La doppia Libertà di Isaiah Berlin, Verso un'Ontologia del Particolare
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La doppia libertà di Isaiah Berlin,
verso un' Ontologia del Particolare
Indice
0. The Cold War Liberals, un' Introduzione, 1
1. Libertà degli antichi e libertà dei moderni. Berlin e Constant, 8
2. Isaiah Berlin tra filosofia analitica e filosofia politica 20
3. Libertà Negativa 30
4. Libertà Positiva: Monismo, determinismo e fanatismo 61
Bibliografia
1
0. The Cold War Liberals. Un' Introduzione.
È abbastanza facile rendersi conto di come Isaiah Berlin
non occupi, nella storia della filosofia occidentale del secolo
XX, un posto d'onore. Egli fu tutto sommato lontano dal
proscenio della filosofia politica novecentesca, tanto che se
qualcuno gli avesse chiesto in vita di specificare quale fosse la
sua "vocazione", se, in altre parole, fosse stato costretto a
cercare per sé stesso un termine che riassumesse il suo lavoro
di autore e di teorico, egli avrebbe affermato di essere, più che
un filosofo politico, uno "storico delle idee" o, più
semplicemente, un intellettuale. Queste due "definizioni",
proposte in alcune interviste da Berlin stesso, condensano il
senso del rapporto ravvicinato e continuo che egli volle
intrattenere con "Le Idee". Le edizioni Adelphi, non a caso,
hanno apposto ad una raccolta di saggi berliniani il
significativo titolo de Il Potere delle Idee1.
Ne I due concetti di Libertà , il saggio che tenteremo di
analizzare nella seguente trattazione, è suggerita l'immagine
delle idee che, allevate nella quiete degli studi dei cattedratici e
dei pensatori, precipitano nel mondo fenomenico e talvolta
acquistano in esso un'esistenza autonoma di forze motrici di
avvenimenti epocali, e molto spesso sanguinosi. Berlin era
convinto che né la polizia, né gli eserciti, né i corpi
diplomatici, né la politica potessero arginare gli effetti
impazziti di un'Idea. Questo compito, per lui, spettava agli
1 Cfr I.BERLIN, Il potere delle idee, a cura di Henry Hardy, trad. it. G. Ferrara degli Uberti, Adelphi,
Milano, 2003
2
intellettuali, essendo questi ultimi i soli a dimostrarsi adatti ad
un simile lavoro.
Si può intuire come per Berlin le idee non sempre e non
necessariamente sono "buone", anzi è quasi come se egli
avvertisse il bisogno, da parte degli Intellettuali, di, per così
dire, addomesticarle in quanto selvagge potenze intellettuali,
attraverso la comprensione delle loro sfaccettature, dei loro
presupposti e delle loro implicazioni.
Judith Nisse Shklar, filosofa della politica e del diritto,
connazionale di Isaiah Berlin, parla a ragion veduta,
esaminando il ragionamento politico del suo compatriota, di
una "preoccupazione per il male politico"2, come se l'impegno
teorico fosse stato ordinato quasi esclusivamente ad evitare un
summum malum piuttosto che a delineare le caratteristiche di
un summum bonum.
Parallelamente alla Libertà Negativa si potrebbe
individuare allora un Liberalismo Negativo, incentrato,
piuttosto che sulla analisi normativa della società industriale e
post-industriale, sul "non-dover-essere" dell'Occidente.
La stessa Shklar sottolinea in ciò un atteggiamento
difensivo verso quello che fu il modello di società e di stato
che durante quasi tutto l'arco del 900 si oppose a quello delle
democrazie liberali del Patto Atlantico: il modello Sovietico,
col suo propulsore ideologico, il Materialismo Storico. Si
potrebbero invero addurre mille obiezioni contro una simile
2 Per ciò che attiene, in tutta questa introduzione, a quanto scritto da J.N. Shklar si veda JUDIT SHKLAR, ‘The Liberalism of Fear’, in: NANCY L. ROSENBLUM (ed.), Liberalism and the Moral Life, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1989
3
affermazione, che istituisce un rapporto causa-effetto tra la
teoria e la realtà, il quale, lungi dall'essere sempre scontato e
chiaramente ricostruibile, è ancora meno palesemente
osservabile nella vicenda sovietica. In ogni caso vale la pena
ricordare come, nella riflessione berliniana sul rapporto tra le
Idee e la storia cruenta del XX secolo, è senz'altro ammessa,
come già detto, la possibilità che l'Idea, in questo caso quella
del socialismo scientifico marxiano, una volta "seminata" nella
materialità dei rapporti tra gli uomini, acquisti, per così dire,
una sua indipendente volontà e spinga questi ultimi a
servirsene come un "coltello insanguinato"3.
Lasciando ad altri, che meglio ne hanno scritto e meglio ne
scriveranno, l'onere filosofico e storiografico di appurare
quanto marxismo ci fu nell'assetto socio-istituzionale dell
URSS, nella triste parabola staliniana e financo nelle "Tesi di
Aprile", a noi rimane la possibilità di affermare, con buona
approssimazione, che Berlin fu un pensatore liberale
caratterizzato da una distinguibile cifra anti-comunista, pur
senza traccia di animosità ideologica. Anzi, la sua, prima che
essere una posizione politica, fu soprattutto un robusto
orientamento filosofico-epistemologico contraddistinto da una
decisa opposizione verso il bias teleologico e determinista di
buona parte della teoria prodotta nel novecento.
Anche in lidi lontani dal marxismo (potremmo citare a
titolo meramente esemplificativo la sociologia stuttural-
funzionalista di Talcott Parsons) notiamo infatti un penchant 3 Vedasi, sull'argomento, la prima parte de I due concetti di libertà, più estese indicazioni bibliografiche sono fornite nel corso di questa trattazione
4
per "il fine intrinseco", "l'evoluzione finalizzata", il
"compimento", la "perfezione". Per quasi tutti i grandi
pensatori politici e sociali vissuti e operanti nei circa
centocinquanta anni che vanno dal 1848 al 2000 è come se
fosse esistita una potenza demiurgica immanente che, prima o
poi, avrebbe fatto scivolare tutti i tasselli al loro posto nel
mosaico del mondo.
A questo proposito Eric Voegelin nel 1959 parlava di gnosi,
volendo indicare un complessivo movimento di "ri-
divinizzazione" della società, e la ricerca di un "compimento
escatologico" in un ipotetico paradiso terrestre, che arrivò a
caratterizzare una grande varietà di opzioni intellettuali
moderne e, in ultima istanza, la modernità nella sua interezza.4
Per Berlin tale paradiso in terra è semplicemente
irrealizzabile, costituendo né più né meno che l'ipotesi fallace
di un particolare tipo di razionalità. Berlin si dice scettico nei
confronti di qualsiasi gioco razionalistico che creda nella
possibilità di una finale estinzione dei conflitti, soprattutto di
quelli tra idee. Con un efficace espressione egli dichiarò di
credere che "la storia non ha libretto", e possiamo ipotizzare
come egli credesse che le forze cieche che ne animano il corso
non potessero giungere ad un'ultima e definitiva pacificazione.
Egli è rimasto famoso soprattutto per la sua originale impronta
di Pluralismo; ebbene il pluralismo berliniano si nutre proprio
4 E. Voegelin, filosofo e politologo tedesco, nel 1959 diede alle stampe l'opera intitolata Scienza, Politica
e Gnosi, in cui, rovesciando i presupposti della riflessione sociologica weberiana , individuava nel fluire della storia del secolo passato quelli che egli definì dei "germi regressivi", dovuti in massima parte a tendenze totalitarie che egli defini "gnostiche", contrapponendole alla razionalità democratica "greca e cristiana". Si veda in proposito E. VOEGELIN, Science, Politics, Gnosis, Isi Books, Londra, 2005.
5
di questa incrollabile certezza nella durata infinita
dell'opposizione tra diversi fini e i valori ultimi dell'esistenza
umana. È possibile, dice Berlin, comprendere le idee e le
motivazioni degli altri, e persino tracciare un confine tra quelle
tra loro che sono umane, e quelle che invece sono "disumane",
ma è letteralmente impossibile ridurre tutte le divergenze ad
una composizione e pervenire così ad una verità assoluta e
indubitabile. Ecco il motivo per cui il socialismo scientifico,
gnosticismo materialista, viene respinto con decisione: aver
compreso le leggi immanenti dello sviluppo storico, e aver
previsto su questa base la fine delle opposizioni è
semplicemente una fallacia logica. Se ciò, per vie dirette o
traverse che siano, conduce ad una forma estrema di
coercizione quale fu il progetto staliniano di "ingegneria
dell'anima", allora bisogna difendersi contro una simile
razionalità e fare in modo che collassi sulla base della sua
stessa inaccettabilità logica.
Ecco perché Berlin è un "liberale da guerra fredda", perché
la sua filosofia pluralista e liberale ci fornisce gli stumenti
concettuali per capire il perché del fallimento di un idea
progressiva e umanitaria in sommo grado come quella
marxista. Berlin ci ricorda che non tutto quello che messo nero
su bianco ci pare razionale è per ciò stesso reale o realizzabile.
Egli non è il solo "cold war liberal". Insieme a lui, ad
abitare questa concezione agonistica della razionalità c'è Karl
Popper, il quale affermò senza mezzi termini che noi umani
"non abbiamo bisogno del certo". Terzo in cotanto senno, lo
6
diciamo per amore di completezza, il sociologo tedesco
Raymond Aron. I tre furono dunque avversari della nuova
metafisica materialista e positivista. In particolare furono tutti
e tre, e per ragioni più che altro biografiche, avversari del
Marxismo, ma non per l'intolleranza politica maccartista che
prese la mano a molti dei pensatori e dei politici occidentali,
ma per una conseguente scelta logica ed epistemologica. Essi
ci ricordano, tutt'oggi, che il marxismo si tramutò in
disumanità perché pretese di porre fine, per il tramite
palingenetico di un'ultima lotta, al conflitto; di tutte le cose
padre, di tutte re.
7
1. Libertà degli antichi e libertà dei moderni:
Berlin e Constant
Il saggio di Isaiah Berlin intitolato "Two Concepts of
Liberty" fu dato alle stampe quasi dieci anni dopo che il suo
autore ebbe pronunciato la prolusione sulla quale si basa la
prima edizione. Nel 1957 infatti Berlin successe a G.D.H. Cole
sulla cattedra Chicherle di Teoria sociale e politica, e nel 1958,
seguendo un costume oxoniense, fu chiamato a tenere un
discorso inaugurale per celebrare il suo insediamento. Scelse
per l'occasione proprio il tema della libertà, quasi a voler
segnalare la precedenza logica (e ontologica) di questa rispetto
a tutti gli studi di teoria politica. Nacque così uno dei saggi più
(e a nostro avviso peggio) letti del pensiero liberale del
ventesimo secolo, raccolto insieme ad altri dello stesso autore
in "Four Essays on Liberty", uscito per i tipi della Oxford
University Press, nella collana Paperbacks, nel 1967.
I Four Essays dovevano intitolarsi, secondo l'originario
progetto editoriale, "Opere Complete". Seppure Berlin
considerasse questo un titolo improbabile, esso aveva il merito
di riconoscere profeticamente l'importanza capitale che la
raccolta, successivamente ampliata secondo le volontà dello
stesso Berlin, riveste ancora oggi nell'economia del pensiero
berliniano (e liberale).
Il fondamentale bersaglio polemico dei quattro (poi cinque)
saggi è da identificarsi nella teoria e nella pratica totalitarie, in
maniera specifica (ma non esclusiva) riguardo alla Unione
8
Sovietica, dove Berlin era nato e da cui era stato costretto a
fuggire ancora ragazzino, insieme alla sua famiglia.
Egli sembra, infatti, chiedersi sopratutto in che modo e
come mai il marxismo, una teoria di certo profonda,
umanitaria e razionalistica, erede, ancorché spuria, della
fiducia illuministica nell'uomo come creatura razionale e fine
in sé, abbia fornito un puntello filosofico al crudele progetto di
"ingegneria dell'anima" rappresentato dalla esperienza
staliniana.
Sebbene tutti i saggi raccolti nei Four Essays siano
ciascuno significativo ed importante, è opinione di chi scrive
che un'analisi dei "Due Concetti di Libertà" possa fornire
moltissime indicazioni sul pensiero di Berlin e gettare feconda
luce interpretativa sul resto dei suoi scritti, ivi compresi gli
altri tra gli Essays. La raccolta sembra trovare nei "Due
Concetti" il suo fuoco naturale, la sua pietra angolare, anche
secondo il parere dello studioso inglese, il quale certamente
riteneva che senza una perspicua comprensione di cosa sia la
Libertà, in sé e in rapporto al suo contrario, la Coercizione,
non si può comprendere alcuna delle idee politiche che si sono
contese l'agone universale nel corso dei secoli diciannovesimo
e ventesimo.1
Potrebbe sembrarci di trovare, nei Due Concetti, una mera
banalizzazione di un momento del pensiero di Benjamin
Constant, o quantomeno una ripresa poco originale delle idee
di quest'ultimo, dobbiamo specificare sin dall'inizio che a
1 cfr I. Berlin, Due concetti di Libertà; in I. Berlin, Libertà; a cura di Henry Hardy, trad. it. Di G. Rigamonti e M. Santambrogio Feltrinelli, Milano 2010 (prima ed. 2005); pag 171.
9
differenziare Berlin da Costant sono le premesse e i metodi di
indagine. Il secondo, infatti, è un oratore militante, impegnato
nella competizione politica, preoccupato degli esiti immediati
che il suo pensiero avrebbe potuto esercitare sulle sorti della
sua nazione. Il primo invece un accademico formatosi nel
milieu oxoniense, è influenzato dalla logica formale e dalla
filosofia del linguaggio, intraprende una disamina dei concetti
contenuti nella parola libertà guidato in egual misura da motivi
storicamente contingenti e da esigenze analitiche, preoccupato
cioè tanto di analizzare le ragioni filosofiche della tragedia
totalitaria del novecento quanto di fissare dei limiti connotativi
della parola "Libertà" (per quanto questi due obbiettivi
possano compenetrarsi nel corso di tutti i Due Concetti).
Teoria che immediatamente si traduce in azione politica,
dunque, da un lato, e analisi linguistica dei concetti politici,
dall'altro.
Eppure si può affermare con buona approssimazione che
l'obbiettivo di entrambi consiste in una operazione teorica di
salvaguardia delle cosiddette "libertà della persona" dalla
pressione esiziale che su di esse esercitano quei governi che
potremmo definire autoritari.
E' chiaro come i due si riferiscano a due "esperimenti"
totalitari storicamente lontani: Constant pensa a quella fase
della Rivoluzione Francese passata alla storia con l'evocativo
nome di "Terrore", Berlin invece ha in mente il secolo
ventesimo e i suoi totalitarismi. Ma l'idea che accomuna i due
autori e i loro due contesti è sostanziale, indipendente dunque
da qualsiasi congiuntura. È l'idea secondo la quale movimenti
10
politici e governi che abbiano carattere autoritario si originino
da una qualche confusione o perversione del concetto di
Libertà politica.
Cosa pensa Constant allora riguardo al Terrore e alle
Ghigliottine? Egli è convinto che una cattiva filosofia,
anacronistica più che illiberale, caduta in mano ad insipienti
"sperimentatori" sociali, abbia divorato come un famelico
Minotauro l'intero spazio di libertà di cui godevano i francesi
dopo la loro "felice rivoluzione".
Chi sono gli sperimentatori? Senza dubbio i Giacobini.
Qual è la cattiva filosofia? Per scoprirlo dobbiamo a mio
avviso rammentare preliminarmente a noi stessi alcuni
lineamenti fondamentali del pensiero del ginevrino Jean-
Jacques Rousseau, in quanto il concetto di volontà generale,
concetto rousseuviano per eccellenza, può esserci utilissimo in
tutta questa trattazione, non solo in virtù del fatto che Constant
ne fa il suo nemico teorico, ma anche e soprattutto se lo
intendiamo come un archetipo delle teorie della "Libertà
Perversa" che sia Berlin che Constant intendono anatomizzare
e criticare.
Ho detto all'inizio che, per non aver percepito tali differenze
[tra la libertà degli antichi e quella dei moderni], uomini ben
intenzionati, peraltro, erano stati la causa di infiniti mali durante
la nostra lunga e tempestosa rivoluzione.
[…]
Ma quegli uomini avevano attinto molte delle loro teorie
dalle opere di due filosofi, che non si erano resi conto nemmeno
loro dei cambiamenti arrecati da duemila anni alla disposizione
11
del genere umano. Forse una volta esaminerò il sistema del più
illustre di questi filosofi, J.-J. Rousseau, e mostrerò che,
trasferendo ai nostri tempi moderni un'estensione di potere
sociale, di sovranità collettiva che apparteneva ad altri secoli,
quel genio sublime, animato dall'amore più puro della libertà, ha
nondimeno fornito funesti pretesti a più di un genere di tirannia.2
Rousseau avanzò la sua proposta di una società ideale,
basata sul concetto di Volontà Generale, nella sua opera più
rilevante, il "Contratto Sociale".
Mentre nel "Discorso sull'origine e il fondamento
dell'ineguaglianza tra gli uomini" egli vedeva nella divisione
del lavoro e nella nascita dei rapporti di dipendenza sociale e
di proprietà la stortura delle società, l'origine di un "patto
iniquo" che soffocava la libertà delle masse3, nel "Contratto
Sociale" egli espose i fondamenti di un nuovo patto, più giusto
e capace di garantire il libero esercizio delle umane facoltà.
Nella stipula di un nuovo patto gli individui avrebbero rimesso
tutte le loro libertà di natura nelle mani di un Io comune, vero
e proprio organismo collettivo dotato di vita e volontà.
Volontà Generale, appunto. Unica depositaria del vero bene:
"…poiché gli uomini non possono creare nuove forze, ma solo
unire e dirigere quelle che ci sono, non hanno più altro modo per
conservarsi che quello di formare, aggregandosi, una somma di
forze che possa avere la meglio sulla resistenza, di metterle in
movimento mediante un solo impulso e di farle agire 2 B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Piccola Biblioteca Einaudi, A cura
di G.Paoletti, Torino, 2005, pagg. 16-18 3 Cfr. J-J. Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti dell'Ineguaglianza tra gli uomini, Editori Riuniti,
2003, Parte II, passim.
12
concordemente.
Questa somma di forze può nascere solo dalla collaborazione
di molti uomini: ma, dal momento che la forza e la libertà di
ciascun uomo sono i primi strumenti della sua conservazione,
come potrà impegnarle senza arrecare danno a sé stesso e senza
trascurare le cure che si deve? Questa difficoltà, riferita al mio
tema, può essere enunciata nei seguenti termini:
"Trovare una forma di associazione che difenda e protegga,
media§nte tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun
associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti, non
obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero come prima."
Questo è il problema fondamentale di cui il contratto sociale
offre la soluzione.
Queste clausole [quelle del contratto], bene intese, si riducono
tutte a una sola, cioè all'alienazione totale di ciascun associato
con tuti i suoi diritti a tutta la comunità.
[…] Compiendosi l'alienazione senza riserva, l'unione è tanto
perfetta quanto può essere, e nessun associato ha più nulla da
rivendicare: infatti, se restasse qualche diritto ai singoli, dato che
non vi sarebbe alcun superiore comune in grado di arbitrare tra
essi e la collettività, ciascuno, essendo su qualche punto giudice
di se stesso, pretenderebbe presto di esserlo su tutti: lo stato di
natura sussisterebbe ancore e l'associazione diventerebbe
necessariamente tirannica o inutile.
[…]Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il
suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale e
noi, costituiti in corpo, riceviamo ogni membro quale parte
indivisibile del tutto.4
Ne deriva una concezione della società e dello stato come
4 Cfr J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, a cura di R. Gatti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2005, pagg. 66-67
13
organismo, e anzi possiamo affermare senza timore di
sbagliare che nella filosofia di Rousseau troviamo una delle
più chiare formulazioni della metafora organicistica della
società.
A tutta prima l'architettura sembrerebbe quella di
hobbesiana memoria, se non fosse che alla terzietà di un
sovrano assoluto Rousseau sostituisce un ente ideale, le cui
parti sono i singoli individui, ma che come ogni totalità è
molto più che la somma dei suoi costituenti. E chi pensa che
l'Io comune, in qualità di Sovrano, sia meno assoluto di un
monarca si sbaglia di gran lunga, dacché nemmeno l'autore
sembrava essere di questo avviso. Egli sosteneva infatti che,
una volta alienata la sovranità su sé stesso in favore dell' Io
comune, l' Individuo non dovesse avere più nulla a pretendere
da quest'ultimo, e dunque la Volontà Generale, autonoma e
sovrana, avrebbe imposto i suoi desiderata, qualora ciò si
fosse reso necessario, anche in spregio alle volontà dei singoli.
A interessare Constant però non è tanto il concetto
normativo di Volontà Generale, con le sue ripercussioni nella
storia delle idee politiche. Tantomeno egli pare soffermarsi sul
lessico "anatomico" che deriva da quella concezione
organicistica del vivere associato, che invece Berlin vorrà
stigmatizzare in molti luoghi del suo discorso politico5.
Constant, lo ricordiamo, è un membro della elite politica
francese del suo tempo, e tiene discorsi in parlamento
55 In particolare vedasi, riguardo a questo aspetto, il saggio su Le idee politiche del XX secolo, contenuto in Libertà, a cura di Henry Hardy, trad. it. G. Rigamonti e M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano, 2010 (prima ed 2005). Ivi Berlin articola la sua critica contro le idee politiche portatrici di quella che lui chiama una concezione "organicista" della società
14
sperando che servano ad orientare l'azione della classe
dirigente tardo-rivoluzionaria, e dunque non ci deve stupire
come egli si concentri sulla critica esclusiva del concetto
operativo di Volontà Generale, cioè di quella particolare
maniera che ebbero Rousseau in teoria, e i Giacobini in
pratica, di concepire l'organizzazione del vivere associato in
ottemperanza all'ideale del Popolo Sovrano:
La Francia si è vista vessata da inutili esperimenti, i cui
autori, irritati dagli scarsi successi, hanno tentato di costringerla
a godere del bene che essa non voleva, e le hanno conteso quello
ch'essa voleva.6
Ci conviene a questo punto ancora una volta tornare alla
pagina rousseauviana. Il ginevrino istituisce una chiara
connessione tra la Persona Pubblica (il corpo sociale come Io
Comune) e la civitas degli antichi.
"Questa persona pubblica che si crea così dall'unione di tutte le
altre si chiamava una volta Citta, e ora si chiama Repubblica o
Corpo Politico"7.
E proprio tale modellamento della Repubblica futura sulla
polis degli antichi sembra fornire a Rousseau una delle
caratteristiche che più marcatamente connotano il concetto di
Volontà Generale: l'indivisibilità. Se il Sovrano è uno, ed è il
6 Cfr. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, a cura di G. Piccoli, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2001, pag. 3 7 Cfr. J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, a cura di Roberto Gatti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2005, pag 68.
15
Popolo, allora la divisione dei poteri è una impostura e
Montesquieu un ciarlatano giapponese.
"Infatti la volontà è generale o non lo è; è quella del corpo del
popolo o solamente di una parte. Nel primo caso questa volontà,
dichiarata, è un atto di sovranità e fa legge, mentre nel secondo è
soltanto una volontà particolare o un atto di magistratura, tutt'al
più un decreto.
Ma i nostri politici, non potendo dividere la sovranità quanto
al suo principio, la dividono quanto al suo oggetto; la dividono
in forza e in volontà in potere legilativo e in potere esecutivo, in
diritti concernenti le imposte, la giustizia e la guerra, in
amministrazione interna e in potere i trattare con lo straniero;
talvolta confondono tutte queste parti, talaltra le separano.
Fanno del sovrano un essere paragonabile a quelli prodotti dalla
fantasia, formato di pezzi messi insieme l'uno con l'altro; è come
se componessero l'uomo con più corpi, di cui l'uno avesse gli
occhi, l'altro le braccia e l'altro i piedi, e niente più. Si dice che i
ciarlatani del Giappone taglino a pezzi un fanciullo sotto gli
occhi degli spettatori e poi, gettando in aria tutte le sue membra
una dopo l'altra, lo facciano ricadere vivo e tutto ricomposto.8
Che farsene allora di governi, magistrati e corpi diplomatici?
Relegarli nelle prigioni della storia come complici
dell'oppressione, e insediare al loro posto un'unica Assemblea
dei Cittadini, come ad Atene; e proprio questa Assemblea ci
sembra il concetto empirico meglio capace di tradurre la
Volontà Generale in qualcosa di apprezzabile materialmente.
Un' Assemblea, dunque, dove ognuno sia chiamato, in qualità 8 J.-J. Rousseau, Il contratto Sociale, a cura di Roberto Gatti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2005 pag 77-78
16
di parte del Sovrano, a deliberare sulle materie afferenti alla
sua vita. E una volta che tutte le parti si saranno pronunciate
potremo stabilire, con precisione matematica, qual è la volontà
del tutto, ed ergere solo quest'ultima a criterio legittimo
dell'azione politica. E chiunque vi resista resiste, secondo
Rousseau, al vero bene della società e attenta alla salute
dell'organismo civico. Si consuma in questo, secondo
Constant, secondo Berlin e secondo chi scrive, un cruento
sacrificio dell'Individuo sull'ara della Comunità. Adesso, e per
la prima volta nella storia della teoria politica, la
preoccupazione per la libertà dei singoli ha condotto alla sua
confisca, alla sua alienazione, al suo massacro. è quel processo
di cui Berlin rinverrà l'epitome in un passo dell' amato
Dostoevskij: si parte dalla libertà illimitata e si finisce
nell'illimitato dispotismo.9 è questo l'equivoco di una Libertà
Perversa, che si fraintende da se stessa. E di questo equivoco
tratta pure Berlin, come vedremo in seguito.
[…]l'abate Mably può essere considerato l'esponente del sistema
che, in conformità con le massime della libertà antica, vuole che
i cittadini siano completamente assoggettati affinchè la nazione
sia sovrana, e che l'individuo sia schiavo affinchè sia libero il
popolo10.
Per adesso invece guardiamo alla Francia del
Diciannovesimo incipiente, e preoccupiamoci di chiarire in
9 cfr I. BERLIN, Le idee politiche del XX Secolo, in I. BERLIN, Libertà, a cura di H. Hardy, trad. it. G.
Rigamonti e M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano, 2005, pag. 73 10
Cfr. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, a cura di G. Paoletti, Piccola
Biblioteca Einaudi, Torino 2001, pagg 18-19
17
quale parte del discorso si innesti la critica di Constant.
Egli rese consapevoli i Francesi che non era più possibile che
tutti partecipassero direttamente all'amministrazione della cosa
pubblica. Le mutate condizioni economiche e sociali
rendevano impraticabile ai suoi contemporanei la libertà
propria degli antichi. Volere a tutti i costi resuscitarla aveva
portato la nazione a non godere di nessuna libertà. Bisognava
forgiare con le armi del pensiero una nuova idea di libertà, che
fosse adeguata ai tempi. Quale è questa libertà "dei moderni"?
In una battuta potremmo definirla come la libertà di dissociarsi
dalla Volontà Generale.
[…] noi non possiamo più godere della libertà degli antichi, che
era fatta della partecipazione attiva e costante al potere
collettivo. La libertà che ci è propria deve essere fatta del
godimento pacifico dell'indipendenza privata.11
Invece che al governo di tutti su tutti, Constant pensa ad un
sistema rappresentativo, il quale possa in ogni caso garantire la
difesa degli interessi dei singoli ma che lasci loro il tempo di
essere liberi dalla cosa pubblica. Inoltre, per scongiurare il
rischio che i rappresentati tradiscano i rappresentati come la
Volontà Generale in pratica ha fatto tradendo le volontà
particolari, egli sostiene che debba essere concesso agli
Individui uno spazio inviolabile nel quale la Persona Pubblica
non possa e non debba assolutamente intromettersi.
11
Cfr. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, a cura di G. Paoletti Piccola
Biblioteca Einaudi, Torino, 2001, pag. 15.
18
"L'edificio rinnovato dello spirito degli antichi è crollato, a dispetto di
molti sforzi e molti atti eroici che hanno diritto all'ammirazione . Il
fatto è che il potere sociale ledeva in ogni senso l'indipendenza
individuale senza eliminarne il bisogno. La nazione non riteneva
affatto che una parte ideale a una sovranità astratta valesse i sacrifici
che le venivano comandati. Si aveva un bel ripeterle con Rousseau: le
leggi della libertà sono cento volte più austere di quanto sia duro il
giogo dei tiranni. Di tali leggi austere non voleva saperne e, nella sua
stanchezza, arrivava a credere che il giogo dei tiranni sarebbe stato
preferibile. L'esperienza è venuta e l'ha disillusa. Ha visto che
l'arbitrio degli uomini era ancora peggiore delle leggi più cattive. Ma
anche le leggi devono avere i loro limiti.
Se sono riuscito, signori, a farvi condividere l'opinione che, ne
sono convinto, dev'esser prodotta da questi fatti, riconoscerete con me
la verità dei seguenti principi:
L'Indipendenza individuale è l primo bisogno dei Moderni. 12
Quello che Constant ha in mente è dunque un confine,
invalicabile per l' Autorità, che garantisca per il singolo una
area entro la quale egli stesso singolo, e nessun altro, sia il
Sovrano.
Senza soffermarci sull'articolazione del Discorso di
Constant diremo invece che, nella vulgata liberale, si fa presto
ad appiattire tutta la profondità dei Due Concetti sul dettato
constantiano. La Libertà degli Antichi, la libertà di è passata in
quella Positiva. La Libertà dei Moderni è tout-court quella
Negativa; libertà da. E dunque Berlin sarebbe un epigono
poco originale.
12 Cfr B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, a cura di G.Paoletti, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2001, pag. 22.
19
Al netto dei molti richiami berliniani al pensero di
Constant, e delle molte similitudini nel modo che i due hanno
di intendere la libertà, pensare a Berlin come ad un "doppione"
ci farebbe perdere di vista la complessità del suo pensiero,
delle sue ragioni, dei suoi strumenti e del suo posto nella storia
del liberalismo. Uno degli scopi di questa trattazione sarà
rendere giustizia, cercando di comprenderli passo dopo passo,
a tutti questi elementi. .Così facendo tenteremo, per quelli che
sono gli strumenti di chi scrive, una esposizione dei Two
Concepts of Liberty, un testo in ogni caso molto difficile,
ondivago e involuto.
20
2. Isaiah Berlin tra Filosofia Analitica e Filosofia
Politica
Per rinvenire le radici più fonde del pensiero di Isaiah Berlin
bisogna ripercorrere i sentieri (solo apparentemente aridi) della
filosofia analitica, in maniera precipua di quella oxoniense.
Berlin non era inglese di nascita, e nemmeno un immigrato di
seconda generazione. Oggi diremmo che egli era lettone; e difatti la
Lettonia post-sovietica l'ha presto assunto come il massimo filosofo
nazionale e con tale titolo gli tributa ogni anno grandi onori
(purtroppo ciò sembra non essere mai accaduto fintanto che egli fu
in vita, sebbene egli sia sopravvissuto allo spartiacque del 1989). Il
nostro però probabilmente non si sentì mai lettone quanto russo,
ebreo ed inglese. Russo per cultura letteraria; Ebreo di stirpe e di
indole; Inglese in filosofia.
Ebreo russo Berlin fu per la sua intera esistenza. Convinto
sionista, fu tuttavia talmente inglese da non lasciare mai
l'insegnamento ad Oxford. Quantunque il nuovo stato di Israele
attendesse una delle sue migliori intelligenze, per affidarle un
importante incarico di dirigenza politica, i dirigenti sionisti in
Palestina mai riuscirono a distogliere quella mente dal suo luogo
naturale: l' All Souls College.
In contrasto con questo dato biografico (o forse aneddotico),
invece, il Berlin di "My Intellectual Path" scrisse di sé stesso, senza
riserve, che fu la lettura di Vico e di Herder a risvegliarlo al
pensiero1, volendo forse intendere che il clima intellettuale di
Oxford era quantomeno torpido, se non dormiente.
1 Cfr. I. Berlin, Il Mio Itinerario Intellettuale, in I. Berlin, Il Potere delle idee, a cura di H. Hardy, trad. it. G. Ferrara degli Uberti, Adelphi, Milano, 2003, pagg. 31-37
21
Mario Ricciardi, apprezzato studioso italiano di cose berliniane,
in un saggio pubblicato in "Biblioteca Liberale", rivista digitale
edita dal Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi,
sembra suggerire invece che un confronto critico con la filosofia di
Oxford attraversi trasversalmente tutta l' opera di Berlin2. Stanti
così le cose si potrebbe riservare al dibattito tra Berlin e suoi
colleghi e contemporanei un posto più significativo nella
determinazione dei fattori genetici dei nuclei concettuali rinvenibili
nei "Two Concepts of Liberty".
Dice innanzitutto Ricciardi:
"In My Intellectual Path Berlin ricostruisce il proprio percorso
intellettuale secondo uno schema già proposto in precedenti scritti
autobiografici. La lettura di Vico ed Herder sarebbe ciò che lo ha
liberato dal ristretto orizzonte problematico della filosofia di Oxford,
le cui priorità erano sostanzialmente stabilite dal positivismo logico
cui Berlin e i suoi colleghi si opponevano, per aprirgli un più vasto
panorama intellettuale. Da questa sorta di rigenerazione, che Berlin a
volte ha descritto quasi come una rivelazione, nascerebbe l'interesse
per la storia delle idee e per la politica. Secondo questa lettura
"discontinuista", sarebbero Vico, Herder e i Romantici a fornire a
Berlin gli spunti per mettere in discussione il monismo e per elaborare
progressivamente la sua distintiva versione del liberalismo ispirata dal
pluralismo dei valori"3
Berlin, finanche nei suoi carteggi con alcune personalità della
filosofia e della cultura in generale, non perse mai occasione per
mettere in evidenza il fatto che egli considerasse addirittura "futili"
i temi previsti dalla agenda intellettuale oxoniense. Egli scrive di
volersi dedicare a letture più "continentali", di voler affrontare 2 M. Ricciardi, L'altra libertà. Isaiah Berlin e il determinismo, in Biblioteca Liberale anno XLVI n. 200 Online Gennaio-Aprile 2011. 3 M. Ricciardi, ibidem, pag. 8
22
Hegel, Marx, Engels. Sappiamo che egli fece anche di più,
arrivando a nutrire una accesa stima per autori che gli stessi filosofi
continentali consideravano ormai una curiosità antiquaria; si pensi
al già citato Vico, principale fonte della vèrve polemica di Berlin
contro i logicismi aridi della filosofia dell' Europa insulare.
Ricciardi però si sofferma su come, quantunque Berlin manifestasse
in maniera palese il desiderio di allontanare il suo sentiero
intellettuale da quello dei suoi sodali di Oxford, l'interesse per il
pluralismo, per l'azione umana, per la storia della filosofia, fu
suscitato in lui da un confronto non solo "distruttivo" con quelle
che, per usare una locuzione che riecheggi il dettato berliniano e ne
conservi il tono polemico, potremmo definire le mode filosofiche
del prestigioso ateneo inglese.
Ricciardi si ferma a considerare l'incidenza che può aver avuto
sullo sviluppo del pensiero di Berlin l'insegnamento di John Cook
Wilson, eminente personalità oxfordiana di inizio ventesimo secolo.
Il futuro inquilino della Cattedra Chicherle conobbe con ogni
probabilità le idee di John Cook Wilson attraverso la mediazione
degli allievi di questi che ebbe tra i suoi docenti. Ricciardi indica in
particolare i nomi di Prichard, Ross e Joseph. Così Ricciardi:
"Nelle lezioni di logica e negli altri suoi scritti filosofici pubblicati
solo dopo la morte avvenuta nel 1915, Cook Wilson sviluppava, non
senza incertezze e tentennamenti, una critica delle principali dottrine
di Thomas H.Green e Francis H. Bradley. Grande attenzione era
prestata agli usi del linguaggio ordinario
(l’espressione stessa linguistic analysis viene impiegata da Cook
Wilson) per smascherare le fallacie derivanti dalla tendenza dei
filosofi a introdurre termini tecnici senza un’adeguata attenzione alle
conseguenze che esse comportano sul piano concettuale.
Mentre gli interessi di Cook Wilson erano quasi esclusivamente logici
ed epistemologici, quelli di Prichard, Ross e Joseph si estendevano
23
fino alla filosofia morale, cui applicavano il metodo di analisi del
linguaggio ordinario elaborato dal maestro cercando di esplicitare le
assunzioni che sottendono il nostro modo di pensare le azioni che
ciascuno compie nella vita di ogni giorno come, ad esempio, quando
«promette»".4
L' importanza che questo passaggio di Ricciardi riveste nella
ricostruzione dell' influenza di Oxford nella formazione del
pensiero del Berlin maturo è capitale. Se ne evince infatti che
Prichard, Ross e Joseph, sulla scorta del lascito di John Cook
Wilson, cominciarono ad applicare l'analisi linguistica al dominio
dell' azione umana, conservando, oltre al metodo, anche
l'intenzione del maestro; vale a dire quella di "smascherare le
fallacie derivanti dalla tendenza dei filosofi a introdurre termini
tecnici senza un'adeguata attenzione alle conseguenze".
Non è forse questa stessa l'intenzione che guida Berlin
nell'analizzare il doppio concetto di libertà? Non crede forse il
professore lettone che una ingannevole nozione filosofica di libertà
(una fallacia, appunto) sia alla base dell'instaurazione dei regimi
totalitari del Novecento, e che tocchi all'analisi linguistico-
filosofica dei concetti ristabilire il vero senso di questi ultimi, o
quantomeno la storia del loro fraintendimento? Secondo chi scrive
la risposta a tali domande deve essere decisamente affermativa. A
suffragio di tale ipotesi è possibile utilizzare la stessa pagina
berliniana. All'inizio della prolusione sui "Due Concetti di Libertà"
infatti Berlin scrive:
"Più di cento anni fa il poeta tedesco Heine ammonì i francesi a non
sottovalutare il potere delle idee: i concetti filosofici allevati nella
quiete dello studio di un professore possono distruggere una civiltà.
4 M. Ricciardi, ibidem, pagg. 8-9
24
Secondo Heine la Critica della Ragione Pura di Kant era la spada con
cui era stato decapitato il deismo tedesco, e le opere di Rousseau
erano l'arma insanguinata che, in mano a Robespierre, aveva distrutto
il vecchio regime; e si poteva profetizzare che la fede romantica di
Fichte e di Schelling un giorno sarebbe stata rivolta, con effetti
terribili, contro la cultura liberale dell'occidente dai loro fanatici
seguaci tedeschi. I fatti non hanno completamente smentito questa
predizione; ma se i professori hanno davvero in mano questo fatale
potere, non potrebbe darsi che solo altri professori, o per lo meno altri
pensatori (e non i governi o le commissioni parlamentari), siano in
grado di disarmarli?" 5
In questo passo assume particolare rilevanza, ai fini del nostro
discorso, l'impiego, da parte dell'autore, del verbo "disarmare".
Una simile scelta linguistica sembra in effetti suggerire un'azione
quasi assimilabile al disinnescare un ordigno concettuale,
operazione che non è difficile figurarsi nei termini della rettifica di
un errore logico (meglio ancora linguistico), tanto più se deve
essere un compito dei pensatori. Nel testo dei "Due Concetti" la
presa in esame di ogni possibile aspetto del problema della libertà,
da operare in ordine al "disarmo" di cui sopra, si configura proprio
come un tentativo di analizzare e chiarire la potenza denotativa, o
meglio significante, del lemma, al fine di comprendere il diverso
atteggiamento verso la vita sotteso ad ogni possibile attribuzione di
significato di cui la parola "libertà" può essere oggetto.
In altre parole quello che Berlin sembra voler fare è un'analisi
dei significati della libertà che lo porti a intravedere l'orizzonte
culturale, psicologico, relazionale, entro il quale ciascuno di questi
significati si inscrive.
5 I. Berlin, Due concetti di Libertà, in I. Berlin, Libertà, a cura di Henry Hardy, trad. it. G. Rigamonti e M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 2005, pag. 170
25
Questo intento segna una profonda distanza tra Berlin e i suoi
colleghi oxoniensi. E il primo passo di questa distanza consiste
nella concezione del tutto diversa, rispetto a quella dei suoi
colleghi, che Berlin ha della nozione di "significato".
L'ultimo scritto di Berlin, "Il mio itinerario intellettuale", già
citato più sopra in queste pagine, contiene alcune illuminanti
suggestioni in proposito. È uno scritto d'occasione, composto su
richiesta di un accademico cinese incaricato della curatela di una
raccolta di pensatori anglofoni. Berlin ottantasettenne non volle
rinunciare a comparire con un suo elaborato in tale volume, molto
probabilmente perché proprio in quegli anni (1996) in Cina era in
atto il riconoscimento in via costituzionale di alcune importanti
"libertà negative" e dei diritti soggettivi di matrice liberale.
Il contenuto di questo testo non tradisce il titolo. Berlin infatti
racconta della sua carriera di filosofo, o meglio ancora delle letture
e dei problemi affrontando i quali il suo pensiero si era educato.
Quello del significato è da subito identificato da Berlin come un
cardine della sua formazione filosofica. Tanto è vero che già nelle
prime pagine egli ne fa menzione, e tutta la primissima parte del
saggio è consacrata al resoconto delle querelles sorte a proposito di
questo ed altri argomenti simili tra Berlin e i suoi colleghi, entro le
mura dell' Università di Oxford.
Facciamo parlare direttamente l'autore:
"La prima questione che occupò la nostra attenzione tra la metà e la
fine degli anni Trenta era la natura del significato: il suo rapporto con
la verità e la falsità, la conoscenza e l'opinione, e in particolare il
criterio di significanza in termini della verificabilità delle proposizioni
in cui il significato era espresso. A spingerci verso questo tema erano i
membri della Scuola di Vienna, essi stessi discepoli di Russell e
grandemente influenzati da pensatori come Carnap, Wittgenstein e
26
Schlick. L'idea di moda era che il significato di una proposizione
consiste nel modo della sua verificabilità; e se non c'è alcun modo
possibile di verificare ciò che viene detto, allora si tratta di un
enunciato insuscettibile di verità o falsità, che non ha carattere
fattuale, ed è pertanto privo di significato, oppure è un esempio di un
diverso uso del linguaggio, come accade nei comandi o nelle
espressioni del desiderio, o nella letteratura d'immaginazione, o in
altre forme d'espressione che non pretendono di essere empiricamente
vere.
Fui influenzato da questa scuola nel senso di essere assorbito dai
problemi e delle teorie da essa generati, ma non diventai mai un autentico
discepolo. Ho sempre creduto che enunciati che possono essere veri o falsi o
plausibili o dubbi o interessanti, se da un lato si riferiscono senza dubbio al
mondo quale è empiricamente concepito (e, da allora fino a oggi, non ho mai
concepito il mondo in alcun altro modo), dall'altro non per questo sono
necessariamente suscettibili di essere verificati mediante un qualche criterio
semplice e risolutivo, come affermavano la Scuola di Vienna e i positivisti
logici suoi seguaci."6
Alfiere presso la comunità accademica inglese di un simile
approccio fu, tra gli altri, Alfred Jules Ayer. Amico e compagno di
studi di Berlin, ancorchè suo avversario filosofico, Ayer dedicò al
principio di verificazione come sopra enunciato una delle sue opere
più importanti: Language, Truth and Logic. Berlin dissentiva da
Ayer su tutta la linea. Soprattutto dopo il 1950, egli articolò la sua
critica al principio di verificazione adducendo un elegante
argomento logico-linguistico concernente la natura delle
proposizioni ipotetiche. Anche di ciò possiamo trovare una traccia
in My Intellectual Path:
"….Lo stesso è vero per le proposizioni ipotetiche, e a maggior
ragione per le proposizioni ipotetiche del terzo tipo, riguardo alle quali
6 I. Berlin, Il mio itinerario intellettuale, in I. Berlin, il potere delle idee, a cura di H. Hardy, trad. it. G. Ferrara
degli Uberti, Adelphi, Milano 2003, pag. 24
27
è palesemente paradossale sostenere che se ne può dimostrare la verità
o falsità mediante l'osservazione empirica, e che nondimeno hanno
senza dubbio un significato".7
A questo proposito Ricciardi nota giustamente che:
Il legame con l’azione […] è […] chiaro: dal significato degli
enunciati ipotetici dipende buona parte del discorso sull’azione e il
tipo di ricostruzioni controfattuali che si trovano normalmente nei libri
di storia.8
Possiamo dunque ipotizzare che Berlin, già interessato dagli anni
trenta agli ambiti della storia, della politica, e della morale,
piuttosto che alla logica formale, si sia allontanato dall'ambiente
oxoniense primariamente in virtù di questa concezione imperante
sulla natura del significato, la quale egli si avvide poteva
compromettere buona parte del discorso sull'azione umana. Dunque
seppure Berlin, nei suoi "Due Concetti", si cimenti con la disamina
dei due significati più pregnanti della parola Libertà, e lo faccia in
maniera auto-evidente attraverso una analisi linguistica, egli ha in
mente una nozione affatto diversa, e molto più profonda, di
significato.
Quale sia questa nuova dimensione del significato l'abbiamo
accennato prima dicendo che Berlin tenta di comprendere i diversi
atteggiamenti verso la vita che costituiscono il presupposto di ogni
possibile concetto di Libertà. Una tale espressione risulterebbe di
molto rischiarata allorché venisse compresa nell'orizzonte delle
successive influenze culturali cui fu sottoposto il giovane Berlin.
Non dovremo stupirci neanche in questo caso qualora arrivassimo a
stabilire che per buona parte fu lo stesso milieu oxoniense a fornire
7 I.Berlin, ibidem, pag. 25
8 M. Ricciardi, L'altra libertà. Isaiah Berlin e il determinismo, in Biblioteca Liberale anno XLVI n. 200 Online Gennaio-Aprile 2011, pag. 14
28
al Nostro gli spunti necessari ad elaborare una simile concezione
del significato. E così infatti è, considerando che l' influenza di
Oxford passò attraverso una delle personalità meno integrate nella
vita culturale dell'accademia inglese, quale fu Robin G.
Collingwood, traduttore in Inglese di Benedetto Croce.
Vale la pena, perciò, di notare una singolare coincidenza. Berlin
seguì i corsi di filosofia della storia di Collingwood nel 1931,
contemporaneamente al sorgere del suo interesse per la storia e la
filosofia della politica.
Bernard Williams, redattore di una introduzione all'edizione
inglese di Concepts and Categories fa notare come la concezione
collingwoodiana della metafisica come scienza non già dell'essere
in quanto tale, quanto delle "presupposizioni assolute" sottese ad
ogni concezione del mondo (potremmo dire anche: ad ogni
giudizio?), si riversi tout-court nella nozione di significato
rinvenibile nell'opera di Berlin, oltre a conservare l'eco chiaramente
udibile della Filosofia dello Spirito crociana.
In questo capitolo non menzioneremo né Vico né Herder, in
quanto il fatto che la lettura delle opere di questi due pensatori
"minori" abbia informato di sè il pensiero Berliniano si impone alla
nostra attenzione con evidente chiarezza. Ci limitiamo a
sottolineare come fu Oxford a dissodare le zolle prima che il germe
"continenale" venisse seminato, e, a margine di questa
considerazione, ci preme di sottolineare come, oltre a Vico, un altro
napoletano fece la sua parte (sebbene in maniera obliqua) nella
maturazione della filosofia di Berlin: Benedetto Croce.
29
30
3. Libertà Negativa
Dopo aver tentato di rendere preliminarmente conto del
rapporto dei Due Concetti di Libertà con il liberalismo
constantiano e con i pensatori oxoniani coevi, è giunto il
momento di confrontarci direttamente con il testo, alla ricerca
delle trame concettuali che esso sottende. Avremo nel
frattempo ulteriori occasioni per mettere in evidenza
convergenze e differenze tra Berlin e il pensiero liberale
"classico".
Riteniamo sia opportuno trattare i due concetti di libertà
separatamente, rimanendo ciò nonostante consapevoli di come
l'uno sia indivisibile dall' altro, come le due facce di una
moneta, e rammentando che se ciascuno di essi in certa misura
contiene l'altro, ad un tempo lo contraddice. Questo aspetto,
che a tutta prima sembrerebbe a chiunque un paradosso, è
invece tanto più vero in una prospettiva filosofica come quella
berliniana, basata come sembra essere su una concezione del
pluralismo come contraddizione non solo possibile, ma
talvolta necessaria, tra i fini e valori ultimi all'interno di una
medesima cultura (o addirittura nell'interpretazione del
medesimo concetto).
31
In questa direzione ci conduce anche lo stesso incipit del
saggio:
"Se gli uomini non si fossero mai trovati in disaccordo sui fini
della vita, se i nostri antenati fossero rimasti, indisturbati, nel
giardino dell'Eden, gli studi ai quali è dedicata la cattedra
Chicherle di Teoria Sociale e Politica difficilmente avrebbero
potuto essere concepiti"1.
La filosofia politica si nutre dunque del conflitto, e inoltre ad
essa è affidata la responsabilità di capire il conflitto, siccome
giammai sarà in suo potere di risolverlo. Se il filosofo abdica a
questo difficile compito allora le idee politiche che nascono quasi
spontaneamente dall'interazione umana, dalla cosiddetta "società
civile", rischiano, una volta che su di essa nuovamente si
riflettono, di diventare un "coltello insanguinato".
Ecco Berlin:
"Trascurare il campo del pensiero politico [….] significa
semplicemente mettersi alla mercè di credenze primitive e
acritiche"2.
1 I.Berlin "Due concetti di libertà", in I.BERLIN, Libertà, a cura di H. Hardy, trad. it. G. Rigamonti e M. Santambrogio, Feltrinelli Universale Economica, 2005, pag. 169 2 Op. Cit, pag.170
32
Inutile specificare come questi due aggettivi non abbiano
affatto una connotazione neutra, ma palesemente assumano un
contenuto peggiorativo.
Come fare allora a capire il conflitto? Riferendoci a quanto
già accennato nel capitolo precedente, diremo che per Berlin
capire i conflitti vuol dire "capire le idee o l'atteggiamento
verso la vita ad esse sotteso". Comprendere la genesi dei
conflitti fra diversi valori e fini ultimi nel campo della vita
associata, ovvero in ultima istanza fra i gruppi di uomini che
sono portatori dell'uno o dell'altro fine o valore, vuol dire
dunque fare luce sulle Weltanschauungen in cui consiste
l'orizzonte culturale dal quale nascono e crescono le idee
politiche, al fine di rendere chiari i meccanismi intellettuali (e
psicologici) che operano in qualunque attribuzione di
significato di cui sono fatte oggetto le parole della Politica.3
In altri termini, a quale visione del mondo (e dell'uomo)
fanno capo i diversi significati attribuibili alla parola Libertà?
3 Nell'opera berliniana sono in maniera precipua analizzati i conflitti tra la Weltanschauung romantica e quella illuminista. Berlin dedica all'argomento più di un saggio critico, e si può ipotizzare che egli ritenga lo scontro tra le due grandi correnti del pensiero moderno come un momento genetico della modernità in quanto tale. In particolare Berlin sembra essere attratto piuttosto dal romanticismo (ad es. Herder), il quale costituirebbe il puntello della teoria pluralista del valore che caratterizza la sua speculazione etico-politica. Al contrario l'Illuminismo, nell'opinione di Berlin, ripropone la visione monista della vita e del pensiero, la quale Berlin avversa. Per approfondire l'argomento si vedano: I.BERLIN, The age of enlightment, The 18th century philosophers, Plume, Londra, 1984; I. BERLIN, Le radici del romanticismo, a cura di H. Hardy, trad it. Di G. Ferrara degli Uberti, Adelphi, Milano, 2001; I. BERLIN, Il mago del nord: J.G. Hamann e le origini dell'irrazionalismo moderno, trad. it. di N. Giardini, Adelphi, Milano, 1997.
33
In via preliminare converrebbe allora stabilire cosa
significhi "Libertà".
Berlin ci avverte pressoché immediatamente della
complessità del problema:
"Quasi tutti i moralisti storicamente noti hanno cantato le lodi
della libertà; ma il significato di questo termine, come quelli di
"felicità" e "bontà", "natura" e "realtà", è talmente elastico che
non c'è praticamente interpretazione che non ammetta"4.
Subito dopo Berlin qualifica la parola libertà come
"proteiforme", evocando l'immagine di una catena lunghissima
di singoli componenti giustapposti l'uno all'altro (come i
peptidi in una proteina) che però si vedono solamente al
microscopio, la loro totalità sfuggendo alla vista dell'occhio
nudo. È come dire che quanti sono gli uomini tanti sono i
concetti di libertà, ma se volessimo pervenire ad una
definizione univoca della parola Libertà, allora l'oggetto della
nostra indagine d'improvviso sfuggirebbe al nostro sguardo per
ritirarsi nella sua ineffabilità, lasciandoci però quantomeno
liberi di interpretare la libertà come vogliamo, o come ci
4 Op. Cit. pag 171
34
interessa. E infatti non c'è Una Libertà, dato che, secondo
Berlin, non c'è, e mai ci potrà essere, l'accordo unanime sui
valori supremi della vita associata. Proprio per questo, e
nell'impossibilità di rendere conto di tutti i significati di libertà
("possiamo forse andare a verificare le multiformi concezioni
della libertà?", sembra dire Berlin al suo collega Ayer) Berlin
restringe il campo della sua analisi a due di questi: uno
negativo ("Fin dove sono libero?"), e uno positivo, che
potremmo racchiudere nella domanda che recita: "Da chi sono
governato? E in nome di quale principio io debbo obbedire?".
Seguendo la divisione in paragrafi degli stessi "Due
Concetti" tratteremo prima, in questo capitolo, il senso
negativo. Nel capitolo successivo cercheremo di enucleare tutti
gli aspetti del senso positivo di Libertà, connesso tra l'altro con
molti dei temi ulteriori della riflessione berliniana.
35
3.1. La Libertà Negativa
"….questa dottrina è relativamente moderna. Nel mondo antico
non troviamo, praticamente, nessuna discussione della libertà
individuale come ideale politico consapevole (distinto dalla sua
esistenza effettiva). Già Condorcet aveva osservato che l'idea dei
diritti individuali era assente dalle concezioni giuridiche dei
romani e dei greci, e questo vale anche per la civiltà ebraica,
quella cinese e tutte le altre culture nate (sempre nell'antichità)
successivamente".5
Questo passaggio ci aiuta a capire la nozione di Libertà
Negativa, in quanto ci fornisce un utile parametro di
riferimento: la libertà individuale (in quanto ideale politico
consapevole), e un altrettanto utile tertium comparationis: i
diritti individuali. La Libertà Negativa è dell'Individuo ed è
collegata ai diritti, al Diritto, e lo è nella misura in cui ha a che
fare con l'interazione tra i soggetti.
5 Op. Cit. pag. 179
36
"…sarebbe una stranezza dire che nella misura in cui non so fare
[…] io sono coartato o schiavizzato. La coercizione implica una
deliberata interferenza di altri esseri umani all'interno dell'area
in cui altrimenti potrei agire. Perciò si può parlare di libertà
politica soltanto se qualcuno ci impedisce il raggiungimento di
un obiettivo; la semplice incapacità di raggiungere un obiettivo
non può essere definita mancanza di libertà politica".6
La Libertà negativa è quindi connessa alla dimensione
esteriore dell'azione umana, all' έθοϛ, nella accezione
etimologica di "luogo dell'abitare", non già alla ψύχή, cioè
all'interiorità e al rapporto intra-soggettivo. Se io non riesco
ad essere libero non ha senso dire che qualcuno mi costringe,
se io ho la possibilità di esserlo, e qualcuno me lo impedisce,
allora si verifica la coercizione.
"Il criterio della mia oppressione è la parte che a mio parere altri
esseri umani svolgono nel frustrare i miei desideri, direttamente
o indirettamente, con o senza intenzione; e per essere libero in
questo senso intendo il non subire interferenze altrui. Più ampia
è l'area della non-interferenza, maggiore è la mia libertà"7.
6 Op. Cit.pag 171
7 Ibidem
37
In questo senso la coercizione, che è il contrario della
Libertà Negativa, si configura come la intromissione di
qualcuno che non siamo noi stessi (lo Stato, ma anche gli altri
socii) nella nostra sfera di non-interferenza.
Questa area di non-interferenza è come proiettata
dall'individuo all'infuori di se, a difesa delle sue "libertà
naturali".
Tutti i filosofi che prepararono la strada alla Rivoluzione
Francese, intesa come concrezione in un evento puntuale della
fine di una episteme, per dirla con Foucault8, e l'inizio di una
nuova, concepirono quest'area come non-illimitata, circoscritta
altresì dalle leggi, che nello stesso istante la tutelano (mediante
quei diritti soggettivi che sono assoluti e perfetti) e le
impediscono di fagocitare le aree dell'altrui libertà (mediante
l'istituzione di doveri sociali). Tuttavia né le leggi né gli altri
individui possono mai oltrepassare il perimetro di questo
spazio di libertà individuale, in quanto questo equivarrebbe a
violarlo e configurerebbe immediatamente una carenza di
libertà.
8 Cfr. M Foucault, Discorso e Verità nella Grecia Antica, a cura di A. Galeotti, Donzelli, Roma, 1996
38
È evidente che ci stiamo sicuramente muovendo nella
visione del mondo liberale classica.
"Locke e Mill in Inghilterra o Costant e Tocqueville in Francia
[postulavano] che dovesse esistere una certa area minima di
libertà personale da non violare per nessuna ragione, poiché se
quest'area fosse invasa l'individuo si troverebbe chiuso in uno
spazio troppo angusto anche per quello sviluppo minimale delle
sue facoltà naturali senza il quale non è possibile perseguire, o
anche soltanto concepire, tutti quei fini che gli uomini
considerano buoni, giusti o sacri. È necessario, di conseguenza,
tracciare un confine tra l'area della vita privata e quella
dell'autorità pubblica. Dove vada tracciato è materia di
discussione"9
Nella stessa maniera in cui la nozione dei diritti individuali ci
aiuta ad orientarci nella scoperta del contenuto sociale e
giuridico della Libertà Negativa, è questa idea di Confine10,
9 Op. Cit. pag. 176
10 Relativamente al confine, può esserci utile la fortunata distinzione che Kant volle istituire tra Grenzen e Schranken. Per Kant i Grenzen presuppongono sempre uno spazio, che si trova fuori di un certo determinato luogo e lo racchiude. Al contrario gli Schranken sono semplici negazioni che affettano una grandezza. Nei Grenzen, quindi, si afferma positivamente una doppia appartenenza, nel senso che esso appartiene "a ciò che sta dentro di esso, come allo spazio che sta fuori di un dato insieme". Questo separare dei Grenzen è allora anche un possibile comunicare con ciò che sta oltre. Gli Schranken, altresì, sono confini invalicabili che precludono totalmente l'accesso all' al-di-fuori. Ai fini del nostro discorso potremmo considerare il confine tra la vita dell'individuo e quella dello stato sia come un Grenze che come uno Schrank , a seconda se lo si guardi dalla prospettiva dell' Individuo o da quella dello Stato. Per l'individuo si da un Grenze, vale a dire un limite valicabile, ogni qual volta egli voglia spingersi oltre l'orizzonte del suo particulare e concorrere alla
39
incontrata nel passo poco sopra riportato, che ci insegna
qualcosa sui risvolti più specificamente filosofici della Libertà
Negativa. Inoltre essa ci regala preziose informazioni sul
"paradigma societario" che meglio si accorderebbe con la
possibilità di un perfetto esercizio di essa.
Ognuno dei "diritti di libertà" conosciuti dalle scienze
giuridiche informate dal paradigma liberale classico può infatti
essere interpretato come un confine. Esso, come tutte le
frontiere, può essere vissuto al di là o al di qua. Entro il
confine troviamo (e questo è già chiarissimo) l'Uomo con la
sua libertà, fuori dal confine ci sono tutti gli altri uomini e le
Istituzioni. Come ogni confine, anche quello della libertà è
convenzionale e mobile; nel senso che può essere spostato in
avanti o all'indietro, corrispondendo tali movimenti
rispettivamente ad un incremento o ad una diminuzione della
Libertà.
Tralasciando per ora la questione della mobilità limitiamoci
ad affermare che da tutto il tono del saggio, e dalle risposte
determinazione dell'indirizzo politico della comunità. Per lo Stato, secondo la teoria politica liberale, si da invece, nei confronti del privato degli individui, un insormontabile Schrank, che funziona come necessaria negazione della sfera pubblica. Il confine tra lo Stato e l'individuo è, per quest'ultimo, un' orizzonte di possibilità, per il primo una barriera da non trapassare, pena la ricaduta nell'autoritarismo e nella coercizione. Per approfondire si veda I. KANT, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza, trad. it di P. Carabellese, Introduzione di R. Assunto, Laterza, Bari, 1970, segnatamente il paragrafo 57, e P. FAGGIOTTO, Commento al Paragrafo 57 dei Prolegomeni, in Verifiche, XV, 1986, n. 3.
40
alle critiche ad esso rivolte, si evince che per Berlin,
esattamente come per i liberali classici, l'esistenza di questo
confine sia un fatto di per sé buono e desiderabile. Vedremo
poi più approfonditamente il perché di questa bontà e
desiderabilità, necessariamente richiamando tra l'altro alcuni
problemi a cavallo tra psicologia e filosofia morale di cui
Berlin si è occupato nei saggi raccolti insieme ai Due Concetti
nei Cinque Saggi sulla Libertà. Per ora, su questo argomento,
possiamo ragionevolmente affermare che da parte di Berlin si
configuri un'adesione, ancorché magari parziale, alla tesi
milliana per cui assicurare all' uomo uno spazio di integrale
privatezza, subito a ridosso però della sfera pubblica, sia il
modo migliore di garantire lo sviluppo della propria
personalità in pienezza ed armonia da parte di ciascuno.
La libertà dell'individuo deve avere questo limite:
l'individuo non deve creare fastidi agli altri. Ma se evita di
molestare gli altri nelle loro attività, e si limita ad agire
secondo le proprie inclinazioni e il proprio giudizio
nell'ambito che lo riguarda, le stesse ragioni che provano
che l'opinione deve essere libera provano anche che gli si
41
deve consentire, senza molestarlo di mettere in pratica le
proprie opinioni a proprie spese. 11
Se quindi è buono che venga tracciato un confine "di
libertà" tra un uomo e tutti gli altri, se è giusto questo
movimento di "atomizzazione", allora dovremo essere disposti
ad ammettere che, anche laddove la definizione di un confine
possa tradursi in uno strappo tra l'Individuo e il resto, ciò sia
in ogni caso buono. Proprio per questo possiamo dire che
Berlin, come Constant, come J.S. Mill, e come tanti altri, è un
oppositore di qualsivoglia concezione organicista della società.
Egli ritiene che una società giustamente organizzata debba
essere "Individualista", permettendo all'uomo, se lo desidera,
di vivere in maniera del tutto autonoma dal resto, senza essere
bper forza considerato come una parte di un tutto più grande
ed ontologicamente più vero. Si intravede con grande
chiarezza una posizione affatto dissimile da quella
rousseauiana della Volontà Generale, e fortemente differente
rispetto a quella hegeliana dello Stato, la quale poi sappiamo
che si riverbererà, in tutto o in parte è un problema ancora
11
J.S.Mill, Saggio sulla libertà, Introduzione di g. Giorello e M. Mondadori, trad. it. di S. Magistretti, Il Saggiatore, Milano, 2009
42
dibattuto, nella concezione marxista della società senza classi.
Riguardo a quest'ultima, come riguardo a tutto il complesso
concettuale del materialismo storico, Berlin ritiene che si tratti
di una posizione fortemente determinista e se ne discosta
soprattutto in virtù di questa considerazione. Avremo modo di
parlarne appena il nostro discorso giungerà fino alla trattazione
della Libertà Positiva.
Stabilito che c'è un confine, stabilito che l'abbiamo tracciato
per proteggerci da un'eventuale ingerenza, cosa in realtà
stiamo proteggendo? La nostra stessa vita, e questo è certo. Ma
deve esserci comunque un qualche cosa d'altro da
salvaguardare se la nostra libertà non è la sola vita, ma anche
la possibilità di scegliere cosa fare di essa.
"Il senso in cui io uso il termine libertà [comporta] l'assenza di ostacoli
alla scelte e alle attività possibili - l'assenza di ostacoli lungo le strade
che una persona può decidere di percorrere."12
Vediamo come il confine sia posto a protezione dell'
individuo e delle scelte possibili che egli vorrà operare per
12
I. BERLIN, Introduzione, in I. BERLIN, Libertà, Feltrinelli Universale Economica 2010, p. 32
43
dispiegare pienamente le disposizioni del suo animo. Questo
assetto vede situato l'individuo entro il cerchio delle sue
attività possibili, protetto dal confine che lo divide dagli altri
individui, dividendo contemporaneamente loro da lui e loro gli
uni dagli altri, secondo la medesima modalità per ognuno.
Cosicché risalta in maniera plastica come chiunque riesca a
dilatare lo spazio della propria azione possibile erode la libertà
degli altri, spostando indietro il loro confine ed in avanti il suo.
La libertà del pesce grande è la morte del pesce piccolo.
Eppure Berlin dovette impegnarsi a rispondere a quei critici
che avevano creduto di individuare nella Libertà Negativa una
apologia del lasseiz-faire.
"Non avrei mai creduto che oggi ci fosse ancora bisogno di tornare sulla
sanguinosa storia dell'individualismo economico e della competizione
capitalistica non regolata; viste tuttavia le opinioni bizzarre che mi hanno
imputato alcuni critici, forse sarebbe stato saggio da parte mia
sottolineare certe parti della mia argomentazione. Avrei dovuto mettere
ancora più in chiaro che i mali del lasseiz-faire non ristretto e dei sistemi
sociali e giuridici che lo hanno permesso e incoraggiato hanno generato
brutali violazioni della libertà "negativa" - dei diritti umani fondamentali
(ancora un concetto "negativo", una barriera contro l'oppressione),
44
compresi quelli di libertà di espressione e associazione, senza i quali […]
non [esiste] democrazia"13
Da questo passaggio troviamo confortate due delle nostre
ipotesi interpretative. La prima è quella poc'anzi sostenuta,
della sostanziale differenza, se non opposizione, tra la Libertà
Negativa e una giustificazione filosofica del liberismo
economico. La seconda è quella enunciata un po' più sopra,
quando parlavamo dei diritti fondamentali come una delle
principali declinazioni di un concetto negativo di libertà.
È il solo diritto positivo che costituisce per noi il veicolo
della Libertà Negativa, per così dire, la sua incarnazione.
Infatti la Libertà Negativa è uno di quei concetti che ha
bisogno, per stare in piedi, di un robusto puntello nell' empiria.
Infatti, le scelte possibili di cui prima parlavamo, perderebbero
valore se venissero considerate solo dal punto di vista della
vita "spirituale" degli individui. Le possibilità di azione non
sono certo i desideri tout-court. Se così fosse, dissero i critici
di Berlin, allora basterebbe fare come il saggio stoico. Egli
sopprime i suoi desideri e si applica a non averne di altri, in
13
Op. Cit, pag. 39
45
maniera tale che la sua possibilità di agire non venga mai
intralciata dagli altri uomini o dalle istituzioni. Egli si inganna,
in questo modo, di essere il più libero tra gli uomini, mentre
invece ha solo introiettato i suoi legacci, e li ha per così dire
sussunti nella sua medesima soggettività. Berlin lo afferma a
chiare lettere nella introduzione premessa ai Quattro Saggi
sulla Libertà, nella quale, appunto, risponde ad un ampio
ventaglio di critiche rivoltegli da un certo numero di studiosi
di Storia, Filosofia Politica ed Epistemologia. Egli infatti
scrive:
"Nella versione originale di Due concetti di libertà parlo della libertà
come assenza di ostacoli al soddisfacimento dei desideri di una persona.
Questo è probabilmente il senso in cui il termine è più comunemente
usato, ma non rappresenta il mio punto di vista; infatti se essere liberi -in
senso negativo- consiste semplicemente nel non essere ostacolati da altre
persone nel fare tutto ciò che si vuole, allora uno dei modi per ottenere
questa libertà è quello di estinguere i propri desideri. […] Se il grado di
libertà fosse una funzione del soddisfacimento dei desideri, potrei
aumentare la libertà altrettanto efficacemente eliminando i desideri che
soddisfacendoli; potrei rendere gli uomini (me compreso) liberi
condizionandoli in modo che perdano quei desideri originari che ho
deciso di non soddisfare. Invece di resistere alle pressioni che mi
46
schiacciano o di rimuoverle, posso "interiorizzarle". È questo il risultato
che raggiunge Epitteto quando afferma di essere, da schiavo, più libero
del suo padrone.
[…] Il senso di libertà degli stoici, per quanto sublime, va distinto
dalla libertà che può essere mutilata o distrutta da un oppressore, o da
una pratica oppressiva istituzionalizzata.
[…] La libertà spirituale, intesa come vittoria morale, deve essere
distinta da un senso della libertà più fondamentale, e da un senso più
comune della vittoria: altrimenti c'è il pericolo di una confusione nella
teoria e nella pratica, di una giustificazione dell'oppressione in nome
della stessa libertà.
[…] Il senso in cui io uso il termine libertà non comporta soltanto
l'assenza di ostacoli alle scelte e alle attività possibili - l'assenza di
ostacoli lungo le strade che una persona può decidere di percorrere. Una
libertà di questo tipo non dipende in ultima analisi dal fatto che io
desideri o non percorrere una strada, o fino a dove desidero farlo, ma da
quante porte mi sono aperte […].14
Non solo la libertà dello stoico non è la Libertà Negativa, ma
addirittura il concetto stoico di libertà, "per quanto sublime"
potrebbe ingenerare molta confusione e addirittura portarci a
desiderare l'oppressione in nome della libertà. Come questo
14
Op. Cit, pagg 31 e segg.
47
possa accadere ci riserviamo di analizzarlo nel prossimo
capitolo. Adesso desideriamo ribadire che la nozione di
Libertà Negativa è calata interamente nelle relazioni sociali, e
dunque deve avere un contenuto socialmente individuabile:
"Benjamin Constant, che non aveva dimenticato la dittatura
giacobina, sosteneva che come minimo si dovevano salvaguardare da
ogni invasione arbitraria la libertà di religione, d'opinione, d'espressione
e di proprietà"15.
Di certo appare rilevante il fatto che l'unica enumerazione
"per oggetti" dei contenuti possibili della Libertà Negativa sia
preceduta dal nome di Benjamin Constant. Del resto è chiaro
che "se questa dottrina è relativamente moderna" la libertà
negativa, nel significato che sembra emergere meglio dalle
pagine dei Two Concepts è, in certa misura, proprio quella di
Constant.
Come si è avuto modo di dire all'inizio di questo paragrafo,
la Libertà Negativa è precisamente quella libertà che
concepisce sé stessa come un ideale politico, che vuole
realizzarsi nelle società e negli ordinamenti, attraverso la 15
I. BERLIN, Due concetti di libertà, in I. BERLIN, Libertà, Feltrinelli Universale Economica, 2010, pag. 176
48
creazione di uno spazio di diritto in cui il singolo sia "sovrano
assoluto" relativamente a ciò che lo riguarda. Perciò non ci
può essere altro titolare della Libertà Negativa che non sia l'
Individuo.
L' individuo è come posto all'intersezione tra l' uomo, il
quale, secondo quella visione del mondo che si esprime nel
concetto di Libertà Negativa, è provvisto per nascita di diritti
inviolabili che semplicemente da quest'ultima gli derivano, e il
cittadino, che è la traduzione del medesimo concetto
dall'ambito naturale a quello del Diritto. La Libertà Negativa è
la stessa libertà che, sia pure in tempi e luoghi diversi, è stata
proclamata a gran voce dai vari cataloghi dei diritti e delle
libertà fondamentali succedutesi dalla Magna Charta fino alla
Dichiarazione Universale del 1948. Vale a dire, dunque,
proprio la libertà dell' uomo e del cittadino. È questo concetto
di Libertà che permise ai popoli di emanciparsi dall' Antico
Regime. È proprio in virtù della Libertà Negativa in questo
modo intesa che gli uomini riuscirono a trasformarsi da
soggetti-all'-arbitrio dei Re a soggetti-del-diritto.
49
Su questo punto non possiamo esimerci dal riportare le parole
di J.S. Mill, il quale viene salutato da Berlin come il più
appassionato difensore di questa particolare forma di libertà:
"Per impedire che i membri più deboli della comunità venissero depredati
e tormentati da innumerevoli avvoltoi, era indispensabile la presenza di
un rapace più forte degli altri, con l'incarico di tenerli a bada. Ma, poiché
il re degli avvoltoi sarebbe stato voglioso quanto le minori arpie di
depredare il gregge, si rendeva necessario un perpetuo atteggiamento di
difesa contro il suo becco e i suoi artigli. Quindi, lo scopo dei cittadini
era di porre dei limiti al potere sulla comunità concesso al governante: e
questa delimitazione era ciò che essi intendevano per libertà. Si cercava
di conseguirla in due modi: in primo luogo, ottenendo il riconoscimento
di certe immunità chiamate libertà o diritti politici, la cui violazione da
parte del governante sarebbe stata considerata infrazione ai doveri del
suo ufficio, e avrebbe giustificato l'opposizione specifica o la ribellione
generale. Una seconda modalità, generalmente successiva, era la
creazione di vincoli costituzionali per cui il consenso della comunità, o di
un qualche organismo che avrebbe dovuto rappresentarne gli interessi,
veniva reso condizione necessaria per alcuni degli atti fondamentali
dell'esercizio del potere"16.
16
J.S. Mill, Saggio sulla Libertà, Introduzione di g. Giorello e M. Mondadori, trad. it. di S. Magistretti, il
Saggiatore Tascabili, 2009, pag. 20
50
Se, come abbiamo già affermato, fu il desiderio di Libertà
Negativa a sospingere la cultura politica dell'Occidente fuori
dalle maglie dell' Ancient Règime, una volta che ciò accadde,
molti purtroppo ritennero che oramai, compiuta questa
impresa, si poteva riporre questa idea nel "Museo dei
Concetti". Si cominciò a pensare, infatti, che spazzato via il
potere dinastico e creati sistemi più o meno radicalmente
democratici, non ci sarebbe stato più bisogno di avere una
sfera di non-interferenza per proteggersi dall'arbitrio del
Sovrano, in quanto il Sovrano (da noi designato) sarebbe stata
una mera espressione di noi stessi, e per questo irresistibile per
necessità logica. Chi mai, infatti, vorrebbe resistere a sé
stesso?
Anche questo è descritto con chiarezza da J.S. Mill:
"Con lo sviluppo della lotta per fare emanare il potere dalla scelta
periodica dei governanti, alcuni cominciarono a pensare che si era
attribuita troppa importanza alla limitazione del potere in quanto tale,
limitazione che a loro giudizio andava invece considerata un'arma contro
quei governanti i cui interessi si contrapponessero abitualmente a quelli
popolari. Ciò che ora si voleva era l'identificazione dei governanti con il
popolo, la coincidenza del loro interesse e volontà con quelli della
51
nazione. Quest'ultima non aveva bisogno di essere protetta dalla propria
volontà: non vi era da temere che diventasse il tiranno di sé stessa. Se i
governanti fossero stati effettivamente responsabili verso di essa, e da
essa immediatamente amovibili, la nazione avrebbe dovuto permettersi di
affidare loro un potere il cui uso sarebbe dipeso dalla sua volontà: il
potere di governo non sarebbe stato altro che quello della Nazione,
concentrato in forma tale da permetterne un efficace esercizio. Questa
linea di pensiero […] sembra ancora predominare nel Continente. Coloro
che ammettono limiti alle possibilità di azione di un governo, salvo che si
tratti di governi che a loro avviso non dovrebbero esistere, sono delle
brillanti, isolate eccezioni tra i pensatori politici del Continente."17
Questo vuol dire che con lo sviluppo delle repubbliche e delle
democrazie, veniva affermandosi proprio quella concezione
rousseauiana della Volontà Generale, che tanto J.S. Mill,
quanto Constant (cui potremmo riferire le ultime righe del
brano citato), tanto Berlin (seppure con molte e articolate
nuances) considerano invece oppressiva.
Continuando a leggere in J.S. Mill troviamo espressa questa
condanna della Volontà Generale:
17
Op. Cit. pag 21
52
"[…] la volontà del popolo significa, in termini pratici, la volontà della
parte di popolo più numerosa e attiva - la maggioranza, o coloro che
riescono a farsi accettare come tale; di conseguenza il popolo può
desiderare opprimere una propria parte, e le precauzioni contro ciò sono
altrettanto necessarie quanto quelle contro ogni altro abuso del potere".18
Cos'altro se non questo concetto di "precauzione pro
libertate" voleva ribadire Constant quando parlava di libertà
dei moderni?
La libertà che si addice ai moderni è precisamente quella
libertà che si radica non solo in una visione del mondo latu
sensu liberale e giusnaturalistica, ma anche in una visione
dell'uomo, pensato non come mero "Citoyen", frazione della
pubblica volontà, ma anche come portatore di una volontà tutta
personale; non già esclusivamente situato nella politica e nel
diritto, ma anche nel privato, sua dimensione originaria. Un
uomo così concepito è sicuramente il titolare dei diritti civili e
politici, attore nella comunità, ma lo è solo in quanto può
anche curare i propri affetti, o talenti, e in generale le
disposizioni del suo animo. E cioè solo se non viene reciso il
cordone che lo lega al suo particulare. Si può anzi
18
Op. cit. pag 22
53
ragionevolmente affermare che senza che venga rispettata la
componente privata dell' uomo, si svuota di significato la sua
stessa libertà politica, la quale si origina altresì proprio nel
tentativo di tradurre nelle regole della vita associata lo status
naturale e morale della persona libera.
Saremo allora di fronte ad un fallimento della libertà,
oppure, per dirla con Berlin, ad una carenza di libertà politica,
quando pretenderemo che l'uomo sia libero solo in quanto può
determinare in prima persona l'indirizzo della comunità
politica, e cioè come elemento costitutivo della Volontà
Generale (invero però solo quando si trova in accordo con
essa), dimenticando di riconoscergli la possibilità di vivere la
sua dimensione privata in piena autonomia e di fornirgli
l'opportunità di astrarsi dalla Politica, finanche di essere
completamente disinteressato ad essa, e tutto votato, invece, a
quelli, tra i suoi affari, che non chiamano in causa la vita dello
Stato. Quest'ultima possibilità presuppone appunto, da parte
dello Stato, la predisposizione, a beneficio dell' individuo, di
una area di non-interferenza.
La genesi di questo concetto è Diogene di Sinope come ce
lo racconta Plutarco nel De Exilio: quando lo Stato, incarnato
54
in Alessandro il Grande, gli si para davanti e gli chiede cosa
può fare in suo favore, egli risponde: "scostati dal mio raggio
di sole". Alessandro, dal canto suo, va via senza reagire,
incarnando a sua volta la liberalità dello Stato.
Del tutto differente da questa è l'opinione di Rousseau.
Possiamo rendercene conto leggendo questo passo:
"Appena il servizio pubblico cessa di essere la principale occupazione dei
Cittadini e appena preferiscono prestarlo con il loro denaro anziché con
la loro persona, lo Stato è già vicino alla sua rovina. Bisogna andare a
combattere? Pagano delle truppe e rimangono a casa. Bisogna partecipare
al Consiglio? Eleggono dei Deputati e rimangono a casa. A forza di
pigrizia e di denaro arrivano ad avere alla fine dei soldati per rendere
schiava la patria e dei rappresentanti per venderla.
Sono la preoccupazione per il commercio e per le arti, l'avido
interesse per il guadagno, la mollezza e l'amore della vita agiata, che
portano a sostituire con il denaro i servizi personali.19"
Usando una metafora potremmo scorgere l'uomo
esclusivamente pubblico nell Socrate del Critone, allorquando
egli non vuole fuggire dalla prigione per non recare offesa alle
19
J.J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, BUR Classici del Pensiero, 2005, pag.150
55
leggi della polis che fino a quel momento l'avevano accudito,
soddisfatto e tenuto come un figlio.
Nella prima immagine, che è quella della Libertà Negativa,
vediamo all'opera non solo una semplice idea politica, ma
anche una posizione ontologica che considera, contro
Rousseau, contro Hegel, contro Marx, contro i Totalitarismi, la
singolarità, la privatezza e la particolarità come i momenti
fondativi della vita associata, in posizione sovraordinata nei
confronti dei Sovrani, della Volontà Generale, dello Stato e
della Classe, rispetto ai quali assurgono ad un grado di
esistenza più pieno e cogente. La Libertà Negativa, in questo
senso, è filosoficamente un ontologia del particolare, la quale
comporta, nel dominio della politica, l'affermazione della
necessità di un'area che sia, diciamolo senza mezzi termini, di
non-governo.
Resta da comprendere perché questa visione del mondo latu
sensu liberal-giusnaturalista assuma come valore in sè la
Libertà Negativa, intesa come uno spazio di libertà individuale
garantito dalle Leggi ma da esse non governato.
56
Abbiamo già accennato come Berlin metta in evidenza una
delle possibili risposte "assiologiche" (nella misura in cui
chiamano in causa una attribuzione di valore nell'ambito della
cosiddetta "morale pubblica") che si possono dare a
quest'ultima questione: la risposta di John Stuart Mill.
Per la verità Berlin dedica un intero saggio, anch'esso raccolto
nei Four Essays alla trattazione delle peculiari ragioni per cui
Mill fu un appassionato sostenitore della libertà intesa come
sopra si è più volte spiegato. In effetti, che J.S. Mill lo sia stato
è cosa di cui non dubitare. Egli, nel suo Saggio sulla Libertà,
argomentò che è necessario che all' individuo venga lasciata
dalla società un'area di non-interferenza in cui né la legge né
l'opinione possano intromettersi. Infatti, poco sopra, abbiamo
visto come egli credesse che questa idea avesse sconfitto le
monarchie assolute, e che andasse trasportata, senza punto
modificarla, nelle forme di Stato e di governo democratiche.
Egli enuncia, sempre nel medesimo saggio, anche un criterio
generalissimo che deve guidare l'effettiva applicazione di tale
principio. Per questo originalissimo interprete della tradizione
utilitarista definire un criterio di questo tipo volle dire
57
soprattutto identificare il "giusto limite" tra il privato e
l'autorità. Leggiamo nel IV capitolo del "Saggio sulla Libertà":
"Qual è allora il giusto limite alla sovranità dell'individuo su sé stesso?
Dove comincia l'autorità della società? Quanto della vita umana spetta
all'individualità e quanto alla società?
Ciascuna riceverà la parte che le spetta se le viene attribuito ciò che la
riguarda più direttamente. All'individualità dovrebbe appartenere la sfera
che interessa principalmente l'individuo, alla società, quella che interessa
principalmente la società.
Anche se la società non si fonda su un contratto, e sarebbe inutile
inventarne uno per dedurne degli obblighi sociali, chiunque riceva la sua
protezione deve ripagare il beneficio, e il fatto di vivere in società rende
indispensabile che ciascuno sia obbligato ad osservare una certa linea di
condotta nei confronti degli altri. Questa condotta consiste, in primo
luogo nel non danneggiare gli interessi reciproci, o meglio certi interessi
che, per esplicita disposizione di legge o per tacito accordo, dovrebbero
essere considerati diritti; e, secondo, nel sostenere la propria parte (da
determinarsi in base a principi equi) di fatiche e sacrifici necessari per
difendere la società o i suoi membri da danni e molestie. La società ha il
diritto di far valere a tutti i costi queste condizioni nei confronti di coloro
che tentano di non adempiervi. Né questo è tutto ciò che lo società può
fare. Gli atti di un individuo possono arrecare danno ad altri o non tenere
in giusta considerazione il loro benessere, senza giungere al punto di
58
violare alcuno dei loro diritti costituiti. In questo caso il colpevole può
essere giustamente condannato dall'opinione, ma non dalla legge. Non
appena qualsiasi aspetto della condotta di un individuo diventa
pregiudizievole degli interessi altrui, ricade sotto la giurisdizione della
società, e ci si può chiedere se questa interferenza giovi o meno al
benessere generale. Ma tale questione non si pone in alcun modo quando
la condotta di un individuo coinvolge soltanto i suoi interessi, o
coinvolge quelli di altre persone consenziente (tutti essendo maggiorenni
e dotati di normali facoltà mentali). In tutti questi casi, vi dovrebbe essere
piena libertà, legale e sociale, di comprendere l'atto e subirne le
conseguenze."20
Vale a dire allora, che secondo J.S. Mill, quando l'individuo
non pretenda di spostare in avanti il suo confine di libertà
sancito per legge, erodendo lo spazio della libertà altrui, in
maniera particolare nel momento in cui questi ultimi non siano
in accordo con lui, egli deve potere dispiegare la sua azione
nella maniera più libera possibile, senza incorrere nelle ire dell'
opinione o dell' autorità. E fino a questo punto tra Berlin e J.S.
Mill non troviamo un sostanziale disaccordo.
20
J.S. MILL, Saggio Sulla Libertà, Introduzione di g. Giorello e M. Mondadori, trad. it. di S. Magistretti, il
Saggiatore tascabili, 2009, pag. 93
59
Ma a noi prima interessava farci un'idea del perché della
libertà intesa come non-interferenza. C'è da dire che su questo
punto tra i due filosofi si possono evidenziare alcune
divergenze, e non mancheremo di farlo nel prosieguo di questa
trattazione. Cominceremo con la esposizione della
giustificazione milliana alla non-interferenza, così come colta
da Berlin nei Due concetti e più compiutamente nel saggio
esclusivamente dedicato alla filosofia di J.S. Mill.
Scrive Berlin nei Due Concetti:
"Perché per Mill la protezione della libertà individuale ero così sacra?
Nel suo famoso saggio egli afferma che se non si permette all'individuo
di vivere come preferisce "la parte [della sua condotta] che riguarda solo
sé stesso", la civiltà non potrà progredire, la verità non verrà alla luce per
mancanza di un libero mercato delle idee e non vi sarà spazio per la
spontaneità, l'originalità, il genio, l'energia mentale, il coraggio morale.
La società sarà schiacciata dal peso della "mediocrità collettiva"21.
Ecco una mirabile sinossi del terzo capitolo del saggio
milliano Sulla Libertà. Il problema è che Berlin non sembra
essere interamente d'accordo. È nostra opinione che egli
ritenga l'idea della spontaneità, della originalità e del genio
21
I. BERLIN, Due concetti di libertà, in I. BERLIN, Libertà, Feltrinelli universale economica, 2010, pag. 177
60
incapace di attingere la vera essenza della Libertà Negativa. E
infatti si dedica ad una confutazione, in alcuni luoghi anche
discutibile, chiamando in causa elementi extra-filosofici.
Secondo quanto Berlin scrive nel saggio su John Stuart Mill e
gli scopi dell'esistenza, la teoria milliana della libertà sarebbe
stata determinata da fattori biografici. Dacché James Mill
educò il figlio in maniera tale da sviluppare solo le sue
disposizioni intellettuali e soffocare invece la sua spontaneità
ed individualità, egli, una volta cresciuto, sarebbe diventato il
primo paladino proprio di tali valori. Al di là della validità
ermeneutica di un tale approccio "biografista", capiamo che
Berlin trova motivazioni un po' diverse per la necessità del
confine. Ci saranno chiare, si spera, durante la nostra analisi
del concetto di Libertà Positiva.
61
4. Libertà Positiva
Abbiamo detto, alla fine del capitolo precedente, della differenza
che corre tra Berlin e J.S. Mill in relazione alla giustificazione
filosofica della Libertà Negativa. Sembra che Berlin infatti non
consideri sufficientemente pregnante una posizione, come quella di
Mill, che forse gli sembra troppo "esteriore" ed "estetizzante". Mill,
ricordiamolo, credeva che assicurare uno spazio di non-governo
agli individui servisse sopra ogni cosa ad assicurare la varietà delle
intelligenze e il dispiegamento totale della variopinta complessità
umana e del genio; ma tutto questo era subordinato alla ricerca di
una "verità sociale" della quale informare la vita associata, il
costume, la cultura. Il positivista inglese, però, era giunto ad una
simile posizione occupandosi semplicemente del problema della
libertà come essa si può realizzare nell'interazione tra i governanti e
i governati, oppure nella dialettica tra gli stili di vita individuali e
l'Opinione dominante. Egli scrive, nell'incipit del saggio "Sulla
Libertà":
"Il soggetto di questo saggio non è la cosiddetta libertà della volontà, così
sfortunatamente contrapposta alla dottrina filosofica della necessità, ma la
62
libertà civile, o sociale, concernente la natura ed i limiti del potere che può
essere legittimamente esercitato dalla società sull'individuo"1
Per cui sappiamo che J.S. Mill considerò la "libertà della volontà"
come qualcosa d'altro rispetto alla libertà sociale. Berlin, invece,
ritiene che entrambe rientrino a pieno titolo nel discorso sulla
libertà politica, e siano, in certa misura, legate l'una all'altra a
doppio filo. Dalla lettura dei paragrafi finali nell'ultimo scritto
berliniano, intitolato, come già abbiamo avuto modo di ricordare, Il
mio itinerario intellettuale, otteniamo di sapere che lo studioso
lettone considerava che i saggi da lui dedicati al problema della
Libertà fossero essenzialmente due: il primo, che noi abbiamo già
ampiamente imparato a conoscere, intitolato Due Concetti di
Libertà, nel quale venivano esaminate le due nozioni di Libertà che
sono l'oggetto anche di questa trattazione; il secondo,
"L'inevitabilità storica", incentrato sul rapporto tra libertà e
determinismo. È nostra opinione che i due saggi siano tra loro
complementari, come lo stesso loro autore lascia intendere,
trattando l'uno e l'altro in stretta continuità nell'operetta cui affidò la
ricostruzione retrospettiva delle sue posizioni filosofiche.
Riteniamo inoltre che l'inclusione, da parte di Berlin, del concetto
di libertà della volontà, o (al negativo) dell'opzione anti-
1 J.S.MILL, Saggio sulla Libertà, il Saggiatore Tascabili, 2009, pag 19
63
determinista, nell'alveo della discussione sulla libertà politica sia
uno degli elementi che maggiormente caratterizza la filosofia
berliniana della libertà, e, insieme al pregiudizio verso la "ricerca
della verità", la rende originale rispetto a tutta la corrente liberale
classica, cui pure si ispira. Cercheremo tra l'altro di dimostrare
come proprio la polemica anti-determinista e "anti-veritativa"
forniscano un potente arsenale ermeneutico per smascherare quelle
perversioni della libertà e mutilazioni di essa che potrebbero
annidarsi dietro la nozione di Libertà Positiva (come in effetti è
avvenuto nella storia). Questa Libertà non sembra essere, altresì,
solo quella "cattiva". Infatti, esiste nella valutazione berliniana, un
momento in cui Libertà Negativa e Libertà Positiva vengono a
trovarsi tra di loro come le due facce di una medaglia, come
accennavamo nel precedente capitolo. Tuttavia questo ci appare
quasi come un "attimo fuggente", prima di essere oppresso dal peso
di quelle anomalie della Libertà Positiva che furono la scintilla dei
Totalitarismi.
Sulla scorta di queste nostre deduzioni (senza pretesa alcuna di
esattezza) divideremo il capitolo in due paragrafi principali. Il
primo sarà dedicato all'analisi di quelle fortunate circostanze che
potrebbero permettere che tra i due concetti di libertà si instauri, per
così dire, un circolo virtuoso. Il secondo servirà per rendere conto,
64
quanto meglio ci è possibile, (nuovamente) di quelle visioni del
mondo che hanno sovvertito il concetto di Libertà (Positiva) fino a
fargli significare il suo esatto contrario: dispotismo e coercizione.
4.1 Il circolo virtuoso
Sembra che Berlin ritenga che l'idea di Libertà Positiva sia
contenuta in nuce nella stessa affermazione, da parte dell' uomo,
della essenza razionale delle sue scelte e dei suoi comportamenti:
"Il senso "positivo" della parola "libertà" deriva dal desiderio dell'individuo di
essere padrone di sé stesso. Voglio che la mia vita e le mie decisioni dipendano
da me stesso e non da forze esterne, di nessun tipo. Voglio essere lo strumento
dei miei atti di volontà e non di quelli altrui. Voglio essere un soggetto, non un
oggetto; voglio essere mosso da ragioni, da propositi consapevoli che siano i
miei e non da cause che agiscono su di me, per così dire, dall'esterno. Voglio
essere qualcuno, non nessuno, voglio essere un agente, uno che decide, non
uno per cui decidono altri; voglio dirigermi da me, e non essere uno su cui la
natura esterna e gli altri uomini operano come se fossi una cosa, un animale o
uno schiavo incapace di assumermi un ruolo umano, di concepire degli
obiettivi e delle politiche solo miei e di portarli a termine. È questo, almeno in
parte, ciò che intendo quando dico di essere razionale e che è la mia ragione a
65
fare di me un essere umano, ben distinto dal resto del mondo. Soprattutto, io
voglio essere consapevole di me stesso come essere che pensa, vuole, agisce ed
è responsabile delle sue scelte e capace di spiegarle facendo riferimento alle
proprie idee e finalità. Mi sento libero nella misura in cui credo vere tutte
queste cose, e schiavo nella misura in cui sono costretto a prendere atto che
vere non sono."2
Nel momento in cui un uomo riconosce il suo volersi razionalmente
egli ha diritto all'autodeterminazione. Tanto più logicamente allora
potremmo, data questa condizione, riconoscergli uno spazio di
autodeterminazione indipendentemente da qualsiasi altra
circostanza esterna (politica o di altra natura), e dunque attivare
quel confine di cui si è discusso al terzo capitolo. In altre parole è
l'essere razionale della scelta e della volizione a costituire la
giustificazione dell'esistenza di un'area di non-governo. Finché io
perseguo un fine razionale o abbraccio un valore razionale devo
essere senz'altro lasciato libero di fare. Cosicchè, in Berlin, la
Libertà Positiva, presa, per così dire, al suo "grado zero", e cioè
intesa come libertà e razionalità della scelta autonoma, costituisce la
stessa ragione necessaria e sufficiente per la Libertà Negativa. Dice
Berlin:
2 I. BERLIN, Due concetti di libertà, in I. BERLIN, Libertà, Feltrinelli Universale Economica, 2010, pag. 181
66
"La libertà che consiste nell'essere padroni di sé stessi e quella che consiste nel
non essere impediti da nessun altro nelle proprie scelte possono sembrare, a
prima vista, due concetti logicamente abbastanza vicini - nient'altro che due
modi, uno positivo e l'altro negativo, di dire sostanzialmente la stessa cosa."3
Da qui potremmo quasi coniare un motto che compendi tutta questa
situazione: "Fin dove voglio auto-determinarmi, vado lasciato
padrone di me stesso", contemperando il tutto con la posizione
milliana per cui fin dove l'individuo decide solo di sé stesso deve
essere lasciato libero.
In questo modo è possibile collegare la Libertà Negativa e quella
Positiva in un circolo virtuoso.
A riprova di queste nostre deduzioni produrremo un passo, tatto da
Due Concetti, nel quale ci sembra Berlin abbia condensato la sua
posizione in merito all'argomento. Diciamo ci sembra perché, nei
Due Concetti come negli altri saggi, Berlin riporta le opinioni di
una congerie di pensatori, giustapponendo epoche e tendenze, e da
questo intricato insieme egli riesce, nel suo lunghissimo periodare,
a far risaltare per speculum et in aenigmata il suo pensiero.
"[…] se l'essenza degli uomini è quella di essere entità autonome, creatori di
valori e di fini in sé la cui autorità ultima consiste precisamente nel fatto di
3 Op. Cit, pag 182
67
essere voluti liberamente, allora non c'è nulla di peggio che trattarli come se
non avessero autonomia e fossero invece oggetti naturali su cui agiscono
influenze causali, creature alla mercè di stimoli esterni, le cui scelte possono
essere manipolate da chi li governa, vuoi con la minaccia della forza, vuoi con
l'offerta di ricompense. Trattare in questo modo gli uomini vuol dire trattarli
come se non potessero determinare se stessi."4
In Berlin il "volere se stesso" dell' uomo razionale è esattamente
l'elemento che, trasportato nell'ambito della vita in società, si
traduce nella necessità di uno spazio di Libertà Negativa. Se esiste
un giusnaturalismo specificamente Berliniano, esso consiste in
questa continuità tra il λờγον ἒχειν e l'habeas corpus.
Potremmo essere portati spontaneamente a concludere che dove
viene meno quel minimo di ragione che è necessaria alla
convivenza civile, quando l'individuo non è assolutamente più
capace di situare se stesso in un orizzonte politico, allora si può e si
deve fare ricorso alla coercizione. Se qualcuno, in preda ad un
raptus omicida, uccide alcuni dei suoi simili, allora è giusto ridurre
ai minimi termini quell'area di libertà di cui costui godeva prima di
compiere il suo gesto irrazionale. Berlin ammette che la non-
interferenza possa subire alcune limitazioni in favore di altri fini
ultimi che sono importanti esattamente quanto la libertà. Nel caso
4 Op. Cit, pag 187
68
poco prima ipotizzato potrebbe trattarsi della sicurezza, e lo stesso
potrebbe valere per la giustizia e l'eguaglianza. Tuttavia il filosofo
di Oxford ci ammonisce contro l'abitudine a considerare questi, che
sono sacrifici di spazi di libertà, come accrescimenti di un ipotetico
"ammontare complessivo di libertà" che ricorderebbe molto, con le
dovute sfumature, le teorie degli utilitaristi:
"La libertà non è l'unico fine dell'uomo. Posso dire, come il critico russo
Belinskij, che se altri devono esserne privati - se i miei fratelli devono rimanere
nello povertà, nello squallore e in catene - allora non la voglio per me, la rifiuto
senza esitare e preferisco infinitamente condividere il destino dei miei fratelli.
Ma non si ottiene niente confondendo i termini della questione. Per evitare una
disuguaglianza sfacciata o una miseria diffusa sono pronto a sacrificare parte
della mia libertà o addirittura tutta, e posso anche farlo volentieri e
liberamente: ma è la libertà a cui sto rinunciando in nome della giustizia o
dell'uguaglianza o per amore dei miei simili. […] un sacrificio non è un
aumento di ciò che viene sacrificato, cioè della libertà, per grande che sia la sua
necessità morale […]. Ogni cosa e quello che è: la libertà è libertà e non
uguaglianza, imparzialità, giustizia, cultura, felicità umana o una coscienza
tranquilla.5
5 Op. Cit. pag 175
69
Tra la libertà e gli altri valori di cui si informano le società
occidentali, come vediamo, esiste un trade-off. O si sceglie l'una, o
uno degli altri. Di conseguenza …
[…] è solo una confusione di valori dire che, anche se forse la mia libertà
"liberale" e individuale è stata spazzata via, qualche altra libertà - "sociale" o
"economica" - è invece aumentata. Tuttavia resta sempre vero che a volte la
libertà di alcuni deve essere limitata per assicurare quella degli altri."6
Per Berlin un pensiero siffatto, che vorrebbe diminuita una
libertà "individuale" in favore di un' accresciuta "libertà collettiva",
è "confusionario" perché contraddice uno dei capisaldi della sua
filosofia. L'autore lettone è infatti famoso per la sua teoria
"pluralista". Ebbene, uno degli architravi del pensiero "pluralista"
berlininano, è che i fini e i valori ultimi, considerati "buoni" dagli
uomini, possono essere l'un l'altro antitetici.7 In tutta la filosofia
occidentale, da Platone in poi, ritroviamo invece l'idea che ogni
6 Op. Cit pag 176 7 Come fa notare G. Cacciatore nel saggio L'etica della libertà tra relativismo e pluralismo, raccolto nel volume Logica, Ontologia ed Etica, studi in onore di Raffaele Ciafardone, (Franco Angeli, Milano, 2011) purtroppo molti dei saggi sul pluralismo editi negli ultimi anni non citano Berlin. Nondimeno ricorderemo, tra questi, quello di Seyla Benhabib, che ha innescato una serie di fruttuose indagini e discussioni intitolato La rivendicazione dell'identità culturale. Eguaglianza e diversità nell'era globale (Il Mulino, Bologna, 2005), e quello di Charles Taylor, Radici dell'Io. La costruzione dell'identità moderna, (Feltrinelli, Milano, 1993). Relativamente al pluralismo specificamente berliniano invece si vedano: C. Taylor, Cosa c'è che non va nella libertà negativa, ora in I. Carter e M. Ricciardi (a cura di), L'idea di libertà, Feltrinelli, Milano, 1996, pp. 75-99; M. Barberis, presentazione di G. Crowder, Isaiah Berlin, Il Mulino, Bologna, 2007, pag. 7; P. Badillo O' Farrell (a cura di) Pluralismo, Tolerancia, Multiculturalismo. Reflexiones para un mundo plural, U.I.A.-Akal, Madrid 2003, in special modo il contributo dello stesso Badillo O' Farrell (?Pluralismus versus Multiculturalismus?, ivi pp. 33-36)
70
cosa che sia "vera" e "buona" sia, almeno in parte, identica alle altre
cose "vere" e "buone".
Per fare un esempio che rimanga nel nostro campo di indagine
diremo che molti pensatori politici ritengono che ci sia una ampia
intersezione tra la libertà e la giustizia, quando non credono che la
"vera" libertà e la "vera" giustizia siano del tutto identiche.
Potremmo citare su questo punto proprio Rousseau, già indicato, in
questa trattazione, come un evidente esempio di teorico politico che
segue un orientamento "monista":
"Se si cerca in che cosa consiste precisamente il più grande di tutti i beni,
quello che deve essere l'obiettivo di ogni sistema di legislazione, si troverà che
si riduce a questi due oggetti principali: la libertà e l'uguaglianza. La libertà,
poiché ogni dipendenza particolare è altrettanta forza tolta al corpo dello Stato;
l'uguaglianza, poiché senza di essa la libertà non può sussistere."8
4.2 Liberta, Verità e Monismo
Per J.S. Mill la Libertà Negativa, che egli identifica con la
"libertà sociale" tout-court significa essenzialmente libertà di
8 J.J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, Bur Classici del Pensiero, 2005, pag.104
9 I. BERLIN, Due concetti di Libertà in I. BERLIN, Libertà, Feltrinelli Universale Economica, pag 217
71
esprimersi, in maniera tale che la società possa arricchirsi dal
confronto tra diverse opinioni, nel costume come nella politica.
Egli riteneva precipuamente che l'Individuo dovesse prima di
tutto essere lasciato libero nel manifestare la propria opinione e
seguire lo stile di vita che ha scelto. Concedere il diritto di
esprimersi anche alle opinioni erronee serve a fare emergere
dialogicamente la verità ed il bene.
"Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più
diritto di far tacere quell'unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere,
avendone il potere, l'umanità. Se l'opinione fosse un bene privato, privo di
valore eccetto che per il suo proprietario, se essere ostacolati nel suo
godimento fosse semplicemente un danno privato, il numero delle persone che
lo subiscono farebbe una certa differenza. Ma impedire l'espressione di
un'opinione è un crimine particolare, perché significa derubare la razza umana ,
i posteri altrettanto che i vivi, coloro che dall'opinione dissentono ancor più di
chi la condivide: se l'opinione è giusta, sono privati dell'opportunità di passare
dall'errore alla verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto
grande, la percezione più chiara e viva della verità, fatta risaltare dal contrasto
con l'errore"10.
Berlin non avrebbe mai potuto condividere in pieno un simile
ragionamento. Non che lo avversi in toto. Anzi, lo ritiene valido
10
J.S. MILL, Saggio sulla libertà, prefazione di G. Giorello e M. Mondadori, trad. it di S. Magistretti, Il Saggiatore,
Milano, 2009, pag. 35
72
finché esso è volto ad assicurare uno spazio di libertà agli individui.
Ma ciò su cui Berlin non potrebbe consentire è il fatto che, in ultima
analisi, la giustificazione milliana alla libertà politica sia basata in
sostanza sulla necessità per l'individuo di essere messo in
condizione di ricercare liberamente la verità.
Abbiamo appena scoperto altresì che uno dei capisaldi nel
pensiero berliniano è una sorta di scetticismo verso la verità,
soprattutto quando essa viene considerata come assoluta e
indubitabile. Egli riteneva anzi che l'illusione di una "ricerca della
verità" avesse pregiudicato gran parte della filosofia occidentale da
Platone fino alle correnti positiviste e materialiste del XIX e XX
secolo, sottraendole una parte del suo inestimabile valore. Tra i tanti
scritti a cui Berlin affidò queste sue meditazioni di storia della
filosofia, è ancora una volta Il mio itinerario intellettuale ad offrirci
una sintesi esaustiva e sufficientemente precisa.
"Abbagliati dagli spettacolari successi delle scienze naturali nel loro secolo e in
quelli che l'avevano preceduto, uomini come Helvètius, d'Holbach, d'Alembert
e Condillac, e propagandisti di genio come Voltaire e Rousseau, si convinsero
che una volta scoperto il metodo giusto sarebbe stato possibile portare alla luce
la verità essenziale nel campo della vita sociale, politica, morale e personale -
quel tipo di verità che aveva ottenuto così grandi trionfi nelle indagini rivolte al
mondo esterno Gli Enciclopedisti credevano nel metodo scientifico in quanto
73
unica chiave per accedere a questa conoscenza; Rousseau e altri credevano in
verità eterne scoperte mediante gli strumenti dell'introspezione Ma quali che
fossero le loro divergenze, essi appartenevano a una generazione convinta di
essere sulla via che conduceva alla soluzione di tutti i problemi che avevano
afflitto l'umanità fin dai suoi inizi.
Al di sotto di quest'idea stava una tesi più ampia: ossia che tutte le vere
domande debbono ammettere una e una sola risposta vera, tutte le altre essendo
false, altrimenti le domande non possono essere autentiche domande. […] e
una volta riunite insieme tutte le risposte giuste alle più profonde domande
morali, sociali e politiche, che occupano (o dovrebbero occupare) l'umanità, il
risultato costituirà la soluzione finale di tutti i problemi dell'esistenza.
[…] Questo credo non era certamente limitato ai philosophes dell'illuminismo,
benchè i metodi raccomandati da altri pensatori differiscano. Platone credeva
che la via alla verità fosse la matematica; Aristotele che forse era la biologia;
gli ebrei e i cristiani cercarono le risposte nei libri sacri […]. Ma ciò su cui tutti
convenivano, come d'altronde i loro successori dopo la Rivoluzione Francese
[...] era che le leggi dello sviluppo storico potevano essere scoperte (e anzi
erano ormai state scoperte), e che le risposte alle domande riguardanti la
morale, la vita sociale, l'organizzazione politica, i rapporti personali - erano
tutte suscettibili di essere ridotte a sistema alla luce delle verità scoperte
mediante i giusti metodi, quali che questi potessero essere.
Questa è una philosophia perennis […]. È la credenza centrale su cui il
pensiero umano ha poggiato per due millenni. […] Non so perché io abbia
74
sempre guardato con scetticismo a questa credenza pressochè universale, ma è
così. 11
Sappiamo già che Berlin diede a questo atteggiamento
fondamentale della filosofia occidentale, così come da lui colto
nelle pagine richiamate immediatamente sopra, il nome di monismo.
Il monismo, nella filosofia di Berlin è, assieme al determinismo,
come si è detto, il principale agente filosofico-culturale da cui
scaturisce la frattura tra i due concetti di libertà e dunque il
tradimento della libertà da parte di coloro che vollero, e vogliono,
affermarne esclusivamente il senso positivo. È dall'azione di queste
due Weltanschauungen, appunto quella monista e quella
determinista che si originano quelle fallaci "attribuzioni di
significato" che riducono la libertà al suo contrario. È nell'orizzonte
culturale di queste due "forze" filosofiche che tra Libertà Positiva e
Negativa viene a determinarsi un "circolo vizioso".
4.3 Il circolo vizioso
Com'è possibile, conviene chiedersi, che due accezioni dello stesso
lemma diventino due concetti distinti, e arrivino persino a
contraddirsi l'uno con l'altro? Quando diciamo "non è possibile", 11
I. Berlin, Il mio itinerario intellettuale, in I. Berlin, Il potere delle idee, a cura di H. Hardy, trad. it di G. Ferrara degli
Uberti, Adelphi, Milano , 2003, pagg. 28-30
75
invero non vogliamo stabilire se ci sia una condizione di possibilità,
né quale essa sia. La possibilità per Berlin esiste nella natura delle
cose: fini e valori ultimi degli esseri umani possono tramutarsi in
visioni del mondo tra di loro antitetiche. Vogliamo solo scoprire la
maniera in cui una di queste tante opposizioni viene a determinarsi.
Berlin lo fa con la libertà perché gli pare che tutto attorno a lui (la
politica di potenza dei due Blocchi, la corsa agli armamenti atomici,
spionaggi e controspionaggi, propagande e agitazioni) si alimenti
dalla opposizione tra due modi di pensarsi liberi. Se per Marx la
storia è storia di lotte di classe, che si risolvono nella finale
liberazione dell'uomo, per Berlin la storia politica dalla caduta
dell'antico regime fino a quella del muro è invece la storia della
lotta tra i due concetti di libertà.
"[…] i nostri atteggiamenti e le nostre attività rimarranno oscuri a noi stessi
se non capiremo le questioni dominanti del nostro mondo, la più importante
delle quali è la guerra aperta che si sta combattendo tra due sistemi di idee che
danno risposte diverse e contrastanti a quello che da molto tempo è il problema
centrale della politica: l'ubbidienza e la coercizione.12"
Qual è, in senso certamente logico e non cronologico, il primo
atto di questo conflitto? Per Berlin esso consiste nella divisione che
12
I. BERLIN, Due concetti di Libertà, in I. BERLIN, Libertà, Feltrinelli universale economica, 2010, pag, 171
76
si verifica nell' Io psicologico quando si crede che esiste un io
inferiore, bestiale e cupido, e un io superiore, scopritore delle vere
risposte. È doveroso dire che, per il nostro autore, questa spaccatura
si determina in maniera consequenziale ad un'interpretazione della
verità come "sovranità di sé stessi" ed autodeterminazione
razionale.
"Possiamo chiarire questo punto considerando la forza d'urto autonoma che ha
acquisito la metafora dell'essere padroni di se stessi, che inizialmente era, forse,
abbastanza inoffensiva. "Io sono padrone di me stesso", "Io non sono schiavo
di nessuno"; ma non potrei essere (come dicono, tendenzialmente, i platonici e
gli hegeliani) schiavo della natura? O delle mie passioni "sfrenate"? Queste non
sono forse tante specie diverse -alcune politiche o giuridiche, altre morali o
spirituali - di uno stesso genere "schiavo"? E gli uomini non hanno forse
provato l'esperienza di liberarsi dalla schiavitù spirituale o dalla schiavitù della
natura? E non hanno forse colto, nel corso di questa esperienza, l'esistenza, da
un lato, di un io che domina e, dall'altro, di qualcosa dentro di loro che è
portato a sottomettersi? Questo io che domina viene di volta in volta
identificato con la ragione, con la propria 'natura più alta', con quell'io che
calcola e cerca ciò che a lungo andare lo soddisferà, con il proprio io 'vero',
'ideale' o 'autonomo', con la 'parte migliore' di se stessi; e a tutto ciò si
contrappone poi l'impulso irrazionale, il desiderio incontrollato, la natura 'più
bassa', la ricerca dei piaceri immediati, l'io 'empirico' 'eteronomo', in balia di
qualunque ventata di desiderio e di passione, che ha bisogno di essere
77
disciplinato rigorosamente, se mai vuole ergersi in tutta la statura della sua
reale natura."13
Questa dottrina in apparenza sembra abbastanza lontana
dall'ambito della filosofia politica. Appare piuttosto una teoria etica,
o finanche religiosa. Invero si può ben essere d'accordo con Berlin
nell'affermare che essa si è riverberata sulle idee politiche più di
quanto si possa immaginare. In primo luogo, infatti, essa dà origine
a quella "opzione stoica" già menzionata e che Berlin battezza,
senza tanti orpelli, la "ritirata nella cittadella interiore", ad
evidenziare la fuga dalla polis empirica.
Infatti, quando mi sono affrancato dalla schiavitù della natura,
ho posto sotto rigido controllo i miei insaziabili appetiti e ho trovato
la mia serenità in me stesso, allora può darsi questa situazione:
"Il tiranno minaccia di distruggere la mia proprietà, di imprigionarmi, di
esiliare o mandare a morte coloro che amo; ma io non mi sento più attaccato
alla proprietà, non mi curo più di essere in prigione o no, e se ho ucciso dentro
di me gli affetti naturali egli non può piegarmi al suo volere, perché tutto ciò
che rimane di me non è più soggetto a paure o a desideri empirici."14
13
Op. Cit, pag 182 14
Op. Cit. pag 185
78
Mentre io mi credo libero da ogni cosa, e unico padrone di me
stesso, il tiranno che è lì fuori fa di me ciò che vuole. Questa,
secondo Berlin, non è affatto libertà.
Ma qual è il vero significato di questo "vedersi doppi" di cui
poco sopra abbiamo scritto? A ben guardare ci pare che il nostro "io
basso" è tale perché non è riuscito ancora ad impadronirsi delle
verità ultime, invece quello "alto" lo è proprio in quanto partecipa
del vero e del bene. Ritroviamo qui in azione il "monismo".
Siccome le risposte vere alle vere domande esistono, e sono tutte
collegate tra loro, chi le scopre vive razionalmente, chi non ha
questa capacità o questa fortuna, ricade nella animalità. In questo
quadro, al monismo si combina immediatamente una certa dose di
determinismo, concorrendo con esso a formare un concetto
fortunatissimo nella filosofia occidentale da Socrate in poi:
l'intellettualismo etico, la concezione per la quale l'uomo pecca per
ignoranza15. Chiunque sia pervenuto alla realizzazione della sua
razionalità sarà logicamente necessitato a comportarsi secondo
ragione. Che fare degli altri? È purtroppo assai probabile che
15 Intendiamo con intellettualismo etico la teoria, in primo luogo socratica e platonica, ma trasversale a tutta la storia della morale, che vede nella conoscenza del bene la ragione necessaria e sufficiente dell'agire buono. Possiamo ben ipotizzare che Berlin, nella critica da lui mossa a tali argomenti, raccolga l'eredità di chi, come lui e forse più radicalmente di lui si oppose ad essi. Si pensi almeno, anche nell'ambito dei richiami berliniani al pensiero romantico, all'opera di Nietzsche.Innumerevoli sono, nell'opera di questi,i luoghi in cui è possibile rinvenire una sferzante critica verso ciò che da noi è stato indicato come intellettualismo etico; a riguardo si veda almeno l'aforisma 305 de La gaia scienza (Adelphi, Milano, 20008) pag. 221, e l' aforisma 190 di Al di là del bene e del male (Guaraldi, Rimini, 1996, pagg. 136-137) , nonché le numerose invettive rivolte contro il socratismo contenute ne La nascita della tragedia (Adelphi, Milano, 2005).
79
l'irrazionalità altrui diventi per noi un problema di natura politica, e
siccome, secondo l' "ideologia" monista, ogni vero problema
ammette una soluzione, quale questa potrà essere?
Andiamo in ogni caso con ordine, anche perché non
riusciremmo a capire la pericolosità di una Weltanschauung
monista in politica se non capissimo come può succedere che il
"vero io" venga proiettato all'infuori del "saggio" fino ad
abbracciare insieme a lui tutta la sua "parte". Per chiarire quanto
andiamo dicendo ci rifaremo direttamente a Berlin:
"… si può concepire l'io reale come qualcosa di più grande dell'individuo (nel
senso corrente in cui si intende il termine), come il tutto sociale di cui il singolo
è un elemento o un aspetto - una tribù, una razza, una chiesa, uno stato, la
grande società dei vivi, dei morti e dei non ancora nati. Questa entità viene poi
identificata con il "vero io" che, imponendo la sua volontà unica e collettiva,
"organica" ai propri "membri" recalcitranti, consegue la sua, e quindi la loro,
più "alta" libertà".16
Quando il "vero io" smette di essere considerato sub specie
interioritatis e sconfina nella politica allora esso si muta nel
concetto di una "parte" (un partito, un movimento, una associazione
in genere o addirittura una nazione) che ritenga di avere scoperto le
16
ibidem
80
verità razionali della storia, della società, dell'interazione tra gli
uomini, e voglia realizzarle nel mondo per renderlo conforme a
ragione.
Confrontiamo quanto scrive Friederich Engels nella Prefazione
all'Edizione del 1888 del Manifesto del Partito Comunista:
"Sebbene il Manifesto sia un nostro comune prodotto, ci tengo a dichiarare
che l'idea fondamentale, che forma il suo nucleo, appartiene a Marx. L'idea è
che in ogni epoca storica il modo prevalente di produzione e scambio
economici, e l'organizzazione sociale che necessariamente ne scaturisce, forma
la base su cui viene edificata, e da cui soltanto può essere spiegata, la storia
politica e intellettuale di quell'epoca; che di conseguenza l'intera storia
dell'umanità (dalla dissoluzione della società tribale primitiva, caratterizzata
dal possesso comune delle terre) è stata una storia di lotte di classe, di conflitti
tra classi sfruttatrici e sfruttate, dominanti e oppresse; che la storia di tali lotte
di classe forma una serie evolutiva in cui, al giorno d'oggi, si è raggiunto uno
stadio dove la classe sfruttata e oppressa - il proletariato - non può conseguire
la propria emancipazione dal dominio della classe sfruttatrice e dominante - la
borghesia - senza, allo stesso tempo, e una volta per tutte, emancipare la società
nel suo insieme da qualsiasi sfruttamento, oppressione, distinzioni di classe e
lotte di classe.17
17
F.ENGELS, Introduzione all'edizione del 1888, in K. MARX & F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, a cura di
S.M. Soares, Metalibri; Amsterdam, Lausanne, Milan, Melbourne, New York, Sao Paulo, 2008.
81
Sebbene Marx ed Engels non ne siano gli unici responsabili, in
queste poche righe vediamo esemplificata tutta la visione del
mondo che porta al sanguinoso fraintendimento della libertà che
condusse il mondo sull'orlo del terzo conflitto mondiale. Abbiamo
una parte (e prendiamo ad esempio quella "orientale" perché le
espressioni della sua Weltanschauung sono esse medesime delle
pietre miliari della teoria politica di ogni tempo, e perché Berlin,
per questioni biografiche, era un pensatore dichiaratamente anti-
sovietico) che crede di avere realizzato le verità razionali che
presiedono ai corsi e ricorsi della storia e della politica;
contemporaneamente ha scoperto che solo un ultimo atto separa gli
uomini dalla realizzazione della ragione nel mondo, e dalla
conseguente soppressione di tutto ciò che è irrazionale (e nel caso
di specie vengono ritenuti irrazionali in maniera peculiare
l'oppressione e lo sfruttamento). Abbiamo citato Engels (per la
verità una massima molto rappresentativa del pensiero materialista
storico), ma non ci meraviglieremmo di scoprire qualche
pamphlettista politico che abbia dichiarato, all'indomani della
caduta del Muro, che ormai qualsiasi residuo di irrazionalità politica
era stato cancellato dalla faccia del globo terrestre grazie al
liberalismo vincente.
82
Invero, anche se Berlin non lo dice mai troppo esplicitamente,
gli sembra che non solo il marxismo o il positivismo di Comte siano
viziati da questo pregiudizio "monista", ma sia tutta la teoria
politica dagli enciclopedisti a Lenin, passando per i liberali e i
conservatori del secolo XIX ad esserlo, con l'illustre eccezione di
Constant.
"Conservatori, radicali, liberali e socialisti non davano la stessa
interpretazione del mutamento storico. Non erano d'accordo su quali fossero i
bisogni, gli interessi, gli ideali più profondi degli esseri umani, su chi ne fosse
il detentore e con quanta profondità e ampiezza e per quanto tempo, sul metodo
per scoprirli e sulla loro validità in questa o quella situazione. Divergevano
riguardo ai fatti, divergevano riguardo ai fini e ai mezzi, ed erano i primi a
pensare di non essere in accordo su niente. Ma ciò che in realtà avevano in
comune - e che era troppo ovvio perché ne fossero pienamente coscienti - era la
convinzione che la loro epoca fosse dominata da problemi sociali e politici che
avrebbero potuto essere risolti solo con l'applicazione consapevole di verità su
cui tutti gli uomini dotati di intelligenza adeguata avrebbero dovuto
convenire."18
Ancora su questo punto, con particolare attenzione al rapporto
tra marxismo e liberalismo:
18
I.BERLIN, Le idee politiche del XX secolo, in I. BERLIN, Libertà, Feltrinelli Universale Econimica, 2010, pag. 68
83
"A prima vista, nessun movimento sembra differenziarsi più nettamente del
marxismo dal riformismo liberale; eppure le tesi centrali - la perfettibilità
umana, la possibilità di creare una società armoniosa con mezzi naturali, la
fede nella incompatibilità, e addirittura nella inseparabilità di libertà ed
eguaglianza - sono comuni a entrambi. La trasformazione storica può avvenire
con continuità o per salti rivoluzionari improvvisi, ma deve procedere secondo
un disegno intelligibile e logicamente coerente, che è sempre sciocco e
utopistico abbandonare. Nessuno metteva in dubbio che fra liberalismo e
socialismo ci fosse un duro conflitto sia sui fini sia sui metodi, eppure ai
margini essi sfumavano l'uno nell'altro. Il marxismo, per quanto insista con
forza sul condizionamento di classe dell'azione e del pensiero, è tuttavia una
dottrina che almeno teoricamente vorrebbe fare appello alla ragione, se non
altro all'interno della classe che la storia ha destinato a trionfare, il proletariato.
Nella concezione comunista soltanto il proletariato è in grado di guardare al
futuro senza vacillare, perché non ha bisogno di falsificare i fatti per paura di
ciò che l'avvenire potrebbe portare con se. E questo vale come corollario anche
per quegli intellettuali che si sono liberati dai pregiudizi e dalle
razionalizzazioni - dalle 'distorsioni ideologiche'- della loro classe economica,
e nella lotta sociale si sono schierati con la parte vincente. A loro, dal momento
che sono completamente razionali, si possono concedere i privilegi della
democrazia e del libero uso delle facoltà intellettuali. Essi sono per i marxisti
ciò che i philosophes illuministi erano per gli enciclopedisti: il loro compito è
liberare gli uomini dalla "falsa coscienza" e contribuire a predisporre i mezzi
che trasformeranno tutti coloro che ne sono storicamente capaci in esseri
liberati e razionali"19.
19
Op. Cit, pag 71
84
Per chi ne è "storicamente capace" la dissoluzione del processo
storico nella ragione avverrà con mezzi razionali, approntati
appunto dai filosofi e dagli intellettuali. Ma più sopra ci
chiedevamo: cosa ne sarà di coloro che capaci non sono, che
vorranno, per cattiva volontà o idiozia, rifugiarsi ancora nell'
Irrazionale politico e rinunceranno dunque a rendersi perfettamente
liberi e a partecipare della Verità Ultima? Immediatamente oltre,
nelle stesse pagine appena citate, Berlin adduce un esempio tratto
dalla storia del novecento.
4.4 Salus revolutionis suprema lex
"Ma nel 1903 si verificò un evento che segnò il culmine di un processo che ha
cambiato la storia del nostro mondo. Al secondo congresso del Partito
Socialdemocratico Russo, che ebbe luogo quell'anno e iniziò a Bruxelles per
poi finire a Londra, durante la discussione di quella che inizialmente sembrava
una questione puramente tecnica - fino a che punto la centralizzazione e la
disciplina gerarchica dovessero determinare la condotta del partito - un
delegato che si chiamava Mandel'berg ma aveva adottato il nom de guerre di
Posadovskij sostenne che il rilievo dato dai socialisti più "duri", cioè Lenin e i
suoi amici, alla necessità che il nucleo rivoluzionario del Partito esercitasse una
autorità assoluta poteva rivelarsi incompatibile con quelle libertà fondamentali
alla cui realizzazione il socialismo, non meno del liberalismo, era ufficialmente
votato. Posadovsij sosteneva che (in questo caso) le libertà civili minime e
85
fondamentali ("l'inviolabilità della persona") dovevano essere violate, e
addirittura calpestate, se così decidevano i capi del partito. Gli rispose
Plechanov, uno dei fondatori del marxismo russo e il suo rappresentante più
venerato - uno studioso colto e raffinato, di grande sensibilità morale e di
ampie vedute che per vent'anni aveva vissuto in Occidente, molto stimato dai
leader del socialismo occidentale e che per i rivoluzionari russi era il simbolo
stesso del pensiero civilizzato e "scientifico"; con tono solenne, unito ad uno
splendido disprezzo della grammatica, l'uomo pronunciò le parole Salus
Revolutiae Suprema Lex (sic!). Certamente, se la rivoluzione lo richiedeva,
qualunque cosa - la democrazia, la libertà e i diritti individuali - avrebbe
dovuto esserle sacrificata."20
Tutto ciò vale a dire che chi non sia in grado di comprendere il
"razionale politico" va messo in condizioni di non nuocere agli altri
che hanno scoperto il proprio "Io vero". Va dunque trattato, senza
mezzi termini, alla stregua di un pazzo omicida. Data la sua
condizione di minorità intellettuale, egli deve essere guidato verso
la realizzazione della sua ragione, deve essere obbligato ad
accettare quello che, se fosse ragionevole, vorrebbe anch'egli con
ogni fibra del suo corpo. La situazione di costui, per i monisti, è
come quella dello scolaro: come questi rigetta le verità della
matematica, e non vuole studiarle finché non si accorge che in esse
vi è realizzata la sua stessa ragione, così egli si opporrà ai
cambiamenti finchè non sarà messo in condizioni, con le buone o
20
Op. Cit. pagg. 71 e segg.
86
con le cattive, di capire qual è il suo bene e il bene di tutti. Tutto
questo poggia sulla massima comtiana, che recita grosso modo così:
"se non ammettiamo il libero pensiero nella scienza della natura,
perché dovremmo ammetterlo nelle cose della politica?"21
Ecco dove ha portato l'equivoco, partito con i pensatori
illuministi, di "newtonizzare" le scienze umane e quelle sociali: ad
un epocale e tragico fraintendimento della libertà.
Eppure noi abbiamo cominciato questo capitolo dicendo che per
Berlin, dovunque ci fosse un deficit di ragione nella capacità di
determinare se stessi, la coercizione sarebbe potuta essere ammessa.
Ciò nondimeno non è difficile intuire come una ragione "monista"
non corrisponde all'idea berliniana. Egli, sebbene il suo pluralismo
vada distinto abbastanza nettamente dal relativismo, ammette, come
già detto, che nella sfera delle cose umane non esistano verità
irrefutabili in nome delle quali poter costringere in catene i nostri
simili. Per Berlin esiste quasi una "collezione" di idee comprensibili
e condivisibili razionalmente oltre le quali la cifra specificamente
umana si perde. Credere ad una ragione che è tale solo perché si
ritiene in possesso di verità irrevocabili in dubbio, le quali Berlin
ritiene non esistere, e pertanto obbligare con la forza altri esseri
21
Cfr. A. Comte, Plan de travaux scientifiques necessaires pour reorganizer la societè (1822), in Appendice generale du système de politique positive, Paris, 1854, pag. 53 nel volume IV del Système de politique positive. Berlin cita il passo in Le idee politiche del ventesimo secolo, in Libertà, a cura di H. Hardy, trad. it. G. Rigamonti e M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano, 2005, pag. 83
87
umani a vivere secondo tali verità-fantasma, è pervertire non solo la
libertà, ma anche la ragione e la umanità. Berlin chiama questo
atteggiamento "Fanatismo", e noi crediamo lo faccia a ragione
veduta.
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