimostrano, avresti la bassezza morale di parlare!», mi sentivo avvampare, e mi coprivo il viso con le mani. Dopo queste scene segrete, cicalavo più che mai, volubilissima, sino al momento in cui sopraggiungeva uno dei nostri prodigiosi, tangibili silenzi (non posso chiamarli altrimenti), la strana, vertiginosa sensazione di essere sollevati o di nuotare (fatico a trovar le parole!) in una sorta di sospensione animata, di un arrestarsi del corso della vita, che non avevano alcun rapporto con il chiasso più o meno grande che facevamo in quel momento, e che potevo sentire attraverso non importa quale scoppio di allegria, quale affrettata recitazione o quale più rumoroso accordo di pianoforte. Era in quel momento che gli altri, gli intrusi, erano là. Sebbene non fossero angeli,

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«passavano», come dicono i francesi, e mi facevano fremere di paura, per tutto il tempo che restavano, al pensiero che stessero indirizzando alle loro piccole vittime qualche messaggio ancora più infernale o qualche visione più vivida di quelle che avevano ritenute sufficienti per me. Quel che mi riusciva più difficile da allontanare era l'idea crudele che, qualunque cosa io avessi visto, Miles e Flora vedevano di più... cose terribili e impossibili da immaginare, che balzavano fuori dagli orribili momenti della loro vita in comune d'un tempo. Simili cose, naturalmente, lasciavano alla superficie dei nostri rapporti, per qualche tempo, un gelo che ci rifiutavamo di riconoscere a parole; e tutti e tre, con il moltiplicarsi di quelle situazioni, avevamo acquisito una così bella pratica che ogni volta, quasi automaticamente, eseguivamo gli stessi movimenti per segnare la fine dell'incidente. Era sorprendente che i bambini, in ogni caso, venissero a baciarmi regolarmente, con una sorta di selvaggio trasporto, e senza trascurare mai, l'uno o l'altra, di rivolgermi la preziosa domanda che ci aveva permesso di superare più d'un pericolo. «Quando pensate che verrà? Non credete che dovremmo scrivergli?»... non v'era niente, lo sapevamo per esperienza, che al pari di questo potesse dissipare ogni imbarazzo. «Lui», naturalmente, era il loro zio di Harley Street, e noi vivevamo ripetendoci che egli potesse arrivare in qualsiasi momento, ed unirsi alla nostra piccola cerchia. Sarebbe stato impossibile incoraggiare un'idea meno di quanto l'aveva incoraggiata lui, ma se non avessimo avuto il conforto di quell'idea ci saremmo privati, gli uni e gli altri, di una delle nostre più geniali finzioni. Egli non scriveva mai ai nipoti... poteva essere semplice egoismo, ma faceva certamente parte del suo modo di lusingarmi mostrandomi piena fiducia; poiché l'omaggio che un uomo rende a una donna consiste esclusivamente nel lasciarla gioire di una delle leggi più segrete della sua tranquillità; ed io, quando lasciavo intendere ai miei allievi che le loro letterine non erano altro che degli eleganti esercizi letterari, ero persuasa di attenermi allo spirito della promessa data di non infastidirlo mai. Erano lettere troppo belle per esser spedite per posta; le tenevo per me, e le conservo tuttora. Questa regola non serviva che a rendere più ironica l'insistenza della supposizione che egli potesse, da un momento all'altro, essere tra noi. Era come se i due bambini si rendessero pienamente conto dell'imbarazzo che una simile visita, più di ogni altra cosa, mi avrebbe procurato. Inoltre, osservando gli avvenimenti a ritroso, niente mi pare oggi più straordinario del fatto che, a dispetto della mia tensione nervosa e del loro contemporaneo trionfo, non persi mai la pazienza con loro. Come dovevano essere adorabili, penso, se in quei giorni non arrivai mai al punto di odiarli! Tuttavia, se un qualche sollievo fosse stato rimandato più a lungo, la mia esasperazione, alla fine non mi avrebbe tradito? Quel che ho detto importa poco, perché il sollievo arrivò. Lo chiamo sollievo, benché non fosse che un sollievo del genere di quello che un taglio può dare ad una corda troppo tesa o lo scoppio d'un temporale ad una giornata afosa. Era un cambiamento, almeno, e venne all'improvviso. XIV

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Andando in chiesa, una domenica mattina, avevo il piccolo Miles al mio fianco; davanti a noi, bene in vista, camminava la sorellina, al fianco della signora Grose. Era una giornata chiara, un po' fredda, la prima del genere da qualche tempo; la notte aveva disteso un velo di brina e l'aria d'autunno, frizzante e viva, rendeva quasi festoso il suono delle campane. Per una curiosa disposizione d'animo, in quel momento ero, particolarmente e piacevolmente colpita dalla docilità dei miei piccoli allievi. Perché non sentivano mai il peso della mia inesorabile, perpetua compagnia? In un modo o nell'altro ero giunta a rendermi conto che non avevo fatto altro che cucire il bambino alle mie sottane, e che, almeno a giudicare da come i miei compagni erano guardati a vista, sembrava volessi premunirmi contro il pericolo di una ribellione. Ero come un carceriere che vigilasse per impedire qualunque fuga o sorpresa. Ma tutto ciò - voglio dire la piccola, splendida resa dei bambini - si ricollegava proprio a quanto c'era di più singolare nelle nostre misteriosissime vicende. Vestito a festa dal sarto di suo zio, che aveva avuto mano libera e sapeva apprezzare il valore di un panciotto elegante e del portamento signorile del suo piccolo cliente, Miles portava talmente scritto in faccia il diritto all'indipendenza che gli conferivano il suo sesso e la sua condizione, che se all'improvviso avesse preteso la sua libertà, io non avrei saputo che cosa dire. Per la più strana delle coincidenze, stavo appunto domandandomi come, in tal caso, avrei potuto tenergli testa, quando la rivoluzione scoppio senza ombra di dubbio. La chiamo rivoluzione perché mi accorgo ora come, con le poche parole che disse, il sipario si alzò sull'ultimo atto del mio spaventoso dramma, e la catastrofe si verificò. «Sentite, mia cara,» disse con grazia, «sapete dirmi, per favore, quando mai tornerò in collegio?» Trascritto qui, quel discorsetto suona abbastanza inoffensivo, tanto più per esser stato pronunciato con il timbro carezzevole, franco, disinvolto che ne faceva sembrare le intonazioni tante rose gettate all'interlocutore, soprattutto quando si trattava della sua eterna istitutrice. C'era qualcosa, in esse, che non mancava mai di «prendere», e in ogni caso io ne fui allora così presa che mi fermai di botto, come se uno degli alberi del parco fosse caduto attraverso la strada. Qualcosa di nuovo si era levato là, tra noi, ed egli era perfettamente consapevole che io me n'ero resa conto, sebbene, per mettermi in quella condizione, non avesse bisogno di rinunciare a un briciolo del suo candore e del suo fascino abituale. Sentivo che, per il fatto stesso che sulle prime non avevo saputo cosa rispondergli, egli si era già accorto d'essere in vantaggio. Fui così lenta a trovare le parole che egli ebbe tutto il tempo, dopo un minuto, di continuare, con il suo sorriso suggestivo, ma vago: «Sapete bene, mia cara, che per un ragazzo, a star sempre con una signora...!» Aveva sempre quel «mia cara» sulle labbra quando si rivolgeva a me, e nulla, più di quella affettuosa familiarità, avrebbe potuto esprimere meglio la precisa sfumatura di sentimento che desideravo ispirare ai miei allievi. Era così liberamente rispettoso!

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Ma, oh, come sentii allora quanto dovessi pesare le parole! Ricordo che, per guadagnare tempo, cercai di ridere, e mi sembrò di leggere nel suo bel viso, mentre mi guardava, quant'ero brutta e strana in quel momento. «E sempre con la stessa signora?» replicai. Non impallidì, né batté ciglio. L'intera faccenda era praticamente nota ad entrambi. «Ah, naturalmente è una signora piacevole, proprio una "vera" signora; ma, dopotutto, io sono un ragazzo, capite?, che... bene, sta crescendo.» Esitai un momento, provando per lui sempre tanta tenerezza. «Sì, stai crescendo.» Oh, ma quanto mi sentivo smarrita! E ancora oggi resto convinta di questa piccola idea, che allora mi spezzò il cuore: che egli sembrava saperlo, e se ne serviva per gioco. «E non potete dire che io non sia stato terribilmente buono, non è vero?» Gli posai la mano sulla spalla perché, sebbene sentissi quanto sarebbe stato meglio proseguire il cammino, non ne ero ancora del tutto in grado. «No, questo non lo posso dire, Miles.» «Ad eccezione di quell'unica notte, ricordate...!» «Quell'unica notte?» Non potevo guardarlo dritto in faccia, come lui faceva con me. «Ma come, quando sono sceso giù... quando sono uscito di casa.» «Oh, sì. Ma non mi ricordo perché lo facesti.» «Non ve ne ricordate?» parlava con la soave esuberanza tipica dei rimproveri infantili. «Ma era proprio per dimostrarvi che potevo farlo!» «Oh sì, potevi farlo.» «E posso farlo di nuovo.» Sentii che forse, dopotutto, potevo mantenere il possesso delle mie facoltà. «Certamente. Ma non lo farai.» «No, non ancora quello. Quella era una cosa da niente.» «Era una cosa da niente,» dissi. «Ma ora dobbiamo andare.» Riprese a camminare al mio fianco, passandomi una mano sottobraccio. «Allora, quando devo tornare in collegio?» Mentre riflettevo, assunsi la mia aria più autorevole. «Eri molto felice in collegio?» Pensò un momento. «Oh, sono abbastanza felice ovunque!» «Ebbene, allora,» la voce mi tremava, «se sei altrettanto felice qui...!» «Ah, ma questo non è tutto! Naturalmente voi sapete molte cose...» «Vuoi farmi capire che tu ne sai quasi altrettante?» Mi arrischiai a chiedergli, mentre faceva una pausa. «Nemmeno la metà di quello che vorrei!» confessò onestamente Miles. «Ma non è tanto questo.» «Che cos'è, allora?» «Be'... voglio vedere un po' più di vita.»

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«Capisco, capisco.» Eravamo arrivati in vista della chiesa e di varie persone, compresi alcuni componenti della servitù di Bly, che nell'andarci si erano raggruppate vicino alla porta per vederci entrare. Affrettai il passo; volevo entrare prima che la nostra discussione si spingesse troppo oltre; riflettevo febbrilmente che, per più di un'ora, una volta in chiesa, egli avrebbe dovuto tacere; e pensavo con desiderio alla vaga penombra del recinto di famiglia e dell'aiuto, quasi spirituale, che mi avrebbe dato il cuscino sul quale avrei potuto poggiare le ginocchia. Avevo, alla lettera, l'impressione di stare disputando con lui una corsa, diretta confusamente verso un traguardo di sua scelta; ma sentii chiaramente che era arrivato primo quando, ancor prima che fossimo giunti al cimitero antistante la chiesa, disse all'improvviso: «Voglio vivere coi miei pari!» Queste parole mi fecero letteralmente sobbalzare. «Non ce ne sono molti di tuoi pari, Miles!» Risi. «Eccettuata, forse, la piccola Flora!» «Davvero mi paragonate a una bambinetta?» Questo mi fece sentire stranamente debole. «Allora non vuoi bene alla nostra piccola Flora?» «Se non le volessi bene... e anche a voi; se non ve ne volessi...!» Ripeté, come se stesse prendendo la rincorsa per spiccare un salto, e tuttavia lasciando il pensiero così incompiuto che, varcato il cancello, divenne inevitabile un'altra fermata, ch'egli mi impose stringendomi il braccio. La signora Grose e Flora erano già entrate in chiesa, gli altri fedeli le avevano seguite, e noi, per il momento, eravamo rimasti soli tra le vecchie tombe massicce. Ci eravamo fermati, lungo il sentiero che partiva dal cancello, vicino ad una tomba bassa, oblunga come una tavola. «Allora, se non ve ne volessi...?» Mentre attendevo, guardava tra le tombe. «Be', sapete bene che cosa!» Ma non si muoveva, e all'improvviso tirò fuori una cosa che mi costrinse a sedere sulla pietra, quasi per un fulmineo bisogno di riposo. «Mio zio pensa quello che voi pensate?» Tacqui ostentatamente. «Come sai quello che penso io?» «Ah, naturalmente non lo so; e mi stupisce che non me lo diciate mai. Ma voglio dire: lui lo sa?» «Sa che cosa, Miles?» «Insomma, come mi comporto.» Mi resi conto abbastanza in fretta che non potevo dare, a questa domanda, nessuna risposta che non comportasse qualche sacrificio per il mio datore di lavoro. Tuttavia mi sembrava che noi tutti, a Bly, ci fossimo sacrificati abbastanza per permetterci questo peccato veniale. «Non credo che a tuo zio interessi molto.» Miles, a queste parole, mi fissò a lungo. «Allora non credete che si potrebbe spingerlo ad interessarsene?» «In che modo?» «Ma come, facendolo venire qui.» «Ma chi lo farà venire qui?»

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«Io lo farò!» disse il bambino con una vivacità e un'enfasi straordinarie. Mi lanciò un altro sguardo carico di quella strana espressione, e poi s'incamminò da solo verso la chiesa. XV

La faccenda fini praticamente lì, perché non lo seguii. Fu una resa deplorevole allo stato dei miei nervi, ma il fatto che me ne rendessi conto non mi aiutò per nulla a ritrovare il mio equilibrio. Non potevo che restar là, seduta sulla mia tomba, e cercare d'indovinare il senso completo di quanto mi aveva detto il mio piccolo amico; e quando giunsi ad afferrarlo interamente, avevo anche stabilito di giustificare la mia assenza con il pretesto che mi vergognavo di offrire ai miei allievi e al resto della congregazione un tale esempio di ritardo. Ma mi ripetevo soprattutto che Miles mi aveva strappato una confessione preziosa, e che ne avrebbe avuto la prova proprio da quel mio disgraziato collasso. Mi aveva fatto confessare che c'era qualcosa di cui avevo una gran paura, e, probabilmente, avrebbe fatto uso di quella mia paura per ottenere una maggiore libertà per i suoi scopi. La mia paura era di dover trattare la questione intollerabile della sua cacciata dal collegio, perché quella, in fondo, era la questione a cui si riallacciavano tutti gli altri orrori. Che suo zio arrivasse per trattare con me di quelle cose era una soluzione che, a stretto rigor di logica, avrei ora dovuto desiderare; ma potevo tanto poco affrontarne la ripugnanza e la pena, che mi limitavo a rimandare, e vivevo alla giornata. Il ragazzo, con mia profonda umiliazione, era pienamente nel suo diritto e nella condizione di dirmi: «O chiarite con il mio tutore il mistero di questa interruzione dei miei studi, o la smettete di aspettarvi che io conduca al vostro fianco una vita tanto innaturale per un ragazzo.» Ma la cosa veramente innaturale per il ragazzo di cui mi occupavo stava nell'improvvisa rivelazione che lui era consapevole della situazione, ed aveva un piano al riguardo. Era questo, quello che mi sconvolgeva davvero, e che mi impediva di entrare in chiesa. Camminai intorno alla chiesa, esitante, indecisa; pensavo che ai suoi occhi mi ero già irrimediabilmente scoperta. Non potevo, dunque, rimediare più a niente, e sarebbe stato uno sforzo troppo penoso andare ad infilarmi nel banco accanto a lui: sarebbe stato così ancora più sicuro, tanto da insinuare il braccio sotto il mio e tenermi seduta là per un'ora, in stretto, silenzioso contatto con il suo commento alla nostra conversazione. Per la prima volta dopo il suo arrivo, sentivo il desiderio di allontanarmi da lui. Ero ferma sotto l'alta finestra rivolta ad oriente ad ascoltare i canti dei fedeli, quando fui colta da un impulso che al minimo incoraggiamento da parte mia mi avrebbe, lo sentivo, completamente dominata. Avrei potuto facilmente metter fine alla prova fuggendo. Ecco l'occasione buona; non c'era nessuno a fermarmi; potevo rinunciare a tutta la faccenda... voltare la schiena e ritirarmi. Si trattava soltanto di tornare in fretta, per compiere pochi preparativi, nella casa che, data la presenza in

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chiesa di tanti domestici, sarebbe stata praticamente vuota. Nessuno, per farla breve, avrebbe potuto biasimarmi se scappavo per la disperazione. Che significato avrebbe invece avuto andarmene, se doveva essere soltanto sino all'ora di pranzo? Un paio d'ore e poi - mi pareva di vederli - i miei piccoli allievi avrebbero finto un innocente stupore perché avevo mancato di seguirli in chiesa. «Che cosa avete fatto, cattiva, maleducata? Perché mai (per farci preoccupare, per distrarci, non è vero?) ci avete abbandonati proprio sulla porta?» Non potevo affrontare queste domande, né lo sguardo falso dei loro occhioni mentre me le rivolgevano; eppure, tutto ciò corrispondeva tanto perfettamente a quanto avrei dovuto affrontare che, davanti all'immagine sempre più precisa che mi si formava in mente, alla fine mi risolsi ad andar via. Cominciai, per il momento, ad andarmene di lì; uscii decisa dal cimitero, e, riflettendo intensamente, ritornai sui miei passi attraverso il parco. Giunta a casa, mi parve d'essere ormai decisa a fuggire. La calma domenicale che vi regnava, tanto all'esterno che all'interno, dove non incontrai nessuno, mi colpì come l'offerta discreta di un'occasione unica. Se me ne fossi andata in fretta, in quel modo, avrei potuto scomparire senza scene, senza una parola. Ma la mia rapidità avrebbe dovuto essere straordinaria, e la questione di un mezzo di trasporto era la più difficile da risolvere. Ricordo che nell'atrio, tormentata dalle difficoltà e dagli ostacoli che mi restavano da superare, mi lasciai cadere ai piedi della scala... improvvisamente sfinita, mi sedetti sul gradino più basso; poi, con una violenta reazione, rammentai che esattamente in quel punto, più di un mese prima, nella tenebra notturna, avevo visto lo spettro della più orribile delle donne, curva sotto il peso della sua malvagità. A questo pensiero riuscii a rialzarmi; percorsi il resto della scala; e mi diressi, preda di un forte turbamento, verso lo studio, dove c'erano alcune cose di mia proprietà che dovevo prendere. Ma apersi la porta solo per scoprire, in un lampo, che i miei occhi si erano riaperti. Davanti a quel che vidi, ritrovai di colpo tutta la mia capacità di resistenza. Seduta al mio tavolo, nella chiara luce del meriggio vidi una persona che, senza la mia precedente esperienza, avrei potuto scambiare al primo sguardo per qualche domestica rimasta di guardia alla casa e che, concedendosi un raro sollievo dal suo incarico, e servendosi dello scrittoio, nonché della mia penna, inchiostro e carta, si fosse dedicata alla considerevole fatica di scrivere una lettera al suo innamorato. La sua fatica traspariva dal modo con cui, mentre le braccia poggiavano sul tavolo, le mani sostenevano la testa con evidente stanchezza; ma, nel momento stesso in cui mi rendevo conto di questo, avevo già notato che, nonostante il mio ingresso, il suo atteggiamento, stranamente, non era mutato. Poi - bastò il semplice accenno di quel gesto - un cambiamento di posizione scoprì la sua vera identità. Si alzò, non come se avesse sentito entrare, ma con una malinconia incredibilmente grande, intrisa di indifferenza e di distacco, e, a una dozzina di passi da me, ecco ritta in piedi la vile signorina che mi aveva preceduta. Disonorata e tragica, stava tutta intera davanti a me; ma, proprio mentre la fissavo e me ne incidevo l'immagine nella memoria, l'orribile figura sparì.

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Scura come la notte nel suo abito nero, nella dannata bellezza e nel suo chiuso dolore, mi aveva guardata abbastanza a lungo per lasciarmi capire che il suo diritto di sedersi al mio tavolo valeva il mio di sedersi al suo. Durante quegli istanti, fremetti per l'impressione che l'intrusa fossi io. In una selvaggia protesta contro quest'impressione, mi udii urlare, rivolta direttamente a lei: «Terribile, miserabile donna!» e la mia voce, attraverso la porta aperta, echeggiò lungo il corridoio, e la casa deserta. Mi guardò, come se mi avesse sentito; ma mi ero ripresa, in un'atmosfera già più respirabile. Un attimo dopo, nella stanza non restavano che la luce del sole e la certezza che dovevo rimanere. XVI

Ero talmente sicura che il ritorno dei miei allievi sarebbe stato accompagnato da qualche rimostranza, che provai un nuovo turbamento nel vedere che non aprivano bocca a proposito della mia assenza. Invece di rimproverarmi gaiamente e di blandirmi, non allusero minimamente al fatto che li avevo lasciati soli, e, per il momento, non mi rimase che studiare la strana espressione della signora Grose, visto che anche lei non mi diceva nulla. Lo feci intenzionalmente, e alla fine mi convinsi che in qualche modo l'avevano costretta al silenzio; un silenzio, tuttavia, che mi ripromettevo di rompere non appena ci fossimo trovate a tu per tu. L'occasione buona si presentò prima dell'ora del tè: feci in modo di restare cinque minuti con lei nella sua stanza, dove, nel crepuscolo, in mezzo all'odore del pane appena sfornato, ma con tutto bene in ordine attorno a sé, la trovai seduta davanti al fuoco, in una tranquilla sofferenza. Così la rivedo, così la ricordo meglio; rivolta alla fiamma dalla sua sedia massiccia, in quella stanza in penombra e tirata a lucido; immagine netta e maestosa delle cose «messe via»; di cassetti chiusi e ben serrati, di riposo senza rimedio. «Oh, sì, mi han chiesto di non dir nulla; e di compiacerli, sino a che erano presenti... Naturalmente ho promesso. Ma che cosa vi è capitato?» «Sono venuta con voi soltanto per fare una passeggiata,» dissi. «Poi ho dovuto tornare indietro per incontrare un'amica.» Si mostrò sorpresa. «Un'amica... voi?» «Oh, sì, ne ho un paio!» Risi. «Ma i bambini vi hanno fornito una spiegazione?» «Perché non alludessi al fatto che ci avevate lasciati? Sì; mi hanno detto che avreste preferito così. Preferite così?» L'espressione del mio viso, le aveva dato pena. «No, mi dispiace!» Ma un istante dopo aggiunsi: «Vi hanno detto perché avrei dovuto preferirlo?» «No; il padroncino Miles ha detto soltanto: "Dobbiamo fare esclusivamente quello che le fa piacere! "» «Vorrei che lo facesse davvero! E che cosa ha detto Flora?» «La signorina Flora è stata tanto gentile. Ha detto: "Oh, naturalmente,

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naturalmente!"... ed io ho detto lo stesso.» Riflettei per un po'. «Anche voi siete stata tanto gentile... Mi pare di sentirvi tutti quanti. Ma tuttavia, tra Miles e me, tutto è finito.» «Tutto?» La mia compagna si stupì. «Ma che cosa, signorina?» «Tutto. Non importa. Ho deciso. Sono tornata a casa, mia cara,» proseguii, «per fare due chiacchiere con la signorina Jessel.» Avevo ormai preso l'abitudine, prima di toccare questo tasto, di avere bene in pugno la signora Grose; sicché, persino in quella circostanza, mentre sbatteva coraggiosamente le palpebre al segnale delle mie parole, riuscii a tenerla relativamente calma. «Due chiacchiere? Volete dire che lei ha parlato?» «Ci sono arrivata. L'ho trovata, al mio ritorno, nello studio.» «E che cosa ha detto?» Mi pare di sentire ancora quella brava donna, l'accento sincero del suo stupore. «Che soffre i tormenti...!» Fu questo, in realtà, che la fece restare a bocca aperta, mentre si sforzava di ricostruire la scena. «Volete dire,» balbettò, «... delle anime perdute?» «Delle anime perdute. Dei dannati. E perciò, per dividerli con qualcuno...» A mia volta, mi mancò la voce per l'orrore. Ma la mia compagna, meno dotata di immaginazione, mi incalzò: «Per dividerli con...?» «Vuole Flora.» A queste parole, la signora Grose mi sarebbe potuta sfuggire di mano, se non fossi stata più che preparata; la tenni ben stretta, per provarle che lo ero. «Ma come vi ho già detto, non importa.» «Perché avete deciso? Ma deciso che cosa?» «Ogni cosa.» «E che cosa volete dire con "ogni cosa" ?» «Ma come, mandare a chiamare il loro zio.» «Oh, signorina, per carità, fatelo,» esclamò la mia amica. «Ah, ma lo farò, lo farò! Vedo che è l'unica soluzione. Quel che è stato detto, tra Miles e me, è proprio questo; ma se lui crede che io abbia paura di farlo - e ha certe idee su quel che ne potrebbe guadagnare - capirà di essersi sbagliato. Sì, sì; suo zio sentirà dalla mia bocca, proprio qui (e davanti al ragazzo se sarà necessario), che se sono da rimproverare per non aver cercato un'altra scuola...» «Sì, signorina...» incalzò la mia compagna. «Ebbene, c'è quell'orribile motivo.» Di motivi ce n'erano ormai tanti che l'incertezza della mia povera collega si poteva scusare. «Ma... quale?» «Ma come, la lettera del posto dov'era prima.» «La mostrerete al padrone?» «Avrei dovuto farlo sin dal primo istante.» «Oh, no!» disse con decisione la signora Grose.

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«Gli dirò chiaramente,» proseguii inesorabile, «che mi è impossibile occuparmi di questa questione, trattandosi di un ragazzo cacciato...» «Per motivi che non abbiamo mai saputo!» dichiarò la signora Grose. «Per cattiva condotta. Per che altro... dal momento che è così intelligente e bello e perfetto? È forse uno stupido? Ha cattive maniere? È malaticcio? Ha un brutto carattere? È squisito... sicché può essere soltanto per quello; e quel motivo chiarisce tutto. In fondo,» dissi, «la colpa è dello zio. Se ha lasciato qui gente di quella risma...!» «Veramente non li conosceva bene. La colpa è mia.» Era diventata pallidissima. «Be', non dovete tormentarvi,» risposi. «Sono i bambini a non doverne soffrire!» ribatté con enfasi. Stetti zitta per un po', mentre continuavamo a fissarci. «Allora, che cosa devo dirgli?» «Voi non dovete dirgli nulla. Io glielo dirò.» Pesai questa risposta. «Volete dire che gli scriverete voi?» Ricordando che non sapeva scrivere, mi ripresi. «Come fate a comunicare?» «Lo dico al fattore. È lui che scrive.» «E vi piacerebbe fargli scrivere la nostra storia?» Nella mia domanda c'era più sarcasmo di quanto non intendessi, e questo, incoerentemente, la fece crollare in un momento. Gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime. «Ah, signorina, scrivete voi!» «Bene... stasera,» risposi finalmente; e con questo ci separammo. XVII Quella sera mi spinsi sino al punto di cominciare la lettera. Il tempo era ancora cambiato, soffiava un forte vento, e sotto la lampada, in camera mia, con Flora che riposava pacificamente accanto a me, rimasi a lungo seduta davanti ad un foglio bianco, ascoltando lo scroscio della pioggia e l'urlo delle folate. Infine uscii, reggendo un candeliere; attraversai il corridoio e rimasi in ascolto un minuto alla porta di Miles. Ero stata spinta, nella mia ossessione senza fine, a cercar di cogliere qualche segno che mi provasse che era ancora sveglio, e d'un tratto ne avvertii uno, ma non sotto la forma che mi aspettavo. La sua voce squillò: «Dico a voi, là fuori... entrate.» Fu una scintilla di gioia nelle tenebre! Entrai con il mio candeliere e lo trovai a letto, sveglissimo e tuttavia perfettamente tranquillo. «Ebbene, perché siete in piedi?» domandò con una grazia tanto amabile che invano, pensai, la signora Grose, se fosse stata presente, avrebbe cercato una prova che tra noi tutto era «finito». Stavo in piedi davanti a lui, con il candeliere in mano. «Come hai fatto a sapere che ero là fuori?»

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«Ma vi ho sentita, naturalmente. Credete forse di non far rumore? Sembrate uno squadrone di cavalleria!» Scoppiò in una bella risata. «Allora non dormivi?» «Non proprio. Ero sveglio e pensavo.» Avevo posato di proposito il mio candeliere a una certa distanza, ma poi, dal momento che mi tendeva amichevolmente la mano, mi ero seduta sulla sponda del letto. «A che cosa stavi pensando?» domandai. «E a chi altri, mia cara, se non a voi?» «Ah, il tuo apprezzamento mi lusinga, ma non pretendo tanto! Preferirei di gran lunga che tu dormissi.» «Be', penso anche, sapete, a questa nostra strana faccenda.» Notai la freddezza di quell'energica manina. «Quale strana faccenda, Miles?» «Come quale, il modo con cui mi educate. E tutto il resto!» Per un minuto buono restai senza fiato, e anche la luce tremolante della candela era sufficiente a mostrarmi come mi sorrideva dal suo guanciale. «Che cosa intendi dire con "tutto il resto" ?» «Oh, voi lo sapete, voi lo sapete!» Per un minuto ancora non fui in grado di parlare, sebbene sentissi, mentre gli tenevo la mano e i nostri sguardi continuavano ad incrociarsi, che il mio silenzio aveva proprio l'aria di approvare quanto aveva detto, e che nulla forse, nel mondo della realtà, era in quel momento più fantastico della nostra attuale relazione. «Certamente tu farai ritorno in collegio,» dissi, «se è questo che ti turba. Ma non in quello dove stavi prima... dobbiamo trovarne un altro, uno migliore. Come potevo sapere che questo problema ti preoccupava tanto, se non me l'hai mai detto, non me ne hai parlato affatto?» Il suo volto chiaro, attento, incorniciato dal vago biancore del guanciale, lo rendeva patetico come un mesto malatino in un ospedale per bambini; e avrei dato, mentre questa similitudine mi veniva in mente, tutto quanto possedevo al mondo per essere davvero l'infermiera o la suora di carità che lo avrebbe aiutato a guarire. Ebbene, anche nella situazione che si era creata, forse potevo essergli d'aiuto! «Lo sai che non mi hai detto mai nemmeno una parola sul collegio, voglio dire quello di prima; che non me ne hai parlato mai e poi mai?» Sembrò riflettere, poi sorrise di nuovo, con la sua solita amabilità. Ma chiaramente stava guadagnando tempo; aspettava, cercava qualcosa che lo guidasse. «Davvero non l'ho mai fatto?» Non stava a me aiutarlo... stava a ciò in cui io stessa m'ero imbattuta. Qualcosa, nel tono della voce e nell'espressione del viso, mentre mi parlava così, mi aveva trafitto il cuore con una pena che non avevo provato mai; tanto era indicibilmente toccante lo spettacolo del suo piccolo cervello tormentato, e di tutti i piccoli artifici cui ricorreva per recitare, costretto dal sortilegio che pesava su di lui, una parte ingenua e coerente. «No, mai... dal momento in cui sei tornato. Non mi hai nominato mai uno dei tuoi insegnanti, uno dei tuoi compagni, non hai accennato mai al

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minimo fatterello che potesse esserti capitato in collegio. Mai, mio piccolo Miles... no, mai... mi hai dato la più piccola indicazione su quello che poteva esserti accaduto. Quindi puoi facilmente immaginare quanto io sia all'oscuro. Fino alla tua uscita di stamattina non ti avevo mai sentito fare, in pratica da quando ti conosco, la benché minima allusione alla tua vita passata. Sembravi accettare il presente nella maniera più completa e definitiva.» Era straordinario come la mia assoluta convinzione della sua segreta precocità (o qualunque altro nome si potesse dare al veleno di un'influenza che io stessa non osavo citare a chiare lettere) me lo faceva apparire, nonostante i segni appena visibili del suo intimo turbamento, accessibile come una persona adulta... e me lo imponeva quasi come un mio pari dal punto di vista intellettuale. «Pensavo che desiderassi andare avanti così.» Lo vidi, a questo punto, arrossire leggermente. Ad ogni modo, come un convalescente un po' affaticato, scosse languidamente il capo. «No... no. Voglio andar via.» «Sei stanco di Bly?» «Oh, no, Bly mi piace.» «Bene, e allora...?» «Oh, voi sapete bene che cosa vuole un ragazzo!» Sentii di non saperlo bene quanto Miles, e cercai uno scampo momentaneo. «Vuoi andare da tuo zio?» Di nuovo, a queste parole, con la sua cara faccia ironica, fece un movimento sul guanciale. «Ah, non ve la potete cavare così!» Per un po' restai in silenzio, e forse fui io, questa volta, a cambiar colore. «Mio caro, non intendo affatto cavarmela!» «Non potete, nemmeno se lo voleste. Non potete, non potete!» Giaceva sul letto e mi fissava coi suoi begli occhi. «Mio zio deve venire qui, e voi dovete sistemare tutto quanto.» «Se lo faremo,» replicai con una certa audacia, «puoi star certo che sarà per farti andar via di qui.» «Be', non capite che è proprio per questo che mi sto dando tanto da fare? Sarete costretta a dirgli... come mai avete trascurato tutto: ne avrete un bel po' di cose da dirgli!» L'esultanza con cui pronunciò queste parole era tale che in certo modo mi aiutò, per un istante, ad andargli incontro ancora di più. «E quanto dovrai dirgli tu, Miles? Ci sono cose che vorrà sapere da te!» Rimase per qualche istante meditabondo. «È molto probabile. Ma quali cose?» «Le cose che non hai mai detto a me. Perché sia in grado di decidere che cosa fare di te. Non può rimandarti...» «Oh, non voglio tornare là!» proruppe. «Voglio roba nuova.» Lo disse con ammirevole serenità, con una gaiezza franca e irreprensibile; e non c'è dubbio che proprio quella nota, più di ogni altra cosa, evocò per me lo strazio,

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l'innaturale tragedia infantile del suo possibile ritorno dopo tre mesi, con tutta la sua vanteria e un disonore anche più grande. L'emozione mi travolse al punto di non poterla più frenare, tanto che mi lasciai andare. Mi gettai su di lui e lo abbracciai con tutta la tenerezza di cui era capace la mia pietà. «Caro piccolo Miles, caro piccolo Miles...!» Il mio viso toccava il suo, ed egli si lasciò baciare, con indulgente buona grazia. «Allora, cara vecchia signora?» «Non c'è nulla... proprio nulla che tu non voglia dirmi?» Si girò un poco, rivolto al muro, e alzò la mano per guardarla, come si vede fare spesso ai bambini malati. «Ve l'ho detto... ve l'ho detto stamattina.» Oh, come soffrivo per lui! «Cioè che vorresti soltanto che io non ti disturbassi?» Si voltò a guardarmi, quasi volesse darmi atto di averlo compreso; poi, nel modo più soave possibile: «Che mi lasciasse in pace», precisò. C'era in tutto questo una certa qual dignità, assai singolare, che mi costrinse a staccarmi da lui, eppure, una volta in piedi, a restargli ancora accanto. Dio sa che non volevo tormentarlo, ma sentivo che voltargli le spalle in quel momento voleva dire semplicemente abbandonarlo o, per dirla più schiettamente, perderlo. «Ho appena cominciato a scrivere una lettera a tuo zio,» dissi. «Bene, allora, finitela!» Attesi un momento. «Che cosa è accaduto prima?» Egli alzò di nuovo lo sguardo su di me. «Prima di che cosa?» «Prima che tu tornassi. E prima che tu te ne andassi.» Per qualche tempo tacque, pur continuando a fissarmi negli occhi. «Che cosa è accaduto?» L'intonazione di queste parole, in cui mi parve di sentire per la prima volta il palpito lieve di una coscienza pronta a cedere, mi fece cadere in ginocchio accanto al letto, nel rinnovato tentativo di cogliere l'occasione di riconquistarmelo. «Caro, piccolo Miles, caro, piccolo Miles, se tu sapessi come desidero aiutarti! È soltanto questo, nient'altro che questo; e preferirei morire piuttosto che darti un dispiacere o farti un torto... preferirei morire piuttosto che torcerti un solo capello. Caro, piccolo Miles.» Oh, lasciavo che tutto ora mi uscisse di bocca, anche a rischio di andare troppo oltre. «Voglio soltanto che tu mi aiuti a salvarti!» Ma un attimo dopo sapevo d'essere andata davvero troppo oltre. La risposta al mio appello fu istantanea, ma venne sotto forma d'una straordinaria ventata gelida, una folata di aria ghiaccia e un tremito della stanza, come se, sotto l'impeto del vento, la finestra avesse ceduto. Il bambino lanciò un urlo acutissimo, che, perduto in quel frastuono, avrebbe potuto esser preso, indifferentemente, e nonostante gli fossi tanto vicina, per un'esclamazione di giubilo come di terrore. Balzai di nuovo in piedi, e mi resi conto che era buio. Restammo così per un momento, mentre io mi rendevo conto che le tende erano tirate e immobili, e la finestra chiusa. «Ma la candela si è spenta!» gridai. «Sono io che l'ho spenta, cara!» disse Miles.

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XVIII

Il giorno dopo, terminate le lezioni, la signora Grose trovò un momento per venirmi a chiedere sottovoce: «Avete scritto, signorina?» «Sì... ho scritto.» Ma non aggiunsi, per il momento, che la lettera, chiusa e indirizzata, si trovava ancora nella mia tasca. Ci sarebbe stato tempo a sufficienza per spedirla al villaggio prima che vi passasse il postino. Frattanto, i miei allievi quella mattina erano stati più brillanti, più esemplari che mai. Sembrava che ad entrambi stesse a cuore sorvolare su qualunque minimo, recente attrito. Si misurarono con i più complicati problemi aritmetici, superando di gran lunga le mie limitate capacità, e combinarono, con fervore più grande del solito, i loro scherzi geografici e storici. In particolare Miles, naturalmente, si mostrava ansioso di provarmi come gli riuscisse facile aver la meglio su di me. Questo bambino, nei miei ricordi, vive realmente su uno sfondo di bellezza e di sventura che nessuna parola potrebbe descrivere; rivelava una distinzione tutta propria in ogni moto; mai nessuna creatura così giovane e spontanea, che agli occhi dei non iniziati appariva assolutamente franca e libera, fu un più ingegnoso, un. più straordinario piccolo gentiluomo. Dovevo stare continuamente in guardia per resistere allo stupore, all'ammirazione a cui i miei occhi, seppure iniziati, tentavano di trascinarmi; e anche per frenare lo sguardo inadeguato o il sospiro avvilito con cui affrontavo e abbandonavo senza sosta l'enigma di che cosa avesse mai potuto fare un piccolo gentiluomo come quello per meritarsi una punizione. Avevo un bel dirmi che, per il tenebroso incantesimo che sapevo, la conoscenza di ogni male gli era stata rivelata: il mio desiderio di giustizia si sfibrava nella ricerca di una prova che quella conoscenza si fosse tradotta in azione. In ogni caso, egli non si era mai dimostrato un perfetto gentiluomo come quando, dopo la nostra colazione di buon'ora in quel giorno terribile, mi si avvicinò e mi chiese se desideravo che per una mezz'ora suonasse per me. Davide che suonava per Saul non avrebbe potuto dimostrare un più sottile senso dell'opportunità. Era proprio una simpatica prova di tatto, di magnanimità, equivalente ad una dichiarazione di questo genere: «I veri cavalieri dei quali ci piace leggere le avventure non spingono mai troppo oltre un loro vantaggio. Io so che cosa volete dire ora: volete dire che, per essere lasciata sola e per non essere disturbata, smetterete di crucciarvi e di spiarmi, non mi terrete più sempre vicino, mi lascerete andare e venire. Bene, io "vengo", vedete... ma non me ne vado! Ci sarà più di un'occasione per quello. Ricavo realmente un gran piacere dalla vostra compagnia, e volevo soltanto dimostrarvi che lottavo per una questione di principio.» È facile immaginare se resistetti a questo muto appello, se mancai di accompagnarlo di nuovo, mano nella mano, nello studio. Egli sedette al vecchio pianoforte, e suonò come non aveva mai suonato; e se qualcuno pensa che avrebbe fatto meglio a uscir fuori e prendere a calci un pallone, posso soltanto dire che sono

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pienamente d'accordo con lui. Poiché, al termine di un periodo di tempo che, stregata da lui, avevo smesso di misurare, mi riscossi di colpo, con la strana sensazione di aver letteralmente dormito sulla poltrona. Tutto ciò accadeva dopo pranzo, accanto al caminetto dello studio, e tuttavia non avevo, in realtà, dormito: avevo soltanto fatto qualcosa di molto peggio... avevo dimenticato. Dov'era stata Flora, in tutto quel tempo? Quando rivolsi questa domanda a Miles, continuò a suonare per un minuto prima di rispondermi, e alla fine si limitò a dirmi: «Mia cara, e come potrei saperlo?», scoppiando per giunta in un'allegra risata che, immediatamente dopo, quasi che fosse un accompagnamento vocale, prolungò in una canzone incoerente, stravagante. Andai dritta in camera mia, ma sua sorella non c'era; poi, prima di scendere al pianterreno, guardai in molte altre stanze. Poiché non era lì, doveva essere di sicuro con la signora Grose, alla ricerca della quale mi misi, rassicurata da quella convinzione. La trovai dove l'avevo trovata la sera prima, ma al mio brusco interrogativo rispose, spaventata e stupita, di non sapere nulla. Aveva semplicemente supposto che, dopo pranzo, io avessi portato fuori tutt'e due i bambini; e, quanto a questo, aveva perfettamente ragione, perché era la prima volta che permettevo alla piccolina di allontanarsi senza un motivo particolare. Naturalmente, ora poteva essere in compagnia delle cameriere, sicché la prima cosa da fare era di metterci a cercarla senza dare a vedere la nostra preoccupazione. Ci mettemmo subito d'accordo a questo riguardo; ma quando, dieci minuti dopo, ci ritrovammo nell'atrio come avevamo stabilito, potemmo soltanto riferirci a vicenda che non eravamo riuscite a rintracciarla, nonostante le nostre accurate ricerche. Per un minuto, lasciata da parte ogni osservazione, ci scambiammo un muto sguardo di allarme, e mi accorsi allora con che salato interesse la mia amica mi restituiva tutto quanto avevo scaricato su di lei sin dal principio. «Dev'essere di sopra,» disse dopo un poco, «in una delle stanze in cui non avete cercato.» «No; è lontana da qui,» avevo deciso. «È uscita.» La signora Grose mi guardò stupita. «Senza cappello?» Le risposi naturalmente con uno sguardo carico di significato. «Quella donna non è sempre a testa scoperta?» «È con lei?» «È con lei!» dichiarai. «Dobbiamo trovarle.» L'avevo presa per un braccio, ma, davanti a questo aspetto della cosa, evitò per un attimo di rispondere alla mia stretta. Al contrario, si lasciò inchiodare sul posto dal suo disagio. «E dove è il signorino Miles?» «Oh, lui è con Quint. Sono tutt'e due nello studio.» «Mio Dio, signorina!» La mia persuasione, me ne rendevo conto, e quindi, suppongo, anche il mio tono di voce, non avevano mai raggiunto un tale grado di sicurezza. «Il gioco è fatto,» proseguii. «Hanno portato a termine con successo il loro piano. Miles ha trovato il più divino degli espedienti per tenermi tranquilla mentre lei fuggiva.»

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«Divino?» fece eco sbalordita la signora Grose. «Infernale, allora,» precisai quasi allegramente. «E ha provveduto altrettanto bene per sé. Ma venite!» Lanciò uno sguardo disperato al piano di sopra. «Lo lasciate...?» «Tanto a lungo con Quint? Sì... non mi importa per ora.» Finiva sempre, in momenti come quello, per stringermi la mano, e in tal modo sarebbe riuscita anche quella volta a fermarmi. Ma dopo aver boccheggiato per un po' sotto il colpo della mia improvvisa rinuncia, proruppe ansiosamente: «La causa della vostra lettera?» Rapidamente, per tutta risposta, cercai la lettera, la tirai fuori, l'alzai, e poi, divincolatami da lei, andai a deporla sulla grande tavola dell'atrio. «La prenderà Luke,» dissi tornando sui miei passi. Raggiunsi la porta d'ingresso e l'aprii; un attimo dopo ero già sugli scalini. La mia compagna indugiava ancora: l'uragano della notte e del primo mattino era passato, ma il pomeriggio era umido e grigio. Io ero sul viale, e lei stava ancora sulla soglia. «Andate senza niente addosso?» «Che me ne importa, quando la bambina non ha nulla addosso nemmeno lei? Non posso perder tempo a vestirmi,» esclamai, «e se voi volete farlo sono costretta a lasciarvi qui. Provate a fare qualcosa lassù, intanto.» «Con loro?» Oh, come mi raggiunse in fretta, povera donna! XIX

Andammo dritte al lago, come lo chiamavano a Bly, e oso dire a ragione, sebbene a ripensarci quello specchio d'acqua potesse essere meno notevole di quanto supponevano i miei occhi poco esperti. La mia esperienza di specchi d'acqua era scarsa, e lo stagno di Bly, in ogni caso, e nelle poche occasioni che avevo acconsentito, sotto la protezione dei miei allievi, ad affrontare la sua superficie sulla vecchia barca a fondo piatto ormeggiata là per nostro uso, mi aveva impressionato sia per l'estensione sia per la turbolenza delle sue acque. Il consueto punto d'imbarco abituale si trovava ad, oltre mezzo miglio di distanza dalla casa, ma io ero intimamente convinta che Flora, dovunque si trovasse, non era comunque vicina a casa. Non mi aveva più dato occasione di imputarle la minima scappata, ma, dal giorno in cui avevo vissuto con lei quella strana avventura vicino allo stagno, avevo avuto modo di notare, durante le nostre passeggiate, verso quale parte preferiva incamminarsi. Per questo, avevo ora guidato i passi della signora Grose in una direzione tanto precisa... una direzione che le fece opporre, quando se ne accorse, una resistenza che mi provò come s'era di nuovo ingannata. «State andando verso l'acqua, signorina?... Credete che vi sia finita dentro?» «Potrebbe darsi, anche se in nessun punto, credo, l'acqua è molto profonda. Ma mi

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sembra invece più probabile che si trovi nel luogo dove l'altro giorno abbiamo visto insieme quello che vi ho raccontato.» «Quando lei fingeva di non vedere...?» «Con quella stupefacente padronanza di sé! Sono sempre stata certa che volesse tornarvi da sola. Ed ora suo fratello ha fatto in modo che potesse farlo.» La signora Grose era ancora immobile nel punto dove s'era fermata. «Credete davvero che parlino di loro?» Ero in grado di rispondere con bella sicurezza! «Si dicono cose che, se le sentissimo, ci farebbero semplicemente accapponar la pelle.» «E se lei è là...?» «Sì?» «Allora c'è anche la signorina Jessel?» «Non c'è dubbio. Vedrete.» «Oh, grazie!» esclamò la mia amica, piantata così saldamente a terra che, quando me ne accorsi, proseguii senza di lei. Quando raggiunsi lo stagno, tuttavia, era proprio dietro di me, e capii che, qualunque cosa temesse che mi potesse capitare, il pericolo che correva stando in mia compagnia le sembrava ancora il meno grave. Emise un sospiro di sollievo quando, finalmente, potemmo abbracciare con lo sguardo la maggior parte dello specchio d'acqua senza trovare traccia della bambina. Non c'era traccia di Flora né sulla sponda più vicina, dove l'osservarla mi aveva tanto stupita, né su quella opposta, dove, se si esclude un margine libero di una ventina di metri, una fitta vegetazione raggiungeva il pelo dell'acqua. Lo stagno, di forma oblunga, era così stretto rispetto alla sua lunghezza che, non scorgendone i due limiti estremi, si sarebbe potuto scambiare per un fiumiciattolo. Guardammo quella distesa vuota, poi sentii il suggerimento che mi veniva dagli occhi della mia amica. Sapevo che cosa intendeva dire, e risposi con un cenno negativo. «No, no; aspettate! Ha preso la barca.» La mia compagna guardò stupefatta prima l'approdo deserto, poi di nuovo la distesa d'acqua. «Allora, dov'è?» «Il fatto che non la vediamo è la migliore delle prove. L'ha presa per attraversare il laghetto, e poi ha cercato di nasconderla.» «Tutta sola... una bimba come lei?» «Non è sola, e in quei momenti non è una bambina: è una donna vecchia, molto vecchia.» Percorsi con lo sguardo tutta la sponda visibile, mentre la signora Grose faceva nuovamente uno dei suoi tuffi di sottomissione nello strano elemento che le sottoponevo: poi suggerii che la barca poteva benissimo trovarsi in un piccolo riparo costituito da uno dei recessi dello stagno, in una rientranza nascosta, nel punto in cui eravamo, dallo sporgere della riva e da un groviglio d'alberi che crescevano vicino all'acqua. «Ma se la barca è là, dove mai è finita lei?» chiese ansiosamente la mia collega. «È proprio quello che dobbiamo scoprire.» E cominciai di nuovo a camminare.

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«Facendo tutto il giro del lago?» «Certamente, per quanto è lungo. Non ci vorranno più di dieci minuti, ma alla bambina può esser sembrato abbastanza lungo da farle preferire di non andare a piedi. Deve averlo attraversato.» «Perdinci!» esclamò di nuovo la mia amica; la catena della mia logica era troppo per lei. Però me la tenne alle calcagna persino allora, e quando fummo a metà strada (un percorso tortuoso, faticoso, su un terreno molto irregolare e lungo un sentiero invaso dalla vegetazione), mi fermai per lasciarle prender fiato. Riconoscente, la sostenni con un braccio, assicurandole che mi sarebbe stata di grande aiuto; e questo ci diede nuova lena, sicché, nel giro di pochi minuti, raggiungemmo un punto da cui scoprimmo che la barca si trovava proprio nel posto che m'ero immaginata. Era stata intenzionalmente lasciata il più possibile fuori vista, ed era ormeggiata ad uno dei paletti d'una staccionata che, proprio in quel punto, raggiungeva il margine dell'acqua, e che doveva aver facilitato lo sbarco. Riconobbi, osservando i remi corti e pesanti, giudiziosamente tirati in barca, il carattere prodigioso dell'impresa per una bambina così piccola; ma avevo ormai vissuto, a quel punto, tra troppe meraviglie, ed avevo palpitato per accorgimenti ben più astuti. La staccionata aveva un varco, attraverso il quale passammo, e che ci portò, in un tempo brevissimo, in uno spazio più aperto. Allora «Eccola!» esclamammo all'unisono. Flora, poco lontano da noi, stava in piedi sull'erba e sorrideva, come se la sua impresa fosse ormai compiuta. La seconda cosa che fece, tuttavia, fu di chinarsi a cogliere con decisione (come se fosse andata sin lì solo per quello) un lungo e brutto rametto di felce appassita. Fui certa all'istante che era appena uscita dalla macchia. Ci aspettò senza muovere un passo, ed io mi resi conto della strana solennità con la quale ci avvicinammo a lei. Continuava a sorridere; la raggiungemmo; ma tutto avvenne in un silenzio chiaramente di cattivo augurio. La signora Grose fu la prima a rompere l'incantesimo: si buttò in ginocchio e, attirando la bambina al seno, serrò in un lungo abbraccio quel corpicino tenero, flessuoso. Io, mentre durava quell'abbraccio silenzioso e convulso, non potevo che stare a guardare, e lo feci tanto più intensamente quando vidi il viso di Flora, che mi fissava al di sopra della spalla della nostra compagna. Era serio ora, il sorrisetto l'aveva abbandonato, e ciò rese più acuta la fitta di dolore che provai nell'invidiare alla signora Grose la semplicità del suo rapporto. Tuttavia, per il momento, non accadde altro tra noi, se non che Flora lasciò cadere a terra la sua stupida felce. Ci eravamo praticamente dette che ormai ogni finzione era inutile tra noi. Quando finalmente la signora Grose si rialzò, tenne la bambina per mano, sicché mi stavano entrambe di fronte; e la singolare reticenza della nostra riunione era sottolineata ancor più dal franco sguardo che mi lanciò. «Piuttosto che parlare,» diceva il suo sguardo, «mi farei impiccare!» Fu Flora che, osservandomi con ingenuo stupore, ruppe il silenzio. Sembrava colpita dal fatto che eravamo a capo scoperto. «Dove sono le vostre cose?» «Dove sono le tue, cara!» ribattei prontamente.

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Aveva già riacquistato la sua gaia disinvoltura, e parve appagata dalla mia risposta. «E Miles dov'è?» continuò. C'era qualcosa in quel coraggio infantile che finì di sconcertarmi; quelle sue tre parole, in un lampo simile al balenare di una lama sguainata, rovesciarono la coppa che la mia mano, da molte settimane, teneva alta e colma sino all'orlo, e che ora, ancor prima di parlare, sentivo traboccare in un vero diluvio. «Te lo dirò se tu mi dirai...» mi sentii dire; poi avvertii il tremito che le arrestò. «Allora, che cosa?» L'angoscia della signora Grose si rovesciò su di me; ma ormai era troppo tardi, e continuai, con graziosa disinvoltura: «Dov'è, carina, la signorina Jessel?» XX

Proprio come era accaduto con Miles nel cimitero, la cosa ci sovrastava. Avevo contato molto sul fatto che quel nome non fosse mai stato pronunciato fra noi, e la rapida smorfia di sofferenza che si dipinse sul viso della bimba fece sì che la mia brusca interruzione del silenzio assomigliasse al fracasso di un vetro infranto. A questo si aggiunse il grido che la signora Grose, quasi a parare il colpo, lanciò nello stesso istante contro la mia violenza: il grido di una creatura spaventata o, piuttosto, ferita, al quale, nel giro di pochi secondi, si aggiunse un mio gemito. Afferrai la mia collega per un braccio. «È là, è là!» La signorina Jessel stava davanti a noi sulla sponda opposta, esattamente come l'altra volta, e ricordo che, stranamente, il primo sentimento suscitato in me questa volta dalla sua apparizione fu un brivido di gioia per aver raggiunto una prova. Ella era là, ed io ero giustificata; era là, ed io non ero più né crudele né pazza. Era là per la povera signora Grose spaventata a morte, ma era là soprattutto per Flora; nessun momento di quel mio mostruoso periodo fu forse così straordinario come quello in cui le lanciai coscientemente un muto messaggio di gratitudine, con la sensazione che (pallido e rapinoso demonio qual era) lo avrebbe afferrato e compreso. Si ergeva ben dritta nel punto stesso che io e la mia amica avevamo da poco lasciato, e non c'era, nell'ampia estensione della sua brama, un briciolo di perversione che andasse perduto. Quella prima nettezza di visione e di emozione non durò che pochi attimi, durante i quali lo sguardo attonito della signora Grose, rivolto al punto da me indicato, mi parve la prova suprema del fatto che anche lei, finalmente, vedeva, e mi spinse, nello stesso tempo, ad abbassare precipitosamente lo sguardo sulla bimba. La rivelazione del modo in cui Flora sopportava quella prova mi impressionò, in verità, molto di più che se l'avessi vista semplicemente agitata, dato che uno sgomento vero e proprio non era certo quello che mi aspettavo da lei. Preparata e messa in guardia dal nostro inseguimento, ella avrebbe certamente saputo come non tradirsi; pertanto fui molto colpita, sulle prime, da un suo

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particolare atteggiamento, che non mi aspettavo. Vederla, senza la minima alterazione del suo roseo visino, senza neppure fingere di gettare uno sguardo nella direzione del prodigio da me annunciato, ma invece, e soltanto, intenta a rivolgere a me un'espressione di gravità dura e ferma, un'espressione assolutamente nuova e senza precedenti, che sembrava leggere in me e accusarmi e giudicarmi... Vederla così, dicevo, fu un colpo tale che trasformò in certa maniera la bambina stessa proprio nella presenza adatta a farmi perder d'animo. Mi persi d'animo, sebbene in quell'istante fossi più che mai sicura che lei vedesse tutto, e, nell'urgente bisogno di difendermi, mi appellai appassionatamente alla sua testimonianza. «È là, piccola bimba infelice... là, là, là, e tu la vedi così come vedi me!» Poco prima avevo detto alla signora Grose che, in quei momenti, Flora non era più una bambina, ma una donna vecchia, molto vecchia, e tale definizione non poteva esser confermata in modo migliore di quello in cui ella mi mostrava, per tutta risposta, e senza il più lieve cedimento, la minima ammissione nel suo sguardo, un atteggiamento di profonda disapprovazione, divenuta d'un tratto ferma come una roccia. A quel punto, se riesco a ricostruire esattamente la scena, ero più spaventata per quelle che potrei propriamente chiamare «le sue maniere», che da ogni altra cosa, anche se contemporaneamente mi accorsi di dover ormai tener testa anche alla signora Grose, e in un modo molto impegnativo. Comunque, la mia anziana compagna, un momento dopo, cancellò ogni cosa, ad eccezione del suo viso acceso e della sua protesta alta e vibrante, uno scoppio di somma disapprovazione. «Che scherzo spaventoso, signorina! Dove mai vedete qualcosa?» Non potei far altro che afferrarla fulmineamente, perché, proprio mentre parlava, l'orribile e certa presenza rimaneva là, netta e indomabile. Durava ormai da un minuto, e durò ancora mentre, spingendo verso di lei la mia collega, come per presentargliela, insistevo puntando il dito: «Ma non la vedete esattamente come noi la vediamo?... volete dire che non la vedete ora... ora? Ma se è grande come un rogo fiammeggiante! Ma guardatela, mia cara donna, guardatela!» Guardò, come io guardavo, e con un gemito profondo, fatto di negazione, di ripulsa e di compassione (un misto di pietà e di sollievo per essere stata risparmiata), mi trasmise la sensazione - che persino in un momento come quello mi toccò il cuore - che se solo avesse potuto, mi avrebbe sostenuta. Ne avevo davvero bisogno, perché, al duro colpo della rivelazione che i suoi occhi erano sigillati senza speranza, sentii peggiorare orribilmente la mia situazione, sentii, vidi la livida figura della donna che mi aveva preceduto premere, dalla sua posizione, per la mia disfatta; ed ero per di più cosciente di ciò che avrei dovuto affrontare di lì in avanti, visto il sorprendente comportamento di Flora. In quel comportamento si inserì immediatamente e violentemente la signora Grose, con una folata di ansante sicurezza, proprio quando nella mia sensazione di completa rovina si stava facendo strada quella di un prodigioso, privatissimo trionfo. «Non è là, piccolina, non c'è nessuno là... e non puoi aver visto niente, tesoro mio! Come può la povera signorina Jessel... dal momento che la povera signorina Jessel è morta e sotterrata! Noi lo sappiamo, non è vero, amore?» E, confusamente, faceva

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appello alla bambina. «Si tratta soltanto di un errore, di una fisima, di uno scherzo... e adesso ce ne torniamo a casa, il più in fretta possibile!» La nostra compagna, a tutto questo, aveva reagito con una strana e rapida compostezza, ed ora che la signora Grose era di nuovo sicura di sé, eccole di nuovo unite, a quanto pareva, contro di me. Flora intanto mi fissava con la sua piccola maschera di rimprovero, e persino in quegli istanti pregai Dio di perdonarmi perché, mentre si stringeva al vestito della nostra amica, mi sembrava di vedere che la sua incomparabile bellezza infantile fosse improvvisamente venuta meno, svanita del tutto. L'ho già detto... era letteralmente, spaventosamente dura; era divenuta volgare e quasi brutta. «Non so che cosa vogliate dire. Non vedo nessuno. Non vedo niente. Non ho mai visto niente. Penso che siate crudele. Non mi piacete!» Poi, dopo questa uscita degna di una bambina di strada insolente e volgare, si strinse ancora di più alla signora Grose, e nascose tra le sue gonne quello spaventoso visino. Da quella posizione fece partire un lamento quasi furibondo. «Portatemi via, portatemi via... oh, portatemi via da lei!» «Da me?» ansimai. «Da voi... da voi!» gridò. Persino la signora Grose mi guardò sgomenta; mentre a me non restava altro che tentar di comunicare di nuovo con la figura che sulla sponda opposta, immobile, tutta tesa come se, a quella distanza, potesse afferrare le nostre parole, se ne stava là tanto vivida solo per la mia rovina, e non per darmi aiuto. La sventurata bambina aveva parlato proprio come se attingesse ad un'altra fonte ciascuna delle sue brevi, dolorose parole, e non potevo fare altro, nella più totale disperazione per quello che ormai mi toccava accettare che scuotere tristemente il capo verso di lei. «Se mai mi fosse restato un dubbio, ecco che non dubito più. Ho vissuto con la miserabile verità che ormai mi stringe da ogni lato. Naturalmente, ti ho perduta: mi sono intromessa e tu hai trovato, grazie ai suoi suggerimenti», e fissai di nuovo, al di là dello stagno, l'infernale testimone, «la via più semplice e perfetta per impedirmelo. Ho fatto del mio meglio, ma ti ho perduta. Addio.» Per la signora Grose ebbi un imperioso e quasi frenetico: «Andiamo, andiamo!», davanti al quale, con infinito dolore, ma stretta in silenzio alla bambina, e chiaramente convinta, a dispetto della propria cecità, che qualcosa di orribile era davvero accaduto, e che una voragine ci inghiottiva tutti, si ritirò con la maggiore rapidità possibile per la stessa strada da cui eravamo venute. Di ciò che accadde non appena restai sola non ho un ricordo preciso. So soltanto che, dopo forse un quarto d'ora, un sentore di scabrosità e di bagnato, di qualcosa che mi gelava e trapassava il mio turbamento, mi fece capire che m'ero gettata con il viso a terra, dando sfogo alla più selvaggia delle disperazioni. Dovevo esser rimasta a lungo prostrata, piangendo e singhiozzando, perché quando alzai il capo il giorno era quasi alla fine. Mi rialzai e guardai per un momento, nella luce del crepuscolo, lo stagno grigio e le sue cupe rive stregate, poi ripresi il mio triste e difficile cammino verso casa. Quando fui giunta al piccolo varco nella staccionata scoprii, non senza stupore, che la barca non era più lì, il che mi confermò nel mio giudizio sulla straordinaria presenza di spirito di

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Flora. La quale, per una tacita e (lo aggiungerei se una parola tanto grottesca non suonasse così falsa) «felice» intesa, passò la notte con la signora Grose. Non vidi nessuna delle due, al mio ritorno, ma, d'altro canto, per una sorta di ambiguo compenso, vidi «molto» Miles. Vidi «tanto» di lui - non so come esprimermi altrimenti - quanto non ne avevo mai veduto prima. Nessuna delle serate che trascorsi a Bly ebbe le portentose qualità di quella; ma nonostante ciò, nonostante la profonda voragine di costernazione che s'era spalancata sotto i miei piedi, quella sera trascorse letteralmente, e nel pieno senso della parola, in una tristezza straordinariamente dolce. Arrivata a casa, quasi non mi ero preoccupata del ragazzo; ero andata dritta in camera mia per cambiare i panni che avevo addosso e per cogliervi, con una semplice occhiata, le prove materiali della rottura con Flora. Tutte le piccole cose di sua proprietà erano state portate via. Quando, più tardi, vicino al caminetto dello studio, la solita cameriera mi servì il tè, non chiesi affatto notizie dell'altro mio allievo. Aveva ormai la sua libertà... che se la godesse sino in fondo! Ebbene, se la godette; e consisté, almeno in parte, nell'entrare nella stanza verso le otto, per sedersi in silenzio vicino a me. Allontanato il vassoio del tè, avevo spento le candele, e avvicinato ancor di più la sedia al fuoco: sentivo un freddo mortale, e mi pareva che mai più ci sarebbe stato calore in me. Così, quand'egli apparve, stavo seduta nel riverbero della fiamma, sola con i miei pensieri. Si arrestò un momento sulla porta come per guardarmi; poi, quasi volesse condividere i miei pensieri, mi venne vicino e sprofondò in una poltrona all'altro lato del camino. Sedemmo là in assoluta immobilità; sentivo che, malgrado tutto, desiderava stare con me. XXI Prima che il nuovo giorno avesse fatto piena irruzione nella mia camera, apersi gli occhi sulla signora Grose, che era giunta al mio capezzale con pessime notizie. Flora aveva una febbre tanto alta che forse stava covando qualche seria malattia; aveva passato una notte estremamente agitata, una notte attraversata da incubi che non avevano affatto per oggetto la precedente istitutrice, ma proprio quella attuale. Non era tanto contro la possibile ricomparsa sulla scena della signorina Jessel che lei protestava... protestava, evidentemente e appassionatamente, contro la mia presenza. Naturalmente, fui subito in piedi, e con una gran voglia di far domande, tanto più che la mia amica si era chiaramente preparata per affrontarmi di nuovo. Me ne accorsi non appena la interrogai su quello che pensava riguardo alla sincerità della bambina messa a confronto con la mia. «Insiste nel negare di aver visto, di aver mai visto qualcosa?» Il turbamento della mia visitatrice era davvero grande. «Ah, signorina, non è proprio una faccenda su cui riesca a portarla! Inoltre, devo dirlo, non mi sembra davvero necessario. È una cosa che l'ha invecchiata da capo a piedi.» «Oh, la posso vedere molto bene anche da qui. È risentita, quella nobile

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personcina, per il velo di sospetto calato sulla sua sincerità, e, per dir così, sulla sua rispettabilità. "Proprio la signorina Jessel... lei!" Ah, è davvero "rispettabile", la nostra piccolina! L'impressione che mi ha fatto ieri, vi assicuro, è stata davvero delle più strane; andava oltre tutte le altre. Io l'ho punta sul vivo! Non mi parlerà più.» La signora Grose restò per un po' in silenzio, oppressa da quelle cose oscure e sgradevoli; poi accettò il mio punto di vista con una franchezza che, ne fui certa, nascondeva qualcos'altro. «Penso davvero che non lo farà più, signorina. A questo riguardo si comporta con un gran sussiego!» «E quel sussiego,» conclusi, «è praticamente tutto quello che ha ora.» Oh, soltanto quel sussiego, potevo vedere sul viso della mia visitatrice, e nient'altro di più! «Mi chiede continuamente se, secondo me, voi state per arrivare.» «Capisco... capisco.» Anch'io, da parte mia, sapevo più di quanto dessi a vedere. «Non vi ha più parlato da ieri (tranne che per ripudiare ogni suo rapporto con quell'orrore) della signorina Jessel?» «Non ha detto una sola parola, signorina. E naturalmente, sapete,» aggiunse la mia amica, «ho creduto a quello che lei ha detto vicino al lago, e cioè che, almeno in quel momento e in quel luogo non c'era nessuno.» «Davvero! E, naturalmente, voi le credete ancora.» «Non la contraddico. Che altro posso fare?» «Assolutamente nulla! Avete a che fare con la più intelligente delle bambine. Quei due, voglio dire i loro due amici, li hanno resi anche più intelligenti di quanto non li abbia già fatti la natura; era un magnifico materiale su cui lavorare! Flora adesso ha il suo risentimento, e lo sfrutterà sino in fondo.» «Si, signorina; ma sino a quale fondo?» «Ma come, mettendomi a confronto con lo zio. Mi descriverà a lui come la più spregevole delle creature...!» Trasalii vedendo la scena incidersi sul viso della signora Grose; per un momento fu come se li avesse davvero davanti agli occhi. «E pensare che lui ha una così buona opinione di voi!» «Ha un modo davvero strano di dimostrarlo... adesso che ci penso!» risi. «Ma non importa. Quello che Flora vuole, naturalmente, è liberarsi di me.» La mia compagna confermò coraggiosamente. «Non la vuole più vedere, a nessun costo.» «Allora siete venuta a trovarmi per questo,» le chiesi, «per affrettare la mia partenza?» Tuttavia, ancor prima che avesse avuto il tempo di rispondermi, le avevo dato scacco matto. «Ci ho pensato a lungo... e ho un'idea migliore. La mia partenza sembrerebbe la soluzione migliore, e domenica sono stata sul punto di attuarla. Però, non servirebbe. Sarete voi a partire. Dovete portare con voi Flora.» La mia visitatrice, a queste parole, ebbe un dubbio. «Ma dove mai...?» «Lontano da qui. Lontano da loro. Lontano, adesso, soprattutto da me. Dritta dallo zio.»

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«Soltanto per andare a parlargli di voi...?» «No, non "soltanto"! Anche per lasciarmi con il mio rimedio.» Era ancora dubbiosa. «E qual è il vostro rimedio?» «La vostra lealtà, tanto per cominciare. E poi quella di Miles.» Mi guardò fissa. «Pensate che lui...?» «Si confiderà con me, se ne avrà l'opportunità? Sì, lo spero ancora. In ogni caso, voglio provare. Partite con sua sorella al più presto possibile, e lasciatemi sola con lui.» Ero meravigliata io stessa della riserva d'energia che ancora possedevo, e, forse per questo, ero un poco sconcertata per il fatto che, malgrado il buon esempio che le davo, esitasse ancora. «C'è una cosa, naturalmente,» proseguii, «Loro non devono assolutamente vedersi prima della partenza, nemmeno per un istante.» Allora mi venne in mente che, malgrado il presumibile isolamento di Flora dopo il ritorno dallo stagno, poteva già essere troppo tardi. «Volete dire,» chiesi ansiosamente, «che si sono già incontrati?» A queste parole divenne tutta rossa. «Ah, signorina, non sono poi tanto sciocca! Sono stata costretta ad abbandonarla tre o quattro volte, ma l'ho sempre lasciata in compagnia di una cameriera, ed ora, sebbene sia sola, la porta è chiusa a chiave. Eppure... eppure!» C'erano troppe cose in ballo. «Eppure che cosa?» «Insomma, siete proprio tanto sicura di quel piccolo gentiluomo?» «Non sono sicura di niente, eccetto che di voi. Ma da ieri sera ho una nuova speranza. Credo che lui voglia darmi un'opportunità. Credo davvero che voglia parlare, quel piccolo, squisito sciagurato! Ieri sera, alla luce del focolare, è restato seduto un paio d'ore vicino a me, proprio come se fosse sul punto di farlo.» La signora Grose fissò intenta, attraverso la finestra, il nuovo giorno grigio che si preparava. «E lo ha fatto?» «No, sebbene io abbia continuato ad aspettare, confesso che non lo ha fatto, ed alla fine ci siamo scambiati il bacio della buonanotte senza che nulla avesse rotto il silenzio, e senza la benché minima allusione allo stato di sua sorella ed alla sua assenza. In ogni modo,» continuai, «se suo zio vede la bambina, non posso consentire che veda anche il fratello prima che io abbia dato al ragazzo ancora un po' di tempo, soprattutto adesso che le cose hanno preso questo andazzo.» La mia amica su questo punto si mostrò più riluttante di quanto riuscissi a spiegarmi. «Che cosa intendete con "ancora un po' di tempo"?» «Ebbene, un giorno o due... proprio perché possa parlare. Allora sarà dalla mia parte, e voi capite quanto questo sia importante. Se non succede nulla, avrò semplicemente fallito e, nel peggiore dei casi, voi mi avrete pur sempre dato una mano, facendo tutto quello che vi sarà possibile una volta arrivata in città.» Così le spiegai come stavano le cose, ma lei mi sembrò per qualche tempo così misteriosamente imbarazzata che le venni di nuovo in aiuto. «A meno che,» ripresi, «voi non preferiate realmente non andar via.»

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Vidi finalmente un lampo di comprensione sul suo viso; mi tese la mano come un pegno. «Andrò... andrò. Andrò via questa mattina.» Volevo essere assolutamente equa. «Se preferite aspettare ancora, posso impegnarmi a fare in modo che non mi veda.» «No, no, è proprio colpa di questo posto. Deve lasciarlo.» Posò su di me, per un po', un altro sguardo intenso. Poi venne fuori il resto. «La vostra idea è quella giusta. Ilo stessa, signorina...» «Ebbene?» «Non posso più restare.» Lo sguardo con cui accompagnò questa frase mi spinse a una conclusione affrettata. «Volete dire che, a partire da ieri, voi avete visto?» Scosse il capo con dignità. «Ho sentito!» «Sentito da quella bambina... cose orrende! Ecco fatto!» sospirò con tragico sollievo. «Sul mio onore, signorina, dice delle cose...!» Ma a questo ricordo crollò; con un improvviso singhiozzo si lasciò cadere sul mio divano, e, come l'avevo già vista fare altre volte, diede libero sfogo al suo dolore. In un senso completamente diverso, anch'io mi lasciai andare. «Oh, grazie al cielo!» A queste parole, balzò di nuovo in piedi, asciugandosi gli occhi con un gemito. «Grazie al cielo?» «Questo mi dà almeno una giustificazione!» «Ve la dà, signorina!» Non avrei potuto desiderare maggior enfasi, ma esitavo ancora. «È tanto terribile?» Vidi che la mia collega faticava a trovare le parole adatte. «Davvero sconvolgente.» «E di me che cosa dice?» «Riguarda proprio voi, signorina... visto che dovete saperlo. È una cosa che supera ogni immaginazione, da parte di una signorina piccola come lei; e non riesco a capire dove mai possa aver imparato...» «Lo spaventoso linguaggio che usa nei miei confronti? Posso ben dirlo, allora!» proruppi in una risata senza dubbio abbastanza significativa. In realtà, servì soltanto a rendere più seria la mia amica. «Be', forse anch'io potrei ben dirlo... dato che in passato ne ho avuto qualche esempio! Eppure, non riesco a sopportarlo,» la povera donna continuò, lanciando al tempo stesso un'occhiata al mio orologio che si trovava sulla toletta. «Ma adesso devo tornare.» Tuttavia la trattenni. «Ah, se non riuscite a sopportarlo...!» «Come posso restare con lei, volete dire? Ma come, proprio per quello: per portarla via di qui. Lontana da tutto questo,» insisté, «Lontano da loro...» «Potrà mai esser diversa? Potrà esser libera?» L'afferrai per un braccio, quasi con esultanza. «Allora, a dispetto di quanto è accaduto ieri, voi credete...»

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«A quelle cose?» La sua semplice descrizione, alla luce dell'espressione dipinta sul suo viso, non richiedeva ulteriori spiegazioni, e lei mi aprì il suo cuore come non aveva fatto mai. «Ci credo.» Sì, era davvero una gioia esser di nuovo fianco a fianco: se mi era possibile andare avanti con questa certezza, poco mi importava di quanto avrebbe potuto accadere. La signora Grose sarebbe stata il mio sostegno nell'imminente disastro così come lo era stata al mio primo bisogno di confidarmi, e se la mia amica si fosse resa garante della mia integrità, sarebbe stato compito mio rispondere di tutto il resto. Sul punto di prendere congedo da lei, nondimeno, provai un certo imbarazzo. «C'è ancora un'altra cosa, naturalmente, da ricordare, adesso che ci penso. La mia lettera, che dava l'allarme, giungerà in città prima di voi.» Allora più che mai mi accorsi come lei avesse menato il can per l'aia, e quanto ne fosse provata. «La vostra lettera non arriverà mai laggiù. La vostra lettera non è mai partita.» «Che cosa ne è stato, allora?» «Lo sa Dio! Il signorino Miles...» «Volete dire che l'ha presa lui?» ansimai. Esitò, ma poi vinse la sua riluttanza. «Voglio dire che ieri, quando rientrai con la signorina Flora, ho visto che non era più dove l'avevate messa. Più tardi, in serata, ho avuto l'occasione di domandarlo a Luke, e lui ha dichiarato che non l'aveva né notata né toccata.» A questo punto, non potemmo far altro che scambiarci uno di quegli sguardi intensi con cui ci sondavamo a vicenda, e fu la signora Grose che per prima tirò su lo scandaglio con un quasi festoso: «Capite!» «Sì, capisco che se invece l'ha presa Miles, probabilmente l'ha letta e poi distrutta.» «E non capite nient'altro?» Per un momento le tenni testa con un mesto sorriso. «Mi colpisce il fatto che stavolta i vostri occhi vedono meglio dei miei.» Sembrava che fosse proprio così, ma ella quasi arrossiva, nel provarmelo. «Capisco ora quello che deve aver fatto in collegio.» E, nel suo ingenuo acume, fece con il capo un cenno quasi buffo alla sua disillusione. «Ha rubato!» Vi riflettei... tentai di essere più equa. «Be', forse.» Mi guardò come se trovasse sorprendente la mia calma. «Ha rubato delle lettere!» Non poteva conoscere le ragioni della mia calma, del resto molto superficiale; sicché gliele spiegai meglio che potevo. «Spero dunque che sia stato più a proposito che non in questo caso! Ad ogni modo, la lettera che avevo messo ieri sul tavolo,» proseguii, «gli deve aver dato un vantaggio tanto trascurabile (conteneva infatti la pura e semplice richiesta di un colloquio) che egli può essere soltanto pieno di vergogna per il fatto d'essersi spinto tanto oltre per così poco, e quello che lo tormentava ieri sera era precisamente il bisogno di confessare.» Mi sembrò, per un istante, di poter dominare tutto, di capire tutto. «Lasciateci, lasciateci,» ero già alla porta, e le mettevo fretta. «Gli

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caverò di bocca la verità. Mi verrà incontro... confesserà. Se confessa, è salvo. E se è salvo lui...» «Allora lo siete anche voi?» La cara donna mi baciò, e prese congedo. «Vi salverò io senza bisogno di lui!» mi gridò nell'andarsene. XXII Eppure fu quando se ne fu andata (sentii subito la sua mancanza) che giunse la grande prova. Qualunque cosa avessi contato di ricavare dal restar sola con Miles, riconobbi presto che ne avrei tratto almeno un termine di paragone. In verità, nessuna ora del mio soggiorno a Bly fu così carica d'apprensione quanto quella in cui, scendendo, seppi che la carrozza con la signora Grose e la più giovane dei miei allievi aveva già varcato il cancello. Ora, dissi a me stessa, sono faccia a faccia con gli elementi; e durante gran parte di quel giorno, mentre lottavo contro la mia debolezza, non potei fare a meno di pensare ch'ero stata troppo temeraria. Mi trovavo su un terreno ancora più angusto del solito; tanto più che, per la prima volta, potevo vedere nell'aspetto degli altri un confuso riflesso della crisi. Quel che era accaduto naturalmente aveva provocato in tutti un vivo stupore; la repentina partenza della mia collega non era certo spiegata dalle poche cose confuse che avevamo detto. Le persone di servizio, uomini e donne, sembravano stupefatte; il che aggravò lo stato dei miei nervi, sinché non compresi la necessità di ricavarne un aiuto pratico. In breve: evitai un completo naufragio soltanto aggrappandomi al timone; e oso dire che quella mattina, per poter sopportare la prova, divenni molto altera e molto fredda. Accolsi con gioia la coscienza delle mie molteplici responsabilità, e lasciai inoltre capire che, pur abbandonata a me stessa, avrei mantenuto una notevole fermezza. Per un'ora o due mi aggirai per la casa ostentando questo contegno, e dovevo aver l'aspetto, non ne dubito affatto, di una persona pronta a qualunque assalto. Così, a beneficio degli interessati, me ne andavo in parata con la morte nel cuore. La persona che si mostrò meno interessata fu, fino all'ora di pranzo, proprio il piccolo Miles. Il mio andare e venire non era servito a farci incontrare, ma aveva contribuito a rendere più evidente il cambiamento avvenuto nel nostro rapporto da quando, il giorno prima, suonando il pianoforte mi aveva stregata e ingannata a vantaggio di Flora. Il rumore delle chiacchiere dei domestici aveva naturalmente accompagnato la segregazione e la partenza della bambina, e il cambiamento era annunciato anche dal mancato rispetto delle regole dello studio. Miles era già scomparso quando, scendendo, avevo spalancato la porta della sua stanza; e avevo appreso al pianterreno che aveva fatto colazione, in presenza di due domestiche, insieme alla signora Grose e alla sorella. Era poi uscito, aveva detto, per fare una passeggiata; e nulla, pensai, avrebbe potuto esprimere meglio la sua schietta opinione sulla brusca

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trasformazione della mia parte. Fino a che punto mi avrebbe permesso di sostenere questa nuova parte era ancora da stabilire: in ogni caso c'era (voglio dire per me in particolare) uno strano sollievo nel rinunciare ad una pretesa. Se erano molte le cose affiorate alla superficie, non è forse troppo forte dire che quella emersa maggiormente era l'assurdità di prolungare la finzione che io avessi ancora qualcosa da insegnargli. Era abbastanza chiaro che, con certe piccole, tacite manovre nelle quali mostrava di prendersi a cuore la mia dignità anche più di me stessa, avevo dovuto appellarmi a lui per essere esentata dallo sforzo di tenermi alla pari delle sue reali capacità. Ad ogni modo, egli ora aveva la sua libertà; e io non l'avrei mai più limitata, come avevo ampiamente provato la sera precedente, quando mi aveva raggiunto nello studio ed io non gli avevo rivolto né un rimprovero né un'allusione a quanto era accaduto in quell'intervallo di tempo. Da quel momento, infatti, avevo ben altro a cui pensare. Eppure, quando finalmente Miles arrivò, la difficoltà di mettere in pratica le mie nuove idee e il cumulo dei miei problemi mi saltarono agli occhi a causa di quella piccola, graziosa presenza sulla quale ciò che era accaduto non aveva ancora, per quanto si vedeva, lasciato né ombra né macchia. Per segnalare alle persone di servizio il tono elevato che desideravo regnasse nella casa, stabilii che i pasti che prendevo con il ragazzo fossero serviti, come dicevamo, «dabbasso»; per questo lo avevo aspettato nella pompa maestosa di quella stanza, dalla cui finestra avevo avuto dalla signora Grose, quella prima terribile domenica, un lampo di qualcosa che solo impropriamente si sarebbe potuta chiamare luce. Ora sentivo di nuovo (perché l'avevo già sentito più volte) quanto il mio equilibrio dipendesse dalla vittoria della mia ferma volontà, la volontà cioè di chiudere gli occhi il più possibile sul fatto che ciò che dovevo affrontare era rivoltante, contro natura. Non potevo resistere se non entrando, per così dire, in confidenza con la «natura» e tenendone conto, e considerando la mia prova mostruosa come una spinta verso una direzione insolita, ovviamente, e sgradevole, ma che dopotutto non richiedeva, per farvi fronte serenamente, che un giro di vite alla comune virtù umana. Nessuna impresa, tuttavia, avrebbe richiesto un tatto maggiore di questa: supplire con le proprie forze a tutta la natura. Ma come avrei potuto introdurre anche soltanto un briciolo di quell'elemento, se bisognava sopprimere ogni riferimento a quanto era accaduto? E, d'altro canto, come potevo farvi riferimento senza precipitare di nuovo nella spaventosa voragine? Ebbene, dopo qualche tempo trovai una specie di risposta, e ne trovai la conferma nella percezione incontestabile e folgorante di quanto v'era di eccezionale nel mio piccolo compagno. Sembrava veramente che egli avesse trovato anche quella volta - così come aveva fatto tante volte durante le lezioni - qualche altro modo delicato di mettermi a mio agio. Non era forse illuminante il fatto che si verificò - mentre dividevamo la nostra solitudine - con un fulgore particolare, ancora intatto? Il fatto cioè che (con l'aiuto dell'occasione, voglio dire l'occasione preziosa che si era presentata allora) sarebbe stato irragionevole, avendo a che fare con un ragazzo così dotato, rinunciare al soccorso che poteva venire dalla sua sovrana intelligenza? Per qual fine gli era stata data

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l'intelligenza, se non per salvarlo? Non si poteva, per raggiungere il suo spirito, tentare un colpo di mano sul suo carattere? Era come se, mentre ci trovavamo a faccia a faccia nella sala da pranzo, egli mi avesse letteralmente indicato la strada giusta. L'arrosto di montone era in tavola, ed io avevo congedato la servitù. Miles, prima di sedersi, restò un momento in piedi, con le mani in tasca, guardando l'arrosto, a proposito del quale sembrò sul punto di fare qualche spiritosa osservazione. Ma quello che poi disse fu: «Allora, mia cara, è davvero tanto ammalata?» «La piccola Flora? Non tanto da non potersi sentire meglio molto presto. Londra la guarirà. Bly ha smesso di farle bene. Vieni qui a prendere il tuo montone.» Fu sollecito ad obbedirmi: portò con cura il piatto al suo posto, e, quando si fu sistemato, proseguì: «Bly è diventato così all'improvviso poco indicato per lei?» «Non così all'improvviso come puoi pensare. C'è stato tutto il tempo per prevederlo.» «Allora, perché non l'avete mandata via prima?» «Prima di che?» «Prima che fosse troppo ammalata per viaggiare.» Fui pronta a rispondere. «Non è troppo ammalata per viaggiare: soltanto, lo sarebbe diventata se fosse rimasta qui. Questo era proprio il momento giusto per farlo. Il viaggio scaccerà l'influenza maligna,» (oh, il mio era davvero un gran sussiego!), «e porterà via tutto.» «Capico, capisco.» In quanto a sussiego, anche Miles non ne era sprovvisto. Cominciò a mangiare con quel suo, squisito «contegno a tavola» che, sin dal giorno del suo arrivo, mi aveva dispensata da ogni grossolano rimprovero. Qualunque cosa avesse provocato la sua espulsione dal collegio, non era certo un contegno reprensibile a tavola. Infatti anche quel giorno egli era irreprensibile, come sempre; eppure, senza dubbio, più affettato. Era chiaro che cercava di dare per scontate più cose di quante non gli fosse possibile ammettere senza spiegazioni; e s'immerse in un quieto silenzio, mentre pensava alla sua situazione. Il pasto fu dei più brevi: per parte mia, una vana finzione, e feci rapidamente sparecchiare. Mentre questo avveniva, Miles rimase nuovamente in piedi con le mani in tasca, voltandomi la schiena... stava in piedi e guardava fuori della grande finestra, attraverso la quale, quell'altro giorno, avevo visto ciò che mi aveva sconvolta. Finché la domestica rimase con noi restammo in silenzio... in silenzio, pensai ironicamente, come una giovane coppia in viaggio di nozze, intimidita in una locanda dalla presenza del cameriere. Si voltò soltanto quando la domestica ci ebbe lasciati. «Bene... eccoci dunque soli!» XXIII «Oh, più o meno.» Penso che il mio sorriso fosse scialbo. «Non completamente.

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Non ci piacerebbe!» continuai. «No... suppongo di no. Naturalmente ci sono gli altri.» «Ci sono gli altri... ci sono davvero gli altri,» assentii. «Eppure, benché ci siano,» replicò, sempre piantato davanti a me con le mani in tasca, «non contano molto per noi, non è vero?» Cercai di fare del mio meglio, ma mi sentivo sfinita. «Dipende da quello che tu intendi per "molto"!» «Sì,» rispose molto conciliante, «tutto dipende da quello!» A questo punto, tuttavia, si voltò di nuovo verso la finestra, e anzi la raggiunse con passo indeciso, esitante, nervoso. Vi rimase per un po' di tempo, la fronte premuta contro il vetro, in contemplazione di quegli stupidi cespugli che conoscevo così bene e delle grigie cose che ci porta novembre. Io avevo sempre pronta l'ipocrisia del mio «lavoro», sotto la cui protezione, adesso, raggiunsi il divano. Applicandomi ad esso come avevo fatto più volte in quei momenti tormentosi che ho descritto come i momenti in cui ero certa che i bambini si dedicavano a qualcosa da cui io ero esclusa, mi misi docilmente, come al solito, ad aspettare il peggio. Ma una straordinaria impressione mi colpi mentre cercavo di attribuire un significato alla schiena «imbarazzata» del ragazzo... nient'altro che l'impressione che io ormai non ero più esclusa. Questa deduzione raggiunse nel giro di pochi minuti una forza notevolissima, e sembrava legata alla precisa sensazione che ora l'escluso fosse lui. L'intelaiatura, i riquadri della grande finestra si traducevano per lui nell'immagine stessa del fallimento. Comunque, mi sembrava di vederlo davanti a una porta, che lo chiudeva «dentro» o «fuori» qualcosa. Era ammirevole, ma non a suo agio: me ne resi conto con un fremito di speranza. Non cercava forse di scorgere, oltre il vetro stregato, qualcosa che non riusciva a vedere?... e non era la prima volta, in tutta la nostra storia, che conosceva un simile scacco? La prima volta, proprio la prima: che splendido presagio! Benché si controllasse, il suo atteggiamento diventava ansioso; era stato in ansia tutto il giorno, e persino mentre sedeva a tavola, malgrado le sue solite, soavi maniere, aveva dovuto far ricorso a tutto il suo strano genio infantile per mascherarlo. Quando finalmente si voltò verso di me, era quasi come se quel suo genio fosse stato sconfitto. «Be', sono contento che Bly sia indicato almeno per me!» «Pare proprio che, nelle ultime ventiquattrore, tu te ne sia reso conto molto più che in passato. Spero,» proseguii audacemente, «che tu ti sia divertito.» «Oh, si, sono stato così lontano; tutt'attorno... miglia e miglia lontano da qui. Non sono mai stato così libero.» Egli aveva veramente un modo di fare tutto suo, ed io potevo soltanto cercare di mantenermi alla sua altezza. «Ebbene, ti piace?» Sorrise; poi finalmente pose in tre parole («E a voi?») tanta profondità quanta non avevo mai pensato che potessero contenere tre sole parole. Prima che avessi il tempo di riavermi, continuò, tuttavia come se avesse l'impressione d'aver detto un'impertinenza a cui doveva rimediare. «Non c'è niente di più amabile del modo in cui voi la prendete, perché naturalmente se ora noi siamo soli, la più sola siete voi. Ma spero,» disse d'un

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fiato, «che la cosa non vi importi in modo particolare.» «Avere cioè a che fare con te?» chiesi. «Mio caro bambino, e come potrebbe non importarmene? Sebbene io abbia rinunciato ad esigere la tua compagnia (sei talmente superiore a me), io almeno ne godo ancora moltissimo. Per quale altra ragione dovrei rimanere?» Mi guardò più attentamente, e l'espressione del suo viso, diventata più grave, mi colpì come la più bella che io avessi mai visto in lui. «Rimanete soltanto per questo?» «Certamente. Rimango qui perché sono tua amica, e per l'enorme interesse che provo per te, fintanto che si possa fare qualcosa che sia più adatta per te. Questo non ti deve stupire.» La mia voce tremava tanto che mi era impossibile nasconderlo. «Non ricordi ciò che ti dissi la sera del temporale, quando venni a sedermi sul tuo letto, che non c'era niente al mondo che non avrei fatto per te?» «Sì, sì!» Anche lui, da parte sua, appariva sempre più nervoso, e doveva padroneggiare la voce; ma vi riusciva tanto meglio di me che arrivò al punto, nascondendo la sua gravità con una risata, di fingere che stessimo celiando piacevolmente. «Soltanto che io pensavo che lo diceste per farmi fare qualcosa per voi!» «In parte era anche per farti fare qualcosa,» concessi, «ma, lo sai bene, tu non l'hai fatta.» «Oh, sì,» esclamò con una vivacità tutta artificiale, «volevate che io vi dicessi qualcosa.» «Proprio così. Francamente, molto francamente: quello che hai in testa, lo sai bene.» «Ah, allora è per questo che siete rimasta?» Parlava con un'allegria attraverso la quale riuscivo ancora ad afferrare una vena sottile di astioso risentimento; ma non posso spiegare l'effetto prodotto su di me da quell'accenno, sia pur lontano, di resa. Era come se ciò che avevo tanto a lungo desiderato, fosse alla fine venuto soltanto per stupirmi. «Ebbene, sì... posso anche ammetterlo francamente. È stato precisamente per questo.» Tacque così a lungo che pensai lo facesse col proposito di demolire la supposizione sulla quale avevo basato il mio comportamento; ma alla fine si limitò a dire: «Volete dire adesso... qui?» «Non potrebbero esserci un luogo o un'ora migliori.» Si guardò intorno inquieto, e io ebbi la rara, strana impressione che apparisse in lui il primo sintomo dell'avvicinarsi d'una certa paura. Era come se all'improvviso egli avesse paura di me... il che mi colpì come se fosse davvero la miglior sensazione da ispirargli. Tuttavia compresi, al culmine della mia angoscia, che era inutile fingere d'esser dura, e un istante dopo sentii me stessa dire, con una gentilezza quasi grottesca: «Desideri proprio tanto uscire di nuovo?» «Moltissimo!» Mi sorrise eroicamente, e la sua toccante spavalderia di fanciullo fu resa anche più evidente da un improvviso rossore, che ne indicava l'intima sofferenza. Preso il cappello, che aveva portato con sé entrando, lo rigirava tra le mani in un modo che mi colmò, proprio al momento di entrare in porto, d'un orrore perverso per quanto

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stavo facendo. Farlo ad ogni costo era un atto di violenza, perché in che altro consisteva il mio comportamento se non nel forzare il senso della volgarità e della colpa in una piccola creatura senza difesa, che mi aveva invece rivelato le possibilità di un rapporto incantevole? Non era bassezza creare in quello spirito squisito un malessere plumbeo, estraneo alla sua natura? Credo di penetrare ora la nostra situazione con una chiarezza che a quell'epoca non era possibile, perché mi sembra di vedere i nostri poveri occhi già infiammati dalla previsione dell'angoscia a venire. Così giravamo in cerchio, carichi di terrore e di incertezza, come lottatori che non osino avvicinarsi. Ma era l'uno per l'altra che temevamo! Questo ci tenne un po' più a lungo nell'attesa e senza ferite. «Vi dirò tutto,» disse Miles, «voglio dire che vi dirò tutto quello che volete. Resterete con me, e staremo bene tutt'e due ed io vi dirò tutto... sì, vi dirò tutto. Ma non ora.» «Perché non ora?» La mia insistenza lo distolse da me e lo fece ritornare ancora una volta vicino alla finestra, in un tale silenzio che, tra noi, si sarebbe sentito cadere uno spillo. Poi fu di nuovo davanti a me, con l'aria di una persona aspettata fuori di casa da qualcuno con cui si devono fare i conti a viso aperto. «Devo vedere Luke.» Non lo avevo ancora mai costretto a dire una bugia così grossolana, e mi sentii invasa da una vergogna proporzionata. Ma, per quanto fosse orribile, le sue bugie contribuivano a dar forma alla mia verità. Pensosa, finii alcune maglie del mio lavoro. «Bene, allora, va' da Luke, ed io aspetterò che tu faccia quanto mi hai promesso; soltanto, prima di lasciarmi, in cambio di questo soddisfa una richiesta molto più modesta.» Mi guardò, come se sentisse di aver conseguito un successo così grande da permettergli di mercanteggiare ancora un po'. «Molto più modesta...?» «Sì, proprio una frazione dell'intero. Dimmi,» (oh, il mio lavoro mi teneva occupata, e parlai con indifferenza!), «se ieri pomeriggio, sai, dal tavolo dell'atrio, hai preso la mia lettera.» XXIV

Per un momento, la mia impressione di come lui avesse ricevuto la domanda fu influenzata da qualcosa che non posso descrivere che come un violento spaccarsi in due della mia attenzione... Un colpo che sulle prime, mentre balzavo in piedi, non mi consentì che di afferrare il ragazzo alla cieca, stringerlo a me e, mentre cercavo a caso un sostegno nel mobile più vicino, tenerlo istintivamente con la schiena rivolta alla finestra. L'apparizione che avevo già dovuto affrontare proprio in quel punto, incombeva sopra di noi: Peter Quint era comparso, come una sentinella davanti ad una prigione. La seconda cosa che vidi fu che, dall'esterno, egli aveva raggiunto la finestra, e poi seppi che, accostato al vetro e guardando all'interno, egli offriva un'altra volta alla stanza la

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sua livida faccia di dannato. Dire che presi la mia decisione in un secondo, non è che riprodurre molto approssimativamente quel che avvenne in me a quella vista; tuttavia credo che nessuna donna tanto sconvolta abbia mai riacquistato, in un tempo così breve, il pieno possesso dell'azione. Compresi, nell'orrore stesso di quella improvvisa presenza, che l'azione doveva consistere, dal momento che vedevo quel che vedevo e affrontavo quel che affrontavo, nel tenere il ragazzo all'oscuro di ciò che stava succedendo. L'ispirazione (non posso chiamarla diversamente) fu di capire con quanta volontà, con quanta trascendenza, io potessi. Era come combattere con un demonio per salvare un'anima, e appena mi fui resa conto di questo, vidi che l'anima umana (tenuta con le mani tremanti, a braccia tese) aveva la fronte soave di un fanciullo, coperta di un velo di sudore. Il volto che si appoggiava al mio era bianco come la faccia premuta contro il vetro, e da esso poco dopo provenne un suono, né basso né debole, ma che sembrava giungere da regioni lontane, e che io bevvi come un soffio d'aria balsamica. «Sì... l'ho presa io.» Allora, con un gemito di felicità, lo abbracciai, lo strinsi a me ancora più strettamente; e, mentre me lo tenevo sul seno, sentendo nella febbre improvvisa di quel corpicino il tremendo pulsare del suo piccolo cuore, i miei occhi non abbandonavano quella cosa alla finestra e la videro muoversi e mutare di posizione. L'ho paragonata ad una sentinella, ma il suo lento girarsi, per un momento, sembrò piuttosto il vagare di una belva scornata. Il coraggio che ora sentivo centuplicato era tuttavia tale che, per non lasciarmi trascinare da esso, fui costretta, per così dire, a schermare la mia fiamma. Nel frattempo, il bagliore sinistro di quel viso era ancora alla finestra, e il miserabile ci fissava come se dovesse soltanto sorvegliarci ed aspettare. Ma la fondata sicurezza che ora potevo sfidarlo e la positiva certezza che il fanciullo era ignaro, mi spinsero a continuare. «Perché l'hai presa?» «Per vedere che cosa dicevate di me.» «Hai aperto la lettera?» «L'ho aperta.» Il mio sguardo, ora che avevo allentato un poco la stretta, si posava sul viso di Miles, su cui, caduta quell'aria ironica, si leggeva quanto fosse completa la devastazione dell'inquietudine. Ciò che era veramente prodigioso era che alla fine, grazie alla mia vittoria, i suoi sensi erano sigillati e la comunicazione interrotta: si rendeva conto d'essere in presenza di qualcosa, ma non sapeva che cosa, e sapeva ancor meno che c'ero anch'io e che sapevo tutto. E che importava, del resto, quella tensione sfibrante, quando il mio sguardo poteva tornare alla finestra soltanto per scoprire che l'aria era di nuovo chiara, e che (grazie al mio personale trionfo) l'influenza maligna era vinta? Non c'era più niente là. Sentivo di aver avuto causa vinta, e che la mia vittoria sarebbe stata completa. «E non hai trovato nulla!» detti libero sfogo alla mia euforia. Fece con la testa il più malinconico, il più pensoso dei cenni. «Nulla.» «Nulla, nulla!» quasi gridavo per la gioia. «Nulla, nulla,» ripeté tristemente.

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Lo baciai sulla fronte; era madida di sudore. «E allora che cosa ne hai fatto?» «L'ho bruciata.» «Bruciata?» O allora o mai più. «E questo che avevi fatto in collegio?» Oh, quali conseguenze ebbero quelle mie parole! «In collegio?» «Avevi preso delle lettere?... o altre cose?» «Altre cose?» Sembrava che ora stesse pensando a qualcosa di molto lontano, a qualcosa che poteva giungere sino a lui soltanto sotto la tensione dell'inquietudine. Tuttavia lo raggiunse. «Ho rubato?» Mi sentii arrossire sino alla radice dei capelli, nel tempo stesso che mi chiedevo che cosa fosse più strano: rivolgere a un gentiluomo una simile domanda o vederla accogliere con una tranquillità che dava l'esatta misura della sua caduta nel mondo. «È per questo che non puoi tornarvi?» La sola cosa che provò fu una lieve, triste sorpresa. «Sapevate che non potevo tornarvi?» «Sapevo tutto.» A queste parole mi lanciò uno sguardo prolungato, stranissimo. «Tutto?» «Tutto? E allora, hai veramente...?» Ma non potei dirlo di nuovo. Miles poté, con molta semplicità. «No, non ho rubato.» Il mio viso doveva avergli rivelato che gli credevo pienamente; eppure le mie mani (per pura tenerezza) lo scuotevano come per chiedergli perché, se non c'era nulla, mi aveva condannata a quei mesi di tormento. «Allora, che cosa hai fatto?» Con una vaga espressione di dolore alzò lo sguardo al soffitto, e respirò a fondo due o tre volte, quasi con difficoltà. Lo si sarebbe potuto dire in fondo al mare, mentre levava gli occhi a qualche lontano crepuscolo verde. «Be'... ho detto certe cose.» «Soltanto questo?» «Hanno pensato che bastasse!» «Per buttarti fuori?» Mai, certamente, persona «buttata fuori» si mostrò meno prodiga di spiegazioni di quello strano ometto! Sembrava soppesare la mia domanda, ma in modo completamente distaccato, e quasi smarrito. «Be', suppongo che non avrei dovuto.» «Ma a chi le hai dette?» Evidentemente cercava di ricordare, ma non vi riuscì... era un ricordo perduto. «Non lo so!» Giunse quasi a sorridermi, nella desolazione della propria disfatta, che era già così completa, ormai, che avrei dovuto fermarmi a quel punto. Ma ero come ubriaca, accecata dalla vittoria, benché persino allora la conseguenza di quest'ultima, anziché avvicinarmelo, non facesse altro che accentuare il nostro distacco. «Le hai dette a tutti?» chiesi. «No, soltanto a...» ma scosse il capo con aria stanca. «Non ricordo i loro nomi.» «Erano così tanti?»

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«No... pochi. Quelli che mi piacevano.» Quelli che gli piacevano? Mi pareva di librarmi non nella luce, ma in un'oscurità più fonda, e un momento dopo dalla mia stessa pietà era scaturito l'agghiacciante allarme che egli potesse magari essere innocente. Per un attimo l'enigma rimase confuso e insondabile, perché se egli era innocente, che ero io dunque? Paralizzata, sin tanto che durò, dal semplice presentarsi di quella domanda, allentai la stretta, sicché, con un sospiro profondo, si allontanò di nuovo da me: cosa che, mentre volgeva il viso alla finestra vuota, tollerai, sentendo che là ormai non c'era più nulla da cui dovessi difenderlo. «E hanno ripetuto quello che hai detto?» ripresi dopo un momento. Fu di colpo distante da me, respirando ancora a fatica, e ancora con l'aria, anche se ora senza rabbia, d'esser sequestrato suo malgrado. Una volta ancora, come aveva fatto prima, contemplò il grigiore del giorno, come se, di tutto quello che lo aveva sostenuto sino ad allora, non fosse rimasta che un'inesprimibile ansietà. «Oh, sì,» rispose tuttavia, «devono averle ripetute. A quelli che piacevano a loro,» - aggiunse. Era meno di quanto, in certo senso, mi aspettassi; ma insistetti. «E quelle cose giunsero...?» «All'orecchio dei maestri? Oh, sì!» rispose con molta semplicità. «Ma non sapevo che le avrebbero ripetute.» «I maestri? Loro no... non ne hanno mai parlato. Per questo te l'ho domandato.» Rivolse ancora verso di me il suo bel visino febbricitante. «Sì, era troppo brutto.» «Troppo brutto?» «Quel che penso d'aver detto qualche volta. Troppo brutto da scrivere a casa.» Non posso definire lo squisito pathos della contraddizione posta in quella frase da chi l'aveva pronunciata; so soltanto che un istante dopo mi sentii esclamare con vigorosa familiarità: «Tutte stupidaggini!» Ma l'istante successivo devo aver avuto un tono abbastanza severo. «Quali erano queste cose?» La mia severità era tutta per il suo giudice, il suo carnefice; tuttavia lo spinse a voltarsi ancora, e quel gesto spinse me, con un solo balzo e un grido insopprimibile, a saltare letteralmente su di lui. Perché ecco là di nuovo, contro il vetro come per fare intristire la sua confessione e frenare la sua risposta, il ripugnante autore della nostra maledizione... il livido volto della dannazione. Fui colta da un improvviso stordimento al crollo della mia vittoria, al riaccendersi della battaglia, cosicché l'irruenza del mio vero e proprio balzo servì soltanto a tradirmi. A metà del mio atto vidi che Miles aveva capito, come per divinazione, e nell'avvertire che anche stavolta egli poteva soltanto indovinare, e che la finestra era sempre vuota per i suoi occhi, lasciai divampare l'impulso di trasformare il culmine del suo sgomento nella prova stessa della sua liberazione. «Mai più, mai più, mai più!» gridai con voce stridula al mio visitatore, mentre cercavo di stringere il bambino al petto. «Lei è qui?» ansimò Miles mentre seguiva con i suoi occhi sigillati la direzione delle mie parole. Poi, mentre quello strano «lei» mi sconvolgeva, ed io lo ripetevo con un fil di voce, come un'eco, «La signorina Jessel, la signorina Jessel!» mi gridò con furia

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improvvisa. Stupefatta, compresi d'un tratto quello che voleva dire la sua supposizione... come un seguito di quello che avevamo fatto con Flora, ma ciò mi fece soltanto desiderare di mostrargli che si trattava di meglio. «Non è la signorina Jessel! Ma è alla finestra... dritto davanti a noi. È là... quel vile orrore, là per l'ultima volta!» A queste parole, dopo un momento in cui la sua testa imitò il movimento del cane deluso che ha smarrito una traccia, ebbe un moto convulso, quasi cercasse aria e luce; si voltò verso di me in preda ad una rabbia muta, disorientato, guardando invano dappertutto, senza però trovare un segno (sebbene a me la stanza ne sembrasse impregnata, come per le esalazioni di un veleno) di quella grande, dominatrice presenza. «È lui?» Ero ormai così decisa ad ottenere la prova voluta che, per sfidarlo, mi feci di ghiaccio. «Che vuoi dire con quel "lui"?» «Peter Quint... demonio che non siete altro!» Il suo viso rivolgeva ancora, a tutta la stanza, la supplica convulsa. «Dov'è?» Ho ancora nelle orecchie la resa suprema del nome e il suo omaggio alla mia devozione. «Che cosa ti importa di lui ormai, tesoro?... che importanza potrà più avere? Io ti ho,» gridai rivolta all'essere immondo, «mentre lui ti ha perduto per sempre!» Poi, per dimostrare che la mia opera era compiuta, «Là, là!» dissi a Miles. Ma egli si era già girato di scatto, sbarrava gli occhi, guardava ancora, senza vedere altro che la luce quieta del giorno. Sotto l'impressione di quella perdita di cui io ero tanto fiera, egli emise il grido di una creatura scagliata oltre un abisso, e l'abbraccio in cui lo strinsi avrebbe potuto veramente arrestarlo nella sua caduta. Lo presi, sì, lo strinsi forte... si può immaginare con quanta passione; ma prima che fosse trascorso un minuto cominciai a rendermi conto di ciò che realmente stringevo tra le braccia. Eravamo soli nella placida luce del giorno, e il suo piccolo cuore, spezzato, aveva cessato di battere.