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1 Dipartimento di Scienze Politiche Cattedra di Diritto Internazionale LA “QUESTIONE PALESTINESE”: LE POLITICHE ISRAELIANE NEI TERRITORI OCCUPATI E IL PARERE CONSULTIVO DELLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA SUL MURO IN CISGIORDANIA RELATORE CANDIDATA Prof.ssa Flavia Lattanzi Melania Malomo Matricola 076252 ANNO ACCADEMICO 2016/2017

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Dipartimento di Scienze Politiche

Cattedra di Diritto Internazionale

LA “QUESTIONE PALESTINESE”: LE POLITICHE

ISRAELIANE NEI TERRITORI OCCUPATI E IL PARERE

CONSULTIVO DELLA CORTE INTERNAZIONALE DI

GIUSTIZIA SUL MURO IN CISGIORDANIA

RELATORE CANDIDATA

Prof.ssa Flavia Lattanzi Melania Malomo

Matricola 076252

ANNO ACCADEMICO

2016/2017

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LA “QUESTIONE PALESTINESE”: LE POLITICHE ISRAELIANE NEI TERRITORI OCCUPATI

E IL PARERE CONSUTIVO DELLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA SUL MURO IN

CISGIORDANIA

INTRODUZIONE

PARTE I

CAPITOLO I - Contesto storico: dal Primo Congresso Sionista Mondiale alla costruzione del Muro

1 - Il sionismo

2 - La nascita dello stato di Israele

3 - I conflitti arabo-israeliani e gli scontri in territorio libanese

4 - Dalla Prima Intifada al conflitto di Gaza

CAPITOLO II - Contesto politico: la politica degli insediamenti e la costruzione del Muro

5 - Il piano Dalet (1948-1967)

6 - “Occupazione illuminata” o “partial integration policy” (1967-1987)

7 - Chiusura interna (1987-2000)

8 - Il Muro e la repubblica dell’Herrenvolk

PARTE II

CAPITOLO III - Contesto giuridico

9 - Status della Palestina nel diritto internazionale

10 - Circostanze che hanno portato all’opinione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia

(CIG)

11 - Competenza della Corte e potere discrezionale

12 - Status Legale del Territorio in Questione

CAPITOLO IV - Il diritto internazionale applicabile e le conseguenze dell’illecito

13 - Divieto della minaccia e dell’uso della forza

14 - Principio di autodeterminazione dei popoli

15 - Diritto internazionale umanitario (DIU)

16 - Diritti umani

17 - Conseguenze dell’illecito

18 - Opinioni separate

CONCLUSIONI

ABSTRACT

BIBLIOGRAFIA

DOCUMENTI

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INTRODUZIONE

Il conflitto arabo-israeliano viene inteso nell’immaginario comune come un conflitto infinito e irrisolvibile.

La critica situazione esistente ancora oggi nei territori palestinesi è nata molto prima del noto primo conflitto

arabo-israeliano del 1948, e cioè, nel 1917 con la Dichiarazione di Balfour, quando l’immigrazione ebraica

nell’area già abitata da altre popolazioni, i Palestinesi in particolare, è diventata man mano più imponente e

le lotte arabe si sono inasprite sempre di più.

La questione palestinese è da inquadrarsi nel processo di decolonizzazione e della regolamentazione della

richiesta di indipendenza da parte dei popoli ancora privi di autogoverno. Di conseguenza, le responsabilità

attuali dell’ONU in merito a tale questione trovano il loro fondamento giuridico nell’obiettivo della Società

delle Nazioni, ovvero la “sacra missione civilizzatrice” nei confronti delle popolazioni dei territori

colonizzati, che caratterizzava anche il mandato britannico in Palestina del 1922.

L’Organizzazione, nata dopo la II guerra mondiale, si è occupata della questione fin dal principio quando,

con la ris. 181 emanata dall’Assemblea Generale nel 1948, invitava i due popoli a spartirsi la sovranità sul

territorio conteso (“Soluzione dei due Stati”). Tuttavia la risoluzione non diede i risultati sperati anzi, essa ha

generato, proprio quando la Gran Bretagna si ritirava dalla zona, un conflitto che perdura ancora oggi.

Le diverse guerre che si sono susseguite nel corso del tempo hanno portato a un’occupazione de facto del

territorio palestinese da parte di Israele, che limita la libertà dei cittadini arabi e impone la propria autorità

sulle zone occupate. In particolare, dal 1967 in poi lo Stato ebraico ha realizzato nel West Bank e nel

territorio di Gaza diverse policies atte a creare e rafforzare un rapporto di dipendenza forzata da Israele, oltre

che a imporre la maggioranza demografica israeliana nella regione attraverso la costruzione e lo sviluppo di

colonie di popolamento nel territorio abitato dai Palestinesi. Tali politiche si sono evolute e perfezionate

negli anni fino al 2004, quando Ariel Sharon, allora Primo Ministro israeliano, ha avviato la costruzione di

una “security fence”, ovvero di un muro in cemento armato, che raggiunge un’altezza di 8 metri e una

lunghezza di circa 700 km, lungo un percorso unilateralmente stabilito. Il percorso della barriera, incurante

della linea di confine tra Israele e Palestina – la famosa “Linea Verde” stabilita tramite armistizio nel 1949 -

serpeggia in territorio palestinese in modo da includere al suo interno gli insediamenti israeliani e

rinchiudere intere comunità di Palestinesi in enclaves, spezzettando l’ambito territoriale entro il quale questo

popolo può effettivamente esercitare il proprio autogoverno sulla base del suo diritto all’autodeterminazione,

nell’obiettivo finale della sovranità piena e dell’indipendenza.

In questo contesto, il parere consultivo del 2004 richiesto alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG)

riguardo alle conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori occupati ha un significato di

cruciale importanza in quanto, sebbene sia strettamente connesso a questioni politiche, inquadra la situazione

nei suoi aspetti giuridici, alla luce delle norme internazionali applicabili e i relativi obblighi degli Stati.

L’analisi della Corte tocca diverse sfere del Diritto Internazionale (DI), quali il diritto di autodeterminazione

dei popoli, il divieto della minaccia e dell’uso della forza, il diritto internazionale umanitario e i diritti

umani, passando poi a delineare le conseguenze risultanti da una violazione delle relative norme.

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Dopo un attento esame, i giudici sono giunti alla conclusione quasi unanime secondo cui il percorso del

muro e il regime che lo accompagna sono contrari alle norme del DI. Pertanto Israele sarebbe tenuto a

procedere allo smantellamento della barriera e all’abrogazione o alla neutralizzazione degli effetti di quegli

atti normativi che sono finalizzati al mantenimento del regime che disciplina il muro, al fine di eliminare gli

ostacoli che impediscono al popolo palestinese di godere dell’esercizio dei propri diritti.

In questa tesi mi occuperò della “questione palestinese” cercando di analizzarla alla luce delle norme

internazionali rilevanti, ma con uno sguardo anche ai suoi risvolti politico-sociali.

Il primo capitolo sarà dedicato a un excursus storico della questione, a partire dalla nascita del sionismo, alla

fine del 1800, fino ai giorni nostri: nei vari paragrafi saranno analizzati i presupposti che hanno portato alla

nascita dello Stato israeliano, i quattro conflitti arabo-israeliani, con particolare riferimento alle risoluzioni

emanate dai vari organi dell’ONU in merito, e i successivi tentativi falliti di negoziazione tra le parti.

Nel secondo capitolo mi concentrerò sugli stessi accadimenti da un punto di vista politico, analizzando

l’evoluzione delle varie policies israeliane nei territori occupati ed evidenziando come il Muro rappresenti

solo la punta dell’iceberg di un sistema creato ad hoc per limitare la possibilità di sviluppo del popolo

palestinese a livello politico, economico, sociale e culturale.

Con il terzo capitolo entreremo nel vivo della questione dal punto di vista giuridico: dopo aver delineato lo

status della Palestina nella comunità internazionale, descriverò i vari accadimenti che hanno portato l’AG

richiedere un parere consultivo alla CIG sul seguente quesito: ““What are the legal consequences arising

from the construction of the wall being built by Israel, the occupying Power, in the Occupied Palestinian

Territory, including in and around East Jerusalem, as described in the report of the Secretary-General,

considering the rules and principles of international law, including the Fourth Geneva Convention of 1949,

and relevant Security Council and General Assembly resolutions?”1.

Successivamente, passerò ad analizzare i vari motivi per i quali la Corte si è dichiarata competente a

emettere il parere e ha deciso di usare il proprio potere discrezionale per dare risposta a tale interrogativo,

ovvero principalmente con l’obiettivo di guidare gli organi politici dell’’ONU nell’esercizio delle loro

funzioni e nell’adempimento dei propri obblighi in quanto responsabili del mantenimento della pace e della

sicurezza a livello internazionale.

L’ultimo capitolo sarà invece dedicato al parere vero e proprio. Inoltre dividerò l’opinione della Corte

ratione materiae, dedicando un paragrafo a ogni sfera del DI applicabile in tale contesto, in modo da poter

inquadrare ogni disposizione di cui si pone la questione della sua eventuale violazione nel proprio ambito di

appartenenza. Proseguirò elencando le conseguenze giuridiche della violazione di tali norme, così come

delineate dalla Corte, e gli obblighi eventualmente rilevanti a carico di Israele, agli Stati terzi e agli organi

delle Nazioni Unite. Infine mi occuperò dell’analisi delle opinioni separate consegnate da alcuni giudici in

merito al parere, che non veniva condiviso in tutto o in parte, esaminando le varie critiche mosse.

1 A/RES/ES-10/14, Illegal Israeli actions in Occupied East Jerusalem and the rest of the Occupied Palestinian Territory,

http://www.un.org, estratto il 22 agosto 2017 da http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/ES-10/14

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PARTE I

CAPITOLO I – CONTESTO STORICO: DAL PRIMO CONGRESSO SIONISTA MONDIALE

ALLA COSTRUZIONE DEL MURO

1. Il sionismo2

La questione israelo-palestinese affonda le sue radici nella seconda metà del XIX secolo: la regione

palestinese faceva parte dell’Impero Ottomano ed era abitata per la maggior parte da popolazione di origine

araba; mentre gli ebrei costituivano una minoranza (circa 25.000 abitanti)3 e la loro presenza nel territorio

era principalmente legata a motivi religiosi.

Il sionismo nacque proprio in questo periodo e rispondeva all’esigenza di voler modificare la condizione di

minoranza del popolo ebraico all’interno dei vari Stati europei, da cui derivavano “l’assimilazione alle

civiltà non ebraiche di cui l’ebraismo è dappertutto circondato; l’inimicizia ch’esso incontra presso le altre

popolazioni […]; e la degenerazione morale di cui esso è vittima, sia per effetto della stessa sua posizione di

minoranza, che della anomale struttura sociale che ne deriva”4.

Il movimento sionistico si diffuse soprattutto in seguito alle persecuzioni in Russia del 1882 e alla successiva

legislazione anti-ebraica, che circoscriveva il loro diritto di residenza nelle regioni di Ucraina e Bielorussia,

dove originariamente risiedevano5. Infatti il primo circolo “Amici del Sion”, che diede poi impulso alla

costituzione di tutti gli altri nelle varie capitali europee, venne fondato a Varsavia proprio nel 1882: queste

associazioni, che avevano lo scopo di promuovere la diffusione e l’uso della lingua ebraica e la

colonizzazione della Palestina6, trovarono inizialmente la loro guida ideologica nel polacco Pinsker7.

Risale a quest’anno la prima aliyha8dei “Bilu”9, ovvero la prima ondata migratoria ebraica in Palestina10

(precisamente presso la colonia Riscion le-Sion, Giaffa11) per motivi territoriali e politici, resa possibile

2 Movimento politico e ideologico il cui punto di partenza è il riconoscimento dell’unità nazionale del popolo ebraico da attuare

nella Terra Promessa 3 Demographics of Israel: Population of Israel/Palestine (1553 - Present), http://www.jewishvirtuallibrary.org, estratto il 7 marzo

2017 da http://www.jewishvirtuallibrary.org/population-of-israel-palestine-1553-present 4 BELLISON, MOSE’(1992), Le fasi del pensiero sionistico esposte da un sionista, Oriente Moderno, anno 2, Nr. 2 (15 Luglio

1922), pag. 65 5 Ibidem, pag .66 6 Ivi 7 Ivi: il suo opuscolo “Autoemancipazione”, pubblicato nel 1882, si diffuse nei circoli che lo adottarono come loro credo 8 Termine ebraico, significa letteralmente “ascesa” ed indica il ritorno degli ebrei alla Terra promessa 9 Ibidem, pag.67. Il termine sta a indicare i giovani russi dei ceti medi che nel 1882 immigrarono in Palestina e deriva “dalle

iniziali del verso biblico: Beth Ja’kob lechu we-neclachah- “Casa di Giacobbe, orsù andiamo”)” 10BACHI,R.. (1950). L'IMMIGRAZIONE VERSO LO STATO DI ISRAELE: NOTE STATISTICHE. La Rassegna Mensile Di

Israel, 16(6/8), terza serie, 80-105. Estratto il 7 marzo 2017 da http://www.jstor.org/stable/41277282, pag 82: “da 20.00 a 30.000

immigranti fra il 1882 al 1903 “ 11 Ivi

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grazie all’acquisto di terreni nell’attuale zona centrale di Israele, poco a sud di Tel Aviv, operata in

particolare da Edmond James de Rothschild12.

Ma fu dopo lo scoppio dell’affare Dreyfus in Francia (1894) che il sionismo trovò terreno fertile per la sua

radicazione: nonostante gli ebrei avessero cercato di integrarsi nella società occidentale europea attraverso

l’emancipazione civile, il tentativo non aveva dato i risultati sperati in quanto “l’antisemitismo è

inestinguibile là dove gli Ebrei vivono in larghe masse”13 e quindi, essendo quest’ultimo un problema

prettamente nazionale, iniziò a rinascere in loro l’esigenza di appartenere a un luogo da poter chiamare

patria.

Il massimo esponente del movimento sionista fu Theodor Herzl: secondo lui non solo si doveva creare uno

Stato ebraico, ma esso doveva essere costituito con l’aiuto delle potenze mondiali, in quanto “il problema

ebraico è un problema internazionale14”. Nel 1886 pubblicò Der JudenStaat (“Lo stato degli ebrei”) e

l’anno successivo si fece promotore del Primo Convegno Sionista a Basilea, nel quale si arrivò alla stesura

del Protocollo Ufficiale, il cosiddetto “Basel Programm”, nel quale si afferma che: “Il sionismo persegue

per il popolo ebraico una patria in Palestina pubblicamente riconosciuta e legalmente garantita. Il

Congresso considera di adottare i seguenti metodi per il raggiungimento di questo obiettivo: 1)

l'incoraggiamento della colonizzazione ebraica in Palestina per contadini, artigiani e manifatturieri; 2)

l'unificazione e l'organizzazione di tutte le comunità ebraiche attraverso appropriate istituzioni, sia locali

che internazionali, in accordo con le leggi di ogni nazione (l’Organizzazione Sionista); 3) il rafforzamento

della coscienza ebraica individuale e nazionale; 4) iniziative per assicurarsi l'appoggio dei diversi governi

per realizzare gli obiettivi del sionismo”.15

Iniziò così la seconda ondata di immigrazione ebraica, ancora una volta di origine prettamente russa16, nella

Palestina Ottomana: si trattò di una vera e propria colonizzazione in quanto l’Organizzazione, grazie al

Fondo Nazionale Ebraico costituito nel 1901, era in grado di acquistare territori da cui era esclusa la

manodopera indigena (i primi kibbutz) e si iniziarono a fondare nuove città, come Tel Aviv 17. Di fatto si

stava creando una nazione autonoma rispetto all’impero Ottomano, la cui popolazione era accomunata da

religione, lingua (si iniziava a diffondere l’uso dell’ebraico18) e senso di appartenenza.

12 BELLISON, M., pg. 68 13Ibidem, pag. 69 14 Ivi 15 Jewish Virtual Library: The First Zionist Congress and the Basel Program, www.jewishvirtuallibrary.org, estratto il 7 marzo

2017, da http://www.jewishvirtuallibrary.org/first-zionist-congress-and-basel-program-1897: “Zionism seeks to establish a home

for the Jewish people in Eretz­Israel secured under public law. The Congress contemplates the following means to the attainment

of this end:1.The promotion by appropriate means of the settlement in Eretz-Israel of Jewish farmers, artisans, and manufacturers.

2. The organization and uniting of the whole of Jewry by means of appropriate institutions, both local and international, in

accordance with the laws of each country. 3. The strengthening and fostering of Jewish national sentiment and national

consciousness. 4. Preparatory steps toward obtaining the consent of governments, where necessary, in order to reach the goals of

Zionism.” 16 BACHI, R., pag 82: “ tra il 1904 e il 1914 da 35.000 a 40.000 immigrati, Russi in buona parte, e animati dal fervore religioso o

dall’ideale del lavoro ebraico”. 17 BELLISON, M., pg. 76 18 Ivi

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2. La nascita dello Stato di Israele

Questa situazione e lo scoppio del primo conflitto mondiale portarono alla Dichiarazione di Balfour (1917):

Chaim Weizmann, presidente della “Zionist Federation of Great Britain and Ireland”, riuscì a guadagnare

l’ammirazione e la gratitudine del primo ministro Lloyd George e del suo ministro degli esteri Balfour, che

assecondò la sua richiesta di far tornare il suo popolo nella terra promessa con una lettera scritta a Lord

Rothschild e indirizzata a tutta l’Organizzazione Sionista19 nella quale si affermava: “Il governo di Sua

Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si

adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che

pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status

politico degli ebrei nelle altre nazioni"20.

Così, quando al termine della Prima Guerra Mondiale, la Gran Bretagna ottenne il mandato sui territori arabi

dell’Impero ottomano, in particolare sul territorio palestinese e della Cisgiordania (come specificato nel

Trattato di Losanna del 1923), si impegnò a mantenere la promessa fatta ai sionisti, consentendo forme di

autogoverno alla comunità ebraica che21, un’aliyha dopo l’altra, cresceva all’interno del territorio,

occupando la zona adiacente alla costa22. L’immigrazione degli ebrei venne agevolata dal governo britannico

anche tramite la costituzione dell’Agenzia Ebraica, che si occupava dell’acquisto di terreni e della

concessione della cittadinanza palestinese ai membri del popolo eletto23.

Da questo momento ci furono principalmente tre proteste arabe nel territorio, a ognuna della quali corrispose

la pubblicazione di un “Libro bianco” da parte dell’amministrazione britannica, a ridefinire la politica

mandataria nella Palestina:

1) Moti di Giaffa del 1921, nella quale la popolazione araba si rivoltò contro la minoranza ebraica

residente a Tel Aviv, cui fece seguito il Primo Libro Bianco del 1922 con il quale si limitarono le

mire espansionistiche sioniste fino alle rive del Giordano24;

2) Moti del 1929 che interessarono in primo luogo la città di Gerusalemme: la questione centrale era

l’accesso al Muro Occidentale della città, sacro per ebrei e musulmani. Gli scontri degenerarono e ci

furono morti e feriti da entrambe le parti, in particolare a Hebron si attuò un vero e proprio massacro

della popolazione ebraica. In seguito al rapporto della Commissione Shaw, venne pubblicato il

Secondo Libro Bianco con il quale era ufficialmente limitata l’immigrazione ebraica nel territorio

19 Ibidem, pag. 77 20 MFA: The Balfour’s Declaration, www.mfa.gov.il, estratto il 7 Marzo 2017, da

http://www.mfa.gov.il/mfa/foreignpolicy/peace/guide/pages/the%20balfour%20declaration.aspx 21 BELLISON, M., pg. 77 22 BACHI, R.. pag 82: “1924-26 […] circa 62.000 persone" 23 BELLISON, M., pg. 77 24 British Palestine Mandate: British White Papers, http://www.jewishvirtuallibrary.org, estratto il 7 marzo da

http://www.jewishvirtuallibrary.org/the-british-white-papers

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Palestinese25, favorendo quella clandestina che si sviluppò soprattutto in seguito all’ascesa di Hitler

in Germania26;

3) Grande Rivolta Araba del 1936-1939 cui fece seguito la pubblicazione del terzo e ultimo Libro

Bianco, il governo britannico si schierò in favore della popolazione palestinese: l’acquisto di terreni e

l’immigrazione venne limitata27 in modo da placare la preoccupazione araba di una dominazione

ebraica, in più fu dichiarato che : “Il governo di Sua Maestà [esprime il] desiderio [...] di vedere

stabilito infine uno Stato indipendente della Palestina”, “lo stato indipendente dovrà garantire una

condivisione del governo tra Arabi ed Ebrei in modo che siano salvaguardati gli interessi essenziali

di entrambe le comunità”.28

La risposta sionista fu quella di colpire, anche attraverso attentati terroristici, la popolazione araba e la

diplomazia e le forze armate britanniche. Le ostilità si perpetrarono fino al 1947.

Così il governo britannico, probabilmente saturo della criticità e complessità della realtà della zona,

decise di rinunciare al mandato e sottoporre la questione all’attenzione del neonato ONU. In questa sede

si formava l’UNISCOP (United Nations Special Committee on Palestine) che escogitò la famosa

“soluzione dei due Stati” approvata dall’Assemblea Generale con la risoluzione 181. Secondo il testo

approvato a maggioranza, il 56% del territorio (che comprendeva per buona parte i deserto del Nagev ma

anche le principali terre coltivabili) sarebbe stato affidato alla maggioranza ebraica, la parte rimasta

avrebbe costituito lo Stato Arabo (territori a ovest de Giordano e attuale striscia di Gaza), mentre

Gerusalemme sarebbe stata controllata direttamente dalle forze Onu.29

La soluzione non era gradita da entrambe le parti e le proteste che ne seguirono, portarono gravi scontri

tra le forze sioniste e arabe. I britannici lasciarono la Palestina proprio durante questo delicato momento

e David Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato di Israele (maggio 1948). Contemporaneamente

venne attuato il “Piano D”, elaborato dal capo del dipartimento operativo dell’IDF, il cui scopo era “il

controllo dell’area dello Stato ebraico e la difesa dei suoi confini e dei blocchi di insediamenti fuori dai

confini, contro le forze nemiche, regolari e irregolari, che operino da basi situate all’interno e al di fuori

dello Stato” 30. Due anni dopo venne promulgata la “Legge del Ritorno”, ancora in vigore, secondo la

quale ogni individuo di origine ebraica proveniente da qualsiasi parte del mondo possiede di diritto la

25 BELLISON, M., pg. 77 26BACHI, R.. pg.82. : “ 1933-36 durante il quale immigrarono 164.000 Ebrei” 27Ibidem, pag 85 : “si sarebbero dovuti ammettere in Palestina 75.000 ebrei nel corso di cinque anni e si sarebbe poi dovuta

chiudere definitivamente ogni immigrazione ulteriore a meno che gli Arabi di Palestina non fossero pronti a dare il loro consenso

a tale immigrazione” 28 Yale Law School, Lillian Goldman Law Library: British White Paper of 1939, www.avalon.law.yale.edu , estratto il 7 marzo

2017 da http://avalon.law.yale.edu/20th_century/brwh1939.asp 29 A/RES/181(II) 29 November 1947, RESOLUTION ADOPTED ON THE REPORT OF THE AD HOC COMMITTEE ON THE

PALESTINIAN QUESTION, http://www.un.org , estratto il 7 marzo 2017 da

http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/181%28II%29 30 KIMMERLING, B(2003), Il politicidio, Ariel Sharon e i Palestinesi, Roma (RM): Fazi Editore, pag 27

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facoltà di tornare nella loro patria naturale, Israele, e di ottenerne la cittadinanza non appena

trasferitosi31, facendo aumentare in maniera massiccia l’immigrazione verso questo Paese.

3. I conflitti arabo-israeliani e scontri in territorio libanese

Seguirono quattro conflitti che videro contrapporsi le forze israeliane, riunite nell’IDF (Israeli Defence

Force), a quelle arabe - Siria, Iraq, Egitto e Giodania - riunite dalla Lega Araba:

1) Prima guerra arabo-israeliana (1948)

L’esercito israeliano riuscì a respingere la Lega Araba fuori dai territori a loro assegnati e a

confinare le forze arabe in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, nonostante le gravi sconfitte di

Latrun e Faluja in seguito alle quali l’esercito venne accusato di inefficienza e negligenza32. Il

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite invitò le parti nel conflitto a raggiungere un accordo

su un armistizio in Palestina33 che venne ufficializzato nell’accordo tra Israele e Giordania

firmato a Rodi nel 1949. In base all’accordo fu fissata una linea di demarcazione dei confini tra i

due popoli (linea verde), invalicabile per entrambe le parti e modificabile solo tramite un ulteriore

accordo34. La maggior parte della popolazione palestinese era costretta a vivere in campi profughi

situati in Giodania, Cisgiordania, Striscia di Gaza e Libano. Si perpetrò inoltre una “guerra di

confine”: gli israeliani effettuarono varie incursioni nei campi profughi palestinesi, in particolare,

a Qibiya, 45 case furono fatte saltare in aria con gli abitanti ancora all’interno35; le autorità

egiziane sfruttarono il desiderio di vendetta costituendo due brigate palestinesi sotto il loro

comando, i fedayin36.

2) Seconda guerra arabo-israeliana (1956)

Con l’inizio della Guerra Fredda, la situazione in Medio Oriente iniziò a assumere rilevanza

internazionale: l’Egitto decise di rivolgersi al blocco sovietico per nuove armi e consulenti

militari (trattato militare ceco- egiziano) e Israele rispose con un patto similare con la Francia37.

Il casus belli, in questo caso, fu la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte del presidente

egiziano Gamal Abd al-Nasser38, padre del panarabismo39, a cui si opponevano Francia e Gran

Bretagna: gli israeliani riuscirono a strappare agli arabi il Sinai ma dovettero ritirarsi nei

31 Knesset (1950), Law of Return 5710-1950, http://www.mfa.gov.il, estratto il 7 marzo da http://www.mfa.gov.il/mfa/mfa-

archive/1950-1959/pages/law%20of%20return%205710-1950.aspx 32 Ibidem, pag.47 33 Security Council(1949), Resolution of 11 August 1949, www.un.org, estratto il 7 marzo da

http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/73(1949) 34 Israel-Jordan Armistice Agreement, 3 April 1949, http://www.mfa.gov.il, estratto il 7 marzo da

http://www.mfa.gov.il/mfa/foreignpolicy/mfadocuments/yearbook1/pages/israel-jordan%20armistice%20agreement.aspx 35 Ibidem, pag.50 36 Ivi 37 Ibidem, pag.55 38 Ibidem, Nota 13, pag. 207 39 Ideologia politica che ha lo scopo di riportare i Paesi arabi ad avere un ruolo di primo piano nelle relazioni internazionali

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precedenti confini in seguito al cessate-il-fuoco internazionale. Nell’area vennero stanziate le

forze dell’Onu, a controllo della pace lungo i confini, ma lo Stato ebraico ottenne di diritto

l’accesso al porto di Elat e, quindi, di passaggio nel Canale di Suez40.

3) La guerra dei sei giorni (1967)

Le tensioni non cessavano e raggiunsero il proprio culmine nel 1967: gli israeliani utilizzarono la

chiusura alle navi israeliane degli stretti di Tiran attuata da Nasser come pretesto per attaccare la

Lega Araba, che venne sconfitta in soli 6 giorni. Le acquisizioni israeliane, che si spinsero ben

oltre i confini stabiliti dalla Linea Verde (penisola del Sinai, Striscia di Gaza, Cisgiodania e alture

del Golan), furono dichiarate nulle dalla risoluzione 242 (1967) del Consiglio di Sicurezza Onu,

che ribadì il principio secondo cui “…l’acquisizione di un territorio con la conquista militare è

inammissibile”41 e si prospettava dunque il ritiro di Israele dalle terre occupate dove, in realtà, si

proseguì con la costruzione delle prime colonie di popolamento israeliane (settlements)42. Nel

primo dopoguerra Israele ed Egitto combatterono una guerra di logoramento lungo i confini del

Canale di Suez. Nel 1968 si tenne la conferenza di Karthum, alla quale parteciparono i leader

arabi, che si concluse con i “tre no” a Israele riguardo a negoziati, riconoscimento e pace43.

4) La guerra del Kippur (1973)

Siria ed Egitto attaccarono Israele durante la festa del Kippur, cogliendo la popolazione di sorpresa:

le forze israeliane riuscirono tuttavia a difendersi fino all’imposizione del cessate il fuoco

(risoluzione 338 del Consiglio di Sicurezza44) e l’intervento dei caschi blu dell’ONU.

Da questo momento in poi la lotta del popolo palestinese sarà guidata dall’OLP, l’Organizzazione per la

Liberazione della Palestina nata nel 1964 a opera di Yasser Arafat, che fu riconosciuta ufficialmente

dall’Onu dieci anni dopo, assumendo lo status di osservatore in seno alle Nazioni Unite, come

rappresentante il popolo palestinese45. Nello statuto dell’OLP, redatto in quell’anno, si legge: “Il sionismo è

un movimento coloniale nella sua propria accezione, aggressivo e espansionista nei suoi obiettivi, razzista e

segregante nella sua configurazione e fascista nei suoi metodi e scopi”46. I rapporti tra Israele ed Egitto si

regolarizzarono in seguito agli accordi di Camp David del 1978, negoziati dal presidente egiziano Anwar al-

Sadat e dal Primo Ministro israeliano Menachem Begin alla presenza di Jimmy Carter, che posero le basi per

40 Ivi 41 S/RES/242(1967), http://www.un.org , estratto il 9 marzo da

http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/242(1967) 42 Ibidem, pag.59 43 Ibidem, pag.61 44 S/RES/338(1973), http://www.un.org ,estratto il 9 marzo da

http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/338(1973) 45A/RES/3237(XXIX), www.un.org, estratto il 9 marzo 2017 da http://undocs.org/A/RES/3237(XXIX) 46 Jewish Virtual Library (1998), Palestine Liberation Organization: The Original Palestine National Charter(1964),

http://www.jewishvirtuallibrary.org, estratto il 9 marzo 2017 da http://www.jewishvirtuallibrary.org/the-original-palestine-

national-charter-1964: Article 19. Zionism is a colonialist movement in its inception, aggressive and expansionist in its goals,

racist and segregationist in its configurations and fascist in its means and aims. Israel in its capacity as the spearhead of this

destructive movement and the pillar for colonialism is a permanent source of tension and turmoil in the Middle East in particular

and to the international community in general. Because of this the People of Palestine are worthy of the support and sustenance of

the community of nations.”

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il Trattato di pace israelo-egiziano, firmato l’anno successivo, secondo cui Israele si sarebbe dovuto ritirare

dalla penisola del Sinai e in cambio avrebbe ottenuto il proprio riconoscimento da parte dell’Egitto e, quindi,

l’avvio delle relazioni diplomatiche47.

Dopo ciò, Israele avviò un processo mirato a garantire la sicurezza dei propri possedimenti attraverso la

distruzione dell’OLP, con sede in Libano, a causa del quale si susseguirono due guerre contro questo Paese,

ancora oggi molto sentite nella popolazione, una nel 1978 e un’altra nel 1982:

1) Guerra del 1978 (Operazione Litani)

Con lo scopo di respingere le forze dell’Olp dalla parte meridionale del Libano, le forze israeliane si

spinsero fino a circa 10 km a nord dal confine grazie all’appoggio dell’alleato Esercito falangista del

Libano del Sud, formato da cristiani maroniti, realizzando l’obiettivo primario48. Il Consiglio di

sicurezza rispose con due risoluzioni (425 e 426) con le quali condannò l’occupazione israeliana e

istituì una zona cuscinetto tra i due Stati presidiata delle forze Onu49.

2) Guerra del 1982 (Operazione Pace in Galilea)

Questa volta la guerra, che si inseriva in quella civile interna, si realizzò principalmente attraverso

attacchi missilistici da ambo le parti, che proseguivano nonostante il cessate-il-fuoco invocato

dall’Onu. L’IDF riuscì ad avanzare fino a Beirut, costringendo l’OLP a spostare la propria sede in

Tunisia. In questo contesto sono da collocare i massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila,in

seguito ai quali, vista l’indifferenza delle truppe israeliane a controllo della zona, Sharon fu costretto

alle dimissioni50. Israele ritirò le forze armate dal territorio in maniera definitiva solo nel 1985,

attuando così la risoluzione di 6 anni prima, mantenendo però un contingente in modo da poter

prevenire eventuali attacchi terroristici51.

Il bilancio dei morti in queste due guerre era elevato da entrambe le parti e sono stati prodotti numerosi film

e libri sull’argomento, a testimonianza dell’importanza storica di questi avvenimenti che sono stati

fortemente utilizzati nella narrativa di entrambi i popoli52.

4. Dalla Prima Intifada al conflitto di Gaza

La situazione ovviamente continuò a essere instabile: le colonie israeliane nei Territori Occupati

aumentarono di numero e densità, l’economia palestinese era in continuo declino, molti arabi nativi

vivevano in campi profughi, le promesse fatte dall’Olp non erano state mantenute e la popolazione

palestinese si ritrovava a vivere in condizioni precarie e sotto l’autorità del governo israeliano, negata di una 47 Yale Law School: Lillian Goldman Law Library(1996), PEACE TREATY BETWEEN ISRAEL AND EGYPT

March 26, 1979, http://avalon.law.yale.edu, estratto il 9 marzo 2017 da http://avalon.law.yale.edu/20th_century/isregypt.asp 48 KIMMERLING, B., pg.79 49 S/RES/425(1978), Security Council Resolution 425, www.un.org , estratto il 9 marzo 2017 da

http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/425(1978) 50 KIMMERLING, B., pg. 95 51 The Lebanon War: Operation Peace for Galilee (1982), http://www.mfa.gov.il, estratto il 9 marzo 2017 da

http://www.mfa.gov.il/mfa/aboutisrael/history/pages/operation%20peace%20for%20galilee%20-%201982.aspx 52 Bar-Tal, Daniel (2013) , Intractable Conflicts: Socio-Psychological Foundations and Dynamics,

Cambridge, UK: Cambridge University Press, pag. 192

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propria identità, rappresentanza e dignità. La tensione rimase allo stato latente fino al 1987, quando si

verificarono le condizioni per lo scoppio di una guerra interna (Prima Intifada) che sarà ricordata in modo

simbolico con l’azione dei giovani Palestinesi di lanciare le pietre contro le forze israeliane. Questo gesto

simbolico sta a rappresentare la scarsità di mezzi posseduti dalle popolazioni arabe per contrastare e opporsi

alla dominazione israeliana, che detiene un armamentario di gran lunga più sofisticato. Le azioni di

resistenza palestinese si manifestarono anche attraverso la dissidenza pacifica, in particolare con lo sciopero

fiscale53. In questi anni si colloca anche la nascita del movimento islamico di resistenza, Hamas, un gruppo

estremista palestinese, dai connotati terroristici, che aveva come obiettivo la creazione di uno stato islamico

in Palestina ed era mosso da ideali antisemiti. Nel 1988 l’Olp dichiarò ad Algeri la nascita dello Stato di

Palestina (che venne poi riconosciuto formalmente da 90 Stati) in base alle risoluzioni 181 e 242 dell’Onu,

ammettendo di fatto l’esistenza dello Stato di Israele54.

L’elevato numero di morti sul fonte palestinese, anche a opera delle stesse forze di liberazione55, portò

l’Assemblea Generale a condannare l’azione israeliana, così le violenze iniziarono piano piano a scemare,

grazie a migliori qualità di controllo delle sommosse acquisite dalle forze di difesa israeliane. Si arrivò così

agli Accordi di Oslo, avvenuti a conclusione della Conferenza di Madrid del 1991, alla presenza di Bill

Clinton e firmati da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, nei quali, oltre che al reciproco riconoscimento, furono

stilate una serie di misure per l’autogoverno ad interim dei territori occupati, che non durasse più di 5 anni56.

In particolare:

- Svolgimento di elezioni politiche generali libere e democratiche per eleggere i rappresentanti del

Consiglio

- Il Consiglio con giurisdizione sui territori della Striscia di Gaza e del West Bank, considerati come

un territorio unico la cui integrità sarebbe dovuta essere preservata durante il periodo ad interim

- Tale periodo sarebbe iniziato non appena le truppe israeliane si fossero ritirate da Gaza e Gerico e le

negoziazioni permanenti ( su Gerusalemme, rifugiati, settlements, sicurezza, confini) avrebbero

dovuto iniziare appena dopo i tre anni del periodo transitorio

53 USHER, GRAHAM (2005), Unmaking Palestine: On Israel, The Palestinians, and the Wall, Journal of Palestine Studies, Vol.

XXXV, No. 1 (Autunno 2005), pg.31 54 A/43/827, S/20278 18 November 1988, www.unispal.un.org , estratto il 9 marzo da

https://unispal.un.org/DPA/DPR/unispal.nsf/0/6EB54A389E2DA6C6852560DE0070E392 55 B’tselem (2011), Harm to palestinians suspected of collaborating with Israel, www.btselem.org , estratto il 9 marzo 2017 da

http://www.btselem.org/collaboration: “Since the beginning of the al-Aqsa intifada, Palestinians have killed dozens of Palestinian

civilians on suspicion of collaboration with Israel. Some of the victims were killed in assassinations conducted by organizations;

others died at the hands of Palestinian Authority security forces as a result of being tortured or when attempting to escape, while

other were lynched by crowds of people. Also, the Palestinian Authority killed several Palestinians whom the State Security Court,

in a patently unfair judicial process, had convicted of collaborating with Israel.” 56 Yale Law School: Lillian Goldman Law Library, (2008), Israel-Palestine Liberation Organization Agreement : 1993,

http://avalon.law.yale.edu, estratto il 9 marzo 2017 da http://avalon.law.yale.edu/20th_century/isrplo.asp: “The aim of the Israeli

Palestinian negotiations within the current Middle East peace process is, among other things, to establish a Palestinian Interim

Self-Government Authority, the elected Council, (the "Council") for the Palestinian people in the West Bank and the Gaza Strip,

for a transitional period not exceeding five years, leading to a permanent settlement based on Security Council Resolutions 242

and 338.”

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- Trasferimento dei poteri all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nelle aree di Gaza e Gerico e

promozione dello sviluppo economico in queste zone

- Il Consiglio avrebbe dovuto formare una forza di polizia ma Israele avrebbe mantenuto la

responsabilità per la difesa da minacce esterne57

Due anni dopo si arrivò agli Accordi Oslo II (Accordo ad Interim sulla Cisgiordania e Striscia di Gaza) in

cui il West Bank venne diviso in tre zone:

- Zona A (4% di Cisgiordania e Striscia di Gaza58) sotto il controllo dell’ANP (comprende le maggior

città palestinesi come Nablus, Ramallah ed Hebron)

- Zona B, zona circostante la zona A, con controllo civile palestinese e militare israeliano, con

pattugliamenti congiunti

- Zona C, che comprende gli insediamenti israeliani nei Territori Occupati, controllata

amministrativamente e militarmente dalle forze israeliane59

Gli episodi di violenza però non cessavano di manifestarsi anche perché, nonostante gli Accordi, il numero

di coloni israeliani nei territori occupati continuava ad aumentare. In particolare è da citare il massacro di

Hebron del 199460, in seguito al quale la città fu divisa in due zone H1 e H2, rispettivamente sotto l’autorità

palestinese o israeliana: nella città ancora oggi la situazione è critica a causa della forte presenza dei coloni e

delle forze militari israeliane. Questo luogo storico sembra essere diviso in due da una linea invisibile,

orizzontale e verticale, che impedisce ai due popoli di entrare in contatto reciproco e crea tensione.

Hamas continuava a sferrare attacchi terroristici suicidi. Rabin, premio Nobel per la Pace, venne assassinato

nel 1995 da un estremista ortodosso israeliano, colpevole di essere sceso a patti con lo storico nemico61. Nel

1996, Arafat vinse le prime elezioni in Palestina e assunse il ruolo di presidente del Consiglio dell’ANP ma

non trovò più sul fronte israeliano un leader con il quale avere un confronto risolutivo sul conflitto. Infatti

alla Knesset, dopo un breve periodo sotto la guida di Peres62, fu eletto Benjamin Netanyahu , leader del

Likud, partito conservatore. Pur rinnovando la retorica della destra con la firma del Memorandum di Wye

River nel 1998 ,che implementava gli accordi di Oslo concedendo ai Palestinesi maggiori porzioni territoriali

57Ivi 58KIMMERLING, B. (2003), Politicidio. Sharon e i palestinesi, Fazi editore, 2003 59 THE ISRAELI-PALESTINIAN INTERIM AGREEMENT (1995), http://www.mfa.gov.il, estratto il 9 marzo da

http://www.mfa.gov.il/mfa/foreignpolicy/peace/guide/pages/the%20israeli-palestinian%20interim%20agreement.aspx 60 Remembering the Ibrahimi Mosque massacre, http://www.aljazeera.com, estratto il 9 marzo 2017 da

http://www.aljazeera.com/news/2016/02/remembering-ibrahimi-mosque-massacre-160225061709582.html . Un colono ebreo

spara sulla folla di musulmani pregante in una Moschea della città. L’attentatore faceva parte della Lega di Difesa Ebraica,

un’organizzazione paramilitare che si ispira all’ideologia del Kahanismo, secondo cui problemi come l’antisemitismo musulmano

e la questione palestinese possono essere superati solo attraverso la lotta armata. In più sostengono la creazione di uno stato

teocratico d’Israele la cui cittadinanza deve essere limitata ai soli membri del popolo ebraico. 61 KIMMERLING, B., pg. 115 62 Nel 1996, Peres autorizza un bombardamento in Libano per rovesciare le forze dell’Hezbollah, provocando una strage nei campi

profughi palestinesi. Viene condannato dall’ONU.

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da includere nelle zone A e B e definendo i ruoli delle due autorità sul territorio,63 questo causò al primo

ministro la perdita di vasti consensi e provocò la sua caduta.

Il potere venne preso da Barak che firmò un ulteriore Memorandum nel 1999 (Memorandum di Sharm el-

Sheikh) sulla ripresa dei negoziati sullo stato permanente al fine di raggiungere un accordo in base alle

risoluzioni Onu, il rilascio dei prigionieri, la situazione di Hebron e l’ulteriore cessione di terre64. Barak

partecipò al vertice di Camp David nel 2000 con il suo “rivale” Arafat e la supervisione del presidente

americano Clinton, durante il quale i due leader si accordarono in merito ai principi-guida per il prosieguo

delle loro negoziazioni65. Tuttavia, anche in questo caso, il risultato fu un fallimento storico, a cui ha

contribuito anche l’ascesa al potere di Sharon, nuovo leader del Likud: la sua ormai celebre passeggiata sul

Monte del Tempio, provocatoria ma, dal suo punto di vista, strategica66, fu casus belli della Seconda

Intifada. Questa sommossa è stata caratterizzata da maggiori episodi di violenza da entrambe le parti, in

particolare: maggiori attentati terroristici suicidi palestinesi mentre le IDF avviano l’Operazione Scudo

Difensivo, che consisteva principalmente in un’azione di occupazione e controllo permanente da parte dei

militari israeliani delle principali città palestinesi, tale da ridurre la libertà di movimento dei cittadini e

l’arrivo dei soccorsi umanitari, cui si aggiungevano bombardamenti e distruzione di proprietà. Morirono

2.202 Palestinesi, secondo i dati riportati dal Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei

Territori Occupati, B’tselem. Arafat, accusato di essere alla guida degli attacchi terroristici, fu confinato a

Ramallah, circondato da carri armati.

Da questo momento in poi, ogni tentativo di dialogo sembrava essere inutile, si raggiunse il punto critico.

Inascoltata rimase anche la proposta di Bush, la cosiddetta “Road Map”, cui fece seguito la risoluzione 1379

del Consiglio di Sicurezza, che aveva come obiettivo “un accordo, negoziato tra le parti, da cui dovrebbe

emergere uno Stato Palestinese indipendente, democratico ed economicamente indipendente in grado di

vivere fianco a fianco a Israele in pace e sicurezza”67. La tabella di marcia era scandita in tre fasi, in seguito

63 Yale Law School: Lillian Goldman Law Library (2008), The Wye River Memorandum; October 23, 1998,

www.avalon.law.yale.edu , estratto il 9 marzo 2017da http://avalon.law.yale.edu/20th_century/wyeriv.asp. In realtà, in questo

periodo, la costruzione di insediamenti non si è arrestata. 64 Yale Law School: Lillian Goldman Law Library (2008), The Sharm el-Sheikh Memorandum on Implementation Timeline of

Outstanding Commitments of Agreements Signed and the Resumption of Permanent Status Negotiations; September 4, 1999,

www.avalon.law.yale.edu , estratto il 9 marzo 2017 da http://avalon.law.yale.edu/20th_century/mid024.asp 65Yale Law School: Lillian Goldman Law Library, Trilateral Statement on the Middle East Summit at David Peace; July 25, 2000,

www.avalon.law.yale.edu , estratto il 9 marzo 2017 da http://avalon.law.yale.edu/21st_century/mid028.asp : “Building on the

progress achieved at Camp David, the two leaders agreed on the following principles to guide their negotiations:1) The two sides

agreed that the aim of their negotiations is to put an end to decades of conflict and achieve a just and lasting peace; 2) The two

sides commit themselves to continue their efforts to conclude an agreement on all permanent status issues as soon as possible; 3)

Both sides agree that negotiations based on UN Security Council Resolutions 242 and 338 are the only way to achieve such an

agreement and they undertake to create an environment for negotiations free from pressure, intimidation and threats of violence; 4)

The two sides understand the importance of avoiding unilateral actions that prejudge the outcome of negotiations and that their

differences will be resolved only by good faith negotiations; 5) Both sides agree that the United States remains a vital partner in

the search for peace and will continue to consult closely with President Clinton and Secretary Albright in the period ahead.” 66 Con questo gesto, Sharon ha voluto mostrare il proprio punto di vista, critico e riluttante, verso gli Accordi di Oslo e qualsiasi

tentativo di concessioni al popolo palestinese. Grazie a quest’atto, ormai famoso, Sharon vince le elezioni nel 2001. 67 Yale Law School: Lillen Goldman Law Library(2003), A Performance-Based Roadmap to a Permanent Two-State Solution to

the Israeli-Palestinian Conflict; April 30, 2003, www.avalon.law.yale.edu , estratto il 9 marzo 2017 da

http://avalon.law.yale.edu/21st_century/roadmap.asp: “A settlement, negotiated between the parties, will result in the emergence

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alle quali il popolo palestinese doveva aver compiuto una riforma politica democratica e rinunciare alla

violenza; il governo israeliano avrebbe invece dovuto terminare le attività di insediamento nei Territori

Occupati, per cui il conflitto avrebbe avuto una risoluzione entro il 200568. Tuttavia, in questo lasso di

tempo, c’è stata una forte presa di posizione che tutt’ora inasprisce i rapporti tra i due popoli: nel 2002,

Sharon ha avviato la costruzione di una barriera di separazione in Cisgiordania il cui percorso viola di gran

lunga i confini territoriali stabiliti nel 1967 e attua una segregazione di fatto del popolo palestinese.

Alla morte di Arafat (2004), le nuove elezioni presidenziali furono vinte da Maḥmūd ʿAbbās, dello stesso

partito del leader defunto (al Fatah), meglio conosciuto come Abu Mazen che, nonostante si sia impegnato

per la pace in prima persona coordinando i colloqui di pace di Madrid e Oslo, venne accusato dagli israeliani

di negazionismo dell’olocausto . Intanto dal 2001, a Gaza, Hamas stava combattendo contro la forza

occupante con il lancio di razzi Qassam. Nel 2004, con l’obiettivo di distruggere i tunnel sotterranei

utilizzati dai combattenti palestinesi per rifornirsi di armi, il governo israeliano attuò l’Operazione

Arcobaleno, che si realizzava attraverso bombardamenti strategici verso le infrastrutture occupate da Hamas,

a Rafah, causando una strage di civili palestinesi manifestanti69. Ancora una volta l’Onu, con la risoluzione

1544, invitava Israele al rispetto dei diritti umanitari, ma rimase inascoltata: una seconda operazione,

l’Operazione Giorni di Penitenza70, uccise tra i 100 e i 130 Palestinesi71.

Nel 2005,Sharon decise per il ritiro unilaterale delle forze israeliane e dei coloni ebrei dalla Striscia di Gaza

(conservando però il controllo aereo e dei confini); l’anno dopo, Hamas vinceva le elezioni palestinesi e

prendeva il controllo del territorio, catturando inoltre un soldato israeliano. Questo ha scatenato un vortice di

violenza che si è concluso con la netta vittoria delle IDF: con un’operazione di portata abnorme, le forze

israeliane sono riuscite a penetrare nel territorio, liberare il loro connazionale e catturare dei parlamentari di

Hamas.

Nel 2007 dopo la battaglia tra l’organizzazione paramilitare di Isma'il Haniyeh72 e quella di Abu Mazen,

quest’ultimo si ritirava completamente dalla regione. La Striscia di Gaza, dichiarata “territorio ostile”,

veniva perciò sottoposta al blocco; rimasta senza acqua, gas, elettricità, la popolazione è costretta a vivere in

condizioni precarie. Il territorio palestinese risultava dunque essere diviso: da una parte, il governo di Hamas

nella Striscia di Gaza e, dall’altra, il governo del Fatah nelle zone A e B della Cisgiordania73.

of an independent, democratic, and viable Palestinian state living side by side in peace and security with Israel and its other

neighbours” 68 Ivi 69 Analysis / End of the Rainbow, https://www.haaretz.com, estratto il9 marzo 2017 da : https://www.haaretz.com/analysis-end-of-

the-rainbow-1.123053 70 Chiamata così perché attuata per vendicare il popolo israeliano della morte di due bambini ebrei avvenuta a Sderot, a causa del

lancio di un missile dalla Striscia di Gaza 71UNRWA Emergency Appeal Twenty Fifth Progress Report: July to December 2004, https://www.unrwa.org, estratto il 9 marzo

da https://www.unrwa.org/userfiles/2010011813622.pdf 72 Leader di Hamas 73 Hamas vs Fatah: The Palestinian Civil War, http://www.defenddemocracy.org , estratto il 9 marzo da

http://www.defenddemocracy.org/hamas-vs-fatah-the-palestinian-civil-war/

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Un nuovo tentativo di accordi era portato avanti dal presidente Bush nella Conferenza di Annapolis, alla

presenza delle delegazioni di molti Paesi del mondo, tra cui i membri del G8, e dei rappresentati israeliani e

Palestinesi, che si dimostravano volenterosi di seguire le linee guida indicate nella “Road Map” per il

conseguimento di un accordo di pace entro il 2008. Ma, nello stesso anno, un’escalation di violenza a Gaza

faceva ripartire la guerra, con bombardamenti missilistici da entrambe le parti. Nel 2009, si raggiunse l’apice

con l’Operazione Piombo Fuso (definita anche “massacro di Gaza”) nella quale, secondo il Rapporto

Goldstone, si attuarono violazioni dei diritti umani da parte di entrambi gli schieramenti74. Nel documento si

imponeva inoltre ad Hamas e al governo israeliano di condurre le adeguate indagini sugli avvenimenti citati

e di presentare un’inchiesta da sottoporre all’attenzione dell’Onu, entrambe le commissioni giunsero però a

risultati incompleti e parziali75, dimostrando ancora una volta una riluttanza verso l’esortazione delle

Nazioni Unite.

Nel 2010, Abu Mazen, che aveva prolungato il suo mandato visti i livelli di criticità raggiunti dal conflitto,

decise di dare maggiore rilevanza internazionale alla questione, con la richiesta indirizzata all’Assemblea

Generale di trasformare lo status della Palestina all’Onu da osservatore a Stato non-membro. La risoluzione

67/19 che ne seguiva, ha dato alla Palestina la facoltà di entrare a far parte di altri organi internazionali e di

aderire a diversi Trattati internazionali76.

Nel 2012, Gaza venne tormentata da un’altra settimana di bombardamenti che portarono all’uccisione del

comandante di Hamas Aḥmad al-Jaʿbarī, il che non fece altro che intensificare la guerra, con bombardamenti

sugli insediamenti israeliani vicini. L’Egitto si fece quindi promotore di un accordo sul cessate-il-fuoco,

violato sia dal lato arabo che da quello israeliano, che imponeva il ritiro del blocco a Gaza. Nel 2013 si ebbe

una leggera distensione dei rapporti, il cessate il fuoco iniziava a reggere, nonostante l’embargo fosse ancora

in atto. Si credeva quindi che ci fossero le basi per un nuovo esperimento di negoziazione tra le parti che si

risolse anche in questo caso in nulla di fatto quando Abu Mazen dichiarò di aver raggiunto un accordo con il

partito di Gaza per un tentativo di riunificazione nazionale. Il giorno della riconciliazione, un Consiglio di

Sicurezza riunitosi in seno alla Knesset concesse a Netanyahu carta bianca sul futuro dei Territori Occupati

ed egli decise per l’aumento del numero degli insediamenti nel West Bank. Nell’estate di quell’anno, il

rapimento e l’uccisione di tre giovani israeliani a Hebron da parte di guerriglieri palestinesi fu il pretesto per

74 Come riportato anche dall’ONG israeliana Breaking the Silence, i soldati israeliani hanno usato bambini palestinesi come scudi

umani e hanno occupato e demolito le case dei civili, le forze dell’IDF hanno inoltre fatto uso di fosforo bianco come arma di

guerra, come affermato dall’Onu stesso e da varie organizzazioni internazionali ; Hamas ha invece compiuto torture e uccisioni di

sospetti collaborazionisti di Israele 75 B’tselem (2012), 18 Jan. '12: Three years since Operation Cast Lead: Israeli military utterly failed to investigate itself,

http://www.btselem.org, estratto il 9 marzo 2017 da http://www.btselem.org/gaza_strip/20120118_3_years_after_cast_lead:

“Three years after Operation Cast Lead, the Israeli military's argument against independent investigation of its conduct during the

operation has proven to be hollow. The military has completely failed to investigate itself, regarding both policy choices and the

conduct of the forces in the field in particular cases.” 76 Risoluzione 67/19, United Nations (2012), Status of Palestine in the United Nations, un.org, estratto il 9 marzo 2017 da

http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/67/L.28 : “1. Reaffirms the right of the Palestinian people to self-

determination and to independence in their State of Palestine on the Palestinian territory occupied since 1967;2. Decides to accord

to Palestine non-member observer State status in the United Nations, without prejudice to the acquired rights, privileges and role

of the Palestine Liberation Organization in the United Nations as the representative of the Palestinian people, in accordance with

the relevant resolutions and practice”;

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l’acuirsi del conflitto: le offensive militari si intensificarono e le morti stimate sono circa 2.000 (israeliani e

Palestinesi).

“Dal Settembre 2000 – quando scoppiò la Seconda Intifada- a Febbraio 2017, le forze di difesa israeliane

hanno ucciso 4.868 Palestinesi che non stavano prendendo parte alle ostilità. Circa un terzo di questi

(1.793) avevano meno di 18 anni”77.

77 B’tselem (2017), Getting Off Scot-Free: Israel’s Refusal to Compensate Palestinians for Damages Caused by Its Security

Forces, www.btselem.org , estratto il 9 marzo 2017 da

http://www.btselem.org/publications/summaries/201703_getting_off_scot_free : “From September 2000 – when the second

intifada broke out – through February 2017, Israeli security forces killed 4,868 Palestinians who were not taking part in hostilities.

About a third of them (1,793) were under the age of 18.”

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CAPITOLO II – CONTESTO POLITICO: POLITICA DEGLI INSEDIAMENTI E COSTRUZIONE

DEL MURO

5. Il piano Dalet (1948-1967)

Credo che la nascita dell’ideologia di fondo al conflitto, ovvero la convinzione condivisa/comune di essere i

legittimi abitanti della terra promessa e, di conseguenza, da parte israeliana, di liberarsi dalla presenza araba

in modo da poter creare porzioni contigue di territorio popolato da ebrei (anche in zone che si trovano oltre i

confini), sia nata innanzitutto sul piano culturale tra gli ebrei europei appartenenti all’alta borghesia78, ma si

sia diffusa e sia stata maggiormente sentita a livello individuale e, allo stesso tempo, di massa, in seguito alla

prima guerra arabo-israeliana e quindi quando quest’idea era stata tradotta a livello militare e inculcata alle

truppe.

La dottrina militare che si diffuse in quel periodo era estratta dal cosiddetto “piano Dalet”, elaborato dal

generale Yigael Yadin, che proponeva di raggiungere il controllo del territorio, dei confini e degli

insediamenti al di fuori di essi, utilizzando azioni mirate contro tutte le forze che si opponevano a tale scopo,

all’interno e all’esterno dello Stato, attraverso metodi quali l’accerchiamento, l’ispezione e l’eventuale

distruzione dei villaggi ostili con conseguente espulsione della popolazione79. Un punto di fondamentale

importanza che il piano evidenziava erano gli insediamenti, visti come necessari per la costituzione dello

Stato e, allo stesso tempo, parte integrante del sistema difensivo. La dottrina militare che ne derivava era

prettamente di natura offensiva ma giustificata da obiettivi di macrosicurezza.

Quando venne dichiarato lo stato di emergenza D, ovvero quando il “Piano Dalet” venne messo in atto, le

truppe israeliane conquistarono 20.000 km2 di territorio (circa 6.000 km2 in più rispetto alla “linea verde”

stabilita dalla risoluzione 181 dell’ONU80) ed epurarono la maggior parte dei cittadini arabi dalla zona,

attuando un vera e propria pulizia etnica nei territori conquistati81. Questo fece aumentare negli ebrei la

convinzione che sarebbero riusciti nei loro intenti ma, nonostante tutto, dovettero limitare le loro mire

espansionistiche, consapevoli del fatto che la completa eliminazione dell’etnia araba dai Territori sarebbe

stata in ogni caso irrealizzabile. Così si decise di procedere per gradi: in primo luogo, era necessario

assicurarsi il controllo sulla popolazione araba e la tutela dei cittadini ebrei nella regione; in secondo luogo,

creare un continuum spaziale tra i villaggi ebrei in grado di realizzare e salvaguardare l’unità territoriale

78 Verso la fine del XIX secolo si diffondono in Europa le idee sioniste 79 KHALIDI, W. (1988). Plan Dalet: Master Plan for the Conquest of Palestine. Journal of Palestine Studies, 18(1), 4-33.

doi:10.2307/2537591 80 A/RES/181(II) 29 November 1947, RESOLUTION ADOPTED ON THE REPORT OF THE AD HOC COMMITTEE ON THE

PALESTINIAN QUESTION, http://www.un.org , estratto da

http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/181%28II%29 81 USHER, G. (2005), Unmaking Palestine: on Israel, the Palestinians, and the Wall, Journal of Palestine Studies, Vol. XXXV,

No.1 (Autunno 2005), pagg. 25-46: “Beginning in the March 1948, Israeli armed forces and Jewish militias razed some 400

Palestinian villages, expelling of forcing the flight of some 750,00 Palestinians”

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israeliana e, infine, frammentare i territori e il popolo palestinesi, in modo da poter mantenere in vita una

situazione di occupazione, che veniva giustificata come temporanea.

Gli anni Cinquanta furono, per il nuovo Stato d’Israele, di fondamentale importanza per il rafforzamento di

tali obiettivi, idealizzati dal punto di vista culturale e sociale: il sistema militare ebraico aveva arricchito la

dottrina di Yadin con la pratica dell’approccio indiretto82 e della “risposta flessibile”, ideata dall’analista

militare Horowitz. Questa strategia derivava dalla concezione secondo cui, in un campo di battaglia

dominato dal caos, non sempre è possibile assicurare le normali catene di comando e comunicazione ed è

dunque necessario che i soldati siano flessibili e in grado di poter compiere azioni di propria iniziativa,

anticipando il comando del generale83.

Inoltre, la popolazione era triplicata dopo la Legge del Ritorno84 ed era stata introdotta la coscrizione

obbligatoria per tutti i connazionali ebrei. In questo momento si innescò un doppio meccanismo: alla

necessità di unificare un popolo così vario rispose la volontà, da parte della classe abbiente israeliana, di

contraddistinguersi, soprattutto rispetto all’esercito, per capacità operative e spirito eroico. Infatti, queste

circostanze portarono i “giovani bene” a compiere una serie di missioni non ufficiali per la conquista di

nuovi territori da donare ai padri fondatori. In particolare, molte di queste azioni miravano a rendere sicuro il

viaggio verso Petra, la “pietra rossa” del Medio Oriente, che non risultava essere per nulla semplice a causa

delle numerose imboscate a opera dei beduini85. Molti soldati morirono per raggiungere questo scopo e

divennero eroi nazionali, ma alcuni, come l’Unità 101, della quale Sharon era comandante, ebbero successo:

nel 1953, con un’iniziativa privata, riuscirono a vendicare i compagni e uccisero diversi beduini nel deserto

del Nagev86. Quest’impresa, insieme agli altri fallimentari tentativi, fu particolarmente importante a livello

sociale poiché innescò un meccanismo per il quale, attraverso un processo di emulazione nei confronti di tali

gruppi combattenti autonomi, aiutò a rinvigorire il fervore nazionale e gli spiriti bellicosi. Infatti, fino al

1956, da entrambe le parti si iniziarono a commettere atti del genere: molti giovani combattenti si

distaccavano dalla volontà degli ufficiali per vendetta, volontà di emergere, o presunzione di poter gestire

meglio la minaccia.

Questo articolato e artefatto sistema ideologico, ampiamente diffuso dal 1956 al 1973, venne usato come

chiave di lettura per la comprensione dei successi militari israeliani e per giustificare la supremazia regionale

di Israele.

Come già sappiamo, la seconda guerra arabo-israeliana ebbe abbastanza eco internazionale, essendo

collegata alla situazione generale di Guerra Fredda: Israele nel ’56 si è opposto a Nasser, che stava

adottando il modello socialista sovietico e si era avvicinato alla Cecoslovacchia per il rifornimento di armi,

82 Ovvero l’utilizzo di mezzi non convenzionali per la sconfitta del nemico e l’utilizzo immediato del successo previsto

(KIMMERLING, 35) 83 Il modo di socializzare israeliano veniva considerato come un punto di forza rispetto agli arabi e veniva sfruttato per ottenere la

vittoria 84BACHI, R. (1950). L'IMMIGRAZIONE VERSO LO STATO DI ISRAELE: NOTE STATISTICHE. La Rassegna Mensile Di

Israel, 16(6/8), terza serie, 80-105. Estratto il 2017 da http://www.jstor.org/stable/41277282 85KIMMERLING, B.(2003), pg. 52 86 Ivi

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condannando l’Egitto a paese satellite dell’URSS87. Il canale di Suez era inoltre un punto strategico e su di

esso si concentravano le aspirazioni della Francia, che ne aveva finanziato la costruzione e nella quale

Israele trovò un alleato.

Dopo uno sguardo su cosa è stato compiuto a livello sociale e militare, il risultato della guerra appare

scontato. Il “metodo indisciplinato” di Horowitz venne largamente impiegato dai soldati in quanto, durante

gli scontri, venivano spesso a mancare le cosiddette “tre C” di ogni operazione militare (comando,

comunicazione, controllo). Gli esiti delle azioni che partivano dal basso furono alcune volte positivi, ma in

altri casi, molti furono i soldati israeliani che si immolarono per la causa ebraica, contribuendo al mito.

Gli israeliani riuscirono ad occupare la penisola del Sinai fino al Canale e, come concordato

precedentemente nel Protocollo di Sevres88, Regno Unito e Francia intervennero a quel punto cercando di

attuare una contro invasione ai danni di Nasser. Nonostante l’operazione, che prese il nome di “operazione

tre moschettieri”, stesse procedendo a vantaggio delle forze occidentali, gli Stati Uniti li costrinsero alla

ritirata: con la rivolta d’Ungheria nello stesso anno e l’URSS che minacciava di intervenire a fianco del suo

vassallo Nasser, l’immagine liberale e democratica dell’America poteva uscirne danneggiata89. Si decise

così, su suggerimento del canadese Pearson, di porre la zona sotto il controllo dei caschi blu dell’ONU,

creando così il peacekeeping.

Intanto Israele era riuscito a trarne i propri vantaggi perché, anche se era stato costretto a ritirarsi nei propri

confini, aveva ottenuto l’accesso al golfo di Aqabah per i suoi traffici commerciali.

Dall’altra parte, Nasser, grazie alle pressioni della Russia, era riuscito ad accrescere la sua fama nel mondo

arabo presentandosi come colui che, non solo non aveva perso territori, ma aveva addirittura costretto alla

ritirata le forze occidentali90.

La sue manie di grandezza crebbero col tempo e, nel 1967, sfidò un’altra volta le potenze occidentali

chiedendo il ritiro delle forze ONU dalla penisola del Sinai e bloccando agli israeliani l’accesso al porto di

Tiran, rendendo completamente inutile il loro sbocco sul Mar Rosso a Elat. La mossa fu colta al volo dai

capi maggiori dell’esercito israeliano, che attendevano questo scontro da dieci anni: di fatti, l’esercito

egiziano non era in grado di fronteggiare l’ancora più preparato IDF, soprattutto dopo il lungo e sanguinoso

intervento egiziano nella guerra civile in Yemen. Così Israele avrebbe potuto ottenere le tanto ambite alture

del Golan e l’altopiano del Sinai su cui costruire insediamenti e kibbutz91. Quella egiziana venne fatta

passare come una vera e propria minaccia all’esistenza dello Stato di Israele così si arrivò alla costituzione,

sotto pressione dell’opinione pubblica, di un nuovo gabinetto interventista formato da Moshe Dayan come

Ministro della Difesa (fino ad allora era stato Capo di Stato Maggiore) e Manachem Begin come leader92. I

generali, avvantaggiati dalle prevedibili tattiche militari di Nasser, riuscirono a organizzare le operazioni nei

87 Ibidem, pg. 55 88 A cui parteciparono, per la delegazione israeliana, David Ben Gurion e Shimon Peres 89 Ivi 90 Ibidem, pg.57 91 Ivi 92 Ibidem, pg. 61

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minimi dettagli e la guerra terminò con un successo. Dopo soli sei giorni di scontri il territorio israeliano si

arricchiva delle alture del Golan, Cisgiodania e Sinai. Nonostante la rapida vittoria per molti fosse stato

segno di grazia divina e di legittimità della loro presenza, la volontà di annessione sarebbe stata vinta dalla

paura di uno Stato con entità bi-nazionale.

6. “Occupazione illuminata” o “partial integration policy” (1967-1987)

La famosa risoluzione 242 delle Nazioni Unite, che imponeva il ritiro delle forze israeliane dai territori

occupati93, rimase inascoltata, con la scusante di problemi di traduzione che rendevano impreciso il

significato di alcune frasi94: grazie a questo escamotage, lo Stato ebraico evitò il problema e iniziò a decidere

dell’amministrazione dei territori conquistati. Si parlava di “occupazione illuminata”95, in grado di garantire

alla popolazione una propria autonomia, ma in realtà si manifestò con assurda brutalità, tramite

l’imposizione di coprifuoco, la “ghettizzazione” dei Palestinesi nei campi profughi, demolizione di

abitazione e sradicamento di uliveti e addirittura esecuzioni ingiustificate.96

L’OLP, rappresentante del popolo palestinese, rifiutò qualsiasi tipo di dialogo con le forze politiche

israeliane, allora guidate dal primo ministro Levy Eshkol, e proclamò la resistenza contro le forze

occupanti97. Dall’altra parte però il ministro della difesa Moshe Dayan e Ariel Sharon, che credevano

fermamente nella necessità di colonizzare le terre conquistate, iniziarono i lavori, privi di qualsivoglia

autorizzazione governativa, delimitando i confini attraverso recinzioni (per “motivi di sicurezza”)98.

Lo Stato ebraico subì dei cambiamenti profondi dovuti all’assorbimento della popolazione palestinese nel

territorio israeliano che generò un crisi alimentata da contraddizioni di fondo: da una parte si ebbe la

disponibilità di manodopera araba a basso costo e l’importazione di prodotti israeliani nel mercato

palestinese, grazie all’apertura dei confini della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, in modo che si

accettasse la colonizzazione in cambio di una relativa prosperità; dall’altra si trovava invece, la necessità per

il popolo eletto di completare i propri possedimenti con l’annessione della Cisgiordania e, nel contempo, di

assicurare una solida maggioranza ebraica sul territorio99. Tuttavia era impossibile che questi due interessi

potessero convivere, basti pensare che la popolazione palestinese era già allora in constante crescita nei

93 S/RES/242(1967), http://www.un.org, estratto da http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/242(1967) 94 SHER, GILEAD (2011), START WITH 242, NOT 1967, http://www.jpost.com, estratto il 15 aprile da

http://www.jpost.com/Jerusalem-Report/The-Region/Start-with-242-Not-1967: “Importantly, the resolution refers to territories,

not “the” territories. The omission of the definite article was intentional, and has played a significant role in framing the

assumptions and expectations of all parties involved since 1967. Resolution 242 was drawn up by the British government. Lord

Caradon, UK ambassador to the UN at the time, stated the following: “We didn’t say there should be a withdrawal to the ’67 line;

we did not put the ‘the’ in. We did not say all the territories, deliberately. We knew that the boundaries of ’67 were not drawn as

permanent frontiers; they were a cease-fire line of a couple of decades earlier. We did not say that the ’67 boundaries must be

forever; it would be insanity.” 95 KIMMERLING. B. (2003), Politicidio. Sharon e i palestinesi, Fazi editore, pg.62 96 Ibidem, pg. 60 97 Ibidem, pg. 62 98 Ibidem, pg. 63 99 Ibidem, pg. 17

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Territori e al di fuori di essi. Questa situazione tuttora genera ansie nella cultura politica israeliana, ansie che

si sono profondamente radicate nella società e sono state tradotte nella paura di annientamento fisico dello

Stato, della maggioranza demografica e, quindi, dell’identità nazionale100.

La dipendenza economica era andata però sempre più aumentando. Dal 1967 , come sappiamo, lo Stato

iniziò a costruire insediamenti nella terra biblica di Cisgiodania, soprattutto basi di addestramento militare,

fomentato dall’attività di un movimento religioso e politico di coloni, il Gush Emunim (lett. Blocco della

fede). Esso professava un futuro in cui gli ebrei avrebbero potuto vivere in una società utopica regolata dalle

leggi della Halachà, il codice religioso ebraico, e in base al giudizio dei rabbini; questo si sarebbe realizzato

solo a compimento della loro missione politica nazionalista che comprendeva l’espansione dei confini dello

Stato101. Tale messaggio, rivolto all’ “ebreo autentico”, si presentava come alternativa al movimento laico

degli israeliani di prima generazione dei kibbutz, era diventato simbolo dell’avanguardia sionista e

affascinato l’elite laica102. Il Gush Emunim si poneva inoltre come unica alternativa valida all’esercito,

soprattutto dopo che quest’ultimo aveva perso la fiducia dei cittadini a causa della “sorpresa” araba durante

la festa religiosa del Kippur, e rispondeva a un’esigenza di rivitalizzare le istituzioni statali che si erano

lentamente avviate verso il declino e avevano ormai perso potere103.

Riguardo alla guerra del 1973, è doveroso sottolineare che gli israeliani non furono per nulla colti di sorpresa

dall’attacco sferrato dalle forze arabe, come generalmente è riportato nei libri di storia: ultimamente il

giornalista israeliano Hanoch Bartov ha pubblicato nel suo libro “Dado” (non ancora tradotto in lingua

inglese) dei documenti che provano in maniera schiacciante che Israele sapeva dell’imminenza della

guerra104: addirittura si afferma che Golda Meir, prima donna divenuta primo ministro in Israele, venne

informata dal re dell’Iraq Hussein. Ci fu un incontro informale tra i leader sei mesi prima dello scoppio della

guerra ma non ci fu nessuna condizione che resse: Israele non aveva paura di entrare in guerra, non voleva

evitarla, anzi, voleva di nuovo l’opportunità di dimostrare la propria superiorità. Tuttavia, questa volta, le

aspettative furono deluse, infatti le forze araba si dimostrarono più preparate e l’esercito ebraico perse

numerosi uomini per riuscire nell’impresa.

Fu una guerra più lunga del previsto, in cui si scontrarono indirettamente Usa e Urss sui fronti opposti,

inviando rifornimenti alle truppe. Il blocco arabo decise in più di mettere in seria difficoltà il mondo

occidentale aumentando il prezzo delle materie prime e provocando la crisi petrolifera. Ma al fronte Israele

resisteva: con un colpo di mano Sharon riuscì ad arrivare allo sbocco sul Canale di Suez verso la metà di

ottobre, dopo aver sconfitto l’esercito di Saddat nel Sinai105. Il generale venne acclamato dalla folla come

“Arik, Re d’Israele” nonostante la sua determinazione nel raggiungere l’obiettivo per primo fosse costata

100 BAR-TAL, HALPERIN, (2012), Societal Beliefs and Emotions as Socio-Psychological Barriers to Peaceful Conflict

Resolution, The Palestine-Israel Journal, (No. 58-023862-4), estratto da http://www.pij.org/details.php?id=1535 101 NEWMAN, D. (2005). From Hitnachalut to Hitnatkut: The Impact of Gush Emunim and the Settlement Movement on Israeli

Politics and Society. Israel Studies, 10(3), 192-224. Retrieved from http://www.jstor.org/stable/30245772 102KIMMERLING, B. , pag 38 103 Ibidem, pg. 40 104Ibidem, nota 17 (Parte I) 105 Ibidem, pg. 65

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parecchie vite106. Poi, dopo vari tentativi di negoziazione tra Washington e il Cremlino, arrivò il cessate-il-

fuoco delle Nazioni Unite e i governi israeliano e siriano firmarono gli accordi.

Poco dopo, il ceto medio israeliano iniziò a manifestare il suo dissenso riguardo gli orrori della guerra e la

mancanza di una leadership in grado di coordinare le operazioni militari. L’opinione pubblica divenne

conscia delle complicazioni che l’occupazione comportava, il dibattito divenne politico e portò alla nascita

di due movimenti extraparlamentari con posizioni opposte rispetto al tema: alcuni ritenevano che non fosse

giusto privare a lungo i cittadini palestinesi dei loro diritti e chiedevano quindi di terminare l’occupazione in

quanto implicava numerosi svantaggi; l’altro gruppo, animato da intenti nazionalistici, sosteneva invece che

Israele avrebbe dovuto occupare forzatamente i Territori della Palestina storica107. Il Consiglio dei ministri

decise allora di instituire una commissione di inchiesta per placare gli animi e la folla ebbe il suo capro

espiatorio in David Elazar, capo del fronte sud, insieme con il capo dei servizi segreti108, quando in realtà i

colpevoli sarebbero dovuti essere molti di più.

Alle successive elezioni, il Lukid, partito nazionalista di destra all’opposizione, aumentò il suo peso politico

nella Knesset e, con le dimissioni della Meir e la nomina di Yitzhak Rabin, Sharon aveva più opportunità di

assumere un ruolo sempre più rilevante nella definizione della politica israeliana109.

Intanto l’OLP era riuscito a rifugiarsi in Libano e dal 1970 stava organizzando l’offensiva popolare ed

effettuava raid contro obiettivi israeliani, anche civili. Un chiaro esempio storico fu l’attentato ai campioni

olimpionici israeliani a Monaco di Baviera nel 1972 oppure l’attentato all’aeroporto Ben Gurion, a Tel

Aviv110. Tali atti, che erano evidentemente mirati ad attirare l’attenzione dei leader mondiali sulla questione

palestinese, vennero fortemente condannati a livello internazionale e generarono due problemi riguardo la

popolazione palestinese: da una parte, la convinzione condivisa che non si potesse negoziare con loro, che

derivava dall’ideologia di fondo che associava il popolo arabo a un popolo di terroristi; dall’altra il fatto che

tale situazione effettivamente diede e dà un pretesto al governo israeliano per poter continuare i soprusi.

Nel 1977 il partito di Rabin cadde e le elezioni furono vinte dal Likud, alleato del nuovo movimento

messianico dei settlers (Gushu Emunim): Menachem Begin divenne Primo ministro, Moshe Dayan fu

nominato agli Esteri e il piccolo partito di Sharon ottenne due seggi, fondendosi con il partito di

maggioranza111. Nei suoi primi quattro anni da ministro, Sharon fece costruire 64 colonie nel West Bank112

che cercò di ampliare quando ottenne l’incarico di Ministro dell’Agricoltura.

L’anno dopo, Israele instaurò un legame con la milizia cristiana in Libano, guidata da Sa’ad Haddad, e

invase il territorio meridionale libanese con l’obiettivo di neutralizzare le forze palestinesi e far acquisire

106 Ibidem, pg. 66 107 Ibidem, pg. 68 108 Ibidem, pg. 69 109 Ivi 110 Ibidem, pg 71 111 Ibidem, pg. 76 112 Ibidem, pag.74

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maggiore territorio agli alleati113. Ma l’Operazione Litani non andò a buon fine e le milizie israeliane furono

costrette a ritirarsi dalla regione in quanto mancò di fatto l’appoggio delle truppe di Haddad114.

Nel 1979 fu la volta degli accordi di pace israelo-egiziani in base ai quali Israele doveva completare il suo

ritiro totale dalla penisola del Sinai, compresi gli insediamenti. Questo riavvicinamento all’Egitto deve

essere interpretato in chiave politica: Israele non sarebbe mai riuscito ad attuare quello che Kimmerling

definisce come “politicidio” se i Palestinesi avessero potuto contare su un alleato potente come l’Egitto per

le proprie rivendicazioni. Ma gli altri partiti politici e l’opinione pubblica non videro questo riavvicinamento

di buon occhio.

In questo drammatico momento, Sharon fu l’uomo della provvidenza per Begin che, ormai anziano, non era

più il leader carismatico e autoritario di un tempo: quando nel 1980 la sua coalizione cominciò a sfaldarsi, il

leader del Likud affidò a Sharon la responsabilità di condurre la campagna elettorale per le elezioni

imminenti e il partito ottenne di nuovo la fiducia dei suoi elettori115. Sharon fu nominato Ministro della

Difesa. Le sue aspirazioni si spinsero all’eliminazione delle infrastrutture dell’Olp per cui si rendeva

necessaria un’invasione del Libano con l’aiuto di un alleato interno che Sharon trovò nella comunità

cristiana maronita del sud, facendo leva sulla comune posizione minoritaria in territorio musulmano116.

Nel 1981 Israele cominciò con attacchi mirati sugli obiettivi palestinesi, in particolare sui locali di Al-Fatah

a Beirut, ma i Palestinesi resistevano, nonostante la superiorità militare ebraica. La tregua venne indetta a

luglio: fu il primo caso di accordo indiretto tra il governo israeliano e il Fronte di Liberazione ed entrambi si

impegnarono a rispettarlo117.

Tuttavia un anno dopo, il tentativo di uccisione dell’ambasciatore israeliano in Gran Bretagna da parte di un

certo Abu Nadal, che era stato allontanato e disconosciuto dall’OLP, venne interpretato da Begin come un

disconoscimento dei patti stipulati a Habib poco prima e diede il via all’Operazione Pace in Galilea che

prevedeva la creazione di una zona cuscinetto di 40 km2 che potesse garantire la protezione degli

insediamenti israeliani e la stipulazione di una pace con il governo libanese, liberato dalla presenza

siriana118.

Questa volta però i Palestinesi attuarono una nuova strategia principalmente caratterizzata dall’utilizzo della

guerriglia, sferrata attraverso attacchi a sorpresa da parte di piccoli gruppi mobili119. Nonostante l’armistizio,

le milizie israeliane continuarono la loro avanzata fino a Beirut, dove costrinsero le forze dell’OLP a

evacuare il territorio libanese tramite l’utilizzo di assedi e bombardamenti120. L’accordo Habib- Draper

venne stipulato grazie all’intervento degli Stati Uniti che, in quel periodo, si trovavano coinvolti in un

113 Ibidem, pg. 79 114 Ibidem, pag. 73 115 Ibidem, pg. 75 116 Ibidem, pg. 78 117 Ibidem, pg. 81 118 Ibidem, pg. 82 119 Ivi 120 Ibidem, pg. 83

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duplice impegno con Israele e l’Arabia Saudita e si quindi sotto le pressioni dei Paesi del Golfo. Nel

documento era contenuta una specifica garanzia per i Palestinesi non combattenti rimasti a Beirut, che si

realizzava mediante la loro protezione da parte del governo statunitense, rappresentato sul posto dalla

presenza libanese e israeliana121; mentre i Palestinesi combattenti lasciarono il Libano, salpando alla volta

dello Yemen e della Tunisia.

Il 16 settembre 1982, l’esercito falangista, appoggiato da Israele, riuscì a penetrare nei campi profughi di

Sabra e Shatila e sterminò dalle 700 alle 2.000 persone122, altre invece subirono pestaggi e violenze. Dopo il

massacro, Israele cercò di astenersi dall’ammissione di responsabilità; addirittura il Primo ministro Begin

commentò: “I gentili uccidono altri gentili e poi accusano gli ebrei”123. Nonostante ciò, le critiche da parte

dell’opinione pubblica si trasformarono in un’obiezione di coscienza da parte di non troppi militari e

portarono alla creazione di una commissione d’inchiesta guidata dal giudice Kahan, incaricata di svolgere le

dovute indagini sull’accaduto in modo da poter scovare e accusare i responsabili124. Solo alcuni ufficiali

dell’esercito vennero accusati di negligenza e sollevati dall’incarico mentre Sharon venne identificato come

il principale responsabile dell’operazione, senza però essere formalmente accusato125.

7. Chiusura interna (1987-2000)

Un episodio che potremmo classificare come “degenerazione del conflitto” è avvenuto la prima volta nel

1987, anno della Prima Intifada, quando si era realizzata la politica di “parziale integrazione” che Israele

aveva iniziato vent’anni prima126. Questa politica comprendeva una serie di regole militari ed era volta a

creare una tale dipendenza a livello politico, sociale ed economico della popolazione palestinese nelle zone

occupate che, alla fine, qualsiasi tentativo di sovranità e di indipendenza palestinese sarebbe stato vano127.

Ma nonostante tutto, il patriottismo palestinese crebbe. Grazie anche allo sviluppo dell’OLP, una nuova

coscienza nazionale si diffuse nella società civile e prese piede l’idea del riconoscimento di uno stato di

Palestina a Gaza e nel West Bank, con capitale Gerusalemme, all’interno dei confini stabiliti dalla

risoluzione del 1967 delle Nazioni Unite128.

Nella Striscia ebbe luogo un’imponente protesta a opera di giovani Palestinesi non collegati (ancora) al

Fronte di Liberazione: essi inviavano le proprie direttive (bayans) in tutto il territorio in modo da coordinare

le manifestazioni prettamente pacifiche (come scioperi, sfilate con bandiere palestinesi e il famoso lancio di

pietre)129. I soldati israeliani funsero da celerini e la repressione fu comunque violenta (oltre che

121 Ibidem, pag. 88 122 Ibidem, pag.83. “700 per la Commissione Kahan e 2.000 per la Mezzaluna Rossa” 123 Ibidem, pg. 91 124 Ibidem, pg. 93 125 Ivi 126 USHER, G (2005), pag 31 127 Ivi 128 Ivi 129 KIMMERLING, B. pg. 100

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dispendiosa) in quanto Rabin, Ministro della Difesa, ordinò di utilizzare la violenza fisica contro i

rimostranti130. In ogni caso, considerati i precedenti scontri tra i due popoli, si assiste, soprattutto da parte

palestinese, all’utilizzo di una nuova strategia di ribellione attraverso l’impiego di mezzi di comunicazione

di massa, in modo da far acquisire alle loro richieste rilevanza internazionale131.

L’inabilità israeliana di rispondere in maniera adeguata a queste proteste portò a una revisione del

precedente consenso raggiunto dalle fazioni Labor e Likud: alle promesse di nessuna annessione e nessun

ritiro, si aggiunse un “no” alla parziale integrazione132 , in questo modo i Palestinesi poterono godere di una

generale libertà di movimento nel territorio ebraico per un paio di anni. Ma, dopo il 1991, venne imposto un

divieto generalizzato per la mobilità araba in Israele, eccetto per i Palestinesi provvisti di pass speciali come

lavoratori, che servivano a mandare avanti la macchina capitalistica ebraica, mercanti e aiuti umanitari133.

Nel 1992, in Israele si assiste a un cambio di rotta: le elezioni furono vinte da una nuova coalizione di cui

facevano parte il Partito Laburista e quello di centro-sinistra del Meretz, uniti con altri due gruppi minori

legati con i comunisti e le forze arabe134. Fu proprio il Meretz, con il benestare di Rabin e l’autorizzazione

retroattiva di Peres (allora Ministro degli Esteri), che si fece promotore del dialogo diplomatico con i

funzionari dell’OLP che portò alla firma della Dichiarazione dei principi a Washington nel 1993. Tali

accordi, come già esplicato nel primo paragrafo della mia tesi, consistevano principalmente in una “road

map” da seguire per i due governi in modo da poter raggiungere la reciproca fiducia, necessaria per il

raggiungimento di una pace duratura: i Territori e la Striscia vennero divisi secondo aree di competenza

esclusivamente israeliana/palestinese o in maniera congiunta con compiti diversificati. Per fare questo

Israele si impegnava ad assicurare al popolo palestinese il libero accesso alle zone A e B mentre l’OLP

diventava ANP (Autorità Nazionale Palestinese), veniva affiancata da forze di polizia di nuova costituzione

e prometteva di cessare definitivamente ogni tentativo di guerriglia contro Israele135.

Non tutti sul fronte arabo accettarono questi accordi: per alcuni addirittura Al-Fatah, scendendo a

compromessi, aveva negato ai rifugiati il diritto di ritorno e Israele non aveva fatto altro che trasformare il

proprio controllo da diretto a indiretto. Tuttavia questa fu la prima volta, dal 1948, che in Palestina si creò

una situazione semi-statuale: il 25 gennaio 1996 si tennero le prime elezioni, vinte in maniera schiacciante

da Al-Fatah136. Così, nonostante gli anni di separazione tra la leadership palestinese e la popolazione,

l’autorità di nuova formazione cercò di colmare la distanza ideologica creando un nuovo sistema culturale

proprio palestinese, in primo luogo, affidando la diffusione di una nuova ideologia e coscienza nazionale ai

130 Ivi 131 USHER, G., pg.31 132 Ibidem,pg. 32 133 Ivi 134 KIMMERLING, B.. (2003), Politicidio. Sharon e i Palestinesi, Fazi editore, 2003, pag. 102 135 Cfr par. 4 136 Ibidem, pg. 107

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mezzi di informazione e, secondariamente, diffondendo una propaganda positiva sul processo di pace137,

cosa che divenne più complicata dopo l’assassinio di Rabin nel 1995 per mano di un ebreo ortodosso.

Nel periodo successivo si assiste a un cambiamento drastico con l’elezione di Netanyahu, fortemente

sostenuto dai coloni e dalle fazioni più conservatrici138. Egli però, nonostante le aspettative fossero diverse,

continuò le trattative con i Palestinesi, sotto la supervisione degli Stati Uniti, e negoziò il Memorandum di

Wye River nel 1998, che trasferiva all’ANP il controllo dell’area palestinese139. Dopo la caduta di

Netanyahu, la politica di Barak si incentrava per lo più nella creazione di una coalizione forte che fosse in

grado di imporre le proprie condizioni di pace, evitando di rientrare nei confini del 1967 e di smantellare gli

insediamenti140.

8. Il Muro e la repubblica dell’Herrenvolk (2000- oggi)

Nel summit di Camp David nel 2000, Barak propose ad Arafat un accordo per cui, in cambio dell’annessione

dei tre maggiori insediamenti israeliani in terra ebrea, gli avrebbe assicurato il completo ritiro delle forze

israeliane dal 90% del West Bank. Questa proposta si dimostrò essere un ballon d’essai, in grado di

assicurarsi il consenso dei religiosi e dei falchi141. Il leader di Al-Fatah rifiutò questa proposta, che non

lasciava spazio a negoziazioni o a do ut des, soprattutto dopo la famosa camminata provocatoria di Sharon

sul Monte del Tempio che diede inizio alla Al-Aqsa Intifada nello stesso anno.

Questa guerriglia fu particolarmente violenta e deteriorò in una guerra etnica tra i Palestinesi e i coloni, con

un largo impiego di attentatori suicidi prima da parte di Hamas e poi da Al-Fatah142. La risposta israeliana si

realizzò con l’Operazione Scudo Protettivo, per la quale le truppe israeliane hanno occupato e controllano in

maniera permanente i Territori Occupati143. In più il governò israeliano iniziò la costruzione di un muro che

ufficialmente venne giustificata con motivi di sicurezza: in particolare esso doveva costituire una barriera di

protezione in grado di tenere al sicuro gli abitanti degli insediamenti da manifestazioni di violenza

Palestinesi. Questa idea prendeva spunto dalla dottrina revisionista “Iron Wall” di Jabotinsky, per la quale si

sarebbe potuto raggiungere un accordo con i Palestinesi solo dopo un definizione unilaterale dei confini da

parte di Israele144. In questo contesto il Muro rispondeva inoltre alle esigenze di Sharon di fronte

all’incapacità di fronteggiare militarmente le proteste, all’infinita durate degli accordi ad interim e,

soprattutto, per risolvere il problema dei nativi145.

137 Ibidem, pg. 109 138 Ibidem, pg.116 139 Ivi 140 Ibidem, pg. 118 141Ibidem, pg. 110 142 Ivi 143 Ibidem, pg. 143 144 USHER, G (2005), pag 31 145 Ivi

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“Prima del 2002, circa 300.000 ebrei colonizzavano il West Bank e Gaza in più di 160 insediamenti,

andando a costituire il 15% dell’intera popolazione dell’area”146 ma, secondo Arnon Sofer147, “entro il

2020, 15 milioni di persone abiterà nel territorio della Palestina storica, nella quale sarà presente una

minoranza ebraica di 6,5 milioni di persone. Inoltre, anche all’interno dello stesso Israele, in circa

vent’anni la popolazione ebraica verrà ridotta dall’attuale maggioranza dell’ 81% a una maggioranza

presunta pari a uno scarso 65%”148.

Nato nella mente di Sharon come “Bantustan plan”, il Muro ha annesso il 10% dei territori della

Cisgiordania e 49.000 Palestinesi149 mentre gli insediamenti israeliani e il controllo militare sono aumentati

nei territori occupati. La barriera e il sistema a zone stratificato, chiamato “internal closure”, che è

sopravvissuto negli anni rendono impossibile per i Palestinesi la facoltà di muoversi liberamente nel loro

territorio, accedere alle loro terre, visitare i parenti, andare a scuola o al lavoro. La ratio dietro questa scelta

politica era di spingere la popolazione palestinese a trasferirsi volontariamente all’interno dei confini stabiliti

dal Muro. Tutto ciò veniva rafforzato da politiche discriminatorie adottate internamente, come quella

riguardante la naturalizzazione, per cui si impongono misure restrittive e draconiane sulla cittadinanza per

mogli, mariti e figli di israeliani-palestinesi che vivono nel West Bank, secondo la “Citizenship and Entry

into Israel Law” 150, adottata nel 2003. Inoltre Israele ha creato un doppio sistema legale che ha

istituzionalizzato la discriminazione: come risaputo, Israele non possiede una Costituzione ma si basa sulle

Leggi di Base, che sono una combinazione delle leggi sacre agli ebrei e nuove leggi decise in seno alla

Knesset.. Quindi Israele non è solo uno Stato-nazionale ma è innanzitutto lo Stato degli ebrei e le sue leggi

tendono a favorire le persone appartenenti a questa religione. Nelle parole di Kimmerling questo sistema

risulta essere una “democrazia dell’ Herrenvolk. Tale espressione [...] designa un regime in cui un gruppo di

soggetti (i cittadini) gode di pieni diritti, mentre un altro gruppo (i non-cittadini) non gode di alcun diritto.

Le leggi di Israele si sono trasformate in leggi di un popolo padrone e la sua moralità è divenuta quella di

chi è signore del territorio”151.

“Con il termine ‘politicidio’ intendo un processo che abbia, come fine ultimo, la dissoluzione del popolo

palestinese in quanto legittima entità sul piano sociale, politico ed economico [...] è un processo che

comprende un’ampia gamma di attività sociali, politiche e militari, che hanno come fine la distruzione

dell’esistenza politica e nazionale di un’intera comunità di persone, negando così ogni possibilità di

autodeterminazione”152

(Kimmerling, 2003) 146 KIMMERLING, B. pg. 42 147 Arnon Sofer is è geografo all’Università di Haifa 148 Ibidem, pg. 20 149 USHER, G.(2005), pg. 35 150 Knesset (2003), The Citizenship and Entry into Israel Law 5763 – 2003, https://www.knesset.gov.il, estratto da

https://www.knesset.gov.il/laws/special/eng/citizenship_law.htm 151 KIMMERLING, B. (2003), pg.40 152 Ibidem, pg. 12

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PARTE II

CAPITOLO III – CONTESTO GIURIDICO

9. Status della Palestina nel diritto internazionale

Come già citato precedentemente, l’OLP ottenne lo status di osservatore come movimento di liberazione

nazionale in seno all’Assemblea Generale nel 1974 e, dopo la proclamazione della nascita dello stato di

Palestina da parte del suo leader Yasser Arafat nel 1988, la denominazione di OLP viene cambiata in

“Palestina”, senza che però si procedesse all’attribuzione alla stessa della qualifica di Stato. 153 Dopo la

nascita, il neo-stato della Palestina venne riconosciuto immediatamente dalla Lega Araba, della quale

diventò membro, e da circa 100 Stati. Tuttavia se da una parte la nascita di uno Stato risponde al principio di

effettività, ed è quindi una situazione di fatto di cui il diritto internazionale prende semplicemente atto154,

dall’altra il riconoscimento non ha valore costitutivo della personalità internazionale ma è semplicemente un

atto politico pienamente discrezionale che rappresenta l’inizio della vita sociale dello Stato, che può così

iniziare a intrattenere relazioni con gli Stati preesistenti che l’hanno riconosciuto.155

Il 23 settembre 2011 il comitato esecutivo dell’OLP inviò al Segretario Generale la richiesta di adesione alle

Nazioni Unite. Tale richiesta venne presa in considerazione dal Consiglio di Sicurezza (CdS) ed esaminata

dal Comitato per l’ammissione dei nuovi membri. La procedura di ammissione all’interno dell’ONU è

disciplinata dall’art. 4 della Carta ONU che recita: “1. Membership in the United Nations is open to all other

peace-loving states which accept the obligations contained in the present Charter and, in the judgment of the

Organization, are able and willing to carry out these obligations. 2. The admission of any such state to

membership in the United Nations will be effected by a decision of the General Assembly upon the

recommendation of the Security Council”156.

Requisito fondamentale per entrare a far parte dell’organizzazione mondiale è quindi la qualifica di Stato.

Perché uno Stato venga classificato come tale secondo il diritto internazionale esso deve soddisfare i

requisiti espressi nell’art.1 della Convenzione di Montevideo ovvero possedere: popolazione permanente,

territorio definito, governo effettivo e capacità di intrattenere relazioni internazionali con altri Stati157.

Proprio questa qualifica veniva contestata alla Palestina, in particolar modo dagli Stati Uniti, membro

permanente del CdS a cui spetta la prima mossa nel processo di ammissione. Mentre il Comitato si era

limitato a evidenziare le opinioni contrastanti tra i membri del CdS, quest’ultimo infine decise di non dare

153 RONZITTI, NATALINO, Introduzione al diritto internazionale, Giappichelli, 2013, pg.26 154 Ibidem, pg. 45 155 Ibidem, pg. 46 156 UN Charter, http://www.un.org, estratto il 21 agosto 2017 da http://www.un.org/en/sections/un-charter/un-charter-full-

text/index.html, art.4 157RONZITTI, NATALINO, Introduzione al diritto internazionale, pg. 19

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seguito alla richiesta. Molto probabilmente le questioni legate a questa rinuncia sono da ritrovare nel fatto

che la Palestina non venisse considerato come Stato in maniera unanime dai membri del CdS, in quanto non

si riteneva potesse soddisfare a pieno secondo e terzo dei requisiti contenuti nella Convenzione di

Montevideo. L’attributo del “territorio definito” potrebbe essere messo in dubbio dalla fondamentale natura

dei disaccordi tra Palestina e Israele sui confini dei due Stati158 (ma questa “mancanza” dovrebbe essere

attribuita, secondo lo stesso principio, anche a Israele, i cui confini non sono ben definiti). Sull’ “effettività

del governo” la questione è più spinosa: internamente l’autorità sul territorio è divisa tra Hamas e l’ANP,

mentre esternamente Israele possiede de facto e de iure il controllo su spazio aereo, acque territoriali e

confini esterni che includono anche territori palestinesi, nonché sui confini interni fra territori “palestinesi” e

quelli “israeliani” per così dire 159. E’ da sottolineare però che l’Autorità Palestinese già precedentemente

aveva avuto modo di aderire ad accordi e trattati internazionali, dimostrando in tal modo una riconosciuta

personalità giuridica internazionale.

Secondo la dottrina, un altro fattore importante per la nascita di uno Stato è che essa non può realizzarsi in

contrasto con i principi elementari (ius cogens) del diritto internazionale, in particolare il principio di

autodeterminazione e il divieto di aggressione160 e proprio quest’ultimo, secondo alcuni, potrebbe essere

stato violato: la domanda che bisogna porsi in questo caso è se l’indipendenza della Palestina sia avvenuta

attraverso l’impiego di atti terroristici o meno, che si possano configurare come atti di aggressione contro

Israele..161 Ma, nello stesso tempo, bisognerebbe chiedersi se i padri fondatori di Israele abbiano rispettato il

principio di autodeterminazione del popolo palestinese.

Nel 2009 la Palestina depositava una dichiarazione in base all’art.12.3 dello Statuto di Roma il quale

consente agli Stati non parti di accettare ad hoc la giurisdizione della Corte Penale Internazionale162 “for the

purprose of identifying, prosecuting and judging the authors and accomplices of acts committed on the

territory of Palestine since 1 july 2002”163. La richiesta, depositata presso l’Ufficio del Procuratore, venne

dichiarata irricevibile poiché non soddisfaceva i prerequisiti richiesti in quanto non era chiaro se la Palestina

fosse o meno uno Stato e il Procuratore non aveva la competenza di decidere su tale questione164. Secondo

l’art.18 della Carta ONU, le questioni importanti devono essere prese con una maggioranza di 2/3 dei

158 MANUSAMA, KENNETH, “Lawfare” in the conflict between Israel and Palestine?, Amsterdam Law Forum, 5(1), 121-124.

Retrieved from http://amsterdamlawforum.org/article/view/304, pg.122 159 Ivi 160 RONZITTI, NATALINO, Introduzione al diritto internazionale, Giappichelli, 2013, pg 20 161 MANUSAMA, KENNETH, “Lawfare” in the conflict between Israel and Palestine?, Amsterdam Law Forum, 5(1), 121-124.

Retrieved from http://amsterdamlawforum.org/article/view/304, pg.123 162 Rome Statute of the International Criminal Court (A/CONF.183/9 of 17 July 1998), https://www.icc-cpi.int, estratto il 21

agosto 2017 da https://www.icc-cpi.int/nr/rdonlyres/ea9aeff7-5752-4f84-be94-0a655eb30e16/0/rome_statute_english.pdf, art.

12.3: “If the acceptance of a State which is not a Party to this Statute is required under paragraph 2, that State may, by declaration

lodged with the Registrar, accept the exercise of jurisdiction by the Court with respect to the crime in question. The accepting

State shall cooperate with the Court without any delay or exception in accordance with Part 9.” 163 Palestinian National Authority, Ministry of Justice, Office of the Minister, Declaration recognizing the jurisdiction of the

International Crime Court, 21 January 2009, www.icc-cpi.int, estratto il 21 agosto 2017 da https://www.icc-

cpi.int/NR/rdonlyres/74EEE201-0FED-4481-95D4-C8071087102C/279777/20090122PalestinianDeclaration2.pdf 164 MANUSAMA, KENNETH, “Lawfare” in the conflict between Israel and Palestine?, Amsterdam Law Forum, 5(1), 121-124.

Retrieved from http://amsterdamlawforum.org/article/view/304, pg.123

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membri presenti e votanti dell’AG. Tra queste questioni, rientra l’ammissione di nuovi membri all’interno

dell’ONU165.

Da qui si arrivò alla decisione dell’Assemblea Generale (AG), nel contesto della sua 44esima seduta plenaria

tenutasi nel 2012, di riconoscere alla Palestina lo status alle Nazioni Unite di Stato osservatore non-membro

con la ris.67/19, “without prejudice to the acquired rights, privileges and role of the Palestine Liberation

Organization in the United Nations as the representative of the Palestinian people”.166 I Paesi non-membri

ammessi come osservatori permanenti all’interno delle Nazioni Unite hanno accesso a tutte le sedute

dell’Organizzazione e alla relativa documentazione ma non hanno diritto di voto167. Ma è da sottolineare

come, con questa decisione, l’AG abbia implicitamente riconosciuto alla Palestina la qualifica di Stato

andando in questo modo a confermare e a conferire autorità ai precedenti riconoscimenti che lo stato

palestinese aveva ricevuto dalla sua nascita fino a quel momento da altre entità statuali168.

10. Circostanze che hanno portato all’opinione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia

(CIG)

Il muro difensivo, il cui piano fu approvato dal governo israeliano nel 2002, è stato quasi completamente

realizzato già nel primo 2004. Ancora oggi, il percorso dello stesso devia in maniera significante dalla

famosa “Linea Verde” – quella stabilita nell’armistizio del 1949 – poiché entra nel territorio del West Bank

circondando gli insediamenti ebrei nella zona. Il muro, che raggiunge un altezza di 8 metri, è formato da

diverse parti: la principale è la barriera stessa che in vaste aree consiste di una rete metallica ma in altre si

tratta di un muro in cemento vero e proprio; tutto la barriera di separazione è attrezzata con sensori

elettronici. Il complesso include spesso un fossato di 4 metri, una strada per pattugliamenti asfaltata a due

corsie, a striscia di sabbia in modo da poter rilevare le impronte dei piedi e, intorno al perimetro, filo

spinato169.

Nonostante la costruzione della barriera difensiva avesse scatenato varie proteste da parte dell’Autorità

Palestinese e di altri Stati, nell’ottobre del 2003 gli Stati Uniti posero il veto su un progetto di risoluzione

165 UN Charter, http://www.un.org, estratto il 21 agosto 2017 da http://www.un.org/en/sections/un-charter/un-charter-full-

text/index.html, art 18.2: “Decisions of the General Assembly on important questions shall be made by a two-thirds majority of the

members present and voting. These questions shall include: recommendations with respect to the maintenance of international

peace and security, the election of the non-permanent members of the Security Council, the election of the members of the

Economic and Social Council, the election of members of the Trusteeship Council in accordance with paragraph 1 (c) of Article

86, the admission of new Members to the United Nations, the suspension of the rights and privileges of membership, the expulsion

of Members, questions relating to the operation of the trusteeship system, and budgetary questions.” 166 A/RES/67/19 (4 December 2012), Resolution adopted by the General Assembly, 67/19. Status of Palestine in the United

Nations, unispal.un.org, estratto il 21 agosto 2017 da

https://unispal.un.org/DPA/DPR/unispal.nsf/0/19862D03C564FA2C85257ACB004EE69B 167 About Permanent Observers, http://www.un.org, estratto il 22 agosto 2017 da http://www.un.org/en/sections/member-

states/about-permanent-observers/index.html 168 WHITMAN, CHARLES F., Palestine’s Statehood and Ability to Litigate in ICJ, California Western International Law Journal,

Vol. 44 : No. 1 (2013), Article 4, 73-113, pg.86 169 WATSON, GEOFFREY R., The “Wall” Decisions in Legal and Political Context, The American Journal of International Law,

Vol.99, No.1 (Jan, 2005), 6-26, pg. 7; vedi anche Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian

Territory, Advisory Opinion, http://www.icj-cij.org, estratto il 22 agosto 2017 da http://www.icj-cij.org/files/case-related/131/131-

20040709-ADV-01-00-EN.pdf , par. 82

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del CdS che condannava il muro come illegale170. Un mese dopo gli Stati Uniti insieme a Unione Europea,

Russia e Onu ( “il Quartetto”) chiedevano e ottenevano l’approvazione del CdS per la loro “Performance-

based Roadmap” per la pace in Medio Oriente, che proponeva una serie di steps atti a portare alla soluzione

dei due stati, senza però prendere in considerazione il muro171.

L’8 novembre 2003, in occasione della Decima sessione speciale di emergenza dell’AG172 (“Occupied East

Jerusalem and the resto of the Occupied Palestinian Territory”), venne adottata la ris. ES-10/14 che

chiedeva alla CIG di fornire un’opinione consultiva sulla seguente questione173: “What are the legal

consequences arising from the construction of the wall being built by Israel, the occupying Power, in the

Occupied Palestinian Territory, including in and around East Jerusalem, as described in the report of the

Secretary-General, considering the rules and principles of international law, including the Fourth Geneva

Convention of 1949, and relevant Security Council and General Assembly resolutions?”174. Il parere è stato

rilasciato il 9 luglio dello stesso anno.

11. Competenza della Corte e potere discrezionale

La Corte si è dichiarata competente a fornire il parere e ha richiesto agli Stati membri dell’ONU,

all’Organizzazione della Conferenza Islamica e alla Lega Araba, nonché alla Palestina – in qualità di

membro osservatore dell’Onu e di co-sponsor della risoluzione dell’AG- di inviare le loro posizioni

scritte175 (secondo l’art. 66 dello Statuto della Corte176). Né Israele né gli Stati Uniti si sono espressi sul

merito della questione presentata, ma entrambi hanno contestato la presunta mancanza di competenza della

Corte sulla questione.

Innanzitutto, la possibilità di richiedere opinioni consultive alla CIG è disciplinata dall’ art. 96 della Carta

Onu, che afferma “The General Assembly or the Security Council may request the International Court of

Justice to give an advisory opinion on any legal question”177 ; tale possibilità è anche prevista nello Statuto

170 Cfr. 4842nd Meeting of the Security Counci (http://repository.un.org/bitstream/handle/11176/26929/S_PV.4842-

EN.pdf?sequence=3&isAllowed=y). 171 S/RES/1515 (19 November 2003, Resolution adopted by the Security Council at its 4862nd meeting, www.unispal.un.org ,

estratto il 22 agosto 2017 da https://unispal.un.org/DPA/DPR/unispal.nsf/0/71B2C135FCA9D78A85256DE400530107 172 La sessione straordinaria fu convocata per la prima volta nel 1997. 173 ARAUJO, FR. ROBERT J., Implementation of the ICJ Advisory Opinion—Legal Consequences of the Construction of a Wall

in the Occupied Palestinian Territory: Fences [Do Not] Make Good Neighbors? 22 Boston U. Int. L.J 349-398, pg. 350 174 A/RES/ES-10/14, Illegal Israeli actions in Occupied East Jerusalem and the rest of the Occupied Palestinian Territory,

http://www.un.org, estratto il 22 agosto 2017 da http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/ES-10/14 175 WATSON, GEOFFREY R., The “Wall” Decisions in Legal and Political Context, The American Journal of International Law,

Vol.99, No.1 (Jan, 2005), 6-26, pg. 7 176 STATUTE OF THE INTERNATIONAL COURT OF JUSTICE, http://www.icj-cij.org, estratto il 24 marzo da http://www.icj-

cij.org/en/statute, art 66.2 : “The Registrar shall also, by means of a special and direct communication, notify any state entitled to

appear before the Court or international organization considered by the Court, or, should it not be sitting, by the President, as

likely to be able to furnish information on the question, that the Court will be prepared to receive, within a time-limit to be fixed

by the President, written statements, or to hear, at a public sitting to be held for the purpose, oral statements relating to the

question.” 177 UN Charter, http://www.un.org, estratto il 21 agosto 2017 da http://www.un.org/en/sections/un-charter/un-charter-full-

text/index.html

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della Corte: “The Court may give an advisory opinion on any legal question at the request of whatever body

may be authorized by or in accordance with the Charter of the United Nations to make such a request”

(art.65.2)178. Inoltre, in qualità di principale organo giudiziario dell’ONU e data la responsabilità attribuitagli

dall’art.92 della Carta179, si rileva che la Corte non dovrebbe negare l’opinione consultiva in merito al caso,

in quanto non si è mai verificato tale precedente180. Non è necessario il consenso dello Stato perché la Corte

esprima la propria opinione in merito181 e il parere risultante è, per definizione, non vincolante se non tramite

accordo tra le parti182.

Inoltre, Israele ha sottolineato come fornire un parere in merito all’erezione del muro difensivo potesse

sollevare questioni che più propriamente dovrebbero essere presentate davanti alla competenza contenziosa

Corte, che è il mezzo convenzionale più appropriato per la risoluzione delle controversie tra Stati183. Il

problema posto da questa affermazione è che la Palestina, non ancora considerata uno Stato nel 2004, non

poteva a quel tempo essere parte di un processo contenzioso in quanto l’art.34.1 dello Statuto della Corte

afferma che : “Only states may be parties in cases before the Court”184.

La Corte ha risposto facendo notare che, nonostante gli stati potessero avere un interesse dagli esiti di

un’opinione consultiva, ciò non avrebbe deprivato la Corte dall’esercitare il suo potere discrezionale, che

offre una guida agli organi richiedenti, all’ONU piuttosto che agli Stati. In più, questa attività della Corte

rientra a pieno nella sua partecipazione alle attività dell’Organizzazione e, in linea di principio, non

dovrebbe essere negata185.

Successivamente, Israele ha sostenuto che l’AG abbia agito ultra vires rispetto alla Carta in quanto il CdS

era già stato investito della questione, secondo l’art.12 della Carta, su cui Israele si è basato: “While the

Security Council is exercising in respect of any dispute or situation the functions assigned to it in the present

Charter, the General Assembly shall not make any recommendation with regard to that dispute or situation

unless the Security Council so requests”186.

In primo luogo, la Corte ha rigettato l’argomento israeliano poiché la richiesta per un’opinione consultiva

non può considerarsi una “raccomandazione” in senso stretto e non è quindi ascrivibile al citato art.12 della

178 Statute of the Court, http://www.icj-cij.org, estratto il 22 agosto da http://www.icj-cij.org/en/statute#CHAPTER_IV 179 UN Charter, art.92: “The International Court of Justice shall be the principal judicial organ of the United Nations. It shall

function in accordance with the annexed Statute, which is based upon the Statute of the Permanent Court of International Justice

and forms an integral part of the present Charter.” 180 Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory, Advisory Opinion, par.44. Solo una

volta, la Corte Permanente di Giustizia Internazionale (ex CIG) ha concluso decidendo di non dare risposta a una questione

presentatagli in quanto riguardava una disputa preesistente che coinvolgeva uno Stato non parte dello statuto della CPGI e non

membro della Società delle Nazioni. Ma si trattava di una richiesta di apertura di un contenzioso e non di una richiesta per

un’opinione consultiva. 181 WHITMAN, CHARLES F., Palestine’s Statehood and Ability to Litigate in ICJ, California Western International Law Journal,

Vol. 44 : No. 1 (2013), Article 4, 73-113, pg. 108 182 RONZITTI, NATALINO, Introduzione al diritto internazionale, Giappichelli, 2013, pg 284 183 Advisory opinion, par. 56 184 STATUTE OF THE INTERNATIONAL COURT OF JUSTICE, art.34.1 185Advisory Opinion, par. 47 186 UN Charter, http://www.un.org, estratto il 21 agosto 2017 da http://www.un.org/en/sections/un-charter/un-charter-full-

text/index.htm l

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34

Carta187. In secondo luogo, la Corte ha precisato che l’interpretazione dell’art.12 si è evoluta con la prassi

nel senso che all’AG è preclusa l’azione solo nel momento preciso in cui il CdS sta svolgendo attivamente le

sue funzioni in merito alla questione188, e quindi ha ritenuto che la questione sub iudice fosse coerente con

l’art.12189.

In base all’art. 24 dello Statuto, la responsabilità del CdS in materia di mantenimento della sicurezza e della

pace internazionale è prioritaria, ma non per questo esclusiva. 190 In più l’AG, secondo l’art.14 della Carta

Onu, detiene l’autorità, inter alia, di raccomandare misure per la risoluzione pacifica delle controversie

internazionali191.

Inoltre visto che l’opinione è stata richiesta dall’AG nell’ambito della sessione straordinaria Uniting for

Peace, convocata in base alla ris.377 A (V), la Corte ha dovuto accertarsi che la richiesta per un’opinione

consultiva fosse in regola con le condizioni essenziali di questa risoluzione, in particolare la seguente : “if

the Security Council, because of lack of unanimity of the permanent members, fails to exercise its primary

responsibility for the maintenance of international peace and security in any case where there appears to be

a threat to the peace, breach of the peace, or act of aggression, the General Assernbly shall consider the

matter immediately with a view to making appropriate recommendations to Members for collective

measures”192. In merito a ciò la Corte osserva che le due condizioni richieste si sono effettivamente

realizzate, come spiegato precedentemente193.

Israele ha poi contestato la richiesta dell’AG in quanto ritenuta astratta, ipotetica e plagiata da imprecisioni e

cioè non tale da potersi classificare come “questione giuridica” e rientrare quindi nei termine degli artt. 96.1

della Carta Onu e 65.1 dello Statuto194. In base a ciò la Corte si è riferita alla prassi istituzionale e, in

particolare, all’opinione consultiva sulla legalità della minaccia o dell’uso delle armi nucleari195 in cui era

stato affermato che “the Court may give an advisory opinion on any legal question, abstract or

otherwise”196. In più, la Corte ha ritenuto che l’AG abbia posto una questione giuridica identificabile come

tale in quanto la situazione creata dalla costruzione di una barriera di sicurezza effettivamente solleva

questioni riguardanti il diritto internazionale e il diritto internazionale umanitario. Dunque, la Corte ha

ritenuto che la mancanza della chiarezza nel formulare la questione presentata dall’AG non le potesse

187 Advisory Opinion, par 25 188Ibidem, par 27 189 Ibidem, par 28 190 Ibidem, par. 26 191 UN Charter, art. 14: “Subject to the provisions of Article 12, the General Assembly may recommend measures for the peaceful

adjustment of any situation, regardless of origin, which it deems likely to impair the general welfare or friendly relations among

nations, including situations resulting from a violation of the provisions of the present Charter setting forth the Purposes and

Principles of the United Nations.” 192 AdvisoryOpinion, par.30 193 Ibidem, par 31 194 Ibidem, par. 22 195 Nel quale la Corte ha dichiarato che la minaccia dell’uso di armi nucleri da parte dell’Iran fosse illegale sotto ogni punto di

vista. 196 Cfr. ICJ documents “Legality of the threat or use of nuclear weapons”, 1996 (I) par.15, http://www.icj-cij.org, estratto il 22

agosto 2017 da http://www.icj-cij.org/files/case-related/95/095-19960708-ADV-01-00-EN.pdf

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impedire di formulare un parere.197

Israele ha poi posto l’accento sulla natura politica della questione posta davanti alla Corte. Su questo aspetto,

i giudici hanno sottolineato il fatto che il diritto internazionale, la politica e le relazioni internazionali molto

spesso si intersechino. Proprio questo caso solleva questioni riguardanti le relazioni tra gli stati arabi e

Israele, le delicate questioni politiche del Medio Oriente, la discussione sullo stabilimento di uno stato arabo

in Palestina. Però, allo stesso tempo, il caso è strettamente collegato a questioni giuridiche, come gli obblighi

di Israele riguardo pace, sicurezza e terrorismo, o il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese.

Considerato ciò, la Corte conclude in maniera unanime di avere la competenza sulla questione oggetto della

richiesta presentata dall’AG198.

12. Status legale del territorio in questione

Abbiamo già avuto modo di delineare il background storico del territorio israeliano-palestinese, dalla fine

dell’800 fino ai giorni nostri. In questo sottoparagrafo, mi limiterò ad analizzare le risoluzioni richiamate

dalla Corte nel parere e che fungeranno da base per l’elaborazione dell’opinione consultiva.

• Innanzitutto si ricorda l’art.22.4 del Patto della Società delle Nazioni, in base al quale la Palestina è

passata dall’essere parte dell’Impero Ottomano, all’essere posta sotto il mandato della Gran

Bretagna: “Certain communities formerly belonging to the Turkish Empire have reached a stage of

development where their existence as independent nations can be provisionally recognized subject to

the rendering of administrative advice and assistance by a Mandatory until such time as they are

able to stand alone. The wishes of these communities must be a principal consideration in the

selection of the Mandatory.199” Questo tipo di mandato, come affermato dalla Corte stessa nel caso

International Status of South-West Africa (1950), è stato creato nell’interesse degli abitanti del

territorio e fungeva da istituzione con l’obiettivo internazionale di promuovere la civilizzazione200. I

due fondamentali principi a cui il mandato doveva ispirarsi erano: il principio di non-annessione e

quello per il quale il benessere e lo sviluppo dei popoli non ancora in grado di governasi fosse una

“sacra missione di civilizzazione”201. I confini geografici del mandato erano già stati stabiliti

precedentemente mediante vari accordi202.

• Quando nel 1947 la Gran Bretagna dichiarò di voler lasciare il territorio, l’AG emanò la Risoluzione

181 (29 novembre 1947) con la quale divideva il territorio in due porzioni(“Plan of Partition”),

197 Advisory Opinion, par 40 198 ibidem, par 41 199 Cfr. Convenant of the League of the Nations, art.22.4, http://www.firstworldwar.com, estratto il 25 agosto 2017 da

http://www.firstworldwar.com/source/leagueofnations.htm 200 Cfr. INTERNATIONAL STATUS OF SOUTH-WEST AFRICA Advisory Opinion of 11 July 1950, http://www.icj-cij.org,

estratto il 25 agosto da http://www.icj-cij.org/files/case-related/10/1893.pdf 201 Ivi 202 Advisory Opinion, par 70. In particolare da un memorandum britannico (1922) e un trattato anglo-transgiordano (1928).

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corrispondenti allo stato ebraico e a quello arabo, e affidava un regime speciale alla città di

Gerusalemme, che sarebbe rimasta sotto il controllo delle forze Onu.203

• In occasione della prima guerra arabo-isaeliana, il CdS emanava la Risoluzione 62, concludendo che

fosse necessario stabilire un armistizio in tutti i settori della Palestina204. Nel 1949 si arrivò alla firma

del cessate-il-fuoco tra Israele e Giordania a Rodi, grazie alla mediazione delle forze Onu205. In base

all’accordo si stabiliva la linea di demarcazione (“Green Line”) tra Israele e le forze arabe. Tale

confine era invalicabile e modificabile solo tramite accordo tra le parti206.

• A seguito la guerra dei sei giorni (1967), le forze israeliane hanno occupato porzioni del territorio al

di là della Linea Verde207. Il 22 novembre dello stesso anno, il CdS adotta la Risoluzione 242 con la

quale condanna le acquisizioni israeliane compiute tramite l’utilizzo della forza e invita al ritiro delle

truppe israeliane dai territori occupati; in più, afferma che ogni azione presa con l’obiettivo di

modificare lo status di Gerusalemme verrà considerata come non valida.208

• Nonostante ciò, Israele nel 1980 adotta il Basic Law209 e proclama Gerusalemme capitale. Anche in

questo caso il CdS adotta una risoluzione (Res. 478 (1980)) con la quale afferma che l’attuazione del

Basic Law costituisce una violazione del diritto internazionale e che tutte le misure amministrative e

legislative prese per alterare lo status di Gerusalemme sono da ritenersi nulle e non valide210.

• A partire dal 1993, sono stati raggiunti una serie di accordi tra Israele e Palestina211, in particolare

l’accordo per il governo ad interim212.

Prendendo in considerazione l’excursus storico della regione in questione, la Corte precisa che, in base

all’art. 42 della Quarta Convenzione dell’Aja relativa alle leggi e agli usi della guerra terrestre (1907) :

“Un territorio è considerato come occupato quando si trova posto di fatto sotto l’autorità dell’esercito

nemico. L’occupazione non si estende che ai territori nei quali tale autorità è stabilita e può

effettivamente esercitarsi213” e, dunque, che i territori compresi tra la Linea Verde e l’antica frontiera

orientale sotto mandato, sono occupati da Israele dal 1967, pertanto Israele svolge in quei luoghi il ruolo

di Potenza Occupante214. Ed è proprio in questi territori che Israele ha proceduto all’erezione di una

203 General Assembly (1949), A/RES/181(II) 29 November 1947, RESOLUTION ADOPTED ON THE REPORT OF THE AD

HOC COMMITTEE ON THE PALESTINIAN QUESTION, http://www.un.org , estratto il 25 agosto 2017 da

http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/181%28II%29 204 Advisory Opinion, par 72 205 Ivi 206 Ivi 207 Ibidem, par 73 208 Security Council (1967), S/RES/242(1967), http://www.un.org , estratto il 25 agosto 2017 da

http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/242(1967) 209 Si tratta della “Costituzione” israeliana 210 Advisory Opinion, par 75 211 Ibidem, par.77 212 Cfr. THE ISRAELI-PALESTINIAN INTERIM AGREEMENT (1995), http://www.mfa.gov.il, estratto il 9 marzo da

http://www.mfa.gov.il/mfa/foreignpolicy/peace/guide/pages/the%20israeli-palestinian%20interim%20agreement.aspx 213 GREPPI EDOARDO; VENTURINI GABRIELLA, Codice di diritto internazionale umanitario, Giappichelli, 2012, pg.9 214 Advisory Opinion, par 78

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barriera di sicurezza, che è stata descritta nel rapporto del Segretario Generale.

In particolare, nel documento è riportato che 975 km2 di territorio sono situati tra la linea verde e il muro

(abitati da circa 237.000 Palestinesi)215 e che la costruzione del muro è accompagnata da un regime

amministrativo per cui la parte della Cisgiordania compresa tra la linea verde e il muro è stata dichiarata

“zona chiusa”. Ciò significa che i residenti non sono più autorizzati a vivere in quei luoghi e i non-

residenti ad accedervi, a meno che non abbiano un permesso; mentre i cittadini israeliani, o residenti in

Israele, o i nuovi immigrati, per la legge del ritorno, possono risiedere, circolare e uscire/entrare

liberamente nella zona chiusa216.

215 Ibidem, par 84 216 Ibidem, par 85

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CAPITOLO IV – DIRITTO INTERNAZIONALE APPLICABILE E CONSEGUENZE

DELL’ILLECITO

13. Divieto della minaccia e dell’uso della forza

La Corte ha proceduto elencando i principi e le norme del diritto internazionale applicabili in questo

contesto.

Innanzitutto, vengono richiamati i principi fondamentali del DI quali il divieto della minaccia o dell’uso

della forza e il principio di autodeterminazione dei popoli che, secondo la dottrina e la stessa Commissione

del DI, sono qualificabili come norme consuetudinarie e, allo stesso tempo, cogenti217.

Il divieto di aggressione è stato classificato come norma consuetudinaria dalla CIG nel caso Nicaragua-Stati

Uniti218. La definizione di norma consuetudinaria è contenuta nell’art.38 dello Statuto della Corte: “evidence

of a general practice accepted as law”, ovvero “pratica generale accettata quale diritto”. Si compone di due

elementi: diurnitas,cioè la ripetizione costante di tale comportamento da parte della generalità degli Stati, e

opinio iuris ac necessitatis, cioè “la convinzione generale che tale comportamento sia conforme al

diritto”219. Come tale, la consuetudine deve essere rispettata dalla totalità degli Stati, anche da quelli che non

hanno partecipato alla sua formazione o pretendono di non accettarla220.

Per quanto riguarda invece la definizione di ius cogens, essa è contenuta nell’art.53 della Convenzione di

Vienna sul diritto dei trattati che afferma : “a peremptory norm of general international law is a norm

accepted and recognized by the international community of States as a whole as a norm from which no

derogation is permitted and which can be modified only by a subsequent norm of general international law

having the same character”221. La Corte non ha mai menzionato nel parere il termine “norme cogenti” ma si

è solo riferita alla nozione di “obblighi erga omnes”. Tuttavia, con riferimento alle norme consuetudinarie, i

due termini sono sinonimi poiché “tutte le norme cogenti pongono infatti obblighi erga omnes, ma non tutti

gli obblighi erga omnes sono di diritto cogente Con l'espressione più generale obblighi erga omnes si

vogliono infatti intendere obblighi da consuetudine o da accordo multilaterale che, per il loro particolare

contenuto e la loro struttura si pongono come obblighi simultanei nei confronti di tutti gli Stati (norme

generali) o di tutti gli Stati parti all'accordo (convenzioni multilaterali)“222.

Nello specifico, il divieto dell’uso della forza è contenuto nell’art.2.4 della Carta delle NU : “All Members

shall refrain in their international relations from the threat or use of force against the territorial integrity or

217 RONZITTI, NATALINO, Introduzione al diritto internazionale, Giappichelli, 2013, pg.167 218 Ivi 219Ibidem, pg.162 220 Ibidem, pg. 164 221 Cfr art. 53, Vienna Convention on the law of treaties (with annex). Concluded at Vienna on 23 May 1969,

https://treaties.un.org, estratto il 31 agosto 2017 da https://treaties.un.org/doc/publication/unts/volume%201155/volume-1155-i-

18232-english.pdf 222LATTANZI, FLAVIA (1989), Sanzioni internazionali, in Enciclopedia del Diritto, vol. XLI

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political independence of any state, or in any other manner inconsistent with the Purposes of the United

Nations223”. E’ una proibizione generale del ricorso alla forza armata da parte degli Stati nelle loro relazioni

internazionali e, nel suo nucleo fondamentale, ovvero il divieto di aggressione, è una norma imperativa del

DI224. Si tratta di un divieto di carattere assoluto poiché, anche nel caso in cui l’atto di aggressione non sia

compiuto nei confronti dell’integrità territoriale o della indipendenza politica di uno Stato, si tratterebbe

comunque di una violazione in quanto classificabile come atto contrario ai fini dell’Organizzazione, stabiliti

nell’art.1 della Carta.

In più la Corte ha richiamato la risoluzione 2625(XXV) emanata dall’AG nel 1970, ovvero "Declaration on

Principles of International Law concerning Friendly Relations and Co-operation among States", nella quale

viene specificato che “no territorial acquisition resulting from the threat or the use of force shall be

recognized as legal”225. Tale regola fa da corollario al principio del non uso della forza e, pertanto,

appartiene anch’essa al diritto consuetudinario, come affermato dalla Corte stessa nel caso Nicaragua c.

USA.

Secondo il rapporto di John Dugard, della Commissione dei diritti umani, il muro sembra avere un carattere

permanente, al contrario di quanto affermato da Israele e come confermato dagli alti costi affrontati per la

sua costruzione. Si tratta di un fait accompli, un’annessione de facto del territorio Palestinese: “the fact must

be faced that what we are presently witnessing in the West Bank is a visible and clear act of territorial

annexation under the guise of security. There may have been no official act of annexation of the Palestinian

territory in effect transferred to Israel by the construction of the Wall, but it is impossible to avoid the

conclusion that we are here faced with annexation of Palestinian territory” 226.

Israele si è appellato all’art.51, ovvero al diritto di legittima difesa, che costituisce l’eccezione principale al

divieto dell’uso della forza ed è classificabile anch’essa come appartenente al diritto consuetudinario:

“Nothing in the present Charter shall impair the inherent right of individual or collective self-defence if an

armed attack occurs against a Member of the United Nations, until the Security Council has taken measures

necessary to maintain international peace and security227”. Tuttavia, la Corte ha argomentato che tale diritto

è reclamabile solo nel caso in cui si verifichi un attacco armato a uno Stato da parte di un altro Stato. Dal

canto suo, Israele ha imputato tali violenze non già a uno Stato straniero ma a entità non-statali -quali Al-

Qaeda e Hamas (in quanto la Palestina non è stata mai riconosciuta come Stato da Israele e del resto, un

siffatto riconoscimento, può considerarsi acquisito nel contesto delle Nazioni Unite solo nel 2012, con

l’attribuzione dello status di osservatore). Inoltre gli attacchi provenivano da un territorio occupato e

223 UN Charter, art.2.4 224 RONZITTI, NATALINO, Introduzione al DI, pg. 414 225 Advisory Opinion, Legal Consequences of the Contruction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory, 2004 ICJ (July 9,

2004), www.icj-cij.org, estratto da http://www.icj-cij.org/files/case-related/131/131-20040709-ADV-01-00-EN.pdf, par.87. Vedi

anche A/RES/25/2625, 2625 (XXV). Declaration on Principles of International Law concerning Friendly Relations and Co-

operation among States in accordance with the Charter of the United Nations, http://www.un-documents.net , estratto l’8 settembre

2017 da http://www.un-documents.net/a25r2625.htm 226 Rapporto dell’8 settembre 2003, E/CN.4/2004/6, par 6, https://documents.un.org , estratto da https://documents-dds-

ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/G03/160/82/PDF/G0316082.pdf?OpenElement 227 UN Charter, art.51

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controllato da Israele stesso, dunque può ben fondatamente ritenersi che l’art.51 non ha rilevanza nella

questione in discussione.228

Un’altra causa di esclusione del fatto illecito appartenente al diritto consuetudinario e che Israele avrebbe

potuto invocare è lo “stato di necessità”, a cui spesso gli Stati si appellavano prima che la Carta ONU

entrasse in vigore. In base a ciò, lo Stato in questione potrebbe agire in territorio straniero per fronteggiare

un pericolo grave e imminente a protezione di un “interesse essenziale” dello Stato stesso e ormai, si ritiene,

della comunità internazionale nel suo insieme 229.

Si è però escluso che tale esimente possa essere invocato per giustificare la violazione una norma imperativa

del DI, comprese quelle relative al divieto dell’uso della forza230: la Corte ha affermato che lo stato di

necessità è ammesso “solo a titolo eccezionale”, in particolare solo nel caso in cui la commissione di un atto

illecito risulti essere il solo modo per proteggere un interesse essenziale dello Stato da un pericolo grave e

imminente231.

Esaminando il caso, non si ritiene che ci siano le condizioni essenziali affinché si possa invocare questa

causa di esclusione del fatto illecito232 in quanto, benché risulti chiaro che Israele sia vittima di atti di

violenza mirati alla sua popolazione civile, il muro, così come e dove è stato eretto, non costituisce il solo

modo che lo Stato possiede di proteggere gli interessi dei propri cittadini e, oltretutto, non risulta essere

conforme al DI.

14. Principio di autodeterminazione dei popoli

Sempre nel caso Nicaragua-Stati Uniti, si è fatto particolare riferimento alla forza impiegata per privare un

popolo del suo diritto di autodeterminazione: la Corte ha infatti affermato che una siffatta coercizione

costituisce violazione del divieto generale di uso della forza, anche se non può definirsi “aggressione”233.

Il principio di autodeterminazione è un principio fondamentale del DI e si classifica anch’esso come norma

cogente. Figura tra gli obiettivi delle Nazioni Unite, ai sensi dell’art.1.2 della Carta, ed è un diritto contenuto

all’art.1 comune al Patto sui diritti civili e politici e a quello sui diritti economici, sociali e culturali: “All

peoples have the right of self-determination. By virtue of that right they freely determine their political status

and freely pursue their economic, social and cultural development”234, che impone agli Stati l’obbligo di

promuovere e rispettare tale diritto.

228 Advisory Opinion, par. 139 229 RONZITTI, NATALINO, Introduzione al DI, pg. 438 230 Ivi 231 Advisory Opinion, par. 140 232 Ivi 233 Ibidem, pg. 417 234 International Covenant on Civil and Political Rights. Adopted by the General Assembly of the United Nations on 19 December

1966, art.1, https://treaties.un.org, estratto il 5 settembre 2017 da

https://treaties.un.org/doc/publication/unts/volume%20999/volume-999-i-14668-english.pdf

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L’autodeterminazione si suddivide generalmente in: autodeterminazione interna, ovvero il diritto di ogni

popolo ad avere un ordinamento rappresentativo e democratico, e autodeterminazione esterna, e cioè il

diritto di ogni popolo ad avere la propria forma statale preferita, strettamente connesso con l’integrità

territoriale235.

Per quanto concerne l’autodeterminazione esterna, ovvero quella a cui ci andiamo a riferire nel corso del

parere, è un diritto pensato originariamente per i popoli sotto un regime coloniale/razzista, che ne sono i

principali destinatari236. Le prime risoluzioni dell’AG in merito a tale principio (1514 e 1541) risalgono al

1960 e hanno come obiettivo quello di regolamentare il processo di decolonizzazione e la successiva

richiesta di indipendenza di popoli ancora privi di capacità di autogoverno. Nelle risoluzioni richiamate,

l’AG ha implementato e specificato il concetto di autodeterminazione – “by virtue of that right they freely

determine their political status and freely pursue their economic, social and cultural development”237,

raggiungibile attraverso l’acquisizione dell’indipendenza, la libera associazione o integrazione a uno stato

indipendente o di qualsiasi altro status politico, purché sia stato deciso democraticamente dal popolo.238

Nella sentenza sul Timor orientale (Portogallo c. Australia), la Corte ha compiuto un ulteriore passo in

avanti nella giurisprudenza dichiarando: “ [the] assertion that the right of peoples to

self-determination, as it evolved from the Charter and from United Nations practice, has an erga omnes

character, is irreproachable. The principle of self-determination of peoples has been recognized by the

United Nations Charter and in the jurisprudence of the Court [...]; it is one of the essential principles of

contemporary international law”239 . L’autodeterminazione è quindi riconosciuto come diritto opponibile

erga omnes240, ovvero un diritto esigibile da parte di ogni singolo membro della comunità internazionale241:

Inoltre la Corte, a fondamento della sua posizione, si è riferita nuovamente la risoluzione 2625(XXV) nella

quale l’AG ha affermato “Every State has the duty to refrain from any forcible action which deprives people

[…]of their right to self-determination”242.

Nonostante sia difficile definire il concetto di “popolo”, al fine di identificare i destinatari del diritto di

autodeterminazione, la Corte ha dichiarato che l’esistenza del popolo Palestinese “is no longer an issue”243.

Infatti l’AG riafferma ogni anno il diritto inalienabile del popolo palestinese da quando ha reintegrato la

questione palestinese nella sua agenda nel 1974244 e anche Israele ha riconosciuto l’esistenza del popolo

235 RONZITTI, NATALINO, Introduzione al DI, pg. 338 236 Ibidem,pg.339 237 A/RES/1514(XV), http://www.un.org , estratto il 5 settembre 2017 da

http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/1514(XV) 238 A/RES/1541(XV), http://www.un.org , estratto il 5 settembre 2017 da

http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/1541(XV) 239 CASE CONCERNING EAST TIMOR (PORTUGAL v. AUSTRALIA) JUDGMENT OF 30 JUNE 1995, http://www.icj-

cij.org ,estratto il 5 settembre 2017 da http://www.icj-cij.org/files/case-related/84/084-19950630-JUD-01-00-EN.pdf, par. 29 240 Advisory Opinion, par. 88 241 Ivi 242Ibidem, par. 88; vedi anche A/RES/25/2625 243Advisory Opinion, par. 118 244 Cfr. A/RES/3236 (XXIX), https://unispal.un.org, estratto l’8 settembre 2017 da

https://unispal.un.org/DPA/DPR/unispal.nsf/0/025974039ACFB171852560DE00548BB: “1.Reaffirms the inalienable rights of the

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palestinese e l’OLP come suo legittimo rappresentante nello scambio di lettere tra Araft e Rabin, avvenuto

nel 1993245.

Concludendo su questo punto, la Corte ha rilevato come la costruzione della barriera abbia ridotto e

spezzettato l’ambito territoriale nel quale il popolo palestinese può esercitare il proprio diritto

all’autodeterminazione e come il muro abbia come scopo quello di modificare l’assetto demografico

dell’area attraverso il rafforzamento delle colonie ebraiche246. Infatti il percorso del muro fa in modo di

includere nel territorio israeliano circa l’80% degli insediamenti israeliani e racchiude circa 160.000

Palestinesi in “enclaves” insieme a circa 320.000 coloni israeliani (di cui 178.000 solo a Gerusalemme

Est)247.

15. Diritto internazionale umanitario (DIU)

Come affermato precedentemente, trattandosi di un territorio occupato, la Corte ha richiamato l’art. 42 del

Regolamento relativo agli usi e costumi della guerra terrestre annesso alla IV Convenzione dell’Aja (1907)

che ne contiene la definizione: “Un territorio è considerato come occupato quando si trova posto di fatto

sotto l’autorità dell’esercito nemico”248. Dalla definizione si può facilmente desumere che i territori

compresi tra la Linea Verde del 1949 e il vecchio confine orientale palestinese sotto mandato sono stati

occupati da Israele durante la guerra dei sei giorni, dunque, in quei territori è applicabile il diritto

internazionale umanitario249.

Tale Convenzione è ormai parte del diritto consuetudinario e, anche se Israele non l’ha ratificata, gli obblighi

che essa pone hanno come destinatari tutti gli Stati della comunità internazione, come ribadito dalla Corte

nell’opinione consultiva “Legality of the Threat or Use of Nuclear Weapons”250.

Nella sezione III del Regolamento sono previsti l’ambito di competenza e le modalità dell’esercizio

dell’autorità militare nei territori occupati, in particolare, secondo l’art.43 la Potenza occupante è tenuta a

“prendere tutte le misure che dipendono da lui allo scopo di ristabilire e di assicurare, per quanto possibile,

l’ordine e la vita pubblica, rispettando, salvo impedimento assoluto, le leggi in vigore nel paese”251.

Palestinian people in Palestine, including: (a)The right to self-determination without external interference; (b)The right to national

independence and sovereignty” 245 Advisory Opinion, par.118 246Ibidem, par. 115 247Ibidem, par 122 248 GREPPI EDOARDO; VENTURINI GABRIELLA, Codice di diritto internazionale umanitario, Giappichelli, 2012,

pg.9:Convenzione (IV) relativa alle leggi e agli usi della guerra terrestre (L’Aja, 18 ottobre 1907) 249 Advisory Opinion, par. 78 250 Ibidem, par. 89 251 GREPPI EDOARDO; VENTURINI GABRIELLA, Codice di diritto internazionale umanitario, pg. 9: Convenzione (IV)

relativa alle leggi e agli usi della guerra terrestre (L’Aja, 18 ottobre 1907) ;vedi anche Advisory Opinion, par. 124

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43

Inoltre, l’art.46.2 dello stesso Regolamento afferma che “la proprietà privata non può essere confiscata”252,

mentre le requisizioni in natura e quelle dei servizi per i bisogni dell’esercito occupante sono autorizzate ai

sensi dell’art. 52 dello stesso Regolamento, con alcuni limiti.

Da quanto può essere dedotto dal riferimento a queste disposizioni, la Corte ha determinato che la

costruzione del muro le ha violate, avendo comportato la distruzione o la requisizione di proprietà in

condizioni contrarie alla legge. Specificatamente, secondo il Comitato speciale incaricato di indagare sulle

pratiche israeliane riguardo ai diritti umani del popolo palestinese e degli altri arabi dei territori occupati,

l’erezione del muro ha provocato la confisca e le distruzione di circa 10.000 ettari di terre agricole fertili

contenenti pozzi, uliveti, agrumeti e serre.253

La Corte non si è riferita in alcun modo all’art. 55 del Regolamento, secondo cui: “Lo Stato occupante si

considererà come amministratore usufruttuario degli edifici pubblici, immobili, foreste e aziende agricole

appartenenti allo Stato nemico e situati nel paese occupato. Esso dovrà salvaguardare il capitale di tali

proprietà e amministrarlo conformemente alle regole dell’usufrutto”254. Inoltre, all’art. 56, è specificato

: “I beni dei comuni, quelli degli istituti consacrati ai culti, alla beneficenza e all’istruzione, alle arti e alle

scienze, anche se appartenenti allo Stato, saranno trattati alla stregua della proprietà privata. E’ vietata e

deve essere repressa penalmente qualsiasi appropriazione, distruzione o deterioramento intenzionale di si

mili istituti, si monumenti storici, si opere d’arte e di scienza”255.

L’ICCROM (International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property)

nel suo report del 2012 sulla protezione dell’eredità culturale in tempo di guerra ha dedicato una sezione alla

Palestina, sottolineando come il muro rappresenti una minaccia al patrimonio storico palestinese: “This is a

huge system of concrete walls, razor wire, trenches and fences, cutting into the West Bank and Gaza and

separating people from their land and history. The great impacts of the wall on Palestinian daily life are not

only economic and social, but also entail a destructive impact on numerous important archaeological

remains, heritage sites and cultural landscapes”256.

Per quanto concerne invece le Convenzioni di Ginevra, esse si applicano in tutti i casi di “guerra dichiarata

o di qualsiasi altro conflitto armato che sorga tra due o più Alte Parti contraenti, anche se lo stato di guerra

non è riconosciuto da una di esse”, nonché “di occupazione totale o parziale del territorio di un’Alta Parte

contraente, anche se questa occupazione non incontra alcuna resistenza armata”257 (art.2 comune alle

quattro Convenzioni di Ginevra).

252 Ibidem, pg. 10, vedi anche Advisory Opinion, par.124 253 Advisory Opinion, par.133 254 GREPPI EDOARDO; VENTURINI GABRIELLA, Codice di diritto internazionale umanitario, pg. 11: Convenzione (IV)

relativa alle leggi e agli usi della guerra terrestre (L’Aja, 18 ottobre 1907), art 55, pg. 11 255 Ivi, art. 56 256 ICCROM (2012), PROTECTING CULTURAL HERITAGE IN TIMES OF CONFLICT, http://www.iccrom.org , estratto l’11

settembre 2017 da http://www.iccrom.org/ifrcdn/pdf/ICCROM_18_ProtectingHeritageConflict_en.pdf 257 GREPPI EDOARDO; VENTURINI GABRIELLA, Codice di diritto internazionale umanitario, Giappichelli, 2012, pg.76:

Convenzione (IV) relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra (Ginevra,12 agosto 1949)

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Sia Israele che Giordania sono parti della Convenzione dal 1951, senza alcuna riserva258. In più, anche

l’OLP, nella propria dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Palestina redatta nel 1982, ha affermato di

voler rispettare i principi espressi in questa Convenzione259 e quindi, anche se la Palestina non ha ratificato

la Convenzione ai tempi del parere , le altre Potenze contraenti sono comunque vincolate dalla Convenzione

rispetto a questo Stato - se quest’ultimo ne accetta e ne applica le disposizioni, ai sensi l’art.2.3 della

Convenzione relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra (Ginevra, 12 agosto 1949)260.

Secondo Israele comunque, la IV Convenzione non poteva essere applicata in questi territori poiché, ai sensi

dell’art. 2.2, le sue disposizioni si riferiscono solo a casi di occupazione di territori posti sotto il controllo di

una Parte contraente impegnata in un conflitto armato e la Giordania, benché avesse ratificato la

Convenzione, ai tempi dell’occupazione, non possedeva alcuna sovranità sui territori occupati261.

La Corte ha risposto richiamando innanzitutto la norma consuetudinaria secondo cui un trattato deve essere

interpretato in “buona fede” (art.31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati) e in linea con il

significato ordinario attribuito ai termini contenuti e alla luce dell’oggetto e della finalità dello strumento262.

Di conseguenza, in riferimento all’art.2 della Convenzione di Ginevra, gli unici elementi necessari ai fini

dell’applicabilità della Convenzione risultano essere l’esistenza di un conflitto armato e che tale conflitto sia

in corso tra due o più parti contraenti. Di conseguenza, sarebbe stato irrilevante indagare se la Giordania

avesse o meno la sovranità su West Bank e Gerusalemme Est prima della guerra dei sei giorni, in quanto il

conflitto è comunque avvenuto tra due Parti contraenti, quindi la conseguente occupazione israeliana deve

essere regolata dalla Convenzione263, applicabile de jure nel territorio di entrambi gli Stati parte.

Con questi presupposti la Corte ha proceduto elencando le varie norme della Convenzione violate da Israele

in quanto potenza occupante.

In primo luogo, viene menzionato l’art. 47 secondo cui “Le persone protette che si trovano in un territorio

occupato non saranno private, in nessun caso e in nessun modo, del beneficio della presente Convenzione,

né in virtù di un cambiamento qualsiasi apportato in seguito all’occupazione alle istituzioni o al governi del

territorio di cui si tratta, né in virtù di un accordo concluso tra le autorità del territorio occupato e la

Potenza occupante, né, infine, in seguito all’annessione, da parte di quest’ultima,di tutto il territorio

occupato o parte di esso”264.

258Ibidem, par. 91 259 Ivi 260 Ivi 261 Ivi; vedi anche ARAUJO, FR. ROBERT J., Implementation of the ICJ Advisory Opinion—Legal Consequences of the

Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory: Fences [Do Not] Make Good Neighbours? 22 Boston U. Int. L.J

349-398, pg. 370 262 Advisory Opinion, par. 94 263 PERTILE, MARCO, “Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory”: A Missed

Opportunity for International Humanitarian Law?, The Italian Yearbook of International Law Online, Volume 14, Issue 1, 2004,

pgg. 121 – 161, pg. 129 264 GREPPI EDOARDO; VENTURINI GABRIELLA, Codice di diritto internazionale umanitario, Giappichelli, 2012, pg.85,

Convenzione (IV) relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra ( Ginevra,12 agosto 1949); vedi anche Advisory

Opinion, par. 126

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In secondo luogo, in ragione della costruzione di colonie di popolamento nel West Bank, l’operato dello

Stato ebraico è ritenuto dalla Corte essere in contrasto con l’art. 49.6 della Convenzione che afferma: “La

Potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua propria

popolazione civile nel territorio da essa occupato”265. Si tratta di un divieto categorico e assoluto. La Corte

ha voluto inoltre precisare: “That provision prohibits not only deportations or forced transfers of population

such as those carried out during the Second World War, but also any measures taken by an occupying

Power in order to organize or encourage transfers of parts of its own population into the occupied

territory”266.

L’art. 49 nella sua interezza è un divieto mirato a salvaguardare la composizione demografica del territorio

occupato ed è proprio questo che il muro mira ad alterare: il percorso del muro è strettamente connesso alle

colonie in quanto effettivamente ne favorisce lo sviluppo e di fatto pregiudica i Palestinesi da ogni futura

chance di poter godere dell’autodeterminazione267.

La Corte ha anche menzionato l’art.52.2, a sensi del quale: “E’ vietata qualsiasi misura intesa provocare la

disoccupazione o a limitare la possibilità di lavoro dei lavoratori di un paese occupato, per indurli a

lavorare per la Potenza occupante”268: con la separazione di intere comunità palestinesi da risorse idriche e

servizi pubblici, secondo il rapporto del Segretario Generale, circa 600 negozi e imprese hanno chiuso la

propria attività.269

Secondo la Corte, Israele ha anche compiuto una violazione dell’art. 53, il quale prevede che sia vietato alla

Potenza occupante “di distruggere beni mobili o immobili appartenenti individualmente o collettivamente a

persone private, allo Stato o a enti pubblici, a organizzazioni sociali o a cooperative, salvo nel caso in cui

tali distruzioni fossero rese assolutamente necessarie dalle operazioni militari”270. La violazione di tale

articolo è connessa con la distruzione di terre, oliveti e pozzi di cui abbiamo discusso precedentemente e che,

secondo la Corte, non trovano giustificazione nella natura delle operazioni militari israeliane.

Infine viene richiamato l’art. 59 secondo cui, nel caso in cui la zona occupata possieda provvigioni scarse, la

Potenza occupante deve garantirne l’approvvigionamento attraverso il libero passaggio di viveri, medicinali

e capi di vestiario da parte di enti umanitari o Stati.271 Israele stesso nega ai Palestinesi l’accesso alle risorse

idriche presenti nei territori occupati, si rifornisce dai bacini idrici presenti nel West Bank, e infine ne

destina una minima parte alla popolazione dei territori occupati. Inoltre lo Stato ebraico rende difficile

l’accesso alla popolazione palestinese ai servizi sanitari, scolastici e alla rete elettrica.

265 Ivi 266 Advisory Opinion, par. 120 267 Ibidem, par.199 268 GREPPI EDOARDO; VENTURINI GABRIELLA, Codice di diritto internazionale umanitario, Giappichelli, 2012, pg.86,

Convenzione (IV) relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra (Ginevra,12 agosto 1949) 269 Advisory Opinio, par.133 270 Ivi 271 Ivi

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16. Diritti umani

La Corte ha preso in considerazione anche le norme internazionali in materia di diritti umani, in particolare i

due Patti internazionali del 1966 e alla Convenzione relativa ai diritti del fanciullo.

L’art. 2.1del Patto sui diritti civili e politici, afferma: “Each State Party to the present Covenant undertakes

to respect and to ensure to all individuals within its territory and subject to its jurisdiction the rights

recognized in the present Covenant, without distinction of any kind [...]”272. Di conseguenza, la Corte ha

notato che, alla luce dell’oggetto e dello scopo del Patto, il suo ambito di applicazione concerne anche

l’operato di uno Stato nell’esercizio della propria giurisdizione in territorio straniero273.

La posizione di Israele, secondo il Patto non sarebbe applicabile al di là del proprio territorio nazionale, in

particolare nel territorio di Gaza e in Cisgiordania, è stata contestata anche dal Comitato dei diritti umani

che, nel 2003, ha affermato che, considerata la durata della presenza delle forze israeliane nei territori

occupati e la giurisdizione esercitata da queste ultime, le disposizioni del Patto si applicano in tale territorio

a favore della popolazione sotto occupazione, per quanto concerne ogni atto che di fatto ha compromesso e

compromette il normale godimento dei diritti consacrati nel Patto274.

Israele aveva richiesto la deroga da talune disposizioni in base all’art.4 del Patto stesso e aveva motivato tale

richiesta appellandosi allo stato d’urgenza. Ai sensi dell’art. 4 del Patto sui diritti civili e politici, uno Stato

parte può sospendere l’applicazione di alcune disposizioni, nella misura in cui questo sia strettamente

necessario in situazioni di emergenza275.

Secondo lo Stato ebraico, tale status. entrato in vigore alla nascita dello Stato di Israele, non ha mai cessato

di esistere a causa delle minacce e delle campagne terroristiche mirate contro l’esistenza di Israele. Tuttavia,

i diritti fondamentali inderogabili, a norma del Patto (art 4.2), non possono essere sospesi neppure in tali

situazioni276.

Dunque, anche se lo Stato di Israele si è avvalso della facoltà di sospendere i diritti di cui all’art.9,

riguardanti il diritto alla libertà e alla sicurezza del singolo, che limita la detenzione e dell’arresto

272 International Covenant on Civil and Political Rights, http://www.ohchr.org , estratto il 14 settembre 2017 da

http://www.ohchr.org/en/professionalinterest/pages/ccpr.aspx 273 Advisory Opinion, par.109: “The Court would observe that, while the jurisdiction of States is primarily territorial, it may

sometimes be exercised outside the national territory. Considering the object and purpose of the International Covenant on Civil

and Political Rights, it would seem natural that, even when such is the case, States parties to the Covenant should be bound to

comply with its provisions. The constant practice of the Human Rights Committee is consistent with this. Thus, the Committee has

Sound the Covenant applicable where the State exercises its jurisdiction on foreign territory.” 274 Ibidem, par.110 275 International Covenant on Civil and Political Rights, art.4 : “1 . In time of public emergency which threatens the life of the

nation and the existence of which is officially proclaimed, the States Parties to the present Covenant may take measures

derogating from their obligations under the present Covenant to the extent strictly required by the exigencies of the situation,

provided that such measures are not inconsistent with their other obligations under international law and do not involve

discrimination solely on the ground of race, colour, sex, language, religion or social origin.” 276 International Covenant on Civil and Political Rights, art.4.2: “No derogation from articles 6, 7, 8 (paragraphs I and 2), 11, 15,

16 and 18 may be made under this provision”.

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arbitrario277, le altre disposizioni del Patto restano applicabili sia nel territorio israeliano che nei territori

occupati278.

Tra gli articoli menzionati dalla Corte e applicabili in tale contesto, ritroviamo prima di tutto l’art. 17 che

proclama “No one shall be subjected to arbitrary or unlawful interference with his privacy, family, home or

correspondence, nor to unlawful attacks on his honour and reputation”279. Il contenuto materiale di tale

norma risulta essere privo di eccezioni e quindi inderogabile.

Importanza fondamentale riveste in quest’ambito l’art.12 che si riferisce alla libertà di movimento e alla

libertà di scelta di residenza all’interno di uno Stato nel quale la persona risiede legalmente.280 Esistono poi

particolari disposizioni che si riferiscono in maniera particolare al libero accesso ai luoghi sacri: nella ris.

181 (II) emanata dall’AG si stabiliva un piano di spartizione dei luoghi santi, precisando che doveva essere

garantito il libero accesso a tali luoghi a tutti i residenti e cittadini; tale libertà è ribadita anche nell’art. 9 del

Trattato di pace tra Israele e Giordania ai sensi del quale le parti dell’accordo s’impegnavano reciprocamente

a fornire l’accesso libero ai territori dotati di un significato storico e religioso281.

Il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, invece, non contiene alcuna disposizione che

specifichi il suo ambito di applicazione ma i diritti protetti da tale Patto hanno portata territoriale, nonostante

non sia stato escluso che le disposizioni del Patto siano applicabili anche sui territori posti sotto la sovranità

di uno Stato parte o soggetti alla giurisdizione di uno Stato parte.282

Gli unici casi in cui questo Patto è derogabile sono contenuti nell’art.4 dello stesso: “The States Parties to

the present Covenant recognize that, in the enjoyment of those rights provided by the State in conformity

with the present Covenant, the State may subject such rights only to such limitations as are determined by

law only in so far as this may be compatible with the nature of these rights and solely for the purpose of

promoting the general welfare in a democratic society”.283 Come per il Patto sui diritti civili e politici, la

Corte ha concluso che la deroga è possibile solo nel caso in cui le restrizioni siano assolutamente necessarie i

fini autorizzati dall’art.4 e, pertanto, nessuna deroga è ammissibile in questo caso. Oltretutto, le restrizioni

dei diritti dei Palestinesi derivanti dalla costruzione della barriera non sono in alcun modo ascrivibili

nell’obiettivo contenuto nell’art.4, ovvero la promozione del benessere generale in una società

democratica284.

In quanto Potenza occupante, Israele impone la propria autorità sul territorio palestinese. Sulla base di tale

ruolo, lo Stato israeliano è responsabile degli atti commessi nel territorio posto sotto la sua competenza e,

277 Ivi, art. 9 : “Everyone has the right to liberty and security of person. No one shall be subjected to arbitrary arrest or detention.

No one shall be deprived of his liberty except on such grounds and in accordance with such procedure as are established by law.” 278 Advisory Opinion, par. 127 279 International Covenant on Civil and Political Rights, art. 17 280 Ivi, art. 12 281 Advisory Opinion, par. 129 282Ibidem, par.112 283 International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights, http://www.ohchr.org , estratto il 14 settembre 2017 da

http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CESCR.aspx , art. 4 284 Advisory Opinion, par. 136

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dunque, vincolato al rispetto del Patto sui diritti economici, civili e politici nei confronti della popolazione

palestinese residente in tali zone.285

In particolare, la CIG ha fatto riferimento alle violazioni del diritto al lavoro286, a un livello di vita

sufficiente287, alla salute288, in quanto il tracciato del muro, secondo il rapporto del Segretario Generale,

separa molte località dall’accesso ai servizi pubblici quali edifici sanitari, scolastici e

dall’approvvigionamento dell’acqua.289

Il godimento di tali diritti è assicurato in modo analogo dalle disposizioni contenute nella Convenzione sui

diritti del fanciullo (1989). Ai sensi dell’art.2 della Convenzione “States Parties shall respect and ensure the

rights set forth in the present Convention to each child within their jurisdiction without discrimination of any

kind”290 . In quanto i diritti enunciati in tale Convenzione devono essere garantiti ad ogni bambino presente

nell’ambito di giurisdizione dello Stato parte, le disposizioni sono applicabili nel territorio palestinese

occupato.

Sulla base di tali disposizioni richiamate, la Corte ha concluso che il percorso del muro, così come stato

delineato, non sia finalizzato a legittimi obiettivi di sicurezza da parte israeliana. Per di più, il regime che

accompagna la costruzione della barriera di fatto priva la popolazione palestinese di numerosi diritti, senza

che tale privazione possa essere giustificata da scopi o necessità di ordine pubblico o sicurezza nazionale, o

che possa essere quanto meno in linea con i criteri proporzionalità necessari per potersi avvalere di tali cause

di esclusione del fatto illecito.291

Dunque, la Corte, con 14 voti a favore e uno contrario, ha giudicato la costruzione del muro contraria al

DI.292

17. Conseguenze dell’illecito

La Corte ha rilevato che Israele ha innanzitutto l’obbligo di rispettare le norme internazionali violate, e

quindi, prima di tutto, il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, gli obblighi derivanti dal DI

umanitario e quello relativo ai diritti dell’uomo, nonché il libero accesso ai luoghi santi293.

In secondo luogo, su Israele incombe l’obbligo di cessare l’azione illecita - costruzione del muro nei territori

occupati - e di dare le opportune assicurazioni e garanzie di non reiterazione. A tal proposito, lo Stato

accusato deve procedere all’eliminazione dei tratti del muro situati nel territorio occupato e all’abrogazione

285Ibidem, par.112 286 International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights, http://www.ohchr.org , estratto il 14 settembre 2017 da

http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CESCR.aspx , artt. 6 e 7 287 Ibidem, art. 11 288 Ibidem, art. 12 289 Ivi 290 Convention on the Rights of the Child, http://www.ohchr.org , estratto il 14 settembre 2017 da

http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CRC.aspx 291 Advisory Opinion, par.137 292 Ibidem, par.138 293Ibidem, par. 149

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o alla neutralizzazione degli effetti di quegli atti legislativi che sono finalizzati al mantenimento del regime

che accompagna il muro294.

Considerato che l’erezione del muro ha privato i cittadini palestinesi di abitazioni, negozi e aziende agricole,

su Israele incombe anche l’obbligo di riparazione nei confronti dei soggetti lesi. In particolare, attraverso la

restituzione, si deve ripristinare lo status quo ante: questo significa che Israele è obbligato a restituire tutti i

beni immobili sottratti e, qualora ciò non risulti possibile, a risarcire attraverso un indennizzo le persone

fisiche e morali che hanno subito un pregiudizio giuridico materiale derivante dall’erezione del muro295.

Inoltre, visto che Israele ha violato degli obblighi erga omnes, esso ha commesso delle violazioni nei

confronti di tutti gli Stati, poiché è nell’interesse della comunità internazionale tutta che tali obblighi siano

rispettati e tutti gli Stati hanno un interesse giuridico a proteggere tali diritti296. In questo caso, gli obblighi

che Israele è tenuto a rispettare riguardano, in primo luogo, quelli relativi al diritto di autodeterminazione del

popolo palestinese e, successivamente, quelli riguardanti il DI umanitario che, per la loro essenza,

costituiscono principi inviolabili del diritto internazionale consuetudinario297.

Gli Stati parte della Convenzione di Ginevra, ai sensi dell’art.1 comune alle quattro, hanno un ulteriore

dovere, ovvero quello di far rispettare gli obblighi derivanti dalle disposizioni in questione (obblighi erga

omnes partes). Di conseguenza, tutti gli Stati parte sono tenuti a non riconoscere la situazione derivante dal

fatto illecito, a non prestare aiuto o assistenza al fine del mantenimento di tale situazione e infine a vigilare

affinché vengano eliminati quegli ostacoli che impediscono al popolo palestinese di godere del proprio

diritto di autodeterminazione.298

Tuttavia la Corte non ha specificato come effettivamente queste proposizioni giuridiche dovessero essere

concretamente implementate.

Quanto alle responsabilità delle Nazioni Unite in merito alla questione, la CIG si è limitata a conferirgli un

“obbligo di risultato”: alla luce del principale compito dell’ONU, ovvero il mantenimento della pace e della

sicurezza a livello internazionale, l’Organizzazione è tenuta a “raddoppiare i propri sforzi” affinché si arrivi

a far cessare il conflitto Israelo-Palestinese, stabilendo un pace giusta e duratura nella regione299, e possa

crearsi uno Stato palestinese indipendente300.

Anche qui la Corte ha dimenticato di indicare qualsiasi tipo di misura specifica attuabile dagli Stati per poter

adeguatamente adempiere agli obblighi da essa stessa delineati e raggiungere il risultato richiesto.

294 Ibidem, par. 151 295 Ibidem, par. 153. Questa decisione è presa con 14 voti favorevoli ed uno contrario (Giudice Buergenthal). 296 Ibidem, par. 155 297 Ibidem, par. 157 298 Ivi. L’unanimità in merito a tale conclusione non è raggiunta a causa dell’opinione contraria dei giudici Buergenthal e

Kooijmans. 299 Advisory Opinion, par.161 300 Ibidem, par.162

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18. Opinioni separate

Ben sette giudici hanno consegnato delle opinioni separate. Le principali sono state mosse dai giudici

Buergenthal, che ha votato contro tutte le decisioni prese dalla Corte (tranne quella sulla competenza ad

accettare la richiesta dell’AG), e Kooijmans, a cui si aggiunge quella del giudice Higgins, fondamentalmente

d’accordo con il parere ma con alcune riserve.

Quest’ultimo giudice, in merito al potere discrezionale della Corte, ha citato l’opinione consultiva Western

Sahara,che ha ritenuto essere il precedente più appropriato a riguardo, in quanto si trattava di una disputa fra

attori internazionali su cui la Corte non si era mai espressa in precedenza.

Anche in questo caso mancava in consenso di una delle parti301, ma la Corte aveva fatto leva

sull’importanza che l’opinione rivestiva nell’ambito del processo di decolonizzazione e dei connessi doveri

in capo all’AG al fine di emettere la decisione302; mentre invece l’opinione Muro in Palestina ha uno scopo

differente: “The request is not in order to secure advice on the Assembly's decolonization duties, but later,

on the basis of our Opinion, to exercise powers over the dispute or controversy. Many participants in the

oral phase of this case frankly emphasized this objective”303.

Secondo lei, la situazione andava inquadrata in un contesto più ampio, nella sua totalità, ricordando i doveri

di ogni parte in gioco e i loro obblighi mutuali di avviarsi verso una risoluzione pacifica delle loro

controversie.304

Dopo aver criticato la mancanza di chiarezza della Corte e il suo trattamento “light” dell’ambito concernente

il DIU, il giudice, evidenziando la natura pattizia dei diritti umani violati, si è chiesto se fosse effettivamente

appropriato investire la CIG della questione, benché esistano due commissioni incaricate di investigare sul

rispetto delle norme contenute per ogni Patto riguardante i diritti umani.305

Inoltre, la Higgins non ha ritenuto che il muro rappresenti propriamente un “serio impedimento” per il libero

godimento del diritto di autodeterminazione da parte del popolo Palestinese, anzi ha voluto precisare che :

“The real impediment is the apparent inability and/or unwillingness of both Israel and Palestine to move in

parallel to secure the necessary conditions - that is, at one and the same time, for Israel to withdraw from

Arab occupied territory and for Palestine to provide the conditions to allow Israel to feel secure in so doing.

The simple point is underscored by the fact that if the wall had never been built, the Palestinians would still

not yet have exercised their right to self-determination”306

Infine, non ha condiviso l’interpretazione restrittiva operata dalla Corte in merito all’art.51, in quanto non ha

ritenuto che per impugnare il diritto di legittima difesa fosse necessario che l’attacco armato provenga da

301 In questo caso, la Spagna. 302 SEPARATE OPINION OF JUDGE HIGGINS, http://www.icj-cij.org , estratto il 20 settembre 2017 da http://www.icj-

cij.org/files/case-related/131/131-20040709-ADV-01-02-EN.pdf, par.11 303 Ibidem, par. 13 304 Ibidem, par. 18 305 Ibidem, par. 27 306 Ibidem, par. 30

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uno “stato”. Tuttavia, ha concordato con la Corte nella parte in cui si afferma che un attacco proveniente dai

territori occupati non può considerasi un attacco da parte di uno “Stato”307.

Il giudice Kooijmans, come abbiamo visto, ha votato contro la decisione riguardante le conseguenze legali

per gli Stati terzi. Anche lui,come la Higgins, ha ritenuto che la questione dovesse essere inserita in un

contesto più ampio, tenendo in considerazione le responsabilità di entrambe le parti coinvolte. Infatti il

conflitto arabo-israeliano da decenni si caratterizza come una minaccia alla pace e alla sicurezza

internazionale e, allo stesso tempo, ai diritti umani308: “How can a society like the Palestinian one get used

to and live with a situation where the victims of violence are often innocent men, women and children'? How

can a society like the Israeli society get used to and live with a situation where attacks against a political

opponent are targeted at innocent civilians, men, women and children, in an indiscriminate way?”309.

Per quanto concerne invece l’ammissibilità di concedere l’opinione, Kooijmans ha concordato con la Corte

col fatto che l’AG non abbia agito ultra vires, in quanto la ris. ES-10/14 non risulta essere contraria alle

disposizioni contenute nell’art.12 della Carta Onu - dal momento che un membro permanente del CdS ha

votato contro una risoluzione in merito alla costruzione del muro, significa di fatto che il Consiglio aveva

smesso di occuparsi della questione310. Tuttavia il giudice ha dichiarato di avere seri dubbi sul come sia stato

possibile per l’AG adottare legalmente una simile risoluzione dal momento che il CdS aveva già preso in

considerazione la questione, senza però aver preso ancora una decisione in merito311.

Inoltre, secondo lui, non è stato così “judicially proper” da parte della Corte accogliere la richiesta dell’AG,

fondamentalmente per due ragioni: in primo luogo, per il rischio di politicizzazione, in quanto la questione

discussa è particolarmente delicata e l’opinione è destinata ad alimentare il dibattito internazionale e a

interferire con il processo di riappacificazione312. L’AG avrebbe dovuto tenere in considerazione questo

rischio e limitarsi a interpellare la Corte solo per questioni strettamente legate alle sue funzioni giudiziarie,

mentre invece, in questo caso, l’organo è stato investito di un diverso ruolo infatti, anche nel caso in cui la

Corte avesse deciso di avvalersi del proprio potere discrezionale e , quindi, non avesse emanato il parere, la

scelta sarebbe apparsa come politica o, quantomeno, politicizzata. Secondariamente, perché l’Assemblea, nel

formulare la propria richiesta, non si è esaustivamente espressa sull’uso che intendesse fare di tale opinione

consultiva.

In particolare, Kooijmans ha sottolineato come la questione israelo-palestinese sia allo stesso tempo una

materia di interesse internazionale e un disputa bilaterale, e che la sua natura essenziale di contrasto tra due

attori internazionali non può essere dissociata dalla portata della questione in oggetto313. Di conseguenza,

307 Ibidem, par. 33 308 WATSON, GEOFFREY R., The “Wall” Decisions in Legal and Political Context, The American Journal of International Law,

Vol.99, No.1 (Jan, 2005), 6-26, pg.18 309 SEPARATE OPINION OF JUDGE KOOIJMANS, http://www.icj-cij.org ,estratto il 21 settembre 2017 da http://www.icj-

cij.org/files/case-related/131/131-20040709-ADV-01-03-EN.pdf, par 4 310 Ibidem, parr. 14, 15 311 Ibidem, par. 18 312 Ibidem, par. 20 313 Ibidem, par. 27

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essendoci una presenza simultanea di queste due situazioni, la Corte possedeva la competenza a emanare

l’opinione alla luce dei lavori dell’Onu ma, nel farlo, avrebbe dovuto avere il consenso da entrambe le

Parti314.

Quindi, anche nel caso in cui la richiesta fosse stata mossa sulla base dei coinvolgimento delle Nazioni Unite

nell’ambito del conflitto israelo-palestinese e alla luce dell’analisi degli scopi dell’Organizzazione,

l’argomento portato avanti da Israele, secondo cui la Corte non aveva a disposizione abbastanza

informazioni per esprimersi sul merito, potrebbe essere ragionevole. Tuttavia dal momento in cui Israele ha

deciso di non esprimersi sui meriti, è a discrezione della Corte giudicare se le informazioni in suo possesso

siano adeguatamente sufficienti affinché possa esprimersi sul merito315.

Esprimendosi sui meriti, il giudice ha condiviso con la Higgins alcuni dubbi sull’applicabilità del diritto di

autodeterminazione. Sicuramente la costruzione del muro impedisce ai cittadini Palestinesi il pieno

godimento di questo diritto, ma non ogni impedimento di esercizio di un diritto può, secondo lui, costituirsi

come violazione di tale diritto: “the terrorist attacks (and the failure of the Palestinian Authority to prevent

them) cause also great harm to the legitimate aspirations of the Palestinian people and thus seriously

impede the realization of the right of self-determination. Is that also a breach of that right?”316.

Come abbiamo visto, la Corte ha rilevato come le violazioni dei diritti umani e umanitari menzionati non

siano ritenuti giustificabili da esigenze militari o da esigenze di protezione e sicurezza nazionale. Proprio

perché si è fatto riferimento alle necessità di natura militare, secondo Koojimans la Corte avrebbe dovuto

considerare il criterio di proporzionalità e solo dopo appurare che, anche nel caso in cui il muro fosse

risultato necessario per preservare i diritti legittimi dei cittadini israeliani, il percorso della barriera risultava

inadeguatamente sproporzionato rispetto agli interessi che Israele ha dichiarato di voler proteggere317.

Con riferimento al diritto di legittima difesa (art.51 Carta Onu), Kooijmans ha concordato anche in questo

caso con l’opinione della Higgins, dichiarando come tale esimente non possa essere invocato da Israele, non

perché l’attacco non sia attribuibile a uno “Stato”, ma in quanto le offensive non possono classificarsi come

una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale e provengono da una porzione di territorio controllata

dallo stesso Stato “vittima”318.

Il giudice ha ammesso di non condividere il motivo per il quale la violazione di un obbligo erga omnes da

parte di una Stato debba necessariamente implicare delle conseguenze per altri Stati ma, anche assumendolo

per dato, non ha ben capito cosa effettivamente intendesse dire la Corte quando ha imposto agli Stati

l’obbligo di non riconoscere la situazione illegale creata dalla costruzione del muro319.

Questo stesso argomento non è comunque applicabile alla seconda parte del paragrafo 3 (D) , a cui

comunque il giudice si è opposto, nel quale è contenuto l’obbligo di non prestare aiuto o assistenza per il

314 Ivi 315 Ibidem, par. 28 316 Ibidem, par. 32 317 Ibidem, par. 34 318 Ibidem, par. 36 319 Ibidem, par. 44

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mantenimento di tale situazione. Anzi, il giudice ha voluto implementare l’obbligo imposto dal parere con

un invito agli Stati della comunità internazionale tutta, sottolineando quanto sia importante che essi offrano

aiuto e assistenza umanitaria alle vittime del muro320.

Il giudice non ha condiviso gli ulteriori obblighi imposti dalla Corte agli Stati parte della Convenzione di

Ginevra. Da uno studio che agli ha citato sui travaux préparatoires si è rilevato che con il termine

“assicurare il rispetto” - dei diritti contenuti nella Convenzione – si può intendere che “it was mainly

intended to ensure respect of the conventions by the population as a whole and as such was closely linked to

common Article 3 dealing with internal conflicts”321.

Dunque, anche se il giudice si è dimostrato essere non favorevole rispetto all’interpretazione restrittiva

fornita dalla Corte in merito all’art.1 della Convenzione, dal momento che la CIG non ha supportato

adeguatamente le sue argomentazioni e che non è risultato chiaro quali potessero essere le azioni che gli

Stati avrebbero dovuto intraprendere, Kooijmans si è sentito costretto a votare contro il paragrafo

riguardante gli obblighi legali per gli Stati terzi322.

Il giudice Buergenthal, invece, ha concordato con il resto della CIG solo nel punto in cui dichiarava di avere

competenza a emanare il parere. Ciò non significa che egli abbia dissentito in toto con le conclusioni a cui i

suoi colleghi sono giunti ma in generale, secondo lui, la Corte avrebbe dovuto esercitare la propria

discrezione a non emanare il parere, in quanto non era in possesso dei dati necessari affinché potesse

giungere a una conclusione ben adeguatamente informata e priva di vizi323.

E’ certamente vero che il muro costruito da Israele di fatto si costituisca come una violazione del DIU, ma

tale conclusione doveva essere presa dopo aver esaminato la natura degli attacchi provenienti dai territori

occupati e il loro impatto sulla popolazione israeliana; mentre invece, procedendo senza considerare tale

questione, l’opinione perde di veridicità324.

Riguardo all’ammissibilità dell’art.51, il giudice ha ricordato che il CdS ha definito gli attacchi terroristici

come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazione e non ritiene che il luogo di provenienza degli

attacchi sia un’argomentazione valida perché la legittima difesa venga accantonata. Infatti, poiché la Linea

Verde viene considerata come linea di demarcazione tra Israele e i territori occupati, gli attacchi sono

imputabili a un territorio esterno a quello propriamente israeliano, quindi Israele avrebbe potuto debitamente

prendere misure per rispondere a questi attacchi sulla base dell’art. 51 della Carta e la Corte avrebbe dovuto,

successivamente, verificarne necessità e proporzionalità.325

Tuttavia, mancando un’analisi precisa riguardo alla natura degli attacchi suicidi di cui la popolazione

israeliana è vittima, Buergenthal ha ritenuto che non ci fossero le basi adeguate per poter decidere

320 Ibidem, par. 45 321 Ibidem, par. 47 322 Ibidem, par. 50 323 DECLARATION OF JUDGE BUERGENTHAL, http://www.icj-cij.org , estratto il 21 settembre 2017 da http://www.icj-

cij.org/files/case-related/131/131-20040709-ADV-01-05-EN.pdf, par. 1 324 Ibidem, par. 3 325 Ibidem, par. 6

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sull’ammissibilità del ricorso al diritto di legittima difesa invocato da Israele e, di conseguenza, che la Corte

non potesse sufficientemente appurare quanto la costruzione e il percorso del muro rispondessero

effettivamente ai criteri di necessità e proporzionalità richiesti per avvalersi di tale esimente326.

La mancanza di informazioni adeguate è, ancora una volta, alla base della critica mossa da Buergenthal in

merito alle conclusioni a cui è giunta la Corte in materia di diritti umani e DIU: le disposizioni richiamate,

nella misura in cui contengono delle eccezioni per motivi di necessità militare o ordine pubblico e sicurezza

nazionale, non sono state adeguatamente correlate all’obbligo del rispetto dei criteri di proporzionalità e

necessità; per quanto riguarda invece quegli articoli inderogabili, la Corte avrebbe dovuto tenere meglio in

considerazione le dichiarazioni fornite da Israele. In particolare, per quando riguarda il rispetto della

proprietà privata – Israele ha dichiarato che il muro non altera la proprietà dei terreni327- il giudice non ha

considerato necessario che i cittadini lesi ricevano alcuna restituzione o adeguato risarcimento328.

Ha tuttavia concordato con la Corte nel ritenere che il percorso del muro così considerato violi l’art. 49.6

della Convenzione di Ginevra e che i segmenti del muro eretti a protezione degli insediamenti israeliani nel

territorio occupato costituiscano ipso facto una violazione delle leggi internazionali umanitarie e che

difficilmente riuscirebbero a superare i criteri di proporzionalità e necessità richiesti affinché tale atto possa

classificarsi come una legittima misura di autodifesa329.

Infine, secondo lui, la Corte avrebbe dovuto declinare la richiesta dell’AG ed esercitare il suo potere

discrezionale poiché priva delle informazioni necessarie sul caso per potersi esprimere in merito.

Considerato che Israele non aveva alcun obbligo di prendere parte alla procedura, -trattandosi di un’opinione

consultiva e non di un contenzioso - tale mancanza potrebbe imputarsi a Israele stesso, che ha deciso di non

esprimersi sul merito330.

“While I have my own views on whether it was wise for Israel not to produce the requisite information, this

is not an issue for me to decide. The fact remains that it did not have that obligation. The Court may

therefore not draw any adverse evidentiary conclusions from Israel's failure to supply it or assume, without

itself fully enquiring into the matter, that the information and evidence before it is sufficient to support each

and every one of its sweeping legal conclusions”331.

326 Ibidem, par. 4 327 Ibidem, par. 8 328 Ibidem, par. 9 329 Ivi 330 Ibidem, par. 10 331Ivi

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CONCLUSIONI

Abbiamo avuto modo di evidenziare come l’opinione consultiva non possa vincolare gli Stati coinvolti al

rispetto degli obblighi in essa constatati; la sua funzione è bensì quella di fornire, agli organi politici

dell’Onu ,le linea guida da seguire per l’esercizio delle proprie funzioni. La specifica opinione della CIG ha

fallito in questo scopo. Infatti la CIG, nella parte in cui ha delineato le responsabilità in capo all’Onu – con

particolare riferimento all’AG e al CdS – si è limitata ad affermare che “should consider what further action

is required to bring to an end the illegal situation resulting from the construction of the wall and the

associated régime”332, senza fornire raccomandazioni concrete in grado di guidare efficacemente gli organi

politici dell’Organizzazione nello svolgimento dei loro compiti. La Corte si è semplicemente limitata ad

affermare ciò che secondo le norme era competente a constatare e null’altro all’infuori di questo. Oltretutto

bisogna sottolineare che la CIG, anche nell’adozione di un parere formalmente non vincolante, attua una

constatazione del diritto che di solito si impone anche in ragione dell’autorevolezza di cui la Corte gode.

Naturalmente ci sono delle eccezioni allorché sono coinvolti Stati importanti a livello internazionale che

mettono il DI a servizio delle loro politiche.

E’ importante a questo punto fare riferimento alla risoluzione A/RES/ES-10/15 (2 agosto 2004) che ha

seguito l’opinione. In quest’occasione, l’AG ha riaffermato il diritto del popolo Palestinese

all’autodeterminazione e l’illegalità di qualsiasi atto di violenza, ma anche di terrorismo e, tenendo conto del

parere della Corte, ha invitato Israele ad adempiere agli obblighi internazionali violati333. L’Assemblea ha

poi richiamato gli obblighi in capo agli Stati terzi, compresi gli obblighi in capo agli Stati parte delle

Convenzioni di Ginevra, invitando la Svizzera, in quanto Stato depositario, ad avviare delle consultazioni in

merito e farne rapporto334. Inoltre, con questa risoluzione è stato anche creato un registro contenente la lista

dei danni causati alle persone fisiche e giuridiche dalla costruzione del muro, affinché Israele potesse

debitamente procedere a un corretto e proporzionato risarcimento dei danni, come specificato dalla Corte nel

parere335. Ma anche questa risoluzione, come altre emesse nell’ambito della “questione palestinese”, non ha

dato risultati a livello pratico: il CdS non ha emanato alcuna risoluzione obbligatoria per mettere fine alla

situazione illegale creata dall’erezione del muro e, anche se avesse cercato di farlo, si può ben fondatamente

presumere che gli Stati Uniti avrebbero usato il loro potere di veto per bloccarla. Tale membro permanente è

stato infatti contrario all’emissione del parere fin dall’inizio - come chiarito nei paragrafi 10 e 11 di questa

tesi – e soprattutto in ragione del rapporto di alleanza esistente con Israele nella lotta al terrorismo, delineato

in quest’elaborato.

Oggi la barriera di separazione israeliana non solo è ancora lì, benché il suo percorso sia stato più volte

modificato e ampliato, ma si procede al suo completamento e la sua costruzione sembra sia finanziata

332 Advisory Opinion, par. 160 333 A/RES/ES-10/15, www.un.org, estratto il 22 settembre 2017 da

http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/ES-10/15 334 Ibidem, par.7 335 Ibidem, par. 4

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internazionalmente, tramite fondi della Banca Mondiale che mirano a rendere il muro sempre più “user

friendly”336. Dopo tredici anni dall’emissione del parere, Israele prosegue inesorabilmente a ergere il muro, a

bloccare intere comunità palestinesi in enclaves, a limitare il loro diritto all’autodeterminazione e la loro

libertà di movimento, a piegare un popolo alla propria volontà grazie alla creazione e al perfezionamento di

rapporti tipici di una dipendenza, oltre che convivenza, forzata.

Un’opinione consultiva, oltretutto, rappresenta anche un’occasione per dare corretta interpretazione o

implementare ulteriormente le norme del DI. In merito a ciò, la Corte non ha agito in maniera

sufficientemente adeguata rispetto al ruolo che riveste nella comunità internazionale. Ritengo infatti: che

essa avrebbe potuto affrontare la questione dello stato di necessità/esigenza militare, dedicare più attenzione

ai singoli articoli del DIU, o affiancare, ai doveri in capo agli Stati terzi - che nascono in virtù degli obblighi

erga omnes - dei compiti effettivi da svolgere, delle scadenze da rispettare o dei limiti entro cui agire, mentre

invece è rimasta nei limiti formali e astratti. Inoltre, essa avrebbe potuto dedicare una sezione a un

trattamento esaustivo dell’ammissibilità del ricorso al diritto di legittima difesa, specificando i casi ed

esaminando i limiti entro il quale uno Stato può agire in virtù di tale esimente; avrebbe potuto sottolineare

come il tipo di esigenza di ordine pubblico o sicurezza nazionale a cui Israele si è riferito non possa essere in

alcun modo proporzionata al regime che ha pianificato e realizzato tramite il muro e alle violazioni del DI

che la barriera ha comportato; avrebbe potuto affrontare la questione dell’ambito di applicazione del Patto

sui diritti civili e politici e quello sui diritti sociali, civili ed economici o sugli scopi delineati dall’art.1

comune alle quattro Convenzioni di Ginevra. A mio parere, la Corte ha dunque fallito quando ha deciso di

non esprimersi nel merito dell’esercizio reale e sostanziale delle funzioni delle Nazioni Unite, di cui è

organo soprattutto quando emette pareri.

Inoltre quest’organo consultivo ha effettivamente mancato, in quest’opinione, di considerare adeguatamente

i due lati della medaglia in quanto non al corrente di tutte le informazioni e i dati necessari per procedere a

un’analisi più ampia e accurata del caso specifico.

Con la mia ricerca sono pervenuta alla conclusione secondo cui il Muro rappresenta solo l’ultima e più

palese esternazione di un regime di occupazione che ha le sue radici nel 1967 e si è evoluto e perfezionato

nel corso del tempo fino a diventare un fait accompli che pesa nella quotidianità della vita dei cittadini, a cui

vengono applicati due pesi e due misure. Ciò è nato dalla volontà israeliana di imporsi sul territorio al fine di

ampliare la presenza ebraica nelle aree più densamente popolate della Palestina, in modo tale da impedire

qualsiasi futura possibilità di cessione di parte della Terra Santa. Israele ha governato la popolazione araba

direttamente dal 1967 e indirettamente dal 1994, da una parte non annettendo i territori occupati per evitare

di garantire loro il godimento dei diritti civili e politici – quali elettorato attivo e passivo -, dall’altra

sfruttando le risorse del territorio palestinese come se fossero le proprie. Ha infine istituzionalizzato questa

situazione creando un doppio sistema giuridico e morale che di fatto si realizza attraverso la separazione

336 SACHDEV, NEHA, From Illegality to Accepted Reality: Analysing the Impact of the I.C.J.’s Advisory Opinion on “The Wall”

in Palestine, The Socio-Legal Review, Volume 2, 2006, 66-84, pg. 83

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degli individui sulla base della “razza” in due gruppi di soggetti, i cittadini, che godono di pieni diritti, e i

non-cittadini, privi di qualsiasi diritti.

A questo proposito, ci tengo a riproporre il testo dell’art. 55 della IV Convenzione dell’Aja relativa alle leggi

e agli usi della guerra terrestre (1907): “Lo Stato occupante si considererà come amministratore

usufruttuario degli edifici pubblici, immobili, foreste e aziende agricole appartenenti allo Stato nemico e

situati nel paese occupato. Esso dovrà salvaguardare il capitale di tali proprietà e amministrarlo

conformemente alle regole dell’usufrutto”337.

Israele ha ribadito più volte il carattere temporaneo del muro e la natura del suo scopo, ovvero quello di

proteggere la propria popolazione civile dagli attacchi terroristici provenienti dai territori occupati. In questo

contesto però, il muro diventa una profezia che si auto-adempie: nel momento in cui si evidenzia che la

barriera effettivamente ha comportato una diminuzione, seppur minima, degli attacchi, allora ne sarà

rinforzato il carattere permanente al fine di rendere tale prospettiva più duratura e stabile possibile. Tuttavia

ciò non giustifica la costruzione della barriera in territorio palestinese.

Se, invece, con il termine “popolazione civile” intendiamo includere anche quella parte di popolazione che

risiede nelle colonie di popolamento israeliane, giustificando il percorso del muro con la volontà di

includerle nella “zona di sicurezza”, allora si ammetterebbe ipso facto anche l’annessione. Questo significa

che dovrebbe essere il popolo Palestinese ad appellarsi al diritto di legittima difesa. Infatti, benché la

costruzione del muro non sia propriamente classificabile come “attacco armato”, essa ha effettivamente leso

uno di quei beni che sono manifestazione degli attributi della sovranità statale, in questo caso specifico, il

territorio338. Nella ris. 3314 (XXIX) dell’AG, contenente la definizione di “aggressione”, all’art. 3(a) si

specifica che può ritenersi aggressione “the invasion or attack by the armed forces of a State of the territory

of another State, or any military occupation, however temporary, resulting from such invasion or attack, or

any annexation by the use of force of the territory of another State or part thereof”339. In questo contesto, gli

attacchi provenienti dai Territori Occupati, e dai quali Israele si protegge, potrebbero rientrare nella nozione

di legittima difesa. Inoltre, dal momento che i Palestinesi sono privati della propria autodeterminazione,

hanno diritto a ricevere assistenza da parte di Stati terzi nel corso di una guerra di liberazione nazionale in

base alla ris. 2625 (XXV) , secondo la quale “Every State has the duty to refrain from any forcible action

which deprives peoples referred to above in the elaboration of the present principle of their right to self-

determination and freedom and independence. In their actions against, and resistance to, such forcible

action in pursuit of the exercise of their right to selfdetermination, such peoples are entitled to seek and to

receive support in accordance with the purposes and principles of the Charter”340.

337 GREPPI EDOARDO; VENTURINI GABRIELLA, Codice di diritto internazionale umanitario, pg. 11: Convenzione (IV)

relativa alle leggi e agli usi della guerra terrestre (L’Aja, 18 ottobre 1907), art 55, pg. 11 338 Cfr. art. 1 della Convenzione di Montevideo, supra par. 9 339 A/RES/29/3314 , www.un.org , estratto il 23 settembre 2017 da http://www.un-documents.net/a29r3314.htm 340 Ivi

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Bisogna aggiungere che nell’immaginario comune israeliano, la sicurezza è diventata un problema così

urgente e onnipresente a livello di società - come testimoniato dalla supremazia israeliana nel counter-

terrosism - da diventare quasi una “religione civile”, chiamata “securatism”. In questa prospettiva, è il

dibattito sulla sicurezza che di fatto determina cambiamenti nelle policies interne ed estere341. Nelle parole

del professore Bar-Tal: “[The Wall] provides psychological barrier because the slogan at the moment is that

we need to separate from Palestinians and do not have any relationship. It is a kind of divorce, whereas the

other possibility will be reconciliation and the Wall provides a symbolic barrier. The Wall provides in the

minds of Israelis a kind of tangible barrier, so a kind of security, also if it really does not prevent terror

attacks, that can be carried in very easily despite the Wall.”342

Nel corso degli anni, la società israeliana e quella palestinese hanno sviluppato un sistema di valori e

credenze condivisi che le conduce inevitabilmente non solo a respingersi l’un l’altra, ma anche a evitare

qualsiasi tipo di contatto o discussione. A questo punto, i due popoli arrivano a essere così polarizzati da non

riuscire ad accettare un compromesso in cui sia necessario rinunciare a una pretesa ritenuta fondamentale per

i propri fini - come la convinzione per la quale gli ebrei dopo 2.000 anni di Diaspora abbiano la legittimità di

occupare i territori in questione, o l’idea che ai Palestinesi spetti la sovranità di Gerusalemme. L’opinione

della Corte deve essere inserita in questo contesto: dal momento in cui non è stata seguita da alcuna

realizzazione a livello pratico, essa si va semplicemente ad aggiungere a una già lunga lista di questioni

irrisolte, che alimentano il conflitto a ogni livello, rendendolo sempre più “intrattabile”. Fintantoché la

politica rispetto ai territori occupati verrà resa sempre più simile a una politica di segregazione, gli atti di

violenza continueranno e i popoli vivranno vicini ma divisi, la cultura della guerra continuerà a influenzare

ogni aspetto della vita quotidiana delle masse e a sviluppare un complesso sistema sociale e culturale che

prende il nome di “ethos of conflict”, definito come “a cluster of shared social beliefs that provide a unique,

general and dominant orientation to a society [...] an ethos evolves as a result of continuing experiences of

the society, and its beliefs lend meaning to societal life. The ethos, moreover, connects the society’s present

and its future goals and aspirations ”343. E’ molto importante che tale ideologia sia forte e presente nella

mente di ogni singolo individuo della società affinché si possa costituire come fattore unificante e

identificativo di un popolo, onnipresente nel patrimonio collettivo - come nei discorsi pubblici, nei libri di

scuola, in TV. Il sistema ideologico, creatosi e sviluppatosi dal 1967344, è stato oltretutto istituzionalizzato

fino alla sua conversione in una vera e propria policy.

La Corte non ha in alcun modo considerato tutto questo nel proprio parere. Eppure personalmente ritengo

che l’erezione del muro non possa essere scissa dalle questioni richiamate anzi, credo che le politiche

341 BAR-TAL, Daniel (2013), Intractable conflict. Socio-psychological foundations and dynamics, Cambridge, UK: Cambridge

University Press, pg. 174 342 Intervista personale fatta al Prof. Bar- Tal nell’aprile 2017 343 BAR-TAL, RAVIV, RAVIV, DGANI-HARISH (2009), The Influence of the Ethos of Conflict on Israeli Jew’s Interpretation

of Jewish-Palestinian Encounters, Journal of Conflict Resolution, Vol 53, Issue 1, pp. 94 – 118. doi: 10.1177/0022002708325942,

pg.95 344 Cfr. Par. 6

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israeliane nei territori occupati345 siano state pensate esattamente con lo scopo finale di conquistare

l’egemonia sulla zona e che i vari governi israeliani si siano impegnati in ogni modo pur di raggiungere il

risultato tanto agognato, finanche stabilire unilateralmente i propri confini e sfruttare la popolazione

Palestinese, al punto da spingerla a decidere autonomamente di lasciare la propria terra natia.

La politica che lo stato Israeliano ha condotto e sta continuando a perseguire è quella costruttivista, per cui le

azioni del governo saranno sempre considerate giuste alla luce e in riferimento al sistema di valori comune

alla società israeliana tutta. Un esempio di tale affermazione si può ritrovare negli ultimi accadimenti politici

israeliani: nonostante attualmente Netanyahu sia sospettato di essere coinvolto in scandali di corruzione e

favoreggiamento e sia accusato di limitare di fatto la libertà di espressione e di stampa, da un sondaggio

della rete israeliana Channel 2 è emerso che circa il 48% degli israeliani continuano a sostenerlo e si trovano

d’accordo con il suo modo di agire.

Recentemente oltretutto, in un report redatto dalla Commissione sociale ed economica delle Nazioni Unite

per il Medio Oriente (UNESCWA) – formata da 17 nazioni arabe e l’ANP – è stata denunciata l’esistenza di

un regime di apartheid nei Territori Occupati346. Anche se i due regimi non corrispondono stricto sensu,

effettivamente esistono delle similitudini tra l’apartheid e il regime di occupazione israeliano: l’obiettivo di

entrambi è quello di tendere a modificare la composizione demografica del territorio e a limitare le

possibilità di sviluppo a livello politico, sociale, economico e culturale a favore dell’ egemonia del popolo

“superiore”; entrambi infrangono i diritti umani di taluni cittadini, con detenzioni arbitrarie e ingiustificate;

ma, soprattutto, entrambi hanno come scopo quello di dividere la popolazione in due segmenti in base

all’etnia, con la creazione di un sistema che non permette i matrimoni misti e espropria le terre appartenenti

ai membri di una precisa etnia347.

La pace apparente si fonda su un equilibrio altrettanto precario, garantito dall’assoluto controllo delle forze

dell’IDF sui Territori Occupati e dalla politica di segregazione che il governo di Netanyahu sta attuando a

danno della popolazione civile palestinese. La guerra è diventata silenziosa, la protezione dei cittadini ebrei è

implementata da un’assidua presenza militare intorno alle colonie, la barriera di separazione ha ormai

raggiunto la lunghezza di circa 700 km, insidiandosi nel territorio palestinese a mo’ di serpente e

rinchiudendo i civili in enclaves, privandoli della libertà di movimento e perfino dell’accesso alle terre di

loro proprietà o ai pozzi d’acqua. I civili palestinesi devono sottostare all’autorità israeliana per poter andare

a lavorare, fare visita ai parenti, per andare al mercato. Le nuove bombe sono le case che il governo

israeliano erge nelle colonie, che accrescono in numero e grandezza, attirando la popolazione israeliana

grazie ai finanziamenti statali , al basso costo delle abitazioni e la loro prossimità ai più grandi centri urbani

345 esaminate ed analizzate dal 1948 ad oggi nel cap. II 346 ESCWA Launches Report on Israeli Practices Towards the Palestinian People and the Question of Apartheid,

https://www.unescwa.org , estratto il 23 settembre 2017 da https://www.unescwa.org/news/escwa-launches-report-israeli-

practices-towards-palestinian-people-and-question-apartheid 347 From UN.org, MULTILATERAL International Convention on the Suppression and Punish ment of the Crime of Apartheid.

Adopted by the General Assembly of the United Nations on 30 November 1973, https://treaties.un.org, estratto il 22 settembre da

https://treaties.un.org/doc/Publication/UNTS/Volume%201015/volume-1015-I-14861-English.pdf

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di Israele. La cultura del conflitto si è radicalizzata nei due contesti sociali e l’opera di narrativizzazione,

attuata attraverso i media, fomenta gli animi con la continua esposizione a morti che vengono pubblicizzati

come martiri. La barriera è ancora in costruzione, nonostante sia stata dichiarata illegale. L’Onu sembra

averne ormai accettato la natura di fatto compiuto. I Palestinesi non sono ancora riusciti a godere appieno dei

propri diritti in quanto popolo e in quanto appartenenti alla razza umana. E la comunità internazionale e gli

organi che dovrebbero occuparsi del mantenimento della pace e del rispetto delle disposizioni del DI

tacciono.

D’altronde il muro è sempre esistito, adesso è solo visibile.

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ABSTRACT

The Arab-Israeli conflict is a never-ending story. The critical situation in Palestine started a lot of years

before the well-known first Arab-Israeli conflict in 1948: since the Balfour's Declaration in 1917, the Jewish

immigration in the zone became more substantial and the Arabs’ fights became more violent.

The “Palestinian question” has to be contextualized in the process of decolonization and so, the current UN

responsibilities found a legal basis in the aim of the League of the Nations, that is the “sacred trust of

civilization”, that is referred to every population which lived in a colonized territory, so even the British

Mandate for Palestine of 1922.

The international organization, born after the II World War, took care of the matter from the very beginning,

when in 1948 the General Assembly with the res. 181 invited the two population to divide the sovereignty

over the contested territory (“Two State solution”). But this resolution was never realized, on the contrary, it

generated a long-based conflict which started when the Great Britain left the region.

The various conflicts which took place during the decades have created an occupation de facto of the

Palestinian territory ruled by Israel. In particular, from 1967 on, in the territories of West Bank and Gaza, the

Jewish State realized different policies in order to make the Palestinian population dependent upon Israel and

with the aim of imposing the Jewish demographic majority through the construction of settlements in the

occupied territories. These policies developed more and more since 2004, when Ariel Sharon, the Israeli

Prime Minister in this year, decided to construct a “security fence”, named a reinforced concrete wall, that is

8 metres high and about 700 kilometres long, erected on a route unilaterally chosen, with no regards to the

famous “Green Line” – settled between Israel and Palestine through the 1949 agreement. The wall closes

entire communities in enclaves, dividing the Palestinians from Palestinians and effectively limiting/denying

the right of self-determination of this people.

In this context, the advisory opinion of the International Court of Justice on the legal consequences of the

construction of a “Wall” in the Occupied Territories has a crucial importance because it frames the matter in

a legal background, taking into account the norms of international law that can be applied in such territories

and the relative duties for States. The analysis of the Court touches different sphere of the international law,

such as self-determination, the prohibition of the threat or the use of force, international humanitarian law

and human rights. The Court, with a quasi-unanimous decision, concluded that the construction of the

“Wall” and the annexed regime are contrary to the norms of international law. Consequently, Israel should

have to proceed to dismantle the barrier and to neutralize the effects of those normative acts which are aimed

to maintain the wall regime. In addition, the ICJ addressed obligations even to other States in the light of the

fact that Israel has violated erga omnes norms. These type of obligations are crucially important for the

international peace because they are considered by the totality of the States as principles that have to regulate

policies and acts of international actors. Then all States have the interest of protecting these norms and have

to do something in order to promote the respect of the rights that these norms are defending.

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In my thesis, I analyzed the “Palestinian question” framing it in a more wider context by considering the

relevant international laws but also the political and social aspects of it.

I started with the historical excursus of the matter, from the eruption of the Zionist movement in late 1800 to

nowadays, examining how Israel is born as a State, the four Arab-Israeli conflicts, giving particular attention

to the various resolutions released from UN’s organs on the matter and the consequent failed attempts of

reconciliation.

The second chapter is dedicated to the analysis of the same facts from a political point of view: by

describing the evolution of the various Israeli policies towards the Occupied Territories, it is highlighted

that the Wall is only the ultimate and more visible manifestation of a system which was created ad hoc to

limit the possibility of Palestinian people to develop in a political, social and economic level. This idea

depends on the Israeli will to impose its demographic majority over the most populated Palestinian areas in

order to avoid every future possibility of cession of the Holy Land. Israel governed over the Arab

population, directly from 1967 and indirectly from 1994, never annexing the Occupied Territories and its

inhabitants because the Jewish State did not want to give civil rights to Palestinians but its interest is only

exploiting the Arabs’ resources. At the end, Israel institutionalized this situation by creating a double legal

and moral system which is realized through the separation of the people based on “race”: so we have the

citizens, who have full rights, and non-citizens, who have no rights.

In the third chapter, I have brought the matter on a legal level: after a description of the Palestinian status in

the international community, I have described the circumstances which lead the GA to require an advisory

opinion to the ICJ on this specific issue: ““What are the legal consequences arising from the construction of

the wall being built by Israel, the occupying Power, in the Occupied Palestinian Territory, including in and

around East Jerusalem, as described in the report of the Secretary-General, considering the rules and

principles of international law, including the Fourth Geneva Convention of 1949, and relevant Security

Council and General Assembly resolutions?”348. Then, I have analyzed the reasons why the Court declared

itself competent to give the opinion and the reasons why the judges decided to use its discretional power to

answer to that question. In particular, they stressed the fact that this opinion was primarily addressed to the

organs of the UN in order to lead them to properly exercise their functions and to reach their aims which are

declared in the art. 1 of the Charter of the UN: “1)To maintain international peace and security, and to that

end: to take effective collective measures for the prevention and removal of threats to the peace, and for the

suppression of acts of aggression or other breaches of the peace, and to bring about by peaceful means, and

in conformity with the principles of justice and international law, adjustment or settlement of international

disputes or situations which might lead to a breach of the peace;2)To develop friendly relations among

nations based on respect for the principle of equal rights and self-determination of peoples, and to take

other appropriate measures to strengthen universal peace;3)To achieve international co-operation in

348 A/RES/ES-10/14, Illegal Israeli actions in Occupied East Jerusalem and the rest of the Occupied Palestinian Territory,

http://www.un.org, estratto il 22 agosto 2017 da http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/ES-10/14

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solving international problems of an economic, social, cultural, or humanitarian character, and in

promoting and encouraging respect for human rights and for fundamental freedoms for all without

distinction as to race, sex, language, or religion; and 4)To be a centre for harmonizing the actions of nations

in the attainment of these common ends.”349

The last chapter is dedicated to the advisory opinion itself. I chose to divide the opinion ratione materiae in

order to frame each violated disposition into its proper ambit of international law. proceeded by making a list

of the legal consequences for Israel and the other States resulting from the violation of these norms and the

relative duties of the UN. In particular, Israel has to dismantle the “Wall” in order to guarantee to

Palestinians all the rights violated, the other States have to not recognize the illegal situation created and

give no assistance or support aimed to its preservation. Finally, I have considerate the separated opinions of

some judges, which have not agreed on with the rest of the Court totally.

The advisory opinion itself cannot bind the States to respect the obligations decided from the Court, but, as

we have seen before, its aim is to guide the political organ of the UN in fulfilling their missions. This

particular opinion failed in this aim because it did not give any kind of practical recommendation which

could have helped the GA and the SC in implementing the judgement of the Court.

The consequent resolution of the GA, in which was re-affirmed the right of Palestinians to self-

determination, urged Israel to fulfill the international obligations that were violated, recalled the obligations

for third States and the latter ones for the States parties to the Geneva Conventions. But even this resolution

was not realized because the SC did not take in consideration to emanate any binding resolution and, even if

it would have done it, it is easily to suppose that the United States, which was contrary to the opinion from

the very beginning, had used their veto power in order to block it.

Today the wall is still there and, even though its route was modified and increased, Israel proceeds to

complete it in order to limit the freedom of movement of Palestinian people and to make them dependent on

Israel. The reason that Israel used to justify the Wall is security, the protection of its civil population from

terrorist attack coming from West Bank and Gaza. This motivation is not enough to explain why the Wall

was constructed not over the border of Israel, but in the West Bank.

In such a way, Israel has violated an important attribute of Palestine sovereignty: the territory. So even if the

Israeli act cannot be classified as “armed attack”, the resolution 3314 (XXIX) defined as aggression “the

invasion or attack by the armed forces of a State of the territory of another State, or any military occupation,

however temporary, resulting from such invasion or attack, or any annexation by the use of force of the

territory of another State or part thereof”350. In this view, the attack coming from the Occupied Territories

can be justified as legitimate self-defense.

349 UN Charter, http://www.un.org, estratto il 1 ottobre 2017 da http://www.un.org/en/sections/un-charter/un-charter-full-

text/index.html 350 A/RES/29/3314 , www.un.org , estratto il 23 settembre 2017 da http://www.un-documents.net/a29r3314.htm

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In addition, Palestinians, who are deprived of their right of self-determination, have the right to receive

assistance from other States, as described in the res. 2625: ““Every State has the duty to refrain from any

forcible action which deprives peoples referred to above in the elaboration of the present principle of their

right to self-determination and freedom and independence. In their actions against and resistance to, such

forcible action in pursuit of the exercise of their right to self-determination, such peoples is entitled to seek

and to receive support in accordance with the purposes and principles of the Charter”351.

Most importantly, it is crucial to emphasize that, during the years, Israeli and Palestinians societies have

developed a system of shared beliefs that lead them to avoid any kind of contact or discussion with the other

one. The two societies are so polarized that none of them could agree to a compromise in which one of them

has to give up some of its most important claims, like the belief for which the Jewish, after 1,000 years of

Diaspora, have the legitimacy to occupied these territories, or the belief for which the sovereignty of

Jerusalem belongs to Palestinians, because of its holy status, or the Palestinians blames for settlers. The

advisory opinion has to be added to the already long list of unsolved questions which alimented the conflict

in every level, making it more and more “intractable”. As long as the policy in the Occupied Territory will

be similar to a segregation policy and the populations will live close to one another but divided, the culture

of war will continue to influence every aspect of the masses’ life in order to develop a complex social and

cultural system named “ethos of conflict” which is “a cluster of shared social beliefs that provide a unique,

general and dominant orientation to a society [...] an ethos evolves as a result of continuing experiences of

the society, and its beliefs lend meaning to societal life. The ethos, moreover, connects the society’s present

and its future goals and aspirations ”352.

So the policy that Israel follows is the constructivist one, by which the government’s decisions will ever be

considered the right ones in the light of this system of shared value spread all over the Israeli society.

Moreover, the Israeli policies over the West Bank have the aim of allowing the Jewish State to achieve the

hegemony over the zone and, overall, with the erection of the Wall, Israel has unilaterally defined its border,

by including in the “safe zone” the Israeli settlers and by violating Palestinians’ rights as people and as

human beings.

351 Ivi 352 Bar-Tal, Raviv, Raviv, Dgani-Harish (2009), The Influence of the Ethos of Conflict on Israeli Jew’s Interpretation of Jewish-

Palestinian Encounters, Journal of Conflict Resolution, Vol 53, Issue 1, pp. 94 – 118. doi: 10.1177/0022002708325942, pg.95

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