Isaiah Berlin - Il Divorzio Tra Le Scienze e Gli Studi Umanistici

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IL DIVORZIO TRA LE SCIENZE E GLI STUDI UMANISTICI – da I. Berlin, Controcorrente (1979) I L'argomento che intendo trattare è il rapporto tra le scienze naturali e gli studi umanistici, e, più pre- cisamente, il crescere della tensione tra le une e gli altri; ma soprattutto il momento in cui il grande divorzio tra le due sfere, che andava maturando da qualche tempo, diventò, mi sembra, evidente a chiunque avesse oc- chi per vedere. Non fu un divorzio tra «due culture»: vi sono state molte culture nella storia dell'umanità, e la loro varietà ha poco o nulla a che fare con le differenze tra le scienze naturali e gli studi umanistici. Nono - stante i miei tentativi, mi è sempre rimasto del tutto oscuro che cosa si intenda quando si designano come culture questi due grandi ambiti della ricerca umana; è comunque un fatto che sembrano aver concentrato i rispettivi interessi su questioni alquanto diverse, e che quanti vi hanno lavorato e vi lavorano hanno persegui - to scopi e impiegato metodi differenti – un fatto che, nel bene e nel male, diventò palese nel Settecento. Il mio punto di partenza è una tradizione in cui tuttora si riconoscono molti illustri scienziati: la tradi- zione di quanti credono che sia possibile avanzare regolarmente nell'intera sfera della conoscenza umana; che i metodi e le mete siano, o dovrebbero essere, in ultima analisi identici da un capo all'altro di tale sfera; che la via del progresso sia stata, almeno nel cinquanta per cento dei casi – ma forse molto più spesso –, bloccata dall'ignoranza, dalle fantasticherie, dal pregiudizio, dalla superstizione e da altre forme di irraziona- lismo; che oggi abbiamo raggiunto uno stadio in cui le conquiste delle scienze naturali sono tali da metterci in grado di derivare la loro struttura da un unico insieme integrato di princìpi o regole chiaramente definiti, che, se applicati in modo corretto, permetteranno ulteriori, illimitati progressi nel disvelamento dei misteri della natura. Questo approccio è in linea con una tradizione basilare del pensiero occidentale che risale almeno a Platone. A me sembra che esso poggi su almeno tre presupposti fondamentali: a) che ogni domanda autentica ha una e una sola risposta vera, tutte le altre essendo false. In caso diverso, la domanda non può essere una domanda reale: da qualche parte, vi è in essa della confusione. Questa posizione, che è stata resa esplicita dai filosofi empiristi moderni, è contenuta, a livello implicito ma non meno saldamente, nelle concezioni dei loro predecessori teologici e metafisici, contro i quali essi hanno impegnato una lotta lunga e intransigente. b) Il metodo che conduce alla giusta soluzione di tutti i problemi autentici ha carattere razionale; ed è nel fondo, se non nell'applicazione particolareggiata, identico in tutti i campi. c) Tali soluzioni, non importa se siano state scoperte oppure no, sono vere universalmente, eternamente e immutabilmente: vere per tutti i tempi, luoghi e uomini: come nelle vecchie definizioni del diritto naturale, sono quod semper, quod ubique, quod ab omnibus. Naturalmente, all'interno di questa tradizione si sono date opinioni diverse circa il dove le risposte vadano cercate: alcuni hanno pensato che potessero essere scoperte soltanto da specialisti esperti, poniamo, nel metodo dialettico di Platone, o nei tipi di indagine teorizzati da Aristotele, di carattere più empirico o nei metodi delle varie scuole di sofisti, o dei pensatori che fanno risalire il proprio indirizzo a Socrate. Altri han- no sostenuto che queste verità sono meglio accessibili agli uomini che hanno un'anima pura e innocente, il cui intelletto non è stato corrotto dalle sottigliezze filosofiche o dalla raffinatezza della civiltà o da istituzioni sociali distruttive, come hanno affermato per esempio Rousseau e Tolstoj. Ci fu, specie nel Seicento, chi cre- dette che l'unica vera via fosse quella offerta dai sistemi basati sull'intuizione razionale (di cui il ragionamen- to matematico offriva un esempio perfetto), che produceva verità a priori; altri si sono affidati alle ipotesi confermate o smentite da osservazioni ed esperimenti debitamente controllati; altri ancora hanno preferito fare assegnamento su quello che ai loro occhi appariva il semplice senso comune – le bon sens – rafforzato da un'attenta osservazione, dall'esperimento, dal metodo scientifico, ma non sostituibile dalle scienze; né le vie alla verità escogitate dagli uomini si fermano qui. Ciò che accomuna tutti i pensatori di questo tipo è la credenza che esista un unico metodo vero o un'unica vera combinazione di metodi, e che le domande cui tali strumenti non sono in grado di trovare una risposta non possano averne affatto. L'implicazione di questa po - sizione è che il mondo costituisca un sistema unitario passibile di essere descritto e spiegato mediante l'uso di metodi razionali; con il corollario pratico che se si vuole che la vita dell'uomo sia comunque organizzata, anziché rimanere abbandonata al caos, allora tale organizzazione è possibile solamente alla luce di quei prin- cìpi e di quelle leggi. Non sorprende che questa concezione sia stata sostenuta con il massimo di vigore e di autorevolezza nell'ora del più grande trionfo delle scienze naturali – sicuramente una notevolissima, se non la più notevole conquista della mente umana –, e dunque soprattutto nell'Europa occidentale secentesca. Da Descartes e Ba- cone, dai seguaci di Galileo e Newton, da Voltaire e dagli Enciclopedisti fino a Saint-Simon e Comte e Buck- le, e, nel nostro secolo, a H.G. Wells e Bernal e Skinner e ai positivisti viennesi, con il loro ideale di un si - stema unificato di tutte le scienze, naturali e umane, è stato questo il programma dell'Illuminismo moderno; ed esso ha svolto un ruolo decisivo nell'organizzazione sociale, giuridica e tecnologica del nostro mondo. Ciò

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Saggio dal volume "Controcorrente"

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IL DIVORZIO TRA LE SCIENZE E GLI STUDI UMANISTICI – da I. Berlin, Controcorrente (1979)

IL'argomento che intendo trattare è il rapporto tra le scienze naturali e gli studi umanistici, e, più pre-

cisamente, il crescere della tensione tra le une e gli altri; ma soprattutto il momento in cui il grande divorziotra le due sfere, che andava maturando da qualche tempo, diventò, mi sembra, evidente a chiunque avesse oc-chi per vedere. Non fu un divorzio tra «due culture»: vi sono state molte culture nella storia dell'umanità, e laloro varietà ha poco o nulla a che fare con le differenze tra le scienze naturali e gli studi umanistici. Nono-stante i miei tentativi, mi è sempre rimasto del tutto oscuro che cosa si intenda quando si designano comeculture questi due grandi ambiti della ricerca umana; è comunque un fatto che sembrano aver concentrato irispettivi interessi su questioni alquanto diverse, e che quanti vi hanno lavorato e vi lavorano hanno persegui -to scopi e impiegato metodi differenti – un fatto che, nel bene e nel male, diventò palese nel Settecento.

Il mio punto di partenza è una tradizione in cui tuttora si riconoscono molti illustri scienziati: la tradi-zione di quanti credono che sia possibile avanzare regolarmente nell'intera sfera della conoscenza umana;che i metodi e le mete siano, o dovrebbero essere, in ultima analisi identici da un capo all'altro di tale sfera;che la via del progresso sia stata, almeno nel cinquanta per cento dei casi – ma forse molto più spesso –,bloccata dall'ignoranza, dalle fantasticherie, dal pregiudizio, dalla superstizione e da altre forme di irraziona-lismo; che oggi abbiamo raggiunto uno stadio in cui le conquiste delle scienze naturali sono tali da metterciin grado di derivare la loro struttura da un unico insieme integrato di princìpi o regole chiaramente definiti,che, se applicati in modo corretto, permetteranno ulteriori, illimitati progressi nel disvelamento dei misteridella natura.

Questo approccio è in linea con una tradizione basilare del pensiero occidentale che risale almeno aPlatone. A me sembra che esso poggi su almeno tre presupposti fondamentali: a) che ogni domanda autenticaha una e una sola risposta vera, tutte le altre essendo false. In caso diverso, la domanda non può essere unadomanda reale: da qualche parte, vi è in essa della confusione. Questa posizione, che è stata resa esplicita daifilosofi empiristi moderni, è contenuta, a livello implicito ma non meno saldamente, nelle concezioni dei loropredecessori teologici e metafisici, contro i quali essi hanno impegnato una lotta lunga e intransigente. b) Ilmetodo che conduce alla giusta soluzione di tutti i problemi autentici ha carattere razionale; ed è nel fondo,se non nell'applicazione particolareggiata, identico in tutti i campi. c) Tali soluzioni, non importa se sianostate scoperte oppure no, sono vere universalmente, eternamente e immutabilmente: vere per tutti i tempi,luoghi e uomini: come nelle vecchie definizioni del diritto naturale, sono quod semper, quod ubique, quod abomnibus.

Naturalmente, all'interno di questa tradizione si sono date opinioni diverse circa il dove le rispostevadano cercate: alcuni hanno pensato che potessero essere scoperte soltanto da specialisti esperti, poniamo,nel metodo dialettico di Platone, o nei tipi di indagine teorizzati da Aristotele, di carattere più empirico o neimetodi delle varie scuole di sofisti, o dei pensatori che fanno risalire il proprio indirizzo a Socrate. Altri han-no sostenuto che queste verità sono meglio accessibili agli uomini che hanno un'anima pura e innocente, ilcui intelletto non è stato corrotto dalle sottigliezze filosofiche o dalla raffinatezza della civiltà o da istituzionisociali distruttive, come hanno affermato per esempio Rousseau e Tolstoj. Ci fu, specie nel Seicento, chi cre-dette che l'unica vera via fosse quella offerta dai sistemi basati sull'intuizione razionale (di cui il ragionamen -to matematico offriva un esempio perfetto), che produceva verità a priori; altri si sono affidati alle ipotesiconfermate o smentite da osservazioni ed esperimenti debitamente controllati; altri ancora hanno preferitofare assegnamento su quello che ai loro occhi appariva il semplice senso comune – le bon sens – rafforzatoda un'attenta osservazione, dall'esperimento, dal metodo scientifico, ma non sostituibile dalle scienze; né levie alla verità escogitate dagli uomini si fermano qui. Ciò che accomuna tutti i pensatori di questo tipo è lacredenza che esista un unico metodo vero o un'unica vera combinazione di metodi, e che le domande cui talistrumenti non sono in grado di trovare una risposta non possano averne affatto. L'implicazione di questa po -sizione è che il mondo costituisca un sistema unitario passibile di essere descritto e spiegato mediante l'usodi metodi razionali; con il corollario pratico che se si vuole che la vita dell'uomo sia comunque organizzata,anziché rimanere abbandonata al caos, allora tale organizzazione è possibile solamente alla luce di quei prin-cìpi e di quelle leggi.

Non sorprende che questa concezione sia stata sostenuta con il massimo di vigore e di autorevolezzanell'ora del più grande trionfo delle scienze naturali – sicuramente una notevolissima, se non la più notevoleconquista della mente umana –, e dunque soprattutto nell'Europa occidentale secentesca. Da Descartes e Ba-cone, dai seguaci di Galileo e Newton, da Voltaire e dagli Enciclopedisti fino a Saint-Simon e Comte e Buck-le, e, nel nostro secolo, a H.G. Wells e Bernal e Skinner e ai positivisti viennesi, con il loro ideale di un si -stema unificato di tutte le scienze, naturali e umane, è stato questo il programma dell'Illuminismo moderno;ed esso ha svolto un ruolo decisivo nell'organizzazione sociale, giuridica e tecnologica del nostro mondo. Ciò

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doveva forse, presto o tardi, provocare necessariamente la reazione di quanti pensavano che le costruzionidella ragione e della scienza, e l'idea di un unico sistema onnicomprensivo, sia che pretendessesemplicemente di spiegare la natura delle cose, sia che andasse oltre e ambisse a dettare, alla luce di questa,ciò che l'uomo doveva fare ed essere e credere, fossero in qualche modo costrittive, insomma un ostacoloalla loro visione del mondo, delle catene imposte alla loro immaginazione o al loro sentimento o alla lorovolontà, una barriera alla libertà spirituale o politica.

Non era la prima volta che si verificava un fenomeno del genere: nel periodo ellenistico il predomi-nio delle scuole filosofiche ateniesi fu accompagnato da una considerevole fioritura dei culti misterici e di al -tre forme di occultismo ed emozionalismo, in cui gli elementi non razionali dello spirito umano cercavanouno sbocco. Vi fu la grande rivolta cristiana contro gli imponenti sistemi giuridici organizzati, quello ebraicocome quello romano; vi furono le ribellioni antinomiane medioevali contro l'establishment scolastico el'autorità della Chiesa – ne testimoniano a sufficienza movimenti come quelli dei catari e degli anabattisti;quanto alla Riforma, fu preceduta e seguita dall'emergere di forti correnti mistiche e irrazionalistiche. Non misoffermerò sulle manifestazioni più recenti del fenomeno nello Sturm und Drang tedesco, nel romanticismodel primo Ottocento, in Carlyle e Kierkegaard e Nietzsche e nell'ampio spettro dell'irrazionalismo moderno,sia di destra che di sinistra.

Non è però di questo che intendo occuparmi, ma del cruciale attacco sferrato contro la pretesa tota-lizzante del nuovo metodo scientifico di dominare l'intero campo del sapere umano, nelle sue forme tantometafisiche – a priori – quanto empirico-probabilistiche. Tale attacco, fossero le sue cause psicologiche op-pure sociali (e sono incline a pensare che si trattasse, almeno in parte, di una reazione degli umanisti, e spe-cialmente, tra di loro, dei cristiani antimaterialisti orientati all'interiorità, contro lo strapotente progresso dellescienze fisiche), poggiava esso stesso su un discorso razionale, e a tempo debito condusse al grande divorziotra le scienze naturali e gli studi umanistici – tra Naturwissenschaft e Geisteswissenschaft –, un divorzio lacui validità è stata dopo di allora ininterrottamente contestata, e che rimane tuttora una questione centrale ealtamente controversa.

Come è a tutti noto, i grandi trionfi della scienza naturale nel corso del Seicento procurarono ai fau-tori del metodo scientifico un prestigio immenso. I grandi liberatori dell'epoca furono Descartes e Bacone, iquali, impugnando le armi impiegate durante il Rinascimento, e in effetti anche prima, si levarono control'autorità della tradizione, contro la fede, il dogma o la consuetudine in ogni ambito del sapere e dell'opinio-ne. Sebbene si ponesse molta attenzione nell'evitare una sfida aperta alle credenze cristiane, la tendenza ge-nerale del nuovo movimento andava nel senso di portare ogni cosa davanti al tribunale della ragione: le rozzefalsificazioni e le errate interpretazioni dei testi, su cui i giuristi e i chierici avevano basato le loro pretese,erano state smascherate dagli umanisti in Italia e dai riformatori protestanti in Francia; gli appelli all'autoritàdella Bibbia, o di Aristotele, o del diritto romano, s'erano imbattuti in una robusta resistenza, sagacemente ar-gomentata, alla cui base stavano l'erudizione e i metodi critici. Descartes fece epoca con il suo tentativo di si-stematizzare tali metodi e di svilupparne l'applicazione, computo specialmente nel Discorso sul metodo enelle Meditazioni, i suoi più diffusi e influenti trattati filosofici. Con il suo Tractatus de intellectus emenda-tione, il metodo quasi-geometrico impiegato nell'Ethica e gli assunti intransigentemente razionalistici e la lo-gica rigorosa delle sue opere politiche e delle critiche rivolte all'Antico Testamento, Spinoza aveva portato laguerra più addentro nel campo nemico. Ciascuno a suo modo, Bacone e Spinoza cercarono di rimuovere gliostacoli al chiaro pensiero razionale. Bacone denunciò quelle che gli sembravano le fonti principali di errore:gli «idoli» della «tribù», della «caverna», del «mercato» e del «teatro» – effetti, a suo giudizio, dell'accetta-zione acritica delle testimonianze dei sensi, delle nostre personali predilezioni, del fraintendimento delle pa-role, delle confusioni alimentate dalle fantasticherie speculative dei filosofi, e così via. Spinoza insisté sullamisura in cui le emozioni obnubilano la ragione, producendo paure e odii infondati che conducono a lorovolta a comportamenti distruttivi; da Valla a Locke e Berkeley, furono frequenti gli ammonimenti e gli esem-pi in materia di fallacie e confusioni dovute al cattivo uso della lingua.

La tendenza generale, se non universale, della nuova filosofia era di dichiarare che se si riusciva asgomberare la mente dell'uomo dal dogma, dal pregiudizio e dalla chiacchiera, dalle oscurità organizzate edal gergo aristotelico degli scolastici, la natura sarebbe stata finalmente vista nella piena simmetria e armoniadei suoi elementi, descrivibili, analizzabili e rappresentabili mediante un linguaggio logicamente appropriato:il linguaggio delle scienze matematiche e fisiche. Leibniz sembra aver creduto non soltanto nella possibilitàdi costruire un linguaggio logicamente perfetto, capace di rispecchiare la struttura della realtà, ma in qualco -sa di non dissimile da una scienza generale della scoperta. Le sue idee si diffusero molto al di là degli am-bienti filosofici o scientifici – in effetti, il sapere teoretico era ancora concepito come un ambito indiviso_ lefrontiere tra la filosofia, la scienza, la critica, la teologia non erano nettamente tracciate. Si verificavano inva -sioni e contro-invasioni; la grammatica, la retorica, la giurisprudenza, la filosofia compivano incursioni negliambiti dell'erudizione storica e del sapere naturalistico, e ne venivano a loro volta attaccate. Il nuovo raziona-

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lismo si allargò alle arti creative. Proprio mentre in Inghilterra la Royal Society si dichiarava formalmentecontro l'uso della metafora e delle altre figure retoriche, e chiedeva che la lingua fosse semplice, letterale eprecisa, in Francia si verificò in quest'epoca – per esempio nei drammi e commedie di Racine e Molière e neiversi di La Fontaine e Boileau, scrittori che dominavano la scena europea – un'analoga fuga dalla metafora,dagli abbellimenti e dalle espressioni fortemente colorite: e siccome si pensava che queste esuberanze fioris -sero invece in Italia, la letteratura di questo paese fu presto denunciata dai francesi per l'impurità del suo sti -le. Il nuovo metodo cercò di eliminare tutto ciò che non potesse essere giustificato mediante l'uso sistematicodegli strumenti della ragione, e soprattutto le finzioni dei metafisici, dei mistici, dei poeti; che cos'erano imiti e le leggende se non falsità da cui le società primitive e barbariche, nell'epoca della loro disarmata infan -zia, si erano fatte ingannare? Nel migliore dei casi, si trattava di resoconti fantasiosi o distorti di eventi o per -sone reali. Perfino la Chiesa cattolica subì l'influenza della temperie scientifica dominante, e le grandi impre-se archivistiche dei bollandisti e dei maurini furono condotte in uno spirito semiscientifico.1

Era abbastanza naturale che la storia fosse una della prime vittime di quello che potremmo chiamareil carattere positivistico del nuovo movimento scientifico. Lo scetticismo riguardo alla sua veridicità non eracosa nuova: Plutarco aveva imputato a Erodoto ignoranza, fantasticherie e una propensione alle invenzionitendenziose; e queste accuse contro la storia narrativa erano state periodicamente ripetute da quanti preferi -vano la certezza alla congettura. In particolare il Cinquecento, forse per effetto della mobilitazione della sto-ria nelle guerre di religione a opera delle varie fazioni, vide crescere lo scetticismo e il dubbio: nel 1531 Cor -nelio Agrippa si soffermò sulla sciatteria e sulle contraddizioni degli storici, e sulle svergognate invenzionicui ricorrevano per occultare la loro ignoranza o colmare le lacune del loro sapere là dove non vi erano testi -monianze disponibili; nonché sull'assurdità di idealizzare il carattere degli attori principali della vicenda sto-rica. Agrippa parla della distorsione dei fatti dovuta alle passioni degli storici – aspirazioni, odii e paure, ildesiderio di compiacere un patrono, i moventi patriottici, l'orgoglio nazionale: Plutarco aveva glorificato igreci nel confronto con i omani, e nell'epoca stessa di Agrippa alcuni polemisti magnificavano le virtù deigalli, giudicate superiori a quelle dei franchi, e viceversa. In queste condizioni, come poteva emergere la ve-rità? Sulla stessa linea, alla svolta del scolo Patrizi dichiara che tutta quanta la storia poggia in ultima analisisulle testimonianze oculari; e d'altra parte sostiene che chi è presente agli eventi vi è verosimilmente coinvol-to, e rischia pertanto di offrirne una versione partigiana, mentre è poco probabile che colui il quel, in quantoneutrale e non coinvolto, può permettersi di essere obiettivo, abbia accesso diretto alle testimonianze gelosa -mente custodite dagli uomini delle varie fazioni, col risultato che dovrà affidarsi ai resoconti prevenuti delleparti interessate.

Questo tipo di pirronismo cresce nel corso del secolo: solo per fare qualche nome, è caratteristico diMontaigne, Charron, Lamothe Le Vayer, e naturalmente, ancora più tardi e in una forma più estrema, di Pier -re Bayle. Finché la storia viene considerata una scuola di virtù il cui scopo è celebrare i buoni e smascherarei malvagi, e mostrare l'immutabilità della natura umana in ogni tempo e in ogni luogo, finché è vista unica-mente sotto specie di filosofia morale e politica che ammaestra per via di esempi, la sua veridicità non haforse una grande importanza. Ma una volta affermatosi il desiderio della verità per la verità, o una voltaemerso qualcosa di più nuovo, ovvero il desiderio di creare una scienza capace di progredire – di accumulareconoscenze, di sapere più dei nostri predecessori, e di esserne consapevoli –, ci si rende conto che ciò può es -sere ottenuto soltanto se i ricercatori rispettabili operanti nel campo in questione riconoscono la validità deimedesimi princìpi e metodi, e sono in grado di saggiare ciascuno le conclusioni degli altri, come è avvenuto(e avviene) nella fisica o nella matematica o nell'astronomia e in tutte le nuove scienze. Fu tale inedito oriz -zonte a far apparire così precari i titoli della storia a essere identificata come una provincia dello scibile.

Questo formidabile attacco venne in buona parte da Descartes. Le sue idee sono ben note: la verascienza poggia su premesse assiomatiche, dalle quali è possibile ricavare, mediante l'uso di regole razionali,conclusioni inconfutabili: è così che si procede in geometria, in algebra, in fisica. Ebbene, dove sono, nellaletteratura storica, gli assiomi, le regole di trasformazione, le conclusioni ineluttabili? Il progresso del sapereautentico consiste nella scoperta di verità eterne, immutabili, universali: ciascuna generazione di ricercatoridella verità poggia sulle spalle dei suoi predecessori e comincia dove questi si sono fermati, apportando ilproprio contributo alla somma crescente del sapere umano. Palesemente, ciò non avviene nella letteraturastorica, e anzi nel campo degli studi umanistici in generale. Dove trovare, in questa provincia, l'edificio uni -tario e in costante crescita della scienza? Uno scolaro di oggi conosce più geometri di Pitagora; ma che cosasanno dell'antica Roma i più grandi classicisti del nostro tempo che non sapesse la serva di Cicerone? Checosa i primi hanno aggiunto al patrimonio di conoscenze della seconda? E qual è dunque l'utilità di tutte que-ste fatiche erudite? Descartes fa capire che non è sua intenzione proibire agli uomini di indulgere a questosvago – c'è chi lo trova abbastanza piacevole da spendere in questo modo il proprio tempo libero –, a suodire non peggiore dell'impegnarsi ad apprendere un qualche dialetto curioso, poniamo lo svizzero o il basso-bretone; ma non è un'occupazione appropriata per chi sia seriamente interessato all'accrescimento del sapere.

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Malebranche liquida la storia come pettegolezzo – un giudizio riecheggiato da altri cartesiani; e perfinoLeibniz, che pure compose un'opera storica di considerevoli dimensioni, offre della storia una difesaconvenzionale, presentandola come un mezzo per soddisfare la curiosità riguardo alle origini delle famiglie odegli Stati, e come una scuola di morale. La sua inferiorità rispetto alla matematica, ma anche alla filosofiafondata sulla matematica, sulle scienze naturali e sulle altre scoperte della pura ragione, non può nonapparire evidente a tutti gli uomini pensanti.

Di certo questi atteggiamenti non uccisero gli studi storici. A partire dalla metà del Quattrocento, imetodi dell'erudizione avevano compiuto grandi progressi, soprattutto grazie all'uso di ogni specie di testi -monianze antiche. Monumenti, documenti giuridici, manoscritti, monete, opere d'arte, testi letterari, edifici,iscrizioni, ballate popolari, leggende potevano essere utilizzati come ausilii di una storia narrativa malsicura,e qualche volta magari sostituirla. I grandi giuristi del Cinquecento, Budé, Alciati, Cujas, Dumoulin, Hot-man, Baudouin e i loro discepoli, e nel secolo successivo Coke e Matthew Hale in Inghilterra, Vranck neiPaesi Bassi, De Gregorio in Italia e Sparre in Svezia, ottennero risultati di prima grandezza nella ricostruzio-ne dei testi giuridici sia romani sia medioevali. La scuola degli storici universali in Francia – Pasquier, LeRoy, Le Caron, Vignier. La Popelinière, e naturalmente il grande dotto Bodin – fu all'origine quantomenodell'idea di storia culturale;2 e nel Seicento fu seguita da autori come l'abate di Saint-Réal, Dufresnoy, Char-les Sorel, il padre Gabriel Daniel, e naturalmente Boulainvilliers e Fénelon. Questi primissimi abbozzi di sto-ria culturale, e in particolare la crescente consapevolezza delle differenze piuttosto che delle somiglianze trasocietà, epoche e civiltà diverse, costituivano uno sviluppo nuovo, che col tempo rivoluzionò le nozioni sto -riche. Ma i loro fautori mostrarono una maggiore propensione a denunciare l'erudizione inutile e a redigereprogrammi di ciò che gli storici dovevano fare, che non a indicare metodi precisi per assolvere tali compiti,o, invero, ad assolverli. Il loro lavoro consisteva in buona parte di meta-storia, o di teorie della storia, piutto -sto che di concrete opere storiche. Inoltre, il modello (o «paradigma») scientifico che dominava il secolo, conla sua vigorosa implicazione secondo la quale soltanto ciò che è quantificabile, o quantomeno misurabile –ciò cui sono in linea di principio applicabili i metodi matematici –, è reale, rafforzò considerevolmente lavecchia convinzione che per ogni domanda c'è un'unica risposta vera, universale, eterna e immutabile; cosìera, o sembrava essere, in matematica, fisica, meccanica, astronomia, e presto così sarebbe stato in chimica ebotanica e zoologia e nelle altre scienze naturali; con il corollario che il criterio più attendibile della veritàoggettiva è la dimostrazione logica, o la misurazione, o almeno qualcosa che vi si avvicini.

La teoria politica di Spinoza è un buon esempio di questo approccio: egli suppone che la risposta ra -zionale alla domanda di quale sia il miglior sistema di governo per gli uomini sia in linea di principio rinve -nibile da chiunque, ovunque, indipendentemente dalle circostanze. Se gli uomini non hanno già scopertoqueste soluzioni atemporali, la cosa è certamente dovuta a debolezza, o all'obnubilamento della ragione cau-sato dall'emozione, o magari a sfortuna: sarebbe stato perfettamente possibile che le verità di cui egli pensa-va di offrire una dimostrazione razionale fossero state scoperte e applicate dalla ragione umana in un qualun-que momento del passato, col risultato che all'umanità sarebbero stati risparmiati molti mali. Anche Hobbes,un empirista, ma altrettanto dominato da un modello scientifico, condivide tale presupposto. La nozione deltempo, del mutamento, dello sviluppo storico non ha la minima parte in queste concezioni. Inoltre, tali verità,una volta scoperte, incidono necessariamente sul benessere degli uomini. Di conseguenza, la molla della ri-cerca non è tanto la curiosità, o il desiderio di conoscere la verità come tale, quanto uno scopo utilitario: lapromozione di una vita migliore sulla terra ottenuta rendendo gli uomini più razionali, e pertanto più saggi,più giusti, virtuosi e felici. I fini dell'uomo sono dati, non importa se da Dio o dalla natura. La ragione, libe -rata dai suoi impacci, scoprirà in che cosa consistono, e a questo punto tutto ciò che occorrerà sarà trovare ilgiusto mezzo per raggiungerli.

È questo l'ideale creato da Francesco Bacone a H.G. Wells, a Julian Huxley e a molti di color che og-gigiorno credono in ordinamenti morali e politici basati su una teoria scientifica della sociologia e della psi -cologia. Il personaggio più celebre in tutto questo movimento – non propriamente nell'ambito della scienza,ma in quello dell'applicazione delle sue scoperte alla vita degli uomini –, e di sicuro il suo propagandista dimaggior talento, fu Voltaire. Il suo primo e più vigoroso avversario fu il filosofo napoletano GiambattistaVico. Mettere a confronto le loro concezioni può servire a far luce sulla radicale differenza di atteggiamentiche produsse una cruciale biforcazione del cammino.

IIVoltaire è la figura centrale dell'Illuminismo, perché ne accettò i princìpi fondamentali e usò le pro-

prie incomparabili doti di ingegno, energia, capacità letteraria e scintillante malignità per propagandarli e se-minare il caos nel campo nemico. Il ridicolo uccide con maggiore certezza della furibonda indignazione; eVoltaire fece probabilmente per il trionfo dei valori della civiltà più di qualunque altro scrittore, in ogni tem-po. Quali erano questi princìpi? Mi sia permesso ripetere la formula ancora una volta: esistono verità eterne,

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atemporali, identiche in tutte le sfere dell'attività umana – morale e politica, sociale ed economica, scientificaed artistica; ed esiste un solo modo per conoscerle: mediante la ragione, che Voltaire intendeva non come ilmetodo deduttivo della logica o della matematica, troppo astratto e scollegato dai gatti e dai bisogni dellavita quotidiana, ma come le bon sens, il buon senso che, se non conduce forse alla certezza assoluta, raggiun-ge però un grado di verosimiglianza o di probabilità più che sufficiente per gli affari umani, per la vita pub -blica e privata. Non sono molti gli uomini armati di questa eccellente facoltà in tutta la sua potenza, giacchéla maggioranza appare incurabilmente stupida; ma i pochi che la posseggono portano il merito dei momentipiù belli dell'umanità. Questi bei momenti sono tutto ciò che nel passato ha un valore; soltanto da essi possia -mo imparare come rendere gli uomini buoni, ossia sani, razionali, tolleranti, o a ogni modo meno rozzi e stu-pidi e crudeli; come istituire leggi e governi che promuovano la giustizia, la bellezza, la libertà e la felicità eriducano la brutalità, il fanatismo e l'oppressione di cui è fatta la più gran parte della storia dell'umanità.

Il compito degli storici moderni è dunque semplice: descrivere e celebrare questi momenti di altacultura e contrapporli alle tenebre che li circondano – alle epoche barbariche della fede, del fanatismo e deicomportamenti stupidi e crudeli. A tale scopo gli storici debbono prestare un'attenzione maggiore che non fa -cessero gli antichi alle «consuetudini, alle leggi, alle maniere, al commercio, alla finanza, all'agricoltura, allapopolazione»; e anche agli scambi, all'industria, alla colonizzazione e all'evoluzione del gusto. Queste cosesono molto più importanti dei resoconti delle guerre, dei trattati, delle istituzioni politiche, dei conquistatori,delle genealogie dinastiche e degli affari pubblici, cui finora gli storici hanno attribuito una rilevanza di granlunga eccessiva. Madame du Châtelet, ci racconta Voltaire, gli disse una volta: «Che senso ha per una france-se come me … sapere che in Svezia Egil succedette al re Haquin; o che Osman era il figlio di Ortugul?».Aveva pienamente ragione, e pertanto l'opera che Voltaire scrisse dichiarandola destinata a illuminare la si -gnora in questione – il famoso Essai sur les mœurs – non si proponeva «di far sapere in quale anno un princi-pe che non merita di essere ricordato succedette a un altro principe barbaro di un'oscura nazione». «Desideromostrare in qual modo le società umane si sono formate, com'era organizzata la vita domestica, quali arti ve -nivano coltivate, anziché raccontare per l'ennesima volta la vecchia storia dei disastri e delle sventure … queiben noti esempi della malignità e della depravazione degli uomini». Voltaire intende narrare le conquiste«dello spirito umano nella più illuminata delle epoche», perché è degno di menzione soltanto ciò che è degnodi essere tramandato alla posterità.

La storia è un arido deserto con poche oasi. Sono esistite in Occidente soltanto quattro grandi epochein cui gli esseri umani si siano innalzati in tutta la loro statura e abbiano creato civiltà di cui possono andareorgogliosi: l'epoca di Alessandro, in cui Voltaire include la Repubblica romana e l'Impero al loro meglio; Fi-renze durante il Rinascimento; e l'epoca di Luigi XIV in Francia. Voltaire è assolutamente coerente nel rite-nere che si tratti di civiltà elitarie, imposte da oligarchie illuminate alle masse, cui fanno difetto la ragione eil coraggio, e che altro non chiedono se non di essere divertite e ingannate, con l'ovvio risultato di caderepreda della religione, ossia, per lui, di abominevoli superstizioni. «Soltanto i governi possono … innalzare oabbassare il livello delle nazioni».

Il postulato fondamentale è naturalmente che i fini perseguiti in queste quattro grandi culture sianonel fondo gli stessi: la verità, la luce sono le medesime ovunque; soltanto l'errore ha innumerevoli forme.Inoltre, è assurdo limitare l'indagine all'Europa e a quella parte del Vicino Oriente da cui sono venuti quasisolamente le crudeltà, il fanatismo e le sciocche credenze degli ebrei e dei cristiani, i quali, checché Bossuetsi affanni a dimostrare, sono stati e rimangono nemici della verità e del progresso e della tolleranza. È assur-do ignorare il grande e pacifico regno della Cina, governato dagli illuminati mandarini, o l'India, o la Caldeae le altre parti del mondo che soltanto l'insensata vanità dell'Europa cristiana esclude dall'orbita della storia.Scopo della storia è fornire verità istruttive, e non soddisfare un'oziosa curiosità; e non lo si può raggiungerese non studiando le vette delle conquiste umane, non le vallate. Lo storico non deve mettere in circolazionefavole, come Erodoto, che assomiglia a una vecchia donna che racconta storie ai bambini, ma insegnarci inostri doveri senza aver l'apparenza di farlo, descrivendo per la posterità non gli atti di un singolo uomo mail progresso dello spirito umano nelle epoche più illuminate. «Se non avete nient'altro da dirci se non che unbarbaro succedette a un altro barbaro sulle rive dell'Osso o dell'Issarte, in che cosa siete utili al pubblico?».Perché dovrebbe interessarci il fatto che «Quancum succedette a Kincum, e Kicum succedette a Quancum»?Noi non vogliamo conoscere la vita di Luigi il Grosso, o di Luigi l'Ostinato, e neppure del barbarico Shake-speare e del tedioso Milton; vogliamo invece sapere delle conquiste di Galileo, Newton, Tasso, Addison. Achi interessa sapere qualcosa di Shalmaneser di Mardokempad? Gli storici non debbono ingombrare le mentidei loro lettori con resoconti delle guerre di religione o di altre idiozie che degradano l'umanità, a meno chel'intento sia di mostrare quanto in basso possono cadere gli esseri umani: le vicende di Filippo II di Spagna odi Cristiano di Danimarca sono storie con una morale, che si propongono di mettere in guardia l'umanitàcontro i pericoli della tirannia; e se uno scrive, come fa Voltaire, una vivace e divertente biografia di CarloXII di Svezia, il suo unico scopo è evidenziare i pericoli di una vita sconsideratamente avventurosa. Ciò che

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davvero mette conto sapere è perché l'imperatore Carlo V non trasse maggior profitto dalla cattura del re diFrancia Francesco I; o qual era il valore di una sana politica finanziaria per Elisabetta d'Inghilterra, o perEnrico IV o Luigi XIV in Francia, o quale fu l'importanza della politica dirigiste di Colbert a paragone diquella di Sully. Quanto agli orrori, anche di questi bisogna offrire un'illustrazione particolareggiata, se sivuole evitare un'altra Notte di San Bartolomeo o un altro Cromwell.

Voltaire non si stanca di ripetere che il compito dello storico è di narrare le imprese di quei periodi,purtroppo rari, in cui le arti e le scienze hanno prosperato, e si è riusciti a far sì che la natura fornisse di chesoddisfare i bisogni e provvedere agli agi e ai piaceri dell'uomo. Meinecke descrisse Voltaire, giustamente,come «il banchiere dell'Illuminismo», il custode delle sue conquiste, una sorta di segnapunti nella contesadella luce contro le tenebre, della ragione e della civiltà contro la barbarie e la religione, di Atene e dellaRoma dei Cesari virtuosi contro Gerusalemme e la Roma dei papi, di Giuliano l'Apostata contro GregorioNazianzeno. Ma come possiamo dire che cosa è effettivamente accaduto in passato? Non ha forse PierreBayle gettato dubbi terribili sull'autenticità di certi resoconti di fatti, e mostrato quanto le testimonianze stori-che possano essere inattendibili e contraddittorie? Ciò può essere vero, ma secondo Voltaire quel che contanon sono tanto i fatti specifici, quanto il carattere generale di un'epoca o di una cultura. Gli atti dei singoliuomini hanno scarsa importanza, ed è troppo difficile illuminare il carattere individuale; quando siamo sì eno in grado di dire quale fosse il vero carattere di Mazarino, come potremo mai intendere il carattere degliantichi? «L'anima, il carattere, le molle dominanti, tutte le cose di questa specie costituiscono un caos impe-netrabile che non può mai venire colto con sicurezza. Chiunque, a secoli di distanza, voglia mettere ordine inquesto caos, non fa che creare altro caos».

Come dunque ricuperare il passato? Mediante la luce della ragione naturale – le bon sens. «Qualun-que cosa che non si accordi con la scienza naturale, con la ragione, con la natura [ trempe] del cuore umano èfalsa»; e perché preoccuparsi delle farneticazioni dei selvaggi e delle invenzioni dei farabutti? Sappiamo chei monumenti sono «menzogne storiche» e che «non vi è un solo tempio o collegio di preti, non una sola festi-vità ecclesiastica che non abbia il suo luogo di origine in una qualche sciocchezza». Il cuore umano è lo stes-so ovunque, e per scoprire la verità basta il buon senso.

Le bon sens servì bene a Voltaire: lo mise in grado di screditare buona parte della propaganda cleri-cale e un gran numero di ingenue e pedantesche assurdità. Ma gli disse anche che gli imperi di Babilonia edell'Assiria non potevano assolutamente esser esistiti l'uno accanto all'altro in uno spazio così angusto; che iracconti sulle prostitute dei templi erano un'ovvia sciocchezza; che Ciro e Creso erano personaggi inventati;che era impossibile che Temistocle fosse morto per aver bevuto sangue bovino; che Belus e Ninus non pote-vano essere stati dei re di Babilonia, perché «-us» non è una desinenza babilonese; che Serse non varcòl'Ellesponto. Il Diluvio è una frottola assurda; e quanto alle conchiglie trovate sulle cime delle montagne,possono benissimo essere cadute dai cappelli dei pellegrini. D'altro canto, Voltaire non ha nessun problemaad accettare la realtà di satiri e fauni, del Minotauro, di Zeus, di Teseo ed Ercole, o del viaggio di Bacco inIndia, e accetta disinvoltamente come autentico un classico indiano – lo Yajur Veda – che è invece un falso.Eppure egli ampliò senza dubbio l'area di ciò che può legittimamente interessare lo storico, oltre i confini se-gnati dalla politica, dalle guerre e dai grandi uomini, insistendo sulla «necessità di descrivere come gli uomi -ni viaggiavano, vivevano, dormivano, si vestivano, scrivevano», e di illustrare le loro attività sociali, econo-miche e artistiche. Jacques Cœur è più importante di Giovanna d'Arco. Voltaire deplora che Pufendorf, ilquale ha avuto accesso all'archivio dello Stato svedese, non ci abbia detto nulla sulle risorse naturali di quelpaese, sulle cause della sua povertà sulla parte da esso avuta nelle invasioni gotiche dell'Impero romano.Queste sono domande nuove, e di grande rilievo. Voltaire denunciò l'eurocentrismo; segnalò, seppur somma-riamente, la necessità della storia sociale, economica e culturale, e, sebbene non si impegnasse personalmen-te a realizzare questo programma (le sue storie sono meravigliosamente leggibili, ma in buona parte aneddo-tiche, senza alcun reale tentativo di sintesi), stimolò l'interesse dei suoi successori per un più ampio campod'indagine. Contemporaneamente, svalutò la natura storica della storia, perché i suoi interessi sono morali,estetici, sociali: in quanto philosophe, egli è in parte moralista, in parte turista e feulletoniste, e al cento percento giornalista, benché di incomparabile genialità. Non riconosce, neppure come storico culturale – o cata -logatore –, la molteplicità e la relatività dei valori in tempi e luoghi differenti, o la dimensione genetica nellastoria: la nozione di cambiamento e di crescita gli è largamente estranea. Per Voltaire esistono soltanto le etàluminose e quelle buie, e le tenebre sono dovute ai delitti, alle follie e alle disgrazie degli uomini. Sotto que-sto aspetto, è di gran lunga meno storico di alcuni dei suoi predecessori rinascimentali. Guarda disinvolta -mente alla storia come a un accumulo di fatti legati da nessi casuali, il cui scopo è mostrare agli uomini sottoquali condizioni è possibile realizzare al meglio quei fini essenziali che la natura ha piantato nel cuore di cia -scuno: bisogna mostrare chi sono i nemici del progresso, e in qual modo possono essere sconfitti. Con ciòVoltaire fece probabilmente più di chiunque altro per determinare l'intero orientamento dell'Illuminismo;Hume e Gibbon sono dominati dallo stesso spirito.

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Perché la storia quale oggi l'intendiamo si affermasse nella sua autonomia bisognò attendere la rea-zione contro la classificazione dell'intera esperienza umana in termini di valori assoluti e atemporali; una rea -zione che compì i primi passi in Svizzera e in Inghilterra tra i critici e gli storici delle letterature greca edebraica, e quindi, penetrando in Germania, creò la grande rivoluzione intellettuale di cui Herder fu l'apostolopiù influente. Ma è Voltaire, a Fontenelle e a Montesquieu (il quale, contrariamente all'opinione corrente, eraaltrettanto convinto della natura assoluta e atemporale dei valori umani ultimi, per quanto i mezzi e i metodipotessero variare da un clima all'altro) che siamo debitori delle branche più scientifiche della successiva let-teratura storica: la storia economica, la storia della scienza e della tecnologia, la sociologia storica, la demo-grafia, insomma tutte quelle province della conoscenza del passato che debbono la loro esistenza alle tecni -che della statistica, e più in generale dell'analisi quantitativa. Ma la storia della civiltà di cui Voltaire si rite -neva l'iniziatore fu alla fine creata dai tedeschi, i quali guardarono a lui come all'arcinemico di tutto ciò cheera loro caro.

Ma prima ancora del Contro-Illuminismo degli svizzeri, degli inglesi e dei tedeschi prese forma unaconcezione nuova dello studio della storia. Essa aveva un carattere antivolterriano, e il suo autore era unoscuro napoletano che quasi sicuramente Voltaire non sentì mai nominare; e se ne avesse avuto notizia,l'avrebbe trattato con disprezzo.

IIIGiambattista Vico nacque a Napoli nel 1668, e a Napoli o nei dintorni visse fino alla sua morte nel

1744. Pochissimo noto durante tutta la sua lunga vita, fu l'incarnazione stessa del pensatore solitario. Educatodai preti, lavorò per qualche tempo come precettore privato, quindi diventò un modesto professore di retoricaall'Università di Napoli, e dopo molti anni passati a comporre iscrizioni, panegirici e biografie elogiative inlatino per conto dei ricchi e dei grandi, allo scopo di integrare il magro stipendio, nell'ultimo periodo dellasua vita fu risarcito dalla nomina a storiografo ufficiale del viceré austriaco di Napoli.

Era un cultore appassionato della letteratura dell'umanesimo, degli autori classici e della antichità,specialmente del diritto romano. La sua mente non era analitica o scientifica, ma letterarie e intuitiva. Napolisotto i governanti spagnoli e austriaci non era all'avanguardia del nuovo movimento scientifico; nel regnooperavano, è vero, degli scienziati sperimentali, ma erano attive anche la Chiesa e l'Inquisizione. Tirando lesomme, il Regno delle Due Sicilie era una regione appartata e stagnante, e Vico, per inclinazione un umani -sta religioso con una ricca immaginazione storica, non simpatizzava con il grande movimento materialista escientifico che era deciso a spazzar via gli ultimi resti della metafisica scolastica. Ciò nondimeno, in gioven -tù subì il fascino delle nuove correnti di pensiero: lesse Lucrezio, e la concezione epicurea dell'evoluzionegraduale dell'umanità a partire da inizi primitivi, quasi bestiali, lo accompagnò, nonostante la sua fede cri -stiana, per tutta la vita. Influenzato dall'onnipotente movimento cartesiano, in un primo tempo si convinseche la matematica fosse la regina delle scienze. Ma evidentemente vi era in lui qualcosa che si ribellava aquesta idea. Nel 1709m all'età di quarant'anni, nella prolusione con cui i docenti dell'Università di Napolierano obbligati ad aprire l'anno accademico, pronunciò un'appassionata difesa dell'educazione umanistica: lementi (ingenia) degli uomini erano foggiate dal linguaggio – parole e immagini – che ereditavano, non menodi quanto foggiassero a loro volta i propri modi di espressione; e la ricerca di uno stile piano e neutro, comepure il tentativo di formare i giovani esclusivamente alla luce asciutta del metodo analitico cartesiano, aveva-no tendenzialmente l'effetto di spogliarli del loro potere immaginativo. Vico difese la ricchezza della tradi-zionale «retorica» italiana, un lascito dei grandi umanisti rinascimentali, contro lo stile austero e freddo deimodernisti francesi, razionalisti e influenzati dalla scienza.

Evidentemente continuò a meditare sui due opposti metodi, perché l'anno successivo giunse a unaconclusione davvero straordinaria: la matematica era davvero, come si era sempre affermato che fosse, unadisciplina che conduceva a proposizioni perfettamente chiare e irrefutabili, dotate di validità universale. Maciò non si doveva al fatto che il linguaggio della matematica fosse un riflesso della struttura fondamentale eimmutabile della natura, come i pensatori avevano sostenuto fin dal tempo di Platone, se non di Pitagora; sele cose stavano così, era perché la matematica non rispecchiava un bel nulla. Non era una scoperta, maun'invenzione umana: muovendo da definizioni e assiomi di loro scelta, i matematici potevano – grazie a re -gole di cui essi, o altri uomini, erano gli autori – giungere a conclusioni che erano in effetti logicamente ne-cessarie, ma proprio perché le regole, le definizioni e gli assiomi, tutti prodotti umani, assicuravano che cosìavvenisse. La matematica era una specie di giuoco (sebbene Vico non parlasse in questi termini), in cui i get -toni e le regole erano fatti dall'uomo; le mosse e le loro implicazioni erano bensì certe, ma al prezzo di nondescrivere alcunché: un puro giuoco di astrazioni controllate dai loro creatori. Una volta applicato al mondonaturale – come avveniva per esempio nella fisica o nella meccanica –, questo sistema forniva senza dubbioverità importanti; ma siccome la natura non era stata inventata dagli uomini, aveva le sue proprie caratteristi-che e, diversamente dai simboli, non poteva essere liberamente manipolata, ecco che le conclusioni diventa-

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no meno limpide, non più interamente conoscibili. La matematica non era un sistema di leggi che governava-no la realtà, ma un sistema di regole nei cui termini era utile procedere a generalizzazioni, analisi e previsioniconcernenti il comportamento delle cose nello spazio.

A questo punto Vico fece ricorso a un'antica proposizione scolastica, risalente almeno a sant'Agosti-no: si può conoscere pienamente soltanto ciò che si è fatto. Un uomo può comprendere appieno la sua pro-pria produzione intellettuale o poetica, un'opera d'arte o una mappa, perché le ha fatte personalmente, e gliriescono pertanto trasparenti: ogni cosa in esse è stata creata dal suo intelletto e dalla sua immaginazione.Hobbes aveva invero affermato la stessa cosa riguardo alle costituzioni politiche. Ma il mondo – la natura –non è stato fatto dagli uomini, e dunque soltanto Dio, che ne è l'autore, può conoscerlo in tutto e per tutto. Lamatematica appare una conquista così meravigliosa proprio perché è interamente opera dell'uomo – quanto dipiù vicino alla creazione divina sia dato all'uomo di raggiungere. Durante il Rinascimento vi era stato chiaveva parlato in questi termini dell'arte, dicendo che l'artista è il creatore, quasi deus, di un mondo immagi-nario che esiste accanto al mondo reale; e l'artista, il dio che l'ha creato, ne ha una conoscenza piena. Ma nelmondo della natura esterna vi è qualcosa di opaco: gli uomini possono descriverlo, dire come si comporta insituazioni e rapporti differenti, offrire ipotesi circa il comportamento delle sue componenti – corpi fisici e si-mili –, ma non possono dire il perché, la ragione per cui esso è come è, e si comporta come si comporta; que-sto soltanto chi l'ha fatto, ossia Dio, lo può sapere, mentre agli uomini non è concessa che una visione percosì dire dall'esterno di ciò che accade sul palcoscenico della natura. Gli uomini possono conoscere«dall'interno» solamente ciò che hanno fatto essi stessi, e nient'altro. Quanto maggiore è, in un qualsivogliaoggetto di conoscenza, la componente fatta dall'uomo, tanto più trasparente esso riuscirà all'occhio umano;quanto maggiore la parte della natura esterna, tanto più opaco e impenetrabile esso sarà per l'umano intellet -to. Ciò che è fatto dall'uomo e ciò che è natura – ciò che è costruito e ciò che è dato – sono divisi da un abis -so invalicabile. Tutte le province del sapere umano possono essere classificate secondo questa scala di intelli -gibilità relativa.

Dieci anni dopo Vico compì un passo radicale: affermò che accanto alla sfera di quelle produzioniche sono in maniera evidente fatte dall'uomo – opere d'arte, sistemi politici o giuridici, e invero tutte le disci -pline che obbediscono a regole – esiste un ambito del sapere che gli uomini possono conoscere dall'interno:la storia umana; e possono conoscerla per la buona ragione che sono essi a farla. La storia umana non consi-ste soltanto di cose ed eventi e delle loro compresenze e sequenze (incluse quelle degli organismi umani visticome oggetti naturali) quali le ha fatte il mondo esterno; essa è la storia delle attività umane, di ciò che gliuomini hanno fatto e pensato e sofferto, di ciò per cui hanno lottato, delle mete che si sono proposti, di ciòche hanno accettato, rifiutato, concepito, immaginato, di ciò che ha costituito l'oggetto dei loro sentimenti.Essa è quindi interessata ai motivi, alle intenzioni, alle speranze, alle paure, agli amori e agli odii, alle gelosiee alle ambizioni, agli orizzonti mentali e alle visioni della realtà; ai modi di vedere e alle maniere di agire edi creare, degli individui e dei gruppi. Queste attività le conosciamo direttamente, perché siamo stati coinvol-ti in esse come attori, non come spettatori. Esiste dunque un senso in cui sappiamo di noi stessi più di quantosappiamo del mondo esterno; quando studiamo, ad esempio, il diritto romano, o le istituzioni romane, nonstiamo contemplando oggetti naturali delle cui intenzioni, o del fatto che ne abbiano o no, non possiamo sa-pere nulla. Dobbiamo domandarci che cosa si proponevano quei romani, che cosa si sforzavano di ottenere,come vivevano e pensavano, quale tipo di rapporti con gli altri erano ansiosi di favorire o di frustrare. Tuttecose che non potremmo chiederci degli oggetti naturali: sarebbe ozioso domandarsi che cosa si propone unavacca, o un albero, o una pietra, o una molecola, o una cellula. Non abbiamo motivo di supporre che perse -guano degli scopi; e se lo fanno, non possiamo sapere quali sono. Poiché non siamo stati noi a farli, non pos-siamo avere alcuna visione «dall'interno», come può invece avere Dio, dei fini che essi perseguono, ammes-so che ce ne siano, o in vista dei quali sono stati creati. Esiste dunque un senso preciso in cui la nostra cono-scenza del comportamento intenzionale – ossia dell'azione – è superiore, perlomeno qualitativamente, allanostra conoscenza del movimento o della posizione dei corpi nello spazio – la sfera degli splendidi trionfidella scienza secentesca.

Ciò che ci riesce opaco quando contempliamo il mondo esterno diventa, se non perfettamente traspa-rente, almeno molto meno oscuro quando contempliamo noi stessi. L'applicazione delle regole e delle leggidella fisica o della altre scienze naturali al mondo della mente, della volontà e del sentimento costituisce dun-que una forma perversa di auto-danneggiamento, perché comportandoci in questo modo ci precludiamo sen-za motivo la conoscenza di molte cose che potremmo sapere.

Se l'antropomorfismo consiste nell'attribuire, sbagliando, al mondo inanimato una mente e una vo-lontà umane, tuttavia è verosimile esista un mondo in cui questi attributi possono essere riconosciuti con pie-na ragione, e ciò il mondo dell'uomo. Ne segue che una scienza naturale degli uomini trattati come entità pu -ramente naturali, sullo stesso piano dei fiumi, delle piante e delle pietre, poggia su un errore capitale. Noisiamo, per quanto riguarda noi stessi, degli osservatori privilegiati, provvisti di una visione «dall'interno»; e

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ignorarla in omaggio all'ideale di una scienza unificata di tutto ciò che esiste, di un unico, universale metodod'indagine, significa insistere in una testarda ignoranza in nome di un dogma materialistico che detta ciò chesoltanto è possibile conoscere. Noi sappiamo che cosa significano l'azione, l'intenzione, lo sforzo di raggiun-gere o di comprendere qualcosa – noi conosciamo queste cose per consapevolezza diretta. Possediamo la co-scienza di noi stessi. Siamo anche in grado di dire che cosa si propongono gli altri? Vico non ci dice maiesplicitamente come si arriva a questo, ma sembra dare per scontato che non ci sia bisogno di confutare il so -lipsismo, e presupporre che noi comunichiamo con gli altri perché siamo capaci di cogliere in maniera diret-ta, con maggiore o minore successo, l'intenzione e il significato delle loro parole, dei loro gesti, segni e sim-boli; giacché se non vi fosse comunicazione non vi sarebbe alcun linguaggio, alcuna società, alcuna umanità.Ma, ammesso che ciò valga per i presenti e viventi, bisogna domandarsi se vale anche per il passato. Possia-mo cogliere gli atti, i pensieri, gli atteggiamenti, le credenze, esplicite e implicite, i mondi di pensiero e disentimento di società morte e sepolte? E se sì, in che modo? La risposta di Vico a questa domanda rappresen-ta forse la più ardita e la più originale delle sue idee.

Egli dichiara che vi sono tre grandi porte che immettono nel passato: la lingua, i miti e i riti – ossia ilcomportamento istituzionale. Noi parliamo di forme di espressione metaforiche. I teorici estetici della suaepoca (ci informa Vico) le considerano alla stregua di altrettanti abbellimenti, come una forma aulica di di-scorso usata dai poeti, come un espediente che mira a procurarci piacere o a suscitare in noi determinateemozioni, oppure come maniere ingegnose di comunicare importanti verità.3 Ciò poggia sul presupposto chequanto viene espresso metaforicamente potrebbe, almeno in linea di principio, essere espresso altrettantobene in una prosa piana e letterale, anche se questa rischierebbe di risultare tediosa e di non procurarci il pia-cere che ci dà il discorso poetico. Ma – sostiene Vico – se leggiamo i documenti primitivi (le antichità latinee greche, che conosceva molto bene, gli forniscono la maggior parte degli esempi), ci accorgeremo ben pre -sto che quello che chiamiamo discorso metaforico è il modo di espressione naturale di questi uomini antichi.Quando diciamo che il nostro sangue bolle, per noi queste parole possono essere una metafora convenzionaleper l'ira, ma per l'uomo primitivo l'ira coincideva, alla lettera, con la sensazione del sangue che bolliva dentrodi lui; quando parliamo dei denti dell'aratro, o delle bocche dei fiumi, o delle labbra dei vasi, si tratta per noidi metafore morte, o nel caso migliore di artifici deliberatamente miranti a produrre un certo effettosull'ascoltatore o sul lettore. Ma agli occhi dei nostri remoti antenati l'aratro era realmente provvisto di denti,e i fiumi, che per loro erano semi-animati, di bocche; il paesaggio era dotato di colli e di lingue, i metalli e iminerali di vene, la terra aveva viscere, le querce avevano cuori, i cieli sorridevano e si accigliavano, i ventiinfuriavano, tutta quanta la natura era viva e attiva. Gradatamente, col mutare dell'esperienza umana, questotipo di discorso che un tempo era naturale, e che Vico chiama poetico, si conservò nella forma di giri di fraseentrati nel linguaggio comune, le cui origini erano state dimenticate o perlomeno non venivano più percepite,o nell'aspetto di convenzioni e ornamenti utilizzati da raffinati versificatori. Le forme del discorso esprimonotipi specifici di visione; non esiste un discorso «letterale», universale, che denoti una realtà atemporale. Pri-ma del linguaggio «poetico», gli uomini usavano i geroglifici e gli ideogrammi, che sono portatori di una vi-sione del mondo diversissima dalla nostra – Vico dichiara che gli uomini hanno cantato prima di parlare, eche hanno parlato in versi prima di parlare in prosa, come mostrano chiaramente lo studio delle specie di se-gni e di simboli che impiegavano, e il tipo di uso che ne facevano.

Il compito che sta di front a chi vuole cogliere le specie di vita esistite in passato in società diversedalla sua consiste nell'intendere i loro mondi: ossia nell'immaginare quale tipo di visione del mondo debbonoaver avuto gli uomini che usavano una determinata specie di linguaggio perché appunto tale specie di lin-guaggio ne fosse la naturale espressione. La difficoltà di questo compito è messa in luce nella maniera piùchiara dal linguaggio mitologico su cui Vico si sofferma. Il poeta romano dice: «Jovis omnia plena». Checosa significa? Giove è per noi il padre degli dèi, un barbuto personaggio tonante, ma la parola significa an-che cielo o aria. Come possono «tutte le cose» essere «piene» di un barbuto personaggio tonante, ovvero delpadre degli dèi? Eppure proprio così, palesemente parlavano gli uomini. Dobbiamo dunque domandarci cheaspetto deve aver avuto il mondo per uomini per i quali un siffatto uso del linguaggio, per noi quasi privo disenso, aveva un significato. Che cosa mai si poteva intendere parlando di Cibele come di una donna gigante-sca, e al tempo stesso come della terra intera, o di Nettuno come di una barbuta divinità marina che impugnaun tridente, e al tempo stesso come dell'insieme dei mari e degli oceani? Così Eracle è un semidio che ha uc -ciso l'idra, ma è anche l'Eracle ateniese e spartano e argivo e tebano: egli è uno e molteplice; e Cerere è unadivinità femminile, ma anche tutto il frumento della terra.

È un mondo assai strano quello in cui dobbiamo cercare per così dire di trasferirci, e Vico ci ammo-nisce che soltanto a prezzo degli sforzi più tormentosi possiamo anche solo tentare di entrare nella mentalitàdei selvaggi primitivi la cui visione della realtà è documentata da questi miti e leggende. Eppure l'impresapuò, in una certa misura, essere compiuta, perché noi possediamo una facoltà che egli chiama fantasia –l'immaginazione –, grazie alla quale è possibile «entrare» in menti diversissime dalla nostra.

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Come avviene? Il mezzo più efficace di cui disponiamo per intendere il pensiero di Vico è il paralle -lo da lui tracciato tra la crescita di una specie e la crescita dell'individuo: come siamo in grado di rammentarele esperienze dell'infanzia (e oggigiorno la psicoanalisi si è spinta ancora oltre), così deve essere possibileriafferrare in una certa misura l'originaria esperienza collettiva della nostra razza, benché la cosa richiedaprobabilmente uno sforza terribile. Ciò si basa sul parallelo tra macrocosmo e microcosmo individuale: la fi -logenesi assomiglia all'ontogenesi, secondo un'idea che risale almeno al Rinascimento. Esiste un'analogia trala crescita di un individuo e quella di un popolo. Se posso rammentare che cos'era essere un bambino, avròun vago barlume di che cos'è stato appartenere a una cultura primitiva. Giudicare gli altri alla stregua di ciòche io sono adesso non funziona: se l'animismo è l'errata attribuzione di caratteristiche umane a oggetti natu-rali, l'attribuire ai primitivi le nostre sofisticate nozioni comporta una fallacia dello stesso genere; è la memo-ria, non l'analogia, che sembra avvicinarsi di più alla facoltà della comprensione immaginativa – la fantasia –di cui abbiamo bisogno per ricostruire il passato degli uomini.4

Le categorie esperenziali di generazioni umane diverse sono differenti; ma procedono secondo un or-dine fisso, che Vico pensa di poter ricostruire ponendo le giuste domande alle testimonianze che sono difronte a noi. Dobbiamo chiedere quale specie di esperienza sia presupposta da un particolare uso dei simboli(ossia del linguaggio), e contemporaneamente lo renda intelligibile, quale particolare visione sia incarnatanei miti, nei riti religiosi, nelle iscrizioni, nei monumenti del passato. Le risposte ci metteranno in grado di ri -percorrere la crescita e lo sviluppo dell'umanità, di visualizzare, di «entrare dentro» le menti di uomini checreano il loro mondo mediante lo sforzo, il lavoro, la lotta. Ciascuna fase di questo processo veicola, e anzicomunica, la propria esperienza nelle forme che le sono caratteristiche – nei geroglifici, nel canto primitivo,nei miti e nelle leggende, in danze e leggi, in cerimonie ed elaborati riti religiosi: tutte cose che per Voltaire od'Holbach o d'Alembert erano soltanto residui obsoleti di un passato barbarico, o una massa di oscurantisti -che imposture. Lo sviluppo della coscienza e dell'attività sociali è rintracciabile – sostiene Vico – anchenell'evoluzione dell'etimologia e della sintassi, che rispecchia le fasi successive della vita sociale, e procededi pari passo con esse. La poesia non è un consapevole abbellimento inventato da scrittori raffinati, e neppureuna saggezza segreta in una forma agevolmente memorizzabile, ma una forma diretta di autoespressione,collettiva e comunitaria, dei nostri remoti antenati: Omero è la voce non di un singolo poeta, ma dell'interopopolo greco. Questa nozione, nella specifica formulazione appena menzionata, era destinata a una ricca fio-ritura nelle teorie di Winckelmann e di Herder, i quali peraltro, per quanto ne sappiamo, quando cominciaro-no a sviluppare le loro idee non avevano mai sentito parlare di Vico.

Quanto al carattere immutabile dei fondamenti della natura umana – il concetto al centro della tradi-zione occidentale dai greci a Tommaso d'Aquino, dal Rinascimento a Grozio, Spinoza e Locke –, le cose nonpossono stare così, giacché le creazioni dell'uomo – il linguaggio, il mito, il rituale – raccontano una storiadiversa. I primi uomini erano bruti e selvaggi, cavernicoli che usavano segni «muti» - gesti, e in un secondotempo i geroglifici. Il primo rombo di tuono li riempì di terrore. Si destò in essi la paura, il senso di una po-tenza più grande di loro che li sovrastava. Si riunirono insieme per proteggersi, dando quindi luogo all'«etàdegli dèi» o dei patres, gli spietati capi delle primitiva tribù umane. Fuori dalle loro fortificazioni non vi è si-curezza: chi si trova attaccato da qualcuno più forte di lui cerca protezione, e la ottiene dai «padri» al prezzodi diventare schiavo o cliente. Ciò contrassegna l'epoca «eroica» delle oligarchie, dei padroni duri e accapar -ratori che usano il discorso «poetico» e governano su schiavi e servi. Arriva quindi il momento in cui questiultimi si ribellano e strappano concessioni, specialmente in materia di matrimonio e di riti funebri, che sonole più antiche forme di istituzioni umane. Essi fanno in modo che i loro nuovi riti vengano registrati, e ne na -sce la primissima forma di diritto. Ciò a sua volta genera la prosa, che conduce al discorso argomentativo ealla retorica, e quindi all'interrogare, alla filosofia, allo scetticismo, alla democrazia egualitaria, e infine alsovvertimento di quei semplici tratti di devozione, solidarietà e deferenza all'autorità che sono propri dellesocietà primitive, all'atomizzazione e disintegrazione di queste ultime, alla distruttività dell'egoismo edell'alienazione, e al collasso finale,5 a meno che un Augusto non intervenga a ripristinare l'autorità e l'ordi-ne, o una più antica, più primitiva e più vigorosa tribù, che dispone di riserve di energia ancora intatte e diuna salda disciplina, non piombi su questo mondo e lo sottometta; se ciò non accade, è il tracollo totale.Ricomincia la vita primitiva nelle caverne, e si ripete così ancora una volta l'intero ciclo – i corsi e ricorsi –dalla barbarie della vita selvaggia alla seconda barbarie del disfacimento.

Non esiste un progresso che dall'imperfetto muova verso la perfezione, giacché la nozione stessa diperfezione implica un criterio di valore assoluto; non vi è altro che un mutamento intelligibile. Come si puòosservare, gli stadi non sono meccanicamente causati ciascuno da quello che lo precede, ma fluiscono dainuovi bisogni creati dalla soddisfazione dei vecchi nel corso dell'incessante autocreazione e autotrasforma -zione di uomini perpetuamente attivi. In questo processo, la guerra tra le classi svolge, secondo lo schema vi-chiano, un ruolo capitale. Di nuovo, qui Vico attinge massicciamente alla mitologia. Voltaire ci dice che imiti sono «farneticazioni di selvaggi e invenzioni di farabutti», o nel migliore dei casi innocue fantasticherie

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escogitate dai poeti per affascinare i loro lettori. Per Vico essi sono, spesso se non sempre, immagini profon-damente pregnanti dei conflitti sociali passati, da cui molte e svariate culture si sono sviluppate. Egli è unmaterialista storico ingegnoso e pieno di immaginazione; Cadmo, Arianna, Pegaso, Apollo, Marte ed Eraclesimboleggiano tutti determinati, e diversi, punti di svolta nella storia del cambiamento sociale. 6 Quelle che alpensiero razionale di un'epoca successiva sono apparse bizzarre combinazioni di attributi – si pensi a Cibele,che è insieme una donna e la terra, ai cavalli alati, ai centauri, alle driadi, e così via – sono in realtà il fruttodegli sforzi compiuti dai nostri predecessori per combinare certe funzioni o idee in un'unica immagine con-creta. Vico chiama tali entità «universali fantastici», immagini composte da caratteristiche incompatibili cuigli uomini di un'epoca successiva, che pensano per concetti e non per parole capaci di colpire i sensi, hannosostituito una fraseologia astratta. Secondo Vico, anche la trasformazione delle denotazioni di particolare pa-role e le loro modificazioni possono gettare luce sull'evoluzione delle strutture sociali. Ciò perché il linguag-gio ci racconta la storia delle istituzioni espressa in parole. Così la carriera della parola «lex» ci dice che lavita nella «gran selva antica della terra» fu seguita dalla vita nei «tuguri», e poi nei villaggi, nelle città e infi -ne nelle accademie.7

Le specifiche attribuzioni di Vico sono talvolta del tutto implausibili o immotivate. Ma ciò è menoimportante del fatto che egli concepì l'idea di applicare al patrimonio di antichità della razza umana una sortadi metodo trascendentale kantiano, ossia un tentativo di immaginare quale aspetto dovette avere l'esperienzadi una particolare società perché questo o quel mito, o culto, o linguaggio, o edificio, fosse una sua espressio-ne caratteristica. Ciò aprì nuove porte. Screditò l'idea di un'atemporale e immutabile «natura umana», con unsuo statico nocciolo spirituale. Rafforzò la vecchia nozione epicureo-lucreziana di un processo di lenta cre-scita a partire da inizi selvaggi. Non esiste alcun atemporale e immodificabile concetto della giustizia o dellaproprietà o della libertà o dei diritti; questi valori mutano col mutare della struttura sociale di cui sono parte,e gli oggetti – creati dalla mente e dall'immaginazione – in cui tali valori si incarnano mutano anch'essi nelpassaggio dall'una all'altra fase. Tutte le chiacchiere sull'incomparabile saggezza degli antichi sono dunqueuna risibile fantasticheria: gli antichi erano spaventevoli selvaggi, grossi bestioni scorrazzanti nella «granselva della terra», creature da noi lontanissime. Non esiste un diritto naturale onnipresente: le liste di princìpiassoluti compilate dagli stoici o da Isidoro di Siviglia o da Tommaso d'Aquino o da Grozio non erano esplici -tamente presenti alla mente, né implicite negli atti, dei barbarici padri primitivi, e neppure degli eroi omerici.Gli egoisti razionali di Hobbes, Locke o Spinoza sono arbitrari e antistorici; se gli uomini fossero quali lihanno dipinti questi pensatori, la loro storia sarebbe inintelligibile.

Ciascuno stadio della civiltà genera la propria arte, la propria forma di sensibilità e di immaginazio-ne. Forme successive non sono né migliori né peggiori di forme precedenti ma semplicemente diverse, e cia-scuna va giudicata in quanto espressione della propria particolare cultura. Che senso ha giudicare gli uominiprimitivi, «mutoli» che «si spiegano per atti o corpi c'hanno naturali rapporti all'idee ch'essi vogliono signifi-care», che «mandan fuori i suoni informi cantando» (i balbuzienti, aggiunge Vico, lo fanno tuttora), con i cri -teri della nostra sofisticata cultura? In un'epoca in cui i grandi arbitri francesi del gusto credevano in unostandard assoluto dell'eccellenza artistica, e ritenevano di sapere che i versi di Racine e Corneille (o, quanto aquesto, di Voltaire) fossero superiori a qualunque cosa uscita dalla penna dell'informe Shakespeare odell'illeggibile Milton, o, prima di loro, del bizzarro Dante, e magari anche alle opere degli antichi, Vico so-stenne che i poemi omerici erano l'espressione sublime di una società dominata dall'ambizione, sulla cupidi-gia e dalla crudeltà della sua classe dirigente, giacché soltanto una società di questo tipo avrebbe potuto pro-durre quella visione della vita.

Le epoche successive hanno magari perfezionato altre consolazioni dell'esistenza, ma non possonocreare l'Iliade, che incarna le modalità di pensiero, di espressione e di sentimento di un particolare modo divivere; alla lettera, questi uomini vedevano ciò che noi non vediamo.

La nuova storia deve essere il resoconto delle successive e diverse esperienze e attività degli uomini,della loro incessante autotrasformazione dall'una all'altra cultura. Ciò conduce a un ardito relativismo, e can-cella, tra le altre cose, la nozione di progresso nelle arti, secondo la quale culture successive rappresentanonecessariamente un avanzamento, o una retrocessione, rispetto a epoche precedenti; e in ciascun caso il crite -rio è dato dalla distanza che separa la cultura in questione da un qualche ideale fisso e immutabile, alla cuistregua tutte le specie di bellezza, di conoscenza e di virtù debbono essere giudicate. La famosa controversiasugli antichi e i moderni non può avere alcun senso per Vico: ciascuna tradizione artistica è intelligibile sol-tanto a chi coglie le sue regole, le convenzioni che le sono intrinseche, che sono parte «organica» della mute-vole struttura delle sue categorie di pensiero e di sentimento. La nozione di anacronismo, di cui forse altriavevano avuto qualche barlume, acquista grazie a lui un posto centrale. Polibio, ci racconta Vico, disse unavolta che era una sfortuna per l'umanità che i preti, e non i filosofi, avessero presieduto alla sua nascita; nonfosse stato per tali bugiardi ciarlatani, molti errori e molte crudeltà le sarebbero state risparmiate.8 E Lucrezioripeté appassionatamente questa accusa. Per quanti vivono dopo Vico, è come se qualcuno suggerisse la pos-

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sibilità che Shakespeare scrivesse le sue opere teatrali alla corte di Gengis Khan, o Mozart componesse lesue musiche nell'antica Sparta. Vico va molto oltre Bodin e Montaigne e Montesquieu: 9 questi autori (e Vol-taire) hanno forse creduto nell'esistenza di diversi esprits sociali, ma non in stadi successivi dell'evoluzionestorica, con ciascuna fase provvista dei propri modi di visione e forme di espressione, non importa se battez-zate come arte o scienza o religione. L'idea della crescita cumulativa del sapere, di un corpus unitario gover -nato da criteri universali, talché ciò che una generazione di scienziati ha stabilito un'altra non avrà bisogno diripetere, è del tutto incompatibile con questo schema. Ciò segna la grande frattura tra la nozione di conoscen -za positiva e quella di comprensione.

Vico non nega l'utilità delle tecniche più aggiornate quando si tratta di stabilire i fatti. Non rivendicafacoltà intuitive o metafisiche che permettano di fare a meno dell'indagine empirica. Studi miranti ad accerta -re l'autenticità dei documenti e delle altre testimonianze, la datazione e l'ordine cronologico, a stabilire chifece o subì che cosa e quando e dove – si tratti di individui o classi o società –, a determinare i nudi fatti, os -sia i metodi scientifici di indagine recentemente messi a punto, possono benissimo essere indispensabili. Lostesso vale per l'indagine dei fattori impersonali – geografici o ambientali o sociali –, per lo studio delle ri-sorse naturali, della fauna, della flora, della struttura sociale, della colonizzazione, del commercio della fi-nanza; qui siamo obbligati a usare i metodi della scienza, i quali stabiliscono il tipo di probabilità di cui par -lavano Bodin e Voltaire, e cui in effetti, dopo di allora hanno fatto ricorso tutti gli storici che impiegano me-todi sociologici e statistici. A tutto questo Vico non ha nulla da obiettare. Qual è dunque l'elemento nuovonella sua concezione della storia, su cui ci dice di aver speso vent'anni di lavoro ininterrotto?

A me pare si tratti di questo: che capire la storia significa capire che cosa gli uomini hanno fatto delmondo in cui si sono trovati, che cosa gli hanno chiesto, quali sono stati i loro bisogni, i loro scopi e ideali.Vico cerca di scoprire la loro visione di questo mondo, si chiede quali esigenze, quali domande, quali aspira-zioni abbiano determinato la concezione della realtà propria di una società, e ritiene di aver creato un nuovometodo che gli rivelerà le categorie nei cui termini gli uomini hanno pensato e agito e hanno cambiato se tes-si e i loro mondi. Questo tipo di conoscenza non è la conoscenza dei gatti o delle verità logiche fornitadall'osservazione o dalle scienze o dal ragionamento deduttivo, né è la conoscenza del come si fanno le cose,e neppure quella fornita dalla fede, basata sulla rivelazione divina, in cui Vico professava di credere. È più si -mile alla conoscenza che diciamo di avere di un amico, del suo carattere, delle sue abitudini di pensiero e diazione, alla percezione intuitiva delle sfumature della personalità o del sentimento o delle idee che Montai -gne descrive così bene, e di cui Montesquieu teneva conto.

Per far questo occorre possedere una facoltà immaginativa di grande potenza, come quella di cuihanno bisogno gli artisti, e in particolare i romanzieri. E anch'essa non ci porterà lontano nel cogliere modi divita troppo remoti e dissimili dal nostro. Eppure non bisogna disperare del tutto, perché quelli che stiamocercando di capire sono degli uomini – esseri umani – dotati, come noi, di menti e intenzioni e vite interiori–, e quindi le loro opere, diversamente dall'impenetrabile contenuto di ciò che non è natura umana, non pos-sono riuscirci del tutto intelligibili. Senza questa capacità di «entrare dentro» (per dirla con Vico) menti e si -tuazioni, il passato rimarrà per noi una morta collezione di oggetti in un museo.

Questa specie di conoscenza, non contemplata nella filosofia di Descartes, poggia sul fatto che noisappiamo che cosa sono gli uomini, che cos'è agire, che cos'è avere intenzioni, motivi, cercare di capire e in -terpretare, in modo da sentirsi a casa propria nel mondo non umano – ciò che Hegel chiamava bei sich selbstsein. Il passo più famoso della Scienza nuova esprime questa intuizione centrale con grande vivezza:

«... in tal densa notte di tenebre ond'è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questolume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: chequesto mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ri -truovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi riflet -ta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questomondo naturale, del quale, perché Iddio egli li fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di meditare suquesto mondo della nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l'avevano fatto gli uomini, ne potevanoconseguire la scienza gli uomini».10

Gli uomini hanno fatto il loro «mondo civile» - ossia la loro civiltà e le loro istituzioni – ma, comeMarx avrebbe più tardi sottolineato, non in toto, a partire da un materiale infinitamente malleabile; il mondoesterno, la stessa costituzione fisica e psichica degli uomini vi hanno la loro parte. Questo non preoccupaVico, cui interessa solamente il contributo umano; e quando parla delle conseguenze non volute delle azionidegli uomini, conseguenze che non sono state dal loro deliberatamente «fatte», le attribuisce alla Provviden-za, che li giuda, nella sua maniera imperscrutabile, verso quello che è il loro bene ultimo. Anch'essa, come lanatura, è dunque posta fuori del controllo consapevole dell'uomo. Ma ciò che Vico intende è che quanto unagenerazione di uomini ha sperimentato e fatto e incarnato nelle sue opere, un'altra generazione può cogliere,benché magari in maniera stentata e imperfetta. Per far questo occorre possedere una vigorosa fantasia – il

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termine di Vico per l'intuito immaginativo, che egli accusa i teorici francesi di sottovalutare. Esso è lacapacità di concepire più di un modo di categorizzare la realtà: per esempio, è la facoltà di capire che cosasignifica essere un artista, un rivoluzionario, un traditore, di sapere che cosa vuole dire essere poveri,esercitare l'autorità, essere un bambino, un prigioniero, un barbaro. Senza una certa capacità di mettersi neipanni degli altri, la condizione umana, la storia, ciò che caratterizza un periodo o una cultura di contro aglialtri non possono essere compresi. I successivi modelli di civiltà differiscono dagli altri processi che sisvolgono nel tempo – poniamo, i processi geologici – perché gli uomini svolgono, ossia noi stessi svolgiamo,un ruolo cruciale nel crearli. Sta qui il cuori dell'arte (o scienza) dell'attribuzione: saper dire che cosa vainsieme con una determinata forma di vita e non con un'altra è un risultato cui è impossibile pervenire grazieai soli metodi induttivi.

Mi sia consentito di dare un esempio del metodo di Vico. A suo parere, la storia secondo la quale iromani mutuarono le Dodici Tavole (l'originario codice di leggi romano) dall'Atene dell'epoca di Solone nonpuò essere vera, essendo impossibile che dei barbari – come non potevano non essere i romani al tempo diSolone – sapessero dov'era Atene, o che questa possedeva un codice potenzialmente prezioso per loro. Inol -tre, anche nell'improbabile ipotesi che questi romani primitivi fossero a conoscenza del fatto che a sud-est diRoma esisteva una società civilmente più progredita o meglio organizzata (in realtà, le tribù barbare dellaRoma primitiva ben difficilmente avrebbero potuto possedere, sia pure a livello embrionale, nozioni comequella di civiltà o di città-Stato), non sarebbero stati in grado di tradurre le parole attiche nel loro idioma lati -no senza che in questo rimanesse traccia di un'influenza greca, né di usare, per esempio, una parola comeauctoritas, che in greco non aveva un equivalente.

Questo tipo di ragionamento non poggia sull'accumulazione di testimonianze empiriche riguardo alcomportamento degli uomini in un gran numero di tempi e luoghi, su cui sia possibile fondare delle genera -lizzazioni sociologiche. Per Vico, nozioni come quella di cultura progredita, e di ciò che la distingue dallabarbarie, non sono concetti statici, ma descrivono stadi nella crescita della consapevolezza di sé degli indivi-dui e delle società, le differenze tra i concetti e le categorie in uso in un determinato stadio diverso, e la gene -si dell'uno dall'altro: un processo la cui comprensione discende in ultima analisi dalla comprensione di ciòche è l'infanzia e di ciò che è la maturità. Al principio del Quattrocento, l'umanista Leonardo Bruni aveva di-chiarato che tutto ciò che si diceva in greco poteva dirsi altrettanto bene in latino. Ebbene, proprio questoVico nega, come mostra l'esempio di auctoritas. Non esiste una struttura immutabile dell'esperienza, per ri-specchiare la quale sia possibile inventare una lingua perfetta, in cui sia quindi dato trasporre le imperfetteapprossimazioni a una lingua siffatta. La lingua dei cosiddetti primitivi non è una versione imperfetta di ciòche generazioni successive esprimeranno con una maggiore precisione: essa incarna la propria peculiare, uni -ca visione del mondo, che è possibile cogliere, ma non tradurre completamente nella lingua di una cultura di -versa. Una cultura non è una versione meno perfetta di un'altra cultura, come l'inverno non è una primaverarudimentale, né l'estate un autunno non ancora dispiegato.

I mondi di Omero, o della Bibbia, o del Kalevala, non li capiremo affatto se li giudichiamo alla stre-gua dei criteri assoluti di Voltaire o Helvétius o Buckle, e li valutiamo a seconda della distanza che li separadalle presunte vette supreme della civiltà umana, secondo l'esempio di Voltaire nel Musée imaginaire, in cuile quattro grandi epoche dell'umanità se ne stanno l'una accanto all'altra come aspetti dell'unico e medesimoculmine delle umane conquiste. Tale affermazione è un truismo, e qualcuno penserà che ci ho perso di granlunga troppo tempo; ma al principio del Settecento non era un truismo. La nozione stessa che il compito del -lo storico consistesse non soltanto nello stabilire i fatti e darne una spiegazione causale, ma altresì nell'esami -nare che cosa una data situazione significava per coloro che vi stavano dentro, qual era il loro orizzonte men-tale, quali le regole che li guidavano, quali «presupposti assoluti» (l'espressione è di Collingwood) erano im-plicati in ciò che essi (ma non altre società né altre culture) dicevano o facevano – tutto ciò è sicuramentenuovo, e profondamente estraneo al pensiero dei philosophes e degli scienziati parigini. Questa concezionecoloriva i pensieri di coloro che per primi reagirono contro l'Illuminismo francese, i critici e gli storici delleletterature nazionali in Svizzera, in Inghilterra e in Germania: Bodmer e Breitinger e de Muralt, ebraisticome Lowth e studiosi di Omero come Blackwell, pensatori sociali e culturali come Young e AdamFerguson, Hamann e Mӧser e Herder. E dopo di loro venne la grande generazione dei classicisti – Wolf eNiebuhr e Boeckh – che trasformarono lo studio del mondo antico, e la cui opera ebbe un'influenza decisivasu Burckhardt e Dilthey e sui loro successori novecenteschi. Qui è il luogo d'origine della filologia edell'antropologia comparate, della giurisprudenza, della religione della letteratura comparate, delle storiecomparate dell'arte e della civiltà e delle idee, ossia i campi di indagine che esigono non soltanto laconoscenza dei fatti e degli eventi, ma la comprensione – ciò che Herder per primo chiamò Einfühlung,empatia.

L'uso dell'immaginazione informata riguardo ai sistemi di valori, alle concezioni della vita di interesocietà, e la capacità di entrare intuitivamente in essi, non sono necessarie né in matematica né in fisica, né in

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geologia né in zoologia, e neppure – ma vi è chi lo negherebbe – in storia economica, e anzi nemmeno in so -ciologia, se la si concepisce e la si pratica come una scienza naturale strettamente intesa. Questa affermazio-ne è deliberatamente strema, e mira a mettere in evidenza l'abisso che si aprì tra la scienza naturale e gli studiumanistici per effetto di un nuovo atteggiamento verso il passato umano. Senza dubbio, in pratica vi è unalarga coincidenza tra le concezioni che della storia impersonale avevano, poniamo, Condorcet o Buckle oMarx, i quali credevano tutti che la società umana potesse essere studiata da una scienza dell'uomo in linea diprincipio affine a quella che ci informa sul comportamento «delle api e dei castori» (per usare l'analogia diCondorcet), e contrapposta alla storia di ciò in cui gli uomini credevano e di cui vivevano, insomma dellavita dello spirito, la cecità verso la quale Coleridge e Carlyle imputavano agli utilitaristi, Acton a Buckle (nelsuo famoso attacco contro di lui), e Croce ai positivisti. All'origine di questo scisma c'è Vico; è dopo di luiche le vie si separarono. Lo specifico e l'unico di contro all'iterativo e all'universale, il concreto di controall'astratto, il movimento perpetuo di contro alla quiete, l'interiore di contro all'esteriore, la qualità di controalla quantità, ciò che è culturalmente condizionato di contro ai princìpi atemporali, la lotta mentale e l'auto -trasformazione come una condizione permanente dell'uomo di contro alla possibilità (e desiderabilità) dellapace, dell'ordine, di un'armonia finale e della soddisfazione di tutti i desideri umani razionali: ecco alcuniaspetti della contrapposizione.11

Queste concezioni del loro oggetto di studio e del loro metodo, oggi date per scontate dagli storicidella letteratura, delle idee, dell'arte, del diritto, e anche dagli storici della scienza, ma soprattutto dagli stori -ci e sociologi della cultura influenzati da questa tradizione, di regola non sono consapevolmente presenti (néd'altronde è necessario) alla mante degli scienziati naturali. Ma prima del Settecento non vi era, per quantone so, alcuna percezione di tale contrapposizione. Le distinzioni tra il vasto regno della filosofia – naturale emetafisica –, la teologia, la storia, la retorica, la giurisprudenza non erano nettamente tracciate; il Rinasci -mento conobbe bensì dispute sul metodo, ma la grande scissione tra la sfera della scienza naturale e quelladegli studi umanistici si verificò per la prima volta, o emerse per la prima volta alla luce, nel bene e nel male,a opera di Gianbattista Vico. Con ciò egli avviò un grande dibattito, la cui conclusione a tutt'oggi non è anco-ra in vista.

Di dove trasse origine la sua intuizione centrale? Dobbiamo pensare che l'idea di ciò che è una cultu -ra e di ciò che significa comprenderla nella sua unità e varietà, nella sua somiglianza, ma soprattutto nellasua dissomiglianza dalle altre culture – un'idea che scalza la dottrina dell'identità tra civiltà e progresso scien-tifico concepito come crescita cumulativa della conoscenza –, nacque dalla testa di Vico, novella PalladeAtena, pienamente formata? Chi, prima del 1725, aveva avuto tali pensieri? E come avvenne che questi fil-trarono – ammesso che si sia mai verificata una cosa del genere – in Germania fino a raggiungere Hamann eHerder, in cui sono rinvenibili alcune idee straordinariamente simili? Questi sono problemi su cui a tutt'oggigli storici delle idee non hanno svolto un sufficiente lavoro di ricerca. Ma, per quanto affascinanti, a me sem -bra che la loro soluzione sia meno importante delle scoperte centrali in sé prese, tra le quali spicca la nozioneche l'unica via di cui l'uomo disponga per raggiungere una pur minima comprensione di sé consiste nel riper -correre in maniera sistematica i propri passi – dal punto di vista storico, psicologico, e soprattutto antropolo -gico – attraverso stadi dello sviluppo sociale che si conformano a modelli accertabili empiricamente, o, se laparola suona troppo assoluta, a orientamenti o tendenza i cui meccanismi la nostra vita mentale conoscebene. E questi stadi non procedono verso una qualsivoglia meta unica, universale: ciascuno di essi è un mon-do a sé, e tuttavia ha in comune con quelli che gli succedono, e con i quali forma una linea continua di espe-rienza riconoscibilmente umana, quanto basta per non riuscire inintelligibile ai loro abitanti. Se Vico ha ra-gione, soltanto in questo modo possiamo sperare di comprendere l'umanità della storia umana – i nessi chelegano la nostra splendida epoca ai nostri oscuri inizi della «gran selva antica della terra».

Note1. M.H. Fisch ha giustamente sottolineato che lo scioglimento dei monasteri fece sì che diventasse per la prima volta disponibile unagrande massa di materiale documentario; e ciò contribuisce a spiegare il fatto che la Chiesa, nel respingere gli attacchi sferrati controle sue rivendicazioni in campo storico, fece ricorso alle armi della ricerca storica.2. Espressioni come «les saisons et mutations des mœurs d'un peuple», «la complexion et humour» di una nazione, «façons devivre», «la police», «les motifs, les opinions et les pensées des hommes», «le génie du siècle, des opinions, des mœurs, des ideés do -minantes», «des passions qui conduisaient les hommes» erano comunissime in tutto il Cinquecento e Seicento.3. Così Fontenelle, la cui influenza fu seconda soltanto a quella di Voltaire, identifica il progresso nelle arti (come in ogni altra cosa)con un incremento dell'ordine, della chiarezza, della precisione, della netteté, la cui espressione più pura è la geometria, ossia il meto-do cartesiano, che non può non migliorare tutto ciò che tocca, in qualunque provincia del pensiero e della creazione. Per lui, come perVoltaire, la mitologia è il prodotto della barbarie e dell'ignoranza. Egli diffida di tutte le metafore, ma specialmente delle images fa-buleuses, che nascono da una concezione delle cose «interamente falsa e ridicola», e il cui uso può soltanto contribuire alla dissemi -nazione dell'errore. I poeti delle epoche primitive impiegavano lo stratagemma per presentarsi come direttamente ispirati dagli dèi;quanto agli scrittori moderni, dovrebbero limitarsi a usare images spirituelles – astrazioni personificate – riguardo, poniamo, al tem-po, allo spazio, alla divinità: immagini che parlano alla ragione e non al sentimento irrazionale. La potenza intellettuale, il coraggio,

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il senso di umanità e l'imperterrita ricerca della verità con cui le lumières dell'epoca combatterono le sciocchezze e l'oscurantismonella sfera della teoria, e le barbariche crudeltà sul terreno pratico, non debbono renderci ciechi ai vizi delle loro virtù, che hannoanch'essi imposto il proprio terribile prezzo.4. È una contrapposizione su cui ha insistito Leon Pompa, sia nei suoi scritti sia conversando con l'autore. Oggi sono incline a pensa -re che la sua interpretazione sia quella che più si avvicina al pensiero di Vico, e che le mie precedenti discussioni sul tema pecchinoper un'insufficiente attenzione prestata a questo punto.5. Il passo della Scienza nuova che descrive la fine di una società in declino merita di essere citato: «... poiché tai popoli a guisa dibestie si erano accostumati di non ad altro pensare ch'alle particolari proprie utilità di ciascuno ed avevano dato nell'ultimo della dili -catezza o, per me' dir, dell'orgoglio, a guisa di fiere, che, nell'essere disgustate d'un pelo, si risentono e s'infieriscono, e sì, nella loromaggiore celebrità o folla de' corpi, vissero come bestie immani in una somma solitudine d'animi e di voleri, non potendovi appenadue convenire, seguendo ogniun de' due il suo proprio piacere o capriccio...» (The New Science of Gianbattista Vico, trad. di ThomasGoddard Bergin e Max Harold Fisch, edizione riveduta, New York, 1968, capoverso 1106. Tutte le citazioni successive dalla Scienzanuova sono tratte da questa traduzione, e tutti i successivi riferimenti sono ai capoversi; per esempio: N.S., 1106). [Abbiamo utilizza-to l'edizione della Scienza nuova cirata da Nicola Abbagnano, in Vico, La «Scienza nuova» e altri scritti, UTET, Torino, 1966; il pas-so qui sopra citato è a p. 744].6. Per esempio, la storia di Teseo e Arianna riguarda la primitiva vita sul mare: il Minotauro rappresenta i pirati che rapiscono gli ate -niesi sulle loro navi (il toro è un antico, caratteristico emblema posto sulle prue, e la pirateria era tenuta in grande onore sia dai greciche dagli antichi germani). Arianna è l'arte del navigare, il filo è un simbolo della navigazione, e il labirinto è il mare Egeo. Alternati -vamente, il Minotauro è un bambino mezzosangue, o uno straniero giunto a Creta: un precoce emblema del conflitto razziale. Cadmoè l'uomo primitivo, e la sua uccisione del drago rappresenta l'abbattimento della grande selva. Egli semina nel terreno i denti del dra-go – e i denti sono i denti di un aratro; le pietre che scaglia intorno a sé sono le zolle che l'oligarchia degli eroi conserva di contro aiservi affamati di terra; i solchi sono gli ordini della società feudale; gli uomini armati che nascono dai denti sono gli eroi, che perònon si combattono tra loro, come racconta il mito (qui Vico decide di «correggere» le testimonianze), ma contro i ladroni e i vaga-bondi che minacciavano la vita degli agricoltori. Il ferimento di Marte a opera di Minerva è la sconfitta dei plebei per mano dei patri -zi. Nel caso di Pegaso, le ali rappresentano il cielo, il cielo rappresenta gli uccelli, il volo produce gli importantissimi auspici. Lacombinazione ali-cavallo sta per i nobili che montano a cavallo e hanno il diritto di trarre auspici, e rappresenta pertanto l'autorità sulpopolo. Ancora un passo, e questi miti rappresenteranno poteri e istituzioni, e spesso incarneranno trasformazioni radicali dell'ordinesociale; agli occhi di Vico, creature mitologiche come Draco – un serpente che si trova anche in Cina e in Egitto –, o Eracle, o Enea(la cui discesa nell'Averno è naturalmente un simbolo della semina), non sono personaggi storici, ma piuttosto, come Pitagora e Solo -ne, meri simboli di strutture politiche, che dunque non occorrerà inserire in alcuna precisa cornice cronologica.7. N.S., 239-40 [ed. it. cit., p. 336]. Abbiamo qui un buon esempio delle libere scorribande dell'immaginazione storica di Vico: egliraggruppa insieme lex (la ghianda), ilex, aquilex, legumen e legere in quanto tipiche parole «silvane», chiaramente derivate dalla vitanella foresta, e venute poi a significare attività e oggetti di tutt'altra specie. Dapprincipio, lex «dovett'essere “raccolta di ghiande”».Ilex è l'«elce ... perché l'elce produce la ghianda, alla quale s'uniscon i porci» (e aquilex è «'l raccoglitore dell'acque»). «Dappoi “lex”fu “raccolta di legumi”, dalla quale questi furon detti “legumina”. Appresso, nel tempo che le lettere volgari non si eran ancor truova-te con le quali fussero scritte le leggi, per necessità di natura civile “ lex” dovett'essere “raccolta di cittadini”, o sia il pubblico parla-mento; onde la presenza del popolo era la legge che solennizzava i testamenti che si facevano “calatis comitiis”. Finalmente il racco-glier lettere e farne com'un fascio in ciascuna parola fu detto “legere”». Questa pagina è un esercizio caratteristicamente fantasioso difilologia sociologico-genetica; ma al tempo debito tale orientamento sociolinguistico condurrà a rigogliose e importanti branche deglistudi umanistici: la giurisprudenza storica, l'antropologia sociale, lo studio comparato delle religioni e simili, specialmente nel lororapporto con gli aspetti genetici e storici della teoria linguistica.8. Si tratta in realtà di un fraintendimento del testo di Polibio; ma la cosa fornì a Vico un'occasione per illustrare la sua tesi storicisti -ca. E se Polibio non commise quest'errore, è comunque un fatto che esso è un elemento della tradizione illuministica contro la qualeVico si ribellò.9. La differenza tra il vecchio e il nuovo atteggiamento emerge chiaramente se si mette a confronto l'interesse per i miti e le favole,poniamo, di Bodin e Bacone, e anche di Montesquieu, con quello di Vico. I primi non considerano i miti e le favole come invenzionidi preti bugiardi, o meri prodotti dell'«umana debolezza» (per usare le parole di Voltaire), ma cercano in queste antiche testimonianzeinformazioni sui mœurs e le façons de vivre di società primitive o remote, al fine deliberato di scoprire se vi siano da apprendere le-zioni storiche rilevanti per la loro epoca e la loro situazione. Sebbene fossero magari per temperamento acutamente curiosi di altresocietà, e raccogliessero questi fatti perché li trovavano di per sé interessanti, il motivo dichiarato era sicuramente utilitario: essi desi-deravano migliorare la vita degli uomini. Vico guarda ai miti come a testimonianze delle diverse categorie in cui l'esperienza è statastoricamente organizzata. Per lui essi sono gli occhiali, a noi ignoti, attraverso i quali l'uomo primitivo e i popoli remoti guardavano ilmondo in cui vivevano: il suo scopo è comprendere da dove siamo venuti, come siamo arrivati dove ora ci troviamo, e quanta partedel passato, grande o piccola che sia, ci portiamo tuttora appresso. Il suo metodo è genetico, perché qualunque cosa può essere real -mente compresa soltanto tramite la sua genesi, ricostruita grazie alla fantasia guidata dalle regole che egli ritiene di avere scoperto, enon mediante un'intuizione di essenze atemporali, o una descrizione o analisi empirica dello stato presente di un oggetto. Ciò segnauna vera e propria svolta nella concezione della storia e della società.10. N.S., 331 [ed. it. cit., p. 354].11. Mi sembra che Erich Auerbach abbia fissato questo punto con eloquenza e precisione: «Se si ammette che le epoche e le societànon si debbono giudicare secondo il valore delle loro aspirazioni assolute, bensì ciascuna secondo i suoi presupposti; se fra tali pre -supposti non si tien più conto soltanto di quelli naturali, come il clima e il suolo, ma anche di quelli spirituali e storici; se si risvegliaquindi la comprensione dell'agire di forza storiche, non raffrontabili e continuamente mutevoli; se si riesce a guardare la vita delle va -rie epoche e ciascuna come un tutto che si specchia nelle sue forme; se infine si acquista la convinzione che ciò che è importante edessenziale non si può rintracciare nelle conoscenza generali e astratte, e che la materia non si deve cercare soltanto sulle vette dellasocietà e nelle azioni dei dominanti e dello Stato, ma anche nell'arte, nell'economia, nella cultura materiale e spirituale, nelle profon -dità della vita quotidiana e popolare, poiché soltanto là si può vedere quello che è peculiare, quello che è agitato da forze profonde edè universalmente valido» (Mimesis, Princeton, 1968, pp. 443-44 [trad. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, 2 voll.,Einaudi, Torino, 1977, vol. II, pp. 208-209]). Non conosco una formulazione migliore della differenza tra la storia come scienza e lastoria come una forma di auto-conoscenza che non può mai diventare pienamente organizzata, ed è raggiungibile, secondo l'ammoni -mento di Vico, soltanto a prezzo di un «terribile sforzo».