Irrealtà della storia realtà della poesia la vicenda poetica di alberto cappi gio ferri
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Titolo: Irrealtà della storia. Realtà della poesia. La vicenda poetica di Alberto Cappi. Autore: Gio Ferri
Edizione a cura di: In realtà, la poesia
Anno: 2013
Vol.: 3
Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo
illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.
Irrealtà della storia. Realtà della poesia. La vicenda poetica di Alberto Cappi.
di Gio Ferri
In realtà, la poesia
2013
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Cos’è la realtà? La realtà è la storia: le cose presenti nella
storia che ci stimolano per vie intangibili (energie), ma
pretendono, per esistere realmente, le parole della nominazione.
Nominazione come conoscenza. La vita reale delle cose
come conoscenza fa la storia, ma le cose nella loro realtà
non cedono ad alcun punto di vista, sono guardabili da
ogni lato. Perciò sono oggettivamente invisibili nella realtà
variabile della metamorfica osservazione. E la conoscenza
ingannatrice della storia – e ciò vale quindi per la realtà –
«non è innocente» (come osserva Alberto Cappi1 di cui
parlerò). La storia delle cose è nella prassi, e la prassi non è
innocente, perché utilitaristica. Ma le parole hanno invece
la loro utile verità solamente quando «fanno parlare la
lingua», al di là delle cose e della loro storia: così le parole
allora si fanno poesia e «la poesia porta la voce, portavoce
non di significati [cosali], ma di senso» (è ancora Cappi).
Le cose e la loro prassi storica, vale a dire la loro (ir)realtà,
sono caduche. Subito si annullano nella contraddizione: la
1 Riletture e variazioni da: Gio Ferri, “Vita Storia Poesia Nichilismo”, Testuale vol.47-48/2009; Alberto Cappi, “Libro dei materiali”, Testuale, Quaderno 13/2009; Alberto Cappi, Poesie 1973-2006, Ed.Format-Puntoacapo, Novi Ligure 2009.
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storia e il giudizio sulla storia variano paradossalmente e
inutilmente, perché si ripetono inconcludenti in una prassi
confusa. Tutto si trasforma e nulla si crea stabilmente! Ciò
fino alla fine dei tempi che, se avverrà (ma nemmeno
questo è certo!), annullerà definitivamente la storia: forse
per creare un’altra storia, che, se storia sarà (cioè nel
tempo variabile dal passato, al presente, al futuro), non
avrà pure alcun senso definibile.
La parola poetica, invece, inutile per la prassi, poiché dice il
senso (sensibilità e sensualità) e non i significati, non può
essere valutata tramite ragioni temporali, bensì spaziali e
biologici (si pensi alla doppia elica e alle colonne tortili del
Bernini). Può essere dimenticata (sebbene la coscienza
individuale e collettiva ormai segnate ne portino per
sempre il marchio), ma non annullata: non si contraddice,
non può, perché ‘è’ e basta, senza utilità spendibile al di
fuori dell’essere.
Negli anni ’60 del secolo scorso, quando mi affacciai (con
qualche ritardo) ai problemi della poesia e dell’arte,
venendo dalla tradizione degli anni 20/40 (ermetismo,
psicologismo, paesaggismo, ecc.) fui investito da violente
vicissitudini storico-pseudo-poetiche (anche la poesia può
vivere confusamente la sua storia): realismo, protesta
sociale, e sperimentalismo in particolare. Quest’ultima
esperienza di ricerca – per certi aspetti operativi assai
vitale – mi ha ben presto liberato, in poesia e arte, da ogni
storicismo per suggerirmi le vie di una – innovativa,
questa sì – verità di parola, o meglio di segno. Perciò mi si
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rivelarono le sensibilità segniche della poesia, dell’arte,
della visual poetry, e di ogni altra esperienza creativa.
Nacque il mio sodalizio con Alberto Cappi, poeta e
critico di Ostiglia e vicino alla ricerca de il verri di Luciano
Anceschi, al Molino di Bazzano di Spatola. Cappi e
Spatola purtroppo sono scomparsi troppo presto e non
sempre le storie critiche del ‘900 si ricordano
compiutamente di loro.
La critica di Cappi è formalmente di squisita scrittura
creativa. Qui si possono ricordare, fra una consistente
produzione, per altro minimale, tre suoi testi pittusto
significativi ai fini di questo saggio: Materiali per una voce
(Stamperia dell'Arancio, Grottammare 1995); Piccoli dei -
poesie, (I quaderni del Circolo degli Artisti, Faenza 1994). E
il Libro dei materiali, qui citato in esergo.
I Materiali sono sì materia per una voce, tuttavia una voce
dalle innumerevoli risonanze. Denunciano la
differenziazione, qui più volte sottolineata, tra la parola
poetica, 'inutile', non finalizzata, oggettivamente 'vera' in
quanto totalizzante entro una determinata spazialità.
Assorbita la valenza utilitaristica, effimera e non astante
del tempo. E la parola prammatica, invece, 'utile' e finalizzata
a un qualsiasi risultato dal soggetto comunque
prevaricante, perciò oggettivamente 'menzognera',
specialistica e particolareggiante. Inserita nell'ansia
ineluttabilmente drammatica e autodistruttiva della storia,
del divenire al di fuori della spazialità e della
considerazione della valenza biologica della forma, in
quanto alla metamorfosi viene attribuito il solo valore
della convenienza. Si può cercare allora nei Materiali
quanto, abbiamo visto, si dice della poesia, e quanto
dell'amore per la storia:
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La poesia
Ci sono parole che fanno parlare la lingua. Qui La parola passa
nelle parole. Così la poesia porta la voce, portavoce non di
significati ma di senso. E l'enunciazione è annunciazione.
L'enunciato, annuncio.
Ecco allora il valore non produttivo (per la legge assoluta
e oppressiva della produttività della prassi) della voce
parlata dalla poesia, e la constatazione del senso (come
sensitività) prima o oltre le convenzioni del significato.
Perciò l'enunciato annuncia: l'inatteso (e non il
programmabile secondo le leggi di mercato del sentimento
e della comunicazione finalizzata).
Amare la storia
L'amore per la storia non è innocente. Fa e la costringe ad errare.
Cancellarlo? Impossibile: non ha tempo né linea.
La storia, ovviamente, come prassi. La prassi non
innocente, perché utilitaristica. E quindi menzognero è il
discorso della storia. Ineluttabile nella sua assenza dal
tempo e dallo spazio. La storia non come forma, ma come
finzione di forma. Allora la finzione è nel discorso
prammatico, non - come vuole certa critica - nella parola
della poesia. Allora la parola della poesia è bio-logica, e la
sua misura immisurabile e gen-etica; la parola quotidiana,
contingente, storica (senza storia nel senso della forma
formantesi) è solo convenzionale.
Che si può dire, criticamente, prendendo atto di quello che
so? Di quello che si valuta per vero? Di Cappi si può
elogiare la finezza retorica (di una retorica cosale e non
istituzionale), la capacità di collassamento della parola in
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senso (nel senso detto), l'estrema sintesi della coordinazione
logico-materialistica. E qui si potrebbe fermare al passo
alto, invalicabile, per volgersi al silenzio.
Silenzio
Il silenzio è lo spartito in cui il tempo entra a far musica. Suo spazio
d'esecuzione è la parola. Di ciò che si dice pulsa il ritmo. Ciò che si
ascolta è inaudito.
Il Grande Ossimoro, L'Ossimoro è il Grande Iddio della
parola e della vita che ne discende. Cappi fa del silenzio lo
spartito della parola, ma ciò che vi si ascolta è inaudito.
Cioè: che non è mai stato sentito. Ma ciò che non è mai stato
sentito con quali umani mezzi può mai essere ascoltato?
Quale codice deve attivarsi? E quale codice può essere
convenzionato al susseguirsi inarrestabile delle
annunciazioni? Eppure la forma, nel silenzio, trova sempre la
sua nuova forma. La sua inaudita forma.
Ci si deve rivolgere necessariamente ai meccanismi della
mente e dei suoi sensi (o dei sensi e della loro mente). La
mente e i sensi hanno ancora per noi molti misteri. Ma la
spiegazione di qualcuno di quei misteri sembra, talvolta,
intuibile, se non accertabile. Ora, se il Soggetto è in crisi,
anagraficamente, in quanto l'inaudito può essere (anzi,
infine, è) anche fuori di lui - cioè dopo che il Soggetto si è
consumato per entropia -, il Sé del Soggetto rimane ancora
come oggetto finché dura la forma che si è data. La forma
e il Sé sono, fuor di Soggetto, la stessa cosa. E
ubbidiscono fra l'altro, per esempio, al paradosso
autoreferenziale di Gödel e di Cherniak (matematici da
tempo di moda, purtroppo solo per i loro giochini di
consumo e di evasione). Quando si dice: Questo enunciato è
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falso, «allorché si cerca di decidere se esso sia
effettivamente vero o falso, si forma un anello saldissimo,
poiché la sua verità implica la sua falsità e viceversa». È il
corto circuito (ma la poesia non è per sua natura in corto
circuito?) del paradosso logico: il negativo invita il positivo,
e il circolo inerte è così completo. L'inerzia è lo spazio del
tempo: e solo fuor dalla storia si percepisce l'inaudito.
Douglas R.Hofstadter - Professor of Human
Understanding and Cognitive Science alla University of
Michigan - in "L'io della mente" ("The Mind's I", tr.it.
Adelphi, Milano 1981-1985) ne trae una «riflessione» che
tuttavia rischia di volgere a una alterità sovra-naturale, ma
che possiamo lecitamente mantenere entro il territorio
delle costatazioni consequenziali, perciò, da un certo
punto di vista, oggettuali, oggettive, geneticamente
materialistiche: «...Il sé è una 'linea d'universo' che si
autodocumenta di continuo (la linea d'universo è la
traiettoria quadridimensionale seguita da un oggetto che si
muove nel tempo e nello spazio). Non solo un oggetto
umano è un oggetto fisico che conserva al suo interno una
storia della propria linea d'universo; quella linea d'universo
così immagazzinata serve inoltre a sua volta a determinare
la linea d'universo dell'oggetto per il futuro. Questa
armonia di ampio respiro fra passato, presente e futuro [lo
spazio?] ci consente di percepire il nostro sé come un'unità
dotata di una sua logica interna, nonostante i suoi
cambiamenti continui e la sua natura poliedrica. Se si
paragona il sé a un fiume che si snoda nello spazio-tempo,
è importante osservare che le forze che determinano le
sue curve non sono solo le caratteristiche del territorio,
bensì anche i desideri del fiume stesso».
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Allora tutto è mosso da un motore: il desiderio. Il desiderio
del Sé.
Sul desiderio c'è tutta una infinita letteratura da ridiscutere,
passato il tempo della moda. Ma è indubbio che già nel
titolo del libro di Cappi si intravedono chiaramente la
materia della mente ("materiali"), il silenzio (se i materiali
sono validi per una voce che vuol essere nel silenzio), il
desiderio del dire e del sentire (se la voce cerca i suoi
materiali). Ancorché, come Cappi dice in Dire: si dica solo la
distanza. E solo s'oda alla distanza, nello spazio e non nel
tempo storico che i desideri annichilisce.
La raccolta poetica Piccoli dei è tutta in questo desiderio
(fluente come quel fiume di Hofstadter) di dire nel
silenzio dello spazio:
dio del silenzio
dio del silenzio e dell' / opaco volo / dio del vagito e del / curvo velo
/ che è nero uovo / lingua e covo / cava di luce / radice d'ala / o
dio che cuce / la voce e il suono / che è cavo grano / filo e mano /
spina / testo / mina / gesto / cruna / cogli e togli / lima e sfuma
Il dio in sé procede per spazi e non per tempi. E le poche
voci verbali misurano spazi e non tempi: serra, scava, vaga.
Senza programmi e utilità, "attorto al respiro". Che è la
fisiologia del poiéin segnalata dai presocratici e persino da
Lukács.
Se vogliamo seguire in maniera sintetica ed essenziale Tutte
le poesie dal 1973 al 2006 per ricostruire storicamente, ma
ovviamente solo in minima parte, questa storia senza
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storia, possiamo sfogliare, a partire dal principio (Alfabeto,
1969-1973), il volume citato, pubblicato postumo da
“Puntoacapo” nel 2009.
Nel ’73 forte era l’influenza partecipativa, consociativa,
con le esperienze dei Gruppi ’63 e ’73, a loro volta in parte
riferibili a Mallarmé, ai Futuristi, alla poesia d’avanguardia
nord-americana (Corso, per esempio), ma in un
coinvolgimento per Cappi del tutto originale:
come scarnisce ogive l’ibernato insetto l’annerito scalo dove
come bardo manduca memorie in bando di cattura per parole quando
l’oggetto invaso
il dilaniato sesso
il ripetuto automa
la tavola omicida
che urla hebron il linguaggio a condizione del delfino
che fiuta cerrel la nicchia denutrita e preme
amore atto di fede l’abbaco verde gli occhi allora
la notte la materia nel battito del pesce come aduna
È facile riferirci alle tecniche (reiterate, automatiche)
dell’asintattismo, della paratassi, della germinazione (anche
surrealismo e dada?), da lemma a lemma per esprimere
sofferenza, passionalità, materialità. Gestualità. Amore
dilaniato eppur atto di fede. Il bando per bandire il
significato e per catturarne il senso. Per coglierne il suono,
come per il linguaggio istintivamente naturalistico del
delfino. È infine una ritmica, variabile ed evasiva, per
quanto concentrata, jazz-session. L’energia biologica del
fare: voce e gestualità visiva.
Ma si deve pur ammettere che questa battaglia senza
esclusione di colpi contro la struttura tradizionale e i suoi
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significati (al di là del senso), rivela della poesia anche tutta
la sua rischiosa natura: ma più volte si è voluto
riconoscere una poesia come rischio. Una parola, un segno
sull’abîme, come sul precipizio si vive sempre la vita
affacciata sempre sulla morte. Una vicenda biologica,
come s’è detto, grazie alle metamorfosi dei segni vissuti
come unica realtà oltre l’illusoria realtà della contingenza.
Mi capitò in passato, proprio per la poesia di Cappi, di
dire di una indifferenza biologica. In quella scala discendente
di questo testo si sperimenta una sorta di discesa agli inferi
dall’oggetto invaso alla tavola omicida. Per invocare nella nicchia
denutrita del linguaggio (linguaggio indifferente) un
impossibile atto d’amore affidato pericolosamente alla fede di
un abaco silente. Silenzio quindi. E quindi il Nulla speculare
al nulla della storia. C’è del misticismo? Non è difficile
ricordare la mistica del Nulla, del Dio come Nulla di Meister
Eckhart.
In un altro testo di Alfabeto, immediatamente precedente,
la parola si fa sanguigna ed aggressiva:
che beve sangue nell’otre di cana il parcheggio umano dove
che la gola aggredisce di pioggia l’inserto del napalm
come responsori postulano alfabeti per universi braille / come /
come marciapiede concepisce spazioragni il mostro attende / come/
PAROLA MACINA MACCHINA APPICCA TELEFOTO
ROTATIVA RINGHIA PAROLA
da belzec
da omaha
da israel
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il coccio antico su cui ha unghiato il nome
la preghiera del tuo viso nella sera
o come lemming
ancora lanciare esse-o-esse il segno ancora
o come lemming
o come lemming
come lemming
lemming’s
Il rischio della mistica può farsi paura: il sangue, il parcheggio
umano (la brevità della vita come spazio per un semplice
parcheggio), il braille per la cecità, i passi del mostro, gli
orrori del napalm, l’unghiuto nome (delle mistificanti
cronache dei media), la preghiera pietosa, reminiscenza
poetica che viene dal coccio antico, ma inutilmente, come
SOS là dove il segno è invaso dalle orde di lemmings, figure
lessicali di ratti che migrano in massa, animali della mente
senza meta o finalità. Nella vittoria del puro segno, senza
finalità, ci sorprende, paradossalmente, la crudeltà della
poesia come rischio e Nulla. Perché la poesia così intesa in
ogni momento uccide crudelmente quello che si vuol
definire, mentendo a noi stessi, ‘senso comune’. Anche la
crudeltà (la malattia, la morte) s’incista nella inarrestata
dismisura biologica.
In quegli anni Luigi Pasotelli, noto poeta e performer
milanese, recitava con ossessiva voce rauca dalle mille
variazioni e plurilinguismi anche dialettali La ballata dei
topi: «Me-sum-rate-gura… rata rata… gatara… rata üra…
eine ratte… noi topi… noi ratti…s’avoca… s’incoda… a
capolisse nel metro scuro scuro…. s’arrovescia nel suo
nichts s’annicchia… triste per altri lugubre la vita… noi
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topi ne apprezziamo il carattere ritmico e musicale…il dio
caritatevole che ci accompagna… rata ratta ratti…».
Lemming, razza di topi migranti in massa senza meta,
senza volontà utilitaristica individuale, se non la
sopravvivenza. La sopravvivenza dell’essere e dell’andare
senza mistificazioni.
Percorrendo i tempi in Piccoli dei del 1993 sebbene Cappi
rientri entro limitazioni grafico-ritmiche, riprendendo
assonanze e rime in parte della tradizione, non tralascia
quelle invenzioni lessicali e sintattiche che caratterizzano
l’energia istintiva e sensitiva della lingua:
dio della terra
dio della terra e dell’ / avida roccia che serra / il suono / dio della
goccia e dell’ / arido tono / fronda che affonda / al primo verde lino
/ pelle del piano / oro nano /
onda d’ortica / bica e muta / astuta sabbia / rabbia / segno /
legno e giro / attorno al respiro / scarna e scava / o dio che vaga
Lo sposalizio fra la terra, l’Io e il dio creatore, trovano una
cantabilità che richiama un inno alla vita in una sorta di
mistico materialismo. Desiderio, avidità dell’essere, nella
gabbia e oltre, della natura e delle sue metamorfosi. Inno
muto fatto di mobile respiro. Perché ciò vuole quel dio del
silenzio. Il dio in sé lo abbiamo già letto, procede per spazi e
non per tempi. E le poche voci verbali misurano spazi e
non tempi: serra, scava, vaga. Senza programmi e utilità,
"attorto al respiro". Che è la fisiologia del poiéin segnalata fin
dai presocratici.
Dall’ultima raccolta di Alberto Cappi (pubblicata poco
prima di lasciarci), Il modello del mondo (Genova 2008), si
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leggano le ambigue voci, e ancora una volta gli ambigui
eternali silenzi:
Domani. L’interminabile parola. / Servirà tessere i sogni? Tendere
/ la voce in conto dell’arco dei / silenzi. Ogni battuta è senza /
mani.
E ancora, un canto preveggente e testamentario:
L’anima degli elementi e i passi / lenti del cammino. Un gesto
umano / li rapina. Fuggiti in volo solo / la brina resta. Un giorno
senza scalo.
Come ricondurci alla tematica che ci ha impegnati, In
realtà. La poesia? Realtà è la poesia, come corpo della
lingua, ancorché silente: il resto è caduca contigenza.
Nulla toglie che la contingenza – nel tempo fra la nascita e
la morte, in quel… posteggio - solleciti pur anche la nostra
volontà, i nostri doveri, i nostri piaceri. Le nostre
resistenze e rivolte quotidiane. Ma la quotidianità, ancora,
per quanto giusta o ingiusta, etica e persino epica, non è
della poesia. Possiamo, dobbiamo agire nella quotidianità,
ma la realtà silente è nel flusso sanguigno, nella dismisura
dei sensi, nel lavorio creativo della mente. La poesia è un
volgersi congenito, incancellabile, ancorché nell’inconscio
individuale o collettivo: perciò Saffo, Orazio o Dante per
noi sono ancora e sempre poesia. Vale a dire: realtà.