Istituto Superiore Formazione Insegnanti Yoga Sergio - La meditazione... · Spinoglio Sergio, tesi:...
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Yoga
Titolo della tesi
Candidato
Eleonora Rasetto Sergio Spinoglio
Istituto SuperioreFormazione Insegnanti
ISFIY di Milano corso 2004/2008
Relatore
“la Meditazione nell'Āsana”
ISFIY Milano 2004-2008. Spinoglio Sergio, tesi: “la meditazione nell’āsana”
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INDICE
1. INTRODUZIONE ........................................................ Pag 2 2. DAI TESTI DELLA TRADIZIONE ........................... Pag 3 2.1 Il sādhana, cammino yogico. Yoga-sūtra 2 ...................................... Pag 3 2.2 Āsana stabile, immobile ed agevole. Yoga-sūtra 2,46 ...................... Pag 6 2.3 Mente concentrata sull'infinito, ananta. Yoga-sūtra 2,47 ................ Pag 9 2.4 Interruzione di disagio dalle coppie di opposti. Yoga-sūtra 2,48 ..... Pag 10 2.5 I guṇas e annamāyākośa. Bhagavadgītā e Yoga-sūtra 2,18 ............ Pag 12 2.6 Abyāsa e vairāgya. Bhagavadgītā e Yoga-sūtra 1,12 ....................... Pag 14 2.7 Dhyāna sopprime le modificazioni dei kleśa. Yoga-sūtra 2,11 ......... Pag 16 3. REALIZZARE UN ĀSANA ........................................ Pag 19 3.1 Āsana come elemento di decondizionamento posturale e mentale .... Pag 19 3.2 Āsana come trasformazione della coscienza ..................................... Pag 20 3.3 Āsana come esplorazione della realtà ............................................... Pag 21 3.4 Āsana, ponte dall'io al sé ................................................................... Pag 22 4. ALCUNI ĀSANA PER MEDITARE ......................... Pag 24 4.1 Preparazione alle posizioni meditative ............................................. Pag 24 4.2 Alcune posizioni meditative .............................................................. Pag 25 4.3 Effetti e controindicazioni ................................................................. Pag 30 4.4 Il prāṇayāma negli āsana meditativi ................................................ Pag 32 5. L'AMBIENTE, IL LUOGO, IL TEMPO .................. Pag 35 5.1 Premessa ........................................................................................... Pag 35 5.2 Quando e dove è meglio meditare .................................................... Pag 36 6. UNA MEDITAZIONE .............................................. Pag 39 6.1 Premessa .......................................................................................... Pag 39 6.2 La meditazione della montagna ....................................................... Pag 39 6.3 L'esicasmo ........................................................................................ Pag 42 7. MANTRA UTILI A MEDITARE .............................. Pag 44 8. ALCUNE MUDRĀ PER MEDITARE ...................... Pag 47 9. ESPERIENZA PERSONALE ................................... Pag 49 BIBLIOGRAFIA ........................................................ Pag 52
Voglio Ringraziare: la relatrice Eleonora Rasetto, la maestra Daniela De Michelis, la mia Famiglia e il fiore di loto che sopra il mio capo è il custode del Brahman.
ISFIY Milano 2004-2008. Spinoglio Sergio, tesi: “la meditazione nell’āsana”
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1. INTRODUZIONE Immaginatevi una donna in gravidanza, immaginatela oltre il sesto mese quando è
evidente la vita che si sta sviluppando in lei, se allora le bussate con la mano un paio di
volte sul ventre è molto probabile che dall'interno vi giunga un calcio o comunque una
risposta. È un gesto che prima ancora del risveglio del neonato alla luce del sole mostra
già il contatto della mente col mondo grossolano: la mente, è l'organo che elaborando le
sensazioni, ci condizionerà tutta la vita, creando bisogni presunti e desideri, definendo la
qualità delle cose con cui relazioneremo nel contatto sensoriale o immaginario.
La mente umana è anche generatrice delle più importanti domande esistenziali: da dove
vengo, dove vado, a chi appartengo, qual è lo scopo della mia vita ... ecc. ... ecc. .
Un giorno, durante una meditazione sul sole, mi si è posto un interrogativo che provo a
raccontare. Mi sono chiesto: se il sole, con la sua carica di energia non sorgesse e non
tramontasse mai, trascurando tutte le conseguenze climatiche, sarebbe sempre giorno o
sempre notte e se anche la luna si fermasse probabilmente la notte non sarebbe buia ma
illuminata dal riflesso lunare del sole, come il sole allo specchio. Ma allora è la presenza
o l'assenza di luce e di energia a condizionarmi? O non è forse il suo mutare? Quindi, mi
sono domandato: io preferisco il sole con la sua carica di energia impetuosa,
inesauribile, quasi eterna, o la luna rassicurante lanterna del mio cammino o forse
meglio un po' l'uno e un po' l'altra a seconda della mia necessità mentale mutante tra un
momento ed un altro? L'alternarsi del sole e della luna, che per natura segnano il
trascorrere del tempo, secondo la scienza yogica del corpo sottile sono proprio i due
elementi opposti condizionanti, che rappresentano i diversi livelli di energia del corpo,
tra la parte superiore lunare e quella inferiore solare e ancora tra la parte sx lungo la iḍā
nādī lunare e a dx lungo la piṅgalā nādī solare. Ma luce, suono, odore, tocco, sapore,
memoria, sono la nostra vera essenza o sono piuttosto le illusioni della natura? È
possibile de-condizionarci da questi? Gli oggetti della natura coi loro tempi, sono
condizionamenti fortissimi che la mente assorbe identificandosi, creando così dei
bisogni e dei desideri che sono evidenti vincoli alla libertà se soffocano il nostro essere:
il Sé spirituale o Puruṣa. Senza dubbio il buio ci spaventa, come il freddo ci indebolisce,
l'afa ci soffoca, la guerra ci rabbrividisce, l'amore ci provoca fremiti, ecc. questa è la
Natura materiale o Pṛakrti. Ma l'esperienza dei Guru dello Yoga dimostra che esiste una
realtà superiore, un'antica sempre viva essenza a cui dissetarsi, a cui alimentarsi ogni
istante del tempo presente permanente, ed è in ognuno di noi, è il Sé o Puruṣa
individuale e collettivo.
Lo stato meditativo yogico è uno strumento per riscoprire il Sè.
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2. DAI TESTI DELLA TRADIZIONE Analizziamo alcuni aspetti filosofici che sostengono la pratica degli āsana, in particolare
nella concentrazione e nella meditazione, sostenuti dalle determinanti intuizioni dei
Maestri o Guru di tradizione Yoga, uno dei sei darśana o punti di vista della filosofia
indiana, che trasmettono le loro immense conoscenze spesso per via orale, arrivando a
noi in forma fruibile e praticabile anche tramite l'opera dei Maestri occidentali.
Il seme germogliato si nutre e crea una pianta rigogliosa quando riceve dalla terra il
nutrimento, ossia l'humus formatosi da ciò che è vissuto prima e che quindi in sostanza
rivive sempre, e così dopo aver agito anche il seme si dissolve a favore della pianta. Così
l'azione dell'uomo di oggi si nutre delle intuizioni e delle rivelazioni che tramandate da
uomo a uomo sono sempre presenti, sono vive nella tradizione e mostrano una o più vie
di liberazione dal senso di sofferenza degli esseri.
Patañjali, probabilmente solo uno pseudonimo di una grande scuola Yoga, è uno dei più
riconosciuti tra questi maestri e nella sua opera Yoga-sūtra espone gli aspetti essenziali
di conoscenza dello Yoga, ciò avviene intorno al V secolo d.C.
2.1 Il sādhana, cammino yogico: Yoga-sūtra 2
Il sādhana, esposto nel 2°Pāda (capitolo) dello Yoga sūtra di Patañjali, è il cammino
lungo il sentiero che conduce gradualmente passo dopo passo attraverso l'azione, allo
stato di yogin, ovvero di colui che controlla il proprio essere nel corpo e nella mente
cosciente fino allo stato di estasi in cui ha superato ogni sofferenza.
Il primo aforisma di questo Pāda recita:
"Tapah-svadhyayesvara-praṇidhāna
nikriyā-yogah"
“l'austerità (Tapah), lo studio di Sé (Svādhyāya)
e la rassergnazione (ndr. abbandono) (praṇidhāna) all'Īśvara
costituiscono lo Yoga preliminare” (1)
leggiamo le affermazioni di un noto commentatore su questo aforisma:
“chiunque abbia familiarità con la meta della vita Yoga e col tipo di
sforzo che essa implica per essere realizzata, si renderà conto che
non è possibile gettarsi subitamente nella pratica normale dello
Yoga. Anzitutto dovrà avvezzarsi alla disciplina, acquisire la
necessaria conoscenza degli Yoga-sastra, l'insieme delle dottrine
predicate da questo darśana (punto di vista), ridurre l'intensità del
proprio egoismo e di tutti gli altri kleśa (afflizioni) che ne
conseguono”...“Tale auto-disciplina preparatoria è, per sua natura,
triplice, in corrispondenza con quella dell'essere umano. Tapa si
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riferisce alla sua volontà, svādhyāya all'intelletto, Īśvara-praṇidhāna
alle emozioni. È una disciplina che produce l'evoluzione completa ed
equilibrata dell'individuo, così importante per conseguire qualsiasi
altro ideale.” (1)
L'abito necessario ad affrontare questo cammino è il calore dell'ascesi, detto Tapa,
Tapas o Tapah, un'attitudine vocazionale dell'individuo in cui si rivelano la
consapevolezza, la fiducia e la compassione alla luce delle intuizioni di un Maestro e
della sua tradizione. È un atto di forte volontà che nel percorso dello Yoga si manifesta
con varie sensazioni di calore.
A proposito della propria volontà di cercare la consapevolezza e la compassione
dell'esistenza, cito l'insegnamento di Śri Nisargadatta Maharaj che dice:
“niente è necessario, niente è inevitabile. L'abitudine e la passione
accecano e ingannano. La consapevolezza compassionevole sana e
redime.” (2)
Lo studio introspettivo di Sé e lo studio dei Testi Sacri, detto svādhyāya, costituisce il
bagaglio per mettersi in cammino, cioè l'aggancio con la tradizione dei maestri e l'uso
intuitivo e intelligente delle scoperte che affiorano nel percorso di crescita personale. Un
bagaglio il più possibile leggero, alla ricerca di un nuovo mondo che emergerà nella
coscienza individuale, cercando di eliminare a poco a poco il superfluo che la māyā (la
natura) crea con i desideri materiali, attraverso i sensi esterni alimentati dagli oggetti dei
sensi manifesti, a cui si aggiungono quelli interni della mente conscia ed inconscia.
Passato e futuro, ricordi e speranze ci nascondono la realtà del Puruṣa, l'essenza pura
dell'esistenza, che è sempre presente oltre la mente e si rivela quando questa è calmata
nel suo fluttuare.
L'abbandono al Signore, detto Īśvara praṇidhāna, è quindi come la torcia illuminante sul
cammino lungo il sentiero del sādhana. Come dice Kṛṣṇa nella Bhagavadgītā 9,27:
"Checché, tu faccia, mangi, offri in sacrificio o dai in elemosina,
qualsiasi penitenza tu pratichi, fallo, o Arjuna, come un'offerta a
me" (3)
È la devozione fiduciosa al Dio personale, nelle nostra tradizione il Dio Jahve o Abbà di
Gesù, che ci rischiara un cammino che può essere ricco di luci ma anche di ombre,
specie per l'uomo comune che vive nel mondo sociale tra la famiglia, la carriera, la
società, ovvero l'egoità degli individui che induce al rafforzamento dell'io.
Allora il Signore di qualsiasi tradizione, diventa un punto fermo su cui tornare, il faro
che ci permette di evitare gli ostacoli, l'obiettivo a cui puntare per essere condotti “là
dove scorrono fiumi d'acqua viva” promette Gesù almeno dopo la morte fisica, ma per
l'adepto yogin già sperimentabile in questa vita.
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Devozione che diventa il terreno di coltura della comunione verso ogni creatura, come
parti di un'unica essenza, il Brahman, il Principio Superiore Divino.
Gesù, il Signore della tradizione cattolica, diceva rispondendo alle domande di una
samaritana su dove fosse meglio pregare:
"I veri adoratori devono adorare in spirito e verità"
“la traduzione letterale dell'espressione greca "en pneumati kai
aletheia" più precisamente dovrebbe essere: "devono pregare nel
respiro e nella vigilanza". Si potrebbe anche tradurre: “bisogna
pregare con un respiro vigile cosciente o anche risvegliato”.” (4)
Una forma di adorazione che ha tutte le carte in regola per essere la lanterna dello yogin,
infatti nella sua azione utilizza lo stato di veglia e il controllo del respiro.
Patañjali poi nel proseguo del 2°Pāda ci prospetta l'estasi del samādhi come la meta
finale del cammino, ma ci mette subito davanti alle sofferenze o false conoscenze della
realtà, i kleśa, che l'uomo ordinario deve affrontare in ogni momento della sua esistenza.
Il primo di questi che poi è la radice di tutti gli altri, è chiamato avidyā, letteralmente
traducibile con non-conoscenza. In una metafora si può pensare alla nostra esistenza
come un grande campo agricolo infestato appunto dalla pianta soffocante che è la
conoscenza errata della nostra vera natura, questa si dice avidyā.
Gli effetti di avidyā sono espressi nelle parole di Śri M. Nisargadatta:
“La realizzazione non è altro che l'opposto dell'ignoranza.
Considerare reale il mondo e irreale il proprio Sé è ignoranza che è
fonte di dolore. Conoscere il Sé come unica realtà, e tutto il resto
come temporaneo e transitorio, è libertà, pace e gioia” (5)
e ci indica un modo per diradare avidyā:
“È come pulire uno specchio. Lo stesso specchio che ti mostra il
mondo come è, ti mostrerà anche il tuo viso. Il pensiero “io sono” è
il panno per pulire. Usalo” (6)
Per capire meglio l'intuizione di Patañjali su cos'è avidyā, su cos'è la conoscenza errata
dell'uomo, diciamo che:
“l'uomo non sarebbe completamente libero di decidere della propria
vita, perché conduce un'esistenza condizionata dal suo passato. Non
è cosciente del fatto di aver subito sin dalla nascita e a sua insaputa
l'influenza di una forza sotterranea che si è puntualmente sostituita
alla sua libera scelta; lo Yoga sūtra individua il principio di questo
inganno in avidyā, concepita come una falsa concezione di Sé e una
falsa percezione del mondo che nasce dalla sovrapposizione del
nostro modo illusorio di percepire la realtà alla realtà stessa” (7)
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Lo yogin “liberato definitivamente” (kaivalya) va oltre all'erronea conoscenza avidyā e
con ciò interrompe l'accumulo futuro delle azioni buone e cattive, il cosiddetto karman.
Le altre infestanti del nostro esistere, le 5 afflizioni della teoria dei kleśa, Patañjali le
elenca come l'egoità (asmitā), esaltare l'ego, cioè mettere una barriera tra l'io e ogni altra
creatura, l'attrazione (rāga) che rappresenta un forte desiderio di possesso o di
soddisfazione al quale seguirà un altrettanto forte distacco data la transitorietà di ogni
azione umana, quindi l'avversione (dveṣa) che rappresenta il sentimento opposto
doloroso di per se stesso, infine l'attaccamento alla vita (abhiniveśa) che è quel
sentimento umano comunque latente che da un lato ci fa stare lontani dall'idea di
“lasciare la vita” e dall'altro ci rende atterriti ogni qualvolta ci capita un imprevisto che
anche solo in parte ci avvicina alla morte fisica.
Infine Patañjali, in Yoga sūtra 2,11 dice che se il kriyā-Yoga interrompe gli effetti dei
kleśa, la meditazione permette l'estinzione delle manifestazioni anche sottili dei kleśa,
un aforisma che verrà ripreso più avanti in questa mia trattazione, ma che già ora ci
chiarisce che la meditazione è necessaria.
Bisogna in pratica passare dall'azione, kriyā-Yoga, alla meditazione, raja-Yoga, per
eliminare le manifestazioni più sottili dei kleśa.
2.2 Āsana stabile, immobile ed agevole: Yoga-sūtra 2,46
Analizziamo i pilastri che reggono la pratica degli āsana, in particolare per uso
meditativo. Iniziamo dal trattato Yoga-sūtra di Patañjali, dal noto 2,46:
“Sthira-sukham āsanam”
“la postura (dovrebbe essere) stabile e comoda” (8)
che mette in chiaro l'aspetto dell'immobilità, se necessario con l'ausilio di supporti.
Quindi l'uso del corpo è indispensabile, perché di corpo siamo fatti e alle leggi fisiche,
chimiche, biologiche dobbiamo sottostare, ma senza abusarne. Si definisce poi la
moderazione dell'āsana che deve rimanere comodo e insieme stabile, un concetto che
permette all'individuo, con i suoi limiti, di esplorarsi in profondità quando è immobile,
come nel fotogramma di una foto-camera che fissa l'istante presente.
Il corpo fisico deve quindi trovare l'equilibrio senza un particolare impegno muscolare
ma sostenendosi soprattutto con lo scheletro, riducendo le tensioni e i segnali nervosi
associati. È quindi una non-azione sui nervi motori e sui nervi sensori. Nell'immobilità
essendosi arrestati i segnali del sistema nervoso motore dell'adepto anche il sistema dei
nervi sensori progressivamente non avverte più le esatte percezioni, ed al loro posto si
attivano i sensi interni avviando esperienze cognitive profonde:
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“le informazioni interne, cessate quelle esterne, si evidenziano in
modo potente e si fanno i conti con le informazioni accumulate nel
corso della vita nelle varie esperienze” (9)
Come in natura si vedono elementi che nell'apparente immobilità si trasformano in
elementi nuovi, vedi il bruco e la farfalla o il seme e la pianta, così nel rimanere
apparentemente fermi in posture (āsana) meditative, in realtà vi è un continuo
movimento di muscoli involontari, cuore, stomaco, ghiandole, movimenti di flussi di
energia, degli organi della respirazione, fino alle più piccole cellule nella loro vitalità
vibrante. È una forma che cambia continuamente, da cui vedremo si origina una
importante trasformazione.
L'immobilità che, dalla haṭha-Yoga-pradīpikā, in taluni āsana può durare fino a tre ore:
“rappresenta un catenaccio energetico dove il prāṇa viene orientato
verso l'alto. Gli yogi assumono così le caratteristiche del cadavere,
freddi, ma la parte superiore del capo, il bindu, presenta una zona
calda dove si concentra il prāṇa” (10)
L'immobilità incide anche sul piano del corpo mentale superficiale (manamāyākosha) e
dopo su quello conoscitivo (vijñānamāyākośa) dell'intuizione discriminante (viveka),
cioè si passa dal placare i pensieri involontari, a porsi domande profonde come “io chi
sono?”, trovando conforto nello stesso pensiero espresso, e poi oltre la mente, fino a
percepire l'acquietarsi anche di questa fase pensante.
Nello sperimentare l'immobilità si va dagli āsana, le posture, al metodo di controllo del
prāṇa, il prāṇayāma, e si attraversa il pratyahara, la porta d'ingresso a pratiche man
mano più avanzate, dette antar-Yoga o Yoga interiore, comprendenti la concentrazione
dharānā, la meditazione dhyāna e lo stato estatico samādhi. L'immobilità è la premessa
necessaria a stati di concentrazione e meditazione.
Ma ciò che mi preme sottolineare è che tutto deve avvenire con progressione nel tempo e
nel livello della pratica, un piccolo gradino alla volta, giorno per giorno, e in alcuni
periodi accettare di non avere apparenti progressioni, ma sempre accompagnati dal
tapas, la volontà di ricerca che sviluppa un certo calore interno, aiutati dallo studio dei
testi della tradizione e abbandonati all'ascolto del proprio Signore e/o del Sé: lì sono
racchiuse tutte le risposte di cui abbiamo bisogno per la Conoscenza.
Importante è poi ascoltare gli eventuali sintomi anomali del fisico e della psiche,
monitorandoli continuamente, i primi tempi sotto la guida di maestri esperti, per evitare
posture erronee, tensioni latenti o pensieri ricorrenti magari nascosti nell'inconscio.
È l'osservazione profonda di ciò che siamo a diversi livelli partendo dal più grossolano,
quello fisico, per poi andare in esplorazione ascendendo dagli stati istintivi più bassi a
quelli delle emozioni a livello del cuore a quelli più alti della ragione e dell'intuito.
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Non si tratta di faticare in una classica attività umana dove intelligenza, esperienza,
ingegno nel fare un determinato lavoro ci fa materialmente raggiungere l'obiettivo, ma
raggiungere l'immobilità di un āsana stabile e confortevole si basa su uno stato di
equilibrio della persona, che passa per la fase emozionale cioè della passione, nell'azione
carica di desiderio come accadrebbe ad un giovane in partenza per la sua prima gita, poi
viene lo stato di l'abbandono passivo, quando le circostanze non portano a risultati e
allora lo yogin sa aspettare con fiducia il tempo dell'equilibrio, cioè la condizione
necessaria alla nascita dell'āsana reale, quello che spontaneamente si genera da solo
nelle giuste condizioni.
“non affannatevi di quello che mangerete o berrete e neanche per il
vostro corpo ... guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né
mietono, né ammassano nei granai, eppure il Padre vostro celeste li
nutre” (11)
In questo brano biblico Gesù sembra indicarci lo stato di equilibrio sattvico, che
appartiene più all'intuito innato dell'essere che allo sforzo o alla ragione, intuito condito
da una fiducia nel Padre celeste o secondo la tradizione indiana, in Īśvara, nel Brahman,
in Puruṣa, il Sé individuale non causato.
Certo bisogna evitare che l'immobilità a livello mentale tenda a creare la condizione di
passività che può diventare addirittura apatia, da cui è ancor più difficile liberarsi, infatti
la coscienza deve rimanere vigile nell'ascolto del proprio respiro e di ciò che si cela oltre
la mente oltre i pensieri, verso un cambio di coscienza che chiamiamo Sé o Puruṣa e si
confonde prima con i pensieri mentali consci e talvolta inconsci, poi con le esperienze
cognitive più alte e poi nella bellezza della profonda e alta Consapevolezza dell'Essere.
Così pure l'eccessiva eccitazione dei sensi dovuta ai desideri materiali ci allontana dalla
pura ricerca interiore del Sé, infatti tutto ciò che ci attrae o ci ripugna è segnalato dai
nostri sensi e accumulato nella mente inconscia come un velo di polvere che nasconde
sempre di più la nostra vera essenza.
Il Sé sembra più limpido da bambini quando la mente è ancora abbastanza vergine,
infatti sono quelli i momenti in cui si hanno più frequentemente gli episodi di visioni già
vissute, forse delle vite passate, i cosiddetti “deja vu”.
Perciò la progressiva rinuncia al desiderio di possesso e di piacere sensoriale è una tappa
necessaria per la pratica dell'immobilità agevole: non saremo desiderosi d'altro.
Infine, come dice la Śiva samhitā cap.3,11:
“la scienza impartita dalle labbra di un maestro è efficace,
diversamente è priva di frutto, debole e addirittura pericolosa” (12)
il metodo della postura indicato dalla tradizione è un giusto cocktail di controllo del
respiro e presenza di Sé con l'aiuto della recita dei mantra, sotto la guida del Maestro.
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2.3 Mente concentrata sull'infinito (ananta): Yoga-sūtra 2,47
Esaminiamo ora l'aforisma 2,47 dello Yoga sūtra di Patañjali che dice:
“Prayatna-saithilyananda-samapattibhyam”
“mediante il rilassamento dello sforzo e la meditazione sul 'senza
fine' (si domina una postura)” (13)
l'indicazione di rilassamento dello sforzo conferma che l'āsana non sarà mai tale finché
non si supera l'impulso umano di volerlo eseguire come se fosse una maratona in
atletica, e questo è un rischio molto occidentale. L'assenza di sforzo fisico e mentale è
necessario per la progressione, ciò che raggiungiamo oggi senza sforzo può essere
mantenuto e forse ampliato domani, altrimenti il rischio di contratture muscolari o
blocchi mentali è sempre in agguato e certi sintomi anomali ce lo rivelano come ad
esempio l'infiammazione articolare, capogiro, oppure sul piano mentale insonnia, euforia
o tristezza inarrestabili, tutti aspetti da percepire con attenzione e da non sottovalutare.
L'assenza di sforzo è determinata anche da una postura verticale dritta mantenuta
soprattutto con il solo ausilio scheletrico, un aspetto che come per gli alberi in natura
rappresenta la meravigliosa unione tra gli elementi terra e cielo.
L'appuntamento con la seduta di āsana non deve essere frenetico tra gli altri momenti
attivi della giornata, altrimenti c'è il rischio di abbandonarsi alla passività apatica che
anche se può apparire senza sforzo non è condizione equilibrata per praticare.
La condizione di veglia vigile e consapevole deve sempre essere presente nella mente
dello yogin anche se questa vuole essere vuota dai pensieri ordinari. Ecco allora che se
l'allievo mostra un certo stato di apatia, il maestro sa trovare le giuste contromisure per
un risveglio e una energizzazione nell'allievo, sufficienti a raggiungere l'equilibrio
dell'āsana senza sforzo.
Un āsana così ottenuto inizia ad essere un buon terreno di coltura per stati di
concentrazione, in questo senso è il richiamo di Patañjali allo sguardo sul senza fine,
cioè la condizione di funzionamento dei sensi e della mente che li controlla verso un
punto oltre il normale limite di funzionamento psichico. Concretamente:
“abituati ad avere dei riferimenti precisi, allora si utilizzino dei
simboli che rappresentano l'infinito; i più classici sono il cielo con la
sua infinità, il mare allo stesso modo con la sua vastità” (14)
oppure per i progrediti, lo sguardo concentrato oltre gli oggetti che risulteranno come
sfuocati con tecniche tipo sāmbhavī-mudrā lo sguardo tra le sopracciglia o nasāgra-
mudrā lo sguardo dall'interno verso la punta del naso, fino a tendere a stati molto
avanzati come la condizione di arresto mentale, tecnicamente detto unmanī, in cui anche
il japa (un mantra ripetuto molte volte) aiuta alla trasformazione della coscienza.
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A proposito riporto le parole di Vyāsa, uno dei più noti commentatori dei sūtra, riferite a
Yoga-sūtra 3,1 di Patañjali sui luoghi di concentrazione della mente:
“Vyāsa elenca qualcuno di questi 'luoghi' alcuni dei quali sono in
evidente rapporto con i cakra principali: il cerchio dell'ombelico, il
loto del cuore, il centro luminoso della testa, la punta del naso, la
punta della lingua, oltre ad ogni altro oggetto esterno purché carico
di un significato simbolico” (15)
Spostandoci sul piano della pratica, Svāmin Sivananda a proposito della concentrazione
(dharānā) scrive:
“dovete avere interesse per la concentrazione. Allora soltanto tutta la
vostra attenzione si rivolgerà sull'oggetto di essa ... l'attenzione è una
ferma applicazione della mente. È la concentrazione della coscienza
sull'oggetto scelto ... con l'attenzione otterrete una chiara e distinta
visione degli oggetti. Tutta l'energia è centrata sull'oggetto che attira
l'attenzione” (16)
indicandoci così che con l'attenzione volontaria sul punto scelto una buona parte
dell'energia dello yogin si indirizza lì ed è ciò che Patañjali genericamente definisce
sguardo all'infinito, luogo oltre l'umano ordinario pensare.
Concludo con una frase di Śri Nisargadatta, il quale parlando della mente chiarisce in
modo netto l'importanza dello sguardo all'infinito:
“come fa una mente instabile a rendersi stabile? Ovvio che non può.
La natura della mente è di vagabondare da una parte all'altra.
L'unica cosa che puoi fare è spostare l'attenzione della coscienza al
di là della mente” (17)
2.4 Interruzione di disagio dalle coppie di opposti: Yoga-sūtra 2,48
È questo il terzo aforisma dello Yoga-sūtra di Patañjali che si riferisce agli āsana :
“Tato dvamdvanabhighatah”
“da ciò, la mancanza di attacchi da parte delle coppie di opposti” (18)
che definisce sostanzialmente l'āsana come uno strumento necessario per il viaggio
verso una conoscenza della realtà dove tutto è unito, indiviso.
Cosa sono gli opposti? Il mondo interiore è opposto a quello esteriore, ciò che è
conosciuto è opposto a ciò che è sconosciuto, l'Io dal non io, opposto è l'attimo cosciente
da quello non cosciente. Durante il sonno profondo inconsciamente non si avvertono gli
opposti ma si vivono momenti di unità equilibrata, riportare questo stato di equilibrio
durante la fase di veglia cosciente è lo scopo descritto da questo aforisma.
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A proposito degli stati di coscienza rispetto a quelli di incoscienza, provocatoriamente
Śri Nisargadatta domanda a un suo visitatore:
”prova a elencare, a memoria, ciò che pensavi, dicevi e facevi il 30
del mese scorso – (risposta del visitatore) è vero, ci sono dei vuoti –
non è così grave. Anzi ricordi molto: è la memoria inconscia che ti
rende tanto familiare il mondo in cui vivi” (19)
Dev'essere perciò possibile riunire gli opposti nell'istante presente, questo è il grande
obiettivo dello Yoga, generare la condizione che elimina il disagio.
Il nostro agire è continuamente legato a delle qualità, talvolta instabili in cui prevale a
volte l'agitazione, altre volte la passività e l'apatia; questo è perfettamente chiaro nella
tradizione Yoga ed è sviluppato nella teoria dei guṇas, gli attributi, di cui parlerò il
prossimo paragrafo dove i tre guṇa, qualità o attributi principali sono: rajas cioè
dinamico, attivo, mobile, passionale, creativo, doloroso; tamas cioè inerte, ostativo,
ignorante, ottuso, possessivo, distruttivo; sattva cioè equilibrato, armonico, luminoso,
misericordioso, conservativo, piacevole.
Una grande disciplina, cioè un costante esercizio del corpo stabile senza sforzo e della
mente quieta che riflette l'immagine dell'infinito illimitato, può far cessare il disagio
creato dagli opposti.
Si potrà così intuire il senso della consapevolezza individuale che racchiude quella
cosmica universale, il mondo assorbito nell'essere dello yogin che lo vede nella sua vera
natura al culmine del suo percorso ascetico: l'unione del cosmo e dell'individuo l'uno
dentro l'altro.
Il disagio creato dagli opposti è talvolta materiale come per caldo e freddo o per fame
sete e sazietà, talvolta mentale come attrazione (rāga) e repulsione (dveṣa) verso
determinate situazioni; lo yogin che ha percorso il suo sādhana e pratica secondo gli
schemi già detti, riduce e annulla la separazione delle opposte sensazioni e la sofferenza
da queste provocate. Egli riesce anche a percepire la rievocazione in senso inverso della
creazione, anche detta dissoluzione, in cui ciò che ci ha generato da cui siamo usciti ora
rientra in noi ripercorrendo la stessa strada in senso contrario, annullando le opposte
sensazioni.
Indubbiamente questi sono stati difficili da esporre su una tesi, ma è possibile presentare
l'esperienza di visualizzazione durante una seduta di concentrazione, di un oggetto o di
una immagine che diventa parte di noi e quindi risulta assorbito/a dal nostro essere come
un primo passo nella direzione di quell'unione che distrugge gli opposti. Ne parlerò nel
paragrafo dedicato alla specifica meditazione sulla montagna.
In molti brani della Bhagavadgītā viene espressa la necessità di annullare gli opposti per
poter percorrere liberi la via ascetica del sādhana. La quinta lettura fa un richiamo forte
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all'unione della manifestazione duale delle cose e delle azioni, indicando allo yogin che
la ricerca del Sé passa anche per la pratica corporea che smuove prāṇa e apāna, l'energia
entrante e quella uscente dal corpo dell'uomo; estrapolando dal testo 5,25-28:
“questa estinzione nel Brahman la ottengono i veggenti che si sono
purificati dai loro peccati, che hanno reciso la dualità, che hanno
domato sé stessi e che godono del bene di tutte le creature.
...che si son liberati dal desiderio e dall'ira ... Il savio ... che ha reso
uguale il soffio ascendente e il soffio discendente che si muovono
nell'interno del naso. ... che ha sbandito per sempre il desiderio la
paura e l'ira, costui è un liberato.” (20)
Sul piano fisico grossolano negli āsana più agevoli come ad esempio l'Ananta-āsana è
bene, usare la tecnica di compensazione dell'azione contrapposta su due lati, in cui prima
quasi si rafforzano le caratteristiche contrarie tra loro, e poi con un āsana centrale tipo
pavanamuktāsana o nāvāsana, ci si riunisce al centro con la forma in uno stato di
equilibrio tra i lati opposti concludendo con un ulteriore āsana compensante l'eventuale
flessione del corpo in avanti tipo la setubandāsana.
Concludo col pensiero interessante di Śri M.Nisargadatta secondo il quale l'assenza
della dualità è ben espressa nell'amore:
“nell'amore non esiste neanche la singola unità, come potrebbero
essercene due? L'amore è il rifiuto di separare, di fare distinzioni.
Perché tu possa concepire l'unità devi prima creare il dualismo.
Quando ami veramente non dici ti amo. Dove c'è lavorio mentale c'è
dualismo.” (21)
2.5 Descrizione guṇas, effetti su Annamāyākośa: Bhagavadgītā e Yoga-sūtra 2,18
L'esperienza sensoriale, io gusto, sento, vedo, odoro, tocco, elaboro con la mente, fa uso
dei guṇa ovvero le qualità delle cose nella “visione dello spettacolo” che ci appare.
Naturalmente il nostro corpo fisico, annamāyā-kośa, ne è particolarmente influenzato in
quanto sede degli organi sensibili.
La qualità degli elementi e delle azioni ad essi associate è determinante allo scopo della
loro aspirazione, anche se l'azione fosse prevalentemente immobile può custodire un
sentimento o un pensiero che con la sua qualità ne determina un particolare attributo.
Lo yogin sa discriminare distinguendo il Sé dall'universo che lo circonda, determina la
qualità del suo agire e ricerca sempre l'equilibrio, la condizione detta sattvica.
Patañjali parla dei guṇas nel sādhana Pāda al versetto 18:
“prakasa-kriyā-sthiti-silam bhutendriyatmakam bhogapavargartham dṛśyam”
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“lo spettacolo (dṛśya) ha la natura della luminosità (sattva),
dell'azione (rajas), dell'inerzia (tamas); esso consiste negli elementi
(bhuta) e nei sensi (indriya) e ha lo scopo di procurare (allo
spettatore) sia l'esperienza (bhoga) che l'emancipazione (apavarga)”
(22)
Diciamo subito che lo Yoga è di tradizione Sāṃkhya, il darśana o “punto di vista” che
sistemizza la natura dell'uomo rispetto al mondo manifesto nei suoi diversi aspetti e
chiama Pṛakrti, qui assimilabile con lo spettacolo, il principio materiale o sostanziale
incosciente ma attivo, chiama invece Puruṣa assimilato qui con lo spettatore il principio
essenziale o spirituale dell'uomo cosciente inattivo, pura consapevolezza universale sugli
individui.
Il principio materiale Pṛakrti va dagli elementi bhuta: etere, aria, fuoco, acqua e terra;
gli oggetti dei sensi tanmātra o elementi sottili: udito, tatto, vista, gusto e olfatto; le
facoltà d'azione karmendriya: parola, mani, piedi, ano e organi genitali; le facoltà
sensoriali jnanendriya: orecchie, pelle, occhi, lingua e naso; la mente che coordina le
sensazioni manas; il senso dell'io e del mio ahaṃkāra, e la coscienza individuale o
intelletto buddhi.
Puruṣa non può avere diretto contatto col mondo fenomenico e allora è attraverso la
Pṛakrti in un modo illusorio che ne fa l'esperienza necessaria alla liberazione karmica.
La Pṛakrti è costituita da tre elementi fondamentali, le qualità o attributi detti guṇa che
si trovano nelle sue diverse forme in una certa distribuzione variabile.
L'attributo o qualità può essere rajas cioè dinamico, attivo, mobile, passionale, creativo,
doloroso;
può essere tamas cioè di inerzia, ostativo, ignorante, ottuso, possessivo, distruttivo;
può essere sattva cioè equilibrato, armonico, luminoso, misericordioso, conservativo,
piacevole.
L'attributo di ciò che è manifesto in natura, può essere innumerevolmente vario
combinando assieme i tre guṇa tra loro nelle varie sfumature.
Sul piano degli āsana i guṇa si possono controllare ed equilibrare attraverso le posture,
il flusso energetico libero e con il giusto atteggiamento mentale:
“la fermezza posturale causa la distruzione del rajas-guṇa, la cui
natura è instabilità ed agitazione ... l'āsana stabilizza il corpo e
quindi controlla questa componente rajasica”
“la leggerezza fisica è dovuta alla distruzione del tamas-guṇa ... se
non ci si sente leggeri nella posizione, se non ci si sente in grado di
stare ore immobili, vuol dire che prevale tamas, letargia” (23)
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L'attributo sattvico albescente dell'āsana reale è una sua condizione fondamentale, e la
sattvicità è in pratica il sapiente equilibrio tra rajas-guṇa e tamas-guṇa.
“nell'āsana si deve avere indifferenza al tempo che passa, alla
necessità di muoversi, al sonno che ha una prevalenza di tamas. È
molto importante lavorare su tamas perché è il più grande ostacolo.
Ramakṛṣṇa diceva: -un uomo prima di diventare sattvico deve
passare da tamas a rajas solo dopo giungerà a sattva-” (23)
Nella Bhagavadgītā 18,9 Kṛṣṇa indica ad Arjuna cosa deve fare di fronte ad una sfida
gravosa, come per lo yogin di fronte ad un passaggio di livello nel sādhana, ad esempio
per eseguire un'āsana particolarmente impegnativo nella forma o nell'immobilità tenuto
a lungo o nella concentrazione:
“colui che esegue un'azione prescritta, pensando solo a questo, che
cioè dev'essere fatta, abbandonando l'attaccamento ed i frutti, tale
abbandono o Arjuna, è albescente” (24)
dove con albescente intende sattva cioè equilibrata, luminosa, armonica, di uguale
effetto nell'azione fausta o in quella infausta.
2.6 Abyāsa e vairāgya: Bhagavadgītā e Yoga-sūtra 1,12
“abhyasa-vairāgyabhyam tan-nirodha”
“la soppressione (delle modificazioni) (si ottiene) mediante l'esercizio
costante ed il non attaccamento” (25)
Abyāsa è l'esercizio costante, per lungo tempo , una pratica quotidiana senza sforzo,
senza interruzioni, seguendo il sādhana con devozione e reverenza, è l'elemento
necessario insieme al vairāgya per il raggiungimento della calma mentale dello yogin,
cioè la soppressione delle modificazioni mentali, le citta-vṛtti. Nella haṭha-Yoga-
pradipika si afferma che il successo nello Yoga si ottiene soltanto con la pratica, non con
discorsi o con la sola conoscenza concettuale.
vairāgya è il distacco dai frutti delle proprie azioni, termine che deriva da rāga
l'attrazione ed è quindi legato ai kleśa, le afflizioni che saranno superate con la pratica
costante del distacco. Vairāgya è quindi il distacco dalle passioni, dai desideri, dalle
paure e dagli attaccamenti, si potrebbe dire “morire” al mondo impermanente per
“rinascere” in quello imperituro.
L'esercizio costante abyāsa ed il non attaccamento vairāgya, sono gli elementi essenziali
della pratica che porterà al diradamento dei pensieri, che altrimenti velano la mente e
l'anima, detta Atman, dalla realtà permanente del Brahman.
Lo yogin che usa abyāsa, osserva le astinenze yama (non-violenza, verità nella parola e
nell'azione, non appropriarsi di ciò che non appartiene, controllo dell'attività sessuale,
vita essenziale) e le osservanze niyama (purezza esteriore ed interiore, appagamento,
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sopportazione e impegno, studio di Sé e dei testi sacri, abbandono al dio personale),
raggiunge il distacco vairāgya dai legami con la realtà impermanente, aiutato
dall'immobilità del corpo nell'āsana e dal controllo del prāṇa, praticando quindi l'azione
concentrata verso lo stato meditativo verso l'estasi del samādhi.
Ma esattamente il desiderio cosa provoca di tanto negativo per lo yogin? È una forza di
disturbo che giorno per giorno ci condiziona e annulla la volontà, è attraverso i desideri
e anche le paure che si forma l'inconscio accumulando tutta una serie di informazioni
nelle quali come una rete per la pesca ci troveremo sempre di più imprigionati.
“tentare di acquietare la mente senza eliminare il desiderio è come
cercare di arrestare il movimento di una barca su una superficie
d'acqua violentemente agitata da un forte vento. Per quanto si possa
cercare di mantenerla in una certa posizione mediante una forza
esterna, essa continuerà a muoversi, in conseguenza degli impulsi
che le onde le trasmettono. Ma se il vento scema e muore e le onde si
calmano completamente, la barca infine si fermerà, col tempo, anche
senza che vi sia applicata una forza esterna” (26)
Occorre peraltro dire che le pause di riflessione, le cosiddette crisi, in cui fare il punto
della situazione, il bilancio del lavoro svolto, e dei progressi grandi o piccoli ottenuti, e
ritrovarsi se avessimo smarrito la retta via, sono sempre apprezzabili e sono segno di
maturità per il sādhaka cioè colui che segue il cammino yogico.
A tal proposito dice Svāmin Sivananda:
“Se un metodo fallisce bisogna ricorrere ad un altro. Questa pratica
richiede pazienza, perseveranza, una tenacia da sanguisuga,
applicazione, una volontà di ferro, un intelletto sottile e coraggio. Ma
la ricompensa è inestimabile. Essa si chiama Immortalità, Pace
suprema, Beatitudine infinita!” (27)
e ancora:
“se siete negligenti, se siete irregolari nella concentrazione, se la
vostra rinuncia (vairāgya) svanisce e per pigrizia smettete di
praticare per qualche giorno, le forze avverse vi distoglieranno dal
vero sentiero Yoga. Sarete rigettati sulla riva. Vi sarà difficile dopo,
rimontare al livello precedente. Di conseguenza, siate puntuali nella
vostra pratica.” (28)
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2.7 Dhyāna sopprime le modificazioni dei kleśa. Yoga-sūtra 2,11
L'uomo ordinario a differenza dello yogin di fronte agli attributi degli elementi ne vive
l'esperienza acquisendoli nella mente, come accade davanti allo schermo
cinematografico: per imitazione confonde spettacolo e spettatore, natura manifesta ed
essenza spirituale immobile come è appunto lo spettatore, e ciò è la causa dell'erronea
conoscenza.
Raggiungere l'emancipazione è aver superato la differenza degli attributi originata
dall'essere immersi nella natura, averla in qualche modo ingoiata e aver annientato lo
scorrere dei pensieri tra paure e speranze, attrazioni e repulsioni: un'altra volta l'unione
degli opposti che parte anche dal corpo fisico e da una rinnovata capacità di ascolto dei
sensi.
“La consapevolezza del piacere e della sofferenza sperimentati
nell'esistenza condizionata è preceduta dalla congiunzione dello
spettatore allo spettacolo, dovuta alla non conoscenza, avidyā, tale
consapevolezza quando è priva di capacità discriminante è definita
esperienza (bhoga), in caso contrario, quando lo spettatore riesce a
prendere coscienza di Sé e della differenza che lo separa dall'opera
dei guṇa, allora c'è emancipazione (apavarga)” (29)
Esercitare il giusto cammino yogico, il sādhana, attraverso tapas l'austera volontà di
affrontare il percorso, svādhyāya studiando i testi sacri e rileggendoli sulla propria vita,
accompagnati dal giusto spirito di abbandono praṇidhāna consacrato a ciò in cui si
crede, l'Īśvara, come abbiamo già detto rappresenta il kriyā-Yoga o Yoga dell'azione e
aiuta a ridurre fortemente le afflizioni dell'esistenza, i kleśa, fino a renderli sensazioni
sottili; aiuta ad allontanare desideri e paure, aiuta a svelare il proprio Sé la conoscenza e
la compassione, sentimento di unità col resto del creato.
Ma questo non basta ad evitare che alla prossima occasione le manifestazioni dei kleśa si
ripresentino all'attacco, perché sono come semi attivi, sempre pronti a germogliare
appena le condizioni ambientali siano propizie. Per questo Patañjali indica la cura,
nell'aforisma dello Yoga-sūtra 2,11 che recita:
“Dhyāna-heyas tad-vrttayah”
“le loro modificazioni attive possono venir soppresse dalla meditazione” (30)
per sterilizzare i semi già ridotti allo stato latente delle manifestazioni dei kleśa, oltre
alla pratica del kriyā-Yoga è necessaria la meditazione dhyāna; viene così fatto un passo
in avanti o meglio all'interno del sādhana dello Yoga, indicando che sulla via di
liberazione è necessario controllare oltre il corpo e la volontà, anche la mente nel suo
fluttuare.
In un commento a questo aforisma Vyāsa dice:
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“per rimuovere lo sporco più grossolano da un tessuto basterà
scuoterlo vigorosamente, mentre per togliere le macchie che lo
impregnano in profondità bisognerà ricorrere a mezzi più efficaci,
lavandolo e strofinandolo ripetutamente.” (31)
Le manifestazioni dei kleśa provocano violente emozioni e disturbi mentali, dallo stato
latente possono affiorare in ogni istante oscurando il cammino verso la conoscenza
vidya. Anche dalla teoria del karman si capisce che la nostra vita è seminata da
esperienze consce ed inconsce, dovute a questa vita e alle vite precedenti, le vāsanā che
sono i semi latenti e poi anche i frutti di certe impressioni accumulate nel passato, e i
saṃskāra che sono i numerosi frammenti indelebili di memoria delle vite passate, alcuni
attivi altri latenti nella vita attuale. Questi determinano avidyā la falsa conoscenza di noi
stessi, provocando tendenze della mente così condizionata a spostarsi in direzioni
abitudinarie, talvolta anche inconsciamente, esaltando i kleśa, in particolare avidyā la
falsa conoscenza.
Si dice “ho già l'acquolina in bocca” o ancora “non vedevo l'ora di fare una tale cosa”
oppure “come sarebbe bello se ...” intendendo magari esperienze immaginarie; queste
sono frasi emblematiche di una mente condizionata dalle esperienze passate, vṛtti o
fluttuazioni della mente , della memoria.
La possibilità nello Yoga interiore (antar-Yoga) di farci concentrare sulle nostre
esperienze e oltre di meditare sul proprio Sé, è lo strumento per superare tali
manifestazioni nel senso di sopprimerle. Non un atto solamente esteriore di azione
disciplinata e volontaria ma uno stato interiore di riconoscimento della propria natura
che è alla base dell'atto stesso.
Il testo di Svāmin Chidananda “la misteriosa mente e il suo controllo”, ci offre una
limpida esposizione su come siamo controllati dalla mente e dai suoi vizi che ci rendono
prigionieri:
“L'uomo è come un giocattolo, un fantoccio, un oggetto del gioco
della mente che rifiuta ogni limitazione. La mente vuole essere piena
di desideri e agitazioni, e non vuole essere controllata. A meno che
essa non sia osservata e disciplinata giornalmente, l'uomo vivrà la
sua vita come una bambola e terminerà la sua vita in schiavitù. La
vasta maggioranza degli esseri umani sono solo spinti e travolti da
ogni piccolo desiderio e impulso della mente” ... “quando l'uomo ha
una comprensione delle attività della mente, come il pensiero 'io', e
come questo pensiero 'io' sia la vera radice del pensiero della mente,
e scopre come essa agisce, allora sarà capace di afferrarla. Qui c'è
uno degli aspetti più importanti della manifestazione della mente.
ISFIY Milano 2004-2008. Spinoglio Sergio, tesi: “la meditazione nell’āsana”
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Poiché il pensiero 'io' è totalmente nella presa della mente, l'uomo è
incapace di penetrare nel cuore del suo essere dove giace il centro
della sua coscienza.” (32)
Liberarci dalla polvere del passato è un po' come ritornare bambini, è svuotarsi del
superfluo per ritrovare l'essenziale in azioni semplici ma profonde come appunto un
neonato dalla mente vuota, dalla mente incondizionata e vigile. Meditare è liberarsi.
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3. REALIZZARE UN ĀSANA
3.1 Āsana come elemento di decondizionamento posturale e mentale
Il vero obiettivo nel fare un āsana è l'evoluzione della coscienza verso la pura
consapevolezza del Sé, ma durante questo profondo percorso si devono affrontare i molti
ostacoli in cui la nostra natura ci confina.
Per molti allievi l'āsana è solo un atto fisico e tale deve rimanere senza dover
coinvolgere gli aspetti coscienziali, ma tuttalpiù quelli mentali. A coloro che invece
ricercano la liberazione e la realizzazione con lo Yoga, si può illustrare come ci si può
decondizionare a partire dall'āsana.
Come abbiamo già dimostrato sono molti i condizionamenti che continuano a celare il
Sé e man mano che attraversiamo la vita questi si accumulano.
Già da bambini abbiamo emozioni e sensazioni come la rivalità o l'invidia, spesso
scimmiottiamo gli adulti nel bene e nel male, cresciamo per imitazione, poi scopriamo il
corpo e ci scopriamo unici e diversi.
Da grandi invece si fa sul serio, si desidera l'indipendenza praticando invece la
sottomissione del prossimo, si ricercano gli eccessi sensoriali, le allucinazioni
gastronomiche, tattili, uditive, si accumulano beni e poteri, si radicano le abitudini nella
mente, perché, come recita il grande assioma yogico:
“semina un pensiero e raccogli un atto,
semina un atto e raccogli un abitudine” (33)
e molto di ciò è causato dal fatto di desiderare oggetti, i desideri nascono dai ricordi e
dai semi del passato, creano attese, piaceri e dolori con cui l'esistenza risulta squilibrata
e infelice, mentre come suggerito dal saggio Śri M.Nisargadatta.
“la natura è tutta bellezza e intelligenza e il mondo è come tu lo fai
essere” (34)
È con la postura di un āsana, che può apparire talvolta innaturale, che si può scoprire il
decondizionamento dalle azioni ordinarie. Ad esempio con le posizioni invertite tipo
viparītakaranī-mudrā si vince l'azione gravitazionale riportando gli organi nella
posizione originale; con posizioni come halāsana si provoca una forte chiusura della
gola provocando un rallentamento forzato del respiro, modificando il suo ritmo abituale;
con l'incrocio serrato delle gambe in padmāsana si impone una riduzione del flusso
sanguigno a favore della parte centrale e alta del corpo; con le pratiche respiratorie a
livello diaframmatico si distende un importante muscolo, il diaframma appunto che ci
consente di superare meglio i primi momenti di stress accumulati in quest'area,
conseguenza di reiterate contrazioni che lo hanno irrigidito; come pure tutti gli
allungamenti e le verticalizzazioni con torsioni ed equilibri cercano di opporsi
ISFIY Milano 2004-2008. Spinoglio Sergio, tesi: “la meditazione nell’āsana”
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all'abitudinaria pigrizia (tamas) propria di molti atti quotidiani e allo schiacciamento
gravitazionale, per disporci ad un'apertura fisica e psichica ritrovata e riequilibrante.
Non di meno il controllo del respiro ci insegna a lasciare libera l'energia durante lo
svuotarsi a fondo dei polmoni o addirittura nel kumbaka, la ritenzione del respiro, si
ferma l'abituale ritmo vitale respiratorio.
Insomma postura e mente sono fortemente collegate da una rete di informazioni
espresse sia a livello conscio che inconscio, ed il collegamento può essere bidirezionale
cioè il pensiero o l'inconscio, possono determinare il rilassamento o meno della postura
o essere a loro volta calmati nel loro ondeggiare dalla postura comoda, stabile,
immobile.
3.2 Āsana come trasformazione della coscienza
Come il corpo si decondiziona nella pratica degli āsana, così la mente impara a svuotarsi
dai pensieri, ritira i sensi verso l'interno, si concentra sulla vera essenza che abita la
carne in cui siamo ospitati. Alcune pratiche yogiche riescono a penetrare l'inconscio,
come gli āsana che lavorano sul dorso cioè quella parte di noi che non vediamo
abitualmente. Perciò si fa uso dei sensi interni del corpo pranico e mentale, dove la
mente può riconoscere in profondità le sensazioni dell'energia che ci trasforma,
rendendoci capaci di controllare meglio all'origine gli istinti e le emozioni e infine
aiutare la coscienza a trasformarsi scoprendo anche il grande tesoro dell'intuito.
Si applica quel concetto che viene detto 'somato-psichismo', cioè da un atto praticato
come l'āsana riequilibrante si genera un pensiero stabile e sereno: è l'espansione della
coscienza.
Gli āsana e la corretta respirazione favoriscono e migliorano l'assorbimento e la
distribuzione dell'energia vitale nel corpo (prāṇa). Le nādī, i canali energetici, vengono
purificate e perciò la pratica dello Yoga non affatica ma rigenera tutto il corpo fisico ed
energetico principalmente con ripercussioni su quello mentale.
E si può affermare che è proprio la coscienza il motore di questa rigenerazione, come
dice l'assioma yogico fondamentale di Svāmin Sivananda (provato da test termometrici):
“là dove va la coscienza, là va il prāṇa, l'energia” (35)
da cui si intuisce che la concentrazione mentale volontaria, cioè della mente superiore
cosciente (vijñānamāyākosha) che assumiamo nell'esecuzione di un āsana, verso quella
o quell'altra parte del corpo materiale (annamāyā-kośa): muscoli, scheletro, articolazioni
e fisiologia in genere, determina un pensiero nella mente inferiore ordinaria
(manomāyākosha) che orienta e concentra il soffio vitale, il prāṇa-vāyu, nel corpo
materiale più sottile dei centri e canali energetici (prāṇamāyākosha).
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Quindi, per estensione del concetto, l'uso della coscienza insieme alla concentrazione
che conduce alla meditazione, rappresentano il sigillo dello Yoga, una pratica che
nobilita l'āsana rendendolo reale, cioè un āsana capace di dirigere la coscienza e di
espanderla fino a rendere lo yogin in grado di evolvere in una realtà di pura
consapevolezza, luogo di unione di Pṛakrti e Puruṣa (la monade spirituale), ovvero nel
corpo causale originale (anandamāyākosha).
Un altro aspetto importante per la coscienza dell'individuo nella pratica degli āsana è la
capacità di ritrovare l'unità dei diversi frammenti materiali o emotivi in cui il praticante
può essere disperso, recuperando l'armonia e la quiete dei diversi livelli del corpo.
Anche quest'aspetto è necessario all'espandersi della coscienza verso un integrazione
dell'io persona.
3.3 Āsana come esplorazione della realtà Praticando gli āsana siamo alla ricerca della nostra posizione vera, l'āsana reale.
Se facessimo l'esperimento di filmare la nostra postura potremmo accorgerci delle
differenze tra ciò che ci appare interiormente e ciò che è in quell'istante la posizione
scheletrico-muscolare del nostro corpo fisico. Ma la pratica e la continua ricerca, il
sādhana, porterà ad eliminare pian piano queste differenze, soprattutto se la mente riesce
a discriminare ciò che non siamo, ciò che non è la verità, satya, della nostra realtà.
Il rilassamento nello sforzo è la premessa a questa ricerca. Infatti quando si comincia ad
esercitare un āsana il nostro lavoro è periferico, l'atto è determinato dalla volontà sotto
sforzo, un atto impulsivo in cui prevale il desiderio di raggiungere un obiettivo esteriore,
un'azione diretta e condizionata dall'ambizione di raggiungere il risultato. Ma
proseguendo la ricerca attraverso la pratica in senso yogico si scopre che gradualmente i
sensori dei muscoli, delle articolazioni, della pelle, gli occhi anche se chiusi, le orecchie,
la lingua e tutti i nostri organi sensibili avvertono ciò che accade nella carne e
partecipano alla conoscenza della postura dell'intero corpo fisico.
Si passa quindi dalle singole percezioni sensoriali alla loro elaborazione mentale dove la
mente è l'organo che elabora le diverse sensazioni, i diversi messaggi, creando la
comunione del corpo diviso nelle varie membra che così si avvertono unite in una
singola postura cosciente, che è l'immagine concentrata della postura mentale,
avvicinandosi alla postura reale. E' un lavoro di discriminazione, concentrazione e di
verità, satya, che riconosce davvero i vari segmenti del corpo e li riconosce in armonia
ed unione tra loro.
Ecco allora che successivamente quando questa comunione totale delle membra
nell'āsana si stabilizza liberandosi dalle fluttuazioni e dagli sforzi inutili, si può iniziare
ad avvertire lo stato di coscienza superiore che permette l'ascolto profondo interiore,
ISFIY Milano 2004-2008. Spinoglio Sergio, tesi: “la meditazione nell’āsana”
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riconoscendo le trasformazioni provocate in noi dall'āsana. Ci si può porre la domanda:
cosa è cambiato in me che prima non avvertivo?
Quando infine la mia ricerca è ad un livello davvero profondo, nasce l'āsana con la A
maiuscola, quello che si produce da solo senza sforzo, quello che nell'unione delle
membra trova l'equilibrio, la condizione di sguardo all'infinito, la sensazione della realtà
non-finita, che è unica ed è sinonimo di consapevolezza cioè la certezza inspiegabile che
ci permette di dire “io sono quello”.
Si può anche dire che questo passaggio fondamentale è come un cambio di prospettiva
per il praticante, un po' come per chi impegnato in una grande impresa, come per
esempio accade all'astronauta al rientro dallo spazio, dopo lunga ricerca e lavoro giunge
ad un nuovo livello ne coglie i frutti e riconosce in quel lavoro una trasformazione della
sua stessa essenza per cui non sarà più lo stesso di prima. E' quella che definiamo
consapevolezza e nel campo dell'āsana definiamo “āsana reale”, quello che rispecchia la
realtà del proprio essere corpo, mente e oltre i due aspetti grossi del corpo essere
spettatore.
Nella tradizione dello Yoga, l'āsana quando diventa reale è un mezzo con cui si può
discriminare lo spettatore dallo spettacolo, dunque da un'azione volitiva si passa alla
realtà consapevole di colui che osserva e conosce e lo può fare perché distaccato. Questo
è un processo che non ha un tempo ma è impegno e fede di tutta una vita, voglia di
conoscenza e abbandono al Sé, ad Īśvara.
3.4 Āsana, passaggio dall'io al sé
L'io è la visione manifesta dell'esistenza dovuta all'insieme delle sensazioni degli
elementi grossi che sono la terra, l'acqua, l'aria, il fuoco e l'etere nelle loro qualità
rubescenti (rajas) nigrescenti (tamas) o albescenti (sattva) distribuite in vario modo, ed
è una visione destinata a modificarsi nel tempo e perciò come è nato a perire, mentre il
Sé rappresenta un'esistenza equanime nelle qualità e perciò di pura albescenza
(sattva),permanente e non causata che non nasce e perciò non può morire.
L'esistenza manifesta della persona è destinata a vivere agitata come accade alla barca
durante il mare mosso, tra fasi crescenti e fasi calanti. Lo yogin che ha attraversato il
ponte che porta al riconoscimento del sé, che è diventato consapevole della condizione
di testimone distaccato, vive in uno stato di pace assimilabile allo stato dell'ambiente
sottomarino anche quando sopra le acque c'è la tempesta.
Mantenere un āsana nella tradizione di Patañjali abbiamo visto che è un atto di
immobilità privo di sforzo, con concentrazione e meditazione tenuto a lungo, perciò
impregnato di consapevolezza in cui la mente rilassandosi cessa il suo oscillare tra le
increspature abitudinali, passando così da una mente conscia che controlla tutto a una
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mente inconscia che si manifesta nello sguardo sul senza fine. Il senza fine si può
immaginare come il percorso infinito che sta su una grande ruota dove il centro è il
preciso punto di equilibrio equidistante. L'āsana permette di stabilizzarci in questo
centro di equilibrio che ci trasforma nell'essere equilibrato disposto sull'asse centrale
della spirale disegnata da ananta il serpente arrotolato che è come una ruota che sale
verso l'alto. Questo stato si può assimilare al movimento del giroscopio o della trottola
che nel suo ruotare intorno al suo asse, riceve una spinta verso l'alto mantenendosi a
lungo in equilibrio più è equamente bilanciata.
Un giroscopio Ananta il re
dei serpenti
Possiamo allora dire che l'āsana, al servizio dello stato meditativo di perfetto equilibrio,
è la condizione ottimale per demolire le abitudini mentali, armonizzando il nostro essere
corpo e mente, introducendoci alla condizione di testimone distaccato, trovandoci così
sulla “porta d'ingresso” del Sé non causato.
Ognuno troverà allora la propria āsana che meglio fa al suo caso, alla sua condizione di
equilibrio nella spirale verso l'alto, ma la tradizione indica in particolari posizioni
meditative, che vedremo al prossimo capitolo, quelle che hanno delle particolari
caratteristiche di immolità e verticalità.
L'immobilità nell'āsana può essere così lunga e profonda che diventa paragonabile alla
morte, necessaria per rinascere in un'altra forma evoluta detta illuminazione o
realizzazione. Perciò alcuni guru propongono all'allievo che ha conosciuto la condizione
di testimone, la meditazione più essenziale del pensiero incessante “io sono”, che
determinerà il riconoscimento del sé:
“il maestro mi ha detto ciò che è vero. Che io sono la Realtà
suprema. Gli ho creduto e l'ho tenuto a mente. Ma il consiglio che ti
dò è anche meno difficile da seguire: ricordati di te stesso. L'io sono
basta a guarire la mente e a portarti al di là. abbi solo un po' di
fiducia perché non ti inganno” (36)
ISFIY Milano 2004-2008. Spinoglio Sergio, tesi: “la meditazione nell’āsana”
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4. ALCUNI ĀSANA PER MEDITARE
4.1 Preparazione alle posizioni meditative
La postura meditativa è il punto di arrivo di un lento e progressivo lavoro sul corpo
fisico ed energetico che riguarda gli āsana in generale e il prāṇayāma, le tecniche del
controllo del respiro, preparandoci a essere forti e flessibili al tempo stesso.
Le posture “meditative” mettono a dura prova le ginocchia, le caviglie, le anche e in
generale la colonna vertebrale. È allora necessario lavorare su queste parti del corpo per
liberarle da blocchi e da ristagni di liquidi o da intossicazioni e rinforzarne il tessuto
muscolare che le sostiene, ma nello stesso tempo imparare a discriminare le parti in
tensione dalle parti rilassate.
Prendersi cura delle articolazioni degli arti inferiori con dei leggeri massaggi praticati
con i polpastrelli e le punte delle dita delle mani intorno alle caviglie alle ginocchia alle
anche alla zona lombare del rachide.
Mobilizzare lentamente le suddette articolazioni per poi raggiungere i limiti estremi di
spostamento nelle diverse direzioni e mantenerli quanto possibile senza avvertire dolore,
compensando sempre il lavoro in una direzione con uno nel senso opposto. Così
l'esercizio praticato in flessione ripeterlo in estensione, a destra ripeterlo a sinistra ecc. .
Posture di flessione e di estensione, di torsione e di allungamento, sfruttando il peso
naturale del corpo e le sue leve.
Particolare attenzione deve essere fatta alle ginocchia che possono danneggiarsi nei
legamenti o nel menisco, un modo per preservarle è privilegiare gli esercizi in cui sono
completamente estese o completamente serrate.
Per attenuare la fatica a livello delle ginocchia e del bacino si può praticare la posizione
seduta con un supporto di una certa consistenza e quattro o cinque centimetri di spessore
sotto i glutei di traverso in modo ben equilibrato o addirittura con un panchetto di legno
leggermente inclinato, di circa dieci centimetri di altezza che viene posto sopra le
caviglie.
Attivare e rinforzare i muscoli addominali e dorsali, con āsana come il nāvāsana, per la
tenuta della cintura addominale che sorregge il busto a favore della zona lombare,
mantenendo la giusta curvatura del rachide e da cui consegue una giusta postura anche
della zona toracica e cervicale. Qualche rinforzo del dorso con pratiche come
bhujaṅgāsana è molto indicato.
Praticare anche le mobilizzazioni delle cervicali nelle varie direzioni, con “micro-
massaggi interni” producendo con la voce il suono intenso delle diverse vocali: aaa-dx
eee-sx I-alto ooo-basso uuu-ruotare.
ISFIY Milano 2004-2008. Spinoglio Sergio, tesi: “la meditazione nell’āsana”
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Bisogna conquistare l'attitudine della colonna vertebrale alla direzione verticale con le
giuste curvature, portando il mento verso l'alto e poi farlo rientrare verso la fossetta del
collo. Spalle e viso si devono mantenere rilassati.
4.2 Alcune posizioni meditative
Sono molte le posizioni in cui è possibile meditare per brevi periodi, includendo anche
alcuni āsana “evolutivi” come ad esempio paścimattānāsana (la posizione della pinza) o
viparītakaranī-mudrā (atto del capovolgersi), ma per eccellenza le posizioni più adatte
ad un controllo del corpo e della mente, che permettono l'arresto del movimento molto
più a lungo e che fanno provare un forte senso di calore ascetico, indicate nelle diverse
tradizioni anche le più moderne, sono per eccellenza le seguenti:
siddhāsana, padmāsana, svastikāsana (detta anche sukhāsana) e vīrāsana
Vediamo per primo il siddhāsana che letteralmente vuol dire “la posizione che ha
raggiunto lo scopo”, più spesso definito “la postura perfetta”, infatti secondo alcuni testi
in questa posizione è racchiusa la capacità di liberare tutte le nādī dove scorre il prāṇa e
quindi attraverso la pratica assidua di meditazione in questo āsana si riesce a
raggiungere il samādhi, cioè la profonda riunificazione.
Ecco come si pratica il siddhāsana secondo l'haṭha-Yoga-pradipika lex.I,35:
“si appoggi un tallone contro il perineo e si ponga saldamente l'altro
piede sopra il pene; dopo aver premuto il mento sul petto, lo yogin
fermo e stabile, con i sensi dominati, concentri lo sguardo immobile
sullo spazio tra le sopracciglia. Questo è chiamato siddhāsana, che
spalanca la porta alla liberazione finale.” (37)
Il siddhāsana secondo la Gheraṇḍa-samhitā cap.II,7:
“si comprima la regione perineale con un tallone e si appoggi l'altro
tallone sopra il pene; si porti il mento contro il petto; immobile, i
sensi controllati, si guardi fissamente tra le sopracciglia. Questa è la
postura siddha, che abbatte le porte della liberazione.” (38)
Infine il siddhāsana secondo la Śiva-samhitā cap.III,85:
“l'āsana che verrà ora descritto deve essere conosciuto come
siddhāsana, che dà successo a quelli che lo praticano: ritiratosi in un
luogo appartato e silenzioso, il praticante esperto di Yoga, premendo
con cura un tallone sul perineo e l'altro sull'organo maschile, fissi
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sempre gli occhi in alto, guardando nello spazio tra le sopracciglia,
immobile, con i sensi domati e il corpo accuratamente dritto.” (39)
Illustrazione
del siddhāsana
La descrizione di questo āsana adatto alla meditazione è molto chiara anche se in altri
paragrafi dell'haṭha-Yoga-pradipika vengono indicate alcune varianti in merito alla
posizione dei talloni che possono essere nel vajrāsana il sx contro il perineo e il dx
sopra il pene, nel muktāsana i talloni sono sovrapposti e appoggiati al perineo, nel
guptāsana i talloni sono portati al di sopra dei genitali.
In ogni descrizione di quest'āsana è pregnante l'espressione del successo verso la via di
liberazione a cui si va incontro praticandolo, percorrendo così il saṃyama cioè lo Yoga
interiore che è l'insieme di concentrazione dharānā meditazione dhyāna e unione con
l'oggetto di meditazione samādhi, giungendo con discriminazione, al riconoscimento del
Sé, identificazione di Pṛakrti con Puruṣa, condizione di liberazione.
Significativa è l'attenzione alla posizione del corpo che dev'essere, pur senza particolare
sforzo come dice Patañjali, tenuto fermo stabile, dritto e verticale, mantenendo le
naturali curvature fisiologiche. Quando il tallone è correttamente posizionato sotto il
perineo tra l'ano e i genitali, in quel punto iniziano il “vaso concezione” e il “vaso
governatore”, i due canali di energia che scorrono anteriormente e posteriormente al
corpo, in tal modo viene stimolata la risalita del prāṇa verso l'alto.
Tutto in estrema immobilità per un tempo lungo che sarà a seconda dell'evoluzione
individuale da mezz'ora fino a tre ore.
Lo yogin esperto raggiunge la condizione di unmanī cioè la totale condizione di assenza
di pensieri della mente, che lo fa “essere” oltre la mente, uno stato di trascendenza,
praticando il mudrā chiamato sāmbhavī che prescrive di fissare lo sguardo nello spazio
tra le sopracciglia.
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La condizione di unmanī è complessivamente agevolata dal prāṇayāma, l'insieme delle
tecniche di controllo del prāṇa indirizzato verso l'alto, dall'esperienza del pratyahara
cioè l'affrancamento dai sensi e dagli oggetti dei sensi e dalla pratica avanzata di
dharānā la concentrazione e dhyāna lo stato meditativo.
Per seconda vediamo la posizione detta padmāsana che letteralmente vuol dire “la
posizione del loto”, spesso preclusa a noi occidentali se tenuta a lungo, perché non
siamo abituati a incrociare le gambe come invece avviene in India già dall'età infantile .
Ecco come si pratica il padmāsana secondo l'haṭha-Yoga-pradipika lex.I,44:
“si ponga il piede destro sulla coscia sinistra e il sinistro sulla coscia
destra e si afferrino saldamente gli alluci con le mani dopo averle
passate dietro la schiena; si appoggi quindi il mento sul petto e ci si
contempli la punta del naso: questo è chiamato padmāsana, che
distrugge completamente le malattie di coloro che osservano gli
yama.” (40)
questa è la versione baddha-padmāsana cioe la “posizione del loto legata” che è un
āsana più evolutiva che meditativa.
Secondo la versione semplificata in haṭha-Yoga-pradipika lex.I,45-46 si dice:
“dopo aver fatto aderire, con il dovuto sforzo, i piedi con le piante
rivolte verso l'alto alle cosce opposte e similmente aver posto le mani
con le palme rivolte verso l'alto tra le cosce, si diriga lo sguardo alla
punta del naso; poi si spinga la lingua contro la base dei denti
incisivi, si appoggi il mento sul petto e si faccia risalire lentamente il
prāṇa.” (41)
Il padmāsana, nella versione baddha cioè legata, della Gheraṇḍa-samhitā cap.II,8:
“si appoggi il piede destro sulla coscia sinistra e il sinistro sulla
coscia destra; con le mani si afferrino strettamente, da dietro la
schiena, gli alluci; si abbassi il mento sul petto e si volga lo sguardo
alla punta del naso. Questo è detto padmāsana, distruttore di ogni
malattia.” (42)
Infine il padmāsana secondo la Śiva-samhitā III,88-91:
“ora io descriverò il padmāsana che porta via tutte le malattie: messi
con cura i piedi sulle cosce a piante in su e poste le mani, allo stesso
modo, sulle cosce a palme in su, il praticante fissi la punta del naso,
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premendo la radice dei denti con la lingua, col mento in alto e il
petto sollevato, lentamente inspiri aria il più possibile fino a
riempirsene, e lentamente poi la espiri, il più possibile in modo
armonico. Questo āsana non può essere compiuto da chiunque, solo
il saggio ha successo. Con questa pratica e questo esercizio il respiro
del praticante diventa regolare e subito fluisce armonioso, non v'è
alcun dubbio. Se lo yogin, seduto in padmāsana, respira secondo le
norme relative al prāṇa e all'apāna, ottiene l'emancipazione; la
verità, la verità io dico.” (43)
Illustrazione Illustrazione
del del
baddha-padmāsana padmāsana
Sul piano della fisiologia sottile, soprattutto quest'āsana, praticato nella forma non
legata più facilmente accessibile, come risulta evidente dalle parole appena lette dalla
Śiva-samhitā, è particolarmente adatto alle tecniche del controllo del prāṇa, il
prāṇayāma, che purificando le nādī favorisce lo scorrere del prāṇa-vāyu nel corpo
dell'adepto, agevolando così la pratica degli aṅga superiori (i quattro ultimi “membri”
dell'haṭha-Yoga) il pratyahara, la sospensione dei sensi, e il dharānā, la concentrazione;
concentrazione in particolare, come indicato nel testo, su un punto: la punta del naso,
detta nasāgra-dṛṣṭi.
Sul piano fisico ordinario sia il siddhāsana che il padmāsana agiscono sulle
articolazioni delle anche e delle ginocchia sbloccandole, sulla spina dorsale prevenendo
le deviazioni del rachide e su piedi e caviglie con estensioni e rotazioni. Si produce
un'azione tonificante degli organi addominali, con un flusso sanguigno maggiore in
questa zona per la compressione degli arti inferiori contribuendo così alla risalita del
prāṇa. La presa della posizione e il suo scioglimento devono essere lenti e
progressivamente allenati con la preparazione attenta delle articolazioni più esposte
all'āsana.
Da queste posture il corpo ne ricava un vero riposo.
Brevemente accenniamo alle ultime posizioni meditative esaminate in questo elaborato:
svastikāsana e vīrāsana.
ISFIY Milano 2004-2008. Spinoglio Sergio, tesi: “la meditazione nell’āsana”
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Svastikāsana, la postura propizia di benessere, dall'haṭha-Yoga-pradipika lex.I,19:
“dopo aver appoggiato correttamente ciascuna pianta del piede tra il
ginocchio e la coscia opposti si stia eretti e ben assisi: questo è
chiamato svastika” (44)
dalla Gheraṇḍa-samhitā cap.II,13:
“quando lo yogin sedendo con il busto eretto, porta la pianta di
ciascun piede tra coscia e ginocchio della gamba opposta, questa
postura è detta svastika” (45)
Infine vīrāsana, la postura dell'eroe dall'haṭha-Yoga-pradipika lex.I,21:
“si appoggi saldamente un piede sulla coscia opposta e la coscia
sull'altro piede” (46)
dalla Gheraṇḍa-samhitā cap.II,17:
“si ponga un piede su una coscia, appoggiata sull'altro piede volto
all'indietro.” (47)
Vediamo qualche immagine con il dettaglio di queste posizioni che risultano meno
difficili delle precedenti nella loro esecuzione ma anche meno efficaci dal punto di vista
della liberazione delle nādī e quindi dell'assimilazione pranica.
Illustrazione Illustrazione
dello del
svastikāsana vīrāsana
Nella Śiva-samhitā cap.III,97 viene ricordato che il termine sukhāsana o “postura
facile” è utilizzato come sinonimo di svastikāsana ed è evidentemente adatto ai
principianti.
Lo Svāmin Sivananda propone una interessante variante del sukhāsana per chi non ha
più l'elasticità necessaria a posture impegnative, egli scrive:
“ecco una variazione particolare di questa posa, molto comoda per le
persone anziane: prendete un panno lungo cinque braccia e
piegatelo nel senso della lunghezza. Alzate le ginocchia al livello del
petto. Tenete un angolo del panno vicino al ginocchio sinistro,
passate dietro la schiena l'angolo opposto, dal ginocchio sinistro fino
al ginocchio destro; ritornate sul ginocchio sinistro e annodate.
ISFIY Milano 2004-2008. Spinoglio Sergio, tesi: “la meditazione nell’āsana”
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Tenete le mani tra le ginocchia. Con le gambe, le mani e le scapole
così sostenute, potete rimanere a lungo in questa posizione.” (48)
Una nota merita vīrāsana che si può praticare nella variante con i piedi portati oltre il
bacino dal lato opposto e le ginocchia sovrapposte su cui si appoggiano le mani, questa
versione è particolarmente efficace, con la dovuta prudenza, per l'allungamento del
nervo sciatico.
Illustrazione della
variante del
vīrāsana
È appena il caso di ricordare, come ampiamente descritto nel capitolo 2, che il successo
della concentrazione e dello stato meditativo conseguente non può essere attribuito solo
a questi āsana appena descritti ma deve essere accompagnato da una fede ardente del
praticante nella ricerca di Sé, dopo aver adempiuto a ciò che è prescritto da yama e
niyama rispetto al proprio ruolo sociale, con l'uso dei mantra o di tecniche che ci
distaccano dagli oggetti dei sensi, in armonia ed equilibrio sattvico, con regolarità,
assiduità, progressione, superando l'indolenza umana indotta dalle passioni.
Le mani poste sulle ginocchia sono tenute in una mudrā, ad esempio in jñāna-mudrā il
gesto dell'iniziato, chiudendo così un percorso pranico e rappresentando l'io indice che si
sottomette al Sé pollice di cui parlerò al cap.8.
4.3 Effetti e controindicazioni Gli effetti delle posture meditative, se ben eseguite, nel corpo fisico sono, sotto l'aspetto
scheletrico muscolare, la rieducazione alla postura sempre eretta del rachide, una
migliore azione respiratoria completa e come già detto in particolare per la variante del
vīrāsana, anche lo stiramento terapeutico del nervo sciatico. Sul piano cardiovascolare,
avendo serrato in parte alcuni vasi degli arti inferiori la circolazione sanguigna è spinta
verso l'addome e verso l'alto, essa perciò favorisce gli organi presenti in quell'area:
intestino, reni, stomaco, cuore, polmoni, cervello, ecc., dall'interno si aggiunge a questo
anche il massaggio dovuto alla respirazione profonda.
Non trascurabili sono gli effetti coadiuvanti della peristalsi intestinale dall'alto per il
massaggio pneumatico del diaframma e dalla muscolatura addominale anteriore.
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Si producono effetti calmanti nel sistema nervoso che a causa dell'immobilità perde i
riferimenti esterni e normalmente si placa come durante il sonno restando in una
condizione di attesa. Perciò il sistema nervoso viene ad essere riequlibrato tra la
componente simpatica e parasimpatica. Il sistema linfatico e poi quello endocrino si
acquietano perché collegati a quello nervoso, ma la riduzione di attività di questi sistemi,
specie quello endocrino, è più profonda e persistente e il suo recupero molto più lento.
Si può dire che viene prodotta un'azione antistress praticando questi āsana.
Il respiro che volontariamente controlliamo all'inizio dell'esercizio, progressivamente si
calma anch'esso riducendo la sua frequenza, arrivando in alcuni momenti addirittura alla
sospensione. Questo perché l'attività del corpo pranico riduce sempre più le sue
necessità, ed in pratiche avanzatissime persino ad avvicinarsi alla condizione di morte
apparente con il minimo bisogno di prāṇa soprattutto concentrato a livello del bindu il
centro alto del capo con il resto del corpo in ipotermia.
Il sistema immunitario di difesa alle diverse malattie, è dimostrato essere
particolarmente migliorato dalla pratica di concentrazione e meditazione.
Lo stress che dipende particolarmente dallo psichismo squilibrato di chi ne soffre, può
essere curato con la pratica di concentrazione e meditazione opportunamente strutturata
sull'individuo, inserendo anche pratiche di riequilibro del sistema nervoso nei diversi
plessi glosso-faringeo, solare, sacrale, e di riequilibrio pranico.
Un importante effetto sottile è il riequilibrio delle tre diverse aree principali in cui siamo
suddivisi, l'area istintiva in basso, l'area emozionale al centro e l'area mentale in alto, e
questo riequilibrio porta al risveglio dell'intuito spesso sopito.
Gli effetti mentali delle pratiche meditative praticate con abyāsa, la perseveranza e
vairāgya, il distacco dall'ambiente per non disperdersi, nell'adepto sono soprattutto la
sensazione di calma perché ci liberano dai pensieri opprimenti della vita, senza sottrarci
al mondo, ma anzi scoprendolo più lucente, più presente, maturando un senso interno di
pace e di armonia verso l'esterno. Tenere i palmi delle mani rivolto verso l'alto e i gomiti
verso il basso con le spalle aperte è un gesto di apertura e accoglienza che già acquieta la
mente.
Vi è poi una progressiva perdita delle sensazioni dal mondo esterno per lo sganciarsi
della mente cosciente dagli stimoli sensoriali e le dualità ordinariamente presenti, a poco
a poco si assottigliano per rivelarci l'unità dell'essere. Inizia un percorso di
decondizionamento mentale che dall'immobilità fisica si trasferisce nel rallentamento dei
pensieri, che si impara a riconoscere e a gestire con padronanza uno dopo l'altro
recuperando immagini positive ed emarginando quelle di sofferenza. Questo processo
porta al silenzio interiore della mente, uno stato di purificazione mentale conscia ed
inconscia.
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La misura strumentale di onde alpha, che sono indice di relax, ci permette di riconoscere
e compensare lo stato di rilassamento della mente nel suo transitare tra le increspature
dei pensieri.
Si rivelano all'adepto altre esperienze superiori come la sensazione di risalita del prāṇa,
lungo i sei principali cakra, i centri energetici lungo la linea mediana del corpo, dalla
base tra l'ano e i genitali fino al centro delle sopracciglia, questo è chiamato risveglio
della kuṇḍalinī.
Si rivela all'adepto anche l'estasi del samādhi, lo stato di pura beatitudine, che è un
effetto proprio della lunga meditazione in queste posizioni.
Controindicazioni non ne esistono se non la cautela di evitare le posizioni meditative
durante gli stati acuti di traumi al rachide o alle articolazioni già citate: anche, ginocchia,
caviglie.
Se mantenute oltre la mezz'ora è bene avere rispetto dell'acutizzarsi di particolari fastidi
articolari o muscolari, considerandoli come la richiesta di quella parte del corpo di
essere preparata meglio alla postura, quindi interromperla per il momento passando ad
un'azione propedeutica come quelle descritte nel paragrafo sulla preparazione agli āsana
meditativi.
Evitare queste posizioni durante stati depressivi, in questi momenti è consigliabile prima
una pratica più dinamica o di forza, che aiuti il praticante a ritrovare il contatto con il
corpo fisico, mettendo ordine nella coscienza confusa o smarrita. Ancora più delicata e
da valutare con attenzione dopo un opportuno approfondimento è la pratica meditativa
nei casi di esaurimento nervoso, dove prima va riconosciuta e rimossa la causa
scatenante.
4.4 Il prāṇayāma negli āsana meditativi
Negli āsana appena descritti, per eccellenza in padmāsana, si pratica il controllo del
respiro allo scopo di assimilare e distribuire il prāṇa che perciò partecipa alla
realizzazione del calore ascetico necessario alla meditazione e all'unione yogica, il
samādhi.
Si consiglia di far precedere al prāṇayāma alcune delle sei tecniche di purificazione
dette ṣaṭkarman, che sono: dhauti (pulizia di vario tipo, dai denti alla lingua
all'intestino), basti (detersione addominale), neti (detersione delle fosse nasali), laulikī o
nauli (scuotimento dello stomaco), trāṭaka (fissazione dello sguardo) e kapālabhāti
(schiarimento del capo); queste rendono i canali energetici, le nādī, libere per lo scorrere
del prāṇa.
Si può quindi approfondire la pulizia delle impurità delle vie aeree fino al capo con
kapālabhāti che ho detto far parte delle tecniche del ṣaṭkarman, che indirizza l'aria e il
ISFIY Milano 2004-2008. Spinoglio Sergio, tesi: “la meditazione nell’āsana”
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prāṇa verso l'alto; seguendo poi col controllo della regolarità delle fasi del respiro con
proporzione di 1,4,2 mātrā (unità di misura) di pūraka (inspirazione), kumbhaka
(ritenzione), e recaka (espirazione); passando quindi a pratiche di assimilazione del
prāṇa come sūrya-bhedana o bhastrikā che propongono una ritenzione prolungata
dell'aria nei polmoni, detta kumbhaka in cui l'energia pranica ha più tempo per essere
assorbita, distribuita ed assimilata anche a livello cellulare.
Ed infine si può praticare bhrāmari in cui, dalla descrizione dell'haṭha-Yoga pradipika
II,68, si produce il suono del ronzio dell'ape maschio all'inspiro rapido (non facile da
produrre) e il più delicato ronzio dell'ape femmina all'espiro molto lento. Suoni prodotti
dalle corde vocali, che salgono lungo la gola fino alla radice del naso con la vibrazione
dall'interno della scatola cranica. Tale massaggio agisce su zone primordiali del cervello
dove non vi sono altri mezzi per intervenire, riequilibrando la zona delle ghiandole
endocrine pineale (epifisi) e pituitaria (ipofisi), con conseguente equilibrio del sistema
ormonale e nervoso; induce inoltre la mente alla tranquillità dissolvendo i pensieri nella
concentrazione sul suono e perciò bhrāmari è particolarmente adatta ad entrare nello
spirito meditativo.
In generale i prāṇayāma producono effetti utili alla funzionalità mentale, determinano
una migliore circolazione del prāṇa, la sua assimilazione e trasporto nel corpo,
favorendo tutte le attività comprese quelle della mente che diventa più limpida. I
prāṇayāma che fanno risalire il prāṇa verso l'alto aiutano anche a mantenere il risveglio
della mente prevenendo stati di torpore, tamas, che nella pratica meditativa sono un
rischio frequente.
Importante è poi il controllo della cintura addominale, contraendo le varie tonache
muscolari presenti nell'addome specialmente i muscoli grandi retti, in tutte le fasi della
respirazione in particolare durante la ritenzione kumbhaka.
“L'importanza del controllo della cintura addominale è evidente in
molte scuole come l'Aṣṭāṅga Yoga Nylayam di Mysore. Si vede il
maestro durante la pratica del prāṇayāma, che controlla questa
tensione nell'allievo, particolarmente premendo i pollici contro
l'addome nella zona sopra la sinfisi pubica, all'inserimento dei
muscoli grandi dritti, per assicurarsi che la tensione sia corretta”(49)
Questo controllo è quasi automatico nel padmāsana, la posizione del loto, e serve in
generale per evitare tutti i problemi di stasi circolatoria e rilascio dei tessuti e degli
organi interni, e per beneficiare a pieno del massaggio diaframmatico contenuto nella
zona addominale contratta, che quindi risulta contenuta in fase inspiratoria e ritentiva
dell'atto respiratorio e rientrata verso l'alto in fase espiratoria, ciò favorirebbe anche la
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risalita del prāṇa e il risveglio della kuṇḍalinī, la forza spirituale latente in ogni essere
umano.
Un altro aspetto importante per contenere il prāṇa e i suoi effetti ed evitare sgradevoli
risultati è l'uso dei bandha accessori al kumbhaka detti bandha-traya: i tre legami,
ovvero la creazione di barriere al flusso energetico con la contrazione di opportuni
muscoli. I tre bandha da utilizzare sono mūla bandha che vuole sigillare l'apāna entro la
zona addominale con la contrazione muscolare degli sfinteri anali dal basso ventre verso
l'alto, uddīyāna bandha che con la contrazione addominale verso l'alto invita alla risalita
della kuṇḍalinī e infine jalandhara bandha che vuole sigillare il prāṇa nel torace con la
contrazione del collo e la chiusura della gola portando il mento con forza verso il petto e
sollevando le spalle con le braccia tese e le mani appoggiate alle cosce.
È durante la fase del kumbhaka che con meraviglia si ottiene una mente particolarmente
libera dai pensieri, distaccata dalle sensazioni ordinarie, la mente viene decondizionata
dalla situazione di particolare immobilità si concentra sul vuoto del respiro e riduce il
suo vagare.
Infine vediamo il mūrcchā prāṇayāma, che è adatto solo ai più progrediti, è una tecnica
che si può considerare un prāṇayāma di transizione a stati di coscienza modificati,
utilizzando jalandhara bandha in modo 'estremamente serrato' al termine di una
inspirazione, causando la compressione di un punto particolare del seno carotideo. In
quel punto fisico s'innesta anche la nādī della conoscenza vijñāna-nādī che va verso i
centri pranici del capo passando progressivamente al controllo delle fluttuazioni mentali.
Lo scioglimento del bandha dev'essere alquanto progressivo.
“Mūrcchā, quale tecnica molto potente, va affrontata con
preparazione e cautela. Il pericolo non è rappresentato dalla
ritenzione, ma dal fatto che questo prāṇayāma lavora con molta
intensità sul piano mentale. Affinché i cambi di stato di coscienza
non siano traumatici o non lascino affiorare tensioni e pulsioni dal
livello inconscio, è necessario avere acquisito un'armonizzazione
pranica e un certo grado di purificazione del piano mentale” (50)
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5. L'AMBIENTE, IL LUOGO, IL TEMPO
5.1 Premessa
È possibile lo stato meditativo perpetuo? Forse è possibile per un grande Maestro, uno
Svāmin, magari per un jīvan-mukta (realizzato in vita) come Śri Maharaj Nisargadatta
che disse ad un interlocutore:
“io vivo in un mondo di realtà, mentre le tue realtà sono
immaginarie. Il tuo mondo è personale, privato, non condivisibile,
intimamente tuo. Nessuno può entrarci, vederlo come lo vedi tu,
sentirlo come lo senti tu, provare le tue emozioni e pensare i tuoi
pensieri. Nel tuo mondo sei veramente solo, intrappolato nel tuo
sogno che cambia in continuazione e che tu scambi per la vita. Il mio
è un mondo aperto, comune e accessibile a tutti. Nel mio c'è
comunanza, introspezione, amore, vera qualità; l'individuale è il
totale, la totalità è nell'individuo. Tutti sono uno e l'Uno è tutti.” “in
apparenza sento, vedo, parlo e agisco, ma per me sono solo cose che
accadono, come per te la digestione o la sudorazione. Se ne prende
cura la macchina del corpo-mente e me ne lascia fuori” (51)
e in un'altra occasione disse anche:
“Il fattore principale è il silenzio. È in pace e in silenzio che cresci”.
(52)
La Baghavadgītā alla sesta lettura, versetti dal 10 al 15, ci dà un messaggio con
indicazioni forti e chiare su come la meditazione deve essere compiuta dallo yogin, cioè
da colui che percorre il sādhana e la sua vita è permeata dallo Yoga:
“Lo yogin deve esercitarsi di continuo, stando in un luogo appartato,
solitario, tenendo a freno la mente ed il Sé, senza aspirazioni, senza
possessioni.
Sceltosi un seggio stabile, in un luogo puro, non troppo alto e non
troppo basso, ricoperto di un panno, di una pelle di antilope o di erba
(erba kuśa)
sedutosi su di esso e concentrata quivi la mente in un punto, tenendo
a freno le attività del pensiero e dei sensi, egli deve esercitare lo
Yoga, per purificare il Sé.
Fermo, mantenendo immobile e nella stessa posizione il corpo, la
testa e il collo, fissandosi la punta del naso, senza volgere lo sguardo
in giro,
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tranquillo, senza paura, fermo nel suo voto di castità, tenendo a
freno la mente, col pensiero in me, così egli dev'essere seduto,
intento in me.
Esercitando così di continuo il suo Sé, frenata la mente, lo yoghin
ottiene la pace che culmina col nirvana, la mia sede” (53)
Per il praticante che ha assaporato solo qualche momento di coscienza superiore, di
estasi e pace, è necessario adottare tempi, modi e luoghi adatti a favorire un cammino di
concentrazione e di meditazione, dove il silenzio sarà il fattore principale.
5.2 Quando e dove è meglio meditare
“Aspiranti alzatevi all'ora di Brahman (Brahma-muhūrta); fatelo ad
ogni costo. Questo lasso di tempo si situa al mattino tra 3.30 e le
5.40; è assai favorevole alla meditazione. La mente rinvigorita dopo
un buon sonno è calma e serena. C'è in essa una preponderanza di
purezza (sattva) che si trova in questo momento anche
nell'atmosfera. In questa parte del giorno la mente assomiglia ad un
foglio bianco, o ad una tavoletta vergine; è relativamente libera dalle
impressioni sovrimposte in precedenza (saṃskāras). Le correnti
d'attrazione e repulsione (rāga-dvesha) non hanno ancora penetrato
profondamente la mente che in questo momento può essere
modellata nel modo da voi scelto” ... ”è anche l'ora nella quale tutti
gli yogin e le grandi anime (paramahaṃsas), i saggi (rishis)
dell'Himalaia cominciano la loro meditazione ed inviano le loro
vibrazioni attraverso lo spazio.” (54)
Svāmin Sivananda, maestro di meditazione, ci propone un tempo preciso: l'alba in cui la
meditazione agisce in maggior misura su una mente riposata, inoltre indica il momento
del crepuscolo in cui come all'alba il canale pranico per eccellenza, ṣusumnā, è sgombro
quindi il respiro è libero su entrambe le narici che sono legate alle due nādī iḍā e piṅgalā
il cui equilibrio favorisce l'apertura di ṣusumnā.
“Per meditare bisogna avere una stanza separata che si chiude a
chiave. È una condizione 'sine qua non'. Trasformate la stanza in
'foresta' e non permettete a nessuno di entrarvi. Se non avete una
stanza intera convertite in luogo di meditazione un angolo della
stanza, circondatelo con una tenda o uno schermo. Alla mattina e
alla sera bruciatevi incenso profumo o canfora. Ponetevi l'immagine
del Signore Kṛṣṇa, di Shiva, Rama, Devī Gāyatrī o del guru, del
Signore Gesù o di Buddha. Mettete la sedia davanti all'immagine.
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Lasciate qualche libro come la Gītā, le Upaniṣad, lo Yoga vaṣisṭha,
la Bibbia, il Corano, eccetera.”
“La stanza di meditazione dovrebbe essere considerata come un
tempio Non vi si dovrebbe tenere una conversazione profana, nessun
pensiero vizioso, di gelosia o di avarizia”
“Quando ripetete un mantra o il nome del Signore, delle vibrazioni
potenti rimangono nell'etere della stanza. Fino a sei mesi dopo
proverete la pace, la purezza dell'atmosfera”
“Praticate e provate voi stessi le influenze spirituali calmanti.
Troverete così nella vostra stessa casa un luogo di
pellegrinaggio.”(55)
Svāmin Sivananda definisce con una certa chiarezza il luogo di meditazione che, simile
ad un tempio, è praticabile a chi vuole assorbire una speciale energia dovuta alla pratica
stessa che sembra aver impregnato l'atmosfera in esso contenuta, penetrandolo a fondo.
Molti meditatori pongono un tappeto naturale a terra come la pelle di un animale
selvatico, un grande felino, che isola dall'umidità e trattiene la dispersione di energia.
Un supporto di pochi centimetri posto sotto i glutei dei principianti per avere una postura
più corretta sarà inoltre una buona idea, in modo da avere il rachide in posizione
verticale dal sacro alla nuca, con le naturali curvature non troppo accentuate. Il supporto
migliore è quello posto in modo equilibrato sui due lati, ad esempio può essere fatto da
un rotolo messo di traverso a terra sotto il bacino lungo la linea sagittale tra i due glutei.
Anche la tenuta della cintura addominale risulterà più gradevole e la tenuta della postura
nel suo complesso, ma l'obiettivo nel tempo sarà quello di una postura bassa a terra
come vuole la tradizione, tenendo le ginocchia leggermente più basse del bacino.
Secondo la Śvetāśvatara-Upanisad il luogo di meditazione dev'essere piano, senza
pietre, senza fuoco né vento, ne polvere né umidità, lontano da rumori, con un paesaggio
piacevole per l'occhio, in ombra, in grotta, con sorgenti d'acqua nei pressi che aiuterebbe
nella pratica.
“Mentre progredite sul sentiero spirituale, il mondo non conviene
alla vostra meditazione. Esso racchiude delle cause di turbamento;
l'ambiente non ne è esaltante; in questo momento i vostri amici sono
i vostri peggiori nemici. Vi fanno perdere tempo in vane discussioni;
ed è una cosa inevitabile. Siete perplessi e tormentati. Allora cercate
di allontanarvi dalle vostre amicizie” (56)
Questa considerazione è dura ma vera, nel senso che chi non è sulla via del sādhana
fatica a capire la bontà di quest'azione finché non decide di partecipare con fede al
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percorso, ma fino ad allora da “amico” proverà a metterci in difficoltà e a criticare la
nostra azione interiore.
Detto ciò si deve socializzare con gli amici nel tempo dedicato a loro e accogliere con
una certa riservatezza chi volesse avvicinarsi allo Yoga con seri propositi.
“Vi dev'essere un clima temperato soddisfacente sia d'estate che
durante la stagione delle piogge che in inverno”. “Dovete stabilirvi
in un posto per tre anni”. “Dato che il luogo ideale non esiste, non
cambiate se incontrate qualche inconveniente, dovete adattarvi”
“Māyā vi tenta in vari modi, usate la ragione e il discernimento
(viveka)”. “State in guardia contro ogni tentazione ed ogni
delusione”. “I luoghi freschi sono necessari alla meditazione quando
fa troppo caldo il cervello si stanca rapidamente” (57)
Questi ultimi sono particolari suggerimenti pratici essenziali per avvicinarsi alla
meditazione.
Ci si potrebbe addentrare ancora nei luoghi meditativi particolari come l'ambiente della
grotta dove l'atmosfera e il silenzio profondo sono caratteristici, ma tralascio
l'approfondimento di questo aspetto seppur ricco di significati naturali depurativi della
mente, proprio dei luoghi lontani dagli inquinamenti.
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6. UNA MEDITAZIONE
6.1 Premessa
Prima di praticare ecco ancora dei consigli dello Svāmin Sivananda per ottenere migliori
risultati dalle sedute di Yoga interiore
“Seduti nella postura preferita, testa e busto eretti, chiudete gli occhi
e concentratevi dolcemente sia sulla punta del naso, sia sullo spazio
tra le due sopracciglia, sia sul lotus del cuore od anche sulla
sommità del capo. Quando avete scelto un punto di concentrazione
fissatevici fermamente, come fa una sanguisuga; non cambiatelo.”
(58)
l'immobilità, la ferma attesa e molta fiducia nella rivelazione del Sé, sono ingredienti
indispensabili, poi i risultati verranno. Ma è bene distinguere a questo punto tra i due tipi
di meditazione che è possibile affrontare nella pratica:
“la meditazione è di due specie cioè: saguṇa che mantiene la
coscienza delle guṇas (qualità o attributi dell'oggetto sul quale si
medita) e nirguṇa in cui svaniscono tutti gli attributi. La meditazione
sul Signore Krisna, sul Signore Rama o sul Signore Gesù è saguṇa
con forme ed attributi; e nello stesso tempo si ripete il nome del
Signore ... La meditazione sulla realtà dell'Io ... su OM, So'ham e
Tat tvam asi (formule con le quali ci si identifica con l'assoluto)
appartiene alla meditazione nirguṇa.” (59)
La meditazione che voglio proporre in questo assunto è appunto di tipo saguṇa, che in
un ordine di difficoltà viene assai prima rispetto alla meditazione nirguṇa.
6.2 La meditazione della montagna
Se ci poniamo di fronte ad una montagna o anche solo ad una sua fotografia o ad un suo
quadro, dalla visualizzazione concentrata potremo percepire l'immagine delle sue qualità
ed entrare nello stato di meditazione, desiderosi di conoscere ma mentalmente
abbandonati all'evolversi della pratica.
La pratica meditativa è uno stato della coscienza, un momento, che per il jñānin è una
condizione permanente, di scoperta di ciò che siamo veramente, che è normalmente
nascosto dal velo creato dalla confusione dei tanti eventi acquisiti dai sensi e
dall'elaborazione della mente. Praticare la concentrazione prima su un oggetto e poi
interiormente su un'immagine sempre meno qualificata è la via per giungere
gradualmente a questo stato.
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La pratica sarà inizialmente di tipo saguṇa, di concentrazione esteriore o interiore su
qualcosa che già conosciamo nei suoi attributi qualitativi. Questo qualcosa potrebbe
essere il sole, il cielo, un fiore, il Signore Kṛṣṇa, ecc. .
Un oggetto molto usato da interiorizzare è la montagna, così ricca di varietà qualitative
da discriminare e così simile allo yogin in posizione meditativa.
La montagna e altri oggetti di meditazione sono utilizzati anche nella tradizione della
meditazione o preghiera “esicasta”, di tradizione cristiana, ortodossa e non, dove la
ricerca nel silenzio della pace del cuore dell'uomo porta ad una purificazione dei pensieri
e al raggiungimento di un rapporto col divino, l'Essere increato, accogliendolo e
riflettendo come specchi senza macchia la sua luce.
Per iniziare si deve ricercare l'immobilità, la via della non-azione (nivritti-mārga), in una
delle posizioni meditative di cui ho trattato al cap.4. Si avranno così ferme le gambe, le
mani, la voce, si bloccano gli organi escretori e quelli riproduttivi (i 5 karmendriya), si
neutralizzano i cinque organi di senso ( i 5 jnanendriya).
Conviene sedersi su un telo isolante dal terreno e con un supporto sufficiente a rendere
la postura immobile per lungo tempo, da mezz'ora a qualche ora a seconda del proprio
grado di preparazione.
La pesantezza del corpo e la stabilità dell'appoggio al suolo determinano una sensazione
di forte radicamento in unione con la terra. Si cerca quindi l'equilibrio verticale della
colonna vertebrale con il minimo sforzo, il più possibile determinato dal solo sostegno
scheletrico. L'orientamento da terra verso l'alto ci porta già al raffronto con la montagna,
posizione tra cielo e terra stabile, ferma e dritta, avvertita anche come l'antenna che
percepisce le vibrazioni e risuona con quelle sincrone o armoniose, perciò in accordo
con l'energia cosmica.
Verificare un membro alla volta se postura e rilassamento sono assicurati e in armonia
tra loro, partendo dai piedi, le caviglie, le gambe, le cosce, il bacino, l'addome, il petto,
le spalle,il dorso, il collo, il capo, le braccia, le mani.
Le mani poste sulle ginocchia sono tenute in un mudrā, ad esempio in jñāna-mudrā il
gesto dell'iniziato, chiudendo un percorso pranico con l'indice rappresentante l'io che si
sottomette al Sé rappresentato dal pollice. Le braccia sono ruotate all'esterno con i palmi
delle mani verso l'alto, nel gesto di accoglienza che ci fa tenere le spalle ben aperte.
Il respiro è rallentato in ujjāyī semplice, la tecnica con cui si assottiglia il passaggio
dell'aria nella glottide facendola leggermente frusciare; concentrandosi sul respiro in
ascolto del suo fruscio sottile si crea il cambio di ritmo armonico con cui si
decondiziona la mente calmandola.
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Quindi ancora nell'ascolto del respiro ci si interiorizza all'interno del corpo, avvertendo
le sue qualità sottili in particolare lungo il rachide nelle nādī principali e nella zona dei
primi due cakra in basso, nell'area dell'osso sacro.
Si tende alla condizione di silenzio, riducendo le fluttuazioni della coscienza mentale,
favorito dalla postura immobile senza sforzo.
Allora possiamo riconoscere i pensieri nello spazio privilegiato della loro
manifestazione, dietro l'osso frontale, il luogo chiamato chidākāshā. Lasciamo che lo
scorrere dei pensieri a poco a poco rallenti, utilizzando anche tecniche di controllo della
mente come antar-mauna il silenzio interiore, cioè immobilizziamo i pensieri per
sospenderli e neutralizzarli; questo ci porta nel pratyahara, la condizione di distacco dal
mondo esterno.
Ora non ci resta che concentrarci sull'oggetto scelto per la meditazione, per dirigere il
flusso dei pensieri in una determinato luogo. Questa immagine ci aiuterà comunque a
mettere per un periodo da parte gli altri pensieri.
Creiamo allora in chidākāshā l'immagine di una montagna conosciuta (ad esempio il
Monviso nella stagione calda), che sarà a poco a poco così nitida nella sua maestosità ed
immobilità che ci sembrerà di poterla toccare, di poterci entrare dentro; ferma con la
base al suolo della Terra e poi alta fino alla vetta che spicca nel cielo terso che appare
infinito, dove è più intensa la carica di energia cosmica.
Col passare dei minuti il nostro corpo ci sembrerà assomigliare prima alla base della
montagna, poi ai fianchi della montagna, quindi alla sua vetta ............... il nostro essere
individuo si trasforma nella montagna. È una trasformazione della coscienza.
E poi immaginiamo i particolari. Vediamo una sorgente d'acqua che sgorga dalla roccia
e ascoltiamo lo scorrere del ruscello che scende lungo i solchi della montagna e
seguiamo il suo corso con i colori e i suoni ............... Ascoltiamo il fruscio e il suono del
vento lungo il fianco della montagna ............... le rocce e la vetta innevata avvolta dalla
nebbia.
Possiamo riconoscere molti dettagli, più che nella vita ordinaria , dai più grandi come
una roccia ............... una grande pietraia ............... un grande albero ............... il sentiero
nel suo percorso lungo i fianchi della montagna ............... un prato verde ............... poi i
piccoli dettagli come le farfalle del prato ............... le formiche ............... un insieme di
sensazioni che via via si rivelano come presenti sul nostro corpo in forma sottile, in parte
mentale e in parte psichica non causata. Un'azione nella non-azione.
Infine si potrà visualizzare una grande luce dietro la montagna, è il sole che sorge e che
gradatamente ci restituisce l'immagine luminosa e completa dell'insieme della montagna
di cui ci sentiamo parte, che vediamo fuori e dentro al tempo stesso.
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Quando saremo verso la conclusione della meditazione, bisognerà ritrovare il contatto
col mondo grossolano; lo si può fare lentamente iniziando a riascoltare il respiro che
fluisce nella gola e nelle narici. Rendere più intenso questo movimento dell'aria nel
corpo, e iniziare a riprendere contatto con mani e piedi attraverso leggeri massaggi
superficiali, quindi muovere braccia e gambe liberando lentamente la postura seduta.
Può essere praticato un lentissimo dondolio del capo nelle quattro direzioni e un contatto
delle punte delle dita sul cuoio capelluto in un lieve massaggio.
Distendersi infine in śava-āsana per qualche minuto per riequilibrare ogni eventuale
disordine fisiologico e mentale praticando un japa interiore, un mantra ripetuto molte
volte ciclicamente. Poi tornando seduti in verticale la recita lenta del mantra concluderà
la meditazione.
Nel corso di successive pratiche meditative si ridurranno i dettagli delle immagini e le
loro qualità fino a ridurre all'essenzialità gli oggetti di meditazione e scoprirne la vera
essenza di cui sono costituiti. Nello specifico della montagna si riconosceranno le qualità
nascoste come la sua stabilità il suo silenzio, la sua ritmicità stagionale, la sua pazienza
immobile e la sua eternità. Questo atteggiamento porterà anche alla pratica della
meditazione nirguṇa o senza oggetto di meditazione o senza seme.
Una tale concentrazione può durare da mezz'ora a un'ora e mezza a seconda di molti
aspetti, primo fra tutti il livello raggiunto dall'adepto nell'assiduità della pratica.
6.3 L'esicasmo
All'interno della tradizione cristiana è particolarmente significativa la pratica della
preghiera o meditazione esicasta detta anche meditazione del cuore o di Gesù; é un
antichissimo metodo spirituale che avvicina a Dio; ebbe origine dai primi monaci
cristiani, i cosiddetti Padri del deserto, intorno al IV sec. d.C. e ancora oggi è esercitato
da un esiguo mondo cristiano.
L'esychìa dal greco “pace interiore, silenzio” è tramandata attraverso la trasmissione del
maestro spirituale, lo staretz. Anche in questa tradizione la postura del corpo è un
aspetto fondamentale, il corpo ritrova il senso di luogo dello spirito, dove il “verbo si fa
carne”. Questo metodo spirituale, analogamente allo Yoga, si propone di essere la via di
liberazione dell'uomo dalle sofferenze attraverso un cammino ascetico progressivo ed
articolato promettendo l'unione con il divino, in stato d'estasi.
La versione più diffusa oggi della meditazione esicasta, è il metodo di Padre Serafino
che in semplici racconti illustra la pratica meditativa partendo dalla postura:
“Sedersi come una montagna vuol dire radicarsi, divenire pesanti,
scendere ... meditare non è decollare, ma atterrare, ritrovare la terra,
le proprie radici. Stare con tutto il peso, immobili” (60)
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L'uomo si vede schiacciato tra l'eternità che è il passato e l'eternità che sarà il futuro,
nell'essere montagna riconosce l'eternità che gli sta dentro, e la vive anche nell'unione
tra il mondo terreno e quello celeste.
È una delle prime immagini di meditazione di questa pratica religiosa, che poi si rivolge
a oggetti come il papavero segno di verticalità e flessibilità ma anche di fugacità rispetto
all'eternità della montagna e di fragilità da cui si riconoscono importanti lezioni di vita.
E poi l'immagine infinita dell'oceano con il proprio ritmo delle onde che si sintonizza
fino a risuonare col respiro del praticante valorizzandolo di unità col creato.
La meditazione esicasta si trasforma in preghiera quando il praticante riconosce la sua
coscienza umana ora trasformata dagli oggetti su cui ha meditato, e rivolgendosi così al
divino, nella recita di qualche formula ripetitiva come “kyrie eleisol” al di là del suo
significato attribuibile, come fece anche Abramo, conosce l'attitudine di abbandono
totale di ogni cosa anche la più importante come la vita del proprio figlio, rimettendosi
alla volontà del Padre celeste, chiedendo in cambio il bene di tutti gli uomini. O ancora
pregare come Yeshua di Nazareth, il nostro Gesù, senza limiti, amando prima i propri
nemici, anche sulla croce chiedendo per loro perdono “perché non sanno quello che
fanno” e la notte come un bambino mormorare abbà, cioè papà, parlando al Padre del
cielo, il Dio Assoluto.
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7. MANTRA, UTILI A MEDITARE Recitare un mantra o fare il japa, la ripetizione circolare di un mantra, è un ottimo
strumento per concentrare la mente, distaccandola dalle distrazioni che la rendono
fluttuante incapace di fermarsi su un solo pensiero. La mente è aggiogata dal mantra e
nel concentrarsi su quel suono si calma per quel meraviglioso mistero che rivestono le
vibrazioni prodotte dal mantra nell'individuo. Le vibrazioni possono essere grossolane
ovvero generate dall'aria emessa in un suono udibile, o altrimenti non udibili nel mantra
recitato interiormente nello stato conscio e assorbite dall'inconscio. Sono passi graduali
che dal suono materiale portano al suono non udibile e tendono a portarci verso il
silenzio assoluto, che è uno stadio davvero difficile da raggiungere stabilmente.
Tra i vari mantra il più efficace in ogni situazione è il suono della monosillaba
universale OM che già nei Veda e poi nelle Upanisad è riproposta più volte come il
suono che fa riscoprire all'individuo la sua vera natura e lo unisce alla natura universale
cosmica di ogni cosa.
Il mantra OM in alcune scuole viene esteso e pronunciato sui tre suoni A-U-M che
stanno ad indicare i tre livelli di molti contesti come indica la Yogatattva Upanisad al
primo kanda:
“tre sono i mondi, tre sono i Veda, tre sono i momenti sacri della
giornata, tre sono gli dei [maggiori], tre sono i fuochi sacrificali, tre
[essenze] costituiscono i guṇa: tutte queste cose sono fondate sulla
sillaba OM che è triplice.
Colui che medita anche sulla semisillaba, dopo che è stata esaurita
la sillaba dai tre fonemi (A,U,M), costui tutto l'universo raggiunge, e
ottiene la sede suprema” (61)
Le tre lettere sono associate ai tre stati di coscienza ordinari: veglia, sonno con sogni e
sonno profondo, mentre nell'individuo sono il suono A più addominale, quello della U
più toracico e la M più alto nella gola e nel capo. Il “punto” oltre la sillaba rappresenta il
quarto stato, il nada, la nasalità dell'esecuzione e lo stato di veglia yogica meditativa
oltre i tre stati ordinari.
Il mantra OM è anche detto Praṇava: il suono causale per eccellenza.
Il Praṇava così inteso può essere un oggetto di meditazione nirguṇa, come decantato
nella Brahmabindu Upanisad, versetto7:
“bisogna cominciare il Yoga con la [meditazione sulla] sillaba [Om]
e realizzare il supremo [Brahman meditando sulla sillaba] senza la
vocale. Con [il raggiungimento della] condizione che sta oltre la
vocale s'ottiene l'essere, non il non essere.” (62)
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Il mantra proprio del respiro è il “SO-HAM” che si ripete appunto durante l'inspiro col
suono SO e all'espiro col suono HAM. È considerato il mantra che ci accompagna
continuamente finché respiriamo, per circa 21600 volte al giorno, e quindi ci mantiene
anche incoscientemente consapevoli della nostra natura racchiusa nel Puruṣa, ed ha il
significato di “io sono quello”. Se recitato inversamente come “HAM-SA” ha il
significato di uccello selvatico che vola da un'esistenza all'altra, sempre agitato a
rappresentare la mente nel suo pensare fluttuante. A questo è dedicata interamente una
Upanisad dello Yoga, la Haṃsa Upanisad:
“[Del mantra Hamso, Hamso] l'autore è il Haṃsa, il metro è una
mistica Gāyatrī [di otto sillabe], la divinità [cui è dedicato] è il
Paramahaṃsa, la parte iniziale è Ham, la parte conclusiva è So, la
parte centrale è So-Ham. Di giorno e di notte si deve ripetere questo
mantra 21606 volte, [pensando] al sole, alla luna, al [Signore] privo
di macchie, al [Brahman] immerso nel mistero: [in tal modo] si
rianimerà lo spirito che risiede nel corpo.” (63)
Altri mantra molto praticati per calmare la mente sono:
OM MANI PADME HUM
dalla traduzione difficile ma che esalta il fiore di loto (padme) associato ai cakra del
corpo sottile, definito il gioiello (mani) di stimolo alla risalita della kuṇḍalinī (hum);
OM NAME ŚIVAYA
che è evidentemente più chiaro nella sua traduzione, ossia un inno a Śiva evocando con
devozione il suo nome;
infine la GĀYATRĪ Mantra dal testo significativo:
Oṃ bhūr bhuvaḥ svaḥ essenza onniscente terra atmosfera cielo
tat Savitur vareṇyam essere supremo Ishvara degno di adorazione
bhargo devasya dhīmahī elimina l'ignoranza, gloria, noi meditiamo
dhiyo yo naḥ pracodayāt sulla saggezza che ci illumina
La Śiva samhitā V,188 è emblematica nel parlare della qualità del mantra:
“ora io parlerò del mezzo più potente, il mantra, grazie al quale si
ottiene la felicità senza contrasti in questo e nell'altro mondo.” (64)
I mantra vengono recitati in japa, la ripetizione circolare incessante del mantra, e
devono essere appresi direttamente dalla viva voce di un maestro perché sviluppino il
loro potere.
Infine ci sono i bīja-mantra intraducibili come HRIM SRIM KRIM; LAM VAM RAM
YAM HAM OM che hanno un preciso significato per lo yogin che conosce l'esatta
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pronuncia e il significato di ogni sillaba. Sono i semi associati agli oggetti, ad esempio ai
cakra, su cui ci si può concentrare. Per esempio il bīja-mantra HUM favorisce la risalita
di kuṇḍalinī, l'energia vitale giacente alla base della colonna vertebrale, a forma di
serpente arrotolato sopra al kanda il bulbo ovoidale alto dodici dita e largo quattro dita
posto nella zona perineale da cui nascono tutte le nādī, ad eccezione di ṣusumnā.
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8. ALCUNE MUDRĀ PER MEDITARE mudrā, letteralmente tradotto con “sigillo”, ma traducibile anche con “gesto”, è insieme
una postura e un'appropriata contrazione di una determinata parte del corpo, due gesti
atti a dirigere o sigillare la circolazione del prāṇa; talune di esse favoriscono il risveglio
della kuṇḍalinī.
I gesti con le mani sono raccomandati negli āsana meditativi per favorire il percorso
pranico. Sono alcune delle mudrā che offrono allo yogin il sigillo energetico e simbolico
alla ricerca dello stato spirituale. Sono come delle barriere contro la perdita di energia.
Si tratta di trattenere all'interno del corpo il prāṇa, il soffio vitale durante il saṃyama.
In particolare i maestri intuirono che sulle punte in genere e soprattutto quelle delle dita,
si può concentrare maggiormente l'energia che così da queste viene dispersa, in analogia
a ciò che oggi si conosce sulle cariche elettriche che si addensano in prossimità delle
estremità dei conduttori. Quindi da ciò se, con gesti particolari, le punte delle dita sono a
contatto fra loro e si chiude un circuito, allora questo favorisce la conservazione del
soffio energetico distribuito all'interno del corpo, vyāna-vāyu.
Una di queste mudrā è il cin-mudrā o gesto della riflessione o realizzazione, con i palmi
delle mani aperti verso l'alto e la punta dell'indice appoggiata alla punta del pollice a
formare un anello. Le altre tre dita sono distese dolcemente in avanti e i dorsi delle mani
o i polsi, a seconda della costituzione individuale, sono appoggiati alle ginocchia.
Un'altra di queste mudrā è jñāna-mudrā analoga alla precedente ma con l'unghia
dell'indice appoggiata al centro della prima falange del pollice, è il gesto della
conoscenza con le altre dita e le braccia distese; si usa in particolare durante la recita dei
mantra.
Un altro mudrā viene eseguito a pugni chiusi portati agl'inguini con il pollice dentro le
altre dita che si chiama ādi-mudrā, mentre con i pugni portati all'altezza del plesso
solare si chiama Brahma-mudrā.
Entrambe le forme si usano soprattutto nella posizione di vajra-āsana, adatta alla recita
del mantra OM o della sua estensione AUM.
Altre mudrā o dṛṣṭi (concentrazione dello sguardo) che sono rilevanti durante gli āsana
meditativi sono certamente sāmbhavī-mudrā, nasāgra-dṛṣṭi e khecharī-mudrā.
Sāmbhavī-mudrā si pratica fissando lo sguardo tra le sopracciglia con occhi semiaperti o
chiusi a seconda della preparazione dell'adepto, stimolando così Ājñā-cakra il centro di
energia posto all'interno del capo in corrispondenza del centro tra le sopracciglia. Si
pratica così la concentrazione sull'inserzione delle nādī iḍā e piṅgalā, controllandone lo
stato di equilibrio e favorendo il flusso pranico di risalita in ṣusumnā: lo yogin con
questo gesto favorisce l'unione Śiva-Śakti, conseguenza della risalita di kuṇḍalinī.
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Comporta un certo esercizio muscolare far convergere i bulbi oculari al centro e come
sempre non deve essere praticato con sforzo eccessivo ma con progressione.
Nasāgra-dṛṣṭi si pratica analogamente, ma concentrando lo sguardo sulla punta del naso,
questa azione rafforza i muscoli dell'occhio; questa mudrā favorisce la concentrazione
mentale ritraendo la mente dagli oggetti esterni.
Khecharī-mudrā consiste nel rovesciare la lingua all'indietro nella cavità orale sotto
l'epiglottide, gesto di esecuzione mediamente facile, ma decisamente impegnativa nella
versione avanzata con il taglio del frenulo sotto la lingua allo scopo di raggiungere con
la punta della lingua zone sempre più vicine ad Ājñā-cakra al centro del capo attraverso
le cavità orali; è una pratica da fare esclusivamente sotto la guida di un maestro esperto,
la sua peculiarità è che da lì scende il nettare lunare che così viene rallentato. Con questa
mudrā, nella sua forma completa, si arresta il decadimento fisico.
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9. ESPERIENZA PERSONALE La mia esperienza pratica di concentrazione e meditazione si svolge in un angolo di
casa, un piccolo studio che cerco di rendere riservato ma che per le esigenze della
famiglia è comune a diversi usi. Da molti mesi riesco a praticarla intorno alle
quattro/cinque del mattino per circa un ora. Uso tendenzialmente la posizione del
siddhāsana talvolta con un supporto sotto il bacino per sollevarmi 2-3cm, sento qualche
fastidio alla pelle dei piedi e nella sovrapposizione delle caviglie perciò preferisco
praticare indossando calze morbide. E' determinante la posizione dei malleoli che
ruotando la pianta dei piedi verso l'alto si sistemano verso il mio bacino e trovano la
giusta collocazione.
Le mani le porto in jñāna-mudrā, o talvolta in cin-mudrā, scegliendo in base all'oggetto
di meditazione, sui cakra ad esempio credo più indicato praticare jñāna-mudrā.
Per evitare problemi a ginocchia caviglie e schiena devo fare anche una certa pratica di
āsana evolutivi che rinforzano e sbloccano queste parti, āsana che eseguo durante il
giorno. In particolare per le mie esigenze fisiche specifiche, ho bisogno di posizioni di
rinforzo del dorso come bhujanga-āsana (serpente cobra), śalabha-āsana (cavalletta),
dhanur-āsana (arco) , uṣṭra-āsana (cammello) e degli addominali come daṇḍa-āsana
(pilastro) o nāv-āsana (barca), coordinati con altri come trikoṇa-āsana (triangolo)
vṛkṣa-āsana (albero), Ananta-āsana (pos. di Ananta) e sūrya-namaskāra (saluto al sole).
Alcuni prāṇayāma riequilibranti ed energetici li uso spesso prima della pratica di
meditazione, recito quindi un mantra come la Gāyatrī e poi decido di concentrarmi o su
un oggetto o su un punto del corpo, il centro tra le sopracciglia, la punta del naso o
progressivamente uno dei primi cinque cakra cercando di ripetere il bīja mantra
associato o più spesso il So-Ham o l'OM.
Una difficoltà che ho verificato praticando, è stato passare dallo stato esterno a quello
interno, ossia superare il pratyahara, iniziando a sospendere la tendenza dei sensi ad
andare verso l'esterno con l'immobilità posturale tenuta a lungo, che elimina di fatto il
contatto con gli oggetti dei sensi.
Nelle esperienze di meditazione ho provato numerose esperienze indelebili nella
memoria, come la sensazione di essere piccolo come una formica e percorrere dei
percorsi minuscoli tra l'erba della collina che ho di fronte a casa che avevo scelto come
oggetto su cui meditare; altre volte meditando su un albero ne ho assorbito le sembianze
e così al posto del corpo centrale osservavo interiormente il tronco dell'albero e al posto
delle mie braccia i rami con le fronde e durante alcune meditazioni su quest'albero ho
immaginato i rami che si appoggiavano a terra e alla loro estremità le radici che
penetravano la terra; ancora meditando sull'immagine di una montagna nota, la
sensazione di essere la montagna stessa, con alberi rocce e molti altri particolari che
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sentivo attaccati al corpo, ma senza perdere il contatto con il mondo esterno, cioè in
quiete ed in stato di veglia; durante il periodo di abbandono al silenzio, dopo essermi
liberato dai pensieri fluttuanti della mente in antar-mauna la ricerca del silenzio
interiore, ho avuto spesso la sensazione di essere molto grande o molto piccolo, ovvero
la perdita dei miei confini naturali; ho avuto la sensazione di essere leggermente
sollevato dal terreno durante la meditazione sui primi due cakra di base, mūlādhāra e
ṣvādhisṭhāna; la sensazione di vagare nella stanza durante la meditazione sul terzo
cakra, manipūra; la sensazione di osservarmi dall'esterno durante la meditazione sul
quarto cakra, anāhata.
Ma molto più importante è stata una volta in cui diversi forti brividi mi sono saliti dal
basso fino alla gola per tre o quattro volte avvolgendo tutto il corpo fino alle braccia, una
scossa che mi ha un po' spaventato ma che ho saputo accogliere coscientemente con la
giusta tranquillità e che poi si è ripetuta in altre occasioni trasformandosi soprattutto in
un forte calore che in parte riuscivo a controllare; un'esperienza forte di grande energia,
credo una dimostrazione di kuṇḍalinī l'energia avvolta alla base del corpo nel kanda,
prossimo a mūlādhāra-cakra.
Un amico che produce icone fatte a mano di tipo bizantino, me ne ha offerta una in cui
una giovane Madonna tiene in braccio un Gesù bambino; entrambe le figure sono
mostrate per intero dal capo ai piedi, io ho meditato su quell'immagine ed è stato
coinvolgente fare l'esperienza umile di stare al fianco dei due personaggi in stato di
abbandono e compassione, avvertendo sensazioni di profonda pace.
Ho capito che non ci si deve mai allontanare dal centro d'interesse e di ricerca della
propria vera natura, il sādhana; ho infatti sperimentato che il mio comportamento
precedente influisce enormemente sulla mia capacita di concentrazione, non aver
rispettato ciò che è prescritto da yama o niyama, nei propri limiti sociali, mi ha reso
davvero difficile liberare la mente alla concentrazione, fosse anche solo per una mezza
verità che avevo dovuto dire o peggio per una certa violenza avuta in momenti d'ira o in
forma più lieve per sentimenti come il desiderio di possesso o l'invidia per cose di altri.
Termino esponendo in sintesi ancora qualche motivo storico che mi ha spinto a scrivere
questa tesi sulla meditazione e sulle posizioni meditative. Già da adolescente cercavo la
mia spiritualità nella preghiera in gruppi cattolici e poi nelle gite in montagna,
avvicinandomi alla maestosità delle vette alpine provavo stupore e attrazione per quei
luoghi carichi di qualcosa che non mi sapevo spiegare, che oggi chiamo energia
cosmica.
Quindi ricordo la mia prima spontanea profonda meditazione, al culmine di un
pomeriggio di solitario silenzio a 16 anni, mescolando emozioni e spiritualità, mi
ponevo delle domande esistenziali attraverso alcune letture del Vangelo che
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riguardavano le beatitudini o comunque le caratteristiche per essere un accolto nel regno
dei cieli. In quel pomeriggio fui attratto da un Cristo crocifisso in una cappella di
montagna, sentendo un certo calore che mi saliva dentro. Oggi penso di aver raggiunto
inconsapevolmente quella volta e in parte anche altre volte uno stato di profonda
concentrazione che mi ha segnato. Una breve ed intensa esperienza di stato meditativo!
Quelle spinte mi hanno molto aiutato in questa vita ad amare il prossimo.
Ora che ho passato i 45 anni ho ritrovato nella pratica Yoga la concentrazione e sto
cercando lo stato meditativo, una pratica che è il combustibile per ravvivare la lanterna
dello spirito.
Potrei dire che vivo sempre più nel Presente, sempre più vicino alla Realtà; come un
albero adulto che oscilla al vento ma è fermo sulle radici, così nella meditazione trovo
stabilità; avverto anche che i rami del mio albero ricadono a terra e da questi si formano
altre radici;
Come nella fiamma della candela al cessare dei venti si ferma lo sfarfallio dispersivo
della luce, così nella meditazione percepisco la risalita di un soffio ascensionale e una
luce si diffonde in tutto il mio essere al di là dei confini del corpo.
La meditazione dà un nuovo senso anche alla compassione, compassione dell'altro che è
me stesso all'interno del più grande essere indefinito, senza qualità.
Quando mi chiedono cos'è lo Yoga, per prima cosa mi viene in mente un ricettario, le
ricette della felicità, una scienza dell'uomo ispirato da un'entità superiore per realizzare,
un passo alla volta, la gioia completa dell'essere verso la realizzazione.
Infine lo studio di testi come la Baghavadgītā mi hanno insegnato molte cose ma
soprattutto l'equanimità che è l'equilibrio del pensiero e dei sentimenti. Questa
equanimità dei sentimenti e delle azioni si esprime benissimo in alcune frasi note della
Baghavadgītā lettura 2 versetti 56,57,71:
“colui la cui mente è imperturbata in mezzo ai dolori ed indifferente
in mezzo ai piaceri, priva di passione, timore ed ira, si dice di costui
che è un savio di stabile pensiero.
Colui che non ha attaccamento, poco importa se gli capitano cose
piacevoli o spiacevoli, non si rallegra e non si duole, costui ha una
mente ben ferma.” (65)
“L'uomo che abbandona tutti i desideri e procede privo di brama,
libero dall'io e dal mio, ottiene la pace.” (66)
All'attento lettore del presente elaborato io questo auguro
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BIBLIOGRAFIA con note a fianco
La Scienza dello Yoga, I.K.Taimni. Ubaldini Editore Roma
(1)pagg.125,126 (8)pag.232 (13)pag.234 (18)pag.236 (25)pag.30 (26)pag.36 (30)pag.149
Śri Nisargadatta Maharaj, IO SONO QUELLO conversazioni col maestro. Ubaldini Editore Roma
(2)pag.379 (5)pag.27 (6)pag.28 (17)pag.19 (19)pag.23 (21)pag.268 (34)pag.192 (36)pag.103
(51)pag.19 (52)pag.286
BHAGAVADGĪTĀ il canto del beato, a cura di Raniero Gnoli. Editore BUR collana Poesia
(3)pag.153 (20)pagg.105-106 (24)pag.243 (53)pagg.111-112 (65)pag.65 (66)pag.69
Jean-Yves Leloup, LA MONTAGNA NELL'OCEANO
meditazione e compassione nel Buddismo e nel Cristianesimo. Edizioni appunti di viaggio – 2001 Roma
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Dispensa ISFIY, Yoga-sūtra, lezione di Massimo Vinti del 19.11.2005
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Dispensa ISFIY, Yoga mentale, insegnante Eros Selvanizza di marzo 2007
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LA BIBBIA DI GERUSALEMME, edizioni Dehoniane Bologna, terza edizione 1977
(11)pag.2099
LO YOGA RIVELATO DA ŚIVA (ŚIVA SAMHITĀ)
a cura di Maria Paola Repetto Promolibri Magnanelli Editore Torino
(12)pag.44 (39)pagg.54-55 (43)pag.55 (64)pag.99
Dispensa ISFIY, Āsana, insegnante Eros Selvanizza 18 novembre 2006
(14)pag.5 (23)pagg.2-3
Patañjali, YOGA SŪTRA, a cura di P. Scarabelli e M. Vinti. Collana Mimesis Milano
(15)pag.119 (22)pagg.85-86 (29)pag.92 (31)pag.78
Svāmin Sivananda, CONCENTRAZIONE E MEDITAZIONE
la via più breve per la Realizzazione di Sé, Edizioni Mediterranee Roma
(16)pag.67 (27)pag.55 (28)pag.57 (48)pagg.123-124 (54)pagg.98-99 (55)pagg.100-101
(56)pag.102 (57)pagg.102-103 (58)pagg.131-132 (59)pag.132
Dispensa ISFIY, Yoga mentale, insegnante Eros Selvanizza di aprile 2007
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53
Dispensa ISFIY, Āsana, insegnante Eros Selvanizza 17 marzo 2007
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Dispensa ISFIY, Yoga mentale, insegnante Eros Selvanizza di febbraio 2006
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Svatmarama, LA LUCERNA DELLO HAŢHA-YOGA (HAŢHA-YOGA-PRADĪPIKĀ)
a cura di Giuseppe Spera Promolibri Magnanelli Editore Torino
(37)pag.42 (40)pag.44 (41)pagg.44,45 (44)pag.39 (46)pag.40
INSEGNAMENTI SULLO YOGA (GHERAṆḌA SAṂHITA)
a cura di Stefano Fossati Promolibri Magnanelli Editore Torino
(38)pag.47 (42)pag.47 (45)pag.48 (47)pag.49
Andre Van Lysebeth, PRĀṆAYĀMA la dinamica del respiro
Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Roma 1973
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Dispensa ISFIY, Prāṇayāma, insegnante Susi Stefanini 20 gennaio 2007
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Classici delle religioni - Le religioni orientali - Upanisad a cura di Carlo Della Casa
editore UTET(unione tipografico editrice torinese) - Classici UTET
(61)pag.535 (62)pag.545 (63)pag.552
I termini traslitterati dal sanscrito sono stati presi dal testo:
Enciclopedia dello Yoga, Stefano Piano, ed.Magnanelli Torino.
abbreviazioni usate:
cap. = capitolo d.C. = dopo Cristo
dx =destro ecc. = eccetera
lex. = lezione ndr. = nota del redattore
pag. = pagina pagg. = pagine
pos. = posizione sx=sinistro