Italia Futura - Rapporto occupazione giovanile 2010

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www.italiafutura.it Stefano Micelli, Marco Simoni, Irene Tinagli Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

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Meno tasse sul lavoro, riprendere le liberalizzazioni, unificare la disciplina sul lavoro. Queste le proposte di Italia Futura per incentivare l'occupazione giovanile, contenute nel rapporto Giovani, al lavoro! presentato oggi 24 novembre dal leader dell'associazione, Luca Cordero di Montezemolo. Leggi tutto su ideaTRE60 http://bit.ly/fULid5

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Stefano Micelli, Marco Simoni, Irene Tinagli

Giovani, al lavoro!Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

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Stefano Micelli, Marco Simoni, Irene Tinagli

Giovani, al lavoro!

Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

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R I N G R A Z I A M E N T I

Gli autori ringraziano Alessio Liquori e Raoul Minetti per il contributo fondamentale alla stesura delle tre proposte.

Ringraziano altresì sentitamente Fabrizio Baroni, Innocenzo Cipolletta, Giuseppe De Rita, Maurizio Ferrera e Nicola Rossi per gli utilissimi commenti su una stesura preliminare.

Grazie a Marco Palillo per il prezioso aiuto nelle attività di ricerca e di benchmark internazionale.

Un ringraziamento particolare a Stefania Multari di Confartigianato e Enrico Amadei della Confederazione Nazionale della Piccola e Media Impresa.

L’appendice statistica è stata realizzata da Sergio de Ferra, dottorando della London School of Economics.

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Indice

1. INTRODUZIONE. 5Giovani e lavoro: la vera emergenza nazionale

2. C APITOLO 1. 8Il mondo fuori: analisi e confronto internazionaledi Irene Tinagli

3. C APITOLO 2. 39Tre proposte per ripartire dai giovanidi Marco Simoni

4. CAPITOLO 3. 53Il caso dell’artigiano: un’occasione per cresceredi Stefano Micelli

5. APPENDICE STATISTICA. 68I numeri del quindicennio perso (1994 – 2009)di Sergio de Ferra

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I N T R O D U Z I O N EGiovani e lavoro: la vera emergenza nazionale

L’Italia deve ricominciare ad investire sul proprio futuro. Da troppo tempo lo sguardodella politica ha smesso di puntare avanti, schiacciando il nostro paese sul presente e sul pas-sato, togliendogli slancio e prospettiva. È urgente invertire questa tendenza, occuparsi del pre-sente pensando al tempo prossimo e a dove vogliamo che l’Italia sia tra cinque, dieci anni.

Mossi da questa convinzione abbiamo elaborato la campagna che presentiamo in que-ste pagine, una campagna corredata da una serie ampia di proposte che offriamo al dibattitopubblico e politico.

Abbiamo scelto di concentrarci sulla disoccupazione giovanile e sulle politiche per con-trastarla, perché il tema dei giovani non è un dettaglio ma il cuore di un grande paese. Pen-siamo che l’allarmante, a volte tragica, situazione economica vissuta dalla maggioranza deigiovani del nostro paese sia la vera urgenza nazionale e il frutto più chiaro del fallimento dellapolitica degli ultimi quindici anni. Concentrarsi sul tema dei giovani significa, dunque, occu-parsi di molte cose: della parte più fresca e creativa del paese, del futuro di tutti noi e di unapolitica che torni a mettere al centro della discussione il bene comune.

Il bene comune non è una ricetta preconfezionata ma frutto dell’elaborazione, dell’ap-profondimento e della discussione pubblica. Eppure, nei mesi durante i quali i bollettini del-l’ISTAT diramavano dati sempre più allarmanti sulla condizione delle giovani generazioni,abbiamo sentito poche idee e poche proposte arrivare da chi dovrebbe occuparsi non solodi amministrare il presente ma di costruire il futuro.

La disoccupazione giovanile in Italia è molto più alta della media dei paesi dell’Europaoccidentale, nel nostro paese è più facile essere disoccupati se si è giovani rispetto a qualsiasialtra classe di età. Non c’è da stupirsi, dunque, se siamo il paese in cui i giovani adulti fannopiù fatica ad uscire dalla casa dei propri genitori o se la natalità è più bassa di quanto si regi-stri in Germania, Francia o Inghilterra.

Negli ultimi dieci anni il reddito pro capite in Italia è calato, mentre aumentava, sia purdi poco, nei paesi a noi vicini. Le conseguenze della stagnazione economica italiana sono av-vertite soprattutto dai giovani. E questo significa che – a meno di un intervento tempestivo –la prospettiva è ancora più difficile della situazione di oggi, perché la stagnazione economica staindebolendo socialmente ed economicamente la spina dorsale dell’Italia del futuro prossimo.

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In altre parole, quello dei giovani non è uno tra i tantissimi problemi che affliggono ilnostro paese ma la questione centrale sulla quale concentrarsi per tornare a investire sul fu-turo, invertire la spirale del declino e tornare a trovare le ragioni dell’orgoglio nazionale ancheper quello che facciamo, oltre che per quello che siamo.

Le statistiche e le analisi economiche sono importanti per comprendere le dimensionie la gravità del problema che abbiamo davanti e, soprattutto, per elaborare risposte efficaci.Ma per riconoscere l’urgenza di mettere in moto buone politiche è sufficiente ascoltare i rac-conti, le storie, la vita vissuta dai giovani italiani. Migliaia di risposte sono arrivate sul nostrosito web, in cui chiedevamo una testimonianza sul mondo del lavoro. Una parte, largamentemaggioritaria, racconta storie difficilissime. La storia di chi non riesce a trovare lavoro e vedemortificate le proprie capacità: è anche la storia di una società che rinuncia a quelle compe-tenze e quell’entusiasmo. Sono meno drammatici i racconti di chi, scoraggiato da troppe bar-riere, ha deciso di trovare fortuna altrove, generalmente con buoni risultati. C’è da essereorgogliosi della capacità dei giovani italiani di mietere successo in giro per il mondo, ma c’èda preoccuparsi per la nostra incapacità di attrarre talenti o mantenere i nostri. Gli inglesi lochiamano brain drain, la bilancia commerciale delle intelligenze, che ci vede posizionati semprepeggio rispetto agli altri paesi europei. Le altre storie difficili si concentrano sul lavoro preca-rio, che estende le sue caratteristiche alla vita delle persone; la mancanza di trasparenza, e avolte la corruzione; il senso di impotenza davanti a politiche miopi e corporative: tratti di-stintivi di un paese che non cura il futuro.

Eppure, in un contesto difficile, con risorse economiche sempre più ridotte, con op-portunità negate, nonostante grandi ostacoli, i giovani italiani sono protagonisti di grandi sforzie di un lavoro silenzioso ma fondamentale che ha aiutato l’Italia a non declinare ulteriormente,a non trasformare le enormi difficoltà in una resa. E, sempre senza negare i contesti difficili,sono tante anche le storie di orgoglio che abbiamo ricevuto. Di giovani ricercatori che por-tano avanti le nostre università. Di chi, tra mille ostacoli burocratici porta avanti l’azienda fa-miliare, o cerca di iniziare una piccola attività artigiana, preservando e innovando con grandeentusiasmo le nostre tradizioni. Abbiamo ricevuto le tante storie di giovani lavoratori e pro-fessionisti senza i quali la nostra economia non potrebbe funzionare. Persone spesso con uncontratto flessibile che sanno di essere indispensabili per l’azienda, la pubblica amministra-zione, la scuola o l’ospedale nei quali lavorano.

Noi siamo convinti che l’Italia di oggi sia una combinazione di declino e potenzialità. Diopportunità negate, di rendite prepotenti che convivono accanto ad una straordinaria capa-cità di lavoro, di dedizione, di impegno. Dipende, dunque, dalla politica e dai decisori pubblicila scelta di quale strada prevarrà: se quella del declino inevitabile, di una nazione che tra le tantespaccature dovrà annoverare anche quella del ritorno dell’emigrazione di massa e della di-soccupazione crescente, con punte estreme nel meridione, oppure quella della ripresa eco-

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nomica fondata sul lavoro, che offre opportunità soprattutto ai giovani di mettere le loroenergie nelle istituzioni, nelle aziende, nei luoghi di lavoro in cui si trovano, sicuri che il loroimpegno sarà riconosciuto fino in fondo.

Noi crediamo che la differenza tra la prima e la seconda possibilità, tra declino e futuro,passi anche dall’impegno. Ed è con senso di partecipazione civica che Italia Futura ha prepa-rato questa campagna, coinvolgendo studiosi, professionisti, esperti, appassionati e volontari.

Il lavoro di queste pagine comprende tre parti. La prima è quella dell’analisi, per capirenel dettaglio quanto è rilevante il problema della disoccupazione giovanile e cosa si fa nelresto del mondo. Irene Tinagli traccia un quadro molto difficile, sottolineando quanto nel no-stro paese la crisi abbia colpito soprattutto i giovani, mentre la politica ha deciso di sottova-lutare il problema. Allo stesso tempo, lo sguardo sui nostri vicini europei ci mostraun’amplissima varietà di interventi possibili per invertire la rotta. La seconda parte è quelladelle proposte. Marco Simoni ne individua tre, che riguardano il fisco e l’evasione fiscale, l’im-prenditoria giovanile e la formazione del capitale umano. Sono proposte che non esaurisconola necessità di interventi ampi di politica economica per rilanciare la crescita. Ma sono pro-poste che, se attuate, potrebbero attivare circoli virtuosi di conoscenza, produttività e crescita,mentre riannodano il tessuto del patto fiscale logorato.

La terza parte suggerisce un focus importante che proponiamo alla discussione: quellosull’artigianato. Stefano Micelli spiega come l’artigianato sia uno degli anelli di congiunzione piùforte tra l’economia globalizzata e la nostra cultura, uno dei modi con i quali l’Italia può girarela globalizzazione a suo vantaggio e crescere grazie all’apertura dei mercati anziché temerlae averne paura: a patto di compiere alcune precise scelte politiche.

L’appendice a questi capitoli offre al lettore un ampio compendio di dati comparati, utilialla lettura ma, soprattutto, a fotografare la situazione di estrema difficoltà della nostra eco-nomia e della nostra società.

Il nostro punto di partenza è netto: il tema dell’occupazione giovanile è la vera emer-genza nazionale e, come ogni questione complessa, va affrontata con strumenti adeguati emultiformi, parte dei quali è individuata nelle pagine che seguono. Come sempre, offriamo lenostre competenze e le nostre analisi al dibattito, lanciando una campagna di discussione checoinvolgerà migliaia di italiani di tutte le età, convinti che sia ora di voltare pagina.

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C A P I T O L O 1IL MONDO FUORI: ANALISI E CONFRONTO INTERNAZIONALEdi Irene Tinagli

1. Disoccupazione giovanile: agire ora per cambiare il futuro 9

2. Il fenomeno: dati e confronto internazionale 11

3. Analisi: possibili cause e fattori collegati 15

3.1 Istruzione e abbandono scolastico 15

3.2 Formazione, apprendistato e collegamento con il mondo del lavoro 18

3.3 Precarietà e qualità del lavoro 21

4. Quali politiche? 25

4.1 Politiche per l’istruzione 25

4.2 Formazione professionale 27

4.3 Ammortizzatori sociali 30

4.4 Incentivi fiscali per l’assunzione di giovani 34

4.5 Misure normative relative al mercato del lavoro: il contratto unico 35

4.6 Promozione e supporto della cultura imprenditoriale 36

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1. Disoccupazione giovanile: agire ora per cambiare il futuro

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La crisi economica globale ha colpito in modo particolarmente grave le generazioni piùgiovani, sia in Europa che negli Stati Uniti. L’Italia, che grazie alla cassa integrazione è riuscitaad attutire, in parte, gli effetti sull’occupazione “adulta”, ha tuttavia ceduto in maniera preoc-cupante sul fronte di quella giovanile. Stando agli ultimi dati disponibili, oggi in Italia circa il 27%dei giovani tra i 15 e i 24 anni è disoccupato. Sono giovani che non studiano più, che magarihanno conseguito il diploma o la laurea, che cercano lavoro, ma che non trovano niente.A que-sti andrebbero poi aggiunti quelli che non cercano nemmeno più.

A che serve gloriarsi della relativa tenuta dell’occupazione “adulta”, quando abbiamooltre due milioni di giovani in uno stato di totale smarrimento e abbandono? È come se gli ef-fetti peggiori della crisi fossero stati scaricati su di loro. Ma scaricare il peso di questa crisi suigiovani significa buttare dalla finestra quello che ben presto busserà alla porta come undramma di portata ancora maggiore.

La disoccupazione giovanile ha pericolosi effetti di lungo periodo. Numerose ricerchehanno dimostrato che essere disoccupati da giovani influenza pesantemente gli sviluppi di car-riera e, in modo particolare, i livelli retributivi futuri. Questo ha effetti non solo sulla vita dei gio-vani in questione ma sull’economia del Paese, che si ritroverà con una forza lavoro più debole,che verserà meno contributi e tasse nelle casse dello stato e avrà una capacità di consumo piùbassa. Come se non bastasse la disoccupazione ha un effetto significativo sulla salute psicologicae fisica dei giovani. Ormai da anni studi scientifici dimostrano come il trovarsi disoccupati aumentila probabilità per i giovani di essere vittime di criminalità, alcolismo, droga, incidenti e suicidi1.

Nonostante la gravità della situazione e delle sue ricadute future, in Italia molti poli-tici tendono a minimizzare il fenomeno. D’altronde un giovane tipicamente non ha una fa-miglia da mantenere e può spesso contare sulla famiglia di origine come ammortizzatore perle sue difficoltà economiche, quindi gli effetti sociali del fenomeno non si vedono subito. Maquesto non può tranquillizzarci e giustificare l’inazione alla quale stiamo assistendo. Il Pianodi azione per l’occupazione dei giovani, “Italia 2010”, lanciato dal Governo nel Settembre2009, presenta considerazioni giuste ed interessanti riguardanti il fenomeno e le sue cause,

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1 Per approfondimenti si rimanda agli studi condotti da Anne Hammarström presso il Dipartimento di Medicina Sociale dell’Istituto Ka-rolinska a Luleå, in Svezia.

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ma purtroppo non indica né quali siano in concreto le misure al vaglio del governo né tan-tomeno quando saranno implementate.

L’Italia non può più permettersi di lasciare in sospeso le centinaia di migliaia di giovaniche sono, oggi, senza lavoro e senza prospettive. Lavorare per aiutare questi giovani significalavorare per ricostruire un paese non solo più competitivo, ma più forte, più ottimista e fe-lice. E occorre farlo oggi, non domani.

L’analisi proposta nel presente documento si pone un duplice obiettivo. Da un lato,quello di capire le dimensioni reali del fenomeno anche in relazione agli altri paesi europei. Dal-l’altro, quello di identificare, attraverso un lavoro di confronto internazionale, le dimensioni piùcritiche sulle quali intervenire per arginare il fenomeno e alcune misure di policy rivelatesi utiliin altri paesi.

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2. Il fenomeno: dati e confronto internazionale

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Dall’analisi comparata dei dati italiani con quelli di un campione selezionato di paesi,emergono alcuni spunti interessanti di riflessione che aiutano ad inquadrare la questione del-l’occupazione giovanile in Italia. > Innanzitutto, il primo elemento che emerge dai dati è come il tasso di disoccupazione

giovanile in Italia sia uno dei più elevati tra i paesi europei. Gli ultimi dati disponibili, re-lativi a Settembre 2010, indicano un tasso del 26,4% (dato destagionalizzato). Si trattadi un dato inferiore solo ai tre paesi che più di ogni altro hanno sofferto della crisi: Spa-gna, Grecia e Irlanda (vedi Figura 1).

11

Spagna 42,5

32,1

29,1

26,4

25

24,4

24,4

20

19,8

19,2

17,912,2

8,9

8,6

8,5

20,3

0 5 10 15 20 25 30 35 40 45

Grecia

Irlanda

ItaliaSvezia

Francia

Belgio

EU27

EA16

Portogallo

Regno Unito

Stati UnitiDanimarca

Austria

Paesi Bassi

Germania

Figura 1. Disoccupazione tra i giovani 15-24, ultimo mese disponibile (Settembre 2010) Fonte: Eurostat

D I S O C C U PA Z I O N E T R A I G I OVA N I ( 1 5 - 2 4 )

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> In secondo luogo, un’analisi più approfondita delle serie storiche e di altre caratteri-stiche del fenomeno mostra come la disoccupazione giovanile in Italia non sia legatasolo alle dinamiche della disoccupazione complessiva, ma abbia sue caratteristiche pe-culiari e strutturali, che vanno oltre gli effetti della crisi e del sistema occupazionalenel suo complesso. Questo lo si vede da due dati chiave: innanzitutto dal fatto che,mentre per paesi come la Spagna o l’Irlanda, la disoccupazione giovanile è esplosa conla crisi, ma era ampiamente sotto controllo negli anni precedenti, la situazione italiananel 2006 era già molto preoccupante rispetto ad altri paesi. Precisamente l’Italia avevail secondo tasso più elevato d’Europa dopo la Grecia (vedi Tabella 1). Un altro ele-mento che mette in luce la specificità del fenomeno della disoccupazione giovanile inItalia è il fatto che essa ha un rapporto altissimo rispetto a quella degli adulti. La di-soccupazione tra i giovani registra sempre, anche negli altri paesi, tassi più alti di quellarilevata tra gli adulti, ma normalmente si tratta di un rapporto che va da 2:1 (se si con-

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D I S O C C U PA Z I O N E – E T À 1 5 - 2 42009 2008 2007 2006

Spagna 37.9 24.6 18.2 17.9

Irlanda 25.9 12.5 10 9.8

Grecia 25.8 22.1 22.9 25.2

Italia 25.4 21.3 20.3 21.6

Svezia 25 19.4 18.9 21.3

Francia 22.4 18.1 18.7 21.3

Belgio 21.9 18 18.8 20.5

Finlandia 21.6 15.7 15.7 17.6

Portogallo 20 16.4 16.6 16.2

Regno Unito 18.9 14.1 14.4 13.9

Stati Uniti 17.6 12.8 10.5 10.5

Canada 15.3 11.6 11.2 11.6

Australia 11.6 8.9 9.4 10

Danimarca 11.2 7.6 7.9 7.7

Germania 11 10.4 11.7 13.6

Austria 10 8.1 8.7 9.1

Norvegia 9.2 7.5 7.3 8.6

Giappone 9.1 7.2 7.7 8

Svizzera 8.2 7 7.1 7.7

Paesi Bassi 7.3 5.6 6.3 6.9

Media OCSE 16.4 12.7 12 12.5

Tabella 1. Dati annuali: la disoccupazione giovanile prima e dopo la crisi

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fronta con la fascia 25-54) a 3:1 (se si confronta con quella 55-64). Vale a dire che ladisoccupazione giovanile è generalmente due o tre volte superiore a quella adulta (aseconda della fascia di età alla quale si rapporta).

In Italia, invece, la disoccupazione giovanile è di quasi quattro volte superiore a quelladegli adulti in fascia di età 25-54 e addirittura più di sette volte superiore a quella degli adultiin età 55-64. Un dato che, come mostra la Tabella 2, non ha confronti con nessun paese Ocseconsiderato (a parte la Norvegia dove la proporzione tra disoccupazione giovanile e adulta èaltissima semplicemente perché quest’ultima è quasi inesistente, circa all’1%). Persino la Spa-gna, che ha un tasso di disoccupazione giovanile alle stelle, non rileva uno squilibrio così altotra disoccupazione giovanile e adulta, a dimostrazione del fatto che la questione “giovani” inSpagna è molto legata alla crisi e all’andamento generale dell’occupazione. Da noi invece, nonsembra essere così, la disoccupazione tra i giovani, infatti, sembra avere una componente pe-culiare e strutturale che va oltre il problema generale della crisi e della disoccupazione totale.

R A P P O RTO T R A D I S O C C U PA Z I O N E G I OVA N I (15-24) E A D U LT I Adulti in età 55-64 Adulti in età 25-54

Norvegia 8.36 3.68

Italia 7.47 3.63

Grecia 5.61 2.90

Svezia 4.81 4.03

Irlanda 4.32 2.40

Belgio 4.29 3.22

Austria 4.17 2.38

Regno Unito 4.11 3.10

Francia 3.56 2.91

Finlandia 3.43 3.27

Australia 3.41 2.58

Spagna 3.13 2.30

Svizzera 2.93 2.22

Stati Uniti 2.67 2.12

Portogallo 2.60 2.15

Danimarca 2.38 2.15

Canada 2.19 2.15

Paesi Bassi 1.92 2.35

Germania 1.38 1.51

Media OCSE 2.88 2.25

Tabella 2. Il rapporto tra disoccupazione giovanile e adulta

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> Infine un’altra caratteristica preoccupante dell’occupazione/disoccupazione giovanile inItalia è l’elevata diseguaglianza territoriale. Vi sono regioni italiane in cui il tasso di disoc-cupazione giovanile si avvicina al 40%. Secondo un rapporto di Confartigianato pubblicatoa Maggio 2010, nel 2009, in sei Regioni il tasso di disoccupazione dei giovani tra 15 e 24anni era superiore al 30%: in Sicilia al 38,5%, in Basilicata al 38,3%, in Campania al 38,1%,in Puglia al 32,6%, in Calabria al 31,8% e nel Lazio al 30,6%. In Sardegna addirittura risul-tava del 44,7%. Al contrario vi sono regioni in cui è di dieci o anche quindici punti per-centuali inferiori alla media nazionale, come in Toscana (17,8%), in Valle d’Aosta (17,5%),in Veneto (14,4%) e in Trentino-Alto Adige (10,1%). La situazione del lavoro giovanile al sudsconta inevitabilmente questioni legate non solo ai giovani, ma più in generale allo sviluppoe alla crescita complessiva della zona, argomenti che vanno oltre gli scopi del presente la-voro. Ad ogni modo, molte delle considerazioni e analisi condotte in questa sede, comequelle riguardanti il ruolo dell’istruzione e della lotta all’abbandono scolastico, hanno unruolo chiave in tutte le regioni italiane, a partire proprio da alcune aree del sud in cui ab-bandono scolastico e formazione dei giovani sono problematiche molto rilevanti.

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3. Analisi: possibili cause e fattori collegati

Il fenomeno della disoccupazione giovanile è chiaramente legato a numerosi fattori.Nell’analisi ne abbiamo identificati tre ritenuti particolarmente critici, soprattutto in relazionealla situazione italiana: 1) istruzione e abbandono scolastico, 2) formazione, apprendistato e col-legamento con il mondo del lavoro, 3) qualità del lavoro e precarietà.

3.1 Istruzione e abbandono scolastico

Nonostante ci sia una naturale preoccupazione per i giovani più istruiti che faticano atrovare lavoro, di fatto la disoccupazione giovanile è assai più pronunciata tra le persone chenon terminano gli studi che tra i laureati e, in modo particolare, tra coloro che non riesconoa terminare le scuole superiori. Secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Ocse, il tasso di di-soccupazione tra coloro che non hanno terminato le scuole superiori è, in media, tre voltepiù alto del tasso di disoccupazione tra coloro che hanno un titolo universitario e quasi ildoppio rispetto a coloro che hanno ottenuto un diploma superiore. In Italia, pur essendo trai paesi in cui il titolo di studio garantisce di meno contro la disoccupazione, questo gap è co-munque rilevante: il tasso di disoccupazione tra chi non finisce le superiori è quasi il doppiodi quello rilevato tra chi ottiene il diploma.

TA S S O D I D I S O C C U PA Z I O N E P E R T I TO L O D I S T U D I OSenza Con diploma Con

diploma superiore superiore laureaGermania 16.5 7.2 3.3

Spagna 13.2 9.3 5.8

Belgio 10.8 5.7 3.2

Stati Uniti 10.1 5.3 2.4

Francia 9.8 5.6 4.0

Canada 9.1 5.5 4.1

Irlanda 8.2 4.8 3.0

segue

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Finlandia 8.1 5.4 3.3

Portogallo 7.6 6.6 5.8

Italia 7.4 4.6 4.3

Svezia 7.1 4.1 3.3

Grecia 6.8 7.2 5.7

Austria 6.3 2.9 1.7

Regno Unito 6.2 3.7 2.0

Norvegia 3.8 1.3 1.3

Danimarca 3.5 2.2 2.3

Paesi Bassi 3.4 2.1 1.6

Media OCSE 8.7 4.9 3.2

Media EU 19 10.6 5.3 3.2

Tabella 3. Tasso percentuale di disoccupazione (25-64) per titolo di studio Fonte: Oecd, Education at a lance 2010, i dati si riferiscono al 2008

Questi differenziali si riscontrano anche nella probabilità di un giovane tra i 20 e i 29anni di essere “neet”, ovvero non inserito né in un percorso di studio né in alcuna forma diattività lavorativa. Le percentuali di giovani in condizione di “neet” sono in media circa il dop-pio tra quelli che non hanno terminato le superiori rispetto a chi, invece, ha ottenuto il di-ploma. Un gap che tende ad attenuarsi con l’età ma che è particolarmente accentuato tra igiovani nella fascia di età tra i 20 e i 24 anni.

E T À 2 0 - 2 4 E T À 2 5 - 2 9Senza Con Con Senza Con Con

diploma diploma laurea diploma diploma laureasuperiore superiore superiore superiore

Austria 13.4 2.8 n.d. 10.7 2.3 n.d.

Danimarca 5.8 1.5 n.d. 4.2 n.d. 2.3

Paesi Bassi 2.6 0.7 n.d. 2.4 1.0 0.6

Francia 21.5 6.2 4.1 15.2 8.9 4.4

Irlanda 15.8 4.6 3.9 9.4 4.9 2.7

Belgio 17.8 5.2 6.2 14.8 7.1 3.9

Regno Unito 16.5 5.2 4.4 7.1 4.6 1.9

segue

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

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Spagna 16.8 6.1 6.6 12.7 7.6 6.2

Finlandia 10.8 4.5 n.d. n.d. 4.8 3.0

Portogallo 10.4 4.3 17.3 8.3 6.8 10.8

Stati Uniti 13.7 5.9 4.5 9.6 6.9 2.4

Canada 10.5 5.2 4.0 10.5 6.0 3.4

Germania 11.1 5.6 4.1 16.2 6.1 3.3

Svezia 13.6 7.0 n.d. 9.8 4.4 2.9

Grecia 14.1 7.5 20.0 9.8 10.6 12.9

Italia 11.9 7.2 6.6 9.1 6.2 7.3

Media OCSE 13.2 4.9 7.3 10.8 5.5 4.5

Media EU 19 14.2 5.0 7.7 11.7 5.8 4.6

Tabella 4. Giovani non occupati né in programmi di formazione (%) per età e titolo di studio Fonte: Ocse

Non solo ma, sempre secondo i dati dell’Ocse, nella maggioranza dei paesi sviluppati lepersone con un titolo di istruzione universitaria (equivalente alla nostra laurea specialistica)guadagnano almeno il 50 % in più di quelle con il diploma di scuola superiore. Così come i dif-ferenziali di salario tra chi possiede un diploma di scuole superiori e chi ha solo una licenzadi scuola media vanno dal 15 al 30%. Differenziali salariali che sono analoghi a quelli riscon-tati anche in Italia, pur con qualche particolarità (in Italia per esempio, tali differenziali sem-brano diminuire per le fasce d’età più giovani, e il titolo di laurea, pur avendo un effetto positivosui redditi di lungo periodo di chi trova lavoro, non sembra aumentare però in modo sostan-ziale la probabilità di trovare lavoro tra i più giovani, così come mostrato anche in tabella).

È evidente quindi che l’istruzione e l’abbandono scolastico durante le scuole superiori(“dispersione scolastica”) sono una dimensione chiave della lotta alla disoccupazione giova-nile. Si tratta di quel fenomeno che in ambito internazionale è chiamato “early school leavers”e che determina una grave carenza delle competenze di base necessarie per una partecipa-zione attiva al mercato del lavoro. Proprio per la sua importanza per la crescita e la compe-titività di un paese, questo indicatore era stato incluso tra gli obiettivi della conferenza diLisbona, che aveva fissato come obiettivo per il 2010 la riduzione della quota media degli earlyschool leavers al 10%.

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Su questo fronte l’Italia si trova in una situazione molto difficile perché, nonostante al-cuni miglioramenti registrati negli ultimi anni, ha ancora uno dei tassi di abbandono scolasticopiù elevati d’Europa, pari a circa il 20%. Un dato che, stando alle fonti Ocse, è dieci punti sopral’obiettivo di Lisbona, e molto superiore a quello di altri paesi europei come Francia, Germa-nia, Danimarca e Belgio che sono tra l’11% e il 12%. Fa peggio di noi solo la Spagna, che, nona caso, ha una disoccupazione giovanile che sfiora il 42%.

In sintesi, oggi in Italia un ragazzo su cinque non consegue né diploma né qua-lifica professionale e 19.000 studenti sembrano letteralmente “scomparire” dopoessersi iscritti al primo anno della scuola secondaria superiore. In alcune regionicome Sardegna e Sicilia, il 30% di ragazzi è fornito unicamente della licenza media. Questo fe-nomeno rappresenta un ostacolo enorme per lo sviluppo sia di questi giovani che di moltenostre regioni e del paese nel complesso. Tanto più che, proprio nelle regioni del meridione,l’impatto dell’istruzione su occupazione e salari futuri è particolarmente accentuato e, inter-venendo sulla riduzione della dispersione scolastica in queste aree, si potrebbero otteneregrandi progressi nella lotta alla disoccupazione giovanile.

Secondo uno studio condotto dalla Banca d’Italia, i vantaggi della maggiore istruzione siaccentuano nelle aree più deboli del paese e per i gruppi più svantaggiati. Nel Mezzogiorno, nel2007 erano nelle forze di lavoro il 74% dei laureati, il 63% dei diplomati e solo il 51% delle per-sone con un diploma di scuola media. Un congruo investimento da parte dello Stato in istruzioneverrebbe più che compensato dalle entrate fiscali, a parità di prelievo, e dai minori costi derivantidall’aumento del tasso di occupazione. Lo studio mostra quindi che, nel lungo periodo, la maggiorspesa pubblica necessaria a finanziare un dato aumento del livello di istruzione, sarebbe più checompensata, specie nelle regioni meridionali, dall’aumento delle entrate fiscali, a parità di strutturadi prelievo, e dai minori costi derivanti dall’aumento del tasso di occupazione. In media, il rendi-mento fiscale sarebbe infatti compreso tra il 3,9% e il 4,8% nel caso di co-finanziamento e sarebbesolo lievemente inferiore nel caso in cui la spesa gravasse interamente sul bilancio pubblico.

3.2 Formazione, apprendistato e collegamento con il mondo del lavoro

Le analisi condotte tra i paesi europei mostrano il ruolo fondamentale della formazioneprofessionale e dell’apprendistato come modi per facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo dellavoro, con particolare riferimento a coloro che non perseguono percorsi di studio universitari.

Non è un caso se i paesi con i più bassi tassi di disoccupazione giovanile sono proprioquelli che hanno un sistema di formazione professionale più sviluppato e funzionante comeGermania, Austria, e Danimarca. La chiave di successo della formazione in questi paesi sem-bra essere soprattutto il collegamento molto forte tra formazione e percorsi di apprendi-stato. In Germania, per esempio, i due strumenti fanno parte dello stesso percorso di

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preparazione al mondo del lavoro, per questo il sistema di formazione professionale tedescosi chiama “sistema duale” di alternanza scuola-lavoro, che viene organizzato in due luoghi diformazione: la scuola, Berufsschule, e l’azienda. In Italia, invece, la formazione tecnica e profes-sionale è una cosa separata e ben diversa dai percorsi di apprendistato, ed entrambi gli stru-menti non risultano ancora sufficientemente sviluppati e funzionanti.

La formazione tecnica e professionale in Italia non ha quell’immagine positiva e“professionalizzante” che ha in altri paesi e forse questa percezione della scuola professionalecome una scuola “di ripiego” la rende una scelta poco perseguita dai nostri giovani. Mentre inGermania oltre il 50% dei giovani sceglie un percorso di studi tecnico-professionale, una per-centuale che sale al 60% nei Paesi Bassi e addirittura all’80% in Austria (dati Eurostat), in Italiaqueste scuole hanno un peso minoritario nelle scelte dei giovani. Né sembra, almeno dai primisegnali, che la riforma della scuola superiore operativa da Settembre 2010 sia sufficiente a mo-dificare significativamente la situazione. Secondo i dati del MIUR l’istruzione professionale in Ita-lia ha registrato nel 2010 un calo delle iscrizioni del 2% fermandosi al 20%, contro il 49,3% deiLicei e il 31% degli istituti tecnici. E, questo, nonostante prima della crisi economica tra i di-plomati tecnici e professionali, a tre anni dal titolo, lavorassero il 75,5% (81% per gli istituti adindirizzo industriale) dei giovani contro il 26,8% dei liceali (23% per i licei classici).

Sul fronte dell’apprendistato la situazione è ancora più complessa e preoccupante.Negli ultimi 10-15 anni si sono succeduti vari interventi legislativi in materia (dalla L.196/97,alla 276/03 fino all’art. 23 della L.112/08). Tuttavia questa attenzione normativa non è stata, finoad ora, in grado di risolvere i nodi più critici dell’apprendistato e di renderlo un valido stru-mento per la formazione dei giovani e la loro occupabilità. Al contrario, i continui mutamentidello scenario normativo di riferimento sembrano aver generato ulteriori confusioni e ral-lentato in molti casi il processo di diffusione di questo strumento e la sua efficacia.

Nel complesso, le varie forme di apprendistato2 coprivano nel 2008 il 17% del-l’occupazione tra i 15 e i 29 anni. Un dato in diminuzione nell’ultimo anno: mentrenel 2008 gli apprendisti sono stati 646 mila, nel 2009 il numero è sceso a 567 mila, un calo del

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2 In Italia esistono tre tipologie di apprendistato (L.276/2003): a) contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione: possono essere assunti in tutti i settori diattività i giovani e gli adolescenti che abbiano compiuto i 15 anni. Ha durata non superiore a tre anni ed è finalizzato al conseguimento diuna qualifica professionale. La durata del contratto è determinata in considerazione della qualifica da conseguire, del titolo di studio, deicrediti professionali e formativi acquisiti, nonché del bilancio di competenze realizzato dai servizi pubblici per l’impiego, o dai soggetti pri-vati accreditati mediante l’accertamento dei crediti formativi secondo quanto stabilito dalla legge n. 53 del 28 marzo 2003. La registrazionedella qualifica conseguita va effettuata nel libretto formativo;b) contratto di apprendistato professionalizzante: possono essere assunti in tutti i settori di attività i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29anni. Tale contratto è finalizzato al raggiungimento di una qualificazione professionale attraverso una formazione sul lavoro e l’acquisizionedi competenze di base, trasversali e tecnico-professionali. Il riconoscimento dei risultati raggiunti viene certificato nel libretto formativo;c) contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione: tramite tale tipologia possono essereassunti, in tutti i settori di attività, i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni per il conseguimento di titoli di studio di livello se-condario, universitari, dell’alta formazione e la specializzazione tecnica superiore.

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12%. Ma al di là della diminuzione quantitativa dell’apprendistato la notizia più preoccupante èche solo il 20% dei giovani in apprendistato riceve qualsiasi tipo di formazione. E inmolti casi i giovani che sono inseriti in attività di formazione non completano il percorso. In Ita-lia, in media, solo il 64% termina il percorso formativo previsto (dati Isfol). Non solo, i rapportidi monitoraggio dell’Isfol riportano come spesso gli stessi programmi di formazione non co-prono tutte le ore previste per legge.

In sintesi l’apprendistato, che in molti altri paesi rappresenta un perno fondamentalenella lotta alla disoccupazione giovanile, è uno strumento che in Italia non riesce ancora a de-collare, vittima di enormi ritardi nell’applicazione delle normative e dell’accavallarsi di riformeche intervengono quando le precedenti non sono ancora completate (come nel caso della ri-forma introdotta dall’art. 23 della L.112/2008). E, soprattutto, vittima di una frammentazione re-gionale altissima che va ben oltre il bisogno di andare incontro alle specificità del mercato dellavoro e che impedisce di dare ai giovani una base minima di competenze standard necessarieper un’adeguata crescita professionale. Basta pensare che la legge attualmente in vigore non fissanemmeno gli standard minimi di formazione per l’apprendistato dei minori. Questa confusionenormativa è forse una delle cause che ne ha determinato la scarsa diffusione dello strumentotra i giovanissimi, un vero peccato visto che potrebbe rappresentare uno strumento chiave perrecuperare e tenere comunque all’interno di percorsi formativi quei ragazzi che non riesconoa terminare gli studi. Secondo l’ultimo rapporto di monitoraggio Isfol disponibile, “nel 2006sono stati 36.905 i minori assunti con contratto di apprendistato: il 20,1% in meno rispetto al-l’anno precedente. Per il 2007 si conferma la tendenza ad occupare sempre meno i minori, cherappresentano ormai solo il 6,5% degli apprendisti occupati. Nonostante sia istituito il diritto-dovere all’istruzione e formazione per i ragazzi fino a 18 anni, nel 2006 hanno partecipatoalle attività di formazione esterna poco più di 8.800 apprendisti minori, scesi nel2007 a 6.500 circa. La formazione esterna, quindi, raggiunge una quota modesta di adole-scenti che espletano il diritto-dovere di istruzione e formazione in apprendistato, anche con-siderando che talora le attività formative organizzate coprono solo una parte del percorsoobbligatorio di 240 ore.”

Anche sulle altre forme di apprendistato i progressi sembrano lenti e modesti, anche se,per quanto riguarda l’apprendistato professionalizzante, è intervenuta una nuova riforma voltaa semplificarne l’utilizzo e aumentarne la diffusione. Tuttavia, anche questa riforma (introdotta dal-l’art. 23 della L.112/2008) presenta luci ed ombre. Motivata dal tentativo di semplificare le pro-cedure e sbloccare lo stallo attuativo, la legge ha eliminato, tra le altre cose, sia il limite inferioredi due anni per la stipulazione di contratti sia la regolamentazione pubblica dei profili formativi.Questi ultimi, infatti, non sono più affidati a regioni e province autonome, ma alla contrattazionecollettiva, ovvero ad aziende e sindacati. Il positivo intento semplificatore è controbilanciato daalcuni rischi importanti. Infatti, accorciando la possibile permanenza in azienda, si diminuisce ul-teriormente l’incentivo ad investire nella formazione del giovane, un rischio reso più concreto

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dall’estromissione dell’ente pubblico che avrebbe dovuto garantire quell’elemento di forma-zione esterna necessaria per una preparazione di base più completa, solida e flessibile nonché agarantire un’uniformità degli standard qualitativi. Una scelta che, in un certo senso, ci allontanadai modelli come quello tedesco, imperniato su una forte compenetrazione tra formazioneaziendale e formazione scolastica e un’alta collaborazione tra pubblico e privato.

3.3 Precarietà e qualità del lavoro

Nel corso degli anni Novanta, in risposta ad un periodo di espansione economica chenon generava posti di lavoro, molti paesi europei hanno avviato politiche volte a flessibilizzareil mercato del lavoro. In alcuni casi, come in Italia, queste iniziative più che modificare la re-golamentazione delle forme di lavoro tradizionali , hanno introdotto nuove forme contrattualia tempo determinato meno costose e più flessibili. Queste riforme hanno portato benefici perun certo periodo, dando impulso ad un calo sostanziale della disoccupazione in molti paesi,tra i quali spicca in modo particolare la Spagna, dove il tasso di disoccupazione è passato dal22% all’8% nel 2007. Tuttavia gli iniziali entusiasmi non avevano tenuto conto di alcuni aspettifondamentali. Innanzitutto, non modificando in modo sostanziale la flessibilità di chi era già sta-bilmente inserito nel mercato del lavoro, le riforme non hanno introdotto un vero dinamismoe ricambio nelle persone, competenze e modi di lavorare; né hanno indotto le imprese ad in-vestire di più in formazione e ammodernamento della loro forza lavoro. In secondo luogo, eproprio a causa di quanto appena descritto, tali riforme non hanno contribuito a migliorarené la qualità del lavoro generato né la produttività del sistema nel lungo periodo (che ha vistouno stallo negli ultimi anni in paesi come la Spagna e addirittura un calo in Italia).

Numerosi economisti a livello internazionale hanno analizzato questo fenomeno, mo-strando che la diffusione del lavoro temporaneo è una misura che facilita sia la creazione chela distruzione di lavoro. Gli studi evidenziano inoltre che gli effetti di “distruzione” sono parti-colarmente pronunciati in quei sistemi, come la Spagna e l’Italia, in cui il divario tra flessibilitàdel lavoro temporaneo e rigidità di quello a tempo indeterminato è più pronunciato3. Altrihanno dimostrato come questa dualità del mercato del lavoro aumenti la sua volatilità e dan-neggi la produttività e la crescita del paese4. Altri addirittura sostengono che questa situazione,nel lungo periodo, possa avere effetti perversi e portare ad un aumento della disoccupazione5.

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3 In Bentolila S., P. Cahuc, J. J. Dolado, and T. Le Barbanchon (2010), “Unemployment and Temporary Jobs in the Crisis: Comparing Franceand Spain”, FEDEA, Madrid.4 Boeri T. and P. Garibaldi (2007), "Two Tier Reforms of Employment Protection Legislation. A Honeymoon Effect?" Economic Journal,:F357-F3855 Blanchard, O. J. and A. Landier (2002), “The Perverse Effects of Partial Labor Market Reform: Fixed Duration Contracts in France”,Economic Journal 112, 214-244.; Cahuc, P. and F. Postel-Vinay (2002), “Temporary Jobs, Employment Protection and Labor Market Per-formance”, Labor Economics 9, 63-91.

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Un elemento ancora più preoccupante è legato al fatto che, visto che la flessibilizza-zione non ha toccato le posizioni lavorative già stabili, le nuove forme contrattuali sonostate utilizzate per lo più per le nuove entrate nel mercato del lavoro, ovvero i giovani. Que-sto significa che intere nuove generazioni di lavoratori hanno avuto maggiore flessibilità nel-l’entrare nel mercato del lavoro, ma non altrettante nel costruirvi una carriera, poiché sisono scontrate con il muro della rigidità di chi è entrato prima di loro. Questo implica, permolti giovani, la permanenza per periodi più o meno lunghi in posizioni lavorative più de-boli, meno gratificanti e peggio retribuite, con conseguenze negative non solo sulla lorovita privata, ma su tutta la capacità di crescita del paese (questa maggiore fragilità della forzalavoro si tradurrà infatti in minori consumi, minore contribuzione fiscale, minore produtti-vità e minore crescita).

In Italia sono precari il 10,7% dei lavoratori tra i 25 e i 54 anni (il 14,6% delle donne),una percentuale che sale al 44,4% tra i giovani con lavoro dipendente (15-24) con un incre-mento di 2 punti rispetto ai livelli pre-crisi. Altri paesi con elevati tassi di lavoro temporaneotra i giovani sono Francia e Spagna (51,2% e 55,9%), che sono anche, probabilmente non acaso, paesi ad elevato tasso di disoccupazione giovanile. Al contrario, l’Austria si ferma al35,6%, la Danimarca al 23,6 % e l’Inghilterra all’11, 9% (la media Ocse è del 24,5%). Sembraquindi emergere una correlazione positiva tra diffusione dei contratti temporanei e disoc-cupazione giovanile.

In realtà vi sono anche paesi, come la Germania e l’Olanda, in cui tale correlazione ap-pare invertita e dove si hanno elevati tassi di lavoro temporaneo tra i giovani ma bassi livellidi disoccupazione giovanile.

Come si spiega questo fenomeno? Nel caso della Germania è dovuto al fatto che il la-voro temporaneo in quel paese è associato alla grande diffusione dell’apprendistato e del par-ticolare sistema di alternanza scuola-lavoro. Un sistema che, se da un lato incrementastatisticamente i numeri del lavoro temporaneo, dall’altro, però, rappresenta una forma di la-voro temporaneo altamente formativo che aiuta i giovani ad inserirsi nel mondo del lavoro.Nel caso dell’Olanda, invece, il binomio “alto ricorso ai contratti temporanei e bassa disoc-cupazione giovanile” è legato al particolare sistema di ammortizzatori sociali e di agenzie edenti intermedi di collegamento tra giovani e mondo del lavoro, che stimolano i giovani ad es-sere attivi e agevolano la transizione da un lavoro all’altro (vedi Box 3).

In sostanza, gli unici casi in cui la diffusione di lavoro temporaneo tra i giovani è asso-ciata ad una maggiore probabilità di occupazione sono quelli in cui il lavoro temporaneo è le-gato all’esistenza di istituzioni terze, ben funzionanti, che aumentano la formazione el’occupabilità dei giovani e a meccanismi di ammortizzatori sociali che supportano tali percorsi.In paesi come l’Italia e la Spagna, in cui gli istituti preposti a fare formazione professionale e agarantire i collegamenti tra formazione e lavoro sono debolissimi, il lavoro temporaneo nonha aiutato l’occupabilità dei giovani.

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Germania e Olanda rappresentano però, casi abbastanza isolati. In generale, la diffu-sione del lavoro temporaneo tra i giovani, in Europa, non sembra aver migliorato in modo so-stanziale l’occupazione nel lungo periodo. Se andiamo a vedere i dati della diffusione del lavorotemporaneo, tra i giovani in età 15-24 negli anni Novanta e l’andamento della disoccupazione15 anni dopo nella fascia di età successiva (25-55), vediamo che, la correlazione tra le due va-riabili è positiva, vale a dire: a maggiori tassi di lavoro temporaneo, tra i giovani a metà deglianni ‘90, corrispondono maggiori tassi di disoccupazione tra gli adulti in età 25-55 nel 2008 e2009. Un effetto che, come mostra la Figura 2 (alla pagina seguente), si nota sia prima del-l’esplosione della crisi in Europa (confrontando il dato con la disoccupazione del 2008) sia, inmodo più accentuato, nel periodo più caldo della crisi (disoccupazione del 2009).

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L AVO R ATO R I T E M P O R A N E I – E T À 1 5 - 2 41994 2006 2007 2008 2009

Germania 38 57,6 57,5 56,6 57,2

Spagna 74,4 66,1 62,8 59,4 55,9

Portgallo 24,2 49,3 52,6 54,2 53,5

Svezia 58,4 57,3 53,8 53,4

Francia 40,7 50,8 52,5 51,5 51,2

Paesi Bassi 26,5 43,6 45,1 45,2 46,5

Italia 16,7 40,9 42,3 43,3 44,4

Finlandia 44,2 42,4 39,7 39

Austria 35,2 34,9 34,9 35,6

Belgio 18 30 31,6 29,5 33,2

Norvegia 28,7 27,3 25,5 32,4

Grecia 22 25 27 29,2 28,4

Irlanda 17,9 10,9 19,2 22 25

Danimarca 31,1 22,4 22,2 23,5 23,6

Regno Unito 11,8 12,8 13,3 12 11,9

Media OCSE 20,7 25,1 25,2 24,7 24,5

Tabella 5. Giovani occupati con contratti temporanei come % degli occupati in età 15-24Fonte: Ocse

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% lavoratori temporanei

15/24 (1994)

% lavoratori disoccupati 25-54 (2009)

2

020

4050

60

5 10 15 20

% lavoratori temporanei

15/24 (1994)

% lavoratori disoccupati 25-54 (2008)

2

020

4060

80

4 6 8 10

Figura 2. Correlazione tra lavoro giovanile temporaneo e disoccupazione prima e durante la crisi

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4. Quali politiche?

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Gli strumenti disponibili al legislatore per promuovere e supportare l’occupazione gio-vanile intervenendo sulle tre dimensioni chiave descritte in precedenza (istruzione, forma-zione, lavoro), sono di vario genere e spaziano dalle politiche per l’istruzione agli incentivifiscali per l’assunzione, dagli ammortizzatori sociali all’imprenditorialità. In questa sezione vienecondotta una review dei principali strumenti di policy che, nel corso degli anni, sono statiadottati in vari paesi o indicati dagli esperti come misure utili, portando esempi specifici e, dovepossibile, alcune riflessioni sull’efficacia delle politiche prese in esame.

4.1 Politiche per l’istruzione

Come discusso anche nelle sezioni precedenti del rapporto, l’istruzione ha un ruolomolto importante per l’occupabilità dei giovani: maggiore è il livello d’istruzione ottenuto, mi-nore la probabilità di essere disoccupati. Le politiche legate all’istruzione sono, quindi, un’armafondamentale per la lotta alla disoccupazione, in particolare quelle politiche che mirano ad af-frontare due questioni chiave: da un lato, misure volte a combattere l’abbandono scolasticoprima che siano terminati i percorsi di scuola superiore; dall’altro, misure volte a flessibilizzarei percorsi educativi e formativi sulle capacità e attitudini del giovane in modo da motivarli eaiutarli a sviluppare al meglio il proprio potenziale.

Un esempio in tal senso è rappresentato dal sistema educativo danese (vedi Box 1), in-dicato da molte analisi ed enti internazionali come il migliore in Europa. Un sistema incentratosu una forte personalizzazione dei percorsi formativi dei ragazzi, in modo da tener conto dellepreferenze, dei bisogni e delle capacità di apprendimento degli studenti per massimizzare lamotivazione e le possibilità di successo. Un sistema che è, inoltre, rinforzato da borse di stu-dio e supporti finanziari che incoraggiano i ragazzi a proseguire gli studi e a raggiungere pre-sto una propria autonomia. Un insieme di misure che, come descritto nel Box 1, ha dato finoad oggi buoni risultati.

Investire in politiche per l’istruzione, come quelle danesi, rappresenta chiaramente unostrumento ampio e di lungo respiro e con un impatto importante di spesa (la Danimarca spendecirca il 6,7% del suo PIL per l'istruzione). Tuttavia le politiche per l’istruzione possono essere

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declinate anche in modi più specifici e tradursi in alcune misure immediatamente implementa-bili e a costo zero. Per esempio, una misura che sarebbe particolarmente efficace, soprattuttoin Italia, è quella di far coincidere il termine dell’obbligo scolastico con il conseguimento di untitolo di studio. In questo modo, si potrebbe combattere in modo assai più efficace, l’abbandonoscolastico (oggi molti ragazzi, di fatto, considerano terminato l’obbligo scolastico alla terzamedia, iscrivendosi ai primi due anni delle superiori ma senza frequentare nemmeno). Invece,anche l’ultima riforma della scuola, ha perso questa preziosa occasione. Anzi, con l’ulterioreabbassamento dell’obbligo scolastico a 15 anni, varato nel 2010, il rischio che molti giovani con-siderino concluso il percorso di studi alla fine della terza media è ancora più elevato. Un prov-vedimento che va in controtendenza con gli orientamenti di molti paesi europei, dove si cercaprogressivamente di aumentare l’obbligo scolastico verso i 18 anni. In paesi come Germania,Austria, Belgio e Ungheria, l’obbligo è già a 18 anni, mentre in altri, come i Paesi Bassi, nume-rosi benefici ed ammortizzatori sociali sono legati al proseguimento degli studi fino a 18 anni.

Box 1. Le politiche per l’istruzione in Danimarca

Il sistema educativo danese viene ormai indicato da molte analisi ed enti internazionali come ilmigliore in Europa. Un sistema la cui parola chiave è flessibilità e supporto. Esso si basa, infatti, sullosviluppo di percorsi formativi fortemente personalizzati che tengano conto delle preferenze, dei bi-sogni e delle capacità di apprendimento degli studenti, al fine di massimizzare le loro possibilità di suc-cesso. Per motivare e supportare l’istruzione dei giovani, lo Stato danese concede aiuti, prestiti esovvenzioni agli studenti che frequentano istituti e programmi approvati dal Ministero della PubblicaIstruzione. L’agenzia danese per il sostegno all’educazione (Danish Educational Support Agency) erogainoltre borse di studio per sostenere il costo della vita degli studenti e favorire gli scambi con l’estero.Borse che prevedono assegni di 340 euro per coloro che vivono insieme ai genitori e 690 euro percoloro che vivono da soli. Le borse di studio e i prestiti sono versati sotto forma di rate mensili inun conto corrente bancario personale dello studente (NemKonto), che le autorità pubbliche usanoquando devono erogare denaro. Al termine dei loro studi, gli studenti iniziano a pagare parte dei pre-stiti di Stato. Il rimborso deve iniziare un anno dopo la fine di quello in cui hanno completato i lorostudi. La durata del periodo di rimborso non deve essere superiore a 15 anni. Circa la metà di tuttigli studenti fa uso di prestiti statali.

Esistono poi 45 centri di orientamento giovanile comunale che forniscono servizi di orientamentoper i giovani fino all'età di 25 anni, offrendo una guida alla difficile transizione tra scuola dell’obbligo,istruzione superiore e mercato del lavoro attraverso lo scambio di esperienze, conoscenze e buone pra-tiche. Anche grazie a questo sistema di orientamento e stimolo verso il mondo del lavoro, moltissimi

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4.2 Formazione Professionale

Gli strumenti legati alla formazione professionale e ai percorsi di apprendistato sonoconsiderati tra gli strumenti più efficaci per aiutare l’inserimento nel mondo del lavoro e com-battere la disoccupazione giovanile. Tra i sistemi considerati d’eccellenza vi sono quello tede-sco, con una forte focalizzazione sull’alternanza scuola-lavoro, ma anche sistemi formativiprofessionali ben strutturati come il Vocational Education and Training programme (VET) da-nese o il sistema dei post-diplomi professionalizzanti introdotti in Francia. Anziché passarein rassegna le caratteristiche specifiche di ciascuno, è importante individuare quali siano i cri-teri, le principali chiavi di successo, di un sistema di formazione professionale davvero effi-cace. Dall’analisi dei casi più positivi sono emersi 4 elementi fondamentali: 1. Forte coinvolgimento delle imprese. In Germania, per esempio, la parte del contratto di

formazione svolta in azienda (un’altra parte viene svolta a scuola) viene stipulato diret-tamente tra studente e azienda. Anche i programmi dei corsi di formazione regionalevengono discussi e approvati da un consiglio con forte rappresentanza delle imprese.

2. Forte collegamento con le istituzioni scolastiche e con la formazione “esterna” all’azienda.Una formazione coordinata e finanziata dagli enti locali secondo standard di qualità cherispondono a criteri regionali e nazionali, per bilanciare la necessità di andare incontroalle specificità del mercato locale con una certa uniformità qualitativa in tutto il paese.

3. Percorsi altamente personalizzati: l’obiettivo non è tanto insegnare un mestiere ma for-mare il giovane e renderlo pronto per il mercato del lavoro professionale in tutti i suoiaspetti, in un modo che sappia coltivare e valorizzare al meglio i suoi interessi e le sueattitudini. Questo è quanto avviene, in particolare, nei Paesi Bassi, in Danimarca e quantocerca di fare l’Inghilterra con il programma NDYP (vedi Box 3).

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giovani danesi, nonostante i consistenti aiuti ricevuti durante gli studi, hanno il loro primo contatto conil mercato del lavoro quando sono ancora studenti. Nel 2008, il 48% dei giovani (16 anni) ha ottenutoun lavoro per studenti (Student job). Mentre per quelli di età compresa fra i 23-24 anni, la quota è sa-lita al 70%, che è appena inferiore al tasso del 71 dell’Olanda, noto per essere uno dei più alti d'Europa.

Questo insieme di misure, unite ad un estensivo sistema di ammortizzatori sociali per i giovani, fasì che la Danimarca registri un tasso di abbandono scolastico tra i più bassi dei paesi Ocse (11,5%, quasila metà di quello italiano), un tasso di disoccupazione giovanile molto contenuto, nonché uno dei tassidi “emancipazione” dei giovani più alti d’Europa, vale a dire un’altissima percentuale di giovani che la-sciano la famiglia di origine già al compimento dei 18 anni. L’assenza di “bamboccioni”, in Danimarca, af-fonda le proprie radici non solo in questioni culturali ma anche in politiche ben mirate e coordinate.

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4. Forte enfasi sui percorsi di apprendistato o di stage qualificanti (e retribuiti). Moltipaesi come l’Inghilterra, la Danimarca e la Germania, per esempio, hanno puntatomolto sulla creazione di posti di apprendistato. Di particolare successo l’accordo trien-nale firmato dal Governo tedesco nel 2004 con le associazioni imprenditoriali, in cuile aziende tedesche si impegnavano a creare 30.000 nuovi posti per apprendisti e25.000 percorsi di formazione per giovani in cerca di lavoro (Patto Nazionale per laFormazione Professionale). In Germania l’industria, tradizionalmente, investe moltonella formazione e nell’assunzione dei giovani. I dati dicono che, ogni anno, le aziendetedesche investono 28 miliardi di euro e formano un milione e seicentomila giovaniattraverso apprendistati. L’accordo firmato nel 2004 non ha fatto che rafforzare que-sta sensibilità ed è stato considerato così positivamente da essere rinnovato nel 2007per il triennio successivo.

La questione della retribuzione sta, inoltre, emergendo come tema chiave per l’occu-pazione giovanile. La diffusione di stage non retribuiti in molti paesi europei ha fatto scattareun campanello d’allarme. Non solo la mancanza di retribuzione è un problema per il giovane,ma rischia di sminuire il lavoro, togliendo incentivi sia per l’impresa a valorizzare e formare ilgiovane, sia per il giovane ad impegnarsi al massimo, togliendo ogni vera efficacia allo strumentostage. In risposta a questo problema il governo francese nel 2006 ha siglato un accordo conimprenditori, sindacati, enti di formazione e associazioni studentesche, trasformato poi in leggee, nel 2008, in un decreto attuativo. La legge ha stabilito che, a partire dal quarto mese di ti-rocinio, scatta il dovere di erogare una retribuzione mensile pari ad almeno un terzo del sa-lario minimo garantito (lo SMIC, più o meno 1300 euro al mese). Nel 2009, Sarkozy haannunciato di voler anticipare quest'obbligo a partire dal terzo mese di tirocinio,estendendolo anche al settore pubblico, e di voler introdurre un bonus di 3milaeuro a favore di ogni azienda che assuma uno stagista.

È ancora presto per valutare l’efficacia delle misure francesi ma è necessario evidenziarealcuni suoi possibili effetti perversi. L’aumento dei costi dello stage inevitabilmente porta aduna riduzione dell’offerta; tuttavia, se la domanda di stage continua ad eccedere l’offerta, comenel caso dell’Italia (dove molti ragazzi si lamentano di non trovare uno stage nemmeno gra-tis), il rischio è che gli stage non retribuiti continuino ad esistere (per di più fuori dal sistemalegale). Infine, occorre ricordare che gli stage gratuiti (e molte altre forme di lavoro tempo-raneo sotto retribuito) sono molto più diffusi nel settore pubblico che in quello privato: au-mentare i loro costi solo per quest’ultimo difficilmente può risolvere il problema.

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Box 2. Il sistema di formazione duale in Germania

In Germania la formazione professionale è regolamentata dalla legge del 14 agosto 1969, rifor-mata nel 2005 ed entrata in vigore il 1 aprile dello stesso anno (la Berufsbildungsgesetz - BBiG). LaBBiG ha l’obiettivo di assicurare ai giovani opportunità di formazione sempre migliori e di offrire unaformazione professionale di qualità per tutti. In particolare, la legge riformata prevede una maggioreautonomia d’azione e maggiori responsabilità per gli attori della formazione professionale a livello na-zionale e locale (Länder). In questa legge – sia nella versione attuale che in quella precedente – lo Statoha dichiarato che la formazione professionale extrascolastica è responsabilità del settore pubblico,anche se poi la gestione effettiva viene condotta congiuntamente tra imprese, Camere del lavoro (da-tori di lavoro), sindacati (lavoratori), Länder e Stato federale.

Nel cosidetto sistema duale di formazione tedesco, gli studenti passano tre o quattro giorni allasettimana sul posto di lavoro e due giorni presso la Berufsschule. La formazione si svolge in base a uncontratto di lavoro fra l'azienda, che provvede alla formazione, e lo studente interessato. Il contrattodi formazione professionale definisce gli obiettivi della formazione (a seconda della professione pre-scelta), la durata, il numero di ore dedicate ogni giorno alla formazione, le modalità di pagamento ela remunerazione dello studente. Mentre, nelle esperienze danese e francese, pur prevedendo l’ipo-tesi di vera alternanza lavorativa, si richiede che, nel rapporto tra studente e impresa, si inseriscaanche l’istituto nel quale deve essere svolta la formazione in aula, il sistema duale tedesco prevedeche il contratto di lavoro venga stipulato direttamente fra studente e impresa. Tuttavia, anchein Germania, come negli altri paesi, l’organizzazione di questo tipo di formazione non è comunquemai lasciata completamente alla libertà delle parti, in quanto sono sempre indicati i requisiti minimi diaccesso, di durata e di ripartizione del carico di ore fra formazione in aula e sul luogo di lavoro. Laresponsabilità della pianificazione, della gestione e del percorso di formazione, ma anche del recluta-mento dei formatori è del Consiglio dei rappresentanti degli imprenditori (Betriebsrat). Le attività diformazione sul luogo di lavoro vengono finanziate dalle aziende, mentre il percorso scolastico nel-l’ambito della Berufsschule viene sovvenzionato dai Länder. Così, accanto ai programmi quadro nazio-nali, i Länder tedeschi intervengono nella definizione del curriculum accanto agli operatori dei varisettori economici, per assicurare un’aderenza maggiore alle caratteristiche del mercato locale, finoad arrivare ai curricula personalizzati elaborati coinvolgendo lo studente, l’istituto che fornisce la for-mazione teorica e l’impresa che ha stipulato il contratto con lo studente stesso. Gli studenti chehanno completato la formazione professionale nell’ambito del sistema duale sono pronti per in-traprendere una professione; infatti, la formazione sul luogo di lavoro li ha abituati a ogni aspettodel mondo del lavoro. Nella maggior parte dei casi, al completamento della formazione, in alternanza,gli studenti trovano lavoro nelle stesse aziende dove hanno svolto la formazione pratica.

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4.3 Ammortizzatori sociali

In Italia quando si parla di ammortizzatori sociali si fa riferimento per lo più al sistemadi cassa integrazione, un sistema rivolto ai lavoratori stabilmente inseriti nel mercato del la-voro. Tuttavia in molti paesi europei - come per esempio nei Paesi Bassi e in Danimarca - esi-stono sistemi di ammortizzatori sociali che supportano l’inserimento dei giovani nel mercatodel lavoro. Non si tratta di sussidi di disoccupazione, ma di misure che aiutino il giovane nellefasi di ricerca del lavoro o di transizione da un lavoro all’altro, misure vincolate ad alcune con-dizioni di “attività”, ad un effettivo impegno in attività di formazione e di guida personalizzata.

È chiaro che questi ammortizzatori devono essere inquadrati in un sistema più ampiodi Welfare che sappia utilizzarli come strumenti d’attivazione per stimolare l’intraprendenzae le potenzialità dei giovani inoccupati e non come meri sussidi per casi estremi di disoccu-pazione ed inattività. Uno dei casi analizzati, quello dei Paesi Bassi, è sintetizzato nel Box 4, edevidenzia proprio l’importanza di un’azione coordinata su vari fronti e continuativa nel tempo.Ma quali sono le caratteristiche essenziali dei sistemi di maggior successo? Dall’analisi emer-gono quattro punti chiave:1. Sono sistemi fortemente legati alla formazione, quindi, tendono a ricollocare rapida-

mente il giovane disoccupato dentro percorsi formativi che gli permettano di acquistarele competenze necessarie a restare competitivi nel mercato del lavoro.

2. Si fondano su un forte coordinamento tra enti locali e autorità centrali, in unaprospettiva decentrata, che permetta vicinanza al cittadino, ma inserita in un quadro diregolamentazione e coordinamento centrale molto efficace che assicuri certi standardqualitativi in tutto il paese.

3. Nascono, come nel caso olandese, da iniziative che vedono il coinvolgimento di tuttele parti interessate, dai sindacati al mondo delle imprese passando per le autoritàpubbliche.

4. Sono sistemi legati all’impegno, all’attivazione, e, dato non irrilevante, ai risul-tati, come nel caso del “New Deal for Young People”, l’ambizioso programma attuatodal governo inglese e sintetizzato nel Box 3, in cui, non solo i giovani perdono i bene-fici se abbandonano i percorsi di formazione previsti per il loro inserimento nel mondodel lavoro, ma anche le agenzie che gestiscono i programmi ricevono parte dei fondisulla base dei risultati ottenuti.

Chiaramente non si tratta di sistemi a impatto zero sul bilancio dello Stato, anche se icosti variano molto a seconda dei programmi messi in piedi (si va da misure molto specifichee controllate come il programma inglese NDYP, con basso impatto sulle casse dello Stato, aprogrammi molto costosi come quello danese). Tuttavia, i costi vanno confrontati con i risul-tati: nel caso della Danimarca, per esempio, è vero che questo paese registra la più alta spesa

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in politiche del lavoro di tutti i paesi Ocse, ma è altrettanto vero che esso ha uno dei tassi didisoccupazione (giovanile ed adulta) più bassi dei paesi occidentali, con tutto ciò che questocomporta in termini di riduzione del disagio sociale e della povertà, formazione della forza la-voro, contribuzione fiscale e così via.

Per quanto riguarda l’Italia, il sistema di ammortizzatori sociali è prevalentemente an-corato al sistema della cassa integrazione e alle indennità ordinarie di disoccupazione, en-trambe misure che tendono ad escludere i giovani6 e, soprattutto, misure che supportano lecondizioni più estreme di inattività ma che non stimolano la riqualificazione, la formazione, l’at-tività e l’occupabilità. Aprire un dibattito serio e concreto sulla possibilità di modificare ed in-tegrare l’attuale sistema di ammortizzatori sociali, in modo da supportare la formazione el’occupabilità dei giovani, potrebbe rappresentare un importante passo per affrontare la que-stione dell’occupazione giovanile in Italia.

Box 3. Il “Nuovo Patto per i Giovani” del Regno Unito

Il “New Deal for Young People” (NDYP) è stato introdotto in Gran Bretagna nel 1998 comeuna delle misure fondamentali di welfare per contrastare la disoccupazione giovanile. Possono par-tecipare i giovani che rientrano nella fascia d’età 18-24 e che cercano un’occupazione da almeno seimesi. Il programma prevede un piccolo stipendio che però è vincolato alla partecipazione al pro-gramma di formazione/inserimento. L’obiettivo del programma è aumentare il livello di occupazionedei giovani fornendo nuove competenze ed esperienze di lavoro.

Come funzionaIl giovane in cerca di lavoro firma un accordo (Jobseeker Agreement) che viene visualizzato da

un Personal Adviser, il quale traccia un piano d’azione fortemente individualizzato. Viene svolta quindi unavalutazione rapida delle sue competenze e viene stimata la sua distanza dal mercato del lavoro attra-verso strumenti di valutazione standardizzati. Dopo questo approccio iniziale, la prima fase di NDYP- chiamata Gateway - prevede consulenza e aiuto intensivo nella ricerca di un lavoro per circa quat-tro mesi. Il Personal Adviser incontra ogni due settimane il ragazzo, lo aiuta a compilare un CV, discutesulle sue prospettive di carriera e sui lavori che può ottenere con le competenze già acquisite. I gio-vani che non hanno trovato lavoro entro la fine del periodo di “Gateway” sono obbligati a sceglierefra una delle seguenti quattro opzioni: formazione a tempo pieno o apprendistato, lavoro nel settore

6 Un giovane agli inizi della carriera lavorativa spesso non rientra dentro questo sistema di garanzie, perché occorrono 12 mesi di con-tributi versati; per non parlare dei giovani che lavorano con uno status di collaboratori, partite iva o altre forme del genere, molto dif-fuse ma con scarse protezioni sociali.

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del volontariato, il lavoro in una task force ambientale o occupazione sovvenzionata. È il Personal Advi-ser, previo accordo con l’interessato, che decide quale delle opzioni è più adatta. Durante questa se-conda fase, che dura dai sei agli otto mesi, il giovane non viene più considerato disoccupato. Se ilragazzo rimane comunque disoccupato a termine di questo secondo periodo, il Personal Adviser con-tinuerà a svolgere il suo ruolo di counseling per altre 26 settimane. Il NDYP è un programma forte-mente individualizzato che mira a costruire un percorso specifico per il giovane in cerca di lavoro chelo conduca ad ottenere un’occupazione e nuove competenze. Il Personal Adviser svolge un ruolo guidafondamentale: da un lato, pianifica scientificamente una strategia d’azione che vada incontro alle esi-genze del ragazzo, dall’altro, svolge una funzione esterna di controllo e di motivazione.

Il programma è sottoposto a valutazioni rigorose, i fornitori privati, per esempio, vengono pagatiin base ai risultati raggiunti. Inoltre, sono previste sanzioni durante il periodo delle 26 settimane, se ilgiovane non accetta un lavoro o si rifiuta di partecipare a corsi di formazione.

RisultatiA maggio del 2007 hanno partecipato a questo programma circa 90.000 ragazzi, mentre molti

altri partecipavano ad altri programmi come il New Deal for Lone Parents (14.000 giovani) o il NewDeal for Disabled People (18.000 giovani). I tassi di abbandono nella seconda fase, inizialmente alti,sono calati dal 1999 al 2007. Molti studi hanno, inoltre, dimostrato come il punto di forza del NDYPsia il rapporto di tutoring che si viene a instaurare tra Personal Adviser e giovane disoccupato. Il puntopiù debole sembra, invece, essere la creazione di occupazione sostenibile nel lungo periodo: per que-sto il Governo sta vagliando misure per incentivare e premiare i fornitori provati in tal senso.

Box 4. I Paesi Bassi e l’occupazione giovanile: una strategia integratae di lungo periodo

Da circa dieci anni i Paesi Bassi perseguono politiche molto aggressive per combattere la disoccu-pazione giovanile. I numerosi provvedimenti intrapresi si fondano su due principi chiave. Da un lato, unsistema di ammortizzatori sociali legati a formazione e lavoro (flexsicurity); dall’altro, una grande enfasisul ruolo dell’istruzione e della formazione e una ferma lotta all’abbandono scolastico. I principali prov-vedimenti, adottati dalla fine degli anni Novanta ad oggi, ruotano attorno a questi temi principali e sono:

1999 Flexibility and Security Act, vuole incoraggiare i contratti di lavoro flessibili, supe-rando la rigidità tradizionale del mercato del lavoro aprendolo alle sfide e alle opportunità della con-temporaneità, senza però alimentare l’insicurezza sociale e la precarietà. La legge prevede forme dicoinvolgimento attivo di tutti gli attori sociali e predispone norme a tutela dei lavoratori flessibili che

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ne garantiscono il reddito e la sicurezza sociale. Il limite del periodo di prova è fissato a due mesi.Viene, inoltre, introdotto un numero massimo di tre contratti a tempo determinato che non devonosuperare complessivamente i tre anni, oltre i quali è conferito al lavoratore il diritto di ottenereun’occupazione permanente.

2002 Legge SUWI, istituisce la Struttura per l’Amministrazione del Lavoro e del Reddito(SUWI), definendo soggetti, ruoli e coordinamento tra le attività. Uno dei perni della struttura è rap-presentato dai Centri per il Lavoro e il Reddito (CWI), che sono il punto di riferimento per tutti ipotenziali richiedenti di indennità che cercano un lavoro e che necessitano un sussidio. È un istitutopubblico che si occupa di funzioni comprendenti diversi servizi come la gestione della banca dati na-zionale dei posti vacanti, l’intermediazione attiva, la divulgazione delle informazioni, la consulenza, lapreparazione dei candidati al lavoro e al sussidio, la determinazione della difficoltà nell’immettere i sog-getti nel mercato del lavoro e l’accertamento della possibilità di reintrodurli nel programma. L’ideadi un unico punto di accesso (ovvero uno sportello unico) è centrale nell’esperienza del CWI. Il CWIassicura l’esistenza di un mercato del lavoro trasparente e si coordina con i comuni che sono re-sponsabili per il reintegro di coloro che fanno domanda all’Assistenza Nazionale. I comuni ricevonofondi ed incentivi per il reintegro dal Fondo per il Lavoro e il Reddito (FWI) ed affidano poi la ge-stione dei servizi ad agenzie private.

2003 Youth Unemployment Action Plan, un piano con l’obiettivo di ridurre la disoccupa-zione giovanile creando 40.000 nuovi posti per giovani e promuovendo il ritorno dei giovani disoc-cupati a percorsi di formazione. Il piano prevedeva 31 misure, tra cui incentivi fiscali per la formazione,finanziamento integrativo per il CWI per consulenze individuali, etc. Tra le misure più significative delpiano vi è la:

Youth Employment Task Force (2003-2007), che ha avuto un ruolo chiave nel promuovere lacooperazione tra Ministeri ed altri soggetti interessati, nel sensibilizzare le aziende e l’opinione pubblicasull’importanza dell’assunzione di giovani e nel promuovere i contatti fra imprese e giovani disoccupati.

2007 The “Qualification law”, obbliga i giovani disoccupati che non hanno concluso il ciclod’educazione di base, a frequentare un programma d’educazione a tempo pieno fino al diciottesimo annod’età. Per i giovani 18-27 che non hanno concluso la scuola secondaria, invece, è stato introdotto l’ob-bligo di frequentare un percorso di formazione che porti al conseguimento di un diploma o di un lavoro.

2009 Youth Unemployment Action Plan, un nuovo piano da 250 milioni di euro per inve-stire sulla formazione dei giovani attraverso cinque azioni principali: 1) mantenere i giovani nellescuole per un periodo più lungo possibile, incentivando la formazione professionale; 2) coinvolgeregli enti locali attraverso accordi che predispongano misure concrete; 3) creare un sistema che facciaincontrare le richieste dei datori di lavoro e i talenti dei giovani; 4) incentivare la possibilità di ap-prendimento, attraverso stage, apprendistato e volontariato; 5) prestare particolare attenzione ai gio-vani con minori opportunità.

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4.4 Incentivi fiscali per l’assunzione di giovani

Di incentivi per l’assunzione di determinati gruppi sociali (giovani, donne, disabili o altrecategorie considerate “a rischio”) si parla in molte occasioni, anche se gli esperti sono spessoscettici sulla loro efficacia per alcuni motivi che vedremo in dettaglio più avanti.

Gli incentivi all’assunzione possono assumere varie forme, dalla defiscalizzazione deglioneri sociali a veri e propri sussidi agli stipendi (wage subsidies), e possono essere indirizzatio alla creazione di nuova occupazione in generale, senza restrizioni sulle categorie di personeassunte (in tal caso vengono usati come strumenti anti-ciclici) oppure all’assunzione di cate-gorie specifiche di persone (donne, giovani, etc.). Tra i più recenti esempi di utilizzo della levafiscale mirata all’assunzione dei giovani troviamo gli Stati Uniti, dove, a Marzo 2010 è stata ap-provata la legge "Employing Youth for the American Dream Act" (EYADA), che stan-zia 8 miliardi di dollari per incentivare le imprese ad assumere giovani svantaggiati e a rischiodisoccupazione e per supportare formazione e assistenza ai giovani.

Gli incentivi all’assunzione, nel complesso, non sono certo strumenti nuovi: varie tipo-logie di incentivi per promuovere l’occupazione, infatti, hanno iniziato a diffondersi già nellaseconda metà degli anni Settanta in Nord America e in Europa. Sia il Canada che gli StatiUniti hanno fatto ampio uso di questi strumenti, ma solo i programmi a portata più generalehanno avuto successo. Specificamente: l’Employment Tax Credit Program, adottato inCanada tra il 1978-81 ed il New Jobs Tax Credit, adottato negli Stati Uniti nel 1977, una mi-sura che prevedeva un sussidio ai salari per tutte le assunzioni che superavano il 2% di au-mento rispetto all’anno precedente.

Al contrario, le numerose iniziative “mirate” a gruppi sociali specifici, come, per esempio,il programma statunitense Work Incentive Program (WIN), per le famiglie povere, ed il Tar-geted Jobs Tax Credit (TJTC), per i lavoratori svantaggiati, sembrano aver avuto risultati piùdeludenti. È impossibile riassumere in poche righe le ragioni dello scarso successo di programmimolto diversi tra loro per obiettivi, risorse e requisiti; ad ogni modo, i principali motivi per cuile iniziative focalizzate su gruppi specifici di lavoratori si sono rivelate deludenti sono: 1. Burocrazia. Spesso gli incentivi fiscali, soprattutto quando sono mirati a gruppi specifici, ri-

chiedono l’espletamento di lunghe procedure burocratiche. Le procedure servono a veri-ficare l’eligibilità e limitare gli abusi, ma il risultato è quello di disincentivare le aziende a farviricorso. Per questo si rileva spesso un elevato livello di sottoutilizzo di questi strumenti.

2. Non incisività sulle caratteristiche della domanda: se il datore di lavoro, a torto o a ra-gione, pensa che un disoccupato di lungo periodo o un giovane neodiplomato o unadonna non siano adatti alle caratteristiche del lavoro svolto nella sua azienda, difficil-mente cambierà idea per uno sconto sulle tasse. A meno che non vi siano misure cheintervengano sulla formazione e riqualificazione del lavoratore, difficilmente gli incentivisaranno capaci di modificare la struttura della domanda, soprattutto nel lungo periodo.

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4.5 Misure normative relative al mercato del lavoro: il contratto unico

Nonostante molti aspetti legati al fenomeno della disoccupazione giovanile abbiano ra-dici in larga parte socio-economiche, tra le politiche attivabili per contrastarla vi sono anchestrumenti giuridici legati al funzionamento del mercato del lavoro. Infatti, così come hanno ri-levato molti economisti, alcune problematiche legate all’occupazione giovanile sono state am-plificate in alcuni paesi da un’incompleta e mal attuata deregolamentazione del mercato dellavoro che ha dato luogo al cosiddetto “mercato duale”. Si intende per mercato duale un mer-cato da un lato estremamente flessibile, volatile e con scarse, se non nulle, forme di protezionesociale per una fascia di lavoratori (tipicamente le generazioni più recenti) e, dall’altro, ancorastrettamente regolato e protetto per le fasce di lavoratori già stabilmente inserite nel lavoro.L’Italia e la Spagna sembrano essere tra i paesi europei quelli maggiormente esposti a questoproblema. Forse, anche per questo, sono i due paesi in cui numerosi giuristi ed economisti sisono confrontati sulla possibilità di una riforma del lavoro che contribuisse a rettificare lestorture causate da un sistema normativo inadeguato.

Uno dei perni delle proposte degli esperti, sia spagnoli sia italiani, è l’introduzione di unaspecifica forma di contratto che andrebbe a sostituire tutte le decine di tipologie di contrattia tempo determinato attualmente vigenti sia in Italia che in Spagna. Si tratterebbe, quindi, diun “contratto unico”, come viene definito dai suoi stessi propositori, che sia a tempo inde-terminato ma che preveda un sistema di tutele crescenti col passare del tempo trascorso inquell’impiego. Al di là dei dettagli tecnici del contratto, che variano molto a seconda delle pro-poste prese in considerazione (solo in Italia vi sono almeno quattro disegni di legge in mate-ria), il senso generale dell’idea del contratto unico è quello di creare un contratto a tempoindeterminato con alcune specificità. Si prevede infatti che l’azienda, nei primi anni del rapportodi lavoro (in alcune proposte sono specificati i primi 3 anni), possa interromperlo per motivieconomici. Un’interruzione a fronte della quale il lavoratore avrà però diritto ad un’indennitàdi licenziamento che cresce con l’anzianità acquisita nell’impresa e, in alcune proposte, anchea benefici aggiuntivi come un trattamento complementare di disoccupazione a carico del-l’impresa. Trascorsi i primi tre anni nel rapporto di lavoro (durata che varia a seconda delprogetto di legge), scattano tutte le tutele tradizionali a favore del lavoratore. Questa propo-sta cerca così di andare incontro sia all’esigenza di garantire a milioni di persone una serie di

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In conclusione, e come indicano anche gli esperti, le politiche migliori per aumentarel’occupabilità di fasce più a rischio sono misure che combinano sussidi ai salari con for-mazione, assistenza nella ricerca di lavoro e di crescita professionale: solo con que-sti interventi si riescono ad ottenere risultati efficaci nel migliorare l’occupazione e i livellisalariali delle categorie più a rischio.

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diritti e tutele da cui sono attualmente escluse, sia all’esigenza di mantenere un minimo diflessibilità all’ingresso e di non reintrodurre quelle rigidità iniziali per il datore di lavoro cherappresentano spesso i principali freni alla crescita dell’occupazione.

L’obiettivo della proposta è quello di ridurre la volatilità nel mercato del lavoro per ipiù giovani, incentivare e supportare la loro formazione ed avviamento al lavoro e garantireun minimo di tutele alle fasce di lavoratori attualmente più deboli, in modo da attenuare l’im-patto sociale di fasi di crisi economica come quelle che stiamo attraversando. Si tratterebbequindi di uno strumento normativo che potrebbe avere importanti ricadute su variabili eco-nomiche e sociali.

4.6 Promozione e supporto della cultura imprenditoriale

Molti paesi si stanno accorgendo dell’importanza della nuova imprenditoria comemezzo, non solo per rinnovare il tessuto economico e produttivo, ma anche per generarenuova occupazione. Un recente studio della Kauffman Foundation ha mostrato come dal 1977al 2005 la crescita di occupazione negli Stati Uniti è stata quasi interamente guidata dalla crea-zione di start-up. Le imprese esistenti hanno bruciato, in media, 1 milione di posti di lavoro al-l’anno, mentre le nuove imprese, nel loro primo anno di attività hanno generato 3 milioni diposti di lavoro. Ma come si promuove l’imprenditoria tra i giovani? Le misure adottate neivari Paesi per incentivare la nuova imprenditoria variano considerevolmente. Molte sono fo-calizzate sulla formazione, per creare una nuova generazione di imprenditori e aziende al-l’avanguardia. In Francia, per esempio, vi sono due programmi pubblici nazionali volti adaumentare la cultura e le competenze imprenditoriali tra i giovani: il programma EnterprisesCadettes, che si basa sulla cooperazione tra imprese locali e banche e il programma Grainesd’Entrepreneurs, che viene realizzato attraverso una partnership tra governi regionali e il sistemadelle camere di commercio e dell’industria. Programmi analoghi sono stati realizzati negli StatiUniti (per esempio il Junior Achievement, il National Foundation for Teaching Entrepreneurship, edil REAL, ovvero il Rural Entrepreneurship through Enterprise) e in Canada dove è stato creato ilCentre for Education and Enterprise (CEED), assieme ad altre iniziative regionali come la SouthPeace Secondary School in British Columbia o il Centre for Entrepreneurship and Development(CEED) in Nova Scotia.

In altri casi si adottano agevolazioni fiscali e prestiti agevolati, come i programmi in-glesi Prince’s Trust-Business (PTB) per le start-up ed il Livewire, oppure come il programma ca-nadese Youth Business, che fornisce prestiti agevolati ed altri servizi di supportoall’imprenditoria giovanile. Programmi analoghi sono presenti in Australia (Young Aussie Enter-prises ed il Nescafe Big Breakfast), in Portogallo (come il Sistema de Apoio jovens Emresarios, che

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

copre il 50% dei capitali necessari, o il Quiosque do Invetidor, che aiuta i giovani imprenditoriad identificare e sfruttare opportunità di business) e in Spagna (come la Escuela Taller, rivoltasoprattutto ai giovani tra i 18 e i 25 anni con scarse professionalità).

Anche l’Italia ha adottato un approccio di incentivi fiscali con la Legge 95/95 che preve-deva sia finanziamenti agevolati che a fondo perduto per i giovani tra i 18 e i 29 anni residentiin alcune aree specifiche del paese che avviassero un’impresa nuova. Una misura la cui effica-cia è stata però fortemente messa in discussione da una serie di inchieste su abusi e sulla con-cessione dei finanziamenti ad aziende che, di fatto, non rispondevano ai criteri richiesti.

Al di là dei vari episodi che possono aver creato scetticismo su alcuni strumenti adot-tati in passato, il tema era e resta di grande attualità per l’Italia, soprattutto alla luce delle di-namiche dell’imprenditorialità giovanile degli ultimi anni, anche prima degli effetti della crisi.Come è evidenziato dai rapporti Cerved, già negli anni tra il 2000 e il 2007 le aziende “gio-vani” (definite come quelle realtà produttive in cui il titolare, tutti i soci o tutti gli ammini-stratori non abbiano ancora compiuto 35 anni alla nascita dell’impresa) hanno subito unaforte contrazione, sia nel settore industriale che in quello dei servizi e, sia nelle forme giuri-diche più semplici (ditte individuali) che in quelle più complesse (società di persone e societàdi capitali), con cali che vanno dai 5 ai 13 punti percentuali.

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A Z I E N D E “ G I OVA N I ”2000 2007 Variazioni %

Servizi 39.10% 32.80% - 6.30

Ditte individuali 59% 46% -13.00

Società di persone 23% 17.10% - 5.90

Società di capitali 23.80% 18.60% - 5.20

Industria – 40% –

Ditte individuali 53.60% 41.20% -12.40

Società di persone 27.20% 20.50% - 6.70

Società di capitali 23.40% 19.30% - 4.10

Tabella 6. Incidenza delle imprese “giovani” (2000-2007)

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

Nell’industria, tra il 2000 e il 2007, la quota di imprese giovani sulle nuove nate si è ri-dotta dal 53,6% al 41,2% per le ditte individuali, dal 27,2% al 20,5% per le società di personee dal 23,4% al 19,3% per le società di capitale7. Stesso trend si rileva nel settore dei servizi.

Complessivamente nel 2000 il 39,1% delle aziende nate nei servizi “business to busi-ness” erano imprese under 35; la percentuale ha toccato un picco nel 2002 (il 40,3%), ma poiè costantemente calata ed è scesa al 32,8% nel 20078.

È chiaro che un aumento “quantitativo” delle start-up giovani non implica necessaria-mente un aumento qualitativo delle stesse e del tessuto economico-produttivo del paese. Perquesto è importante che politiche volte a rafforzare la capacità imprenditoriale delle nuovegenerazioni includano percorsi che stimolino l’imprenditorialità, che rendano familiari le nuovetecnologie, le più avanzate conoscenze manageriali e i processi di internazionalizzazione. Par-ticolarmente importante, poi, è un’assidua attività di mentorship per le aziende nei primi annidi vita e anche prima della fase di start-up. Non è solo l’assenza di fondi che penalizza i gio-vani imprenditori, ma la mancanza di attività di stimolo, indirizzo e supporto manageriale. InItalia si parla spesso della necessità di rafforzare il mercato del venture capital, ossia di quelleorganizzazioni che finanziano e supportano le imprese dalla nascita alla quotazione in borsa.Ma i venture capital crescono dove sono le buone idee, perché di questo si alimentano: dimolte e buone idee imprenditoriali. Numerosi venture capital nazionali ed internazionali se-gnalano che il flusso di progetti realizzabili proveniente dall’Italia è ancora scarso e debole. Perquesto è importante agire su vari fronti, dalla formazione al supporto progettuale pre-avvia-mento. In quest’ottica integrata le politiche per l’imprenditorialità giovanile possono divenirebuoni strumenti di crescita occupazionale e di riqualificazione del sistema produttivo del paese.

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7 Interessante notare come il calo delle imprese giovani sia stato frenato dalla crescita rapida e strutturale dell’imprenditoria straniera.Tra il 2000 e il 2007, la percentuale di nascite di ditte individuali giovani non italiane è passata dal 12,8% al 30,4%.8 È’ importante sottolineare come tale calo sia solo in parte attribuibile alle dinamiche demografiche del nostro paese, che hanno vistoun calo del peso dei giovani tra i 18 e i 34 anni sulla popolazione totale dal 24,6% nel 2000 al 21,2% nel 2007. Se si rapporta il numerodi imprenditori sotto i 35 anni alla popolazione della corrispondente classe di età per neutralizzare l’effetto demografico, si nota comela quota di giovani che ha avviato una nuova attività produttiva si riduce da 15,6 su 10.000 nel 2000 a 11,8 su 10.000 nel 2007.

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C A P I T O L O 2 TRE PROPOSTE PER RIPARTIRE DAI GIOVANIdi Marco Simoni

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1. Introduzione 40

2. Una regola fiscale: 43legare il recupero dell’evasione alla riduzione delle tasse. A partire dai giovani

3. Tagliare tre nodi: 46difficoltà di credito, eccessiva tassazione, peso della burocrazia

4. Uno scambio tra generazioni: 50finanziare le borse di studio innalzando di un anno l’età pensionabile

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

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I N T R O D U Z I O N E

Il tema della disoccupazione giovanile in Italia ha due facce. Da un lato è legato alla de-bolissima dinamica della crescita del nostro paese che, negli ultimi dieci anni, ha fatto regi-strare il più basso tasso di crescita del mondo. Inevitabilmente, i giovani, che si trovano all’iniziodel loro percorso lavorativo, pagano maggiormente la riduzione di opportunità che la crisiporta con sé. La mancanza di politiche orientate alla crescita economica e il pesante fardellodel debito pubblico pesano soprattutto sulle giovani generazioni.

A queste ragioni, strettamente economiche, si sommano ragioni relative alle scelte di-stributive operate dai governi degli ultimi venti anni in termini di spesa, di regolamentazionedel mercato del lavoro, di (mancate) liberalizzazioni.

La fragilità occupazionale delle generazioni giovani e la sostanziale assenza di supportopubblico che esse ricevono dallo Stato sono dati, crediamo, evidenti non solo dalle statistichema dall’esperienza quotidiana della maggioranza degli italiani.

È importante riconoscere che se la politica può far molto per correggere le storture di-stributive e gli incentivi perversi che sembrano caratterizzare l’Italia contemporanea, essa perònon può tutto. La ripresa economica, una nuova stagione di crescita e l’aumento dell’occupa-zione giovanile dipendono largamente dalla ripresa dell’attività privata, dal migliore funziona-mento dei mercati, dall’accelerazione della produttività e da un fisco più snello ed equilibrato.

Questo per dire, in poche parole, che il tema della disoccupazione giovanile non è unaquestione settoriale ma è la questione economica e sociale principale per la nostra nazione,che riguarda la ricerca di un modello di sviluppo per il paese. È ormai chiaro che, esaurito ilmodello di sviluppo del dopoguerra, negli scorsi venti anni la classe politica non è stata ingrado di individuare una nuova traccia sulla quale l’economia potesse ripartire, traccia versola quale, al contrario, è urgente orientarsi.

Pertanto, le tre proposte che presentiamo qui non vanno lette come esaustive. Esse nonpossono sostituire o compensare altri capitoli fondamentali che, pur riguardando solo indiret-tamente i giovani, proprio dei giovani andrebbero a maggior beneficio. Su ognuno di questi ca-pitoli l’intervento della politica dovrebbe essere coraggioso e sostanziale e, su molti di essi,Italia Futura è intervenuta più volte negli scorsi mesi. È auspicabile un alleggerimento della tas-sazione sul lavoro, in parte compensata da una più attenta e non distorsiva tassazione sulle at-tività finanziarie e sulle rendite. È urgente una ripresa vigorosa delle liberalizzazioni dei mercati

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e delle professioni: l’Italia continua ad essere, tra i grandi paesi europei, quello con il più altotasso di regolamentazione, con una conseguente presenza di rendite monopolistiche che stroz-zano le opportunità di crescita. È necessario – come richiamato recentemente anche dal Go-vernatore Draghi – un intervento unificante sulla disciplina del mercato del lavoro che,favorendo il lavoro stabile, renda più serena la vita delle persone e contribuisca ad una ripresadella produttività. Ormai da anni alcune proposte importanti e autorevoli sono presenti sul ta-volo e sarebbe ora che la politica le prendesse seriamente. È fondamentale tornare a investiresulla formazione e sulla ricerca, portando a termine riforme che da venti anni vengono scritteper poi arenarsi all’ultima boa, lasciando gli studenti italiani sempre meno preparati rispetto ailoro colleghi europei e le nostre università dimenticate dalle classifiche internazionali.

Le proposte che presentiamo qui non hanno la dimensione di riforme di sistema, nonprefigurano grandi interventi. Tuttavia, direttamente o indirettamente, affrontano tutti i temiappena richiamati: il tema della riforma fiscale, il tema del lavoro dipendente, il tema della sem-plificazione burocratica, il tema della produttività e dell’innovazione, il tema della formazionee del capitale umano. Sono dunque tre proposte ambiziose che, se attuate, consentirebbero,crediamo, un salto di qualità nell’arco di pochi anni, con riferimento a tre questioni: quelladegli squilibri distributivi, quella del patto fiscale tra cittadini, quella della crescita economica.

Iniziando dalla prima, in Italia, esiste un evidente squilibrio distributivo a svantaggio dellegenerazioni giovani. Questo avviene per il sommarsi di tre fattori, tra loro separati. Primo, ladebolissima dinamica del mercato del lavoro con riguardo ai gruppi più giovani; secondo, la po-vertà di risorse di welfare a cui i giovani possono accedere; terzo, il fatto che i lavori non sta-bili si concentrino essenzialmente tra i giovani. Questo squilibrio distributivo va corretto perdue ragioni: la prima è un’elementare ragione di giustizia sociale. La seconda è relativa al fattoche il sistematico depauperamento delle generazioni giovani equivale al depauperamento delfuturo del paese. Pertanto, ognuna delle tre proposte contiene elementi di ridistribuzione afavore dei giovani italiani. Tuttavia, in ognuna delle proposte, è costantemente presente la ri-chiesta esplicita di un’assunzione di responsabilità, come parte necessaria di un nuovo pattodi convivenza, fondato sulla giustizia e orientato alla crescita.

Secondo, qualsiasi politica economica, anche se basata sul principio dell’equilibrio di bi-lancio, ha bisogno di risorse che vanno raccolte o la cui destinazione va modificata. Noi cre-diamo che parte fondamentale della crisi italiana si manifesti in una slabbratura del pattosociale tra cittadini e fisco da un lato, e tra diversi gruppi di contribuenti dall’altro. Di con-seguenza, in Italia non è più possibile suggerire capitoli di spesa in maniera credibile senzacontemporaneamente indicare voci di entrata. Inoltre, questo legame non deve essere me-ramente funzionale o quantitativo, ma deve essere presente con chiarezza un legame di so-stanza tra capitoli di maggiore spesa (o minori entrate) e capitoli di entrate (o minore spesa).Un nuovo patto fiscale tra lo stato e i cittadini deve fondarsi sulla trasparenza delle misure,sulla chiarezza e responsabilità nell’impiego dei fondi pubblici e sulla conseguente onestà dei

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contribuenti. È necessario invertire lo schema che ha caratterizzato l’Italia del passato recentenel quale si combinavano una sostanziale irresponsabilità nella gestione della spesa pubblica,caratterizzata da discrezionalità senza accountability, con una sostanziale tolleranza nei con-fronti dell’evasione fiscale.

Infine, ognuna di queste tre proposte è pensata per favorire la crescita economica,perché senza la fine del lungo ventennio della stagnazione economica, ogni altro obiettivo saràprecluso. Nell’individuare le tre proposte abbiamo dunque cercato di evitare elementi di-storsivi, tentando di ridurre l’impatto intrusivo dello stato nel mercato, mentre, al contrario,si aumenta l’intervento pubblico per sostenere i fattori che incrementano la produttività ela competitività. Questo ha compreso un peso minore della tassazione, una maggiore facilitànell’attività privata e un sostegno forte alla formazione delle persone che sono il capitalepiù importante del paese.

Sono tre proposte che guardano con grande fiducia e speranza all’Italia del futuroprossimo.

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P R O P O S T A 1Una regola fiscale: legare il recupero dell’evasione alla riduzione delle tasse. A partire dai giovani

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In Italia la pressione fiscale sul lavoro dipendente è eccessiva, il cuneo fiscale – ossia ilcosto del lavoro dovuto alla pressione fiscale – è superiore alla media europea ed è una dellecause delle deboli dinamiche occupazionali. Questo giudizio è condiviso dal mondo accade-mico, imprenditoriale, sindacale. Allo stesso tempo l’Italia è uno dei paesi Europei in cui l’eva-sione fiscale è più elevata, facendo sorgere nel lavoro dipendente la sensazione di pagarel’illegalità contributiva due volte. La prima volta perché, a causa dell’evasione, finisce per pagaretroppo chi – imprese e lavoratori dipendenti – non può evadere. La seconda volta perché, acausa di un’imposizione sul lavoro troppo elevata, le opportunità occupazionali sono inferioririspetto a quelle che potrebbero essere. Stime recenti del Sole 24 Ore suggeriscono che l’am-montare complessivo di mancate entrate supera i 100 miliardi di euro, il che significa che oltreil 15% del PIL, secondo le stime dell’ISTAT, sfugge all’imposizione. Il contrasto all’evasione fiscaleha caratterizzato tutti i governi degli ultimi quindici anni. Tuttavia, in assenza di meccanismi diresponsabilità e trasparenza nell’uso delle risorse aggiuntive così recuperate, la lotta all’evasioneè stata spesso vissuta dai contribuenti come un’ingiusta caccia al capro espiatorio, svolta conmetodi draconiani ma, soprattutto, finalizzata ad alimentare una spesa pubblica troppo spessonon produttiva e non gestita secondo criteri di efficienza ed efficacia. Basti pensare che il de-bito pubblico negli ultimi dieci anni è continuato ad aumentare, raggiungendo livelli talmente altida mettere a repentaglio le possibilità di futura crescita economica.

Per interrompere questo circolo vizioso è necessario ristabilire un patto fiscale tra-sparente che, da un lato leghi lo Stato ai cittadini, dall’altro sia fattore di coesione tra i citta-dini, a diverso titolo contribuenti e fruitori di servizi pagati con la fiscalità generale. Perricostruire il patto fiscale pensiamo sia necessario che lo Stato inizi a chiedere meno risorseai suoi cittadini e allo stesso tempo pretenda che quanto chiesto venga corrisposto. Soprat-tutto è importante che i cittadini abbiano la percezione di come questo legame li vincoli a unrapporto di reciproco rispetto.

Per questa ragione, proponiamo che il recupero dell’evasione venga utilizzato per ri-durre l’imposizione. È una proposta che nei suoi principi generali era stata enunciata negliscorsi mesi da Italia Futura e, che ora, può essere formulata in maniera puntuale. Negli ultimi

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tre anni, diverse manovre finanziarie hanno ascritto oltre 35 miliardi di euro di maggiori en-trate al recupero dell’evasione. Nella più recente manovra correttiva, caratterizzata da tagliorizzontali e nuove entrate, queste ultime sono state quasi interamente dipendenti da unaprevisione di un recupero dell’evasione fiscale pari a 8 miliardi di euro. Vi sono due errori fon-damentali in questa impostazione. Innanzitutto, inserire a bilancio preventivo un aumentodelle entrate dovuto a un ipotetico recupero dell’evasione significa esporsi all’incertezza chetale recupero non avvenga e, dunque, prepararsi a dover affrontare un buco di bilancio in unmomento successivo. Alternativamente, qualora il recupero dell’evasione fiscale fosse supe-riore alle attese, significa – da un punto di vista pratico – ipotizzare di trovarsi con delle ri-sorse aggiuntive da usare in maniera discrezionale e, dunque, in balia della trattativa politicaex-post. Si ricordano, a questo proposito, poco edificanti discussioni su un fantomatico “te-soretto”, termine con cui governi di qualche anno addietro avevano identificato un extra-get-tito non programmato.

In entrambi i casi, sia quando si ascrivano preventivamente a bilancio risorse non an-cora recuperate dall’evasione, sia quando ci si trovi ex-post ad aver tassato i cittadini senzauna ragione chiara e, dunque, con delle risorse inutilizzate, si sta violando un elementare prin-cipio di trasparenza che dovrebbe legare chi paga le tasse a chi quelle tasse ha il dovere diusarle a fini precisi e certi. Allo stesso tempo, in presenza di una tassazione così elevata, pen-sare di continuare a recuperare l’evasione a fini di aumento della spesa, significa perseverarenei comportamenti che hanno portato il paese ad avere il terzo maggiore debito pubblico deipaesi industrializzati.

Noi proponiamo pertanto di approvare una nuova regola fiscale. Questa regola pre-vede che la Ragioneria Generale dello Stato stimi ex-post, ovvero alla fine di ogni eserciziofinanziario annuale, l’ammontare dell’evasione fiscale recuperata al netto dei costi sostenutiper il recupero stesso. La stessa norma deve prevedere che tali risorse vengano interamenteimpegnate per ridurre il cuneo fiscale dei lavoratori dipendenti in età compresa tra i 15 e i34 anni, fino a che non raggiunga un valore del 10% inferiore alla media della vecchia UE a15 (cfr l’allegato per una tabella riassuntiva). Una volta raggiunto questo risultato, successiveriduzioni del cuneo legate al recupero dell’evasione riguarderanno le altre classi di età.

Alcune stime, per quanto approssimate, possono dare un’idea della dimensione di que-sta proposta. I calcoli più prudenti, in eccesso, su dati della contabilità nazionale, suggerisconoche il gettito fiscale, associabile al cuneo fiscale sui lavoratori dipendenti tra i 15 e i 34 anni, èpari a circa 80 miliardi di euro l’anno (dati riferiti al 2008). Si tratta, ripetiamo, di una stima ineccesso. Calcoli basati sul reddito individuale medio dei dipendenti giovani suggeriscono cifrenotevolmente più contenute ma le nostre conclusioni, qualora le cifre reali fossero più bassene verrebbero rafforzate. La manovra correttiva varata nella primavera del 2010, come già ri-cordato, ha previsto per l’esercizio successivo maggiori entrate, a seguito del recupero del-l’evasione fiscale, pari a 8 miliardi di euro. Ipotizzando che tale cifra venisse raggiunta,

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l’applicazione della regola fiscale che noi suggeriamo consentirebbe di ridurre il cuneo fiscaleper i dipendenti tra i 15 e i 34 anni del 10%. Confermando un recupero dell’evasione di egualeportata per due anni successivi, dunque pienamente nei parametri delle manovre finanziariedei governi più recenti, sarebbe possibile ridurre il cuneo circa del 20% in due anni per i gio-vani, consentendo di intervenire nella riduzione anche per altre fasce d’età. Il vantaggio eco-nomico derivante dalla riduzione del cuneo dovrebbe essere equamente ripartito tralavoratori – nella parte relativa all’Irpef – e imprese. Essa determinerebbe, dunque, da un lato,un beneficio visibile in termini di salario netto, dall’altro, una riduzione non indifferente delcosto del lavoro.

Noi crediamo che questa proposta abbia tre pregi fondamentali. Innanzitutto dimostra,sulla base di semplici stime verificabili e replicabili su dati pubblici, che è possibile ridurre il ca-rico fiscale e l’evasione fiscale semplicemente modificando le scelte politiche. In altre parole,una politica più lungimirante avrebbe potuto prendere questo provvedimento già da tempo,solo la mancanza di volontà, e non cause esterne, determinano lo svantaggio economico di cuisoffrono i giovani italiani oggi. Secondo, se approvata, una riforma del genere avrebbe imme-diati effetti benefici sul reddito dei giovani lavoratori dipendenti. Essi sarebbero visibili, inver-tendo la tendenza degli ultimi quindici anni che ha visto i giovani sempre svantaggiati in terminidistributivi: questa è una ragione importante che giustifica la proposta di cominciare dai piùgiovani nella riduzione dell’imposizione fiscale. Terzo, la riduzione del costo del lavoro, che an-drebbe perseguita anche con altri strumenti di politica economica non indirizzati prioritaria-mente ai giovani e, dunque, non discussi in questa sede, avrebbe l’effetto di incentivarel’assunzione di nuove persone, contribuendo a favorire l’occupazione stabile nel nostro paese.Ridurre il costo del lavoro standard aiuta a rendere meno profittevole, dal punto di vista deicosti, l’assunzione con contratti a flessibilità estrema e, dunque, favorisce l’occupazione sta-bile. Questo potrà avere anche effetti positivi sulla produttività del lavoro che, come docu-mentato da recenti studi, ha sofferto negativamente di un eccessivo proliferare dell’uso dicontratti di lavoro precari.

Infine, la regola fiscale, una volta approvata, riduce la discrezionalità di spesa per il tempoin cui è in vigore. Legare in tal modo il recupero dell’evasione alla riduzione delle tasse con-tribuisce a restituire valore etico all’onestà contributiva. Valore etico che non dipende danorme astratte e lontane ma dal patto di convivenza tra cittadini che condanni comportamentiscorretti, non dal pulpito di uno Stato assente e inefficiente, ma dalla vicinanza di chi, da quelcomportamento onesto, riceverà un beneficio diretto.

In questi anni la lotta all’evasione ha avuto sempre il volto minaccioso di una sanzione,spesso preventiva, e quello ottuso della burocrazia che complica la vita dei cittadini e delle im-prese. Al contrario, le armi più incisive per la lotta all’evasione sono quelle della chiarezza edefficacia della spesa, della riduzione dei carichi di imposta eccessivi e di regole che rendanochiaramente percepibili le sue conseguenze antisociali.

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P R O P O S T A 2Tagliare tre nodi: difficoltà di credito, eccessiva tassazione, peso della burocrazia

Secondo un recente rapporto curato dalla Banca Mondiale, l’Italia è all’ottantesimoposto per quanto riguarda la facilità di fare impresa. Si tratta di un risultato talmente grave enegativo dall’essere persino di difficile decifrazione. Tutti i paesi dell’Europa occidentale, granparte dei paesi americani e asiatici, ma anche quasi tutti i paesi dell’Europa orientale hanno unsistema di regole, tassazione, infrastrutture materiali e immateriali, che consentono una faci-lità dell’attività privata maggiore che da noi. Questo dato sintetico spiega forse meglio di tanteanalisi economiche le ragioni della lunga stagnazione italiana e del decennio di crescita quasizero che è alle nostre spalle.

Senza una sana, remunerativa e creativa attività privata l’economia non può crescere.Le imprese private in Italia sono moltissime e molte riescono a mietere grandi successi no-nostante gli ostacoli posti dal sistema. Le piccole e medie imprese, “multinazionali tascabili”come a volte vengono chiamate, hanno sostenuto negli anni passati la nostra economia riu-scendo a farci evitare il peggio. Non basta più. Per questo è urgente operare per invertire lalogica, per strutturare un sistema che contribuisca a sostenere e coadiuvare gli sforzi di im-presa, in particolare quelli delle imprese nuove. Anche in questo ambito è fondamentale in-vestire sui giovani, sulla loro creatività e energia.

In questo momento, segnato dai postumi della crisi internazionale, lavorare per favorirel’imprenditorialità giovanile trova due ragioni ulteriori. La prima è legata alla necessità diffusadi innovazione, presente in molti sistemi industriali e particolarmente acuta nel nostro. Unodei fattori – causa e conseguenza allo stesso tempo – della lunga stagnazione economica èstata l’incapacità del sistema Italia di favorire l’emersione e la specializzazione di imprese in set-tori emergenti. I nostri settori di specializzazione sono gli stessi di vent’anni fa, mentre sonocambiati in Germania, in Francia e negli altri paesi europei. Dare una spinta all’imprenditoria-lità giovanile, ossia favorire il percorso di chi vuole lavorare e competere nell’economia glo-balizzata, significa moltiplicare le probabilità che innovazioni positive e di successo possanonascere, crescere e rafforzarsi.

Da un altro punto di vista, le attività imprenditoriali possono cercare di raccogliere nonsolo una domanda di innovazione nel campo dei prodotti industriali o delle nuove tecnologie,

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ma anche nell’ambito dei servizi alle imprese e alle persone. Favorire l’imprenditorialità gio-vanile significa pertanto anche allargare il bacino di servizi a cui i cittadini possono accedere,dando modo all’offerta di trovare meno barriere di quelle che esistono oggi e incontrare lapropria domanda. Inoltre, da un punto di vista occupazionale, il settore dei servizi è un bacinodi potenziali grandi dimensioni non ancora del tutto sviluppate, in particolare nel meridione.

Gli ostacoli individuati dalla Banca Mondiale sono già noti a chiunque, nel nostro paese,provi a cominciare una nuova impresa senza avere alle spalle una struttura già avviata o forticapitali. Primo: la pesantezza degli adempimenti burocratici. In Italia rimane difficile espletarele pratiche per aprire un’azienda e, nonostante la diffusione di “sportelli unici”, manca un si-stematico supporto per chi volesse farsi imprenditore. Secondo: il peso della tassazione è unformidabile ostacolo sia per quanto riguarda la sua dimensione, sia per la difficoltà e il temponecessari all’adempimento dei doveri fiscali. Terzo: in Italia è ancora molto difficile ottenere cre-dito in assenza di corpose garanzie reali.

Le conseguenze di questi ostacoli si traducono in bassi tassi di innovazione, debolezzanelle dinamiche di crescita – comprese le dinamiche occupazionali – e lo spreco di tante ideee talenti che nel nostro paese non riescono a tradursi in fatti ed economia vera.

Per invertire questa china noi suggeriamo tre tipi di intervento: sul versante del credito,su quello del fisco e sul peso della burocrazia.

La difficoltà di accesso, ad un credito di mercato, adatto a finanziare attività che pro-sperino, è uno degli ostacoli più seri alla nascita di nuove aziende e di giovani imprenditori diprima generazione. In Italia la forma tipica dei sostegni alle nuove imprese si è basata in pas-sato sui cosiddetti contributi a fondo perduto e su finanziamenti agevolati. Entrambe questeforme di supplenza alla difficoltà dell’accesso al credito hanno il limite di non supportare l’ideadi responsabilità individuale e di rischio che devono, al contrario, essere legati a qualunque ideaimprenditoriale di successo.

Un’impresa crea ricchezza solo se sopravvive sul suo mercato e, dunque, con una strut-tura di costi adeguata e con un business plan che tenga in considerazione il livello d’investi-mento necessario alla fase iniziale. Tuttavia, nel nostro paese, rimane molto difficile accedereal credito solo sulla base di una buona idea e di un buon business plan, in assenza di garanziereali. Anche i diversi fondi di garanzia esistenti per le piccole e medie imprese, compreso Con-fidi, garantiscono normalmente solo una parte dell’investimento previsto. Questo riduce dra-sticamente la platea dei potenziali imprenditori, diminuendo le opportunità individuali e leopportunità di crescita sociale.

Noi crediamo, al contrario, che vi siano tutte le ragioni per cui lo Stato debba crederenelle giovani generazioni e nelle loro idee, senza paternalismi, ma consentendo che alcuni li-miti imposti dalle condizioni di mercato in Italia vengano superati. Questo si concretizza nellaproposta di alzare il massimale affinché le garanzie concesse dal Fondo Centrale di Garanzia– con il supporto della Cassa depositi e prestiti – raggiunga il 100% per le nuove imprese in

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cui l’imprenditore, o la maggioranza dei soci, abbia meno di 34 anni, e nessuno dei soci sia giàtitolare di imprese. In altre parole, ove un progetto imprenditoriale sia già ritenuto meritevoledi garanzia parziale e, dunque, ad un punto in cui solo le condizioni finanziarie e personali del-l’aspirante giovane imprenditore – una mancanza di disponibilità di capitali – potrebbero osta-colarne lo sviluppo. È importante che la selezione sulla qualità e il merito dei potenzialiinvestitori e dei loro piani, rimanga in mano al mercato e dunque alle banche e agli istituti digaranzia già esistenti, senza alcun intervento statale che finirebbe per distorcere gli incentivi.L’intervento pubblico è tuttavia utile affinché l’accesso al credito si ampli per includere chi vo-lesse iniziare, con buone idee, ma alcun capitale.

Dal punto di vista della semplificazione fiscale proponiamo una completa esenzionedagli oneri fiscali – ad esclusione di quelli sociali per i dipendenti – per le nuove imprese incui la maggioranza dei titolari abbia meno di 34 anni e non risulti già titolare di altre imprese.Questa esenzione dovrebbe durare per tre anni, con una possibile estensione a cinque, perle aziende che decidessero di quotarsi nel mercato azionario delle piccole imprese. Questointervento avrebbe tre benefici diretti. Il primo è quello del sostegno economico indiretto: unanuova impresa godrà di un periodo iniziale di alleggerimento fiscale, al fine di supportare imomenti in cui i costi e l’incertezza sono maggiori. Secondo, forse di importanza addiritturasuperiore, l’esenzione fiscale porta con sé l’alleggerimento degli adempimenti burocratici nelperiodo iniziale, in cui è bene che l’imprenditore si concentri sulla sostanza del suo business,al fine di una piena sostenibilità competitiva. Terzo, questo sostegno non comporta trasferi-menti economici a fondo perduto, o altre spese dirette da parte dello Stato e, dunque, nonpesa direttamente sui conti pubblici e – con la clausola legata alla quotazione sul mercatoazionario – mira a spingere le imprese fuori dal nanismo. Una misura di sostegno alle impresecosì concepita – legata all’età dell’imprenditore – avrebbe necessità di approvazione preven-tiva da parte della Commissione Europea. Gli esperti di diritto comunitario consultati da Ita-lia Futura suggeriscono come possibile e probabile una sua approvazione, ove questa misurafosse motivata dal grave stato di sofferenza economica e sociale in cui versano le generazionigiovani, come documentato altrove in questa pubblicazione.

Nonostante gli adempimenti fiscali rappresentino la parte più gravosa degli obblighi bu-rocratici necessari alla nascita di una nuova attività, essi non sono certamente gli unici. La sem-plificazione normativa, necessaria a facilitare la nascita di nuove imprese, comprende decine diinterventi nella disciplina dei diversi settori di attività. Come anche detto altrove, una politicadi liberalizzazioni sicuramente coadiuverebbe lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile. Tuttavia,anche in assenza di uno sforzo complessivo, è possibile ottenere risultati immediati istituendoin maniera selettiva e non casuale centri per l’imprenditoria giovanile, concentrandosi nellearee del paese nelle quali aprire una nuova azienda appare un’impresa proibitiva.

Ribaltando le logiche assistenziali che tradizionalmente in Italia hanno affievolito lo spi-rito imprenditoriale, ingabbiandolo nella logica dei contributi pubblici, i centri per l’imprendi-

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toria giovanile dovrebbero fornire consulenze di tipo manageriale e legale che aiutino la fasedi start-up di nuove imprese. Una serie di servizi di incubazione – offerti ad un costo ridottoma non completamente gratuiti – dovranno essere finalizzati a coprire i gap di know-howmanageriale e legale che si riscontrano soprattutto nelle aree depresse del paese. La missionedi questi centri dovrà essere duplice: da una parte favorire l’incubazione di nuove imprese dallato della tecnica manageriale, dall’altra ridurre l’intermediazione burocratica fornendo diret-tamente gli strumenti interpretativi di tipo legale. Al momento, i servizi pubblici alla nascita diimprese – prerogativa degli enti locali – sono una delle forme in cui si manifesta l’enorme di-versità territoriale del nostro paese: ricevere aiuto per aprire una nuova impresa è un’espe-rienza molto diversa se fatta nel Nord o nel Mezzogiorno, dove i costi di start-up, anche soloper le consulenze più semplici, sono proibitivi. Per questa ragione è necessario un interventodal centro che assicuri un servizio di semplificazione soprattutto nelle aree più depresse delpaese, dove è maggiore il bisogno di un tessuto imprenditoriale più robusto e la debolezzadegli enti locali non assicura il supporto necessario.

Una nuova cultura dell’imprenditorialità e della funzione sociale dell’impresa passaanche per un rinnovato patto tra lo stato e i suoi cittadini, centrato da un lato sull’organizza-zione di un sistema che favorisca lo sviluppo di buone iniziative dei singoli, dall’altro sulla ca-pacità delle persone di prendersi fino in fondo le proprie responsabilità, senza scorciatoie emettendosi in gioco direttamente.

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P R O P O S T A 3Uno scambio tra generazioni: finanziare le borse di studio innalzando di un anno l’età pensionabile

Uno degli aspetti più problematici della disoccupazione giovanile in Italia riguarda lacosiddetta disoccupazione intellettuale. Una fetta ampia, infatti, di giovani laureati rimane alungo disoccupata: nel 2009 la percentuale di laureati era persino leggermente superiore trai disoccupati che tra gli occupati. Questo dato certamente dipende dalla fragilità complessivadel sistema competitivo e dalla scarsa capacità dell’economia italiana di mettere a frutto, finoin fondo, il capitale umano di cui dispone. Da un altro punto di vista, tuttavia, questo dato na-sconde un paradosso della stagnazione economica ed occupazionale italiana, ossia la spro-porzione tra i percorsi di formazione scelti dagli studenti e le necessità del sistema produttivo.Dati raccolti ed elaborati dall’Unione delle Camere di Commercio e dal Ministero del Lavoromostrano un costante squilibrio tra l’offerta e la domanda di laureati.

Dati del 2009 indicano che in Italia c’è scarsità di laureati in ingegneria, in materie eco-nomico-statistiche, in medicina e nelle scienze naturali. Si verificano gravi eccessi di offerta, in-vece, per i laureati in materie politiche-sociali, in materie umanistiche, in biologia e in geologia.In altre parole, la difficoltà di molti giovani laureati a trovare un’occupazione deriva anche daqueste incoerenze qualitative tra domanda e offerta. Nel 2009 ciò ha comportato un eccessototale di offerta di circa 44mila persone con titoli di studio non richiesti dal sistema produt-tivo, mentre allo stesso tempo, l’economia italiana non riusciva a trovare 35mila persone lau-reate in materie ad alta domanda. Nel 2008 questo squilibrio aveva toccato quasi la cifra di70mila laureati mancanti nelle discipline più adatte al mercato del lavoro italiano.

Questo dato va sommato ad altre statistiche allarmanti. In Italia, i lavoratori in possessodi un titolo di studio universitario continuano a essere molto inferiori rispetto agli altri grandipaesi europei: circa la metà rispetto all’Inghilterra e quasi la metà della Germania. A peggio-rare la prospettiva, in Italia oltre il 50% degli iscritti all’università non riesce a raggiungere iltitolo di studio: si tratta del peggior dato tra tutti i paesi dell’OCSE. Questo dato, in parte, sicapisce facendo riferimento a un altro dato internazionale: l’Italia è il paese dell’OCSE dallapiù bassa percentuale di studenti universitari che riceve borse di studio. La povertà di aiuti eco-nomici agli studenti universitari ha due effetti deteriori: da un lato riduce fortemente la po-tenzialità degli studi superiori come veicolo di mobilità sociale, dall’altro priva il paese dimigliaia di giovani laureati che abbandonano gli studi, o non vi accedono, per ragioni legate alreddito di partenza.

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È dunque necessaria una politica che, puntando sulle eccellenze accademiche presentiin Italia e sulla motivazione dei suoi migliori studenti, affronti entrambi i nodi: quello del mi-smatch tra domanda e offerta di capitale umano e quello sulla scarsità di supporto alla for-mazione superiore.

Il cuore di questa proposta è quello dunque di aumentare drasticamente il numero diborse di studio, sia per consentire ad un numero maggiore di studenti di completare gli studiuniversitari che per orientare la scelta degli studi verso discipline maggiormente richieste dalnostro sistema produttivo. Gli studenti più meritevoli dovrebbero poter accedere all’univer-sità senza dover pagare le tasse di iscrizione e ricevendo un modesto contributo per vitto ealloggio. Il sostegno finanziario allo studente dovrà essere rigidamente vincolato al supera-mento, in tempo e a pieni voti, degli esami universitari. L’idea di fondo è, dunque, di favorireuno shock formativo e di opportunità per l’Italia che, nel giro di pochi anni, una o due legi-slature, sia in grado di accrescere drasticamente il capitale umano del paese, mentre viene ri-messo in moto l’ascensore sociale.

Sono tre i dettagli qualificanti di questa proposta. Il primo riguarda il modo in cui que-ste borse devono essere erogate, per rispondere al mismatch tra domanda e offerta. Con ca-denza biennale il Ministero del Lavoro individua le aree disciplinari che corrispondono allenecessità produttive del paese, ossia quelle in cui la domanda di lavoro è superiore all’offerta.In maniera corrispondente dovranno essere ripartiti i fondi a disposizione delle borse di stu-dio, ed assegnati alle venti migliori università italiane, secondo la più recente classifica stilatadal Ministero dell’Università. Le borse di studio saranno assegnate agli studenti direttamentedalle università, che provvederanno ai bandi legati ai corsi di studio cui sono orientate. La ge-stione e la responsabilità nella selezione, accoglienza e monitoraggio degli studenti rimar-ranno appannaggio degli enti di formazione che, gestendo in maniera oculata le risorse,potranno ulteriormente beneficiarne. Questa proposta naturalmente non supera la neces-sità di una riforma complessiva del sistema universitario e della ricerca, che gli ultimi governihanno finora mancato di attuare. Individua però un elemento fondamentale per riaffermareil valore sociale e collettivo dell’educazione superiore e il supporto che lo Stato deve dareagli studenti meritevoli.

Il secondo dettaglio riguarda i numeri: per essere un vero shock, la dimensione del fi-nanziamento dovrà riguardare circa 100mila studenti universitari l’anno a regime, ossia di-stribuiti sui diversi anni di corso. Questo numero comporta un costo notevole, da noi stimatoin circa 1,2 miliardi di euro l’anno.

Noi proponiamo che questa misura venga finanziata attraverso l’aumento permanentedi un anno dell’età di pensionamento per le pensioni di vecchiaia e anzianità, sia per gli uominiche per le donne. Secondo i calcoli della Ragioneria Generale dello Stato riferite alla manovrafinanziaria della primavera 2010, l’aumento di un anno dell’età di pensionamento consente unrisparmio pari a circa la cifra necessaria a finanziare lo shock di formazione da noi proposto.

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Pensiamo sia significativo legare direttamente un sacrificio chiesto alle coorti più anzianedel nostro paese ad una misura che, non solo favorisca i giovani, ma, aumentando la qualità delcapitale umano e in prospettiva la produttività e la competitività del paese, contribuisca anchealla ripresa della nostra economia e dunque alla sostenibilità del sistema pensionistico. Men-tre è urgente un riequilibrio delle risorse pubbliche spese a favore delle generazioni più gio-vani, e la nostra proposta va in questa direzione, è altrettanto importante unire le generazionida un patto di responsabilità che si rafforza legando tra loro voci di spesa e voci di entrata.

Questa proposta ha anche la caratteristica utile – sia pur indiretta – di favorire la com-petizione tra università, dato che le migliori venti attrarranno gli studenti più bravi e una quotadi finanziamenti pubblici non indifferente. Se gestite in maniera oculata, queste risorse possonobeneficiare gli istituti riceventi in maniera più che proporzionale al loro ammontare, con ul-teriori effetti positivi sul livello della formazione offerta a tutti gli studenti italiani.

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C A P I T O L O 3IL CASO DELL’ARTIGIANO: UN’OCCASIONE PER CRESCEREdi Stefano Micelli

1. Un decennio vissuto pericolosamente 54

2. Una nuova credibilità internazionale 56

3. Il lavoro artigiano e la piccola impresa nelle catene 57globali del valore

4. Innovazione e piccola impresa: un binomio da ripensare 59

5. Internazionalizzare il lavoro artigiano 61

6. Quattro proposte per un nuovo artigianato 63

6.1 Una task force per integrare l'artigianato italiano 64con le economie emergenti

6.2 Oltre il Made in Italy: 65un marchio per la valorizzazione internazionale dell'artigianato

6.3 Una Ivy league delle scuole dell'artigianato 66

6.4 Un nuovo modo di raccontare l'artigianato italiano 67

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1. Un decennio vissuto pericolosamente

L’Italia è un paese di piccole imprese. Le statistiche ce lo ricordano continuamente. InItalia le imprese comprese nella classe fra 1 e 19 addetti costituiscono il 98,3% del nostro si-stema imprenditoriale; la stessa statistica, nel Regno Unito si attesta al 94,9%; in Germania,scende al 93,4%. Se si considera il solo comparto industriale, le imprese con meno di 20 ad-detti sono oltre 430.000 e pesano per quasi 1.800.000 addetti, più di un terzo degli addettidel manifatturiero (37,9%). Il peso della piccola impresa continua a rappresentare un aspettocaratterizzante del nostro sistema produttivo e ci contraddistingue rispetto alla generalitàdelle economie avanzate.

Nonostante il quadro delle statistiche nazionali e internazionali confermi una fotogra-fia a cui siamo sostanzialmente abituati, nel corso dell’ultimo decennio il sistema industrialeitaliano ha conosciuto profonde trasformazioni. Dal 2000 ad oggi, l’industria nazionale ha do-vuto confrontarsi con tre shock importanti: l’introduzione dell’euro, l’entrata a pieno titolodella Cina nel commercio internazionale e la diffusione delle nuove tecnologie nella gestionedelle imprese. Questi shock hanno messo in discussione alcuni degli elementi su cui si è fon-data la competitività del Made in Italy tradizionale. Lungo tutto il corso degli anni ’90, il suc-cesso della produzione italiana nel mondo è stato legato principalmente al successo delmodello dei distretti industriali. Nel corso degli ultimi dieci anni, è cresciuta sensibilmentel’importanza di una nuova generazione di medie imprese capaci di proporsi in modo originalee innovativo sul mercato internazionale.

Le caratteristiche salienti delle medie imprese che rappresentano la nuova ossatura delMade in Italy sono presto dette. Le nuove medie imprese italiane hanno saputo costruire unpercorso di crescita internazionale investendo in reti distributive e, aspetto particolarmenteimportante, avviando nuovi rapporti di fornitura a scala globale. Sono imprese che hanno co-struito il loro vantaggio competitivo sulla ricerca e sulla comunicazione a scapito della mani-fattura in senso stretto: spesso hanno delocalizzato la produzione per concentrarsi sulle fasia maggior valore aggiunto della catena del valore. Sono aziende che hanno mantenuto un rap-porto forte con il territorio selezionando, tuttavia, i propri interlocutori sulla base di knowhow e competenze.

A fronte di questi importanti cambiamenti, la piccola impresa artigiana ha subito un ri-dimensionamento delle proprie performance economiche collocandosi, quando possibile, a ri-

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dosso delle imprese leader di mercato. La crisi economica, innescata dalla finanza americananel corso del 2008, ha accentuato ancora di più questo processo selettivo, attivando una nuovafase di differenziazione dei risultati economici. I dati forniti dall’Istat a metà 2010 fornisconouna conferma che la crisi ha colto in controtempo le piccole e le microimprese, in partico-lare quelle meno “agganciate” a un circuito di crescita internazionale. Per contro, molte medieimprese hanno dimostrato di poter reagire alle difficoltà di mercato in termini relativamentebrevi, riassorbendo in alcuni casi in un solo biennio la riduzione del fatturato legata alla crisidel 2008.

In questo contesto, è lecito domandarsi se e come è possibile rilanciare la competiti-vità della piccola impresa a carattere artigianale in una fase di crescente globalizzazione deiprocessi economici. La risposta non è scontata. La media impresa che ha svolto storicamentela funzione di traino della piccola impresa sui mercati internazionali, oggi tende a guardare alpotenziale delle economie emergenti per attingere a competenze manifatturiere a basso costo.Per questo la piccola impresa artigiana è chiamata a fare oggi un nuovo salto di qualità, rein-ventando il proprio posizionamento sul mercato.

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2. Una nuova credibilità internazionale

Se è vero che la piccola impresa oggi soffre la competizione internazionale, è altrettantovero che in questi anni la figura dell’artigiano è stata ampiamente rivalutata. La crisi che si èabbattuta sull’economia mondiale e le critiche che la finanza ha attirato sul proprio operatohanno contribuito a ridare lustro e legittimità all’economia reale e al ruolo dell’artigiano. NegliStati Uniti alcuni libri sulla modernità del lavoro artigiano hanno conosciuto un certo suc-cesso; anche il Financial Times ha dedicato una sua prima pagina alle virtù del lavoro manualee alla necessità di valorizzare il ruolo degli artigiani in campo sociale e economico.

A prima vista, questo rilancio della figura dell’artigiano potrebbe suggerire connota-zioni regressive. In molti percepiscono la scelta dell’artigianato come una versione elegantedel cosiddetto “downshifting”, ovvero una riduzione delle aspettative di carriera e del propriolivello di materiale in cambio di una maggiore attenzione alla qualità della propria vita sociale:meglio vivere facendo qualcosa con le proprie mani, vedendo ogni giorno i risultati del pro-prio lavoro, piuttosto che contribuire, spesso in modo inconsapevole, a un processo di alie-nazione che oggi segna in misura sempre più importante anche i lavori cosiddetti intellettuali.Questa scelta “no global”, nel senso stretto del termine, per quanto interessante sul pianoumano, rischia di far apparire il lavoro artigiano come una ritirata rispetto alla possibilità di pro-porre il proprio talento nel mondo della creatività e dell’innovazione.

In realtà non è così. Oggi sono proprie le grandi imprese più dinamiche e innovative alivello internazionale a rilanciare la figura del lavoro artigiano come ingrediente essenziale dellacompetitività sui mercati. Molte case di moda (Louis Vuitton, Gucci, Kiton, Dolce e Gabbana percitarne alcune) hanno promosso campagne pubblicitarie per mettere in risalto il contributo dellavoro artigianale alla qualità del loro prodotto. Il lavoro artigiano è cura, attenzione al detta-glio, personalizzazione, cultura.

Il contributo del lavoro artigiano non è cruciale solamente nei settori tradizionali comel’abbigliamento e la calzatura. Di recente Jonathan Ive, responsabile del design di Apple, ha sot-tolineato l’importanza di recuperare un rapporto diretto con la materia come ingrediente es-senziale nell’innovazione del prodotto high-tech. La sensibilità dell’artigiano è cruciale nellasperimentazione di nuove soluzioni e di nuovi materiali. Se si vuole essere davvero eccellenti– ha scritto Thomas Friedman sul New York Times – non basta essere nella media (“average”):si deve fare qualcosa in più, a tutti i livelli. Recuperare uno spirito artigianale (Friedman usaesplicitamente la parola “artisan”) è uno dei modi per uscire dalla crisi.

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3. Il lavoro artigiano e la piccola impresanelle catene globali del valore

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Come ripensare il ruolo del lavoro artigiano per la competitività della piccola impresain uno scenario di economia globale? Un’analisi sulle piccole imprese che hanno avviato inquesti anni percorsi di successo parla di un nuovo modo di essere artigiani, non solo a scalalocale. Rivela una nuova capacità di dialogo con il mondo della creatività e del design, ma anchecon il mondo dell’industria e della distribuzione. Il vantaggio competitivo dei nuovi artigiani de-riva nella maggior parte dei casi dalla capacità di trovare un nuovo ruolo all’interno delle ca-tene globali del valore a scala internazionale.

La gestione di questo nuovo posizionamento competitivo richiede una grande atten-zione. Il lavoro artigiano costa. Tradizionalmente abbiamo pensato in termini di contrapposi-zione fra prodotto artigiano (di qualità, ma costoso) e prodotto industriale (di scarsa qualità,ma economico). Quanto emerge dall’attività del nuovo artigiano è il superamento di questacontrapposizione e la ricerca di nuove complementarietà. Il lavoro artigiano rilancia la suacompetitività quando attiva, completa o arricchisce le filiere industriali. Il nuovo artigiano, in-somma, non compete più con l’industria, ma diventa parte integrante di catene del valore acui contribuisce con la sua specificità.

Qualche esempio. Da sempre le imprese artigiane svolgono un’attività di prototipa-zione e di produzione di prime serie per le filiere dell’abbigliamento e della calzatura. La tra-duzione dei bozzetti degli stilisti in manufatti pronti per la produzione in serie è cruciale perottenere economie di scala nel processo industriale. Il valore prodotto dall’impresa artigianadipende dal fatto che grazie a queste prime collezioni è possibile mettere in moto economieche verranno garantite da processi industriali consolidati, magari in paesi emergenti. Dob-biamo considerare l’artigiano in contrapposizione con l’industria? Piuttosto il contrario.

Il lavoro artigiano dimostra la sua complementarietà con l’industria anche proponen-dosi a valle della filiera. Si pensi, ad esempio, al caso dell’edilizia sostenibile. In questo caso leimprese artigiane fanno proprie le economie di scala delle imprese che producono compo-nenti a livello industriale per svolgere una funzione cruciale di adattamento, necessaria so-prattutto quando queste nuove tecnologie vengono applicate a edifici già esistenti. In questocaso, il valore del lavoro artigiano dipende dalla capacità di configurare e combinare in modooriginale elementi già disponibili sul mercato.

Anche per il cosiddetto artigianato artistico non vale più la contrapposizione con l’in-dustria e la grande distribuzione. È vero che spesso liutai, maestri vetrai, ceramisti, gioiellieri

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danno vita ad oggetti che devono il loro valore alla loro esclusività. Immaginiamo volentieri labottega di questi artigiani, in pieno centro storico, in contrapposizione con la catena di mon-taggio della fabbrica sorta nella zona industriale appena fuori città. In realtà già oggi il lavorodi questi artigiani può costituire il punto di partenza per produzioni in serie. Il rapporto suimestieri d’arte e sui saperi tradizionali, curato dalla senatrice francese Catherine Dumas, rac-conta la storia di Serge Mansau, creatore di vere e proprie sculture in vetro che le grandi casedi moda hanno spesso utilizzato come flaconi per i propri profumi. I flaconi prodotti in serieper Dior, Kenzo e Azzaro, solo per fare alcuni nomi, nulla tolgono al valore della produzioneoriginale dello stesso Mansau.

Tutti questi esempi confermano la necessità che la piccola impresa si dimostri capacedi produrre valore attraverso un nuovo dialogo con l’industria e la distribuzione. La piccolaimpresa artigiana, in altre parole, è chiamata a diventare ingrediente essenziale di processi ma-nifatturieri che hanno bisogno, in fasi specifiche, di creatività, capacità di adattamento e di ri-soluzione dei problemi. Questo non implica che le filiere siano necessariamente italiane alcento per cento: è possibile contribuire con un servizio “su misura” anche a catene del va-lore solo in parte nazionali mantenendo un ruolo specifico e visibile.

Come promuovere una sua presenza originale nelle catene globali del valore? Vale lapena soffermarsi su due grandi tematiche che riflettono altrettanti possibili capitoli di unanuova economia industriale per la piccola impresa: innovazione e internazionalizzazione.

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4. Innovazione e piccola impresa: un binomioda ripensare

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Un elemento che oggi qualifica il lavoro artigiano è la specificità del suo percorso di in-novazione. Si tratta di un tema cruciale per la competitività dell’impresa artigiana, sul quale valela pena soffermarsi. Una ricerca di Censis - Confartigianato ha messo a fuoco alcuni aspettitipici del processo di innovazione dell’impresa artigiana a partire da un’analisi condotta su uncampione di piccole imprese dinamiche. Dalla ricerca emerge che l’impresa artigiana investeuna quota rilevante di ore lavorate (oltre il 10%) in attività di ricerca e sperimentazione. Que-sto sforzo di ricerca si svolge prevalentemente all’interno del perimetro proprietario del-l’impresa; l’artigiano stenta a costruire un dialogo con soggetti come l’università o con altrienti di ricerca. Altro aspetto rilevante riguarda l’esito di questo percorso di ricerca: nella stra-grande maggioranza dei casi le innovazioni introdotte si traducono in un vantaggio competi-tivo sul mercato, qualificando l’attività di impresa ben oltre gli standard di mercato.

Nel caso delle aziende artigiane della sub-fornitura, questo sforzo di innovazione con-tribuisce in maniera essenziale alla competitività delle imprese committenti. Un terzo delle im-prese analizzate da Confartigianato dichiara di adottare un comportamento attivo verso leimprese leader, proponendo soluzioni innovative e lavorando in partnership per risolvere i pro-blemi. Anche in un comparto oggi particolarmente delicato come quello delle lavorazioniconto terzi, una quota importante delle imprese artigiane pratica un’innovazione che si tra-duce in servizi a valore aggiunto.

La creatività dell’artigiano, la sua capacità di trovare soluzioni innovative e di trasferirlecontinuamente al prodotto, costituisce un ingrediente essenziale della manifattura di qualità,indipendentemente dal legame ufficiale con la ricerca scientifica e tecnologica. Il problema, al-lora, è come allargare la platea delle imprese artigiane che sono in grado di mettere in motoquesti comportamenti e come moltiplicarne il valore. Un aspetto essenziale su cui riflettereè legato al contesto sociale e culturale entro al quale l’artigiano si trova ad operare e a svi-luppare il proprio percorso di innovazione.

Un esempio di progetto in grado di arricchire le relazioni dell’artigiano e stimolare l’in-novazione è stato recentemente promosso da CNA Vicenza. Con l’aiuto di alcuni designer difama internazionale (nel caso specifico Aldo Cibic e Martino Gamper), CNA Vicenza ha sele-zionato un gruppo di giovani talenti provenienti dal Royal College of Art e li ha ospitati nel vi-centino per farli lavorare a stretto contatto con alcuni artigiani attivi in diversi ambiti, dalla

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ceramica al plexiglass. Nell’arco di pochi mesi, giovani promesse del design e artigiani dal-l’esperienza consolidata hanno imparato a convivere sviluppando una serie di prototipi chesono stati presentati ufficialmente a conclusione del progetto.

Altro esempio interessante di creazione di nuove connessioni sociali e professionali èquello del Museo Zauli a Faenza. Il museo sta sviluppando una politica di promozione culturaleche punta a legare l’artigianato e l’arte contemporanea per rinnovare radicalmente i linguaggiespressivi della ceramica. Il progetto punta a creare nuovi legami fra mondi che a lungo si sonoparlati poco e male. I risultati sono già oggi di grande interesse e superano la dimensione dellasperimentazione. In un territorio in forte crisi, la ricostruzione di un nuovo contesto e di nuovilinguaggi ha consentito di generare rapidamente un ritorno economico misurabile.

In alcuni casi l’emergere di questi legami nasce in modo spontaneo. Il collettivo Gate08, ad esempio, è un gruppo di designer di tutto il mondo che ha deciso di avviare una colla-borazione con un gruppo di artigiani per proporsi in modo innovativo sul mercato. Gate 08ha proposto i risultati di questa collaborazione al Salone del Mobile di Milano e, a più riprese,a Udine presso sedi commerciali e istituzionali. In questo caso Confartigianato sta svolgendoun ruolo importante nel qualificare questa esperienza attraverso lo strumento del contrattodi rete, per dare al progetto forza di mercato e visibilità presso la distribuzione.

In tutte queste esperienze, ciò che emerge è l’importanza di una dimensione sociale nelprocesso di innovazione. L’artigiano innova attraverso il dialogo diretto, attraverso un con-fronto che lo mette in gioco come persona a tutto tondo. Il mondo dei distretti ha probabil-mente esaurito un ciclo di creatività “manifatturiera”, ma chi esce da questa esperienza è prontoa rilanciare la propria esperienza entro un nuovo orizzonte professionale e culturale. I casi oracitati sono solo una selezione dei tanti fermenti che stanno caratterizzando tutta l’Italia mani-fatturiera. Si tratta di incentivare progetti che puntano ad arricchire il contesto del lavoro ar-tigiano puntando a stimoli nuovi, capaci di innescare dinamiche innovative originali.

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5. Internazionalizzare il lavoro artigiano

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Internazionalizzazione e artigianato sono parole che, secondo alcuni, non vanno d’ac-cordo. Se guardiamo i dati dell’export questa convinzione si rafforza. Sono infatti le medie ele grandi imprese a garantire in maniera rilevante l’export nazionale. L’artigianato concorre allapresenza del prodotto italiano sui mercati internazionali solo in minima parte.

In realtà il tema dell’internazionalizzazione non può essere ricondotto semplicementealla capacità di esportare prodotti e servizi. Oggi l’internazionalizzazione ha a che fare con laconoscenza, e non solo con le merci. Le reti trasformano il nostro modo di essere “interna-zionali”, allargando sensibilmente l’orizzonte geografico dell’agire dell’impresa artigiana. Il cam-biamento in atto è profondo e richiede – nuovamente – di utilizzare il punto di vista dellecatene globali del valore.

L’impresa artigiana oggi ha la possibilità di informarsi diversamente sui propri fornitoriguardando a un orizzonte internazionale; può ripensare il proprio rapporto con il mercato cer-cando – individualmente o in partnership – di candidarsi a svolgere fasi specifiche di catenedel valore a livello globale. La maturità delle tecnologie e dei servizi disponibili in rete con-sente forme nuove di specializzazione a livello internazionale prima riservate alle aziende dimaggiori dimensioni.

Alcuni esempi. Sul versante della commercializzazione del prodotto la rete proponenuove opportunità di commercio elettronico. Tradizionalmente questo canale non è stato uti-lizzato dalle imprese del Made in Italy, in parte perché poco adatto a comunicare la flessibilitàe la versatilità delle nostre imprese artigiane, in parte perché inadeguato nel comunicare la ric-chezza di contenuti storici, artistici e cultuali del prodotto artigiano. Rispetto alla prima metàdegli anni 2000 il contesto, oggi, è profondamente mutato. L’introduzione della banda larga e l’in-novazione nelle piattaforme di e-commerce hanno consentito di arricchire gli strumenti delcommercio elettronico: è migliorato il potenziale di interazione fra domanda e offerta ed è au-mentata la possibilità di comunicare il valore di prodotti complessi grazie alla multimedialità.

Nel campo del commercio elettronico business to business si sono imposte piattaformeglobali come www.alibaba.com che hanno saputo intermediare l’offerta di produzioni cinesipresso le imprese e i compratori occidentali. Piattaforme come Alibaba contano oggi milionidi contatti giornalieri e un volume di transazioni considerevole. Non si tratta di compraven-dite basate solo sul prezzo: esiste la possibilità di gestire processi di personalizzazione delle

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offerte anche per pochi pezzi. Questo consente di ripensare il proprio modo di acquistare edi vendere on line.

Chris Anderson, editor di Wired, ha indicato Alibaba come una delle piattaforme su cuisi costruirà quella che lui stesso ha definito la prossima rivoluzione industriale (“The next in-dustrial revolution”): grazie alle nuove piattaforme di commercio elettronico è possibile co-struire auto su misura (come nel caso dell’americana Local Motors), acquistare e venderecircuiti integrati personalizzati, persino gestire la produzione di prodotti high tech. Insommaun universo di opportunità per artigiani di nuova generazione disposti a raccogliere la sfida.Per la piccola impresa italiana, questi nuovi ambienti di lavoro rappresentano una sfida non dapoco. Oggi il traffico italiano conta su Alibaba per l’1% delle transazioni contro il 60% delle im-prese cinesi e il 7% delle imprese americane.

Anche nel campo del commercio elettronico business to consumer, lo scenario è moltocambiato in questi ultimi anni. Nel campo dell’hand made si sono consolidate a livello inter-nazionale piattaforme di commercio elettronico in grado di rappresentare delle opportunitàanche per l’artigianato italiano. Esty.com costituisce un esempio interessante in questo campo.Inoltre, i recenti successi di piattaforme come Yoox.com dimostrano la possibilità di svilupparecanali di distribuzione capaci di comunicare la ricchezza del prodotto Made in Italy.

In generale, la disponibilità di nuovi strumenti gestionali e di reti a banda larga consentedi ripensare il posizionamento delle imprese artigiane nelle filiere internazionali. Attivitàcome la prototipazione e lo sviluppo di prime serie, come accennato in precedenza, pos-sono essere svolte per nuovi committenti a scala globale. Le imprese artigiane specializzatein queste attività in campi diversi come la confezione o la produzione di stampi possono in-serirsi e consolidare un proprio posizionamento competitivo anche senza una filiera com-pletamente Made in Italy.

Dall’insieme di queste esperienze emerge un quadro di nuove opportunità per il mondodella piccola impresa artigiana che deve essere preso sul serio, e in tempi brevi. Le economiecon cui l’impresa artigiana è chiamata ad orientarsi sono complesse. Esiste un problema di af-fidabilità delle controparti, di messa a punto di nuove competenze, di tutela della proprietà in-tellettuale, soprattutto perché le opportunità di crescita che questi strumenti consentonoguardano principalmente ad Est, verso le economie emergenti dell’Asia.

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6. Quattro proposte per un nuovo artigianato

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Esiste un consistente spazio di politica industriale per un rilancio dell’artigianato italiano.Il quadro che emerge da un’analisi del comparto suggerisce iniziative diverse, alcune a scalanazionale, altre in una proiezione internazionale. Tutte hanno in comune l’obiettivo di pro-muovere la qualità del lavoro artigiano come un tratto distintivo della nostra industria nazio-nale presente - in forme diverse - nella grande, nella media e nella piccola impresa. Questoingrediente essenziale ha consentito ai quattro grandi settori del Made in Italy (alimentazione,casa-arredo, moda, meccanica) di mantenere nel tempo la propria competitività a livello in-ternazionale. Innocenzo Cipolletta ha definito questa straordinaria capacità di flessibilità e diadattamento alla domanda internazionale “industria su misura”. Se il Made in Italy è stato “in-dustria su misura”, nella piccola impresa così come in quella di maggiori dimensioni, ciò sideve a una qualità del lavoro che oggi riconosciamo come artigianale.

Abbiamo già cominciato a comunicare e a promuovere il lavoro artigiano in modonuovo. Chi ha seguito le attività del padiglione italiano all’Expo di Shanghai ha potuto apprez-zare il successo riscosso dallo spazio dedicato al lavoro artigiano. Nel parallelepipedo di ple-xiglass in cui sono stati ospitati i nostri artigiani, si sono alternate presenze di grandi impreseormai consolidate (ad es. Ferragamo), istituzioni di prestigio (ad es. l’Opificio delle pietre duredi Firenze) e laboratori artigiani di talento (ad es. i liutai di Cremona). Il lavoro artigiano è statopresentato come l’enzima che consente alla nostra imprenditorialità di raggiungere l’eccellenzanella qualità e la passione per il dettaglio.

Il riconoscimento di questo tratto nazionale deve suggerire una prospettiva unificantefra piccola e grande impresa. Il lavoro artigiano costituisce probabilmente il vero denomina-tore comune di tanta parte dell’industria italiana. Riconoscere la sua importanza significa primadi tutto mettere da parte le tante contrapposizioni fra il fronte della piccola impresa, in sof-ferenza per la crisi degli ultimi due anni, e quello delle imprese più consolidate, ormai proiet-tate in uno scenario internazionale. Il problema da affrontare con urgenza è capire in chemodo l’artigianato, che oggi qualifica la piccola impresa italiana, può essere valorizzato a scalaglobale. Quattro sono le priorità da affrontare con la massima urgenza.

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6.1 Una task force per integrare l’artigianato italiano con le economieemergenti

Il primo obiettivo da perseguire è l’inserimento delle piccole imprese artigiane all’in-terno delle catene globali del valore. La piccola impresa artigiana non può pensare di compe-tere a livello internazionale perpetuando un approccio mercantile: non si trattanecessariamente di imporre il prodotto della piccola impresa sui mercati internazionali. Piut-tosto, si tratta di trovare delle forme di partenariato che consentano alla piccola impresadi valorizzare le proprie competenze all’interno di nuove relazioni con l’industria e la distri-buzione. Come accennato in precedenza, alcune esperienze di partenariato sono già state av-viate con successo: in diversi contesti, piccole imprese di matrice artigianale hanno saputoinserirsi in processi di divisione del lavoro a scala internazionale.

Per favorire un’accelerazione di questi processi di integrazione è necessaria una politicaindustriale su due fronti. Un primo fronte è legato allo sviluppo di reti di impresa capaci diaggregare una massa critica di competenze distintive in grado di proporsi efficacemente su unoscenario internazionale. Difficile pensare che siano le singole imprese a dialogare con i nuoviprotagonisti della manifattura industriale nel Far East: più verosimile che gruppi selezionati e or-ganizzati di aziende artigiane possano diventare interlocutori di strutture industriali in forte cre-scita. Lo strumento del contratto di rete costituisce lo strumento cardine per favorire questaproiezione internazionale e per questo deve essere promosso e comunicato a scala nazionale.

Un secondo fronte riguarda la cooperazione internazionale. Le nostre imprese de-vono poter essere aiutate e sostenute nel confronto con economie e culture percepite comelontane e poco praticabili. In passato il Ministero dello Sviluppo Economico ha promossouna task force per rendere produttivo l’incontro fra partner russi e italiani e favorire la re-ciproca conoscenza fra imprenditori. La task force ha avuto il merito di affrontare moltopragmaticamente le priorità percepite degli operatori economici e favorire l’identificazionedi soluzioni sul piano della concretezza. Questo stesso modello operativo oggi deve esserereplicato per favorire l’integrazione delle nostre reti di impresa con le realtà produttive piùdinamiche in Cina e in India.

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6.2 Oltre il Made in Italy: un marchio per la valorizzazione internazionaledell’artigianato

Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito a un lungo confronto sul tema del mar-chio Made in Italy. La legge Reguzzoni-Versace (L.55 del 2010) ha rappresentato un impor-tante punto di arrivo per la salvaguardia delle esigenze di informazione e trasparenza versoil consumatore finale: quando saranno predisposti i regolamenti attuativi i consumatori sa-ranno in grado di stabilire con precisione l’origine delle merci e il luogo della manifatturadi settori cruciali come il tessile e la pelletteria. Difficile pensare, tuttavia, che il marchioMade in Italy – anche quando esteso ad altri settori - possa davvero valorizzare, di per sé,la piccola impresa artigiana nell’economia internazionale. In passato il marchio Made in Italyè stato utile nel rimarcare la differenza fra un modello industriale di matrice fordista (tipicodi grandi economie come quella americana) e un modello industriale come quello italiano,profondamente radicato nella tradizione artigiana e nella cultura dei territori. Questa de-marcazione non è più proponibile in uno scenario globale: le nuove economie emergentihanno certamente sviluppato apparati produttivi tipici della produzione di massa (si pensial sistema industriale cinese), ma continuano a essere caratterizzate da una consistente pre-senza di lavoro artigiano.

La tradizione italiana dell’artigianato che ambisce a proiettarsi nel mondo ha bisognodi linguaggi nuovi, capaci di incontrare e riconoscere il valore di culture diverse. L’Italia nonpuò pensare di essere l’unico paese depositario di competenze artigiane: deve, piuttosto, di-ventare il paese promotore dell’artigianato a livello internazionale. Deve diventare il punto diriferimento di una nuova cultura della produzione che fa dell’uomo e del lavoro artigiano unelemento essenziale della qualità materiale e immateriale delle merci.

L’artigianato, come è stato per l’agricoltura, ha bisogno di marchi e riconoscimentiinclusivi. Se guardiamo all’esperienza Slow Food, vediamo un brand capace di dare senso eincludere tradizioni diverse (i presidi locali in Italia e nel mondo). Slow Food non difende l’Ita-lia; promuove la cultura del cibo nel nostro paese e nel mondo. Grazie a un linguaggio apertoe universale, il nome Slow Food è stato accolto praticamente dappertutto. È ovvio che fra ibeneficiari di questo straordinario successo vi siano state anche imprese italiane: Eataly, adesempio, ha appena ampliato la sua rete distributiva con un importante sbarco negli Stati Uniti;Grom, la catena di gelaterie di qualità che ha conosciuto una grande crescita in questi ultimianni, beneficia anch’essa delle esternalità positive generate da Slow Food e dai suoi presidi.

È importante che nell’ambito dell’artigianato emerga al più presto un progetto similea quello promosso da Carlo Petrini. I fermenti culturali di questi anni dimostrano che esisteun interesse globale per un nuovo riconoscimento del lavoro artigiano (si pensi al movimentodei makers negli Stati Uniti, già oggi organizzato attorno a eventi e riviste di settore). L’Italiadeve diventare il punto di riferimento di questa cultura del lavoro promuovendo attività di

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ricerca, di promozione e, ovviamente, marchi e etichette riconoscibili. Al pari di Slow Food,un’iniziativa di innovazione sociale di questo tipo, richiede slancio e imprenditorialità da partedi istituzioni, associazioni di categoria, operatori della cultura e mondo delle imprese.

6.3 Una Ivy league delle scuole dell’artigianato

La formazione del nuovo artigiano non ha ancora istituzioni qualificate. Mentre l’arti-gianato evolveva e si trasformava sotto la spinta delle pressioni del mercato, le scuole dei me-stieri si limitavano a riproporre la figura dell’artigiano della tradizione. Non è solo unaquestione di accesso alle nuove tecnologie, che spesso le scuole non sono in grado di garan-tire perché in ritardo rispetto al mondo delle imprese ma è, più in generale, un problema diimpianto formativo che oggi richiede un abbinamento più stretto fra competenze manuali estrumenti culturali evoluti.

Come riproporre una formazione artigiana al passo coi tempi? La predisposizione dinuovi curricula, capaci di interpretare il nuovo ruolo dell’artigiano nell’economia globale, ri-chiede una riflessione di carattere nazionale. Il nuovo artigiano ha bisogno di scuole che nerilancino il profilo e la visibilità oltre la scala regionale e che ne proiettino la legittimità in unorizzonte internazionale. È necessario avviare al più presto una serie di corsi di eccellenza chefacciano leva su quanto di meglio abbiamo saputo sviluppare nelle diverse regioni per attrarrenel nostro paese talenti di tutto il mondo, interessati ai mestieri artigiani e alla cultura italiana.L’insieme di scuole dovrà costituire una Ivy league dell’artigianato che potrà condividerealcune risorse di base (si pensi all’offerta didattica di carattere generalista) e che potrà spe-cializzarsi in aree elettive coerenti con le diverse vocazioni territoriali.

In generale, il rilancio della formazione artigiana favorirebbe una diversa percezione dellavoro manuale nella società italiana. Studi recenti di Confartigianato confermano la ritrosiadei giovani italiani nell’intraprendere un percorso di lavoro artigiano perché poco attratti dalleofferte della piccola impresa di carattere artigianale. Percorsi formativi di eccellenza, orientatia studenti nazionali e internazionali, in grado di fornire sbocchi professionali sia nella mediache nella piccola impresa, potrebbero trainare in maniera sensibile tutto il comparto.

Queste stesse scuole di eccellenza potranno inoltre diventare le piattaforme di scam-bio e di integrazione tra competenze artistiche e altri campi del sapere. Come richiamato inprecedenza, i percorsi di innovazione nel mondo artigiano passano attraverso la socializzazionee l’esperienza diretta di nuovi saperi. Le scuole avranno la funzione di interfaccia fra artigia-nato e mondo del design, dell’arte contemporanea, dell’ingegneria, delle scienze ambientali: sa-ranno queste istituzioni a legittimare e a gestire quei percorsi di incontro che hanno bisognodi mediazione e accompagnamento.

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6.4 Un nuovo modo di raccontare l’artigianato italiano

Il racconto dell’artigianato di qualità ha seguito, tradizionalmente, una trama territo-riale. Il radicamento dell’impresa artigiana all’interno dei distretti ha favorito una promo-zione dell’impresa artigiana per aree geografiche omogenee. L’Italia ha promosso il vetro diMurano, l’oreficeria di Valenza, la lavorazione del corallo di Torre del Greco. La lista po-trebbe continuare a lungo.

Il confronto con mercati nuovi, diversi per cultura e per richieste dai mercati tradizio-nali, spinge a ripensare il nostro modo di comunicare la competenza artigiana, favorendo l’ag-gregazione di competenze e lavorazioni coerenti con le richieste di mercati specifici.CNA, ad esempio, ha promosso la pubblicazione di un libro-catalogo dal titolo “Fatto per te”che raccoglie i profili di una quarantina di artigiani che, sparsi su tutta la penisola, sono a di-sposizione per confezionare abiti e accessori su misura per clienti russi. In questo caso, la nar-razione delle eccellenze riflette il punto di vista della domanda, non più quello della geografiadell’offerta. Cataloghi simili sono già stati prodotti con successo per altri settori, come quellodella casa sostenibile e della moda.

In alcuni casi il problema non è solo quello di raccontare un artigianato che già esistee opera sul mercato; si tratta, invece, di aggregare e rendere visibili operatori che devono co-noscersi e sviluppare progetti comuni. Il progetto DNA Italia, la fiera delle tecnologie per ibeni culturali, ad esempio, è stato un importante momento di incontro per operatori delsettore, che ha consentito di mescolare e presentare pubblicamente eccellenze della ricercascientifica assieme a competenze artigianali tipiche del restauro. In questo, così come in altricasi analoghi, l’obiettivo è quello di dar vita a momenti fieristici e di confronto che consen-tono alle piccole imprese di confrontarsi e di dialogare in forme non dissimili da quelle chetradizionalmente caratterizzano i distretti (non a caso la letteratura chiama questo tipo dieventi temporary cluster).

Per molti settori del Made in Italy questa riorganizzazione della comunicazione distret-tuale è particolarmente urgente. La promozione delle reti di piccole imprese all’estero ri-chiede una maggiore attenzione alle richieste del mercato e una attenta selezione deipartecipanti. Nel sistema casa, così come nella moda e nella meccanica, la possibilità di arri-vare al mercato con proposte integrate e coerenti rappresenta un elemento distintivo ri-spetto alla concorrenza. È importante accelerare la produzione di nuovi cataloghi e di nuoveaggregazioni di imprese a scala nazionale in vista di una più aggressiva proiezione internazio-nale. In questa prospettiva le associazioni di categoria giocano un ruolo particolarmente cru-ciale avendo una lettura locale e nazionale della distribuzione delle imprese.

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A P P E N D I C E S T A T I S T I C AI NUMERI DEL QUINDICENNIO PERSO (1994-2009)di Sergio de Ferra

1. Introduzione 70

2. Dati economici 74

Crescita del PilPil pro capiteApertura dell’economiaInvestimenti esteriDiseguaglianzaSquilibri regionaliNascita di imprese

3. Finanza Pubblica 78

Debito pubblico DeficitPressione fiscaleSpesa pubblicaIntervento dello Stato nella crisi economica

4. Mercato del lavoro 82

Tasso di disoccupazioneTasso di disoccupazione per gruppi Cuneo fiscaleDifferenza di salario tra i sessiUscita dalla forza lavoroIncidenti mortali sul lavoroDifferenze regionali nell’occupazione

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5. Istruzione 86

Punteggio nel test PISANumero di alunni per insegnante Abbandono scolasticoLaureati in materie scientificheCulturaBrain Drain

6. Istituzioni e Concorrenza 89

CorruzioneAttività professionaliPrezzi dell’energia Fiducia nelle istituzioni

7. Innovazione 93

Ricerca e Sviluppo Internet Brevetti

8. Popolazione 95

Percentuale della popolazione a rischio di povertàEffetto dell’intervento pubblico sulla povertàNumero di figli per donnaGiovani Popolazione carceraria Stranieri

9. Salute 99

ObesitàBevande alcolicheTabaccoDurata della vita Sistema sanitario

10. Ambiente 101

Automobili Energie rinnovabiliInquinamento dell’ariaTasse sull’ambiente

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A P P E N D I C E S T A T I S T I C A1. Introduzione

Il declino economico del nostro paese costituisce sempre di più uno dei principali ar-gomenti del dibattito pubblico italiano, sia a livello accademico che tra i politici e sui media. Èpurtroppo frequente, tuttavia, che questo dibattito, nonostante la sua pressante importanza,sia condotto in termini dilettanteschi, inadeguati, facendo ricorso al sentito dire, ad informa-zioni di dubbio valore e persino agli insulti. Anche quando dei dati vengono portati a soste-gno delle diverse tesi, questi sono spesso presentati in maniera poco seria, urlati e confusi inuna miriade di informazioni discordanti.

Questa raccolta di indicatori comparati sulla situazione economica dell’Italia in Europa,vuole offrire, al contrario, un contributo di chiarezza. Abbiamo selezionato circa cinquanta in-dicatori, tratti dai dati degli istituti statistici e delle organizzazioni internazionali. Il criterio allabase della nostra scelta è stato quello di far emergere un’immagine imparziale delle condizionimateriali in cui vivono gli italiani del 2010, con uno sguardo al passato più recente ma cercandodi intravedere nei dati quello che riservano i prossimi anni.

In altre parole, abbiamo voluto capire quale sia la qualità della vita in Italia, quali siano lepossibilità, materiali e non, degli italiani e come è cambiato il paese negli ultimi quindici anni.

Tra gli indicatori strettamente economici quelli che più ci sono sembrati significativisono stati la crescita del Pil, il livello del debito pubblico, i dati sull’intervento delloStato durante la recente crisi finanziaria e le fortissime differenze tra le regioniitaliane in termini di occupazione.

Tra i dati non economici, sono particolarmente rilevanti la classifica internazionale sullivello della corruzione, la performance scolastica degli alunni italiani, l’investi-mento in ricerca del nostro paese, il numero di giovani che vivono ancora in famigliae il numero di auto per abitante. È, inoltre, da menzionare la performance dell’Italia in ter-mini degli indicatori sulla sanità.

Il fiacco andamento della crescita desta particolare preoccupazione. Già nell’arco diun decennio, una scarsa crescita del Pil determina un forte peggioramento degli standard divita se si confronta il paese con i vicini che corrono più veloci. La posizione relativa dell’Italiarispetto ai suoi partner europei e agli Stati Uniti è, dunque, oggi più arretrata rispetto a quantonon fosse quindici anni fa. Allo stesso tempo, le economie emergenti dell’Europa dell’Est e

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dell’Asia crescono molto velocemente, facendo sì che gli standard di vita in alcune di essesiano oggi comparabili, se non superiori, a quelli italiani. Preoccupa anche il fatto che la cre-scita susciti scarso interesse nei media. Come si è detto, le conseguenze sulla qualitàdella vita di un piccolo cambiamento nella crescita sono enormi, ma questo dato im-portante viene troppo frequentemente ignorato.

Le dimensioni del debito pubblico italiano sono gigantesche. Dopo il Giappone ela Grecia, la cui condizione di finanza pubblica non è certo invidiabile, l’Italia ha il terzo debitopubblico più grande tra i paesi OCSE. Questo non è un fatto recente, dovuto alla crisi finan-ziaria internazionale, ma persistente da ormai più di quindici anni. Un debito pubblico di similidimensioni costringe ogni anno l’Italia a destinare enormi risorse al pagamento degli interessisu di esso, spesso posseduto da investitori stranieri. Queste risorse potrebbero essere cer-tamente investite in modo più efficace, nella forma di migliori servizi per i cittadini o di un ab-bassamento delle tasse. Inoltre, il nostro paese risulta gravemente esposto alle fluttuazionidifficilmente prevedibili dei mercati finanziari. Fortunatamente, negli anni recenti non si sonoverificati forti attacchi speculativi ai danni del debito pubblico italiano. Non si può però esclu-dere che ciò non avvenga mai ed è doveroso premunirsi riducendo velocemente l’ammontaredel nostro debito pubblico.

Le conseguenze negative di questo enorme debito si sono fatte recentemente sentire.Durante la crisi finanziaria del 2008-2009, tutti i maggiori paesi europei sono intervenutiattivamente a sostegno dei propri sistemi industriali. Da un punto di vista teorico, l’efficaciadi simili politiche di stampo keynesiano è tuttora discussa. Per l’Italia, tuttavia, una similescelta era comunque esclusa dalle opzioni disponibili: l’impossibilità di registrare eccessivideficit di bilancio a causa del debito troppo pesante ha fatto sì che gli aiuti concessi dalloStato italiano durante il 2008 siano stati addirittura inferiori a quelli dei cinqueanni precedenti. La media dei paesi europei ha invece triplicato la percentuale del Pil de-stinata ad aiuti di Stato.

Oltre a soffrire di una generica arretratezza economica nei confronti dei propripartner, l’Italia si caratterizza per una condizione fortemente diseguale all’interno delleproprie regioni. È noto che esistano forti differenze tra le diverse regioni d’Italia, ma le di-mensioni del fenomeno non sono talvolta ben percepite. In Italia, la variazione nell’oc-cupazione fra le regioni è la maggiore in Europa, superiore a quella dellaGermania dopo l’unificazione. Appare evidente come questo sia uno dei più gravi pro-blemi economici dell’Italia e come, se si vuole riportare il paese a competere con le princi-pali economie europee, sia necessario che il Meridione possa godere di una condizioneeconomica comparabile con quella delle regioni del Nord.

Anche i dati di natura non strettamente economica offrono un quadro non roseo dellasituazione del paese. La classifica recentemente presentata dall’organizzazione internazionaleTransparency International ci restituisce l’immagine di un’Italia dove la corruzione è un

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fenomeno pervasivo. Questo malcostume diffuso fa sì che la posizione del nostro paese siabassissima, penultima in Europa. Il nostro paese è inoltre superato per percezione della cor-ruzione da moltissimi paesi emergenti o di scarsa tradizione democratica.

Un dato particolarmente scoraggiante è quello riferito alle abilità degli studentiquindicenni della scuola italiana, misurato dal test PISA elaborato dall’OCSE. La per-formance degli alunni italiani è notevolmente inferiore a quella di quasi tutti iloro omologhi europei. Questo fatto dovrebbe suscitare enorme preoccupazione. Unabassa qualità dell’istruzione, infatti, può seriamente compromettere la competitività futura delpaese, riducendo le possibilità degli studenti di oggi nel mercato del lavoro di domani. Ap-pare importantissimo avviare un programma di miglioramento e rinnovamento del sistemaeducativo italiano.

L’investimento in ricerca delle aziende italiane è molto scarso, così come la lorodomanda di brevetti. La ricerca, seppure spesso non offra profitti nel breve periodo, migliorale possibilità tecnologiche del paese, permettendo alle sue imprese di competere sui mercatiinternazionali e trainandone la crescita nel lungo periodo. Uno scarso investimento in ricercafarà sì che la nostra produttività non possa mantenere il passo di quella dei nostri competitors,europei e non. Sarebbe dunque auspicabile che le imprese italiane investissero di più in ri-cerca, possibilmente favorite dalla politica che dovrebbe generare le condizioni necessarieperché questo investimento sia profittevole.

Un dato di cui in passato si è molto discusso, seppur in termini approssimativi e di-spregiativi, è quello riferito ai cosiddetti “bamboccioni”, i giovani e meno giovani che ancoravivono con i propri genitori. Effettivamente questo fenomeno è fortemente diffuso in Ita-lia, molto più che nel resto dei paesi europei. Quasi la metà degli uomini italiani tra i 25 e i 32anni vive ancora con i propri genitori. Questo è probabilmente segno di una scarsità di op-portunità lavorative e, in generale, di poca fiducia nel futuro. Questo dato scende al di sottodel venti per cento in Germania, Francia e Gran Bretagna.

Le abitudini degli italiani riguardo ai trasporti sono piuttosto peculiari. Nonostante il red-dito per abitante non sia particolarmente elevato, l’Italia si caratterizza per il maggior nu-mero di auto per abitante in Europa. La passione degli italiani per i motori può forse spiegarein parte questo fenomeno. È possibile, tuttavia, che cause meno romantiche siano alla radice diquesto fenomeno, come la carenza dei servizi di trasporto pubblico. Un tale numero di auto èovviamente dannoso per l’ambiente. Inoltre esso comporta gravi costi sia dal punto di vistaenergetico che da quello della congestione dei servizi urbani, come le strade e i parcheggi.

Gli italiani si distinguono positivamente dai loro concittadini europei per le loro mi-gliori abitudini alimentari e di salute. L’incidenza dell’obesità e del consumo di alcool etabacco è notevolmente inferiore a quella registrata negli altri paesi d’Europa e l’aspettativamedia di vita è alta. Inoltre, il sistema sanitario italiano è stato classificato come il secondo mi-gliore al mondo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

Questa raccolta di indicatori non nasce con l’obiettivo di dipingere un’immagine delpaese senza speranza. È, anzi, proprio il nostro amore per l’Italia e la fiducia nelle sue possibi-lità di riprendersi che ci spinge a studiare, senza pregiudizi, quali siano le sue attuali condizioni.Non si può negare che il quadro offerto sia piuttosto fosco. È però possibile trovare nei datialcune indicazioni di un certo ottimismo e di un desiderio degli italiani di “far funzionare lecose”, prima tra tutte la loro superiore attenzione alla salute o, da un punto di vista politico,il sentimento di fiducia nei confronti dell’Unione Europea. La speranza è quella che riguardandoa questi indicatori tra cinque o dieci anni molto sia cambiato, certi che questo non avverràsenza l’impegno del paese.

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

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2. Dati economici

In Italia, la crescita del Pil è stata molto scarsa negli ultimi quindici anni. Essaè la più bassa nel gruppo di paesi da noi considerato. In un arco di quindici anni, anche un di-vario di un solo punto percentuale in termini di crescita causa forti divergenze nel Pil e, dun-que, negli standard di vita.

La crescita italiana è inferiore a quella dei suoi partner in tutti i sottope-riodi considerati, la fine degli anni Novanta (con l’eccezione della Germania), i primi anniDuemila, gli ultimi 3 anni. In quest’ultimo triennio la performance italiana è stata par-ticolarmente negativa, segno che la crisi economica ha colpito pesantemente un sistemagià in difficoltà.

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C R E S C I TA D E L P I L1994-2001 2001-2006 2006-2009 1994-2009

UE 15 4.7% 1.9% - 0.4% 1.8%

Germania 3.3% 1.0% - 0.5% 1.1%

Spagna 6.8% 3.3% 0.2% 2.9%

Francia 4.5% 1.7% 0.2% 1.8%

Italia 3.6% 0.9% -1.7% 0.9%

Regno Unito 5.7% 2.6% - 0.7% 2.2%

Fonte dati: AMECO, serie Gross domestic product at 2000 market prices (OVGD)

P I L P RO C A P I T E1994 2001 2009

UE 15 19 971 23 530 24 399

Germania 22 509 25 359 26 400

Spagna 12 751 16 042 16 779

Francia 20 757 24 003 24 943

Italia 18 546 21 284 20 043

Regno Unito 22 718 27 802 29 607

Unità: euro, 1 GBP = 1,64 EUR (Tasso di cambio medio anno 2000)

Fonte dati: AMECO, serie Gross domestic product at 2000 market prices (OVGD)

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

Il Pil Pro Capite (PPC) dell’Italia è più basso di quello dei principali partnereuropei, ad eccezione della Spagna. Questo indice misura approssimativamente il redditodi ciascun cittadino ed è dunque comunemente usato come misura degli standard di vita delpaese. Questa misura indica dunque come gli standard di vita italiani siano tuttora più bassirispetto alle altre economie avanzate europee. È da notare, inoltre, come il Pil Pro Capite deiprincipali paesi europei sia aumentato tra il 2001 e il 2009, anche tenendo conto degli effettidella crisi, contrariamente a quanto accaduto in Italia. Nel nostro paese, dunque, gli stan-dard di vita sono oggi peggiori di quelli che si avevano nel 2001.

Questo indicatore consiste nella somma di esportazioni ed importazioni come per-centuale del Pil. Esso differisce dal rapporto tra il saldo commerciale e il Pil, che è invece cal-colato come la differenza tra esportazioni e importazioni in percentuale del Pil. Questo datoè comunemente utilizzato come misura dell’apertura dell’economia di un paese agli scambiinternazionali di beni e servizi.

Secondo questo indicatore, l’Italia è moderatamente aperta agli scambi in-ternazionali, all’incirca come Francia, Spagna e Regno Unito. La Germania è perònotevolmente più aperta. Nell’ultimo quindicennio, infatti, il valore di questo dato per l’eco-nomia tedesca aumenta di ben 23 punti percentuali, segno di un notevole processo di aper-tura economica.

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A P E RT U R A D E L L’ E C O N O M I A1994 2001 2009

UE 15 42% 57% 54%

Germania 38% 56% 61%

Spagna 32% 45% 35%

Francia 35% 49% 39%

Italia 34% 43% 38%

Regno Unito 40% 42% 38%

(Importazioni + Esportazioni)/Pil

Fonte dati: elaborazione su dati AMECO, serie DMGT, DXGT, UVGD

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Page 77: Italia Futura - Rapporto occupazione giovanile 2010

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Questa tabella mostra la mediadei flussi di investimento diretto estero(FDI) in entrata ed uscita dai diversipaesi europei. Questo dato è un ulte-riore indicatore dell’integrazione conl’estero del sistema economico. Gliinvestimenti diretti esteri sono, inItalia, di scarse dimensioni se con-frontati con gli altri paesi europeie la media UE. In particolare, Ger-mania, Francia e Regno Unito risultano

particolarmente integrate a livello internazionale da questo punto di vista.L’attrattività di un paese per gli investimenti diretti esteri può essere con-

siderata come un segno della fiducia degli investitori internazionali nel suo si-stema economico ed istituzionale.

L’indice di Gini è una comune misura di diseguaglianza dei redditi. Questo indice è com-preso tra valori di 0 e 100 e cresce all’aumentare della diseguaglianza dei redditi. Esso si ag-gira tuttavia in un intervallo attorno al valore di 30 per tutti i paesi più avanzati.

In Italia la diseguaglianza dei redditi è abbastanza elevata, se confrontatacon la Francia o i paesi nordici. Essa è tuttavia diminuita nell’ultimo decennio. Una certadiseguaglianza dei redditi, seppure fisiologica in un sistema economico di mercato, può ridurrela coesione sociale. Inoltre essa può essere interpretata come segno di una certa iniquità delsistema economico.

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I N V E S T I M E N T I E S T E R I 2001 2008

UE 15 2.6 2.3

Germania 1.7 2.4

Spagna 5 4.7

Francia 5.5 5.2

Italia 1.6 1.3

Regno Unito 3.8 4.7

Investimenti diretti esteri in rapporto al Pil

Fonte dati: elaborazione EUROSTAT, serie [tsier130] - Market Integration - Foreign Direct Investment (FDI) intensity

D I S E G UAG L I A N Z A1998 2001 2005 2008

UE 15 29 29 29.9 30.4

Germania 25 25 26.1 30.2

Spagna 34 33 31.8 31.3

Francia 28 27 27.7 28.1

Italia 31 29 32.8 31

Regno Unito 32 35 34.6 34

Indice di Gini

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

L’Italia è l'unico dei principali paesi europei in cui una grande frazione della popo-lazione vive in regioni con un reddito pro capite al di sotto del 75% della mediaeuropea e, allo stesso tempo, un altrettanto consistente frazione della popola-zione vive in regioni significativamente più ricche della media UE (125% del redditopro capite). Inoltre, quest'ultima quota si è fortemente ridotta negli ultimi anni. Questa è unadiretta conseguenza dei dati visti precedentemente, in particolare dell'inferiore crescita del-l'Italia rispetto agli altri paesi europei. In Spagna, la percentuale della popolazione residente inregioni più povere della media UE si è fortemente ridotta dal 2000 al 2007. Lo scoppio dellabolla immobiliare, tuttavia, potrebbe riportare a livelli più alti questo valore. In Francia, Ger-mania e Regno Unito, la frazione della popolazione residente in regioni il cui reddito pro ca-pite è inferiore al 75% della media UE, è pressoché nulla.

È da notare che stiamo qui confrontando l'Italia con la media UE 27 includendo quindianche i paesi di più recente accesso all'UE. Se si utilizzasse come metro di confronto la mediaUE 15 sarebbe ancora superiore la frazione della popolazione italiana che figurerebbe nellecolonne di sinistra.

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In Italia, la percentuale di nuove impresenate ogni anno, è inferiore a quella nei princi-pali paesi europei. La nascita di nuove imprese èparticolarmente dinamica nel Regno Unito. La len-tezza delle procedure burocratiche necessarieper avviare un’impresa è probabilmente un fattore de-terminante di questo dato.

N A S C I TA D I I M P R E S E 2007

Germania 9.46

Spagna 9.55

Francia 10.14

Italia 8.38

Regno Unito 14.28

Rapporto percentuale tra il numero di nuove imprese e quello di imprese attive

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsier150] - Business demography; Birth rate

S Q U I L I B R I R E G I O N A L I< 7 5 % > 1 2 5 %

2000 2007 2000 2007Germania 0 0 38 39

Francia 3 3 18 18

Spagna 21 2 18 20

Italia 22 29 57 25

Regno Unito 1 3 29 28

Percentuale della popolazione residente in regioni al di sotto e al di sopra del reddito medio europeo

Fonte: Centro Studi Confindustria, Scenari Economici, Autunno 2010, elaborazione su dati Eurostat

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

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3. Finanza Pubblica

Il debito pubblico italiano è tra i più elevati in Europa e nel mondo. Questonon accade solamente a causa della recente crisi finanziaria internazionale. Come evidenzianoi dati, questo fenomeno colpisce il paese da ormai più di quindici anni. Un paese chenel 1995 si trovava in una situazione peggiore della nostra, il Belgio, ha avviato negli ultimi de-cenni un forte programma di risanamento. Questo l’ha portato, tra il 1995 e il 2008, a ridurreil proprio rapporto debito/Pil di oltre 40 punti percentuali. In Italia, nello stesso arco di tempo,la riduzione è stata di soli 15 punti. Essa, inoltre, sembra essere fortemente rallentata a par-tire dal 2001, se si esclude la parentesi del 2007.

Un elevato debito pubblico costringe ogni anno il paese a destinare una granparte dei suoi introiti fiscali esclusivamente alla spesa per interessi. Esso impedisce,inoltre, l’avviamento di progetti pubblici necessari per il paese e lo espone all’andamento in-controllabile dei mercati finanziari internazionali. Per il rispetto dei parametri di Maastricht, ildebito pubblico di ogni paese europeo dovrebbe essere inferiore al 60% del proprio Pro-dotto interno lordo.

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D E B I TO P U B B L I C O1995 2001 2006 2007 2008 2009

UE 15 69.7 62.3 – – – –

Belgio 130.4 106.6 88.1 84.2 89.6 96.2

Germania 55.6 58.8 67.6 64.9 66.3 73.4

Spagna 63.3 55.5 39.6 36.1 39.8 53.2

Francia 55.5 56.9 63.7 63.8 67.5 78.1

Italia 121.5 108.8 106.6 103.6 106.3 116

Regno Unito 51.2 37.7 43.4 44.5 52.1 68.2

Debito delle amministrazioni pubbliche in percentuale del Pil9

9 I dati per l’UE-15 sulla finanza pubblica a partire dal 2006 non sono disponibili a causa dell’inaffidabilità dei dati per la Grecia. Que-sti saranno resi disponibili da Eurostat nel corso di Novembre 2010.

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

I dati sul deficit e sul debito sono strettamente connessi. Solo attraverso avanzi di bi-lancio positivi (surplus) è possibile infatti ridurre l’ammontare del debito pubblico, mentrel’accumularsi dei deficit, anno dopo anno, forma il debito pubblico.

La soglia da non superare per il rispetto dei parametri di Maastricht è del 3%.Questa viene superata 5 volte dall’Italia tra il 1998 e il 2008, 4 da Francia e Regno Unito, 3 dallaGermania e 2 dalla Spagna. Per ridurre sensibilmente il proprio debito l’Italia dovrebberegistrare forti surplus per diversi anni, seguendo l’esempio del Belgio. Questi surplus, peruna semplice constatazione aritmetica, possono essere ottenuti solamente per mezzo diun aumento delle tasse, già elevate, o di una riduzione della spesa pubblica.

Alternativamente, se l’Italia riuscisse ad ottenere una rapida crescita del Pil, oltre aveder migliorare i propri standard di vita, risolverebbe il problema del debito pubblico. Essendoquesto misurato in rapporto al Pil, infatti, un aumento del Prodotto interno lordo ridurrebbedrasticamente questo dato, senza imporre dolorose decisioni di finanza pubblica.

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D E F I C I T1995 2001 2006 2007 2008 2009

UE 15 -1.8 -1.3 – – – –

Belgio - 0.9 0.4 0.2 - 0.3 -1.3 - 6

Germania - 2.2 - 2.8 -1.6 0.3 0.1 - 3

Spagna - 3.2 - 0.6 2 1.9 - 4.2 -11.1

Francia - 2.6 -1.5 - 2.3 - 2.7 - 3.3 - 7.5

Italia - 2.8 - 3.1 - 3.4 -1.5 - 2.7 - 5.3

Regno Unito - 0.1 0.5 - 2.7 - 2.7 - 5 -11.4

Deficit delle amministrazioni pubbliche in percentuale del Pil

Fonte dati: EUROSTAT, serie [teina200] - General government deficit and surplus

P R E S S I O N E F I S C A L E1998 2002 2005 2006 2009

UE 15 45.7 44.4 44.7 – –

Belgio 49.5 49.7 49.4 48.8 48.1

Germania 45.9 44.4 43.5 43.7 44.5

Spagna 37.8 38.4 39.4 40.4 34.7

Francia 50.1 49.5 50.4 50.4 48.4

Italia 46.2 44.4 43.8 45.4 46.6

Regno Unito 39.4 39.1 40.8 41.5 40.4

Entrate statali in percentuale del Pil

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tec00021] - Total general government revenue; General government

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

La pressione fiscale italiana è in linea con quella nei principali paesi europei.Questa è più elevata rispetto a Germania, Regno Unito e Spagna ma più ridotta rispetto aFrancia e Belgio. Si assiste, in Italia e in Germania, a un processo di riduzione della pres-sione fiscale che si interrompe all’incirca nel 2005, seguito da un aumento negli ultimianni. Sia in Belgio che in Francia, caratterizzati da una pressione fiscale piuttosto elevata, si as-siste ad una certa riduzione del carico fiscale negli ultimi anni. La forte riduzione delle entratefiscali spagnole nel 2009 è da attribuirsi alla forte crisi economica che ha colpito questo paese.

La spesa pubblica in Italia è piuttosto elevata. Essa è rimasta tendenzialmente sta-bile negli ultimi dieci anni, attorno al 49% del Pil. Essa è, dunque, inferiore rispetto a Belgioe Francia ma maggiore di Germania, Spagna, Regno Unito e della media UE. In tutti i paesiconsiderati, la spesa aumenta molto nel 2009, come conseguenza della crisi eco-nomica e dei piani di sostegno dell’economia. Questo fenomeno è decisamentemeno accentuato in Italia. La Germania ha ridotto la spesa pubblica di 5 punti percentualitra il 2003 e il 2007 per aumentarla di nuovo solamente nel 2009.

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S P E S A P U B B L I C A1998 2002 2006 2007 2009

UE 15 47.5 46.8 – – –

Belgio 50.4 49.8 48.6 48.4 54.2

Germania 48 48.1 45.3 43.6 47.5

Spagna 41.1 38.9 38.4 39.2 45.8

Francia 52.7 52.6 52.7 52.3 56

Italia 49.2 47.4 48.7 47.9 51.9

Regno Unito 39.5 41.1 44.2 44 51.6

Spesa pubblica in percentuale del Pil

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tec00023] - Total general government expenditure; General government

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Questa tabella mostra la diffe-renza tra gli aiuti statali concessi al-l’economia nei sei anni precedenti lacrisi finanziaria e nel 2008. Si assistenei principali paesi europei ad unaumento nell’erogazione di aiutida parte dello Stato. Questo au-mento è particolarmente forte in Ir-landa e nel Regno Unito, dove sonostate compiute operazioni di “salvatag-gio” (bailout) del sistema finanziario.Anche in Germania e in Francia loStato è intervenuto attivamente a so-

stegno dell’economia. In Italia, gli aiuti concessi nel 2008, sono stati addirittura infe-riori alla media dei sei anni precedenti.

Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

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I N T E RV E N TO D E L L O S TATO N E L L A C R I S I E C O N O M I C A

2002-2007 2008UE 27 0.59 2.24

Germania 0.80 2.68

Irlanda 0.60 20.20

Spagna 0.50 0.56

Francia 0.56 1.37

Italia 0.44 0.35

Regno Unito 0.27 4.00

Aiuti statali all’economia in rapporto al Pil

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsier100] - State aid by type of aid; Total State aid

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Page 83: Italia Futura - Rapporto occupazione giovanile 2010

Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

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4. Mercato del lavoro

L’Italia compie, tra il 1994 e il 2009, una forte riduzione del tasso di disoc-cupazione. Questo diminuisce di quasi 3 punti percentuali, scendendo al di sotto della mediaUE. Una riduzione ancora maggiore avviene in Spagna, dove si riduce di più di 9 punti tra il1994 e il 2001. In Spagna, tuttavia, questo tasso ritorna nuovamente a livelli alti dopo la crisifinanziaria.

Il tasso di disoccupazione è, però, da molti punti di vista una misura carente perstudiare il mercato del lavoro. Esso non tiene conto, infatti, dei diversi tipi di con-tratto esistenti, considerando un lavoratore con contratto “flessibile” alla pari di un lavo-ratore a tempo indeterminato. Inoltre, qualora un disoccupato rimanesse tale per lungo tempoe decidesse di abbandonare i tentativi di ricerca di lavoro, esso non verrebbe più consideratodisoccupato, facendo diminuire questo dato. Si parla in questo caso di “lavoratori scoraggiati”.

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TA S S O D I D I S O C C U PA Z I O N E1994 2001 2009

UE 15 10.4 7.3 9

Germania 8.2 7.6 7.5

Spagna 19.5 10.3 18

Francia 11.6 8.3 9.5

Italia 10.6 9.1 7.8

Regno Unito 9.3 5 7.6

Fonte dati: AMECO, serie Unemployment rate, total (ZUTN)

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Page 84: Italia Futura - Rapporto occupazione giovanile 2010

Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

È possibile studiare il tasso didisoccupazione riferito, piuttosto cheall’intera popolazione, ad alcuni sotto-gruppi di essa, come, ad esempio, ledonne o i giovani, intesi come i minoridi 25 anni.

Il tasso di disoccupazionefemminile italiano è più alto diquello medio nell’Unione Euro-pea ma non eccessivamente. Esso è,tuttavia, più alto di quello riscontratoin Germania e Regno Unito. La condi-zione dei lavoratori minori di 25 anni è,

invece, più difficile. Il tasso di disoccupazione riferito ai giovani è molto alto in tuttaEuropa, ad eccezione che in Germania. In Italia, però, esso è particolarmente ele-vato, superiore alla media UE di quasi 6 punti percentuali.

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C U N E O F I S C A L E1996 2002 2008

UE 15 39.7 40.5 40.8

Germania 46.5 48.1 46.6

Spagna 34.4 35.7 34

Francia 44.3 47.4 45.4

Italia 48.3 43 43

Regno Unito 26.8 28.7 29.7

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiem050] - Tax wedge on labour cost

TA S S O D I D I S O C C U PA Z I O N E P E R G RU P P I

Donne Minori di 25 anni

UE 27 8.9 19.7

Germania 6.9 10.4

Spagna 18.4 37.8

Francia 9.8 23.3

Italia 9.3 25.3

Regno Unito 6.4 19.1

Fonte dati: EUROSTAT, serie Unemployment rate, annual average, by sex and age groups, dati anno 2009

Questo dato misura la percentuale del costo del lavoro dovuta all’imposizione fiscale,il cosiddetto cuneo fiscale sul costo del lavoro. In Italia, il carico fiscale sui redditi da la-voro risulta superiore alla media europea. Tuttavia, esso si è notevolmente ridottonell’ultimo decennio, principalmente a partire dal 1998.

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Page 85: Italia Futura - Rapporto occupazione giovanile 2010

Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

Il gender pay gap misura la differenza tra il sala-rio orario medio di un uomo e di una donna in rap-porto al salario medio di un uomo. Questo dato è unindicatore della discriminazione tra uomini e donne sulposto di lavoro. Secondo questo dato, la discrimi-nazione tra i sessi appare meno accentuata inItalia che nel resto d’Europa.

Il valore di questo indicatoreconsiste nell’età in cui, in media, un la-voratore si ritira dalla forza lavoro,smettendo di lavorare e di cercareun’altra occupazione. Esso è, dunque,un indicatore dell’età in cui, in media, ilavoratori vanno in pensione.

In Italia, l’uscita dalla forzalavoro avviene all’incirca un annoprima che nel resto d’Europa.

Questa età media è aumentatanel corso dell’ultimo decennio ma meno che negli altri paesi europei. È, dunque, aumentatoanche il divario con la media UE e con Germania, Regno Unito e Spagna. Questo dato è par-ticolarmente basso in Francia, dove i lavoratori vanno in pensione, in media, dueanni prima dei loro equivalenti europei. L’aumento della durata della vita e un inferioretasso di natalità rendono impossibile, per la sostenibilità del budget pensionistico, mantenerecontemporaneamente ai livelli passati l’età pensionabile e l’ammontare delle pensioni. Que-sto rende necessario, in Europa e in Italia, un ripensamento del sistema pensionistico.

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D I F F E R E N Z A D I S A L A R I O T R A I S E S S I

2007UE 15 18.3

Germania 23

Spagna 17.1

Francia 16.9

Italia 5.1

Regno Unito 21.1

Gender pay gap

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiem040]Gender pay gap in unadjusted form

U S C I TA DA L L A F O R Z A L AVO RO2001 2008

UE 15 60.3 61.5

Germania 60.6 61.7

Spagna 60.3 62.6

Francia 58.1 59.3

Italia 59.8 60.8

Regno Unito 62 63.1

Età media di uscita dalla forza lavoro

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiem030] - Average exit age from the labour force

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Page 86: Italia Futura - Rapporto occupazione giovanile 2010

Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

Il numero di incidenti mor-tali sul lavoro è in Italia legger-mente superiore alla mediaeuropea. Si assiste però a un generalefenomeno di riduzione di questo datoin tutti i paesi europei. Questo si riducein particolare di ben 4 punti in Spagna.

La riduzione è più conte-nuta in Italia. Il fenomeno di ridu-zione degli incidenti sul lavoro èpossibilmente dovuto a più stringenti

norme sulla sicurezza, al progresso tecnologico e ai conseguenti cambiamenti strutturali nel-l’apparato produttivo.

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I N C I D E N T I M O RTA L I S U L L AVO RO1997 2007

UE 15 3.4 2.1

Germania 2.7 1.8

Spagna 6.3 2.3

Francia 4.1 2.2

Italia 4.2 2.5

Regno Unito 1.6 1.3

Numero di incidenti mortali per 100.000 lavoratori

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tps00043] - Fatal accidents at work: incidence rate

Il coefficiente di variazione del-l’occupazione tra regioni è un indica-tore della variabilità del tasso dioccupazione tra le diverse regioni di unpaese o dell’Unione Europea. Questosarebbe pari a zero qualora l’occupa-zione fosse la stessa in ogni regione,mentre aumenta al variare di essa.Questo dato è uno degli IndicatoriStrutturali alla base del cosiddetto Pro-cesso di Lisbona.

In Italia la dispersione del-l’occupazione tra regioni è la più elevata in Europa, più che doppia rispetto a Germa-nia, Francia e Regno Unito. Questo dato è segno di forti differenze nell’economia delle diverseregioni italiane. Presumibilmente, dunque, esso è legato alle differenze, ancora persistenti,tra l’economia del Nord Italia e quella del Sud.

D I F F E R E N Z E R E G I O N A L I N E L L’ O C C U PA Z I O N E

1999 2007UE 15 13.8 10.5

Germania 5.4 4.8

Spagna 10.8 7.5

Francia 7.1 6.6

Italia 17.4 16.3

Regno Unito 7.5 5.4

Coefficiente di variazione dell’occupazione tra regioni

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsisc050] - Dispersion of regional employment rates

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5. Istruzione

Il test PISA, organizzato dall’OCSE nel 2006, valuta la performance scolastica degli stu-denti quindicenni in diversi paesi. La performance media italiana è inferiore alla mediaOCSE e dei principali partner europei in tutti i principali ambiti misurati.

Si può notare come la scarsa performance ita-liana nell’istruzione, evidenziata nella tabella riferita aidati PISA, avvenga nonostante un basso numero dialunni per insegnante, come dimostra il confrontocon gli altri paesi europei. È dunque probabile che, alfine di migliorare la prestazione scolastica degli alunniitaliani, non si debba ricorrere ad un aumento del nu-mero di insegnanti, apparentemente già elevato, quantopiuttosto a modifiche strutturali nel modo in cuil’istruzione è amministrata.

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P U N T E G G I O N E L T E S T P I S AMatematica Lettura Scienze

Media OCSE 498 495 500

Germania 504 495 516

Spagna 480 469 488

Francia 496 492 495

Italia 462 461 475

Regno Unito 495 488 515

Fonte dati: OECD, PISA Country Profiles, http://pisacountry.acer.edu.au

N U M E RO D I A L U N N IP E R I N S E G N A N T E

Germania 16.7

Spagna 11.2

Francia 14.4

Italia 10.7

Regno Unito 15.7

Fonte dati: EUROSTAT, serie Teachers and trainers; age distributions - pupils to teachers ratio, educ_thpertch

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L’Italia è uno dei paesi europeicon il più grave fenomeno di abban-dono scolastico. Una notevole fra-zione dei giovani abbandonal’istruzione senza una qualifica discuola secondaria superiore. Il con-fronto con Francia, Germania e RegnoUnito è notevole. Con ogni probabilità,queste persone si troverannosotto-qualificate nel mercato dellavoro ed avranno difficoltà ad inserir-cisi, specialmente nei settori più dina-mici e con maggior domanda di abilità

intellettuali. Come conseguenza, l’Italia si ritroverà in futuro in possesso di una forza lavorodotata di scarso capitale umano. Questo renderà ancora più difficile per il nostro paeseraggiungere i livelli di reddito delle economie più avanzate.

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La percentuale di laureati in materiescientifiche è in Italia inferiore alla media UE-27, oltre che a Francia e Regno Unito. Sorprende ildato riferito alla Germania, dove i laureati in questematerie sono ancor meno che in Italia.

Si può pensare che i laureati in materie tecnico-scientifiche possano offrire un maggior contributo ri-spetto al resto della popolazione in quei settori adalto livello tecnologico ritenuti maggiormenteimportanti per determinare la crescita e lacompetitività di un paese. Un simile dato può,quindi, fungere da indicatore parziale del livello diCapitale Umano di ogni paese.

L AU R E AT I I N M AT E R I ES C I E N T I F I C H E

2007UE 27 13.8

Germania 11.4

Spagna 11.2

Francia 20.7

Italia 12.1

Regno Unito 17.5

Numero di laureati in matematica, scienze e tecnologiaper 1000 abitanti tra 20 e 29 anni

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiir050] - Science and technologygraduates by gender; Graduates (ISCED 5-6) in mathematics,

science and technology per 1 000 of population aged 20-29, since 1993

A B B A N D O N O S C O L A S T I C O1999 2009

UE 15 20.5 15.9

Germania 14.9 11.1

Spagna 29.5 31.2

Francia 14.7 12.3

Italia 27.2 19.2

Regno Unito 19.8 15.7

Percentuale della popolazione tra i 18 e i 24 anni con al più una qualifica di scuola media inferiore

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsisc060] - Early school-leavers - Percentage of the population aged 18-24 with at most lower secondary education and not in further education or training

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Secondo questo dato, gli ita-liani dedicano una piccolissimafrazione del proprio consumo aiprodotti culturali. L’immagine fre-quentemente presentata dell’Italiacome paese della cultura e delle artiappare in contrasto con le abitudini diconsumo dei suoi abitanti. La spesaper consumo di prodotti culturalidell’italiano medio è all’incirca lametà di quella media UE, sia in ter-mini percentuali che assoluti.

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C U LT U R AEuro %

UE 15 1124 4.5

Germania 1374 5.4

Spagna 562 3.3

Francia 1079 4.2

Italia 583 2.4

Regno Unito 1475 4.9

Consumo di prodotti culturali (in Euro e in percentuale del consumo totale, anno 1999)

Fonte dati: EUROSTAT, Average annual cultural expenditure per household

Questi dati, tratti da un lavoroprecedente di Costanza Rodriguezd’Acri per Italia Futura e risalenti al-l’anno 2000, mostrano come in Italiasia particolarmente rilevante il feno-meno del brain drain. Questo consistein un deflusso di personale alta-mente qualificato dal paese d’ori-gine verso l’estero. Valori negativiindicano un deflusso, mentre valori po-sitivi indicano che il paese attrae per-

sonale qualificato dall’estero (brain gain). La cosiddetta fuga di cervelli assume dimensioniparticolarmente drammatiche se confrontata con l’andamento negli altri paesi europei che,dal 1990 al 2000, sono riusciti ad invertire la direzione del fenomeno, come nel caso dellaGermania. Secondo questi dati, la Francia aumenta di molto in questi dieci anni la propria ca-pacità di attrarre talenti, mentre il Regno Unito ne riduce il deflusso. Si ritiene comune-mente che il fenomeno si sia particolarmente aggravato in Italia negli ultimi diecianni. Questo comporterebbe una grave perdita di capitale umano per il nostro paese e, dun-que, forti danni in termini di crescita, prodotto pro capite e standard di vita.

B R A I N D R A I N1990 2000

Germania -194 234 147 586

Spagna 36 561 52 703

Francia 74 342 301 973

Italia -242 799 -243 868

Regno Unito -595 522 -214 360

Flusso di lavoratori qualificati verso l’estero

Fonte tabella: Costanza Rodriguez d’Acri, Italia 1994-2009: i numeri, Gli italiani oggi? Cambiamenti istituzionali e sociali

Fonte dati: World Bank, International Migration Dataset

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6. Istituzioni e Concorrenza

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L’indice di corruzione presen-tato, compilato ogni anno dall’associa-zione internazionale TransparencyInternational, misura la percezionedel livello di corruzione nel set-tore pubblico in 178 paesi del mondo.Il punteggio attribuito ad ogni paese vada 0, per un paese “molto corrotto”, a10, per un paese “pulito”. È riportatainoltre la posizione di ogni paese nellaclassifica globale di tutti i paesi inclusinello studio.

La performance dell’Italia èpessima. L’Italia è il penultimo paesedell’UE 15, seguita solamente dalla

Grecia. Inoltre, il nostro paese è superato da numerosi paesi “emergenti” comead esempio Turchia e Slovenia, in Europa, e numerosi paesi africani ed asiatici,come Botswana, Ghana, Ruanda, Malesia e Taiwan.

Questo dato consiste in un indicatore composito, basato sulla percezione del livello dicorruzione nel mondo. Sebbene ampiamente citato, la sua metodologia è stata recentementecriticata dall’Ocse, secondo cui ci sarebbe il rischio che questi dati siano distorti da pregiu-dizi di diverse forme10.

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C O R RU Z I O N EClassifica Punteggio

Danimarca 1 9.3

Irlanda 14 8.0

Germania 15 7.9

Regno Unito 20 7.6

Francia 25 6.8

Slovenia 27 6.4

Spagna 30 6.1

Portogallo 32 6.0

Turchia 56 4.4

Italia 67 3.9

Grecia 78 3.5

Indice di Percezione della Corruzione 2010

Fonte dati: Transparency International, Corruption Perceptions Index 2010

10 OECD Development Centre, Policy brief No. 39, Measuring Governance, di Charles P. Oman e Christiane Arndt

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Questo dato è un indicatore del grado di regolamentazione riguardante l’accesso e losvolgimento di attività professionali come la professione legale, contabile, ingegneristica e l’ar-chitettura. Valori più elevati indicano la presenza di una regolamentazione più forte.

Tra i paesi considerati, l’Italia è quello con la più stringente regolamenta-zione di queste attività, mentre è nel Regno Unito che esse sono maggiormenteliberalizzate. Inoltre, in Germania, Spagna e Regno Unito il grado di regolamentazione si èridotto negli ultimi anni, mentre è rimasto pressoché costante in Italia.

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AT T I V I T À P RO F E S S I O N A L I1996 2003 2008

Germania 4.17 3.08 2.85

Spagna 3.41 2.36 2.06

Francia 1.84 1.90 2.11

Italia 3.30 3.66 3.23

Regno Unito 1.36 1.05 0.74

Fonte dati: OECD, serie Professional Services

Il costo dell’energia per l’uso domestico è piuttosto elevato in Italia. Questopuò essere dovuto, oltre a problemi strutturali come l’assenza di materie prime o la mancataproduzione di energia nucleare, a una scarsa concorrenza nel settore dei servizi. La pre-senza di scarsa concorrenza nel settore dei servizi consiste in una grave inefficienza del sistemaproduttivo. A causa di essa, ingenti risorse vengono trasferite dai settori competitivia quelli caratterizzati da rendite di posizione. Sarebbe opportuno che lo Stato si im-pegnasse attivamente per aumentare la competizione laddove assente, con probabili beneficiper la maggior parte degli abitanti del paese.

P R E Z Z I D E L L’ E N E R G I A1994 2001 2007

UE 15 0.114 0.103 0.121

Germania 0.126 0.122 0.143

Spagna 0.106 0.086 0.100

Francia 0.103 0.091 0.092

Italia 0.159 0.157 0.166

Regno Unito 0.101 0.100 0.125

Unità: Euro/kilowattora al netto delle tasse

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsier040] - Electricity prices by type of user; Medium size households

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91www.italiafutura.it

F I D U C I A N E L L E I S T I T U Z I O N ISi fida Non si fida Non sa

UE 27 31 62 7

Germania 39 54 7

Spagna 21 71 8

Francia 36 57 7

Italia 26 62 12

Regno Unito 24 69 7

Fiducia nel Parlamento nazionale (%)Fonte dati: Commissione Europea, Eurobarometro, Standard Eurobarometer 73, QA14.2+3+4, Maggio 2010

F I D U C I A N E L L E I S T I T U Z I O N ISi fida Non si fida Non sa

UE 27 29 66 5

Germania 32 64 4

Spagna 20 76 4

Francia 25 71 4

Italia 25 64 11

Regno Unito 26 69 5

Fiducia nel Governo (%)Fonte dati: Commissione Europea, Eurobarometro, Standard Eurobarometer 73, QA14.2+3+4, Maggio 2010

F I D U C I A N E L L E I S T I T U Z I O N ISi fida Non si fida Non sa

UE 27 42 47 11

Germania 37 54 9

Spagna 43 44 13

Francia 39 51 10

Italia 42 41 17

Regno Unito 20 68 12

Fiducia nel nell’Unione Europea (%)Fonte dati: Commissione Europea, Eurobarometro, Standard Eurobarometer 73, QA14.2+3+4, Maggio 2010

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92www.italiafutura.it

Le rilevazioni dell’Eurobarometro mostrano come la fiducia degli italianinelle istituzioni nazionali sia leggermente inferiore a quella della media del-l’Unione Europea. I cittadini tedeschi appaiono particolarmente fiduciosi nel proprio go-verno, il cui partito di maggioranza, la CDU, è stato riconfermato al potere nelle elezioni chesi sono svolte pochi mesi prima di questo sondaggio. I francesi si distinguono invece per unafiducia superiore alla media nelle loro istituzioni parlamentari. I cittadini spagnoli appaionoparticolarmente sfiduciati nei confronti delle loro istituzioni politiche.

La fiducia degli italiani nell’Unione Europea è ancora piuttosto alta, supe-riore a quella dei cittadini dei principali paesi europei, con l’eccezione della Spagna. Su questotema, però, è grande la frazione degli italiani che non si sente in grado di dare una risposta,ben il 17% dei rispondenti al sondaggio. I cittadini britannici si distinguono per unascarsissima fiducia nelle istituzioni europee, oltre che nel proprio governo e parla-mento. È da notare che anche nel Regno Unito si sono svolte elezioni nel Maggio 2010 chehanno tuttavia portato ad un cambiamento nel partito di governo.

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7. Innovazione

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L’innovazione tecnologica èritenuta il fattore più determinanteper la crescita del Pil. Essa determinaa sua volta l’aumento degli standard divita in un paese. Pertanto la spesa in R&Dè un indicatore molto importante percomprendere l’andamento economiconel lungo periodo di un paese.

La spesa in R&D è moltoscarsa in Italia, di molto inferiore

a quella di tutti gli altri paesi europei. La Germania, in particolare, dedica una consi-stente frazione del proprio Pil all’innovazione tecnologica. Se l’Italia desidera competere conle economie più avanzate, sarà necessario investire nella produzione di conoscenza e nel-l’avanzamento della frontiera tecnologica del nostro paese.

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R I C E R C A E S V I L U P P O2001 2008

UE 27 1.86 1.9

Germania 2.46 2.63

Spagna 0.91 1.35

Francia 2.2 2.02

Italia 1.09 1.18

Regno Unito 1.79 1.88

Frazione del Pil spesa in attività di Ricerca e Sviluppo (R&D)

Fonte dati: EUROSTAT, serie Gross domestic expenditure on R&D (GERD)

I N T E R N E T2003 2009

UE 15 43 68

Germania 54 79

Spagna 28 54

Francia 31 63

Italia 32 53

Regno Unito 55 77

Percentuale di famiglie con accesso ad Internet

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiir040] - Level of Internet access – households

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Page 95: Italia Futura - Rapporto occupazione giovanile 2010

La domanda di brevetti da parte di aziende e cittadini italiani è molto infe-riore alla media UE. Questo dato è segno di una scarsa produzione di innovazione ditipo brevettabile. Il dato non è sorprendente vista l’inferiore quantità di risorse investita inRicerca e Sviluppo in Italia rispetto ad altri paesi. È inoltre possibile che, a causa della parti-colare struttura produttiva del nostro paese, parte dell’innovazione prodotta consenta un mi-glioramento dei processi produttivi ma, per le sue innate caratteristiche, non possa esseresoggetta a brevetto. Germania e Francia sono caratterizzate da una forte domanda di brevetti,segno di una vivace produzione di innovazione tecnologica.

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94www.italiafutura.it

È ancora scarso in Italia l’accesso delle famiglie alla rete. Solo il 53% di esse di-spone di accesso ad Internet in casa, 15 punti percentuali in meno che nella media UE e ben26 in meno che in Germania. Le potenzialità offerte dalla rete sono ormai ben note. Essa puòavere un notevole effetto migliorativo delle condizioni di vita, garantendo l’accesso amigliori informazioni e ad una maggiore scelta di beni e servizi, influendo anche sul livello dellaconcorrenza. Essa può permettere, inoltre, una semplificazione delle procedure amministra-tive e un migliore controllo delle attività dei governanti. Sarebbe opportuno che la politica av-viasse un’opera di incentivazione dell’accesso alla rete. In questo senso, sarebbero auspicabiliuna semplificazione della creazione di reti wifi pubbliche, un miglioramento dellecondizioni di concorrenza o persino un investimento diretto dello Stato nella creazionedi infrastrutture per le connessioni ad alta velocità.

B R E V E T T I1994 2001 2007

UE 27 62.17 105.06 116.54

Germania 153.01 264.44 290.7

Spagna 10.01 21.28 32.62

Francia 84.47 118.83 132.37

Italia 41 69.37 86.37

Regno Unito 63.47 94.53 89.16

Numero di domande presso l’ufficio brevetti europeoUnità: domande di brevetti per milione di abitanti

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiir060] - Patent applications to the European Patent Office (EPO)

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8. Popolazione

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Il tasso di rischio di povertà è definito da Euro-stat come la percentuale della popolazione che vivecon un reddito disponibile al di sotto del 60% dellamediana11 nazionale. Questo indicatore tiene contodell’effetto redistributivo compiuto dai trasferimentisociali. In Italia, la percentuale della popolazionea rischio di povertà è elevata, al di sopra dellamedia europea.

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E F F E T TO D E L L ' I N T E RV E N TO P U B B L I C O S U L L A P OV E RT À1995 2001 2008

UE 27 – – - 8.6

Danimarca – -19 -16

Germania - 7 -10 - 9

Spagna - 8 - 4 - 4.5

Francia -11 -13 - 9.8

Italia - 3 - 3 - 4.7

Regno Unito -12 -10 -10.2

Cambiamento nel tasso di rischio di povertà in seguito ai trasferimenti sociali

Fonte dati: elaborazione su dati EUROSTAT, serie At-risk-of-poverty after social transfers; Percentage, At-risk-of-poverty before social transfers; Percentage

11 http://epp.eurostat.ec.europa.eu/statistics_explained/index.php/Glossary:At-risk-of-poverty_threshold

P E R C E N T UA L E D E L L AP O P O L A Z I O N E

A R I S C H I O D I P OV E RT À 2008

UE 27 16.5

Germania 15.2

Spagna 19.6

Francia 13.3

Italia 18.7

Regno Unito 18.8

Tasso di rischio di povertà dopo i trasferimenti sociali

Fonte dati: EUROSTAT, serie At-risk-of-poverty after social transfers; Percentage

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Questo dato consiste nella differenza tra la percentuale della popolazione a rischio dipovertà prima e dopo l’intervento dei trasferimenti sociali. Un valore fortemente negativo in-dica un’efficace riduzione del rischio di povertà ad opera del sistema di trasferimenti.

Questo indice è molto scarso per l’Italia, segno evidente di un’incapacità del si-stema pubblico italiano di ridurre il rischio di povertà. L’indicatore è molto al di sottodella media europea, oltre che dei valori registrati da Francia, Germania e Regno Unito. Si puònotare come nei paesi nordici, tra cui la Danimarca inclusa a titolo di esempio, i trasferimentipubblici compiano una notevole attività di riduzione del rischio di povertà.

Il tasso di fecondità totale (Total fertility rate) è unindicatore della fertilità media di una donna in unpaese. Esso descrive il numero medio di figli cheavrebbe una donna nell’arco della sua vita ed è per-tanto anche detto numero medio di figli per donna12.

Il tasso di fecondità totale è in Italia infe-riore alla media UE, Regno Unito e Francia, in lineacon Spagna e Germania. Certamente, fattori economicie culturali possono influire su un simile dato, che puòperò rappresentare un semplice indicatore della fidu-cia nel futuro.

96www.italiafutura.it

N U M E RO D I F I G L I P E R D O N N A

2007UE 27 1.56

Germania 1.37

Spagna 1.40

Francia 1.98

Italia 1.37

Regno Unito 1.90

Tasso di fecondità totale

Fonte dati: EUROSTAT, serie Fertility indicators (demo_find)

12 Una definizione più esatta è disponibile su Wikipedia: http://en.wikipedia.org/wiki/Total_fertility_rate (inglese)

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I dati mostrano, disaggregando per sesso e per fasce di età, la percentuale di giovani re-sidenti con i propri genitori nei principali paesi europei nel 2008.

Per l’Italia questo dato è superiore alla media UE per ambo i sessi e pertutte le fasce di età considerate. Il dato è molto probabilmente influenzato da fattori cul-turali, come testimoniato dalla somiglianza del dato italiano a quello spagnolo o greco.

I dati per la fascia di età più “anziana” sono probabilmente i più preoccupanti. In Italia,quasi un uomo su due tra i 25 ed i 34 anni vive con i propri genitori. Questo feno-meno è praticamente inesistente nei paesi nordici o di dimensioni molto ridotte in Francia,Germania o Regno Unito.

La popolazione carceraria per abitante inItalia è piuttosto scarsa se confrontata con glialtri principali paesi europei. Questo fa pensareche le cattive condizioni del sistema carcerario, piùvolte documentate, non siano dovute a uno straordi-nario numero di detenuti quanto piuttosto a una ca-renza delle infrastrutture carcerarie.

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P O P O L A Z I O N E C A R C E R A R I A

2007Germania 89.1

Spagna 150.9

Francia 94.9

Italia 82.3

Regno Unito 145.8

Numero di carcerati per 100.000 abitanti

Fonte dati: elaborazione su dati EUROSTAT, serie crim_pris-Prison population e demo_pjan-Population

G I OVA N I1 8 - 2 4 2 5 - 3 4

Donne Uomini Donne UominiUE 27 71 81.5 19.6 32

Danimarca 27.1 40.4 0.5 2.8

Germania 70.8 83.5 9.2 18.7

Spagna 84.8 87.8 29.8 41.1

Francia 57.7 65.9 8 13

Italia 82.5 91.8 32.7 47.7

Portogallo 82.8 91.6 34.9 47.6

Regno Unito 64.2 75.6 10.5 20

Percentuale di giovani adulti residenti con i propri genitori

Fonte dati: EUROSTAT, newsrelease 8 ottobre 2010, One in three men and one in five women aged 25 to 34 live with their parents, http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_PUBLIC/3-08102010-AP/EN/3-08102010-AP-EN.PDF

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La frazione della popola-zione di origine straniera resi-dente è inferiore in Italia rispettoa quella registrata nella media deipaesi europei. Questo dato, tuttavia, èrapidamente aumentato negli ultimianni, quasi il triplo rispetto a diecianni fa. Oggi, in Italia, la percen-tuale della popolazione stranieraè superiore a quella riscontrata inFrancia, paese più comunemente as-sociato ai fenomeni di massiccia immi-

grazione. È possibile che il dato francese sottostimi la percentuale di residente di originestraniera, visto che non si considera qui straniero chiunque abbia ottenuto la cittadinanzafrancese, dunque gli immigrati di seconda e terza generazione.

L’accurata gestione delle politiche di immigrazione appare come una delle principalisfide per la politica. Il malcontento frequentemente registrato in Italia nei confrontidegli stranieri è probabilmente dovuto a questo improvviso aumento della loropresenza e a una mancata comprensione delle motivazioni e delle dimensioni deiflussi migratori internazionali.

98www.italiafutura.it

S T R A N I E R I1999 2008

UE 27 – 6.2%

Germania 8.9% 8.8%

Spagna 1.6% 11.6%

Francia 5.4% 5.7%

Italia 2.0% 5.8%

Regno Unito 3.9% 6.6%

Percentuale di residenti stranieri

Fonte: elaborazione su dati EUROSTAT, serie [tps00157] - Population by citizenship – Foreigners e [tps00001] - Total population

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9. Salute

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Questi dati sulla salute restituiscono un’immagine dell’Italia come paese più “sano”rispetto ai suoi principali vicini. Rispetto agli altri paesi considerati, l’Italia si distingue,infatti, per un’inferiore incidenza dell’obesità, per un minore consumo di alcool eper una minore percentuale di fumatori, principalmente tra le donne.

Queste più sane abitudini degli italiani possono certamente contribuire ad allungare laloro vita e a migliorarne la qualità. Inoltre, per mezzo di un aumento delle condizioni generalidi salute, possono contribuire ad alleggerire il costo del sistema sanitario nazionale.

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O B E S I T ÀUomini Donne

Germania 20.5 21.1

Spagna 15.7 15.4

Francia 16.1 17.6

Italia 7.4 8.9

Regno Unito 24 24

Percentuale della popolazione obesa

Fonte dati: Organizzazione Mondiale della Sanità, World Health Statistics 2010

TA B AC C OUomini Donne

Germania 37.2 25.7

Spagna 37.0 27.2

Francia 36.4 26.9

Grecia 63.4 39.4

Italia 34.0 19.5

Regno Unito 26.1 23.5

Percentuale di fumatori Unità: Percentuale di fumatori tra i maggiori di 15 anni

Fonte dati: Organizzazione Mondiale della Sanità, World Health Statistics 2010

B E VA N D E A L C O L I C H E 2007

Germania 11.7

Spagna 10.0

Francia 13.2

Italia 8.0

Regno Unito 11.5

Consumo di bevande alcoliche per personaUnità: Litri di alcol puro per persona per anno

Fonte dati: Organizzazione Mondiale della Sanità, World Health Statistics 2010

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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile

L’aspettativa di vita alla nascitacostituisce il principale indicatore ri-guardo la durata attesa della vita di unabitante medio di ciascun paese. Biso-gna sottolineare, come questo dato,tenda a sottostimare la durata massimadella vita degli abitanti di un paese.Dalla tabella si nota come questodato sia sostanzialmente omoge-neo per tutti i paesi inclusi nel no-

stro campione. Questo è segno di un livello sostanzialmente molto simile nelle condizioni disalute generali della popolazione. In Italia, Francia e Spagna, l’aspettativa di vita è leggermentesuperiore a quella in Germania e Regno Unito, soprattutto per quanto riguarda le donne.

Secondo questa classifica, presentata in uno stu-dio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità con datirisalenti all’anno 2000 ed ampiamente citata, il sistemasanitario italiano è il secondo al mondo per li-vello di efficienza. Questo dato sembra, dunque,contraddire il malcontento frequentemente registratonei confronti del sistema sanitario nazionale. In parti-colare, secondo questa classifica, gli Stati Uniti sareb-bero solamente il trentasettesimo paese mondiale perlivello di efficienza del sistema sanitario.

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D U R ATA D E L L A V I TAUomini Donne

Germania 76.4 82.0

Spagna 77.7 84.1

Francia 77.2 84.1

Italia 78.3 84.0

Regno Unito 77.0 81.3

Aspettativa di vita alla nascita

Fonte dati: OECD, Dataset Gender, Institutions and Development Database 2009 (GID-DB)

S I S T E M A S A N I TA R I O Posizione

Francia 1

Italia 2

Spagna 7

Regno Unito 18

Germania 25

Classifica internazionale dei sistemi sanitari

Fonte dati: WHO, Measuring Overall Health System Performance For 191 Countries, Tandon, Murray, Lauer, Evans

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10. Ambiente

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L’Italia è il paese europeo13 con il maggior numero di automobili per abi-tante. Questo dato potrebbe essere comprensibile qualora il Pil pro capite italiano fosse no-tevolmente più elevato di quello degli altri paesi europei. Dato che il Pil italiano è inveceinferiore a quello dei principali paesi europei, deduciamo che gli italiani spendono per leautomobili una frazione ancora maggiore del proprio reddito. Questo dato potrebbesegnalare una carenza di servizi di trasporto pubblico, o altri fattori, di tipo culturale egeografico, che spingono gli italiani a comprare molte più auto degli altri cittadini europei.

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AU TO M O B I L I1996 2001 2006

UE 15 435 480 506

Germania 500 538 566

Spagna 373 443 464

Francia 427 467 489

Italia 536 583 597

Regno Unito 392 435 471

Numero di auto per 1.000 abitanti

Fonte dati: EUROSTAT, serie road_eqs_carhab-Passenger cars per 1000 inhabitants

13 Ad eccezione del Lussemburgo, le cui caratteristiche lo rendono però non confrontabile con gli altri paesi.

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L’utilizzo di energie rinno-vabili è ancora piuttosto scarso inItalia. Questo avviene nonostante lacarenza di materie prime dovrebbespingere il nostro paese ad adottare si-stemi alternativi di produzione di ener-gia. Nella colonna per il 2020 è indicatol’obiettivo previsto dalla strategia Eu-rope 2020. Tutti i paesi europeisono ancora piuttosto lontani dalraggiungere quest’obiettivo, maquesto è vero in particolar modoper l’Italia.

L’esposizione all’inquinamentoda particolato è molto elevata nel no-stro paese, superiore alla media UE.Inoltre la concentrazione nell’ariadi questo componente è aumen-tata negli ultimi anni, a differenzadi quanto avvenuto, ad esempio,in Germania, Regno Unito e Spa-gna. Questo dato è indicatore di unascarsa qualità della vita nelle città ita-liane e, in particolare, di gravi rischiper la salute.

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E N E R G I E R I N N OVA B I L I2008 2020

UE 27 10.3 20

Germania 9.1 18

Spagna 10.7 20

Francia 11 23

Italia 6.8 17

Regno Unito 2.2 15

Uso di energie rinnovabili Unità: percentuale di energie rinnovabili nel consumo finale di energia

Fonte dati: EUROSTAT, serie [t2020_31] - Share of renewable energy in gross final energy consumption

I N Q U I N A M E N TO D E L L’ A R I A2001 2008

UE 27 27.1 26.8

Bulgaria 28.6 52.7

Germania 24.9 21.1

Spagna 30.6 27.7

Francia 21.9 24.1

Italia 31.1 34.3

Finlandia 16.4 14.3

Regno Unito 24.2 20.4

Esposizione all’inquinamento da particolato Unità: concentrazione nell’aria

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsien110] - Urban population exposure to air pollution by particulate matter

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Le tasse sull’ambiente sono frequentemente proposte15 come soluzione ai problemidi finanza pubblica e, allo stesso tempo, come metodo per incentivare la ricerca ela crescita nei settori “verdi” a minore impatto ambientale. Questo è quanto sugge-rito anche dalla ricerca economica sul tema delle esternalità secondo cui, qualorapossibile, sarebbe auspicabile tassare quelle attività che procurano un danno allacollettività.

L’Italia si distingueva negli anni Novanta per un’elevata frazione del get-tito pubblico derivante dalle tasse ambientali. Questa frazione è tuttavia costante-mente diminuita negli ultimi quindici anni, fino ad arrivare al di sotto della media UE. Il RegnoUnito è, invece, uno dei paesi che maggiormente si affida alle tasse sull’ambiente come stru-mento di finanza pubblica.

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14 Le tasse ambientali sono definite da Eurostat come quelle tasse che incidono su attività dannose per l’ambiente. Esse includonodunque le tasse sull’energia, sui trasporti e sull’inquinamento.15 Secondo il Segretario Generale dell’OCSE, Angel Gurría, “spostare parte del carico fiscale sull’inquinamento renderebbe più at-traente lo sviluppo e l’adozione delle tecnologie pulite e promuoverebbe la crescita verde”. Fonte: http://www.oecd.org/document/1/0,3343,en_2649_37465_46177473_1_1_1_1,00.html

TA S S E S U L L’ A M B I E N T E1994 2001 2008

UE 25 6.73 6.06

Germania 5.92 6.31 5.65

Spagna 5.96 6.22 4.93

Francia 5.91 5.31 4.92

Italia 8.78 7.13 5.68

Regno Unito 8.02 7.6 6.49

Percentuale delle entrate fiscali dovuta a tasse ambientali14

Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsdgo410] - Shares of environmental and labour taxes in total tax revenues

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finito di stampare

nel mese di novembre 2010

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Italia Futura

Èper promuovere il dibattito pubblico oltre le patologie di una transizione politica ormai ripetitiva.

È uno strumento di libera progettazione sul futuro del paese, che vuol dar voce a chi non si rassegna a contribuire alla vita pubblica solo il giorno delle elezioni.

È un incubatore per le idee e i progetti che nascono dalla conoscenza dei problemi reali e dalla passione civile di singoli cittadini e di altre realtà associative.

un luogo di ideazione civile, nato

Irene TinagliInsegna all'Università Carlos III di Madrid, è esperta di innovazione, creatività e sviluppo economico.

if

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Stefano MicelliInsegna Economia e Gestione delle Imprese all'Università Cà Foscari di Venezia e dirige la Venice International University.

Marco SimoniInsegna economia politica alla London School of Economics, dove è coordinatore del Master in Public Administration in European Public and Economic Policy.

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