Italia Patria del rovescio

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stampa | chiudi Copyright © RIP Srl Politica energetica nazionale venerdì 03 aprile 2009 Rinnovabili ed efficienza, l'Italia a rischio desertificazione Politica energetica In quest'articolo, Dario Di Santo, della Fire, fa un'analisi impietosa delle difficoltà di superare vecchi e anacronistici vincoli amministrativi e burocratici nonché debolezze strutturali e di portare avanti, nel settore energetico, la modernizzazione dell'Italia, “patria del rovescio, non del diritto”. Il 19 marzo, Piero Ostellino concludeva il suo editoriale sul Corriere con le parole “Italia, Patria del Rovescio; non del Diritto”. Vediamo un po' perché anche nel settore dell'energia ha senso dire che siamo il paese del rovescio. Il nostro lungimirante legislatore, cui non mancano certo le buone idee, aveva già introdotto la certificazione energetica degli edifici con la Legge 10/91. Un provvedimento potenzialmente utile, specie se associato a certificatori competenti e ad installatori in grado di tradurne in realtà le indicazioni. Peccato che all'atto dell'emanazione della direttiva 2002/91/CE non se ne fosse fatto ancora nulla, che nel frattempo il Titolo V della Costituzione avesse posto le basi per rivivere l'età dei comuni rinascimentali, e che siano poi passati altri quattro anni per l'emanazione del D.Lgs. 192/2005, già più volte rimaneggiato senza che trovasse un'applicazione estesa (del resto le linee guida sono state appena rilasciate). Il cocktail risultante ha un sapore amaro e l'applicazione della certificazione riguarda uno sparuto numero di Regioni benemerite e coraggiose. Di fatto 18 anni sono passati, ma la maturità è ben lungi dall'essere raggiunta. Parlando di opere edili, qualcuno si chiederà a questo punto se completeranno in meno tempo la Salerno-Reggio Calabria, qualcun altro se l'aumento di cubatura del 20% in auge in questo momento, non si dovrebbe applicare agli impianti di generazione elettrica, visto che pagano l'Ici. In altri ambiti è andata meglio. Le leggi 9/91 e 10/91 avevano previsto con largo anticipo l'incentivazione delle fonti rinnovabili e dell'efficienza energetica negli usi finali. Temi fondamentali per un Paese carente di risorse. Il provvedimento Cip 6/92 recepiva il primo aspetto attraverso un conto energia, che purtroppo è stato mal gestito, per cui ha permesso di ottenere buoni risultati sul fronte delle fonti assimilate – concedendo in molti casi contributi eccessivi – ma non è stato capace di portare alla creazione di una filiera sulle rinnovabili, come in seguito avvenuto in Danimarca, Germania, Spagna e Giappone, solo per citarne alcuni. A questo punto, visto che ricominciare è in Italia più gradito che migliorare, si è deciso di provare qualcosa di più complicato, ed è iniziata la fase dei meccanismi cap and trade. Il primo è stato quello dei certificati verdi, dedicato alle fonti rinnovabili. Doveva essere un meccanismo di mercato, per sfruttare il vantaggio teorico di questi dispositivi, ossia la capacità di portare al miglior rapporto costi/benefici premiando le tecnologie più cost effective. Non è mai stato tale, ha subito continue modifiche che l'hanno via via avvicinato ad un conto energia, ha visto crescere la durata dell'incentivazione da 8 a 15 anni, si è visto appioppare teleriscaldamento cogenerativo e idrogeno (poi rientrati, salvo i diritti acquisiti) ed ha premiato eccessivamente alcune Stampa | Staffetta Quotidiana http://www.staffettaonline.com/Stampa.aspx?id=71119 1 di 4 7-04-2009 14:23

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Un quadro impietoso sulle inefficienze del "sistema" italiano con riferimento al settore dell\'energia

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Copyright © RIP SrlPolitica energetica nazionale venerdì 03 aprile 2009

Rinnovabili ed efficienza, l'Italia a rischio desertificazione

Politica energetica

In quest'articolo, Dario Di Santo, della Fire, fa un'analisi impietosa

delle difficoltà di superare vecchi e anacronistici vincoli amministrativi e

burocratici nonché debolezze strutturali e di portare avanti, nel settore

energetico, la modernizzazione dell'Italia, “patria del rovescio, non del

diritto”.

Il 19 marzo, Piero Ostellino concludeva il suo editoriale sul

Corriere con le parole “Italia, Patria del Rovescio; non del Diritto”.

Vediamo un po' perché anche nel settore dell'energia ha senso dire che siamo il paese del rovescio.

Il nostro lungimirante legislatore, cui non mancano certo le buone idee, aveva già introdotto la

certificazione energetica degli edifici con la Legge 10/91. Un provvedimento potenzialmente utile,

specie se associato a certificatori competenti e ad installatori in grado di tradurne in realtà le

indicazioni. Peccato che all'atto dell'emanazione della direttiva 2002/91/CE non se ne fosse fatto

ancora nulla, che nel frattempo il Titolo V della Costituzione avesse posto le basi per rivivere l'età dei

comuni rinascimentali, e che siano poi passati altri quattro anni per l'emanazione del D.Lgs.

192/2005, già più volte rimaneggiato senza che trovasse un'applicazione estesa (del resto le linee

guida sono state appena rilasciate). Il cocktail risultante ha un sapore amaro e l'applicazione della

certificazione riguarda uno sparuto numero di Regioni benemerite e coraggiose. Di fatto 18 anni sono

passati, ma la maturità è ben lungi dall'essere raggiunta. Parlando di opere edili, qualcuno si chiederà

a questo punto se completeranno in meno tempo la Salerno-Reggio Calabria, qualcun altro se

l'aumento di cubatura del 20% in auge in questo momento, non si dovrebbe applicare agli impianti di

generazione elettrica, visto che pagano l'Ici.

In altri ambiti è andata meglio. Le leggi 9/91 e 10/91 avevano previsto con largo anticipo

l'incentivazione delle fonti rinnovabili e dell'efficienza energetica negli usi finali. Temi fondamentali per

un Paese carente di risorse. Il provvedimento Cip 6/92 recepiva il primo aspetto attraverso un conto

energia, che purtroppo è stato mal gestito, per cui ha permesso di ottenere buoni risultati sul fronte

delle fonti assimilate – concedendo in molti casi contributi eccessivi – ma non è stato capace di

portare alla creazione di una filiera sulle rinnovabili, come in seguito avvenuto in Danimarca,

Germania, Spagna e Giappone, solo per citarne alcuni. A questo punto, visto che ricominciare è in

Italia più gradito che migliorare, si è deciso di provare qualcosa di più complicato, ed è iniziata la fase

dei meccanismi cap and trade.

Il primo è stato quello dei certificati verdi, dedicato alle fonti rinnovabili. Doveva essere un

meccanismo di mercato, per sfruttare il vantaggio teorico di questi dispositivi, ossia la capacità di

portare al miglior rapporto costi/benefici premiando le tecnologie più cost effective. Non è mai stato

tale, ha subito continue modifiche che l'hanno via via avvicinato ad un conto energia, ha visto

crescere la durata dell'incentivazione da 8 a 15 anni, si è visto appioppare teleriscaldamento

cogenerativo e idrogeno (poi rientrati, salvo i diritti acquisiti) ed ha premiato eccessivamente alcune

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realizzazioni, nonché gli operatori dell'IPEX per l'energia non soggetta all'obbligo. Sorvoliamo

sull'assurdità del momento, ossia le aste di aprile a cui il GSE venderà certificati ad un prezzo

inferiore a quello a cui li ritirerà in seguito (non gli stessi, se non altro). I risultati ci sono comunque

stati, rallentamenti sulle autorizzazioni degli impianti a parte. Il problema vero di questo meccanismo

sta nell'assenza di certezze sui flussi di cassa, che nonostante le varie storpiature lo rendono poco

gradito agli investitori e a chi presta il denaro. In pratica i costi per la gestione del sistema e la

copertura dei rischi tolgono risorse agli impianti e quindi riducono l'effetto utile a parità di somma

prelevata in tariffa.

Il secondo, quello dei certificati bianchi, è messo anche peggio, visto che ai problemi del primo

associa la difficoltà di valutare i risparmi generati dagli interventi, con tutta una serie di aspetti

collegati. Gli esiti sono dubbi e di difficile valutazione. Tolti pochi interventi per i quali l'incentivo ha

prodotto i risultati voluti, anche se a costi sicuramente superiori al necessario, per il resto alcuni

interventi prendono soldi senza essere “stimolati” dal meccanismo (e.g. le caldaie unifamiliari a

condensazione), ci sono poche schede di valutazione semplificata, due sono bloccate da un ricorso

da quasi tre anni, la comunicazione con gli operatori da parte di chi gestisce il meccanismo non è

sufficiente, mancano dati di mercato aggiornati, il sistema di remunerazione dei soggetti obbligati

lascia qualche dubbio circa il funzionamento nel futuro. C'è da chiedersi se un meccanismo di

incentivazione che non può essere “bancato” sia realmente tale. Ed è presto d'altra parte per dire

quanto l'effetto di promozione del mercato delle ESCO stia funzionando (rappresenta il secondo

beneficio cercato dal dispositivo). Comunque si è già posto rimedio a buona parte delle

problematiche e si spera che si continui su questa via.

La sintesi è che abbiamo messo in campo due meccanismi di cap and trade (per tacer

dell'emission trading, che però è su scala extranazionale) e gli abbiamo in buona parte snaturati e

continuamente modificati. Non era meglio a questo punto un mix di conti energia e finanziamenti in

conto interesse? In ogni caso: poco diritto, qualche dubbio sull'efficacia, molta creatività (piccolo

inciso: i CV non valgono ora meno dell'avvio, in compenso gli anni sono passati da 8 a 15 e i

coefficienti introdotti dalla Finanziaria 2008 sono premianti, non penalizzanti; ma non dovrebbe

diminuire nel tempo il contributo per i nuovi impianti a parità di soluzione tecnologica? e poi: allungare

il periodo di riconoscimento dell'incentivo ha precise ripercussioni sugli oneri di sistema della bolletta

elettrica, che risultano sì più diluiti, ma che non danno spazio a nuovi interventi se non con impegni

relativi crescenti, visto che l'effetto sostituzione si verifica dopo 15 anni: siamo sicuri che sia la strada

giusta?).

Una parte importante di questi incentivi, comunque, non finanzia gli impianti, ma le nostre

inefficienze. Da questo punto di vista la riforma del Titolo V ci ha messi in mezzo ad una giungla,

senza Tarzan a darci qualche dritta. I tempi dei procedimenti autorizzativi sono rispettati quanto i limiti

di velocità sulle strade senza Tutor. I 180 giorni del D.Lgs. 387/03 fanno tenerezza, se confrontati con

quelli mediamente necessari per chiudere la conferenza dei servizi (ammesso che venga convocata

e sperando che non si invochi l'intervento di mamma TAR). Il risultato è un aggravio di costi che si

ripercuotono sui cittadini, che così finanziano ritardi, incertezze, tasse (beh, è il caso dell'ICI sul

fotovoltaico, ma non solo), tangenti (compensazioni, se preferite), fotocopie (in alcuni casi qualche

migliaio di Euro a progetto, nell'era dell'informatica...) e chi più ne ha più ne metta.

Se Regioni ed Enti Locali usano il principio di sussidiarietà con criteri non sempre chiari, il

Legislatore centrale non dà centro il buon esempio. Come si decidono i principi energetici a casa

nostra? A parte i decreti legislativi di recepimento delle direttive comunitarie, che in genere hanno una

base tecnica e soprattutto hanno per forza una parvenza di organicità, in quanto legati ai rispettivi

provvedimenti europei, per il resto le formule più usate sono: la legge finanziaria (notoriamente nata

per altri scopi), i disegni di legge minestrone (tipo il d.d.l. sviluppo) e il decreto legge. I primi due si

fondano sulla rincorsa al comma miracoloso, per cui la lobby di turno convince il parlamentare amico

a presentare un appropriato emendamento. Vuoi perché in questo processo si perdono pezzi di

informazione, vuoi perché le lobby in Italia sono spesso piccole realtà poco competenti e incapaci di

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un'azione organica, il risultato cambia poco e il nostro emendamento si limita a bloccare eventuali

decreti ministeriali in emanazione e a dedicarsi a nuovi provvedimenti attuativi, facendo più danni che

altro. Gli esempi si sprecano quindi tralascio. Il decreto legge talvolta produce risultati apprezzabili

(vedi lo sblocca centrali), ma in genere non è risolutivo per temi complessi (stendiamo un velo pietoso

sul D.L. 29 novembre 2008 n. 185, che faceva scempio del diritto e del buon senso) e i vantaggi

dell'iter veloce si pagano con il rischio di impopolarità e rifiuto.

Inutile dire che tante incertezze si traducono non solo in costi diretti, ma anche in una debolezza

strutturale. Sfido chiunque a prestare denaro in queste condizioni. Non è un caso se i capitali stranieri

preferiscono altre mete (un Paese fatto di piccole aziende sottocapitalizzate ne avrebbe bisogno), le

banche adottano spread elevati o chiedono garanzie pesanti, le nostre imprese rimangono

cenerentole e non si sviluppano filiere produttive. Si parla tanto di ESCO ultimamente, ma se non

cambiano le regole del gioco è pane per pochi, vista la dimensione piccola (che in genere si traduce

in mancanza di organizzazione e di multidisciplinarità) e la recente costituzione di molti soggetti, che

li rende poco gestibili dagli istituti di credito.

Se il Paese funzionasse il criterio di base adottato nelle scelte sarebbe: conosco, quindi decido e

agisco, poi controllo e aggiusto (non per niente è alla base dei sistemi di qualità aziendale, dov'è noto

come ciclo di Deming: plan-do-check-act). Conoscenza, chiarezza, trasparenza, diritto. Nella Patria

del rovescio: non conosco, quindi decido ma il giorno dopo ci ripenso per cui le mie azioni vanno a

singhiozzo e non si concretizzano, poi non controllo e comunque ricomincio se chi aveva deciso

prima non era amico mio... No. Così non va.

Per superare queste difficoltà, vedo tre opzioni. La prima è quella di emigrare, confidando in

centri di accoglienza bioclimatici. Ma la vita insegna che fuggire in genere non è una soluzione e poi

abbiamo un bel Paese e conviene investire per migliorarlo. La seconda strada è quella di continuare

più o meno come siamo abituati. Tanto ce l'abbiamo fatta finora e dunque perché preoccuparsi?

Qualcuno risolverà i problemi per noi. Va bene finché si è bambini, ma poi in genere si capisce che

non funziona sempre. Non solo non è detto che arrivino mamma e papà a darci una mano, ma

quando si cade da grandi ci si fa più male. La terza possibilità sta nello sfruttare questo periodo

congiunturale difficile, che presumibilmente farà vedere i suoi veri effetti nei prossimi mesi, per

ristrutturare il Paese e prepararsi a ripartire più forti.

Da questo punto di vista vorrei sottolineare come molti dei mali segnalati in precedenza non

siano legati necessariamente a cattiva volontà o incompetenza. Un elemento che accomuna i

soggetti responsabili tirati in ballo è la carenza di persone (o l'utilizzo inefficiente delle stesse in alcuni

casi). Inutile dire che una struttura sotto organico non può che lavorare male, perché deve pensare a

sopravvivere e può dedicare poco tempo all'aggiornamento professionale, alla conoscenza ed

all'analisi e soluzione dei problemi. Se si prendono i casi di buone pratiche, che non sono rari, si

scopre come in genere siano legati a bravi decisori/amministratori che hanno saputo investire in

risorse e organizzazione e far parlare fra loro le varie funzioni. Basterebbe emularli e saremmo il Bel

Paese sotto tutti i punti di vista.

Per fare questo occorre superare la cultura dei vincoli di spesa e del “senza oneri aggiuntivi per

lo Stato”, che nel medio periodo rischiano di costare più dei risparmi che comportano per la scarsa

qualità dei risultati ottenuti. E occorre andare oltre le barriere linguistiche e mentali, che fanno sì che i

politici parlino con i politici, i tecnici coi tecnici, gli economisti con gli economisti e i medici coi medici,

ma pochi cercano di ascoltare e di parlare con chi è fuori dal loro giro.

Investiamo nelle persone e facciamole lavorare. Ci sono pochi soldi? Ripensiamo allora la

politica degli incarichi multipli, ma soprattutto prevediamo per ogni incentivo delle misure di

accompagnamento. Il 5% dei circa 2 miliardi di euro stanziati per l'efficienza energetica dai

programmi del MSE fra fondi strutturali, ricerca e sviluppo, ad esempio, sono 100 milioni, e

consentirebbero di metter su un'agenzia e di farle fare attività diagnostica, di pianificazione e di

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monitoraggio; i benefici conseguenti varrebbero più dei soldi sottratti agli interventi.

Enti e aziende, con più risorse, funzionerebbero meglio e farebbero girare più fluidamente i

meccanismi citati in precedenza. I decreti attuativi uscirebbero con ritardi minori e le autorizzazioni

arriverebbero prima. Conosceremmo di più la realtà e le nostre decisioni sarebbero più solide e

durature. E via discorrendo. Siamo un Paese di servizi, che soffre più di altri la mancanza di lavoro, e

le risorse disponibili sono scarse: usiamole bene!

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