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1 Isola Nera 1/14 Casa di poesia e letteratura. SPECIALE MONDO ARABO La prima in Sardegna, in Italia, aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana. Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace. Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione. [email protected] - Giugno 05 - Lanusei, Sardegna Dovevi acquistar potere sui tuoi pro e contro, e imparare a innestarli e disinnestarli a seconda del tuo scopo superiore. Dovevi imparare a capire quanto c’è di prospettico in ogni definizione di valore –lo spostamento, la distorsione, e l’apparente teleologia degli orizzonti e quanto altro fa parte del prospettico; e anche quel tanto di stupidità che si riferisce ad ogni contrapposizione di valori, e tutto lo scapito intellettuale con cui si paga ogni pro e contro. Dovevi imparare a capire la necessaria ingiustizia insita in ogni pro e contro, l’ingiustizia come elemento inscindibile della vita, e la vita stessa come condizionata dalla visione prospettica, e dalla sua ingiustizia. Dovevi soprattutto vedere con i tuoi occhi dove l’ingiustizia raggiunge il massimo grado: ossia là, dove la vita è meno sviluppata, più angusta, manchevole, rozza, e ciononostante non può fare a meno di porsi a scopo e misura delle cose (…) dovevi vedere con i tuoi occhi il problema della gerarchia, e come la forza, il diritto e l’ampiezza della prospettiva si sviluppino assieme.” (Friedrich Wilhelm Nietzsche) Nazim Hikmet Turchia Prima di tutto l'uomo Ragazzo mio, io non ho paura di morire. Tuttavia, ogni tanto mentre lavoro nella solitudine della notte, ho un sussulto nel cuore; saziarsi della vita, figlio mio, é impossibile. Non vivere su questa terra come un inquilino, o come un villeggiante stagionale. Ricorda: in questo mondo devi vivere saldo, vivere come nella casa paterna. Credi al grano, alla terra, al mare,

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Isola Nera 1/14 Casa di poesia e letteratura.

SPECIALE MONDO ARABO

La prima in Sardegna, in Italia, aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana.

Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace.

Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione. [email protected] - Giugno 05 - Lanusei, Sardegna

“Dovevi acquistar potere sui tuoi pro e contro, e imparare a innestarli e disinnestarli a seconda del tuo scopo superiore. Dovevi imparare a capire quanto c’è di prospettico in ogni definizione di valore –lo spostamento, la distorsione, e l’apparente teleologia

degli orizzonti e quanto altro fa parte del prospettico; e anche quel tanto di stupidità che si riferisce ad ogni contrapposizione di valori, e tutto lo scapito intellettuale con cui si paga ogni pro e contro. Dovevi imparare a capire la necessaria ingiustizia insita in ogni pro e contro, l’ingiustizia come elemento inscindibile della vita, e la vita stessa come condizionata dalla visione prospettica, e dalla sua ingiustizia. Dovevi

soprattutto vedere con i tuoi occhi dove l’ingiustizia raggiunge il massimo grado: ossia là, dove la vita è meno sviluppata, più angusta, manchevole, rozza, e ciononostante non può fare a meno di porsi a scopo e misura delle cose (…) dovevi vedere con i tuoi occhi il problema della gerarchia, e come la forza, il diritto e l’ampiezza della prospettiva

si sviluppino assieme.”

(Friedrich Wilhelm Nietzsche)

Nazim Hikmet Turchia Prima di tutto l'uomo Ragazzo mio, io non ho paura di morire. Tuttavia, ogni tanto mentre lavoro nella solitudine della notte, ho un sussulto nel cuore; saziarsi della vita, figlio mio, é impossibile. Non vivere su questa terra come un inquilino, o come un villeggiante stagionale. Ricorda: in questo mondo devi vivere saldo, vivere come nella casa paterna. Credi al grano, alla terra, al mare,

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ma prima di tutto- all'uomo. Ama la nuvola, il libro, la macchina, ma prima di tutto- l'uomo. Senti in fondo al cuore il dolore del ramo che secca, della stella che si spegne, della bestia ferita, ma prima di tutto- il dolore dell'uomo. Godi di tutti i beni terrestri, del sole, della pioggia, della neve, dell'inverno e dell'estate, del buio e della luce, ma prima di tutto- godi dell'uomo.

Le mille foglie

di uno stesso albero

“ Uno scrittore suggerì su un giornale mussulmano che, se consideravo l’Islam una religione ispirata e Maometto il profeta di Dio, avrei dovuto dichiararlo esplicitamente, per dissipare i dubbi dei mussulmani e consentire un raggiungimento senz’altro più agevole dell’unità indo-mussulmana. Lessi la proposta circa un mese fa, ma non ritenni necessario rispondere. Visto, però, che oggigiorno leggo più giornali mussulmani che posso, per familiarizzarmi con la mentalità mussulmana, e visto che li trovo così pieni di veleno e menzogne più o meno consapevoli, ritengo necessario ribadire le mie convinzioni sull’Islam, benché mi paiano del tutto note. Considero senz’altro l’Islam una delle religioni ispirate, quindi anche il Sacro Corano un libro ispirato e Maometto uno dei profeti. Ma la stessa cosa penso dell’ Induismo, del Cristianesimo, dello Zoroastrismo, religioni anch’esse ispirate. Di molte altre si sono già dimenticate i nomi, per la semplice ragione che tali religioni e tali profeti erano legati alle particolari epoche e comunità per le quali erano sorte. Alcune delle religioni principali sopravvivono ancora. Dopo uno studio il più accurato possibile di tali religioni, sono giunto alla conclusione che, se è opportuno e necessario scoprire una sottesa unità fra tutte le religioni, occorre procurarsi un passe -partout: quello della verità e della non-violenza. Se apro lo scrigno di una religione con tale passe -partout, non trovo difficile scoprirne le somiglianze con le altre. Se guardiamo alle religioni come alle mille foglie di un albero, ci sembrano tutte differenti, ma tutte riconducono a uno stesso tronco. Finchè non riusciremo a intuire tale unità di fondo, non sapremo far cessare le guerre condotte in nome della religione, che non riguardano soltanto gli induisti e i mussulmani. Le pagine della storia del mondo sono tutte lordate dei sanguinosi racconti delle guerre di religione. Solo con la purezza e le buone azioni dei seguaci si può difendere la religione, mai con la contrapposizione a chi professa altre fedi. “

Gandhi, “L’Islam è ispirato?” –apparso su Notes-

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Libri del sempre Libri del sempre Libri del sempre Libri del sempre Libri del sempre Libri del sempre

THE PROFET di G.Kahlil Gibran oscillazione religiosa e tensione culturale

Almustafa, il prescelto e l’amato, che fu come un’alba nel suo giorno, aveva atteso dodici anni nella città di Orphalese che la sua nave tornasse per ricondurlo all’isola natale. E nel dodicesimo anno, il settimo giorno di Ielool, il mese delle messi, salì sulla collina fuori le mura della città e guardò il mare; e vide la nave venire nella nebbia. Allora gli si aprirono le porte del cuore, e la sua gioia volò lontano sul mare. E chiuse gli occhi e pregò nei silenzi dell’anima. Ma mentre discendeva la collina, fu invaso dalla tristezza, e pensò nel suo cuore: Come andarmene in pace e senza pena? Ahimè, non senza una piaga nello spirito lascerò questa città. Lunghi furono i giorni di dolore vissuti dentro le sue mura, e lunghe furono le notti in solitudine; e chi può lasciare il suo dolore e la sua solitudine senza rimpianto? Troppi brandelli dello spirito ho seminato in queste vie, e troppi figli del mio anelito camminano nudi fra queste colline, e io non posso staccarmene senza un peso e un dolore. Non è un vestito che mi tolgo, quest’oggi, ma una pelle che strappo con le mie proprie mani.. Né è un pensiero che lascio dietro di me, ma un cuore addolcito dalla fame e dalla sete.

E tuttavia non posso trattenermi più a lungo. Il mare che chiama a sé tutte le cose mi chiama, e io devo imbarcarmi. Perché restare, sebbene brucino le ore della notte, è gelare diventare cristallo, ed

essere fissati in uno stampo. Vorrei prendere con me tutto quello che è qui. Ma come potrò farlo? Una voce non può trascinare la lingua e le labbra che le diedero le ali. Da sola, deve cercare l’etere.

E sola e senza il nido dovrà volare l’aquila da un punto all’altro del sole. Così, quando ebbe raggiunto i piedi del colle, si volse ancora verso il mare, e vide la sua nave approssimarsi al porto, e a prua i marinai, uomini della sua patria. (…) E i sacerdoti e le sacerdotesse gli dissero: Non lasciare che le onde del mare ci separino e che gli anni trascorsi in mezzo a noi diventino solo un ricordo. Sei passato fra noi come uno spirito, e la tua ombra ha illuminato i nostri volti. Molto ti abbiamo amato. Ma il nostro amore è stato muto, e coperto di veli. Eppure ora grida a te, e vuole starti davanti senza veli. E’ sempre accaduto che l’amore abbia ignorato quanto fosse profondo fino al momento del distacco. E altri vennero a pregarlo. Ma egli non rispose. Chinò solo la testa; e quelli che gli stavano vicino videro le sue lacrime scivolargli sul petto. E seguito dal popolo, avanzò verso la grande piazza davanti al tempio. E dal santuario uscì una donna, il cui nome era Almitra. Ed era una veggente. Ed egli la guardò con grande tenerezza, perché era stata la prima a cercarlo e a credere in lui quando era arrivato nella loro città da appena un giorno. Ed ella lo salutò, dicendo: Profeta di Dio che vai alla ricerca delle cose supreme, a lungo hai scrutato l’orizzonte cercando la tua nave. E ora la nave è arrivata e tu devi partire. Profonda è la tua ansia per la terra dei tuoi ricordi, per la dimora dei tuoi più grandi desideri; il nostro amore non ti legherà né sarai trattenuto dai nostri bisogni. Ma questo ti chiediamo, prima di lasciarci, che tu ci parli e ci trasmetta la tua verità. Noi la trasmetteremo ai nostri figli, ed essi ai loro, e non perirà. Nella tua solitudine hai sorvegliato i nostri giorni, e nell’insonnia ci hai udito piangere e ridere nel sonno. Aprici ora a noi stessi, e rivelaci quello che ti è stato mostrato di ciò che esiste tra la nascita e la morte. Ed egli rispose: popolo di Orphalese, di che posso parlare, se non di cose che anche in questo momento vi commuovono l’anima?

Allora Almitra disse: parlaci dell’Amore.

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Ed egli sollevò il capo e guardò il popolo, e una gran pace discese su di loro. E a voce alta disse. Quando l’amore vi fa cenno, seguitelo, benché le sue strade siano aspre e scoscese. E quando le sue ali vi avvolgono, abbandonatevi a lui, benché la spada che nasconde tra le penne possa ferirvi. E quando vi parla, credetegli, anche se la sua voce può mandare in frantumi i vostri sogni come il vento del nord lascia spoglio il giardino. Perché come l’amore v’incorona così vi crocefigge. E come per voi è maturazione, così è anche potatura. E come ascende alla vostra cima e accarezza i rami più teneri che fremono al sole, così discenderà alle vostre radici che scuoterà dove si aggrappano con più forza alla terra.

Come fastelli di grano, vi raccoglierà. Vi batterà per denudarvi.

Vi passerà al crivello per liberarvi dalla pula. Vi macinerà fino a farvi farina.

Vi impasterà fino a rendervi plasmabili. E poi vi assegnerà al suo fuoco sacro, perché possiate diventare il pane sacro nei sacri conviti di

Dio. Tutto questo farà in voi l’amore, affinchè conosciate i segreti del cuore, e in quella conoscenza diventiate un frammento del cuore della Vita. Ma se avrete paura, e cercherete soltanto la pace dell’amore ed il piacere dell’amore, allora è meglio che copriate le vostre nudità, e passiate lontano dall’aia dell’amore, nel mondo senza stagioni dove potrete ridere, ma non tutto il vostro riso, e piangere, ma non tutto il vostro pianto. L’amore non dà nulla all’infuori di sé, né prende nulla se non da se stesso. L’amore non possiede né vuol essere posseduto, perché l’amore basta all’amore. Quando amate non dovreste dire: Dio è nel mio cuore ma, semmai, sono nel cuore di Dio. E non crediate di guidare il corso dell’amore, poiché l’amore, se vi trova degni, guiderà lui il vostro corso. L’amore non desidera che il proprio compimento. Ma se amate e quindi avete desideri, i vostri desideri siano questi:

sciogliersi e farsi simili a un ruscello che scorra e canti alla notte la sua melodia. Conoscere il martirio della troppa tenerezza.

Esser feriti dal vostro proprio intendere l’amore. E sanguinare di buon grado, gioiosamente.

Svegliarsi all’alba con un cuore alato e dire grazie a un nuovo giorno d’amore; riposare nell’ora meridiana e meditare sull’estasi amorosa;

tornare a casa con gratitudine la sera; e addormentarsi con una preghiera per chi amate nel cuore, e un canto di lode sulle labbra.

Allora Almitra parlò di nuovo e disse: Che cosa puoi dirci del Matrimonio, maestro? Ed egli rispose, dicendo: voi siete nati insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni. Si, starete insieme anche nella memoria silenziosa di Dio. Ma che ci siano spazi nel vostro stare insieme. E che i venti del cielo danzino tra di voi. Amatevi vicendevolmente, ma il vostro amore non sia una prigione: lasciate piuttosto un mare ondoso tra le due sponde delle vostre anime. Riempitevi la coppa uno con l’altro, ma non bevete da una sola coppa. Scambiatevi a vicenda il vostro pane, ma non mangiate dallo stesso pane. Cantate insieme e danzate e siate allegri, ma che ciascuno sia solo. Come le corde di un liuto, che sono sole, anche se vibrano per la stessa musica.

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Datevi il vostro cuore, ma non lo date in custodia uno dell’altro. Perché solo la mano della Vita può contenere i vostri cuori. E siate insieme ma non troppo vicini: poiché le colonne del tempio sono distanziate, e la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro. (…) E un oratore disse: parlaci della libertà. Ed egli rispose: alle porte della città e accanto al focolare, io vi ho veduto prosternarvi e adorare la vostra libertà. Anche gli schiavi si umiliano davanti al tiranno e lo lodano anche quando li ammazza. Ahimè, nel boschetto del tempio e all’ombra della cittadella ho visto i più liberi tra voi indossare la loro libertà come un giogo ed un ceppo. E il mio cuore sanguinava: perché non potrete essere liberi finchè perfino il desiderio di cercare la libertà non vi sembri una briglia, e non avrete cessato di parlarne come di una meta e un compimento. Sarete liberi, infatti, non quando i vostri giorni saranno privi di ansie e le notti senza un bisogno o una pena, ma quando queste cose vi stringeranno come una cintura e saprete innalzarvi al di sopra di esse nudi e sciolti. Ma come potrete innalzarvi oltre i giorni e le notti se non rompendo le catene che all’alba della vostra comprensione avete stretto intorno all’ora meridiana? In verità, ciò che chiamate libertà è la più resistente di tali catene, benché i suoi anelli brillino al sole

e abbaglino i vostri occhi. E che cosa volete eliminare per essere liberi se non brandelli di voi stessi? Se è una legge ingiusta che volete abolire, l’avete scritta sulla fronte con le vostre mai. Non la potete cancellare, né bruciando i vostri libri di diritto, né lavando le fronti dei giudici, anche versandovi su il mare. E se è un despota che volete deporre, badate prima a distruggerne il trono eretto in voi. Perché un tiranno come può governare uomini liberi e orgogliosi se non tiranneggiando la loro libertà e calpestando il loro orgoglio? E se è una noia che volete scacciare, essa fu scelta da voi più che imposta dagli altri. E se è un timore che volete fugare, la sua sede è nell’animo vostro, non nella mano di chi temete. In verità, tutte le cose muovono dentro il vostro essere in un perenne semi abbracciamento, quelle desiderate e le temute , le ripugnanti e le amate, le perseguite e quelle che vorreste evitare. Esse muovono in voi come ombre e luci in stretto accoppiamento. E quando l’ombra svanisce e non è più, la luce che indugia diventa un’ombra per un’altra luce. Cos’ la vostra libertà, appena perde le catene, diventa essa stessa la catena per una maggiore libertà.

Gibran Kahlil Gibran - Cfr. Il Profeta-

Il suo potere proveniva da qualche grande riserva di vita spirituale altrimenti non sarebbe stato così universale e potente, ma la maestà e la bellezza del linguaggio con cui lo rivestiva erano tutte sue.

Claude Bragdon

Un attimo, un istante di riposo nel vento, e un’altra donna mi partorirà. L’ultima riga del Profeta potrebbe essere quasi assunta ad emblema dell’esistenza e dell’opera di G. Kahlil Gibran. Nato a Bisharri, villaggio del Libano settentrionale, il 6 dicembre 1883; Gibran è stato costantemente teso tra due grembi, sospeso tra due madri e generato, attraverso due parti, come uomo dalle due anime. E questa oscillazione ha creato in lui tensione e sincretismo, non è mai riuscita a placarsi in un connubio sereno, in un’armonia. Decisive, per lui, saranno due opere, i Canti di W. Blake e, in versione francese, Così parlò Zarathustra di Nietzsche più volte definito dal Gibran “un Dioniso sobrio”. Da queste opere il G. assumerà, in modo non sempre esaltante, il simbolismo tenebroso, l’esasperazione tematica, il furore oracolare. Era proprio su questa tonalità che egli tentava di coniugare fantasia e stilistica orientale con l’espressione occidentale. Gibran ha usato penna e pennello. E’ stato pittore stimato, attento a filtrare l’arte occidentale con lo sguardo dell’uomo d’Oriente, come attestano quei Venti Disegni, che furono anche l’ultimo suo impegno consistente nella pittura. Ma è soprattutto con la prosa ritmata e cantata, dominante nei suoi scritti inglesi fin dalla prima opera, che Gibran conia la sua cifra stilistica personale, cifra che gli assicurerà una fama straordinaria già in vita, soprattutto a livello popolare. Ebbene, l’arte di Gibran oscilla tra folgorazione e banalità, genialità e

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sermone didascalico, immagine e farragine, sorpresa e maniera. E’ sua la visione panteistico-evolutiva sintetizzata nel camminare insieme verso il nostro “io divino come una processione” e Il Profeta, parabola inquadrata in una storia minima ed articolata in ventisei “lezioni” sui temi maggiori dell’esistenza: amore, matrimonio, figli, cibo, ragione / passione ed altro; ne è prova suggestiva. Protagonista è appunto il Profeta per eccellenza che, col nome proprio di Almustafa (in arabo “il prediletto”), rimanda alla tradizione islamica a Maometto. In realtà il profilo ha lineamenti che evocano anche i profeti biblici. L’antefatto è semplice: Almustafa sta per lasciare la città di Orphalese per ritornare all’isola natale: Per dodici anni ha atteso la nave che l’avrebbe condotto verso questa “isola dei beati” (la società iperborea di Nieztsche?). Alle spalle ha “lunghi giorni di dolore” vissuti dentro le mura della città e “lunghe notti di solitudine” che ora lascia con rimpianto. Attorno a lui si accalca una folla che lo vuole interrogare. In essa spicca la veggente Almitra, colei che apre e chiude il fuoco di fila delle domande con gli interrogativi capitali, colei che resterà sul molo oramai deserto a contemplare la nave finchè svanirà nella nebbia. Si è spesso discusso sul valore allegorico della storia che fa da cornice, come nel libro biblico di Giobbe, al canto centrale. L’amico e biografo Mikhail Naimy ha sostenuto la tesi –secondo lui suggeritagli dallo stesso Gibran- della metafora autobiografica. Almustafa sarebbe, quindi, lo stesso autore, i dodici anni di attesa della nave sarebbero un’immagine del soggiorno americano di Gibran, Orphalese New York, “l’isola natale” il Libano, in Almitra s’intravederebbe l’amica-benefattrice Mary Haskell e nella promessa del ritorno a Orphalese la fede nella reincarnazione. Certo è che lo stesso autore aveva confessato di aver sempre sentito dentro di sé quest’opera e di averla concepita sui monti del Libano fino a diventare parte del suo essere. La stessa epigrafe dettata dagli amici sulla tomba di Gibran suona in arabo così: “qui giace il nostro profeta Gibran”. Può sembrare comunque che la metafora autobiografica intenzionalmente ammicchi a un simbolismo universale. Orphalese è un’immagine abbastanza trasparente del mondo e della sua vita; l’isola nativa è l’assoluto, la vita eterna, l’isola dei beati dei miti escatologici orientali (si pensi all’accadica Epopea di Gilgamesh), è il canneto vivo da cui è stato tagliato il flauto della vita. Non a caso l’ultima risposta del Profeta ha per tema la morte ed è l’inaugurazione del viaggio verso l’eternità dopo l’esilio dell’esistenza terrena, facilmente riscontrabile nei Canti del Blake. “ Se anche cantate come gli angeli, e non amate il canto, chiuderete le vostre orecchie alle voci del giorno e

della notte”. Cfr. Gianfranco Ravasi, commentario

favola dall'Arabia Lo sciacallo e la divisione della parti Un leone, una tigre, una pantera e uno sciacallo andarono a caccia insieme. Cacciarono a lungo e presero una gazzella, un cinghiale e una lepre. Quando la caccia fu finita il leone disse alla tigre: "Ora, tigre, dividi il bottino tra noi."La tigre ci pensò su e poi fece . "Al leone va la gazzella,io prenderò il cinghiale, lo sciacallo e la pantera si divideranno la lepre." Quando il leone sentì ciò, divenne furibondo e balzò sulla tigre. Con una zampata le ruppe le gambe e poi esclamò: "Tigre, tu non sai fare le divisioni.Prova tu, sciacallo." Lo sciacallo prese la gazzella, la depose ai piedi del leone e disse: "Ecco,potente leone, questa è la tua colazione." Poi prese il cinghiale, depose anche quello ai piedi del leone e disse: "Questo, potente leone, è il tuo pranzo. Noi altri ci sfameremo con la lepre." "Molto bene, ruggì il leone"questo tipo di divisione mi piace. Dimmi,sciacallo, chi ti ha insegnato a fare così bene le divisioni? " "Me l'hanno insegnato le zampe rotte della tigre,potente leone!" rispose lo sciacallo.

In un Dialogo di pace

Lo slogan scelto è “Vincere la paura per costruire la pace”. Nel numero speciale ( de il Dialogo, N.d.R.) oltre ad un editoriale, abbiamo riportato la relazione conclusiva di Brunetto Salvarani ai Cantieri del Dialogo di Verona, il documento letto a Greccio in occasione di un incontro di dialogo interreligioso promosso dal "Forum Internazionale Civiltà dell'Amore" che aderisce al nostro appello, l’ultimo comunicato stampa della scorsa edizione insieme ad un elenco dei firmatari delle passate edizioni.

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Scopo dei materiali è quello di essere utilizzati nel corso degli incontri estivi per approfondire la problematica e per raccogliere adesioni ed organizzare iniziative. A settembre, poi, lanceremo un primo comunicato stampa seguendo lo schema che abbiamo già sperimentato gli scorsi anni. Invitiamo chi vuole aderire a diffondere ulteriormente l’appello ed i successivi comunicati stampa a tutti i propri contatti. Augurandoci che anche quest’anno possa esserci attenzione e mobilitazione dal basso su tale questione, porgiamo a voi tutti/e i più cordiali auguri di Shalom-salaam-pace / Il comitato organizzatore

Appello ecumenico per la quarta giornata del dialogo cristianoislamico del 28 ottobre 2005

«Chi ama Dio non ha nessuna religione, a meno dello stesso Dio». Così si esprimeva il grande Rumi, mistico dell’islam del tredicesimo secolo. Parole altrettanto forti ritroviamo nel Vangelo di Giovanni nel dialogo fra Gesù e la samaritana quando le diceva: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità». E oggi più che mai è importante riandare a queste radici profonde dei cristiani e dei musulmani per ridare slancio al dialogo fra credenti nell’unico Dio ma di tradizioni diverse, per affermare con la vita in comune il principio dell’unità nella diversità. Unità dell’umanità nel suo essere immagine di Dio; diversità che si manifesta nella diversità di culture, di lingue, di modi diversi di vivere il proprio rapporto con il mistero di Dio di cui nessuno può dichiararsi padrone e di cui appena possiamo balbettare qualcosa. Non si tratta di rinunciare alla propria fede ma di viverla in relazione a quella degli altri, mettendo l’accento sulla nostra comune umanità, sul nostro essere tutti figli e figlie di Dio che ha dato a tutta l’umanità il comandamento dell’amore: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. E sono queste le idee di fondo che anche quest’anno ci spingono a riproporre per la quarta volta consecutiva la celebrazione di una giornata di dialogo fra cristiani e musulmani. Come negli altri anni indichiamo l’ultimo venerdì del prossimo ramadam che cadrà il 28 ottobre 2005. Dalla scorsa edizione molte sono state le iniziative di dialogo fra le religioni che si sono svolte. Le iniziative di dialogo cristinoislamico sono proseguite a Torino, Bologna, Firenze, Verona, Greccio, Roma, Napoli. La fiammella del dialogo non si è mai spenta nonostante i venti impetuosi di scontro fra le religioni che ancora soffiano con forza per produrre nuove guerre, nuovi lutti e disastri per tutta l’umanità. Come negli altri anni questa iniziativa è affidata unicamente alla volontà dei singoli che dal basso si mettano in movimento per cercare altri credenti di altre fedi con cui parlare e dichiarare al mondo la propria volontà di pace. Come negli altri anni non abbiamo grandi mezzi ed anzi non li vogliamo. Vogliamo contare solo ed esclusivamente sulle debolezze di ognuno che quando si unisce alle debolezze degli altri è capace di produrre grandi cambiamenti. Vi invitiamo perciò a riproporre la tematica del dialogo cristianoislamico in tutti i luoghi dove vivete la vostra vita religiosa, in tutti i convegni a cui parteciperete, in tutte le associazioni che in qualche modo hanno a che fare con l’immigrazione. Si tratta di un argomento vitale da cui dipende la nostra stessa sopravvivenza. Anche quest’anno contiamo sull’appoggio di una serie di riviste, che di seguito riportiamo. Ci auguriamo che altre se ne possano aggiungere alla lista e che tutte riescano a riscoprire la forza del proprio essere “piccole ma buone”. Ci auguriamo che le comunità musulmane ed i singoli credenti rispondano anche quest’anno con lo stesso slancio degli scorsi anni. Entrambi, cristiani e musulmani, stiamo vivendo un attacco forsennato alle nostre comuni radici abramitiche da parte di chi è portatore di valori quali lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la corsa sfrenata agli armamenti, la mercificazione della persona umana, l’affamamento di miliardi di esseri umani mentre migliaia di miliardi di dollari vengono ogni anno spesi per armamenti che possono distruggere il mondo molte volte. Occorre una inversione di tendenza che parta dal cuore degli uomini e delle donne di buona volontà, qualsiasi sia la religione a cui appartengono. Ci auguriamo che anche quest’anno questo momento di dialogo fra cristiani e musulmani possa essere foriero di un più vasto dialogo interreligioso. Sottoscrivono e promuovono l’appello le seguenti riviste e associazioni: ADISTA, Via Acciaioli n.7 - 00186 Roma- Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688 Fax +39 06 686.58.98- E-mail [email protected] - http://www.adista.it Confronti, Roma, 06 4820503; 06 48903241; fax 06 4827901; [email protected] - http://www.confronti.net/ CEM - Mondialità, Via Piamarta 9 - Brescia 25121; tel 030-3772780; fax 030-3772781; mail: [email protected] - http://www.saveriani.bs.it/cem "Forum Internazionale Civiltà dell'Amore" Via Roma, 36-02100 RIETI.Tel. 0746. 750127 fax: 0746. 751776 -Email: [email protected]

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il dialogo -periodico, Via Nazionale, 51, 83024 Monteforte Irpino (Avellino) tel. 3337043384 - http://www.ildialogo.org/ [email protected] Isla Negra & Isola Nera - Casa di poesia e Letteratura, Via Caprera, 6, 08045 Lanusei - www.giovannamulas.it - [email protected] La nonviolenza è in cammino. Foglio quotidiano del Centro di ricerca per la pace di Viterbo, Direttore responsabile: Peppe Sini.Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: [email protected] Missione Oggi Via Piamarta 9 - Brescia 25121, tel 030-3772780; [email protected] -http://www.saveriani.bs.it/Missioneoggi Mosaico di Pace , Via Petronelli n.6. 70052 Bisceglie (Bari), tel. 080/[email protected], http://www.mosaicodipace.it Notam, Lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano.Corrispondenza: Giorgio Chiaffarino - Via Alciati, 11- 20146 MILANO- [email protected] - www.ildialogo.org/notam QOL, voce per il dialogo tra le religioni e le culture, Pa Unità d’Italia 8 42017 NOVELLARA (RE), tel.0522-654251; [email protected] -http://www.qolrivista.it Tempi di Fraternità, Torino , c/o Centro Studi "Domenico Sereno Regis"- Via Garibaldi 13,10122 Torino - tel. 0141- 218291 ; 011 - 9573272 ;fax 02700519846, http://www.tempidifraternita.it/ [email protected] Volontari per lo Sviluppo Corso Chieri, 121/6, 10132 –Torino, 0118993823;. [email protected] - http://www.volontariperlosviluppo.it/ Per l’elenco completo dell’Appello, i materiali ad esso relativi e per le iniziative in corso si può visitare www.ildialogo.org/ [email protected]

Si ringrazia Giovanni Sarubbi , direttore della pubblicazione Il Dialogo (Sito: http://www.ildialogo.org) per la gentile segnalazione.

N.d.R.

L’ISLAM Non c’è Dio tranne Allah L’ Islam è la religione della sottomissione a Dio. Storicamente esso ebbe inizio in Arabia, nel secolo VII dell’era cristiana, con il profeta Muhammad, “la pace su di lui”-, invocazione ripetuta ogni volta che il suo nome viene menzionato, tanto è grande la venerazione verso di lui. Tuttavia, secondo il suo racconto, l’Islam ebbe inizio come il modo di vivere, din (spesso tradotto religione), che Dio aveva progettato per tutto il creato fin dall’inizio. La ribellione umana e il peccato fecero si che Dio, per richiamare l’uomo al vero din, mandasse di continuo dei profeti, incluso Mosè, chiamato Musa e Gesù, personaggio centrale del Cristianesimo, chiamato dai musulmani ‘Isa. Però tutti i profeti, ad eccezione di Muhammad, furono rigettati, perseguitati e perfino uccisi. A Muhammad fu ordinato di istruire i suoi concittadini della Mecca, città situata nell’attuale Arabia Saudita, e, sebbene egli fosse rigettato dalla maggioranza, alcuni compresero e ascoltarono la verità di Dio da lui annunciata. Costoro formarono la prima piccola comunità di musulmani che, in seguito alla persecuzione, nell’anno 622 d.C. emigrò a Yathrib. D’allora questa città venne chiamata Medina e l’emigrazione, hijra (Egira). Il 622 segna l’inizio dell’era islamica. L’anno islamico che è lunare, e quindi più corto di quello solare, viene contrassegnato dalla sigla “d.H.” (dopo l’Egira). I musulmani che seguirono Muhammad furono detti muhajirin (coloro che compirono la hijra) e quelli che lo appoggiarono a Medina. ansar (gli aiutanti). I discendenti dei due gruppi sono tuttora oggetto di rispetto nella comunità islamica. Spesso “Islam” viene reso in italiano con “sottomissione”, ma le tre lettere slm che appaiono nella parola Islam, sono analoghe al termine ebraico shalom, il saluto di pace. Islam allora significa “entrare in uno stato di pace e sicurezza con Dio attraverso la sottomissione e la resa a Lui”. E’ ciò che Muhammed scoprì quando, da giovane, nella confusione delle affermazioni di ebrei, cristiani e politeisti vari dell’Arabia, soleva recarsi al monte Hira, vicino alla Mecca, a cercare la verità su Dio. Fu lì, in una grotta sulla montagna, che egli fu come oppresso da un tremendo senso di Dio (o dal suo messaggero Jibra’il/Gabriele) che insisteva dicendogli : ‘Iqra’, recita! Recita che cosa? “Recita il nome del tuo Signore, che ha creato, ha creato l’uomo da una goccia…”. Queste sono le prime parole rivelate da Dio, parole che in seguito furono raccolte nel Corano, libro sacro dell’Islam, diviso in capitoli o sure e versetti o ayat, termine che di per sé vuol dire “segni”. Il Corano è la parola di Dio, che è stata con Lui da tutta l’eternità; è Umm al-Kitab, “la madre del libro”. Dio ha inviato la Sua parola come una guida per l’umanità, tramite messaggeri succedutisi l’uno all’altro, come Musa e ‘Isa che la trasmisero, per soddisfare le necessità del loro popolo. Alla fine la inviò nella sua formulazione completa, tramite l’ultimo messaggero, Muhammad, che era soltanto un uomo, un uomo esemplare, canale umano del volere di Dio. Fin dal primo drammatico istante sul monte Hira, a Muhammed fu instillato l’importantissimo concetto che se Dio è Dio non vi possono essere dubbi su “chi sia Dio” e, per conseguenza, Egli non potrà avere dei concorrenti e non ci saranno molti Dei.

IL SAPERE SUPREMO (Al-Fiqh al-akbar) attribuito alll’Imâm Abû Hanîfa al-Nu‘mân Traduzione di Alberto Ventura

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“(…) [Per osservare] il principio fondamentale del tawhîd e la corretta credenza è necessario affermare: "Credo in Dio, nei Suoi angeli, nei Suoi libri, nei Suoi inviati, nella resurrezione dopo la morte e nel fatto che il destino, nel bene e nel male, viene da Dio Altissimo; [e credo] che la resa dei conti e la bilancia, il paradiso e l’inferno sono tutti realtà". Iddio Altissimo è unico (wâhid), non nel senso numerico, ma nel senso che non ha compagni: "Di’, Egli, Dio, è Uno, Dio l’eternamente pieno, non ha generato né è stato generato, e nessuno Gli è pari". Egli non assomiglia a cosa alcuna delle Sue creature, né cosa alcuna delle sue creature Gli assomiglia. Egli non cessa né termina [di essere dotato] di nomi (asmâ’) ed attributi (sifât) essenziali (dhâtiyya) e d’azione (fi‘liyya); quelli essenziali sono la Vita (hayât), la Potenza (qudra), la Scienza (‘ilm), la Parola (kalâm), l’Udito (sam‘), la Vista (basar) e la Volontà (irâda), mentre quelli d’azione sono l’atto creativo (takhlîq), il sostentamento (tarzîq), la produzione (inshâ’), l’insaturazione creatrice (ibdâ‘), la qualità di Fattore (sun‘) ed altri attributi riferiti all’atto. Egli non cessa né termina [di essere dotato] di nomi ed attributi, e nessun nome o attributo è in Lui innovato: non cessa d’essere Sapiente di Sua Scienza, e la Scienza è un attributo sin dall’eternità; né d’essere Potente di Sua Potenza, e la Potenza è un attributo sin dall’eternità; né d’essere Parlante di Sua Parola, e la Parola è un attributo sin dall’eternità; né d’essere Creatore di Suo atto creativo, e l’atto creativo è un attributo sin dall’eternità; né Agente di Suo Atto, e l’Atto è un attributo sin dall’eternità. L’oggetto dell’azione (maf‘ûl) è creato, mentre l’Atto (fi‘l) di Dio Altissimo è increato. I Suoi attributi sono sin dall’eternità non innovati ed increati: chi afferma quindi che essi sono creati o innovati, chi esita o ha dubbi al riguardo, quegli è un miscredente nei confronti di Dio Altissimo. Il Corano è Parola di Dio Altissimo scritta su fogli, preservata nei cuori, recitata dalle lingue e discesa sul Profeta - su di lui la preghiera e la pace! Il nostro articolare con parole il Corano è creato, il nostro scriverlo è creato, il nostro recitarlo ritualmente è creato, ma il Corano [in sé] è increato. Quel che Dio Altissimo menziona nel Corano narrando le storie di Mosè e di altri fra i profeti - su di loro la preghiera e la pace! - o di Faraone e di Iblîs, tutto ciò è Parola di Dio Altissimo che ci informa al loro riguardo. La Parola di Dio Altissimo è increata, mentre le parole di Mosè e degli altri esseri creati sono create: è dunque il Corano, Parola di Dio Altissimo, ad essere increato e non le parole di quelli. Mosè - su di lui la pace! - ha ascoltato la Parola di Dio Altissimo, così come Dio stesso afferma: "E Dio parlò con Mosè a viva voce". E Dio Altissimo era già Parlante ancor prima di parlare con Mosè - su di lui la pace! - così come era già Creante prima ancora di creare le creature. "Non c’è cosa alcuna che sia a Lui simile, ed Egli è Ascoltante Veggente". Allorché Iddio Altissimo parlò a Mosè, gli parlò con quella Sua Parola che è Suo attributo sin dall’eternità. I Suoi attributi sono differenti da quelli degli esseri creati: Egli conosce diversamente da come noi conosciamo, può in modo diverso da come noi possiamo, vede in modo diverso da come noi vediamo, ascolta in modo diverso da come noi ascoltiamo, parla in modo diverso da come noi parliamo. Noi parliamo grazie a strumenti e lettere, mentre Dio Altissimo parla senza strumento né lettere: queste ultime sono infatti create, mentre la Parola di Dio Altissimo è increata. Egli è una "cosa" (shay’) diversa dalle [altre] cose: il concetto di "cosa" [Gli viene attribuito esclusivamente] per affermarLo, senza [che ciò implichi la presenza di] corpo (jism), né di sostanza (jawhar), né di accidente (‘arad), né di limite (hadd), né di contrario (didd), né di pari (nidd), né di simile (mithl). Egli possiede una mano (yad), un volto (wajh), un respiro (nafas), nonché attributi senza modalità esprimibile (bilâ kayf). Non si dica dunque che la Sua mano [simboleggia] la Sua potenza o la Sua grazia, come affermano i Qadariti e i Mu‘taziliti, poiché ciò significherebbe vanificare [la nozione stessa] di attributo: la Sua mano è piuttosto un Suo attributo senza modalità esprimibile, e [allo stesso modo] la Sua collera ed il Suo compiacimento sono due dei Suoi attributi senza modalità esprimibile. Iddio Altissimo ha creato le cose non [a partire] da una cosa [preesistente]. Iddio Altissimo conosce sin dall’eternità le cose prima che esse siano, ed è Lui che ne ha stabilito i destini e le ha determinate. Non v’è cosa, né in questo né nell’altro mondo, che non sia per Sua volontà (mashî’a), per Sua scienza (‘ilm), per Suo decreto (qadâ’) e per Suo destino (qadar). Egli ha scritto quella cosa sulla "tavola preservata" (al-lawh al-mahfûz), ma l’ha scritta in quanto qualificazione (wasf) e non in quanto ordine (hukm). Il decreto, il destino e la volontà sono Suoi attributi senza modalità sin dall’eternità. Iddio Altissimo conosce l’inesistente (ma‘dûm) nella sua condizione di inesistente, e sa quale esso sia allorché gli dà l’esistenza, e conosce l’esistente (mawjûd) nella sua condizione di esistente, e sa quale esso sia allorché si estingue; e conosce Iddio Altissimo chi sta eretto nella sua condizione eretta, e quando quello si siede lo conosce nella sua condizione seduta, senza che ciò implichi un cambiamento nella Sua scienza o che quest’ultima venga ad essere innovata; il cambiamento e la mutazione avvengono invece nelle cose create. Iddio Altissimo ha creato le creature esenti da miscredenza (kufr) o da fede (îmân), poi ha predicato loro e ha formulato per loro ordini e divieti. Chi è miscredente lo è dunque per proprio atto (fi‘l), per propria rinnegazione (inkâr), per propria sconfessione (juhûd) della Verità, in virtù del fatto che Dio Altissimo lo ha abbandonato; e chi crede lo fa per proprio atto (fi‘l), per propria approvazione (iqrâr), per proprio sincero assenso (tasdîq), in virtù del fatto che Dio Altissimo gli ha fornito sos tegno ed assistenza. Egli ha tratto la progenie di Adamo dai lombi di quest’ultimo sotto forma di particelle seminali (dharr), li ha dotati d’intelletto, ha predicato loro, ha loro ordinato la fede, ha vietato loro la miscredenza e quelli hanno riconosciuto la Sua signoria. Ciò è stato da parte loro [un atto di] fede ed essi sono stati generati secondo questa natura primordiale: chi dopo di ciò è stato miscredente ha compiuto un’alterazione ed un cambiamento [di tale natura], mentre chi ha creduto e assentito l’ha confermata ed ha perseverato in essa. [Dio] non costringe nessuna delle Sue creature alla miscredenza o alla fede, né le ha create credenti o miscredenti, ma come [semplici] individui; la fede e la miscredenza sono opera degli uomini, e Dio Altissimo conosce il miscredente nella sua condizione di miscredente, e quando dopo di ciò diviene credente lo conosce nella sua condizione di credente e lo ama, senza per questo che la Sua scienza ed il Suo attributo siano soggetti a mutazione. Tutti le azioni degli uomini, in moto come in quiete, sono in realtà un’acquisizione umana (kasb), mentre è Dio il loro creatore; tali azioni avvengono tutte per Sua volontà, scienza, decreto e destino. Tutti gli atti di obbedienza (tâ‘ât) sono necessari per ordine di Dio Altissimo, perché Egli li ama, perché se ne compiace, per Sua scienza, per Sua volontà, per Suo decreto e per Suo destino, e [analogamente] tutti gli atti di disobbedienza (ma‘âsî) sono per Sua scienza, per Suo decreto, per Suo destino, per Sua volontà, e non perché li ama, né perché se ne compiace, né perché li ordina.

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Tutti i profeti - su di loro la preghiera e la pace! - sono esenti da peccati minori (saghâ’ir) e maggiori (kabâ’ir), dalla miscredenza, dalle turpitudini, [anche se possono commettere] svis te e mancanze. Muhammad - su di lui il saluto e la pace - è il Suo amato, il Suo servo, il Suo inviato, il Suo profeta, il Suo puro, il Suo immacolato; egli [anche prima della sua missione] non ha adorato idolo, non ha attribuito compagni a Dio Altissimo neppure per un istante, né ha mai commesso peccato minore o maggiore. Il più eccellente fra gli uomini dopo i profeti - su di loro la preghiera e la pace! - è Abû Bakr "il Veridico" (al-siddîq), poi ‘Umar ibn al-Khattâb "il Sagace" (al-fârûq), poi ‘Uthmân ibn ‘Affân "dalle due luci" (dhû’l-nûrayn), poi ‘Alî ibn Abî Tâlib "il Gradito [a Dio]" (al-murtadâ) - che Dio Altissimo si compiaccia di loro tutti, devoti e saldi nella verità! A tutti loro noi riconosciamo legittima autorità. Noi non diciamo altro che bene di alcuno dei Compagni dell’Inviato di Dio. Noi non tacciamo di miscredenza un musulmano a causa di un qualche peccato, foss’anche maggiore, perché ciò non è lecito, né cessiamo [di riferire a lui] il termine "fede", ma lo chiamiamo realmente credente, giacché è possibile che egli sia un credente [pur se] peccatore (fâsiq), e non [per questo] un miscredente. Lo strofinamento sui calzari [in luogo del lavaggio dei piedi nel corso dell’abluzione] è una sunna, ed anche la preghiera del tarâwîh nelle notti del mese di Ramadân è una sunna. E’ lecita la preghiera dietro qualunque credente, sia egli pio o peccatore. Noi non affermiamo che al credente i peccati non recano danno, non sosteniamo che egli non entrerà nell’inferno, e - a patto che esca da questo mondo come credente -, non diciamo che rimarrà eternamente [nell’inferno], foss’anche egli un peccatore (fâsiq), né sosteniamo, come fanno i Murji’iti, che le nostre buone azioni sono [necessariamente] bene accette, e che le nostre cattive azioni sono perdonate. Diciamo invece che colui che compie una buona azione, priva in ogni suo aspetto da difetti perniciosi e da idee futili, e non la vanifica con la miscredenza ed il rinnegamento, sino ad andarsene da questo mondo come credente, ebbene Iddio Altissimo non gliela rende vana, ma la accetta e lo ricompensa per quella. Quanto all’autore di cattive azioni - eccezion fatta per l’associazionismo (shirk) e la miscredenza (kufr) - che non si penta sino al momento in cui muore da credente, quegli [è lasciato] alla volontà di Dio Altissimo. Se Egli vuole lo punirà con l’inferno, se vuole lo perdonerà e non gli darà mai in castigo l’inferno. Quando in un atto vi è ipocrisia il suo merito ne è vanificato, e lo stesso vale per la vanagloria. I segni miracolosi (âyât) sono accertati nei profeti, ed i carismi (karâmât) dei santi (awliyâ’) sono reali. Quanto a quelle cose [prodigiose] che la tradizione ci dice furono o saranno proprie dei nemici di Dio come Iblîs, Faraone o il Dajjâl, noi non le definiamo né segni miracolosi né carsimi, ma è il decreto divino che [ha fatto sì che si realizzassero] i desideri di quelli, e ciò perché Dio Altissimo ha decretato [la realizzazione] dei desideri dei Suoi nemici affinché costoro ne fossero sedotti e castigati: quelli furono infatti per questo tratti in inganno ed accrebbero la loro tracotanza e la loro miscredenza, e tutto ciò è ammissibile e possibile. Iddio Altissimo è Creatore (khâliq) ancor prima di creare e Sostentatore (râziq) ancor prima di dare sostentamento. Iddio Altissimo verrà visto nell’altro mondo ed i credenti in paradiso Lo vedranno con gli occhi corporei, senza assimilazione (tashbîh) e modalità esprimibile (kayfiyya), e senza che fra Lui e le Sue creature si frapponga distanza. La fede consiste in una affermazione esterna (iqrâr) e in un intimo assenso (tasdîq). La fede delle genti del cielo e della terra non aumenta né diminuisce in quanto all’oggetto in cui si crede, ma aumenta o diminuisce quanto [ad intensità] di certezza e di assenso. I credenti sono uguali nella fede e nel riconoscimento dell’unità divina, diversi per merito riguardo alle opere. L’islâm è sottomissione ed ubbidienza ai comandi di Dio Altissimo. Dal punto di vista linguistico vi è differenza fra fede e islâm, ma non c’è fede senza islâm, né è dato trovare islâm senza fede, essendo i due come [la coppia inscindibile] schiena e ventre. "Religione" (dîn) è un termine che abbraccia al tempo stesso la fede, l’islâm e tutte le leggi. Noi conosciamo Iddio Altissimo così come realmente deve essere conosciuto, vale a dire come Dio ha descritto Se stesso nel Suo Libro con tutti i Suoi attributi. Nessuno ha il potere di prestare a Dio Altissimo il servizio (‘ibâda) che realmente Gli spetta nel modo in cui Dio lo ha reso capace, ma [si limita] a prestarGli servizio in conformità con quanto è ordinato nel Suo Libro e nella sunna del Suo inviato. Tutti i credenti sono uguali quanto a conoscenza, certezza, abbandono fiducioso in Dio, amore, compiacimento di Dio, timore, speranza e fede in ciò [?], mentre si differenziano in tutte queste cose prima di pervenire alla fede. Dio Altissimo è buono e giusto verso i propri servi, ed Egli, per [puro atto di] bontà da parte Sua, dona ricompense superiori a quelle cui il servo avrebbe diritto. Egli castiga i peccati con giustizia da parte Sua e perdona con bontà da parte Sua. L’intercessione (shafâ‘a) dei profeti - su di loro la preghiera e la pace - è reale, come pure reale e certa è l’intercessione del nostro Profeta - su di lui la preghiera e la pace - nei confronti di quei credenti peccatori e verso quelli di loro che abbiano commesso mancanze gravi meritevoli di punizione. La pesatura delle azioni con la bilancia il giorno della resurrezione è reale, il bacino paradisiaco (hawd) del Profeta - su di lui la preghiera e la pace - è reale, i racconti sui contendenti in opere buone il giorno della resurrezione sono reali, e allorquando non possiedano buone azioni è reale ed ammissibile il il fatto che contro di loro vengano lanciate le cattive azioni. Il paradiso e l’inferno creati [quel] giorno non scompariranno mai, né mai morranno le hurì (al-hûr al-‘în), né svaniranno mai i castighi ed i premi di Dio Altissimo. Dio Altissimo guida chi Egli vuole per puro favore da parte Sua, e svia chi Egli vuole per giustizia da parte Sua; l’atto di sviare è dovuto all’abbandono [di un essere da parte di Dio], e questo abbandono va interpretato nel senso che Dio non assiste il servo nel [compimento] di ciò che è a Lui gradito, ed anche questo è giustizia da parte Sua, come anche [è giusta] la punizione del negletto per la sua disubbidienza. Non è per noi lecito affermare che Satana ruba la fede al servo credente con la forza e la costrizione, ma piuttosto sosteniamo che è il servo a tralasciare la fede, ed allora Satana gliela sottrae. L’interrogatorio nella tomba da parte di Munkar e Nakîr ha un’esistenza reale, così come è reale il ritorno dello spirito nel corpo dell’uomo nella tomba. L’oppressione ed i tormenti nella tomba per tutti i miscredenti e per alcuni credenti ribelli hanno esistenza reale. Tutto ciò che i dottori hanno affermato in lingua persiana riguardo agli attributi di Dio Altissimo - sia magnificato il Suo Nome - è lecito affermarlo, ad eccezione dell’uso del termine "mano" in lingua persiana. E’ dunque lecito dire "rû-i khodâ" ("il Volto di Dio", in persiano), senza assimilazione o modalità esprimibile. La vicinanza (qurb) e la lontananza (bu‘d) di

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Dio non vanno intese nel senso [quantitativo] di una distanza lunga o breve, ma in quello [spirituale] della nobiltà e della gentilezza: il docile è vicino a Lui senza modalità esprimibile, il ribelle è lontano da Lui senza modalità esprimibile, e vicinanza, lontananza ed avvicinamento sono [qualità spirituali] che si verificano in chi è in colloquio intimo [con Dio]. Analogamente sono da intendere come prive di modalità esprimibili [le immagini] del vicinato con Dio nel Paradiso e dello stare fra le Sue mani. Il Corano è stato fatto discendere sull’Inviato di Dio - saws - ed è scritto su fogli. I versetti del Corano, in ciò che concerne il senso del loro discorso, sono tutti uguali quanto a virtù ed eccellenza. Tuttavia, alcuni di essi sono particolarmente eccellenti da recitare, mentre in altri eccellente è l’oggetto menzionato, come nel caso del versetto del trono, il cui oggetto è la Maestà di Dio Altissimo, la Sua sublimità ed i Suoi attributi; in esso si combinano l’eccellenza della recitazione e quella dell’oggetto menzionato, mentre in altri abbiamo la sola eccellenza della recitazione, come è ad esempio il caso dei racconti riferiti agli infedeli, nei quali non vi è alcun merito [riferito all’oggetto, cioè] agli infedeli. Analogamente, tutti i nomi e gli attributi divini sono equivalenti in grandezza ed eccellenza, senza alcuna distinzione [gerarchica] fra di loro(…).

Rabi'a al-Adawwiyya La poetessa Rabi'ah fu vista correre per una strada di Bassora, portando una torcia accesa in una mano e nell'altra un secchio d'acqua. Interrogata "O Signora della Vita Futura, dove vai e che cosa significa questo?", rispose "Voglio incendiare il Paradiso e spegnere l'Inferno, perché questi due veli spariscano e i suoi servi Lo adorino senza sperare ricompense o temere castighi". Scrisse molte poesie, delle quali la più nota è la seguente:

Ti amo con due amori, l'uno interessato, l'altro degno di te. Il primo sta nel dedicare i miei pensieri a Te solo, ogni altro escluso. L'altro amore, che vuol darti quello di cui sei degno, sta nel desiderio

che i tuoi veli cadano e che io Ti veda. Nessuna lode a me per l'uno o per l'altro, a Te la lode per ambedue.

La letteratura araba al femminile Se un primo contributo alla letteratura è da segnalare con la celebre poetessa al-Khansa già dal periodo preislamico, e con l'inizio della "Nahda", del risorgimento culturale del secolo ottocento che il contributo delle scrittrici comincia ad acquisire importanza. Le prime protagoniste a entrare nella storia della letteratura al femminile sono la poetessa siro cristiana Warda al Yazigi (1838-1924) e la scrittrice musulmana egiziana Aisha Taimuriyya (1840-1902) che lavorano ancora entro schemi tradizionali, seguite subito dopo da un gruppo di scrittrici come le egiziane Bahithat al Badiya (1886-1918), Ibnat ash-Shati e Huda ash-Sharawi e della siriana Selma Saigh che useranno la penna in favore dell'emancipazione della donna. A quel periodo, infatti, i primi movimenti per i diritti delle donne. Ma la scrittrice che ha coniugato le doti artistiche agli ideali moderni è Maryam Ziyade nota come Mayy, nata in Palestina nel 1895 e vissuta al Cairo dove muore nel 1941. Scrive molti articoli di critica soprattutto sulla letteratura moderna femminile e saggi sulla condizione femminile. Negli anni '50 si pubblica il primo romanzo incentrato sui problemi dell'emancipazione della donna dove la scrittrice egiziana Latifa Zayyat indica come primo passo in tal senso l'autosufficienza economica. Da allora la lista delle scrittrici si allunga tanto da rendere impossibile in questo contesto approfondire la questione che meriterebbe uno studio più articolato. Si possono citare la siriana Colette Khoury, la libanese Leila Balbaky e Ghada Samman "la cui opera", scrive il critico Ibrahim al Ariss, "impregnata di una sensibilità politica e sociale, di una rivolta esistenziale, annuncia il rinascimento della letteratura femminile arab”. Un’altra scrittrice degna di rilievo è Sahar Khalifa, palestinese e autrice di due romanzi, improntati all’emancipazione della donna nel contesto della guerra della lotta per la Palestina. Naoual Saadaoui, basandosi sulla sua esperienza di psichiatra, scrive romanzi e saggi tra i più critici e scandalosi di questi anni ed è riconosciuta come capofila di una schiera di scrittrici e poetesse protagoniste in prima persona non solo della lotta per l'eguaglianza dei sessi ma anche dei cambiamenti sociali e politici dei loro paesi.

Fonte: www.arab.it/letteratura.htm

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storia di vita

Isabelle Heberhardt

Una scrittrice chiamata Laila Mahmuda 21 ottobre 1904. Sud est algerino. Guarnigione di Ayn Sefra, ultimo avamposto dell’amministrazione coloniale francese e della legione straniera al confine marocchino. Le casupole di fango costruite a ridosso del wadi Sefra, vengono improvvisamente sommerse dal fiume in piena. Un torrrente d’acqua precipita giù dalla montagna, trascinando con sé case, bestiame, alberi, persone. La donna - affacciata ad un precario balconcino - sorride. Osserva la spaventosa marea che spazza via tutto. Rimane immobile, non fugge, non tenta in alcun modo di salvarsi. Un’onda la travolge. Muore così, a 27 anni, Isabelle Heberhardt. In un’epoca in cui la vita delle donne seguiva percorsi obbligati, Isabelle fu una donna e una scrittrice al di fuori di ogni schema, fece dell’Islam la sua religione e del deserto la sua casa: lo percorse in un lungo e in largo, a cavallo, con una sacca piena di libri e i soli abiti che aveva indosso. Visse - in povertà estrema - da nomade con i nomadi, condivise con loro fatiche e malattie, estranea da ogni affascinazione orientalistica tipica del suo tempo. Profondamente religiosa ma anche soggetta ad eccessi di ogni tipo, bruciò i suoi anni intensamente; odiata o amata, senza mezze misure, da chi ebbe modo di conoscerla, dopo la sua morte divenne in Francia una leggenda. I suoi scritti - pubblicati postumi - vennero rimaneggiati dal curatore letterario Victor Barrucand per alimentare il mito della bonne nomade, della amazone du sable, l’androgyne du desert. Al di là delle mitizzazioni del personaggio, nel leggere le numerose biografie a lei dedicate, non si riesce, comunque, a rimanere indenni dal fascino che soffonde questa donna non bella, dalla fronte alta e bombata, dagli occhi neri, dal naso calmucco, dalla voce sgradevolmente nasale, che riposa da quasi cent’anni nel cimitero musulmano di Ayn Sefra. Isabelle Eberhardt nacque a Ginevra, il 17 febbraio 1877. Venne registrata come figlia illegittima di Natalia Nicolaevna Eberhardt, vedova de Moerder, benestante, di nazionalità russa. Il certificato non menziona il nome del padre. Sebbene Isabelle fosse una ribelle, il fatto che fosse figlia illegittima avrebbe influito sul suo bisogno di assumere identità diverse, di nascondersi dietro pseudonimi, a volte maschili, sulla sua propensione a raccontare storie inventate circa le sue origini. Questo dato è quindi importante e per spiegarlo è necessario risalire all’aprile del 1871 quando la signora Natalia Nicolaevna Eberhardt (coniugata con il senatore luogotenente dello Zar Pavel de Moerder di ben 41 anni più anziano di lei) lascia San Pietroburgo per motivi di salute. Meta è la Svizzera, all’epoca considerata un toccasana per chiunque fosse debilitato o cagionevole. E’ accompagnata dal marito, da tre dei sui figli, Nicolas, Natalia, Vladimir, dal figlio di primo letto del marito, Costantin, e dal precettore Aleksandr Trofimoskij. La signora de Moerder - a poco più di trent’anni - ha già cinque figli ed ha avuto numerosi aborti. Le gravidanze l’hanno spossata; oltretutto, durante il viaggio, si rende conto di essere nuovamente incinta. Nell’aprile del 1871, la famiglia de Moerder raggiunge la Svizzera. Nell’estate dello stesso anno il senatore rientra a San Pietroburgo mentre la moglie Natalia Nicolaevna si trattiene ancora e, l’11 dicembre 1871, mette al mondo Augustin, quello che sarà il fratello prediletto di Isabelle, il suo Tino amatissimo. La salute di Natalia Nicolaevna è sempre cagionevole e i medici le consigliano di prolungare ancora per un anno il soggiorno, di non tornare in Russia. Quando il generale de Moerder muore, a San Pietroburgo, nel 1873, Natalia Nicolaevna è ancora in Svizzera. E’ probabilmente in questo periodo che il precettore Trofimovskij muta il suo ruolo e da amico e consigliere diviene il suo amante. Aleksandr Trofimoskij - il futuro padre di Isabelle - è un personaggio singolare sul quale i biografi di lei hanno molto ricamato. Era colto e di bell'aspetto. Sposato con tre figli, godeva fama di essere un ottimo precettore. Sicuramente era un fervente ammiratore di Tolstoj, forse simpatizzava anche con le teorie anarchiche di Bakunin e di Protopkin. Da questa relazione nasce, dunque, nel 1877, Isabelle, l’illegittima. Lo scandalo suscitato in patria una volta risaputa la notizia, precluderà per sempre a Natalia Nicolaevna qualsiasi speranza di rientrare in Russia e come immediata conseguenza il figlio di primo letto del generale de Moerder, Costantin, verrà immediatamente richiamato a San Pietroburgo dai suoi familiari. Comincia così per Natalia Nicolaevna, i suoi figli, il precettore, una sorta di lunghissimo esilio durante il quale essi saranno, negli anni a venire, costantemente sorvegliati dalla polizia elvetica. Ogni loro movimento era controllato. Tutti i componenti della famiglia erano schedati. Erano russi, considerati dunque pericolosi, individui sospetti. Non bisogna dimenticare, infatti, che in quel periodo la Svizzera - e in particolare Ginevra - era rifugio di esiliati politici, anarchici, nichilisti, crocevia di personaggi di ogni tipo e nazionalità. Nel 1879, quando Isabelle non ha ancora compiuto due anni, Trofimovskij acquista una casa e un vasto terreno nei dintorni di Ginevra, nella località di Meyrin. La gente del posto la chiama la villa Tropicale (il precedente proprietario, appassionato di botanica, coltivava piante grasse nelle serre vicine alla casa). Per i de Moerder fu sempre e solo la villa Neuve. La casa è grande, lugubre, spoglia; isolata nella campagna, dista qualche chilometro da Ginevra. Ed è in questa casa - un luogo amato e odiato allo stesso stesso tempo e il cui ricordo sarà a volte una sorta di ossessione - che Isabelle trascorre l‘infanzia. Trofimovskij, da tutti chiamato Vava, insegna storia, lingue antiche e moderne, letteratura russa e

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straniera ai ragazzi maggiori: nessuno, compresa Isabelle, frequenterà mai una scuola pubblica. Ma la tranquillità di questi primi anni viene spezzata da una serie di separazioni e fughe: dei figli, nel 1883 Nicolas ritorna a San Pietroburgo, nel 1887, Natalia fugge con il fidanzato Alexandre Perez-Moreyra e poco dopo lo sposa. Anche Augustin, nel 1888, scompare e tenta, senza successo, di arruolarsi nella legione straniera. A causa di questi avvenimenti, Isabelle ha un’adolescenza molto sorvegliata. Viene sempre accompagnata nei suoi spostamenti da una governante o dalla madre. Non può tenere una corrispondenza senza l’autorizza zione di Trofimovskij. Ma il suo spirito ribelle non tarda a manifestarsi, non sopporta regole e limitazioni. A diciassette anni supera brillantemente l’ostacolo e la corrispondenza le arriva fermo posta e sotto falso nome. In un unico campo le è concessa la massima libertà: può leggere qualsiasi libro le capiti sotto gli occhi, romanzi, memorie, poemi, saggi. I suoi romanzi preferiti sono quelli di Pierre Loti - scrittore 'esotico' molto in voga all'epoca - e di Lydia Pachkov. Anni più tardi Isabelle avrebbe intrattenuto una fitta corrispondenza proprio con la Pachkov che già nel 1872 aveva attraversato la Palestina, la Siria e raggiunto Palmira, per pubblicare poi il suo resoconto di viaggio. La voglia di sapere di Isabelle è insaziabile, spende somme cons iderevoli per acquistare libri di ogni genere e annota minuziosamente ogni suo acquisto. Compra grammatiche d’italiano, d’inglese, di armeno, dizionari di greco, di persiano, di turco, di tedesco.....Inizia a studiare l’arabo e così si procura una decina di dizionari franco-arabi, il manuale dell’arabista in due volumi, alcuni saggi sull’Islam del XIX secolo, una grammatica cabila. Desidera diventare scrittrice. Nel 1895 il suo primo saggio di ispirazione africana, "Visions du Moghreb", scritto sotto lo pes udonimo di Nicolas Podolinsky, viene pubblicato dalla Nouvelle Revue moderne. Intanto, Augustin, il fratello tanto amato, è fuggito di nuovo in Algeria, dove si è arruolato nella legione straniera. Isabelle gli indirizza lettere dal tono accorato, si dispera, lo prega di tornare. Usa accenti melodrammatici, gli racconta disperazione della madre, ma non smette di coltivare il sogno di lasciare Ginevra e di viaggiare nei paesi arabi. E scrive. Scrive ad Eugène Letord, ufficiale francese in Algeria che aveva messo un annuncio sul giornale al quale lei era abbonata - con lui si firmerà Nadia - e che le sarà amico fino alla fine; inizia a corrispondere con Abu Naddara, un letterato egiziano, un arabista, un tipo stravagante che viveva a Parigi e pubblicava un giornale: Abu Naddara Zarga. Isabelle gli manda auliche missive in arabo classico, chiede il parere del ’venerato sceicco’ sui suoi lavori di traduzione dal russo all’arabo, che all’epoca non erano altro che puri esercizi di stile. Stavolta si firma I. de Moerder. Gli invia anche una foto - una delle più famose di lei - in abito maschile, vestita alla marinara, i capelli tagliati cortissimi. Ha poi ancora un altro corrispondente: un giovane tunisino di nobile famiglia, Ali Abdul Wahhab, colto, educato all’europea, il cui padre era governatore di Mahdia. Isabelle con lui si firma Nicolas Podolinsky, e a volte Meryem. E’ evidente, nel suo bisogno di camuffarsi dietro falsi nomi, la ricerca di una identità che ancora non ha preso corpo, il desiderio di spezzare la monotonia della vita quotidiana alla villa e il sogno di lasciare Ginevra. Il fratello Augustin è ancora in Algeria e proprio la ricerca del fratello sarà il pretesto della sua prima partenza per l’Africa del Nord. Nel maggio 1897, infatti, Isabelle e la madre raggiungono Marsiglia e si imbarcano per Bona, che lei chiamerà sempre con il suo nome arabo di Annaba. Per tutta la vita avrebbe ricordato con nostalgia e pena il periodo che trascorse lì con la madre. A Bona la passione di Isabelle per il modo di vivere 'orientale' e per la religione musulmana si trasforma in un’ammirazione ragionata. Fu, infatti, durante questo primo soggiorno che decise di convertirsi. E la fede, anche nei periodi più cupi della sua vita non conobbe mai incertezze. Sempre a Bona si compie quella che per lei sarà una tragedia fonte di un dolore costante che l'accompagnerà per sempre: il 29 novembre 1897 la madre, ammalata di pleurite, muore ad appena cinquantanove anni. Isabelle ne è sconvolta, scrive ad Ali Abdul Wahhab in cerca di conforto. Si sente finita. Suo padre, Trofimowskij, la raggiunge ed insieme decidono di seppellire la signora de Moerder, anche lei convertita all'Islam, sotto il nome di Fatma Manoubia, nel cimitero musulmano di Bona. Quindi lasciano l’Algeria e ritornano in Svizzera. Isabelle, nonostante tutto, ha voglia di vivere, di viaggiare, di conoscere. Ha solo venti anni, fa progetti, pensa di andare a Tunisi dall'amico Ali, cerca di scrivere un romanzo, Rakhil, che non sarà mai compiuto e il cui manoscritto nella versione definitiva non è mai arrivato a noi. Nel 1898, però, l’attendono altre tragedie; come se una maledizione si accanisse sulla sua famiglia. L’altro fratello Vladimir, chiamato da tutti Volodja, si suicida; il padre, Trofimowskij, si ammala gravemente. Un tumore alla gola lo consuma. Intanto Augustin è tornato a Ginevra e Isabelle si rende conto che il fratello prediletto è in realtà un inetto, un incapace che non avrebbe mai concluso nulla nella vita. Il 15 maggio 1899 Trofimowskij muore. Per Isabelle la morte del padre è la chiusura del cerchio di tutto ciò che la lega alla villa Neuve. Nulla più la trattiene. E' impaziente di disfarsi di quella casa triste, dove le morti si susseguono e che spesso è stata per lei una sorta di prigione. Oltretutto alla villa sono stati apposti i sigilli per controversie ereditarie dovute al fatto che in Russia Trofimowskij aveva ancora moglie e figli legittimi. Il fratello Augustin convince Isabelle ad incaricare un ambiguo personaggio, un tale Samuel, di curare i loro interessi e di provvedere a vendere la villa. Questi si rivelerà un truffatore e i due fratelli si ritroveranno addirittura debitori nei confronti del notaio di sessanta franchi. La villa sarà infine venduta, ma sarà l’inizio di uno stato di indigenza economica che segnerà tutti gli anni a seguire. Comunque Isabelle non ha più nulla che la leghi alla sua infanzia, ha voglia di libertà, di calore, di deserto. Scriverà : "...essere soli, liberi dai bisogni, essere ignorati, stranieri, andare solitari e grandi alla conquista del mondo...". Pensa di avere tanti begli anni davanti a sé. Vuole partire, e stavolta definitivamente, per l'Africa del Nord: prima tappa sarà la Tunisia. Nel giugno 1899 si imbarca sul Saint-Augustin diretta a Tunisi. E' questo un periodo nel quale subisce l'affascinazione costante della morte. Negli scritti "Heures de Tunis", così descrive quei giorni: "....Ho sempre amato vagare nei cimiteri musulmani, non hanno nulla di lugubre e di triste, pieni di fiori, di vigne e d'arbusti...". Inizia a vestirisi alla beduina, indossa candidi burnous, si rasa completamente i capelli, si spaccia per un giovane ragazzo: Mahmoud Saadi, la sua nuova identità prende finalmente corpo. Il suo bisogno di nomadismo è sempre più impellente. I mesi successivi saranno caratterizzati da spostamenti continui. Ed è questo un dato costante in lei - a parte soste obbligate più o meno brevi - la sua esistenza è fatta di spostamenti da

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un paese all'altro, da un luogo all'altro, in modo frenetico; solo la fede le darà un po' di pace, come dimostrano le considerazioni che annota nel suo diario. Nasce in lei anche una profonda visione fatalista dell'esistenza umana, che le farà sostentere che tutto è scritto, tutto è maktub e che forse può essere la causa della sua inerzia nei confronti della successiva, precoce decadenza fisica. Nel luglio del 1899 lascia la Tunisia diretta in Algeria. Arriva a Beja, poi ad El-Khroub, poi a Biskra. Probabilmente in questo periodo inizia a fumare kif, una droga, un misto di erbe ed hashish all'epoca non vietata. Continua a farsi passare per Mahmoud Saadi, giovane tunisino in pellegrinaggio da una zawiya all'altra. Ad agosto decide di spingersi verso Sud e raggiunge l'oasi di El-Oued. Nel suo libro "Au pays de sables", rievocherà quel momento: ".... il mio arrivo a El-Oued fu per me una rivelazione completa, definitiva di quel paese splendido, il Souf, della sua particolare bellezza ed anche della sua infinita tristezza". A settembre torna a Tunisi, quindi va a Sousse e Monastir. Scrive degli appunti di viaggio che saranno pubblicati con il titolo di "Notes sur le Sahel tunisien". In ottobre lascia Tunisi e torna a Marsiglia. Alla fine di novembre parte per Parigi, con l'intenzione di trattenersi qualche mese e di incontrare l'amico Ali Abdul Wahhab. Invece, il 16 dicembre, annota sul suo diario: "Rottura definitiva con Ali". Finisce così, per ragioni mai ben chiarite, un'intensa amicizia e una fittissima corrispondenza epistolare durata tre anni. Torna dunque a Marsiglia, quindi in treno va a Livorno dove si imbarca per la Sardegna. Il 1° gennaio 1900 arriva a Cagliari per incontrarsi con l'amato fratello Augustin che nel frattempo ha sposato Hélène Long, una ragazza incolta (Isabelle la chiamerà sempre con disprezzo Jenny l'ouvrière). Non perdonerà mai al fratello questo matrimonio. Nei suoi "Mes Journaliers" alla data del I gennaio 1900 scrive: "Sono solo, di fronte all'immensità grigia del mare mormorante, solo come lo sono sempre stato...". Usa il maschile in una ambiguità di genere che l'ha sempre caratterizzata. Prova un'intensa nostalgia per l'Africa. Annota ancora: ".... Ritornare in Africa, riprendere quella vita, dormire nella frescura e nel silenzio profondo, avere per tetto il cielo infinito e per letto la terra...". Nell'agosto del 1900 è di nuovo a El-Oued. Qui Isabelle conosce Sulimain Ehnni, l'uomo che dopo Ali Abdul Wahhab e il fratello Augustin ha più amato - Slimène, come lei lo chiama alla francese - un giovane ufficiale arabo del reggimento Spahi di El-Oued. Gli Spahi costituivano un reggimento di cavalleria, di origine turca, che i francesi avevano acquisito al loro servizio e francesizzato. Isabelle non conosce mezze misure, si innamora di lui follemente, in modo totale ed eccessivo, come eccessiva è forse la sua vita, sempre sopra le righe. Ehnni sarà per lei un compagno fedele, un punto di riferimento costante nonostante le future, lunghe separazioni ed i suoi tormentati vagabondaggi. In questo periodo un amico turco la mette in contatto con due sceicchi della confraternita sufi della Qadriyya. Isabelle è attratta dal sufismo, lo avverte come un ritorno ai valori fondamentali dell'Islam. Entra a far parte della confraternita, per temperamento non poteva essere altro che sedotta dall'esperienza mistica che negli anni successivi sarà parte integrante della sua vita. La salute di Isabelle inizia ad incrinarsi, si sente sempre più debole, si nutre sempre meno, fuma kif. La sua smania di vivere inizia ad avere connotazioni autodistruttive. Nel frattempo Slimène viene trasferito a Batna e lei è intenzionata a seguirlo. Prima di partire vuole incontrare Sidi El-Imam, della Qadriyya: questi, però, è in pellegrinaggio verso Nefta. Isabelle parte, dunque, a cavallo. Decide con El-Hachemi ed altri membri della Qadriyya di raggiungerlo sulla strada. Il 29 gennaio 1901, nelle prime ore del pomeriggio, il gruppo si accampa a Béhima, ad una ventina di chilometri a nord-est di El-Oued. Isabelle è seduta, aiuta un’analfabeta a scrivere una lettera, il turbante le impedisce di notare l'uomo alle sue spalle. Questi la assale e le sferra un violento colpo al capo e due pugnalate alle braccia. Lei si accascia al suolo mentre i suoi amici disarmano l'attentatore. Il fatto (colorito, romanzesco ma comunque vero) è immediatamente risaputo. Il generale Dechizelle, comandante del settore militare francese di Costantina, attribuisce il crimine ad un atto di fanatismo religioso ed al fatto che Isabelle è affiliata alla Qadriyya ed in intimità con i capi della confraternita. Quella donna bizzarra comincia ad essere un personaggio scomodo, troppo particolare, troppo eccentrica. Dunque si rende necessario richiedere al console russo l'autorizzazione affinché sia espulsa dall'Algeria e questi autorizza di condurre alla frontiera "questa signorina russa che s'abbiglia in costume arabo....". Ai primi di maggio del 1901 Isabelle riceve l'avviso di espulsione. Fa una breve sosta a Batna per incontrare Slimène quindi si imbarca per Marsiglia. I due sono separati ancora una volta. La vita a Marsiglia le è intollerabile: non ha denaro, il suo amore è lontano, così come l’Algeria ma, verso la fine del mese, riceve una notizia insperata che le offre la possibilità di chiedere l'autorizzazione di rientrare e di far valere le sue ragioni. Viene, infatti, convocata dal tribunale di Costantina perché Abdallah Muhammad, il suo attentatore, sarà processato per tentato omicidio. A giugno rientra per testimoniare al processo. Il processo desta scalpore. Gli spettatori e i giornalisti osservano Isabelle - abbigliata in costume arabo, femminile stavolta - stupiti e incuriositi. Una strana ragazza, vestita come un'indigena, che parla innumerevoli lingue, che afferma di essere musulmana.... Abdallah, l'attentatore, dichiara - come riporta la Dépêche algérienne del 21 giugno 1901 - che 'Allah gli ha ordinato di uccidere M.lle Eberhardt che, contrariamente alle nostre abitudini, si abbiglia in modo maschile e porta scompiglio nelle nostre regioni'. Isabelle si difende. Le domandano dei suoi abiti maschili e lei risponde: "Monto a cavallo e li trovo più comodi". Le chiedono di cospirazioni e lei ribatte: "Non ho mai partecipato ad alcuna azione antifrancese..", come riporta ancora la Dépêche algérienne. Il processo le farà guadagnare il favore del pubblico. L'attentatore viene condannato a dieci anni di carcere, lo scrittore Victor Barrucand protesta contro l'espulsione di Isabelle e lei spera che il decreto venga annullato, ma deve comunque lasciare Costantina. Raggiunge Marsiglia con Slimène che ha ottenuto solo un breve congedo, infatti lui nei primi giorni di luglio del 1901 riparte.

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Isabelle è di nuovo sola. Vive in estrema povertà, sta scivolando verso la fine della sua vita che sarà segnata da una totale ed estrema indigenza. Scrive agli amici, cerca di racimolare denaro, di farsi pubblicare qualche articolo; oltretutto Slimène, lontano, è ricoverato in ospedale, malato di tubercolosi. Si scrivono, progettano di sposarsi. Nell'ottobre del 1901, a Marsiglia, viene celebrato il loro matrimonio civile. Si stabiliscono a Marsiglia, Slimène nel frattempo ha lasciato l'esercito. Nel febbraio del 1902, Isabelle e il marito possono tornare finalmente ad Algeri. E questa sarà per Isabelle più che una ulteriore partenza: è la rottura definitiva con tutto ciò che la lega al passato, all'Europa, a quel che resta della sua famiglia. Dopo il 1901 non c'è più traccia di corrispondenza con l'adorato fratello Augustin. Annota nel suo diario: "....il fratello tanto amato è per me come morto...". Ad Algeri Isabelle diviene amica dello scrittore Victor Barrucand che già si era interessato a lei durante il processo. Barrucand - che si trova ad Algeri dal 1900 ed è corrispondente per La Revue Blanche - ritiene che Isabelle sia la collaboratrice ideale per la sua rivista. Cerca, dunque, di aiutare i due giovani e trova un impiego ad Ehnni come traduttore nella comunità mista franco-araba di Ténès, sulla costa, ad un centinaio di chilometri ad est di Algeri. A Ténès - dove i due arrivano nel luglio del 1902 - Isabelle incontrerà un altro personaggio fondamentale nella sua vita: lo scrittore Robert Randau, (anagramma del vero cognome, Arnaud) era nato in Algeria, figlio di un colono francese, aveva scritto libri sull'Africa e sulla presenza francese in questa terra. A Ténès era una personalità, un funzionario statale presso la comunità mista, un uomo colto e generoso. Grazie al lavoro di Slimène come traduttore, Randau fa la conoscenza di Isabelle. Egli ci ha lasciato un preciso ritratto della donna in quegli anni: elegante, vestita alla cavallerizza, con indosso un immacolato burnous, gli stivali alti e rossi degli Spahi, gli occhi neri, la faccia livida, gli zigomi alti e una voce stridula e nasale che colpiva chiunque la incontrasse. A Ténès Isabelle inizia a scrivere articoli per l'Akhbar, un periodico in lingua araba e filoarabo, una collaborazione offerta dall'amico Barrucand. Le cose sembrano andare un po' meglio, ma la sua salute è sempre più precaria, non fa alcuno sforzo per curarsi. I suoi denti - una volta descritti come splendidi - cominciano a marcire, è l'inizio di una decadenza fisica precoce e inarrestabile: Isabelle ha solo venticinque anni. Anche a Ténès Isabelle non sarà risparmiata dalle calunnie. Proprio a causa della sua collaborazione con una rivista filoaraba, viene accusata - nel 1903 in occasione delle elezioni locali - di influenzare i musulmani della regione, di comprare i loro voti. Il marito è accusato di estorcere denaro agli "indigeni" per sovvenzionare le casse dell'Akhbar. Lei cerca di discolparsi pubblicamente sulla stampa, proclama la sua onestà ma i due vengono comunque sommersi da una campagna diffamatoria. Ténès si è fatta ostile, il fisico di Isabelle è provato da frequenti crisi di febbri malariche. L'amico Barrucand le offre aiuto: le propone ospitalità ad Algeri in cambio della collaborazione all'Akhbar; sa che non troverà mai più una persona come Isabelle in grado di combinare le ambizioni coloniali della Francia e le realtà locali. Isabelle accetta l'offerta: le permetterà di riprendere il suo vagabondaggio nel deserto, l'unica cosa che l'attragga veramente. Ed è sul finire dell'anno 1903 che approda alla guarnigione militare di AySefra - a Sud di Orano - dove conosce il generale Hubert Lyautey, inviato alla frontiera algerino-marocchina per sedare e sottomettere le tribù ribelli, e che sarà suo intimo amico fino alla fine. Nella guarnigione conosce soldati di ogni nazionalità arruolati nella legione stranera, fuma kif, mangia e dorme pochissimo. L'amicizia con Lyautey è invece profonda, su un piano esclusivamente spirituale. "Ci siamo ben compresi, il povero Mahmoud ed io... " scriverà lui dopo la morte di Isabelle. Isabelle diventa una sorta di agente per conto di Lyautey: la sua conoscenza degli ambienti musulmani è nota, così come i suoi contatti con le tribù locali, e la sua possibilità di frequentare le zawiya - che si supponeva fossero i bastioni della ribellione -. Inoltre la sua qualifica di giornalista giustifica la sua presenza nelle zone calde e pericolose. I resoconti che Isabelle invia all'Akhbar costituiscono una riprova di questo suo ruolo: in linea con i convincimenti di Lyautey, afferma che lo sterminio delle tribù dissidenti è inutile, che è sufficiente isolare e mettere sotto sorveglianza i ribelli. Gli articoli da lei scritti attirano l'attenzione, compaiono anche sulla Dépêche algérienne. Isabelle diventa un personaggio leggendario. Scrive, viaggia ed è quello che ha sempre desiderato. Nel dicembre del 1903 torna ad Algeri per trascorrere il Ramadan con Slimène: lui è tubercolotico. Isabelle vive l'ultimo anno della sua vita, il 1904, in modo febbrile, in continuo movimento. Ancora una volta viaggia verso Sud al confine col Marocco, visita la zawiya di Kanadsa a 20 chilometri a sud-est di Colombe-Béchar in territorio marocchino, quindi torna ad Ayn Sefra che lei considera il suo punto di riferimento e dove ha affittato una casa. Ma gli attacchi di febbri malariche si fanno talmente violenti che è costretta a farsi ricoverare nell'ospedale militare della guarnigione: è il 2 ottobre 1904. Il 21 ottobre Isabelle è impaziente di lasciare l'ospedale, quel giorno Slimène l'ha raggiunta dopo una lunga separazione. Lei vuole incontrare il suo zizou e se ne va presto, alla mattina, contrariamente al parere dei medici che vorrebbero trattenerla. Poche ore dopo, l'inondazione. Il suo corpo sarà ritrovato solo alcuni giorni più tardi, sotto le rovine della sua casupola e l'amico Lyautey lo farà inumare nel cimitero musulmano. Lo sfruttamento postumo delle opere di Isabelle Eberhardt da parte di Victor Barrucand ed altri, furono un'offesa che nessuno dei suoi amici riuscì a perdonare. Il suo manoscritto "Dans l'ombre chaude de l'Islam" venne pubblicato da Barrucand, manipolato, nel 1905, vendette 13.000 copie ed ebbe tre ristampe. Sempre Barrucand, nel 1922, pubblicò anche il romanzo incompiuto "Trimardeur". Questa androgina del deserto, questa amazzone del Sahara, la nomade dal cuore d'oro, corrispondeva perfettamente all'idea dell''Oriente' che coltivavano gli Europei all'inizio del secolo e Barrucand diede loro quello che essi si aspettavano, c'era di tutto: esotismo, travestimento, amore, morte. In realtà come scrive Edmonde Charles Roux nella sua biografia di Isabelle Eberhard: "....Nessuna delle pioniere dell’esplorazione può essere paragonata a lei. Non ci fu nessun principe nella vita di Isabelle, nessun alto funzionario, nessun appoggio, tutto quello che realizzò fu intrapreso senza nessun aiuto e nella solitudine. Non fu né una ricca esploratrice come Alexine Tinné, né la sposa di un capo guerriero come Jane Digby el-Mezrab, rivendicò soltanto la libertà di convertirsi all’Islam e

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di amare un popolo e un paese - l’Algeria - che non era il suo e di viverci coraggiosamente da sradicata, pur cercando un’integrazione a prim a vista proibita". Bibliografia essenziale: - Cherles -Roux Edmonde, Voglia d'Oriente: la giovinezza di Isabelle Eberhardt, Bompiani, Milano 1990; - Kobak Annette, Isabelle: the life of Isabelle Eberhardt, Chatto & Windus Ldt, London, 1988; - Delacour M. O dile-Heleu Jean René, Isabelle Eberhardt, Écrits intimes, Voyageurs Payot, Paris 1991; - Blanch Lesley, Amori in terre lontane, La Tartaruga, Milano 1992

- D'Eaubonne Françoise, La couronne de sable, Flammarion, Paris, 1967 Francesca Bettini Si ringrazia, per le informazioni fornite, lo staff di www.sufi.it (N.d.R.) Mufdi Zakaryya Algeria - 1908-1977 La fiamma venerata Apparve calmo come il Cristo avanzando sereno cantando versi sorridendo come un angelo o come un bambino che accoglie l’alba del nuovo giorno. Sognando, ferito, la gloria desideroso di ascendere si è elevato come lo spirito nella notte del destino in pace, per diffondere nell’universo una festa. denominato il poeta della rivoluzione algerina e del Mag’rib arabo

leggenda dall'Arabia Come si formarono i deserti All'inizio, il mondo era tutto un giardino fiorito. Allah,creando l'uomo gli disse: "Ogni volta che compirai una cattiva azione, io farò cadere sulla terra un granellino di sabbia." Ma gli uomini,che sono malvagi, non ci fecero caso. Che cosa avrebbero significato uno, cento, mille granellini di sabbia in un immenso giardino fiorito? Passarono gli anni e i peccati degli uomini aumentarono: torrenti d sabbia inondarono il mondo. Nacquero così i deserti, che di giorno in giorno diventarono sempre più grandi. Ancora oggi, Allah ammonisce gli uomini dicendo loro: "Non riducete il mio mondo fiorito in un immenso deserto!"

Imru `l-Qays

È con Imru `l-Qays, il più grande dei poeti preislamici, che inizia la letteratura araba. I versi di questa sua poesia, soprattutto lo struggente incipit, sono stati un modello col quale si sono confrontati tutti i poeti successivi. Ad Imru al-Qays, tra l'altro, è attribuita l'invenzione della qasidah, il metro classico della poesia araba. Imru `l-Qays visse al termine della ´Abd al-Gayliyya, l'epoca d'ignoranza in cui l'Arabia si dibatteva prima che il Profeta portasse la luce della vera Fede. Era così grande nel giovane Imru la passione per la poesia, che suo padre Hugr, re della tribù dei Kindah, ordinò di ucciderlo. Fortuna fu che l'incaricato all'ingrato compito, mosso a compassione per il giovane poeta, uccise una gazzella al suo posto, riportandone il cuore a Hugr. Bandito dalla sua tribù, Imru `l-Qays cominciò una vita errabonda, piena di pericolose avventure e di storie galanti, che infine lo condusse a Bisanzio, presso l'imperatore Giustiniano. Imru morì intorno al 540, sulla via del ritorno in Arabia, a causa di una camicia avvelenata ragalatagli dallo stesso imperatore, che in questo modo lo punì per avergli sedotto la figlia. Ad Ankara si mostra ancora la tomba del poeta

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MU´ALLAQAH Fermatevi! E qui piangiamo al ricordo di un accampamento e della bella da tanto tempo perduta. Scirocco e tramontana hanno spazzato a lungo queste dune, quegli stessi venti che le avevano a loro volta intessute. Ogni traccia è scomparsa: vi sono solo escrementi di gazzella simili a grani di pepe. I miei compagni arrestano i loro corsieri accanto al mio e mi gridano: - Non abbatterti, Imru `l-Qays! Non cedere allo sconforto! Ma come posso non abbattermi? Come posso non cedere allo sconforto? Il mio pensiero corre già a quel mattino in cui gli uomini caricavano i cammelli preparandosi al lungo viaggio e io vidi ´Unayzah per l'ultima volta. Queste mie lacrime possono forse lenire il dolore... ma a che serve ora spanderle su una traccia svanita? Così piangevo, prima che per lei, per altre belle, che se ne andavano lasciando dietro di loro un profumo di muschio e di garofano. Lacrime di passione mi inondavano il volto e la barba. Quanti momento felici! Ripenso a quel giorno a Dara Gulgul, quando costrinsi le ragazze a uscire nude dall'acqua per riprendersi le loro vesti. Per ricompensarle dello scherzo uccisi la mia cammella e imbandii un gran banchetto. E che soavi ricordi, quando scendemmo il deserto dividendo la medesima sella. Il palanchino s'inclinava di qua e di là sotto il nostro peso, e ´Unayzah si scuoteva cercando di farmi cadere. - Stai ammazzando il cammello, Imru `l-Qays! Scendi subito, o finiremo entrambi per andare a piedi! Ed io a lei: - Allenta le briglie, se vuoi, ma non allontanarmi da quel tuo frutto che ho còlto più volte. - E quando in cima a una duna, lei mi lanciò un giuramento irrevocabile, io le risposi beffardo: - Se hai deciso di lasciarmi, sii almeno gentile, ´Unayzah ! E se qualcosa della mia persona ti ha infastidito, allora strappa il mio cuore dal tuo petto e gettalo via. Ti sbagli se credi che mi possa uccidere l'amore per te, ti sbagli se credi che quelle tue lacrime siano frecce che possano fare a brandelli il mio cuore! I suoi parenti mi avrebbero volentieri ucciso se fossero riusciti a mettermi le mani addosso. Avevano disposto uomini di guardia attorno alla tenda della ragazza per proteggere il suo onore. Ma quando le Pleiadi apparvero in cielo come collane di perle, abilmente superai le sentinelle e penetrai nella tenda, dove la trovai già svestita per la notte. Mi disse ridendo: - In nome di Dio, Imru `l-Qays, non è possibile trarti in inganno! Non finisci mai di sbagliare! Uscimmo insieme dalla tenda. Io la precedevo, lei mi seguiva trascinando una veste sulla sabbia per cancellare le impronte. Scivolammo oltre il recinto, in un luogo segreto tra le dune, e quando lei si chinò su di me io l'afferrai. Slanciata e pallida, dalla vita sottile e le gambe tornite, bella di seno e di corpo. Levava il mento con orgoglio, il collo sottile come quello di una gazzella. I riccioli le piovevano neri sulle spalle, folti come un grappolo di datteri. Fattasi donna nelle sue vesti di fanciulla, lei ben sapeva come incantare anche i più saggi tra gli uomini! O ´Unayzah ! Le follie svaniscono con la gioventù, ma non muta il mio amore per te. Ricordi? Sembrava che le stelle fossero state inchiodate alle montagne e le Pleiadi legate a solide rocce. Come onde del mare, la notte distendeva i suoi mille veli su di noi. Che lunga, lunghissima notte... pareva non volesse dissolversi mai nell'aurora... E gli uccelli non erano ancora usciti dai nidi, quando, di primo mattino, mi allontanai a cavallo attraverso il deserto... Muhammad al-Farag’ Palestina non uccidete la primavera

Queste guerre micidiali che noi dichiariamo alimentano il fuoco. Distruggiamo le speranze senza comprensione lasciando dietro dolore e tristezza. Con crudeltà distruggiamo il sogno dei piccoli e il loro sonno tranquillo. Lasciamo per la strada una bambina che ha perso la dolcezza della famiglia e della patria. Troviamo un bambino sfigurato dalle ferite; prima era allegro e cantava. Il sangue dell’innocenza scorre sulla terra e sotto i nostri piedi

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calpestiamo i corpi. E’ l’ignoranza che ci porta alla distruzione e guida i nostri passi verso l’annientamento. O distratti, le nostre grida s’innalzano da tanto tempo. Non avete ascoltato la nostra angoscia.

Favola dall'Arabia L'alito del leone

Un giorno, il leone, che aveva avuto la febbre, convocò il dipo, l' asino e lo sciacallo e domandò loro se aveva l'alito cattivo. Il dipo si avvicinò alla bocca del leone e disse: " Che schifo! Che cattivo odore!" Il leone arrabbiato urlò. "Come osi parlare così al re degli animali ?" E gli spaccò la testa con una zampata, Si avvicinò l'asino ; " Che profumo! Di cosa si tratta?" Chiese "Ambra, muschio o incenso?" " Come oso prenderti gioco del re degli animali?" tuonò il leone e gli spezzò la schiena con una zampata. Poi disse allo sciacallo: "E tu cosa mi dici?" Lo sciacallo esitò un po' e poi disse: " O re degli animali, ho il raffreddore , e non potrei dare un giudizio equo" " L'hai scampata ancora una volta " disse irritato il leone e dovette lasciarlo andare ancora una volta. 'Abd al-Muhsin al-Kazimi Irak

Viaggiamo, nel cuore della notte, nel deserto. I nostri cammelli procedono lentamente affondando i loro zoccoli. Vanno spostandosi ora verso oriente, ora verso occidente, quasi dovessero misurare il deserto. Appesantiti dal sonno ci pieghiamo sulla sella come se pregassimo con la testa prona. Ahmad as-Saqqâf Kuwait 1919 Qânâ

Mi sono zittito, il mio cuore sanguina per far sapere a chi vuole. Sono zitto mentre il dramma di Qânâ fa tremare le montagne. Il suo grido s’innalza al cielo ma gli arabi non vedono, quasi fossero colpiti da cecità. Dov’è la fierezza, dove l’orgoglio ? E’ giunto il momento

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di porre fine all’aggressione Bisogna dire al mediatore su cui si poggia la speranza : abbandona l’ingiustizia ed il comportamento che causa sofferenza. Sii un arbitro giusto. Io vedo che tu sei complice del loro misfatto. Chi difende la sua terra non è fuorilegge, né un criminale. Crimine è l’assalto dell’aggressore l’uccisione della gente inerme, il suo spargimento di sangue. Crimine è l’odiosa occupazione della quale si chiede il come e il perché. Muhammad Ahmad al-Mutawi Qatar

Per voi, fratelli miei, il mio scopo e desiderio è la vostra felicità. Il mio sorriso sorge dal cuore servo l’indigente, chiunque egli sia. Il disastrato trova confronto nel mio soccorso, curo l’uomo colpito da tristezza cercando di realizzarne le speranze. Tendo a voi le mani : afferratele sotto l’ombra della mia bandiera. Venite da me, troverete sostegno vi accolgo con la migliore intenzione. Il mio intento è vivere insieme In sicurezza, Il mio fine è la vostra serenità. Il simbolo della mia mezzaluna è noto come sorgente di luce che illumina mio campo.

Fathi Makboul (Docente all’Istituto Universitario Orientale di Napoli) La poesia araba contemporanea

La poesia araba tradizionale, dall’epoca preislamica sino agli ultimi dieci anni del secolo scorso, era legata al metro e alla rima. Ciascun verso doveva terminare con le stesse lettere con cui si chiudeva il primo verso della poesia. All’inizio del ventesimo secolo, esattamente nel 1905, il poeta iracheno Gamil Sidqi az -Zahawi (1863-1936) compose alcune poesie strutturate a strofe con rima diversa. Nello stesso anno il poeta libanese Amin ar-Rihan? (1876-1940) compose poesie chiamate poesie in prosa. Negli anni trenta, a causa dell’intensificarsi dei contatti tra il mondo arabo e l’occidente, comincio' a comparire un tipo nuovo di poesia, definito as -Si’r al-Hurr (verso libero) imitando lo stile dei poeti Whitman e T.S.Eliot. Il primo ad imitarli fu Ahmad Abû Shadi (1892-1955) che nel 1938 pubblico' una sua poesia di verso libero sulla rivista egiziana “Apollo”; non avendo, pero' trovato risonanza, la poesia di verso libero rimane sconosciuta sino al 1947.

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Allora due giovani poeti iracheni Badr Sâkir as-Sayyâb e Nâzik al-Malâ’ikah composero in verso libero contemporaneamente nel mese di dicembre dello stesso anno.

Il 1947 si considera, pertanto, l’anno della comparsa del verso libero. Da quel momento via via il verso libero comincia a prendere il sopravvento sulla poesia tradizionale “Amudi”, anche se, negli ultimi anni, si avverte un forte ritorno alla poesia rimata. La rapida diffusione del verso libero è dovuta alla facilità del comporre senza il vincolo della rima, pur rispettando, inizialmente, i l metro. In seguito alcuni poeti trascurano persino il metro. In tal modo questo tipo di composizione poetica viene a perdere il fascino della poesia. E’ questo il motivo che determina la rinascita della poesia tradizionale “rimata”, per l’attrattiva della sua musicalità, benché essa limiti la libera esposizione dei concetti. Il verso libero degli ultimi decenni, inoltre, viene appesantito dal frequente uso della metafora e del simbolismo che rendono astrusa la comprensione del contenuto della produzione poetica. Come si è accennato, fin dagli ultimi decenni del secolo scorso, i poeti arabi cominciarono a comporre poesie di tipo neoclassico, per esigenza politica o reazione all’influenza Occidentale.

Tra i più noti poeti di questo tipo di poesia ricordiamo: gli egiziani Mahmûd Sâmi al-Bârûdi (1838-1904), Ahmad Shawqi (1868-1932) e il poeta iracheno 'Abd al-Muhsin al-Kazimi (1865-1935). Argomenti di queste composizioni erano problemi sociali, politici, patriottici; veniva soprattutto evidenziata l’avversione all’occupazione occidentale e all’atteggiamento dei governanti arabi. Ovviamente essi componevano in poesia rimata di tipo amudi (tradizionale). Siccome la poesia neoclassica non riesce a soddisfare la sensibilità dei poeti, aperti, dopo il primo conflitto mondiale, alla situazione socio-politica della nazione araba, si fa strada la corrente del romanticismo, più rispondente alle esigenze degli arabi dal punto di vista culturale, sociale e politico. I poeti romantici criticavano con forza il sistema politico-sociale, i governanti e gli stranieri dominatori, che ostacolavano il cambiamento auspicato dai popoli. La lunga attesa della realizzazione delle loro aspirazioni sollecitava i poeti a contemplare la natura che era per loro motivo di sostegno morale e attenuazione della sofferenza che li invadeva per l’opprimente situazione socio-politica. Il linguaggio da loro usato era semplice affinché potesse essere capito dalle masse. Questo tipo di poesia trova la sua massima espressione negli anni trenta e va perdendo via via di efficacia durante e dopo il secondo conflitto mondiale, per la mutata situazione socio-politica. Sia la poesia neoclassica, sia quella romantica rispettavano lo stile della poesia tradizionale, pur nella varietà dei loro contenuti.

Ibn Handìs Sembrano perfezioni

Sembrano perfezioni, ma risplendono soltanto agli occhi tuoi: valgono niente; quanti nemici stanno in un amico e in quanta quiete si nasconde il ladro! Quanti cavalli di armoniose forme non arrivano, deboli, alla meta! Quanti cammelli, in viaggio, nella notte, li trattiene il difficile cammino! Così l'affanno trascina l'amante dove l'ascesi e l'angoscia si legano: sventura all'uomo afflitto da ignoranza, che gli lodano il corpo e non l'ingegno! È quasi un'ala, a volare, il denaro: ma già è stroncata, e non rimane un bene: quanti uomini degni in vile veste! Si lucida una spada, e non la gemma. (traduzione di F.M. Corrao e E. Sanguineti)

Ibn Hamdis (poeta arabo-siciliano, 1056-1133). Nacque a Noto (Siracusa), e dopo aver preso parte alle lotte contro i

normanni emigrò alla corte di Siviglia accolto dal sovrano - anche lui poeta - al-Mu'tamid. Qui vi rimase fino al 1091; poi venne espulso e si rifugiò presso le corti di Algeria e Tunisia. La sua produzione poetica - bacchica ed elegiaca - fu molto vasta e conta circa seimila versi. In una epoca di vasti disordini politici, nessuno seppe esprimere come questo poeta l'amore, il dolore e una struggente nostalgia per la bella terra di origine. Si spense in esilio, e probabilmente a Maiorca, quando il potere degli Altavilla si era oramai definitivamente consolidato in Sicilia.

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Favola dalla Persia L'attesa

Un porcospino si nutriva dei fichi che cadevano sul terreno. Egli stava sempre con il capo chino a cercare i fichi tra le foglie. Un giorno arrivò una scimmia che si arrampicò sull'albero e cominciò a mangiare i frutti che staccava dai rami; guardò in basso e vide il porcospino che ai piedi dell'albero rovistava tra le foglie; staccò un frutto e glielo lanciò.Il porcospino lo mangiò e gli sembrò migliore di quelli che prendeva da terra, tanto che alzò la testa aspettando che gliene lanciasse altri. Così rimase a testa in su in attesa che la generosità della scimmia si ripetesse, fino a che non gli si prosciugarono le arterie del collo e morì.

Abd as-Salam Hasim Hafiz Arabia Saudita 1929 “Egitto nella nuova epoca”

O Egitto, melodia delle nazioni e delle generazioni patria dei leoni, degli uomini liberi e della saggezza. Nella tua valle si sono sollevati i leoni gloriosi, spinti ad unificare i cuori che guardano le sommità. Egitto, sii pronto, il nazionalismo ha vinto. Il popolo ha eliminato l’epoca dell’offesa e della noia. La colonna della gloria è stata restituita alle piramidi con la luce giusta, per mezzo di mani pure. Il popolo ha guidato con fiducia i soldati del Nilo per illuminare le coscienze e abolire umiliazioni e ingiustizie Kamal 'Abd ar-Rahmim Rasid Giordania I bambini delle pietre

Ora annuncio il mio amore o gente, non mi assalgono né illusione, né ossessioni. Ora innalzo la testa, orgoglioso di loro. Essi sono grandi,

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anche se hanno pochi anni. Essi sono riscatto, distruzione, forza e coraggio. Credevano che noi eravamo capaci di essere loro di aiuto, invece sono stati loro a dimostrarsi custodi della casa. Hanno insegnato alla gente come si puo' strappare il nostro diritto al nemico e come puo' essere calpestata l’ingiustizia. Sono spuntati nell’oscurità della notte come una luce nel cuore delle tenebre che illumina coloro, la cui notte è stata lunga, suscitando amore ed ammirazione. Con loro è apparso il lume della verità. Giovani di verità, convinzione e sacrificio. Dio sa quanto hanno pazientato, quanto hanno sofferto. Sono stupiti nel vedere la patria in pericolo e che su di essa comodamente vivono i corrotti. Hanno cavalcato la gloria attaccando il nemico, sfidando la morte. Cos? non si puo' dire che la Palestina è ormai finita e che la gente in essa china la testa. Non meravigliatevi perché essi sono i discendenti di coloro che hanno raggiunto l’estremità del mondo. I valori si trasmettono.

Ibn Arabi Poeta Andaluso

diede enorme peso alla sfera mistica, in contrasto con le posizioni razionalistiche maturate da Averroè (e destinate a non avere seguito nel mondo musulmano): nelle sue numerose opere - soprattutto in Le gemme della sapienza - egli insiste sull'unità dell'essere. Dio si moltiplica, attraverso i suoi attributi, nella creazione, ma il mondo sensibile è solamente un'ombra di esso. La natura è definita come il "respiro del Misericordioso". L'uomo occupa una posizione centrale nel creato e i profeti sono espressioni della stessa realtà divina. Il fine dell'uomo consiste nell'unirsi misticamente a Dio nell'amore. (Abu Bakr Muhammad Ibn al- Arabi al-Hatimi al-Ta'i) (1165-1240), insignito dei titoli onorifici di al-Shaikh al-akbar ("Il più grande maestro ") e di Muhyi al-Din ("Colui che fa rivivere la religione "), nacque in Murcia nella regione andalusiana del sud della Spagna in una famiglia di puro sangue arabo (da qui il suo nome),e fu istruito a Siviglia. Alla sola età di vent'anni già possedeva profonde vedute interiori spirituali: incontrò il grande filosofo aristotelico Averroè, il quale rimase molto colpito dall'incontro con un "così divino maestro". Fino al 1198 Ibn Arabi trascorse la sua vita in Andalusia e nel Nord Africa, incontrando altri sufi e scolastici e, talvolta, misurandosi in dibattiti. Per tutto questo tempo ebbe varie visioni mistiche. Durante quell'anno ebbe una visione che gli ordinava di partire verso est, ove avrebbe passato il resto dei suoi

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giorni. Dopo alcuni anni di viaggio attraverso Arabia, Egitto, Asia Minore e altri posti , ormai maestro di grande fama, alla fine nel 621 si stabilì a Damasco dove trascorse il resto della propria vita. Durante questo periodo completò la sua opera principale, I dodici volumi al-Futuhat al-Makkiyah ("Le Rivelazioni della Mecca"), la quale non solo era un'enciclopedia esaustiva del credo e delle dottrine del sufismo, ma anche un diario trentennale delle sue esperienze spirituali; un compendio delle scienze esoteriche nell'Islam che sorpassò qualsiasi altra opera precedente ma anche successive che trattasse degli stessi argomenti. La produzione di Ibn Arabi fu copiosissima. E' testimoniato che abbia scritto 289opere, di cui circa 150 esistono tuttora. Con Ibn Arabi abbiamo per la prima volta un'esposizione completa della dottrina del sufismo, una monumentale sintesi che racchiude teologia, metafisica, cosmologia, psicologia pratica spirituale e molto altro. Anche se i precedenti scrittori sufi discussero le questioni metafisiche o le dottrine cosmologiche, non furono mai al suo livello: la maggior parte dei primi scritti del sufismo sono o guide pratiche o espressioni estatiche del trascendentale o stati mistici di consapevolezza. Toccò a Ibn Arabi allora formulare in modo esplicito ciò che era solo implicitamente contenuto negli insegnamenti dei primi maestri del sufismo e, attraverso lui , la dimensione esoterica dell'Islam fu, per la prima volta, espressa apertamente.

La dottrina del logos Una delle più importanti - forse la più importante e centrale - delle idee di Ibn Arabi fu quella del Logos, un termine greco da lui preso nel doppio significato di "eterna saggezza" e di "parola". Fluttuando tra riferirsi al Logos come prima manifestazione della divinità o come anima semplicemente umana o universale, Filone alessandrino si riferiva al Logos come Il Grande Sacerdote, l'Intercessore o Paracleto, il Vicereggente , la Gloria di Dio, l'Ombra di Dio, l'Idea Archetipica, Il Principio della Rivelazione, il Figlio Primogenito di Dio, il Primo degli Angeli e così via. Qui abbiamo una confusione di termini mitologico - religiosi , teologici e cosmologici, molti dei quali furono presi dal Cristianesimo. Ibn Arabi mostra la netta influenza subita dalla dottrina di Filone nella propria dottrina del Logos; molti dei suoi termini descrittivi sono identici, ma propone anche idee tratte dal Corano, teologiche, tratte dal sufismo, neoplatoniche ed altre ancora. Parla del Logos (kalimah) come "Realtà delle Realtà" (Haqiqatu'l Haqa'iq) in contrasto col sufista Hallaj che utilizzava l'espressione molto simile "Realtà della Realtà" (Haqiqatu'l Haqiqah) che si riferisce a Dio stesso, la Realtà di Maometto, lo Spirito di Maometto, il Primo Intelletto, Il Più Potente Spirito, la Più Infervorata Penna (cioè la Penna che usa Dio per scrivere il destino di tutte le cose), il Trono di Dio, l'Uomo Perfetto, il Vero Adamo, L'Origine dell'Universo, Il reale che è strumento per la Creazione, Il Pilastro (Qutb, su cui ruota tutto il creato), l'Intermediario ( tra Dio ed il Creato), LA Sfera Della Vita, il Servo dell'Uno che abbraccia tutto, e così via. Qui, come con Filone, c'è una marcata confusione o esitazione tra l'idea emanazionista della prima manifestazione della divinità e la dualista-monoteistica idea della prima creatura che, pur ancora estremamente sublime, è nondimeno separata da Dio da un abisso inaccessibile. In alter parole, c'è confusione tra le ipostasi; in alcuni appellativi il "Logos" si rifà alla divinità celeste, in altri ad una mera emanazione e neanche la più alta (il Vicereggente, il Servo, ecc.) di quella divinità. Questa è la reale debolezza di ogni metafisica teistica; l'assolutezza e la trascendenza della persona divina agisce come una camicia di forza che è restia o impossibile a rompersi. Il Logos di Ibn Arabi ha tre aspetti ( o può essere considerato da tre punti di vista): l'aspetto metafisico , come Realtà delle Realtà; l'aspetto mistico, come Realtà di Maometto; l'aspetto di perfezione umana , come L'Uomo Perfetto. Considerando il primo di questi aspetti , la Realtà delle Realtà (Haqiqatu'l Haqa'iq), Ibn Arabi afferma che questo è Il Primo Intelletto, il Principio Immanente Razionale nell'Universo ( idea Stoica),l' "Idea Delle Idee" (o Archetipo degli Archetipi, il grande teologo cristiano alessandrino Origine si riferisce al Logos allo stesso modo cioè come Idea Ideon). Comprende tutti gli archetipi e tutte le cose esistenti in modo assoluto, non è nè un intero nè una parte, non si allarga nè si restringe. Contiene gli archetipi delle realtà (haqa'iq) delle cose, ma è se stesso omogeneo. E' il sapere divino, il contenuto e la sostanza della divinità. E' la prima manifestazione o epifania di Dio ; Dio come Principio auto-rivelantesi dell'Universo; Dio manifesta se stesso come universale sapienza. Mentre per il secondo o mistico aspetto , la Realtà di Maometto (al Haqiqatu'l Mohammadiyyah), il Logos non è l'attuale fisico o umano Maometto , ma la Realtà (haqiqa) dietro Maometto, il Principio Attivo di ogni rivelazione divina ed esoterica. Il Logos come Realtà Di Maometto ha le caratteristiche di essere il rivelatore permanente di Dio, il "trasmettitore" di ogni sapienza divina e la causa cosmologica di ogni creazione. E' il principio attivo della sapienza divina. Questa distinzione tra il Maometto umano e quello trascendente fu popolare nel sufismo e nel pensiero esoterico Ismaili, attraverso cui i sufisti furono capaci di riconciliare il veicolo storico esoterico dell'Islam con l'esperienza esoterica interiore del divino. La stessa tendenza si verificò nella dottrina buddista Mahayana del Trikaya o dei tre corpi del Buddha, secondo la quale il Buddha storico era solo il membro meno, il Nirmanakaya o "corpo dell'emanazione"quello del Buddha principale, sopra tutti il Nirmanakaya era il Sambhogakaya o " Corpo Divino Celestiale"; e ancora più su il Dharmakaya o "Vero Corpo", che era della natura della "Realtà Assoluta". Anche nel primo cristianesimo, specie nel cristianesimo gnostico, si verificò questa separazione dell'umano dal divino principio della Rivelazione. L'ortodossismo e il fondamentalismo cristiano chiamarono questa idea "docetismo" e la considerarono eresia grave. Raggiunse il suo Massimo sviluppo tra I cristiani gnostici del secondo e terzo secolo , con la loro distinzione tra Cristo uomo e Cristo veramente trascendente , che poneva su Gesù solo un "vestito " o "travestimento". Più recentemente , un'idea simile è apparsa tra i cristiani teosofisti come Rudolph Steiner e Alice Bailey. Nell'insegnamento di Ibn Arabi, ogni profeta è chiamato logos ma non il Logos, che, termine più ampio, si riferisce al principio spirituale o Realtà di Maometto. Ibn Arabi definisce ogni cosa "logos" - "Parola" di Dio - poichè ogni cosa partecipa del principio universale della ragione e della Vita, ma profeti e santi sono distinti dal resto perchè manifestano le attività e perfezioni del Logos universale Maometto al massimo grado. La differenza tra spirito o realtà di Maometto e il resto dei profeti è come tra il tutto e le sue parti ; lui unisce ciò che esiste in modo separato. Infine, per quanto riguarda il terzo o individuale aspetto, la possibilità di diventare logos che potenzialmente esiste per ogni musulmano. La differenza tra uno che dorme e uno che è spiritualmente sveglio e i diversi livelli raggiunti dal secondo dipendono dal grado di preparazione. Ogni sufi cerca di diventare il logos. Nella gerarchia mistica, il Qutb o Pilastro è la

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Testa Spirituale della gerarchia dei profeti e dei santi, il livello intermedio tra divinità e mondo fenomenico, tra eterno e temporale. Secondo il sufismo, il Pilastro si realizza nell'uomo perfetto, l'espressione umana individuale del Logos. Nell'insegnamento di Ibn Arabi, ogni profeta è chiamato logos ma non il Logos, che, termine più ampio, si riferisce al principio spirituale o Realtà di Maometto. Ibn Arabi definisce ogni cosa "logos" - "Parola" di Dio- poichè ogni cosa partecipa del principio universale della ragione e della Vita, ma profeti e santi sono distinti dal resto perchè manifestano le attività e perfezioni del Logos universale Maometto al massimo grado.La differenza tra spirito o realtà di Maometto e il resto dei profeti è come tra il tutto e le sue parti ; lui unisce ciò che esiste in modo separato. Infine , per quanto riguarda il terzo o individuale aspetto, la possibilità di diventare logos che potenzialmente esiste per ogni musulmano. La differenza tra uno che dorme e uno che è spiritualmente sveglio e i diversi livelli raggiunti dal secondo dipendono dal grado di preparazione.Ogni sufista cerca di diventare il logos. Nella gerarchia mistica, il Qutb o Pilastro è la Testa Spirituale della gerarchia dei profeti e dei santi, il livello intermedio tra divinità e mondo fenomenico , tra eterno e temporale. Secondo il sufismo, il Pilastro si realizza nell'uomo perfetto , l'espressione umana individuale del Logos. Come il Pilastro della Creazione , il Qutb è comparabile all'asse del mondo dello Sciamanismo ( che sopravvive nella mitologia scandinava come albero-del-mondo o e nella cosmografia Hindu e buddista come Monte Meru), il Tai Ch'i o "Grande Cardine" o "Grande Trave" della cosmologia cinese ( Neo-taoista e neo-confuciana), "Il Sole Centrale"di Blavatsky, che regge il Cosmo. Come il sole è cardine centrale e fonte di vita ed energia per il sistema solare , così il Qutb è come un sole nel centro della piana dell'Essere. Ma nel dire questo , bisogna essere attenti a non sostenere , come alcuni teosofisti e neo-teosofisti davvero fanno, che ci sia un sole fisico posto al centro. Questa è solo una metafora , come "Pilastro" o "Montagna del Mondo". Il Logos Divino perciò si manifesta come innumerevoli Avatars, Maestri Perfetti , Divine Presenze , e così via; sia in forma umana come un Avatar fisico e reale , sia in una forma non incarnata come cioè una Presenza che si muove in modo nascosto nel cuore spirituale (Qalb) di ogni essere individuale. Questo è un processo continuo , poiché è sempre una Divina Presenza nel mondo , anche se in alcuni periodi può essere più accessibile che in altri - perciò gli Ismaeliti parlano di Cicli dell'Epifania e Cicli del Nascondimento, e I Cabbalisti parlano di "Dio che svela il Suo Volto ma poi lo volge altrove" -ma anche in questi periodi di nascondimento della Luce , ci dovrebbero essere comunque avatars e maestri per coloro che sono sinceri. Le anime non inciampano mai nel mondo dell'Oscurità lasciate senza guida o senza grazia divina. Si potrebbe addirittura dire che chiunque aspiri alla spiritualità , attraverso il suo (di lei o di lui) sincero ardore e la mistica devozione ed arrendevolezza al divino , diventa un Qutb minore, aiutando così a mantenere i mondi attraverso totale affidamento a Dio e svuotamento di sé; il sacrificio del "sé minore" sull'altare del "sé più alto" e del divino che risiede ancora più in alto. Dualismo, Monismo, e dottrina del Logos La religione esoterica pone un vasto "golfo" ontologico tra Dio e la creazione. Dio è Dio, perfetto , assoluto ed eterno; la creazione è la creazione , imperfetta e finita. Questo è il Dualismo. Da qui il bisogno di una rivelazione ( da parte della sacra scrittura, di un profeta, del Messia, o di un avatar) per coprire la distanza tra le due nature. in contrasto col dualismo, i l Monismo afferma che esiste una sola realtà , che è Dio o l'Assoluto che racchiude sia Dio che il mondo. Ma queste filosofie monastiche creano un chiasmo tra l'Assoluto ed il mondo fenomenico in modo negativo così come accade per quello creato dai dualisti religiosi. Il monista indiano Shankara per esempio distingue tra la sola ed assoluta realtà , che lui chiama Nirguna Brahman o "dio senza qualità", ed l'apparenza irreale del mondo che è Maya, o la realtà relativa. Anche se ontologicamente ( in termini di assolutezza dell'essere) il relativo è infine lo stesso che l'assoluto ("questo mondo è Brahman"), non ci sono connessioni reali o gradi tra i due. Maya, la realtà finita, è semplicemente un'indeterminata "sovrapposizione" sopra Brahman, la realtà infinita.. La teoria della natura di Allah di Ibn al- Arabi è conosciuta come wahdat ul-wujud, o Unità dell'Esistenza. Tuttavia nella posizione emanazionista, ogni livello sfuma nel livello superiore ed in quello inferiore. Così le dualità tra finito ed infinito, o realtà relativa e realtà assoluta, sono collegate da un principio intermedio , o da una serie di principi intermedi. Perciò i Shaiviti e I tantrici Shakta prendono la dualità di Shankara dell'assoluto ed infinito Nirguna Brahman e del finito e relativo mondo-dell'apparenza o Maya, ed inseriscono tra i due una serie di evoluzioni intermedie , le "pure tattwas", tracciando i piani da dove l'assoluto gradualmente si limita e diviene il relativo. Allo stesso modo Ibn Arabi distingue tra Haqq e Khalq; il reale e l'apparenza , il divino ed il mondo esterno, l'uno ed il molteplice , l'unità e la diversità, l'eesenza ed I fenomeni, il creatore e le creature; e come Shankara asserisce che solo l'assoluto(Haqq) è reale, il molteplice (Khalq) è , o meglio sono, sem plici attributi di esso; nondimeno pone un livello intermedio che collega i due. Questo è il Logos , la realtà delle realtà; o in alternativa è i al-ayan thabitah, gli eterni prototipi o essenze immutabili; che in ambedue I casi funge da mediatore tra l'Uno ed il mondo fenomenico. Questo principio è passivo o ricettivo in relazione al divino, ma attivo in relazione al mondo. "…Tra l’universo che può essere capito solo grazie alla percezione intellettuale più pura [il regno assoluto del divino] (l’universo delle intelligenze dei cherubini) e l’universo percepibile ai sensi, si apre un mondo intermedio, il mondo delle Idee-Immagini, figure archetipe, sostanze rarefatte, ‘materie immateriali’. Questo mondo è reale e oggettivo, opaco e tattile quanto gli altri mondi intelligibili e sensibili: è un ‘universo intermedio’ in cui lo spirituale prende corpo e il corpo diventa spirito".

Ilyâ Abû Madi Libano 1889-1957

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I talismani (framm.) Non so da dove sono venuto ma sono venuto Ho visto davanti a me una strada per la quale avviai il mio cammino. Continuero' a camminare che lo voglia o no. Come sono venuto ? Come ho visto la mia strada ? “Non so !” considerato uomo dei maggiori poeti arabi. E’ uno dei fondatori della “Lega della penna”, fondata a New York nel 1920 da un gruppo di intellettuali libanesi e siriani, il cui presidente fu Gibrân Khalil Gibrân

Leggenda dell'Asia minore Nel regno delle ombre e della luce Improvvisamente Kessi si trovò dinanzi a una porta immensa; da un lato vi era un drago accovacciato, e dall'altro alcune sozze e orride Arpie. Per alcuni minuti, Kessi fissò la porta stupito; quindi avanzò timidamente in punta di piedi e tentò di aprirla. Ma la porta era chiusa a chiave. Spinto da una curiosità sempre più viva, Kessi incominciò a bussare e a picchiare alla porta, ma non ebbe nessuna risposta. Allora, sfinito, si sedette e attese. "Qualcuno" pensava, "verrà e mi farà entrare". L'attesa si protraeva; a poco a poco, vinto dalla stanchezza, Kessi si addormentò. Quando si svegliò, vide che il sole era già tramontato. Allora s'alzò e si accinse a ritornare a casa; ma ecco in lontananza un piccolo lume scintillante apparire improvviso e dirigersi verso di lui. Sempre più vicino, sempre più sfolgorante, la luce finì con l'abbagliare Kessi a tal punto, che egli si coprì gli occhi con entrambe le mani. Ma, quando le tolse, vide, in piedi dinanzi a sé, un'alta figura, ammantata di luce, che teneva fra le mani una chiave splendente. Straniero, disse Kessi, inchinandosi dinanzi alla figura,ho atteso a lungo davanti a questa porta: ti prego, fammi entrare! Ma lo straniero scosse il capo. No, rispose non posso farlo. Questa è la porta del tramonto; al di là di essa si stende il regno dei morti. Nessun morto che abbia varcato questa soglia può mai ritornare indietro! E tu,chiese allora Kessi, fissando la chiave che lo straniero teneva in mano, come fai, tu, a passare? Lo straniero sorrise. Io,rispose, sono il Sole. E, girando la chiave nella toppa, aprì la porta ed entrò. Nel frattempo, dall'altra parte della porta, gli spiriti dei defunti si radunavano lentamente per dare il benvenuto al dio del Sole che, come ogni notte, veniva a visitarli, e tra di essi si trovava il padre della bellissima sposa di Kessi. Quando egli udì la voce del genero, fu invaso dalla gioia: "Mai prima di ora", pensò, un uomo vivo è venuto a visitare i morti. Ora, finalmente, potrò avere notizie dei miei cari.. Pertanto, appena la porta si fu aperta, cadde ai piedi del dio Sole e prese a implorarlo. Mio buon signore,gridò mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime permetti che Kessi varchi quella soglia, affinché io possa avere notizie della mia famiglia. Va bene, disse il dio del Sole impietositofai dunque entrare Kessi, e lascia che egli segua i miei passi giù per l'oscuro sentiero. Ma, una volta penetrato in questo regno, egli non potrà mai più tornare sulla terra dei vivi. Sorveglialo, e non perderlo mai di vista. Quando avrà veduto ogni cosa consegnalo a me, che lo metterò a morte. Non appena il dio del Sole ebbe pronunciato queste parole, la grande porta si spalancò nuovamente e Kessi si trovò all'imbocco di una lunga e oscura galleria, con in fondo la figura del dio Sole che si andava allontanando. Subito il suocero si fece avanti e gli fece cenno di seguirlo. A un tratto, mentre oltrepassavano un gomito della galleria, Kessi si fermò. Contro il rosso chiarore si profilavano le ombre di centinaia e centinaia di trapassati, che attizzavano un grande fuoco. E chi sono costoro? - Kessi al suo compagno.- mormorò Sono i fabbri del dio che forgiano i fulmini e i lampi che egli scaglia sulla terra. Improvvisamente, la luce che li aveva costantemente preceduti, si fermò e, quando si avvicinarono e il suo bagliore li illuminò in pieno, Kessi vide che erano giunti al termine della galleria; | dinanzi a una porta massiccia stava il dio del Sole. Kessi,disse il diotu sei ora alla porta del mattino, e non puoi procedere oltre. È giunta per te l'ora di morire. All'udire queste parole, Kessi fu preso da un tremito. Signore dio, egli implorò, e la sua voce era rotta dai singhiozzinon prendermi nel fiore degli anni! Vorrei rivedere i miei cari, prima che sia giunta la mia ora! Il dio del Sole si mosse allora a pietà, e ricordò come in passato Kessi avesse onorato lui stesso e gli altri dei.

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Dolcemente, dunque, gli disse: Kessi, colui che ha contemplato le cose della morte non può far ritorno nel mondo dei vivi. Nondimeno, io ti condurrò in un mondo di luce, e assieme a te anche la tua sposa, poiché ti collocherò tra le stelle per tutta l'eternità. Così anche oggi, nelle notti serene, si vede risplendere nel cielo il Cacciatore, e accanto a lui, Shintalimeni e le sue sei sorelle.

Adonis Siria Oriente e occidente Una cosa si era distesa nel cunicolo della storia una cosa adorna, esplosiva che trasporta il proprio figlio di nafta avvelenato al quale il mercante avvelenato intona una canzone esisteva un Oriente simile a un bambino che implora, chiede aiuto e l’Occidente era il suo infallibile signore. Questa mappa è mutata l’universo è un fuoco l’Oriente e l’Occidente sono una tomba sola raccolta dalle sue ceneri. [da Memoria del Vento, Guanda, 1998] Pseudonimo del poeta siriano 'Ali Ahmad Sa'id Isbir (Qassabin 1930). Nel 1959, per ragioni politiche, si è trasferito a Beirut, dove ha vissuto buona parte della sua vita, per trasferirsi poi a Parigi (1985); qui è stato nominato delegato permanente aggiunto della Lega Araba presso l'U.N.E.S.C.O. È considerato uno dei massimi esponenti della poesia araba contemporanea. Nel 1957 ha fondato (con Yusuf el-Hal) la rivista ash-Shi'r e nel 1968 la rivista Mawaqif (Posizioni), la cui pubblicazione ha luogo a Londra. Profondo conoscitore della poesia araba ma anche di quella europea e occidentale in generale (è noto un suo saggio sul surrealismo e sul simbolismo), Adonis, pur meditando sulle forme antiche del linguaggio, si libera nei suoi lavori dalle forme tradizionali della scrittura classica araba per ricercare il valore assoluto della parola, espresso dal verso libero. Poeta della tensione mistica e della ricerca continua sui più grandi misteri dell'esistenza, Adonis si pone come cantore dell'esilio e dell'ininterrotto dialogo tra passato e presente. L'opera di Adonis comprende diverse raccolte di poesie tradotte in molte lingue. Tra le più significative: Qalat al-Ard (1952; Disse la terra), Aghani Mihyar ad-Dimashqi, (1961; I canti di Mihyar ad-Dimashqi), Qabr min Agl New York (1971; Una tomba per New York), Kitab al-Hisar (1986; Il libro dell'assedio), Introduzione alla poetica araba (1992), Poesie (1993), Siggil (2000), Mussiqa al-hut al-azraq (2005; La musica della balena azzurra). In Italia gli è stato assegnato nel 1999 il Premio Nonino per la poesia. Adonis è universalmente riconosciuto come il maggior poeta arabo oggi in vita. La poesia che qui proponiamo è del 1968, ed è difficile che non affiori alla mente quella vecchia massima che vuole il poeta, anzitutto, uno straordinario profeta. Adonis è insieme tutto, e insieme nulla. È siriano, ha vissuto a Beirut, la più occidentale delle città arabe, e da decenni vive a Parigi. Nella vita di tutti i giorni usa il francese, è laico, così tanto da aver intitolato una propria raccolta “Il Libro”, quando per la traduzione islamica il Libro è uno solo; è il Corano. Eppure scrive in arabo, in un arabo ricco, ancora ricolmo di casi, che attinge appieno alla grande tradizione religiosa, prima coranica, quindi mistica, eppure mantiene orgogliosamente la propria nazionalità, eppure non scrive mai direttamente in francese; neanche i suoi articoli da giornalista. Difficile poter aggiungere qualcosa a questa poesia, purtroppo un po’ sacrificata dalla traduzione, ma estremamente chiara, nel messaggio che lancia. Difficile poter aggiungere altro al grido di allarme, di paura, di aiuto. Merita però far notare una cosa, sull’autore, su questo arabo colto che vive a Parigi: Adonis non è un sincretista; non è fautore della fusione, dell’appiattimento, bensì Adonis è poeta della convivenza, del vivere assieme, senza barriere, senza paure. Convivenza anche difficile quindi, ma fattibile, la convivenza che nasce lla conoscenza, quindi dal rispetto, e in un ultimo anche dall’ammirazione, e dall’amore. - Federico Zuliani

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Anahid Baklu Iran L'albero spoglio dell'autunno già s'annerisce. Ho strappato la punta delle lancette che scimmiottano le ore della mia morte dalle ombre livide inclinate. E la pianta eretta nella sua crescita incerta somiglia alle nostre mani. Vieni, io costantemente ti chiamo, e la mia luna scioglie il ghiaccio della solitudine. Nella notte dormendo un sogno che non è altro che il canto del mio sonno. Nella notte dicendo il grazioso sogno silente, seduta in quarantena. Tu, profeta analogo dal grido soffocante nella gola, lo sguardo fisso sulle porte chiuse spezza le ostinate barriere del cielo. Ah, ma come batte grave qui il tocco dell'orologio! Questo tempo che io ho preso solo per gioco. Nella notte seduta, leggera, le mie mani si allontanano dal sibilo della frusta, e come si trascinano il lucchetto e la catena dietro di me! Quando con un voto alla stella di fronte alla finestra vuota io danzo. Io ho diversi amori gioiosi che non controllo. E' stato nella lotteria del sole che ho perduto la nuvola dell'amore, sono così le nostre mani di rugiada. Tu resta, che non manchi la tua ombra dalla mia testa di girasole. Sai che il cuore dell'albero palpita ancora? L'albero promesso al tuo scheletro. I morti delle diverse ombre dicono: "Almeno non subire il colpo del picchio". L'albero sorride al picchio questo è il suo ultimo intento. Ed io quando aspetto la morte che i condannati degli alberi allineati sanno, il comando che libera lo spazio è il vento nell'aria. Mio cuore, cinque piume di luce salite in alto. Ah, mio cuore, tu così soffice compagno di giochi della luna con le ali chiare e oscure della luna ritardi l'ingresso. E la luce tremante, nel tempo del mio sonno, guarda la mia veglia. La finestra aperta, io chiusa blu espanso e senza scopo e il legame ha impiccato la stoffa della tenda. Dall'albero nessun segno, all'improvviso il vaso del colore

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si rompe in mezzo al cielo. Io dalle tue labbra sfumate di petunia ho cantato l'improvvisarsi del giardino. Avevo gli occhi negli occhi del vino per poterti bere. Il calice misurato della mia età è il taglio amaro di un amore ribelle. Che sia una lunga primavera la tua anima rosa accanto a me. Resta, nella curva dell'ultima fine con il vento che cavalca da solo. All'ultimo sguardo rapido, femminile, interamente femminile nella scelta del migliore per quanto sono frettolosa dimentico nello specchio la delicata satira del sorriso. Vaga, con il cavalcare solitario del vento nella curva dell'ultima fine. La Storia

Il primo giorno tutto è solitudine sotto la manciata di cenere la notte si spargono farfalle di cenere nel domicilio della solitudine. Il secondo giorno

Il secondo giorno, dopo il sonno, l'albero ed io, gli occhi nella nostra tortuosità. Per amicizia l'albero bussa alla finestra. Ahimé! Io so che quando lancio il laccio prima del viaggio, l'albero mi strangola.

Nazìh Abu Afash Poeta arabo Interrogativo a Eros i pugnali, le spade, le baionette, i coltelli le scuri, gli strumenti per tagliar colli e lingue... tutti questi "gentili" strumenti son chiamati dagli scienziati della morte: ARMI BIANCHE!!... Allora, cos'è che nei loro lessici può chiamarsi ARMI NERE?! Forse... queste poesie. 8 ottobre 1999

Rabindranath Tagore

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India Occhi per vedere Viaggiai per giorni e notti per paesi lontani.Molto spesi per vedere alti monti,grandi mari. E non avevo gli occhi per vedere a due passi da casa la goccia di rugiada sulla spiga di grano!

Mahmùd Darwìsh Palestina Reazione

Patria mia, il ferro delle mie catene mi insegna / la violenza delle aquile e la tenerezza dell'ottimista. Non sapevo che sotto le nostre pelli / ci fosse nascita d'uragani e nozze di ruscelli. M'han precluso la luce in una cella, / ma nel cuore s'illumina... un sole di fiaccole. Han scritto sulla parete il numero della mia tessera, / ma sulla parete è sorto un prato di spighe. Han disegnato sulla parete l'immagine del mio uccisore, / ma l'ombra delle sue trecce ne ha cancellato i tratti. Ho inciso coi denti la tua effige, sanguinando / e ho scritto il canto della tenebra partente. Ho messo nella carne della tenebra la mia sconfitta / e ho infilato nei capelli delle luci le mie dita. E i conquistatori sui tetti delle mie abitazioni / han conquistato solo le promesse dei miei terremoti, vedranno solo il luccichio della mia fronte / non udranno che lo stridor delle mie catene. E se bruciassi sulla croce della mia devozione / diverrò un santo in veste di combattente.

Mahmùd Darwìsh è senz'altro il più noto dei poeti palestinesi e, forse, arabi, assieme ad Adonìs. Nasce a Birwa in Galilea nel 1941. Il villaggio sarà completamente distrutto dai durante la guerra del 1948. Egli fugge con la famiglia in Libano dove vive un anno. Torna nella Palestina occupata e pubblica la sua prima raccolta Uccelli senz'ali nel 1960. Collabora alla redazione del quotidiano "al-Ittihàd". Partecipa alle attività del gruppo al-Ard. Imprigionato a più riprese, gli è imposta la residenza a Hayfa dove lavora come caporedattore della rivista "al-Jadìd", portavoce dell'ala araba del partito comunista israeliano (Rakah) di cui egli è membro. Collabora pure col quotidiano "al-Fajr". Studia per un anno a Mosca in Unione Sovietica e nel 1971 soggiorna al Cairo dove scrive regolarmente su "al-Ahràm". Nel 1975 è direttore del centro di ricerca dell'OLP e dal 1980 vive a Beirut , capo della redazione di "ash-Shu'ùn al-filastiniyya" (Affari palestinesi), di cui era redattore fin dal 1972. Nel 1982, quando Israele invade il Libano si trasferisce a Cipro. Segue quindi a Tunisi il direttivo dell'OLP, nel quale viene eletto nell'esecutivo nel 1987, da cui rassegnerà poi le sue dimissioni nel 1993 a seguito degli accordi di Oslo. Critico verso l'assegnazione del premio Nobel a Yàsser Arafat e Yitzhak Rabin, chiede all'OLP una posizione più rigida nei confronti di Israele. Nel 1996 si trasferisce tra Amman e Ramallah dove tutt'ora risiede e dove dirige la rivista letteraria "al-Karmil".

Fiaba dell'Arabia La pazienza

Un uomo aveva un figlio bello,ben fatto e molto studioso, che andava a scuola e imparava ciò che gli insegnavano,anzi voleva imparare sempre di più.Quando divenne adulto,suo padre scelse per lui una donna e lo fece sposare.Le nozze erano appena terminate quando il giovane dovette portare il lutto per suo padre.Dopo i funerali e i quaranta giorni di lutto ,riprese i suoi studi.Uno dei suoi compagni,che veniva da molto lontano,gli disse che al suo paese viveva un uomo che era il più grande sapiente e il santo più perfetto,in una parola il modello di virtù di questi tempi.Il nostro giovane ebbe subito l'idea di andare a seguire i corsi di quest'uomo così famoso. Rientrò a casa,prese i sandali e la bisaccia,il bastone e qualche vestito e partì per quel lontano paese per studiare sotto la guida di quel santo maestro. Viaggiò per quaranta

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giorni e quaranta notti di seguito,e alla fine arrivò dove aveva ardentemente desiderato.Si presentò al maestro. "Che vuoi?" gli chiese questi,che era un semplice fabbro. "Apprendere la scienza ."rispose il giovane allievo.Il fabbro gli mise tra le mani la catena del mantice e gli disse di tirare. L'allievo obbedì.Un giorno ,due giorni,una settimana e poi un mese;un anno e altri ancora passarono senza che nessuno nella fucina gli parlasse.Vide degli uomini arrivare,dire una parola al maestro,ricevere una risposta e ripartire. Altri,come lui,venivano assegnati a servizio speciale e continuarono a svolgerlo,come lui il suo,senza interruzioni,senza dire una parola, senza mai un lamento né una protesta.Passarono dieci anni.Un giorno,perdendo la pazienza,il giovane si azzardò a dire: "Maestro!" "Che vuoi?" "La scienza" "Tira la corda"gli rispose il maestro,che intanto continuava ad occuparsi della fucina. Il solo piacere del giovane allievo era quando,spossato dalla fatica del lavoro della giornata,al calar del sole,mangiava il suo magro pasto e si metteva a studiare sui suoi libri,o su quelli dei suoi compagni o del maestro.Il silenzio era la regola sia in officina sia a casa;nessuno gli parlava e lui non parlava a nessuno. Tutt'al più,se aveva bisogno di un chiarimento su un punto di scienza che non capiva,aveva il permesso di scrivere la sua domanda e di presentarla al maestro la mattina dopo,quando entrava nella fucina.Il maestro gettava il foglio nel fuoco,oppure lo metteva tra le pieghe del turbante.Quando buttava il biglietto nel fuoco,significava che la domanda non meritava risposta;quando invece lo metteva nel turbante,la sera,tornando a casa,il giovane trovava la risposta scritta dal maestro a lettere d'oro nel suo capezzale. D'altra parte,il maestro agiva così con butti suoi allievi:senza mai leggere nessuna domanda,le bruciava o le riponeva nel turbante. Erano esattamente vent'anni che il nostro eroe era alla fucina,quando un giorno il maestro gli disse: "Ora puoi tornare al tuo paese,mio caro ragazzo,la conoscenza che cerchi la troverai nella parola pazienza." Il giovane baciò la mano del maestro e tornò nella sua città natale.Durante tutto il tragitto di quaranta giorni rifletté sulla parola 'pazienza'.Quando arrivò,si stupì di riconoscere poche persone,lui che prima di partire ne conosceva tante.Alla fine arrivò davanti a casa sua,e già si rallegrava di quanto sua mogli sarebbe stata felice di rivederlo.Prima di bussare alla porta,guardò attraverso una finestrella. Orrore! Chi vide mai? Chi riconobbe? Sua moglie ,adagiata sul tappeto,appoggiata ai cuscini e accanto a lei un giovane di circa vent'anni,e tutti e due ridevano,chiacchieravano,si divertivano.Il viandante prese una freccia dalla feretra, tese l'arco e si preparava a trafiggere sua moglie e il giovane in un colpo solo,quando gli tornò alla mente la parola 'pazienza'. Bussò alla porta e gli venne ad aprire lo stesso giovane che aveva visto dalla finestra. Entrò,sua moglie lo vide e si precipitò verso di lui,gridando al giovane:"Oh Ahmed, figlio mio,ecco tuo padre!" Il marito si buttò con la faccia a terra in direzione della Mecca e gridò: "O grande Allah,ho impiegato vent'anni per conoscere la pazienza, ed è mancato poco che uccidessi mio figlio! La tua sapienza è davvero infinita, la tua misericordia perenne, e la nostra debolezza incommensurabile!"

Amin ar-Rihani Libano 1876-1940

“Diglah; Tigri: fiume dell’Iraq Lo saluto, mentre il mio cuore è nella mia mano lo saluto mentre la mia anima è sulla lingua. Mi fermo davanti ad esso: davanti a me si rivelano le meraviglie del tempo. Ha una parola che spaventa, una parola che eccita, una parola che fa vivere e morire mentre scorre nel suo alveo, quieto e tranquillo.

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Porta il benessere da Nord a Sud da una regione all’altra; quando è in piena; scorre verso oriente ed occidente per distribuire i suoi benefici nel paese. Le montagne gli dicono : leggi le pianure che si estendono davanti a noi. Esso dice alle pianure : portatemi i saluti alle popolazioni Qahtân e Mudâr. Esso è il signore dell’Iraq, la sua vita è immortale. Il suo occhio è l’occhio del secolo la sua lingua è la lingua del tempo. Ha osservato regni formati con la spada ed altri con le parole magiche e regali, formando scienze ed arte. Sulle sue sponde hanno scintillato le luci dell’allegria e della passione, sotto l’ombra delle sue palme sono passate le sfilate del prestigio e della gloria. Le luci sono spente i palazzi sono cancellati, si sono dissolte le tracce della grandezza ed esso continua a fluire quieto e tranquillo. Daniele Mascitelli e Lorenzo Declich La scienza orale araba 1 - LE FORME DELLA TRASMISSIONE DEL SAPERE IN ARABIA AL TEMPO DEL PROFETA MUHAMMAD A lungo si è discusso, ed ancora si discute, se la poesia araba preislamica sia stata realmente orale o meno, e più in generale se la società dell'Arabia preislamica in cui nacque il profeta Muhammad* (analfabeta, secondo la tradizione), fosse davvero una società senza scrittura. Sappiamo ad esempio da al-Balâdhurî (m. 892) [De Goeje 1866: 473-4] che alla Mecca ai tempi in cui nacque il profeta vi erano 17 persone che sapevano leggere e scrivere. Sono tante o sono poche? Numerose testimonianze danno forza ai sostenitori dell'esistenza di una "società delle lettere" preislamica. La grande produzione di poesia da un lato - di cui sono testimoni i corpora a noi giunti, e la sterminata mole di iscrizioni e graffiti rinvenuti in tutta la Penisola dall'altro (circa 12.000 in sudarabico, decine di migliaia in nordarabico, una decina in arabo prima del 622, ma subito a migliaia nel primo secolo dell'egira, e svariate migliaia in aramaico), potrebbero far pensare - addirittura - ad una società di grafomani. Tuttavia, fa notare Christian J. Robin [2001: 560 e ss.], di tutti i testi pervenutici non ve n'è uno che abbia valore letterario in senso stretto: né poesia, né inni religiosi, né mitologia, né storia, né narrativa, ma solo testi legali, celebrativi, amministrativi, firme, tutt'al più epitaffi (seppure con un'unica ma importantissima eccezione).

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• L'unico testo strettamente letterario è il cosiddetto "Inno di Qanya". Si tratta di un testo graffito (un inno alla Dea del Sole) di 27 versi scritti su una roccia nei pressi di Qanya (Yemen) in caratteri sudarabici, ma in una lingua ancora sconosciuta (probabilmente himyaritico, o un dialetto nordarabico), databile alla fine del I sec. d.C.. Il testo è pubblicato in Y. `Abdallâh [1988] e da lui tradotto in A.de Maigret e A.Avanzini [2000:157]. Sebbene la sua interpretazione e traduzione sia tutt'altro che chiara, è palese il fatto che sia in rima, dal momento che ciascun verso termina con le stesse consonanti hk, quindi addirittura una rima più complicata del normale. Il fatto che questa sia <<verosimilmente la più antica poesia monorima della letteratura universale>> [secondo le parole di Christian J. Robin "Una civiltà della scrittura", in A.de Maigret e A.Avanzini 2000: 125], garantisce sulle origini autonome della rima in Arabia, ma non è sufficiente a dimostrare l'esistenza di una produzione scritta di tipo letterario su vasta scala. Ed anche quando le fonti indirette menzionano la scrittura, si tratta sempre di lettere, missive diplomatiche, accordi politico-commerciali, iscrizioni. La scrittura nell'Arabia preislamica, dunque, sembra essere utilizzata solo per scopi pratici, per fissare delle norme oppure per trasmettere e diffondere un sapere tecnico e forse politico, ma non storico, non letterario, non religioso. Questi saperi, di cui ci accingiamo ad analizzare le forme, sembrano essere fondati - invece - su un tipo di trasmissione orale.

• Tale concetto era stato felicemente espresso già nel IX secolo dal poligrafo al-Jâhiz (m. 868): <<Ogni civiltà si prefigge di preservare le proprie gesta e di consolidare le proprie imprese, in qualche modo e in qualche forma. Gli Arabi si sono adoperati per renderle eterne proprio attraverso la poesia in metrica e il parlare rimato. È questo il loro archivio [diwân]. Al contrario, le civiltà non arabe hanno scelto di fissarle nei monumenti>>. (Jâhiz I, 71) Come rilevato dagli studi di J.T.Monroe [1972] e M.Zwettler [1978], infatti, la poesia preislamica (le cui più antiche testimonianze risalgono agli inizi del VI sec.) presenta tutti gli elementi tecnici e mnemotecnici propri della poesia orale riscontrati in altre tradizioni e cioè: ? metrica e prosodia atta ad essere cantata o salmodiata, corroborata da un sistema di accentazione musicale, e non tonico, della lingua; ? uso di formule: ripetizioni di parole o gruppi di parole in medesima posizione all'interno del verso; ? strutture formulari di tipo sintattico: coniugazione o declinazione di elementi simili nella stessa posizione di una frase, posizione ricorrente di un morfema in un verso, costante cambio di posizione sintattica di due elementi in funzione prosodica; ? strutture formulari di tipo lessicale, dove la sostituzione di un termine della formula produce un nuovo sintagma formulare. LA RIMA Vi sono almeno altri due elementi intrinseci, peculiari della lingua e della poesia araba, funzionali alla trasmissione orale del corpus letterario: ? La morfologia caratteristica dell'arabo; ? La rima. Morfologia. In arabo le radici, che costituiscono il semantema e sono in massima parte costituite da tre consonanti, si innestano su schemi morfologici a vocalizzazione e sillabazione fissa, costituenti il morfema. Ad esempio: il morfema del participio attivo (e quindi l'agente) segue lo schema CâCiC e il participio passivo (e quindi del prodotto di un'azione) segue invece lo schema maCCûC. Dunque, tutte le parole formate dalle varie radici su questi due schemi avranno simile funzione logica, oltre che una struttura sillabica costante. All'interno della struttura metrico-prosodica del verso, la invariabilità sillabica - come è facilmente intuibile - risulta estremamente utile sia per chi debba comporre estemporaneamente, sia per chi debba memorizzare e ripetere. Rima. A differenza della poesia classica greca e latina, tutta, ma proprio tutta, la poesia araba classica è in rima, anzi in monorima, e spesso le poesie prendono il titolo proprio dalla consonante con la quale rimano. La rima (qâfiya) consiste nell'identità consonantica e vocalica dell'ultimo piede del verso che prende il nome di rawî. Generalmente, nel genere della qasîda, ossia la forma principe della poesia araba, rimano fra loro anche i primi due emistichi. La rima non è esclusiva della poesia. Anche gli "indovini" preislamici, o più genericamente quelli che possiamo definire come "i portatori del discorso religioso" (kâhin), usano un "parlare rimato" che assolve a funzioni mnemoniche: il saj` (prosa rimata). SHI`R Gli elementi tipici delle manifestazioni culturali e folkloristiche trasmesse oralmente (metrica rigida, rima, brevità del testo, formulari, scarso uso dell'enjambement, ecc.) sono funzionali alla loro interpretazione drammatica. Il testo orale è destinato ad essere performato. Anche la poesia (shi`r) preislamica è principalmente una forma di intrattenimento e il poeta (shâ`ir, letteralmente "colui che percepisce, colui che è sensibile") è sostanzialmente un "perfomer" [Zwettler 1978: 26 e ss.; Monroe 1972: 12 e ss.]. Il poeta deve padroneggiare la lingua, la metrica, la prosodia, e tutte le tecniche di composizione orale, acquisendo e affinando un proprio patrimonio formulare - attinto dal fondo tradizionale comune - che sia flessibile e adattabile alle diverse situazioni performative. La sua "bravura", dunque, risiede soprattutto nella capacità di

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improvvisazione. In altre parole come un musicista inizia la sua improvvisazione con le scale che tutti conoscono, aggiungendo nel corso della performance le sue variazioni, il poeta inserisca i suoi particolari accenti su uno spartito che l'uditorio trova familiare (usatissime formule iniziali sono <<qifâ wa-nabki>>, "fermatevi e piangiamo insieme"; <<li-man talâlun>>, "di chi sono le vestigia di accampamento") e attraverso uno schema narrativo precostituito, seppure aperto. Il tutto finalizzato a colpire l'uditorio (dare emozioni, appunto). RIWÂYA Nell'Arabia preislamica il patrimonio storico-letterario, ossia la produzione dei poeti e degli indovini, è custodito nella memoria del trasmettitore orale: il râwî (plur. ruwâ), un vero e proprio professionista delle tecniche mnemoniche. Il materiale che il râwî acquisisce e "trasmette" è dotato di strutture formali funzionali alla trasmissione del sapere. Infatti, se tutti i componenti di una tribù possono in qualche modo dirsi trasmettitori "amatoriali" in quanto tutti, nel momento in cui vogliono raccontare la propria storia e la propria mitologia, possono citare qualche verso in maniera più o meno fedele a come lo hanno udito, il râwî - figura semi-istituzionale all'interno di ciascuna tribù, quasi il depositario della memoria storica dell'orgoglio tribale - garantisce una "trasmissione perfetta" grazie all'impiego di tutte le sue abilità e tecniche.

• Almeno fino al VII sec., ossia fino a quando la poesia rimane circoscritta la mondo beduino, il râwî "performa" il suo repertorio così come lo ha appreso. Il processo di apprendistato e memorizzazione del râwî è in certo modo diverso da quello del poeta, dal momento che quest'ultimo non ha nemmeno bisogno di imparare a memoria le proprie poesie. Eppure <<non si può sostenere che la "memorizzazione" attraverso la lettura o l'ascolto di un "testo fissato" fosse, per un professionista allenato ed immerso in una tradizione di poesia resa oralmente, lo stesso che "memorizzazione così come lo si apprende" (memorization as we know it). Al tempo in cui non esisteva una netta distinzione fra parola scritta e parola parlata (in particolare nel caso della poesia, che presuppone comunque un uditorio), sarebbe difficile sostenere che l'esposizione approfondita di un tale performer a poemi orali come a poemi composti per essere performati oralmente non gli abbia fornito una sensibilità della composizione attraverso gli strumenti di formule "orali", temi e via dicendo, analoghi, se non identici, a quelli dello stesso poeta orale>> [Zwettler 1978: 25]. Sono dunque le strutture compositive intrinseche della poesia a diventare strumenti mnemotecnici atti alla propria trasmissione. La sua figura assolve a diverse funzioni: è al tempo stesso rapsodo e trasmettitore, cantastorie e filologo, impara a memoria le poesie, le raccoglie e le interpreta in pubblico; dovendo approfondire anche le tecniche di composizione, per soddisfare al meglio le esigenze dell'auditorio, può a sua volta produrre nuove poesie. Infine le spiega, raccontando i contesti e le circostanze storiche o leggendarie a cui esse sono legate. 2 - I "NUOVI GENERI" DELLA LETTERATURA ORALE Nel 612 debutta in Arabia la missione profetica (nubuwwa) di Muhammad , che consiste nell'annunciare agli Arabi la "parola divina". Il Profeta (nabî, "nunzio") può sembrare un poeta, per le sue capacità performative, può sembrare un indovino, per il fatto che recita in prosa rimata, può sembrare un râwî , per il fatto che ripete qualcosa che gli è stato insegnato, ma non porta poesia né oracoli, bensì annuncia la "parola divina", si esprime nelle forme che Iddio gli indica, anzi è Iddio stesso che parla per sua bocca. Infatti, a differenza del Dio biblico o cristiano, il Dio musulmano non fa discendere le sue tavole della Legge, vergandole di sua mano, né ispira a qualcuno la scrittura di un testo sacro. Rivela invece "in un sol colpo" al suo Inviato, per mezzo dell'Arcangelo Gabriele, una "recitazione" o "lettura" - qur'ân (Corano, cioè) - durante una "notte benedetta"; un "discorso" che deve essere riportato agli Arabi nella forma esatta in cui è "disceso". Il Qur'ân, dunque, è un atto orale e performativo la cui modalità di trasmissione sembra ricalcare quella della letteratura orale ma, al tempo stesso, rappresenta un nuovo genere letterario. Esso si distingue, fra l'altro, per un uso fortemente innovativo del linguaggio: propone il dogma di una lingua "perfetta" e "unificata" che superi la Babele tribale preislamica, disseminata di varianti dialettali e divergenze lessicali.

• La lingua proposta è però sostanzialmente quella della poesia, ossia la lingua aulica ed eloquente (fushâ) che non lascia spazio ad equivoci. I suoi caratteri innovativi, individuabili sul piano stilistico-lessicale in funzione della novità del messaggio, portano ulteriormente avanti il processo di unificazione linguistica e al tempo stesso ampliano le potenzialità comunicative dell'arabo. Quali sono le conseguenze dell'introduzione del Corano? NUBUWWA `Antara, uno dei più antichi poeti preislamici il cui nome è giunto fino a noi, apre una famosa qasîda chiedendosi: i poeti hanno lasciato ancora qualcosa da dire? e tu hai riconosciuto infine il luogo ove dimorava l'amata? Questi versi, come osserva Abdalfattah Kilito [1988c: 5 e ss.], pongono l'ode al termine di una tradizione narrativa che ha sempre cercato invano di rispondere a domande simili. Essi riagganciano la memoria dell'auditorio a qualcosa di noto e, se autorizzano il poeta a dire qualcosa che non è ancora stato detto,

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pongono la poesia stessa alla fine di un percorso lungo il quale si sono sovrapposte le voci di anonimi performer e trasmettitori, ciascuno dei quali procedeva sulle tracce dell'altro. In questo meccanismo, comune a tutta la produzione poetica preislamica, la questione dell'autenticità, dell'attribuzione, del plagio e della falsificazione - in una parola dell'autorialità - ha dunque un'importanza relativa rispetto al bagaglio formulare della poesia orale, che è il vero patrimonio della collettività. Solo quando sulla scena irrompe la profezia, si pone il problema dell'autenticità, introducendo uno degli elementi fondante dell'intero costrutto culturale arabo islamico: l'autore. La figura dell'autore/discorso autorevole acquista infatti notevole importanza nell'Islâm poiché è Iddio stesso a ricoprire per antonomasia questo ruolo: egli è il primo "firmatario" di un'opera - il Corano - la prima entità individuale autoriale-autorevole,

• Uno degli attributi di Dio - nonché uno dei suoi santissimi 99 nomi - è "al-matîn" ovvero "il Saldo" (Cor. LI, 58). Questo aggettivo verrà applicato anche al "testo autorevole" di argomento religioso (matn, dalla stessa radice), divenendo quindi un sinonimo di autorità/autorialità. laddove il suo Inviato è semplicemente trasmettitore/amplificatore del messaggio. MUSNAD Se il Profeta non è (per dogma) autore del Corano, è però anche il primo personaggio storico le cui parole e azioni devono necessariamente essere dichiarate autentiche: il Corano stesso consiglia al buon musulmano di prendere a modello di comportamento la condotta del profeta. I "detti e fatti" di Muhammad devono acquistare, dunque, quei connotati di autorità che risultavano irrilevanti o comunque di relativa importanza per tutti i "portatori di sapere" precedenti. Il "sapere autoriale/autorevole" di Muhammad verrà conservato con modalità fortemente originali e innovative perfino rispetto al Corano: i "detti e fatti" del profeta (il cui corpus prenderà poi il nome di sunna, tradizione) sono "testi orali", né in versi né in prosa rimata, raccolti e custoditi fedelmente nella memoria dei suoi primi Compagni. Essi sono trasmessi di generazione in generazione attraverso una "catena di trasmettitori" (isnâd) che, a sua volta, deve possedere l'autorità necessaria perché la trasmissione sia considerata valida (sahîh) e degna di fede ("Vera", dunque). In breve, il testo trasmesso (matn) è considerato ininfluente e inaffidabile se non è "appoggiato saldamente" (musnad), ovvero è dotato dello strumento preposto ad accertarne l'autenticità. Questo dispositivo, in cui i due elementi (matn e isnâd) si appoggiano l'uno all'altro, costituisce un nuovo strumento del sapere, il hadîth (racconto, evento, "nuova") che sta alla base del concetto di autorità e autorialità nell'Islâm. Si tratta, anche in questo caso, del prodotto di una cultura orale. 3 - LA SCRITTURA NEI PROCESSI DI FORMAZIONE DELLA CIVILTÀ ARABO-ISLAMICA All'alba dell'islâm la scrittura è ancora uno strumento di trasmissione del sapere fortemente inadeguato e inadatto alla fissazione inequivocabile di un testo. Essendo l'evoluzione di un alfabeto di tipo aramaico (il nabateo), l'alfabeto arabo contava 21 consonanti, mentre i fonemi consonantici dell'arabo sono 28; come in tutti i sistemi grafici semitici, non vi sono segnate le vocali (se non alcune vocali lunghe e in maniera irregolare); inoltre, dato il suo carattere di corsivo, vi sono numerose consonanti che, legate fra di loro, hanno la stessa identica forma. Di conseguenza, l'ossatura grafica di un testo veniva utilizzata per lo più come una sorta di spartito che desse l'incipit a un qualcosa che già si conosceva a memoria. La composizione letteraria, in definitiva, era ben lungi dal trovare nella forma scritta il suo veicolo di trasmissione. L'introduzione di espedienti ortografici per una registrazione più analitica del testo (punti diacritici, vocali brevi, hamza, shadda, ecc.) è direttamente connessa alla trascrizione della profezia coranica. Solo da quel momento la scrittura, nella sua accezione meramente grafica (khatt), riceve un riflesso della sacralità del Testo Sacro sviluppandosi in tutti in tutte le direzioni.

• Parallelamente si sviluppa in maniera eccezionale anche l'aspetto estetico della scrittura, la calligrafia, la quale sembrerà diventare, nei suoi risvolti artistici, il sostituto iconografico delle immagini umane in tutta l'arte islamica. Non si cada però nell'abbaglio che l'islam debba per questo considerarsi la "civiltà della scrittura" per antonomasia. L'unica scrittura che riveste un ruolo iconico, e dunque sacrale, è quella del Corano: non si troverà un oggetto artistico islamico, mettendo da parte casi rari in ambienti persiani e turchi, recante pezzi di calligrafia che non sia un versetto del Corano. UMM AL-KITÂB Il Corano è un vero e proprio "libro orale". Pur essendo stato trasmesso da Dio a Muhammad, e da questi agli arabi, in una forma prettamente orale, esso è già SCRITTO (mastûr, "vergato, tracciato") nella "Madre/Matrice del Libro" (Umm al-Kitâb), cioè una sorta di archetipo increato che rappresenta una scrittura perfetta ed immutabile.

• Uno dei diversi passi coranici in merito recita: "Noi ne facemmo un Corano arabo perché vi sia comprensibile, ed esso, eccelso e sapientissimo, si trova nella Madre del Libro presso di Noi" (Cor. XLIII 3-

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4). Non ci è dato, ovviamente, conoscere il contenuto e la forma celeste della Madre del Libro, se non attraverso descrizioni di carattere necessariamente metaforico (esso, ad esempio, è "vergato su una pergamena srotolata" dice Cor. LII, 2-3). L'immutabilità del Corano non consiste nel fatto di essere stato messo per iscritto dagli uomini (come la Bibbia o il Vangelo), bensì nel fatto di essere una composizione divina fedelmente recitata. Ne consegue che il Corano, anche quand'anche assumesse la forma concretamente grafica di un volume, non sarebbe un Libro scritto, bensì "trascritto". L'innovazione nel concetto di "madre del Libro" sta nel suo essere "elaborato a priori", e cioè nell'essere una "composizione" preesistente alla sua trasmissione. Per la prima volta la composizione di un testo letterario è concepita come definitiva e fissata una volta per tutte (e nello specifico perfetta). KITÂBA Dal momento che Iddio comanda al suo Inviato di recitare (o tutt'al più leggere) il suo messaggio, Muhammad, durante tutta la sua vita, non si preoccupa di fissare per iscritto la "Recitazione divina". Questa, dunque, essendo soggetta alle regole della trasmissione orale - stante anche la struttura del testo, che non è quella formulare della poesia - rischierebbe di espandersi a dismisura in varianti/aggiunte/elisioni che comprometterebbero l'unicità/univocità, autorialità/autorità del messaggio originario. Ciò di fatto avviene per un certo periodo in cui si producono numerose "letture" del testo (di cui 7 verranno riconosciute ufficiali).Fortunatamente Iddio autorizza la trascrizione del suo messaggio a ché sia ricordato <Chi vuole lo richiami alla mente su pagine sante, eccelse, purissime, con mani di scribi nobili e pie>> (Cor. LXXX, 13-16). e, così, circa 18 anni dopo la morte del Profeta, il Corano viene trascritto (nella sua forma pressoché definitiva). Per la prima volta in Arabia un'opera di carattere letterario (e non esclusivamente legale/normativo) viene messa per iscritto in un "libro". Ma con "libro" (kitâb), a quel tempo, si intendeva sostanzialmente un registro/indice. Il Corano stesso contiene diversi riferimenti in merito: i libri di cui parla sono quelli in cui sono meticolosamente registrate tutte le azioni umane prima ancora che siano compiute; • In questa sorta di registro le azioni vengono enumerate (Cor. XXXVIII, 29) e nel <<libro degli empi>>

sono annotate ciascuna con un suo numero (Cor. LXXXIII, 7); alla fine dei tempi, il libro <<sarà spalancato>> (Cor. XXXIX, 69) e gli uomini dovranno rendere conto di quanto in esso contenuto. dunque una "raccolta" o "compilazione" (questa è forse l'origine etimologica del verbo kataba "scrivere") di tipo documentale.

• La funzione meramente legale-amministrativa della scrittura (kitâba) al tempo di Muhammad è descritta con chiarezza nel versetto 282 della sura II (della Vacca): <<O voi che credete, quando contraete un debito a scadenza fissa, scrivetelo (uktubû-hu), e lo scriva (yaktub) fra di voi uno scriba (kâtib) con rettitudine (bi-*adl) e non rifiuti lo scriba di scrivere come Iddio gli ha insegnato; che scriva egli e glie lo detti il debitore [...]. Convocate due testimoni [...] i testimoni quando sono convocati per testimoniare non si rifiutino di farlo; non vi disgusti metter per iscritto il debito, piccolo o grande che sia, fissandone il termine di scadenza: questa è cosa più giusta presso Dio e più acconcia alla testimonianza e più facile a non farvi venir dubbi. Ma se l'oggetto della transazione è merce pronta che fate girare fra di voi non ci sarà nulla di male se non metterete la cosa per iscritto [...]>>.

Essendo i criteri sottesi alla redazione di questa prima "opera letteraria" vincolati a questa idea di libro, non è un caso che l'ordine in cui le rivelazioni coraniche sono arrangiate sia indipendente dal loro contenuto. In esso non vi è alcun legame cronologico o tematico fra un capitolo (sura) e l'altro (e spesso fra gruppi di versetti nella stessa sura): esclusa la prima sura (la "Aprente") l'ordine dei capitoli è determinato solo dalla loro ampiezza. Alla redazione di tipo archivistico del Corano, inoltre, non soggiace alcuna delle funzioni mnemotecniche in uso nell'Arabia del tempo. Una delle conseguenze di questa trascrizione e redazione del Corano - ossia nel momento il cui è "Il Libro", a costituire l'autorità fondante di un intero sistema di sapere e di una intera società - è la nobilitazione da un lato del concetto - prima pressoché inesistente - di scrittura intesa come composizione (kitâba), dall'altro del concetto di scrittura intesa come strumento di espressione grafica (khatt). La scrittura divina dell'Umm al-kitâb, infatti, non è collegata con il sistema di scrittura usato dagli uomini e, giacché la "parola" coranica è parte del Libro, mentre la sua scrittura non lo è (o lo è solo nella sua dimensione divina), l'unico collegamento fra i due elementi sta nel dispositivo della "recitazione" (qur'ân). La kitâba, piuttosto, è direttamente connessa al concetto di autorità e di autorialità. Scrivere un testo equivale a fissarlo e renderlo il più possibile immutabile; firmarlo poi (o attribuirlo a un autore "autorevole") significa conferirgli autorità. Insomma: khatt e kitâba divengono un valido strumento di trasmissione del sapere. Anche grazie a ciò sarà ammissibile, e finanche raccomandabile, scrivere (kataba) la "Biografia del Profeta", o le raccolte di hadîth, o il canzoniere di un poeta, o la narrazione storica degli eventi importanti, o un trattato di grammatica. I primi "libri" scritti in epoca islamica sono per l'appunto la Sîra di Ibn Ishaq, il al-Muwatta' di Malik, le cronache di Abû Mikhnaf che diventano la fonte di Tabarî, i primi trattati di al-Duwâlî. Fonti: Rivista di Filologia Cognitiva

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Per esigenze editoriali il testo è qui presentato con una traslitterazione semplificata. Una versione traslitterata scientificamente è disponibile contattando gli autori. an open-access online journal devoted to cognitive philology edited by: Paolo Canettieri e Anatole Pierre Fuksas

Mohammad al-Basrûs Tunisia 1911-1944

Is’ad ti prego di venire con me nel vicino bosco, dove la vita è bella. Nella sua frescura c’è la bellezza dell’amore per accogliere l’alba sorridente che respira come la corda della chitarra. Cantiamo, come cantano gli usignoli, per i fiori e gli alberi. Li' accoglieremo il venticello che odora di gelsomino, ascolteremo la melodia degli uccelli e la loro tenera magia. Li' berremo avidamente L’incanto del mattino e del tramonto. Torneremo pieni di sogni e di speranze.

Fiaba del Kazakistan Il mantello di Aldar-Kose

Aldar-Kose era un ragazzo intelligente. Non era ricco,però non gli era mai mancato nulla e non si era mai trovato in grande povertà. Tutti nel Kazakistan gli volevano bene. Ma un giorno d'inverno Aldar-Kose era assai triste. Soffiava un vento gelido ed egli se ne andava solo cavalcando nella steppa. Non c'era in giro anima viva.Il suo cavallo zoppicava e il suo mantello aveva settanta buchi e novanta rattoppi. All'improvviso vide un cavaliere che veniva verso di lui. Aveva un bellissimo cavallo e un caldo mantello di pelliccia di volpe. Doveva essere senz'altro un ricco mercante. Aldar-Kose si rizzò sulla sella,sciolse il suo mantello e cominciò a cantare. " Non hai freddo?"chiese il mercante stupito."Il tuo mantello è pieno di buchi,come puoi avere ancora voglia di cantare?" "Canto perché il mio mantello è pieno di buchi. Il vento entra soffiando in un buco ed esce dall'altro e io rimango al caldo. Voi dovete avere freddo con il vostro mantello di volpe!" "Sì , ho proprio freddo" ammise il mercante"Non mi venderesti il tuo mantello?" "Ma io non voglio venderlo, perché,se lo vendessi, sarei poi io ad avere freddo!" "Bene,ti darò il mio mantello e per giunta del denaro." "D'accordo! Scambiamoci i mantelli e anche i cavalli. Il denaro potete tenervelo." Il mercante diede ad Aldar-Kose la sua pelliccia di volpe e il suo cavallo e si prese in cambio il ronzino zoppicante e il mantello con settanta buchi e novanta rattoppi. E se ne andò contento d'aver fatto un buon affare. Adar-Kose indossò il mantello di pelo,saltò sul cavallo e partì veloce. Nel villaggio,la sera,raccontò la storia del suo mantello magico coi settanta buchi e i novanta rattoppi. e tutti risero della maniera con cui aveva imbrogliato il ricco mercante.

S. Ayaz

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Pakistan Uomini Gli uomini? Rapide ombre sull'acqua che scorre: ombre d'anatre volanti.Dove vanno? battono,battono le ali; volano volano;dove? sterminata la terra ed infinito il cielo e la stagione bene adatta al volo. Come bello il volare,se non fosse.... lontana forse e indistinta, in agguato, l'ombra di un cacciatore.

Badr Shakir as-Sayyab da "Il canto della pioggia" … Sai, donna, quale tristezza suscita la pioggia? e come ribollono le gronde quando essa scorre? e come in essa chi è solo sente l'abbandono? Senza fine - come il sangue versato, come gli affamati, come l'amore, come i bimbi, come i morti - è la pioggia! Le tue pupille girano intorno a me con la pioggia e al di là dei flutti del Golfo lustrano i lampi le coste dell'Iraq con stelle e madreperla, come se preparassero il levar del sole; poi stende su di esse la notte una coltre di sangue. Grido al Golfo: " O Golfo, o datore di perle, conchiglie e rovina!" E ripete l'eco come un singhiozzo: " O Golfo, datore di conchiglie e rovina..." Odo quasi l'Iraq accumulare tuoni e immagazzinare lampi nelle piane e sui monti, così che quando gli uomini ne spezzino il suggello i venti non lasciano di Thamud nella valle traccia. Odo quasi la palma bere la pioggia e odo i villaggi gemere e gli emigranti lottare con i remi e le vele le tempeste del Golfo, e i tuoni, cantando: "Pioggia... pioggia... pioggia... E nell'Iraq c'è fame e si disperdono in esso i raccolti nella stagione della mietitura per saziare i corvi e le cavallette e macina raccolti e pietre un mulino che gira nei campi... e intorno ad esso sono uomini. Pioggia... pioggia...

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pioggia... E quante versammo la notte della partenza lagrime e poi allegammo per scusa, nel timore del biasimo, la pioggia... pioggia... pioggia... traduzione Paolo Minganti Roma, Istituto per L'Oriente 1968

favola dalla Siria La scimmia golosa

Un uomo attraversava il bosco con un sacco di lenticchie. Doveva venderle al mercato, ma, a metà strada,si fermò per fare un riposino sotto un albero.La scimmia che abitava quell'albero vide che l'uomo si era addormentato e scese dai rami per rubargli una manciata di lenticchie. Risalì sull'albero per mangirsele, ma appena aprì il pugno, una lenticchia cascò a terra. Allora la scimmia scese a cercarla, ma nel frattempo l'uomo si era risvegliato e l'animale, per risalire in fretta sul suo albero, abbandonò tutte le lenticchie che teneva in mano. Così, per non perdere una lenticchia, la scimmia golosa le perdette tutte quante. Ghazal di Sanâ'i Persia Sanai Da quando ha mostrato il volto la rosa color di rubino mai non si stanca di cantar la sua gioia l'usignolo. È lungo tempo che, come me, l'usignolo è stato innamorato del giardino e del fiore Non v'è da stupirsi s'ei resta desto il giorno e la notte: chi mai s'è addormito avanti all'Amico? Schiavo son io della lingua di quell'usignolo Che ieri lodava cantando la rosa color di rubino. O Coppiere! È tempo di fiori, e tu porgi il vino fiorito; nessuno ordinò mai di pentirsi nella stagione dei fiori! traduzione di A. Bausani

Rumi 1207-1273 noto anche come Moulânâ nacque nel 1207 a Balkh (odierno Afghanistan). Suo padre, famoso predicatore di Balkh, si trasferì ad ovest, a Samarcanda, quando il poeta era ancora piccolo. Nel 1228 la sua famiglia si spostò ancora una volta, questa volta verso est, a Konya dove il poeta, dopo la morte del padre divenne discepolo del mistico Seyyed Burhân al -Din. Nel 1244 egli incontrò Shams al -Din Mohammad Tabrizi e la loro amicizia costituì una tappa fondamentale della sua vita. L'amore estatico che li legò suscitò invidie fra i discepoli di Rumi, e Shams preferì allontanarsi e raggiungere Damasco. Rumi lo ricercò senza successo e col tempo arrivò a idealizzarlo e a identificarlo anche nel suo Canzoniere con l'Amato, utilizzando il suo nome come takhallos (Shams o Shams -e Tabrizi). Rumi morì a Konya nel 1273. Tra le sue opere ricordiamo il già citato masnavi-ye Ma'navi (Poema Spirituale,) e il "Grande Canzoniere" (Divân-e Kabir) di ben 50.000 distici. Di quest'ultimo è stata pubblicata in italiano una selezione a cura di A. Bausani (Rumi, Poesie mistiche.), la cui introduzione illustra il pensiero filosofico-mistico del poeta. Limite alcuno non ha questo nostro deserto, pace alcuna non ha questo cuore mio, quest'anima. Universi su universi han preso immagine e forma: quale dunque di queste immagini è l'immagine nostra? Se tu vedrai per la strada una testa mozzata che verso la nostra piazza sta rotolando, chiedile, chiedile, i segreti del cuore

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e ti dirà il nostro mistero nascosto. Ah potesse, potesse un orecchio mostrarsi capace d'intendere dei nostri uccelli il linguaggio! Ah potesse, potesse un uccello volare con il rutilante collare dell'arcano di Salomone! Che dir dovrei dunque? Che cosa sapere? Che questo racconto è storia troppo alta pel nostro limitato potere. Ma come tenere il silenzio, se ad ogni momento Questa mente sconvolta mi diventa sconvolta più ancora? Pernici volano insieme, e falchi nell'aria sottile della nostra terra montana, in un'aria che è il settimo cielo dell'aria, e al cui apogeo brilla il nostro Saturno. Non sono i sette cieli sotto al Trono, all'Empireo? Ma oltre l'Empireo e il Trono corre la nostre folle rivoluzione! Anzi, a che parlare di brame d'Empireo e di Cieli? È verso il giardino d'Unione Perfetta che vola il nostro sentiero! Lascia questo discorso e più non chiedermi nulla, ché la nostra storia è interrotta, è spezzata, E ormai Salâh ad-Din, l'amico, ti mostrerà la bellezza suprema del nostro Imperatore e Sovrano. (traduzione di A. Bausani)

Erâqi Persia 1213/4 - 1289

Ogni giorno all'alba cento lamenti e preghiere rivolgo alla brezza affinché essa porti al Vostro quartiere il mio messaggio. Mi lego al vento e al vento consegno la vita, se così non facessi, come giungerebbe alla tua soglia la brezza? Poiché non ho un intimo amico discorro col vento, poiché non trovo un unguento cerco sollievo nel vento. L'acqua che scende dagli occhi non può spegnere il fuoco del cuore, sul quel fuoco soffio un respiro che ancor più mi faccia bruciare. Magari diventassi cenere e il vento mi trascinasse via, sarei libero dalla schiavitù di quest'opprimente sventura! Meglio morire, farsi polvere, che vivere privati di te, meglio bruciare che rimanere separati dal tuo volto. Non ha conforto la vita se privata del tuo volto, senza di esso sarà morte o tormento la vita? Il poeta 'Erâqi nacque a Komjân, vicino Hamadân, nel 1213-4. A sei anni era già in grado di recitare a memoria il Corano e a 17 insegnava presso le scuole di Hamadân. Dopo essersi unito ad un gruppo di mistici erranti (qalandar) e aver raggiunto il Multan (in Pakistan), divenne discepolo di Sohravardi Sheykh Bahâ al -Din Zakariyâ' e ne sposò la figlia. Durante un pellegrinaggio sacro (hajj) raggiunse Konya, dove incontrò Jalâl al -Din Rumi e ne fu profondamente influenzato. Il governatore mongolo Mo'in al -Din Parvâna divenne suo ammiratore e seguace e costruì per lui un khânaqâh (monastero) a Duqât. 'Erâqi morì a Damasco nel 1289 e fu sepolto nel cimitero Sâlehiya accanto ad Ebn 'Arabi. La sua opera comprende un canzoniere (Divân), un breve trattato mistico dal titolo Lama'ât (Bagliori) e il masnavi 'Oshshâq-nâme (Il libro degli amanti), intercalato da numerosissimi ghazal lirici. Per traduzioni in italiano di passi delle sue opere si veda A. Bausani -A. Pagliaro, La letteratura neopersiana, e A. M. Piemontese-G. Scarcia, Poesia d'amore turca e persiana

Fiaba dall'Iran L'anello fatato

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C'era una volta un ragazzo di nome Ebrahim, che viveva con la sua mamma ormai anziana in una piccola città' della Persia. Erano molto poveri. La loro unica ricchezza era costituita da un gatto che faceva loro compagnia. Un giorno Ebrahim andò a fare un giro al mercato che si svolgeva una volta la settimana nel centro del paese. Osservando le numerose bancarelle, si soffermò su quella di un vecchio che vendeva mobili. Ebrahim fu incantato da una cassapanca che giaceva insieme agli altri mobili. Era molto bella e decise di comprarla. Giunto a casa, aprì la cassapanca di fronte alla madre. Ne uscì immediatamente un serpente enorme, dalle cui fauci venne fuori una splendida ragazza. "Ti ringrazio - disse la fanciulla - tu mi hai salvato, riportami da mio padre che è il principe di un regno qui vicino!" Ebrahim allora partì' alla volta del regno accompagnata dalla bella principessa. Giunti al palazzo reale, questa gli disse: "Devi chiedere a mio padre che ti dia il narghilè (anello fatato nella lingua persiana) che e' vicino al trono: quel narghilè ha poteri fantastici!" Il ragazzo fece come gli era stato consigliato e grazie al narghilè poté diventare ricco. Inoltre il re gli aveva promesso in moglie la figlia. Ma un brutto giorno il vecchio che gli aveva venduto la cassapanca, che era un orco cattivo, scoprì quel che era accaduto. E attribuì ' la fortuna del giovane al fatto che egli gli aveva venduto una cassapanca, cosa che - secondo l'orco - non meritava. Il vecchio si precipitò così nel palazzo del giovane, travestito da mercante. Con una scusa, si fece dare da una serva il narghilè e si impossessò del castello. Ebrahim era disperato! Non sapeva come fare! Ma il suo gatto corse in suo aiuto, dicendo: "Non temere, ti aiuterò io! Vai da lui e sfidalo a diventare qualsiasi cosa!" Ebrahim ascoltò il consiglio del suo piccolo felino e andò dall'orco e gli disse: "Scommetto che non sei capace di trasformarti in niente!". L'orco diventò un enorme drago, ma Ebrahim lo sfidò nuovamente invitandolo ad assumere l'aspetto di un animale più piccolo. L'orco allora diventò un topo e il gatto lo mangio in un sol boccone! Ebrahim sposò la principessa e visse felice e contento con la sua mamma, il papà di lei, senza dimenticare il suo gatto furbissimo che gli aveva fornito la soluzione.

Hâfez 1325 - 1390

All'alba mi recai nel giardino per cogliere una rosa, d'un tratto mi giunse all'orecchio il canto di un usignolo. Come me, sventurato, era impigliato nell'amore per la rosa e aveva messo in subbuglio il prato con i suoi gorgheggi. Girovagavo di continuo sul prato di quel giardino riflettendo su quella rosa e sul quel usignolo: la rosa è amica di Bellezza, e l'usignolo s'accompagna all'Amore, all'uno attribuisci virtù, all'altra mutevolezza. Molte rose sono sbocciate in questo giardino, eppure, nessuno può cogliere in esso una rosa senza provare dolore di spine. Hâfez, non sperare nella gioia che proviene da un simile mondo, esso invero ha mille difetti e non una sola virtù. Hâfez nacque a Shirâz nel 1325 circa e sembra abbia trascorso la maggior parte della sua vita in questa città presso la corte Mozaffaride. Ricevette un'educazione secondo i canoni tradizionali: studiò l'arabo, le scienze islamiche, la letteratura persiana e sin da giovane si guadagnò il titolo di "Hâfez", ovvero di "colui che recita a memoria il Corano". La sua maturità di poeta coincide con il regno di Shah Shojâ': durante questi anni la sua fama si diffuse in tutta la Persia, nel mondo arabo ed in India. Nonostante gli inviti ricevuti da parte di corti lontane, egli preferì rimanere presso i regnanti Mozaffaridi e di questi vide la sconfitta per mano di Timur. Morì a Shiraz nel 1390. Un'antologia in traduzione italiana è stata di recente curata da C. Saccone (Hâfez, Il libro del coppiere, Trento, 1998).

Racconto popolare dell'Iraq Storia di Sindbad il marinaio

Sotto il regno del califfo Harun-al-Rashid, viveva a Bagdad un povero facchino di nome Hindbad.Un giorno di gran caldo, mentre trasportava un pesantissimo carico da una parte all'altra della città, si sentì molto stanco per la strada già percorsa. Poiché gliene restava da fare ancora molta, arrivato in una via dove soffiava un dolce venticello e il cui acciottolato era bagnato di acqua di rose, non potendo desiderare un vento più favorevole per riposarsi a riprender nuove forze, posò il suo carico in terra e vi si sedette sopra, vicino a una grande casa. Presto si rallegrò di essersi fermato in quel posto: infatti, il suo odorato fu piacevolmente colpito da uno squisito profumo di legno di aloe e di altri aromi, che usciva dalle finestre di quel palazzo e

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che, mescolandosi all'odore dell'acqua di rose, contribuiva a profumare l'aria. A parte questo, sentì venire dall'interno un concerto di diversi strumenti accompagnati dall'armonioso cinguettio di un gran numero di usignoli e di altri uccelli tipici del clima di Bagdad. Questa graziosa melodia e l'odore che emanava il fumo di molte qualità di carni gli fecero giudicare che vi si stesse svolgendo un festino e che ci si divertisse. Volle sapere chi abitava in quella casa che non conosceva bene, non avendo avuto modo di passare spesso per la via. Per soddisfare la sua curiosità, si avvicinò ad alcuni domestici, magnificamente vestiti, che stavano sulla porta e a uno di loro chiese chi fosse il padrone del palazzo. - Eh! come! - gli rispose il domestico, - abitate a Bagdad e ignorate che questa è la casa del signor Sindbad il marinaio, di quel famoso viaggiatore che ha percorso tutti i mari su cui splende il sole? Il facchino, che aveva sentito parlare delle ricchezze di Sindbad, non poté fare a meno di invidiare un uomo la cui condizione gli sembrava tanto felice quanto trovava deplorevole la sua. Con l'animo inasprito dai suoi pensieri, alzò gli occhi al cielo, e disse a voce abbastanza alta da essere udito: - Potente creatore di tutte le cose, considerate la differenza che esiste tra Sindbad e me; io sopporto tutti i giorni mille fatiche e mille pene, e devo affannarmi per nutrire me e la mia famiglia con del cattivo pane d'orzo; mentre il fortunato Sindbad spende a profusione immense ricchezze e conduce una vita piena di delizie. Che cosa ha fatto per ottenere da voi un destino così felice? Dette queste parole, batté il piede a terra, come un uomo interamente posseduto dal suo dolore e dalla sua disperazione. Era ancora in preda ai suoi tristi pensieri, quando vide uscire dal palazzo un servo che gli si avvicinò e che, prendendolo per un braccio, gli disse: - Venite, seguitemi; il signor Sindbad, mio padrone, vuole parlarvi. Hindbad fu non poco stupito della cortesia che gli riservavano. Dopo il discorso che aveva fatto, aveva ragione di temere che Sindbad lo mandasse a chiamare per fargli una cattiva accoglienza; perciò cercò di scusarsi, dicendo che non poteva abbandonare il suo carico in mezzo alla strada. Ma il servo di Sindbad gli assicurò che ne avrebbero avuto cura, e lo incitò tanto a eseguire l'ordine ricevuto, che il facchino fu costretto a cedere alle sue insistenze. Il servo lo introdusse in un salone, dove c'erano molte persone riunite intorno a una tavola imbandita con ogni specie di cibi delicati. Al posto d'onore, si vedeva un personaggio serio, di bell'aspetto e venerando per una lunga barba bianca; dietro di lui, c'era in piedi una folla di ufficiali e di domestici molto premurosi nel servirlo. Questo personaggio era Sindbad. Il facchino, ancora più turbato vedendo tante persone e un banchetto così sontuoso, salutò tremante la compagnia. Sindbad gli disse di avvicinarsi e, dopo averlo fatto sedere alla sua destra, gli servì lui stesso da mangiare, e gli fece dare da bere un eccellente vino di cui la dispensa era abbondantemente fornita. Verso la fine del pranzo, Sindbad, notando che i suoi convitati non mangiavano più, prese la parola e, rivolgendosi a Hindbad da fratello, secondo il costume degli Arabi quando si parlano familiarmente, gli chiese come si chiamava e quale era la sua professione. - Signore, - rispose quello, - mi chiamo Hindbad. - Sono molto contento di vedervi, - riprese Sindbad, - e vi assicuro che anche la compagnia vi vede con piacere; ma desidererei sapere da voi stesso quello che poco fa dicevate in strada. Sindbad, prima di mettersi a tavola, aveva sentito tutto il suo discorso dalla finestra; proprio questa ragione l'aveva spinto a farlo chiamare. A questa domanda, Hindbad, pieno di confusione, abbassò la testa e rispose: - Signore, vi confesso che la mia stanchezza mi aveva messo di cattivo umore, e mi è sfuggita qualche parola indiscreta che vi supplico di perdonarmi. - Oh! non crediate, - riprese Sindbad, - che io sia tanto ingiusto da portarne rancore. Mi immedesimo con la vostra situazione e, invece di rimproverarvi per le vostre critiche, vi compiango. Ma devo togliervi da un errore in cui mi sembrate caduto nei miei confronti. Voi vi immaginate senza dubbio che io abbia ottenuto senza pena e senza fatica tutte le comodità e il riposo di cui vedete che io godo: disingannatevi. Sono arrivato a uno stato così felice solo dopo aver sopportato per parecchi anni tutte le pene del corpo e dello spirito che l'immaginazione può concepire. Sì, signori, - aggiunse rivolgendosi a tutta la compagnia, - posso assicurarvi che queste fatiche sono così straordinarie da essere capaci di togliere agli uomini più avidi di ricchezze il fatale desiderio di attraversare i mari per conquistarle. Forse avete sentito parlare solo confusamente delle mie singolari avventure, e dei pericoli che ho corso sul mare durante i miei sette viaggi; e, poiché se ne presenta l'occasione, ve ne farò un fedele racconto: credo che non vi dispiacerà ascoltarlo. Poiché Sindbad voleva raccontare la sua storia soprattutto a causa del facchino, prima di cominciarla ordinò di far portare nel posto indicato da Hindbad il carico che aveva lasciato in strada. Fatto ciò, parlò in questi termini.

Fadwa Tûqan Palestina 1917

E’ provato dalla debolezza e dai dolori la gracilità e l’infermità si sono accanite contro di lui. Gli arti sono fragili per la malattia,

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non riesce a muovere né mano, né piede, il suo corpo è indebolito la febbre lo divora. Sta immobile, volgendo solo lo sguardo che talvolta si spegne. Ha sette anni ed è già orfano la pietà di Dio lo avvolga. La povertà ne ha indebolito gli occhi colpendolo sin dallo svezzamento. Compassione per una madre vedova, che ha chiuso nel cuore il suo dolore, evitando di indossare gli abiti neri. No, non credete che la sua sanguinante ferita sia guarita. Ha solo voluto allontanare Il malaugurio dal suo unico figlio. Ma quanto soffre il suo cuore ! si veste in bianco, quasi fosse una colomba di un luogo sacro. Con passione l’abbraccia. Il mondo degli orfani, è l’abbraccio di una madre. Ne carezza la fronte con la mano Benché ardesse per la febbre. Il bambina la guarda silenzioso : nei suoi occhi c’era un interrogativo : Oh, se potessi capire cosa egli desidera ! Nella sua anima c’è Una domanda segreta. Se avesse chiesto le stelle si sarebbe adoperata per dargliele, ogni sua richiesta viene accolta. Si china per chiedergli un desiderio. Fissa gli occhi, la bocca si distende e dice mamma, chissà dov’è mio padre … non è tornato da quando se ne è andato. Rivolgiti a lui, chiedigli di tornare; il mio cuore, se lo vede venire, gioirà. Non chiedere della sua ferita, come sia; da ogni parte sgorga il sangue. Abbraccia il bambino con una mano, con l’altra asciuga le sue copiose lacrime. E’ difficile quel che egli chiede. Come puo' riportargli il corpo morto ?

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Casa di poesia e letteratura. La prima in Sardegna; in Italia, aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana…il progetto Isola Nera riguarda la prossima pubblicazione in formato cartaceo. Isola Nera merita degli sponsors in grado di valorizzare l’iniziativa e dalla quale

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