«Io senza garanzie».* Donne e autobiografia. Dialogo ai ... · Escono ritratti che parlano con la...

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Abstract Io senza garanzie è un dialogo sulla scrittura autobiografica delle donne dall’età moderna alla contemporaneità. Nato dall’intreccio e dal cortocircuito di due voci diverse che si misu- rano in un territorio franco, fra storia e letteratura, alla ricerca delle tappe della riflessio- ne sul sé autoriale, questo saggio riflette sulla scrittura autobiografica come punta emergente di un lungo percorso di affioramenti dell’io. Le fonti storiche che testimoniano un scrittura indiretta, quasi di «transito» della soggettività delle donne, si aprono poco alla volta ad un uso sempre più forte e consapevole della scrittura, fino alle ora dolorose, ora euforiche, ora ideologicamente compiaciute autobiografie della contemporaneità. Dalla scrittura delle mistiche, non delle donne ma attraverso le donne, alla metautobiografia. Dalla inconsapevo- lezza del valore della propria memoria\scrittura alla piena coscienza del valore fondativo di essa per la scoperta e reivenzione di un sé di genere. Dai recinti e perimetri stretti del passato ai fertili sconfinamenti e spaesamenti dell’io contemporaneo, in una utopia di tra- sformazione che sovverte gerarchie e parodizza logiche di potere. Come nell’elogio del mar- gine della scrittrice afroamericana bell hooks, il cui nome tutto in caratteri minuscoli esprime orizzontalità ed insieme ribellione: «fare del margine non solo un luogo di privazione, ma un luogo di resistenza». Parole chiave: autobiografia, memoria, letteratura, storia di genere. Abstract Me without guarantees is a dialogue on the autobiographical writing of women from the modern to the contemporary age. Born from the interweaving and short-circuiting of two separate voices which take their measure in open territory, midway between history and literature, in search of the stages of reflection on the authorial self, this essay is a reflection Quaderns d’Italià 6, 2001 19-36 «Io senza garanzie».* Donne e autobiografia. Dialogo ai confini fra storia e letteratura Alessandra Contini Archivio di Stato di Firenze Ernestina Pellegrini Università di Firenze * La definizione è di Ingeborg Bachmann, nel saggio L’io che scrive, ora raccolto in Lettera- tura come utopia, Milano: Adelphi, 1993, p. 58: «Un Io senza garanzie! Che cosa è l’Io, infatti, che cosa potrebbe essere? Un astro di cui posizione e orbita non sono mai state del tutto individuate e il cui nucleo è composto di sostanze ancora sconosciute. Potrebbe esse- re questo: miriadi di particelle che formano un «Io», ma al tempo stesso l’Io potrebbe esse- re un nulla, l’ipostasi di una forma pura, qualcosa di simile a una sostanza sognata, qualcosa che definisce una identità sognata, cifra di qualcosa che è più faticoso da decifrare del più segreto dei codici».

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Quaderns d’Italià 6, 2001 19-36

Abstract

Io senza garanzie è un dialogo sulla scrittura autobiografica delle donne dall’età moderna allacontemporaneità. Nato dall’intreccio e dal cortocircuito di due voci diverse che si misu-rano in un territorio franco, fra storia e letteratura, alla ricerca delle tappe della riflessio-ne sul sé autoriale, questo saggio riflette sulla scrittura autobiografica come punta emergentedi un lungo percorso di affioramenti dell’io. Le fonti storiche che testimoniano un scritturaindiretta, quasi di «transito» della soggettività delle donne, si aprono poco alla volta ad unuso sempre più forte e consapevole della scrittura, fino alle ora dolorose, ora euforiche, oraideologicamente compiaciute autobiografie della contemporaneità. Dalla scrittura dellemistiche, non delle donne ma attraverso le donne, alla metautobiografia. Dalla inconsapevo-lezza del valore della propria memoria\scrittura alla piena coscienza del valore fondativodi essa per la scoperta e reivenzione di un sé di genere. Dai recinti e perimetri stretti delpassato ai fertili sconfinamenti e spaesamenti dell’io contemporaneo, in una utopia di tra-sformazione che sovverte gerarchie e parodizza logiche di potere. Come nell’elogio del mar-gine della scrittrice afroamericana bell hooks, il cui nome tutto in caratteri minuscoli esprimeorizzontalità ed insieme ribellione: «fare del margine non solo un luogo di privazione, maun luogo di resistenza».

Parole chiave: autobiografia, memoria, letteratura, storia di genere.

Abstract

Me without guarantees is a dialogue on the autobiographical writing of women from themodern to the contemporary age. Born from the interweaving and short-circuiting of twoseparate voices which take their measure in open territory, midway between history andliterature, in search of the stages of reflection on the authorial self, this essay is a reflection

«Io senza garanzie».* Donne e autobiografia. Dialogo ai confini fra storia e letteratura

Alessandra ContiniArchivio di Stato di Firenze

Ernestina PellegriniUniversità di Firenze

* La definizione è di Ingeborg Bachmann, nel saggio L’io che scrive, ora raccolto in Lettera-tura come utopia, Milano: Adelphi, 1993, p. 58: «Un Io senza garanzie! Che cosa è l’Io,infatti, che cosa potrebbe essere? Un astro di cui posizione e orbita non sono mai state deltutto individuate e il cui nucleo è composto di sostanze ancora sconosciute. Potrebbe esse-re questo: miriadi di particelle che formano un «Io», ma al tempo stesso l’Io potrebbe esse-re un nulla, l’ipostasi di una forma pura, qualcosa di simile a una sostanza sognata, qualcosache definisce una identità sognata, cifra di qualcosa che è più faticoso da decifrare del piùsegreto dei codici».

20 Quaderns d’Italià 6, 2001 Alessandra Contini, Ernestina Pellegrini

on autobiographical writing as an emerging point of a long journey of the ego’s outcrop-pings. The historical sources which bear witness to an indirect, almost «transitiona»” writ-ing of the subjectivity of women, give way a little by little at a time to an ever more forcefuland conscious use of the written word, up to the now painful, now euphoric, now ideo-logically complacent, autobiographies of the present moment. From the writings of themystics, not of women but through women, to meta-autobiography. From the unawarenessof the value of one’s own memory/writing to the full consciousness of its founding value forthe discovery and reinvention of a gender self. From the penned-in spaces of the past tothe fertile boundlessness and bewilderment of the contemporary ego, in a utopia of trans-formation which subverts hierarchies and parodies the logic of power. As in the «outlawculture» of the Afro-American writer bell hooks, whose name written all in small letterssuggests both horizontality and rebellion: «to make marginality not only a place of priva-tion, but a place of resistance».

Key words: autobiography, memory, litterature, gender history.

Questa relazione a quattro mani, questo dialogo o simulazione di dialogo dovreb-be dare, per lampi, con riprese, precisazioni, una serie di riflessioni in forma didialogo in merito alla natura e ai modi della scrittura autobiografica delle donnenell’arco di alcuni secoli. Abbiamo deciso di fare di questo nostro intervento laprima cellula di un laboratorio aperto di riflessione, una specie di zibaldone informa dialogica sulla costruzione e promozione della memoria delle donne,mostrando l’esistenza di altri scenari, convissuti con quelli ufficiali.

Un viaggio che, per gradi, ha portato a un ribaltamento (dal silenzio allaparola, dal privato alla scena pubblica, dalla resa al protagonismo). Un viag-gio inevitabilmente destrutturante e interrogativo con trasgressioni rispetto auna troppo inamidata correttezza politica.

Ernestina

Raccogliendo i materiali sulla autobiografia femminile del Novecento — nellesue varie forme del diario, della autobiografia vera e propria, dell’autobiogra-fia romanzata, delle memorie — mi sono accorta che il modo più onesto perpresentarle come un insieme sarebbe stato quello delle Vite parallele. Vite paral-lele nel senso inverso rispetto alle Vite di Plutarco, cioè delle vite a tal puntoparallele che nulla può congiungerle. Pensavo piuttosto alla prefazione di MichelFoucault alla collana Les vies parallèles edita da Gallimard:

Gli antichi amavano mettere in parallelo le vite degli uomini illustri; s’ascoltavaparlare attraverso i secoli queste ombre esemplari. Le parallele, lo so, sono fatteper congiungersi all’infinito. Immaginiamone altre che, indefinitivamente,divergano. Nessun punto di incontro, né luogo per raccoglierle. Spesso nonhanno avuto altra eco che quella della loro condanna. Bisognerebbe afferrar-le nella forza del movimento che le separa.1

1. Michel FOUCAULT (présenté par), Herculine Barbin, dite Alexina B. [Mes souvenirs], Paris: Gal-limard, 1978 (Collection: Les Vies parallèles).

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Mi rendo conto della provocatorietà di questa posizione assolutamenterelativistica che ammette una molteplicità quasi infinita di sguardi, di imma-ginari, di storie (nessuna possibilità di un noi, ma di un io+io+io+io, tantevoci diverse che però fanno un coro, permettendo solo a chi si avventuri inquella nebulosa semisommersa una pratica migrante di autocoscienza), unaposizione che soprattutto ammette — ed è questa forse l’unica vera costanteda me rilevata nel lungo itinerario intrapreso fra le «autobiografie parallele» dellescrittrici allo specchio — una soggettività abitata dalla polifonia.

Sandra

E qui inizia il mio controcanto rispetto alle ariose proposte interpretative diErnestina sulla contemporaneità. Un controcanto da storica ma anche da ricer-catrice degli archivi quale io sono, che riflette sui tempi lunghi dell’evoluzio-ne della memoria, e in particolare sulle forme dell’evoluzione della memoriadelle donne. La mia funzione è un po’ quella di grillo parlante che interrom-pe il flusso della contemporaneità, che cerca di rintracciare segni lontani, rac-contare altri contesti, misurare gli scarti: che cerca di far dialogare il sé delledonne di oggi con il sé delle donne del passato.

E come controcanto vorrei subito affiancare Ernestina osservando come lapolifonia, quel suono largo e profondo fatto di una storia + una storia +unastoria di donne sia una delle caratteristiche più forti ed incisive dell’attuale sto-riografia di genere. Una sorta di continua accensione di storie cercate e ricostruitesulla base di scritture conservateci che tende a moltiplicare i percorsi di vita,ad intersecarli, o semplicemente ad affiancarli l’uno all’altro. È in atto unasorta di grande cantiere sulla memoria femminile: la scrittura recuperata apreun gioco di riflessi a specchio fra le autrici di oggi e le protagoniste delle sto-rie del passato. Un gioco, per dirla con Michelle Perrot2 che fa uscire questevoci dal «silenzio della storia».

È, ad esempio, certamente polifonico e a più voci il volume curato daGabriella Zarri3 sulla scrittura epistolare femminile in età moderna dove diciot-to studiose operano un lavoro di rievocazioni di altrettante figure di donne delpassato: la lettera diventa così il tramite, il «luogo della comunicazione» diquesto vero e proprio laboratorio epistolare. Escono ritratti che parlano conla propria scrittura relazionale ma anche individuale.

2. Michelle PERROT, Les femmes ou le silence de L’Histoire, Paris: Flammarion, 1998.3. Gabriella ZARRI (a cura di), La scrittura epistolare femminile tra archivio e tipografia. Secoli XV-

XVII, Roma: Viella, 1999: saggi di Adriana CHEMELLO, Tiziana PLEBANI, Marina D’AME-LIA, Maria Pia FANTINI, Genoveffa PALUMBO, Francine DAENENS, Giovanna RABITTI, DanielaSOLFAROLI CAMMILLOCCI, Elisabetta MARCHETTI, Silvia MOSTACCIO, Anna SCATTIGNO,Manuela BELARDINI, Manuela DONI CARFAGNINI, Maria FUBINI LEUZZI, Ilaria PAGLIAI,Elisa NOVI CHAVARRIA, Maria Pia PAOLI, Elisabetta GRAZIOSI.

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È ancora polifonico il volume, molto bello, curato da Giulia Calvi, sulladonna barocca,4 dove l’atto stesso della scrittura, la cui analisi si incarna dinuovo in nove figure di donne, viene scomposto e presentato qual veramenteè sempre come «ambivalente e complessa storia di sé» in uno scambio continuofra chi scrive e chi legge o rilegge oggi. Una scrittura che esprime sempre un dop-pio livello, una doppia cifra della comunicazione, fra autonomia e accettazio-ne. Una scrittura in cui, cito da Giulia, «il senso del sé che queste donneprepotentemente ci comunicano, da una parte e dall’altra delle barriere con-fessionali, politiche geografiche» nasce sempre da «perimetri stretti di appar-tenenza». Un suono di voci singole e pur tendenti a costituire un coro dissonantee «multiplo», che emerge con ampiezza anche nelle sette biografie di donne«mediane», che hanno dato voce e spessore concreto ad una voluta parcellizzatavicenda di un Rinascimento al femminile, in un volume a più voci curato daOttavia Niccoli.5

Una polifonia ancora che si fa straordinario terzetto nell’esemplare volu-me di Zemon Davis,6 dove l’artificio iniziale pone le tre donne raccontate agiocare con l’autrice in una sorta di teatro immaginario. Davanti al dattilo-scritto l’autrice sta con le sue tre donne che non si riconoscono affatto l’unanei percorsi esistenziali e nei confini spirituali e culturali dell’altra. La mer-cantessa ebrea di Amburgo, madre di dodici figli e poi vedova, scrittrice disette straordinari libri, Glikl bas Yehudah Leib non capisce cosa abbia a chefare con la grande mistica Marie de l’Incarcanation, prima madre e moglie,poi vedova che rinnega il figlio, anch’essa prima in affari, poi visionaria e peni-tente orsolina, infine madre superiora di una nuova missione fondata in Cana-da. Annotatrice e scrittrice «senza sosta» dei propri tormenti mistici come delleproprie esperienze di educatrice delle selvagge. E le due si dicono estranee alpercorso di vita della terza, Marie Sibille Merian, in questo caso non una scrit-trice ma una naturalista, protestante, che lascia (anche lei parte da un abban-dono maschile) il marito e si reca in America latina dove diventa annotatricee disegnatrice degli insetti, proprietaria di schiavi africani, caraibici, arauchi.Sta all’autrice ed interprete Zemon Davis riavvicinare le tre donne, farle dialogareoggi nelle loro differenze e in quel tanto che di comune ebbero: come dice laDavis «la melanconia, un più saldo senso di sé, curiosità, speranza escatologi-ca». Percorsi ai «margini» che tutte seppero trasformare in un proprio centro.

4. Saggi di Renata AGO, Elisabeth CROPPER, Silvia EVANGELISTI, Gabi JANCKE-LEUTZCH,Richard L. KAGAN, Florence KOORN, Sara F. MATTHEWS GRIECO, Roy S. PORTER, AnnaSCATTIGNO, in Barocco al femminile, a cura di Giulia CALVI, Bari: Laterza, 1992.

5. E.S. COHEN, C. EVANGELISTI, Massimo FIRPO, M.L. KING, Silvia MANTINI, M.G. MUZ-ZARELLI, Gabriella ZARRI, Rinascimento al femminile, a cura di Ottavia NICCOLI, Bari: Later-za, 1991: «“Rinascimento al femminile” non vuole dunque essere una storia delle donne nelRinascimento (una periodizzazione del genere non avrebbe davvero senso), ma un tentativodi ottenere, attraverso sette singole storie di donne, un quadro per qualche verso meno caren-te almeno di alcuni aspetti della storia della prima età moderna, in cui sia presente il sensodella differenza dei ruoli dei sessi…», Ottavia NICCOLI, Introduzione, ivi, p. VII.

6. Natalie ZEMON DAVIS, Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, Bari: Laterza, 1996.

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E.: Se, in un primo momento, nella storia, alcune donne che si trovavano ascrivere di sé in un ambito riservato storicamente all’uomo, volevano esserecerte di imprimere un marchio di inconfondibile diversità e dare una visionealternativa del mondo, più tardi altre donne avrebbero cercato, invece, di inda-gare quella complessa intersezione di forze materiali e simboliche, quegli intrec-ci di femminile e maschile che enfatizzano la paradossalità di una ricerca legataal piano concreto e fluido dell’esperienza, a ciò che Lea Melandri chiama, in unarticolo dal titolo Autobiografia e soggettività politica, la «zona del vissuto».7 Èstata fatta molta strada nel campo dell’acquisizione di una identità politica esociale, come soggetti storici, ma stenta a formarsi, o rimane un certo garbu-glio irrisolto (il processo è molto più lento) per quel che riguarda l’identitàindividuale (psichica, sessuale), come «ricomposizione di sé». Ma mi rendoconto che si potrebbe sostenere il contrario. Rimane — mi sembra — la per-cezione di uno scollamento e, quindi, la necessità di una sutura:

È un’autobiografia insolita — scrive Lea Melandri — quella che si può chie-dere a scritture come queste. È la scoperta di un paesaggio che ricorda le terredeserte dell’origine, di personaggi indeterminati, tranne che nel ruolo che rive-stono, maschere di un dramma antico che conosce poche variazioni nel tempoe nello spazio. Si ha l’impressione che, paradossalmente, per trovare la propriasingolarità sia necessario ricalcare le parole di altri, abituarsi alla parentela conle figure della generalità, o prototipi di genere, con le «potenze interne» checi hanno incantato o atterrito, e che cercano nella riscrittura della memoriauna via d’uscita.8

Spetterà allo sguardo storicizzante estrarre il succo di ciò che mi piace defi-nire molto semplicemente «il paradigma dell’emancipazione», con tutte le suecontraddizioni, le sue spinte, le sue utopie, le sue chimere, le sue disfatte, conquegli archivi del silenzio ingoiati nel nulla, di cui resta traccia magari nellecarte della polizia o dei tribunali dell’inquisizione.

S.: È proprio vero. Nel passato — si può sostenere con Arlette Farge e MichelFoucault9 — le carte dei tribunali ecclesiastici e civili e le stanze della poliziahanno dato voce alle donne. I verbali, gli interrogatori sono una sorta di secon-da scrittura, di scrittura indiretta che nasce nelle zone di incontro fra donne etrasgressione, nel confronto fra donne ed istituzioni. Un confronto che, comeci insegnano oggi gli studi di Giorgia Alessi o Giulia Calvi,10 non fu solo per-secutorio ma spesso spazio usato dalle donne per tutelarsi, muovere le proprie

7. Lea MELANDRI, Autobiografia e soggettività politica, in «Lapis», n. 31 (1996), p. 22-26.8. Ibidem, p. 25.9. Arlette FARGE, Michel FOUCAULT, Les desordres des familles. Lettres de cachet des Archives de

la Bastille, Paris: Gallimard, 1982.10. Giulia CALVI, Il contratto morale: madri e figli nella Toscana moderna, Roma: Laterza, 1994;

Giorgia ALESSI, L’uso del diritto nei recenti percorsi della gender history, in «Storica», 15,anno V, 1999.

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residuali, ma spesso efficaci, strategie di legittimazione. Si pensi ai tribunaliche avevano come compito la tutela delle donne vedove e dei minori, e chedivennero spesso gli interlocutori di profonde trasformazioni culturali a favo-re delle donne, nel campo del diritto di successione o della tutela dei figli.Ambiguità di nuovo e terreni non scontati di affermazione, se si è in grado diuscire dai paradigmi vittimistici.

E.: Come è interessante e impressionante rintracciare sui testi, letterari e non,le forme di resistenza a una fagocitazione di ruoli, e così gli scarti, le adesionidi compromesso, un insieme complesso e ambiguo che fa sì che non ci sia quasimai una identificazione totale con le figure di genere, e ci dà, oltre al ricono-scimento di un inevitabile «quoziente di negatività» destrutturante, una capacitàdi vedere dietro polarizzazioni astratte, la zona di inconsapevolezza in cui si sonoformate, in un andirivieni fra coscienza e inconscio. Rilevare, dicevo, le dina-miche di denudamento e mascheramento dell’io, come nello spogliarello maca-bro di Lady Lazarus di Sylvia Plath o come nei quadri di Frida Kahlo, dove ilfemminile è spogliato da ogni elemento di rassicurazione, diventando la cifradi un destino segnato «da un vuoto o tradimento originario»,11 in una speciedi simbolico e dolorosissimo matricidio svincolato totalmente da ogni dina-mica edipica (motivo, questo, presente sia nei Diari di Sylvia Plath che nelleCare memorie di Marguerite Yourcenar12). Ricerca delle genealogie femminilie matricidi simbolici: mi sembrano le facce di una stessa medaglia. Non soloemozioni, ma ironia e intelligenza. L’identità della donna assomiglia semprepiù forse — come ci suggerisce Teresa De Lauretis nelle sue ultime riflessioni— a una «auto-traduzione»,13 impegnata in una continua negoziazione.

S.: È il passaggio dalla storia alle storie. L’emergere di una nuova attenzione aipercorsi di storia di genere — la storia delle donne, la storia dell’omosessua-lità, le storie delle diverse identità etniche in popoli in cui si afferma il multi-culturalismo — tende infatti a rompere i confini della grande storia, adinfrangere i percorsi di un tragitto maestro eurocentrico e politico\centrico. Sitratta di una frammentazione dei percorsi e degli schemi tradizionali, che èstato, in modo molto significativo, al centro della riflessione dell’ultimo con-gresso internazionale di studi storici di Oslo.

Un percorso di segmentazioni dei tragitti storici che porta nel caso dellastoria di genere al femminile a reinterrogarsi sulla validità stessa delle grandicategorie e delle periodizzazioni tradizionali. Come in un saggio molto famo-so della Kelly, Did Women have a Renaissance?;14 o ancora di recente in un

11. Maria NADOTTI, Frida Kahlo o della finzione narcisistica, ivi, p. 34-37.12. Sylvia PLATH, Diari, a cura di Frances MCCULLOUGH e Ted HUGHES, Milano: Adelphi,

1999; Marguerite YOURCENAR, Care memorie, Torino: Einaudi, 1981.13. Teresa DE LAURETIS, La soggettività femminile, in «Lapis», n. 31, p.56-58.14. Joan KELLY, Did Women have a Renaissance?, in Renate BRIDENTHAL, Claudia KOONZ, Susan

STUARD (edd.), Becoming Visible. Women in European History, Boston: Houghton Mifflin,1977.

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saggio Mary Wiesner-Hanks del 1997, Storie delle donne e storia sociale: sononecessarie le strutture ?15

Percorsi, quelli della storia delle donne, che oramai tendono a rompere irecinti per dilagare nella storia generale, e per questo tendono anche ad assu-mere in carico, superati i precedenti pregiudizi, il portato della storiografiaprecedente, anche se così ne erodono dall’interno i costrutti ermeneutici. Unrovesciamento, una voracità interpretativa che corrisponde, come avevo accen-nato prima, al definitivo tramonto del paradigma vittimistico. Come ha osser-vato Silvana Seidel Menchi,16 è dalla stessa uscita alla luce delle storie delledonne del passato, di questa «galleria di ritratti» di sante, streghe, mistiche,balie, vedove, spose, aristocratiche e donne ribelli, che è partito un rovescia-mento del paradigma dominante fino a qualche decennio fa, dell’«oppressio-ne» delle donne nel paradigma attuale, attento all’intraprendenza e alle strategiedi autolegittimazione messe in moto in tempi e modi diversi dalle donne stes-se, fino agli orientamenti più recenti che addensano l’interesse sul rapportofra «Soggettività e memoria nel tempo e nello spazio» (come è rilevabile nelleconsiderazioni attuali di Luisa Passerini,17 che ha intitolato così il suo semi-nario all’Istituto Universitario Europeo). Ma penso anche a Regine Sculte cheha lavorato con maestria fra «immaginazione psicanalitica ed interpretazione sto-rica». Riuscendo, come ad esempio in una relazione, molto bella, che ho potu-to sentire al secondo congresso nazionale delle storiche a Venezia,18 a far passareil percorso della storia del Novecento nella sola figura di una grande scultricetedesca analizzata dall’interno, attraverso i suoi diari onirici e le sue opere d’ar-te. Una donna che accompagna le fasi delle grandi e drammatiche trasforma-zioni del secolo, prima incoraggiando il figlio alla guerra, poi cantandolo comeeroe e pensando ad edificarne un mausoleo, senza però riuscire ad elaborarneil lutto. Ed infine divenendo pacifista. Il mausoleo prima pensato a celebrarel’eroe viene alla fine decostruito e presenta le affrante piccole figure dei geni-tori in ginocchio di fronte al nulla, in un omaggio di drammatica intensitàantiretorica. E qui credo si sia molto vicini alla sensibilità delle letterate e cisiamo accostati di nuovo al Novecento: fra psicanalisi e storia.

15. Mary WIESNER-HANKS, Storia delle donne e storia sociale: sono necessarie le strutture?, inTempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, a cura di Silvana SEIDEL MEN-CHI, Anne JACOBSON SCHUTTE T. KUEHEN, Bologna: Il Mulino, 1997, p. 25-48.

16. Introduzione a Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, op. cit., p. 25-48.

17. Faccio anche riferimento ad un seminario di Luisa PASSERINI «Diventare un soggetto nel-l’epoca della morte del soggetto», tenuto all’Istituto Gramsci Toscano sui temi della suarelazione presentata alla Conferenza Europea di ricerca femminista di Bologna, «Corpo,genere, soggettività: Attraverso i confini delle discipline e delle istituzioni», 28 settebre- 1ottobre 2000, i cui atti sono in via di pubblicazione. Per una riflessione sui temi che ven-gono discussi da Passerini, vedi Rosy BRAIDOTTI, Nomadic subjects: embodiment and sexualdifference in Contemporary feminist theory, New York: Columbia University Press, 1994.

18. Regine SCHULTE, Sacrifice as violence: aspects of mother-son relationship in First World warGermany, Secondo Congresso della Società delle storiche italiane «Corpi e storia. Pratiche,diritti, simboli», Venezia, 3-5 febbraio 2000, in corso di edizione.

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E.: Vorrei, a questo punto, fare una riflessione su due condizioni estreme nellapercezione che la donna ha di sé, documentate in molti testi autobiografici. C’èchi sente tutta la fierezza della propria condizione di donna, della propria diffe-renza, in alcuni casi dando alla propria secolare marginalità, romanticamente,un potenziale di innocenza palingenetica. In un mio scritto, anni fa, parlavocon fierezza delle «radici della nostra debolezza»,19 vedendo in quella separatez-za, in quella specie di fuga dal mondo o nel disprezzo per istituzioni che eranostate create da una società violenta e patriarcale, una forza, una micidiale purez-za, vedendo, per esempio, nella scelta dello scollamento dell’io arreso all’insor-genza del contenuto inconscio, in quella esplosione-implosione, inquell’arroccamento di sé nella fortezza sigillata dei propri fantasmi, un crugiuolopotenzialmente rivoluzionario, dove elaborare in vitro nuovi modelli collettivi diidentificazione (penso, per esempio, agli scritti visionari ed estatici di una misti-ca del Novecento come Sara Virgillito,20 o alla fase nera dell’opera di Marghe-rita Guidacci21). Il modello supremo potrebbe essere visto in Emily Dickinsonche della sua poesia dice: «È questa la mia lettera al mondo che mai non scris-se a me».22 Come si fa a non sentire il fascino di questa assoluta separatezza?

S.: Una assoluta separatezza che era stata, come sappiamo, la molla profondain quelle vicende di misticismo che divennero esperienza generalizzata e fon-damentale della spiritualità di molte donne nell’età della Controriforma, inquella che Mario Rosa ha definito l’esplosione generalizzata del profetismo e dellamistica visionaria.23 Quel desiderio di disancorasi dal tutto, che Anna Scatti-gno, a proposito della mistica Jeanne de Chantall, ha definito «la nostalgia deldeserto, forma rarefatta della disaffezione e del denudamento di sé […] comeitinerario di perdita dell’identità e della memoria». Quel privarsi di tutto chela stessa Jeanne descriveva come «lasciar la pelle, la carne, le ossa e penetrarenell’interno del midollo».24

E.: La scrittura femminile sembra confrontarsi, in questi casi, con tutto ciòche rappresenta l’alterità (e c’è, rispetto a questa prospettiva, l’interessantestudio di Mercedes Arriaga Flòrez Mio amore, mio giudice, del 1997).25 Alte-rità come spazio mistico e come follia. Vorrei citare, a questo proposito, daL’altra verità. Diario di una diversa di Alda Merini,26 un diario che è anche

19. Ernestina PELLEGRINI, Le radici della nostra debolezza. «La radura» di Marisa Madieri, inEAD., Le città interiori, Bergamo: Moretti e Vitali, 1995, p. 131-154.

20. Ernestina PELLEGRINI e Beatrice BIAGIOLI, Sara Virgillito. Poetica, inventario, testi inediti,Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 2001.

21. Margherita GUIDACCI, Neurosuite, Vicenza: Neri Pozza, 1970.22. Emily DICKINSON, Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Marisa BULGHE-

RONI, Milano: Mondadori, 1997.23. Mario ROSA, Settecento religioso, Venezia: Marsilio, 1998, p. 53.24. Anna SCATTIGNO, in Barocco al femminile, cit., passim.25. Maria ARRIAGA FLÒREZ, Mio amore, mio giudice, Lecce: Manni, 1997.26. Alda MERINI, L’altra verità. Diario di una diversa, Milano: Rizzoli, 1997.

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la cronaca di un’esperienza manicomiale. Cito dalla introduzione di Manga-nelli:

Il Diario è un’opera lirica in prosa ma è anche una esegesi, una implorazionee la completa distruzione di ogni filosofia e di ogni atto concettuale.È stato scritto con il linguaggio semplice di chi nel manicomio ha scordatotutto e non vuole né vuole più ricordare. Rimane la velata e struggente nostal-gia del manicomio come tempio di una aberrante religione.27

S.: E di nuovo si può si deve ritornare indietro e ricordare quel nesso strettis-simo, quella sottile linea di confine, fra il visionarismo e l’eresia, ma anche frail misticismo e la follia, nell’Europa dell’età moderna. Uno scollinamento faci-le e pericolosissimo dal terreno legittimo ed incoraggiato della penitenza, aquello della perdita e della fuga da sé, di cui le stesse grandi mistiche del pas-sato ebbero consapevolezza.

È il caso, ad esempio di una figura di grande intensità, studiata da MarioRosa28 e ora dalla Zemon Davis,29 a cui già abbiamo accennato, Marie de l’In-carnation, una mistica\visionaria che conosce i limiti e supera spesso i confinifra le due sponde: come quando dopo l’ennesimo sacrificio inflitto al propriocorpo con la flagellazione delle ortiche, catene e cilicio, scriveva nella sua auto-biografia che doveva nascondere questa sua penitenza «altrimenti mi avrebbe-ro giudicata pazza».30

Un uso invece autoinfamante, beffardo e denigratorio — spostandosi inarea protestante sempre nel XVII secolo — che ben emerge negli scritti del-l’inglese visionaria e «profetessa pubblica» Lady Eleonor Davis, studita da RoyPorter.31 Anche lei annotatrice continua, nelle sue scritture, di quel «flusso dicoscienza», in cui come lo stesso Porter afferma, più che ai motivi del mistici-smo e visionarismo tipici di quell’età, quasi siamo di fronte, nella complessitàdella costruzione sintattica e nelle sue irregolarità, ad una scrittura che antici-pa la prosa joysiana,32 di gente che — come diceva Svevo dei personaggi joy-siani — cammina per il mondo con la testa scoperchiata.

E.: Mistiche, sante vive, visionarie in bilico fra la profezia e la perdita di sé,arrese a quel mare che si apre dal sipario del mare, a sua volta sipario di unaltro mare, che Emily Dickinson vedeva come porta verso l’eternità o il noc-ciolo duro, astratto del proprio io. La discesa goethiana alle Madri nel secon-do Faust. «Chi sono io?» — si chiedeva smarrita e arrabbiata Sylvia Plath?33

27. Giorgio MANGANELLI, Prefazione, Ivi, p.4.28. Mario ROSA, La religiosa, in L’uomo barocco, a cura di R. Villari, Bari Roma: Laterza, 1991,

p. 123-19829. Natalie ZEMON DAVIS, Donne ai margini, cit., p. 67-144.30. Ibidem, p. 74.31. Roy S. PORTER, Lady Eleaonor Davies, la pazza, in Giulia CALVI, op.cit, p. 29-49.32. Ibidem, p. 47.33. Silvya PLATH, op. cit., p. 122.

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C’è chi, invece, come Rossana Rossanda, in un testo dal titolo Le altre,34

nega la specificità di genere, sentendo la femminilità «come un dolore aggiun-to, un particolare modo di patire e di fuggire», un’identità da esorcizzare, insom-ma, come l’eco di un’antica subalternità o, peggio, di un’accattivante indulgenzaverso di sé. Difende il punto di vista da cui si guarda a questa identità, unpunto di vista irrinunciabile soprattutto per lei, il cui percorso retrospettivodella memoria parte dalla guerra, da un’epoca in cui «per chi si fece adulto inquegli anni l’identità non sarà mai un percorso privato e nel privato». Questosarà il segno della sua vita, il filo rosso che percorrerà il suo difficile camminopolitico: «Tutto il mondo passò sopra di noi e da allora non cessò di passare».Sempre diversa e sola. Anche quando è all’ospedale fra le altre ammalate e passagiorni «quasi felici, non solitari», scrive: «Ma siccome nessuno è uguale a nes-suno, e io ero io, quando mi resi conto come stavo bene con le mie care donne,mi alzai, mi vestii e con gambe decise, ancorché un po’ tremanti, scesi le scalee cercai un tassì».35

In principio, la domanda da farsi è sempre la solita: chi taglia i confini?C’è un brano, in uno dei diari di Anais Nin, dove la scrittrice parla dei pro-pri diari come di una merce proibita. È in volo tra Parigi e New York e si chie-de: «Il funzionario della dogana leggerà i diari? Alla frontiera non sono statiesaminati. Cosa diranno quando atterrerò in America? Contrabbando?».36 Lanuova identità, che è in continua e rapida trasformazione, si accampa per orasolo su ciò che mi piace chiamare una strage di stereotipi.

La donna e l’altro/a, un paragrafo molto approfondito e dibattutto nel-l’ambito degli studi femministi. In uno dei testi critici archetipici sull’auto-biografia delle donne, The Other Voice di Mary G. Mason,37 si sostiene che sitratta in genere, almeno agli inizi e per lungo tempo, di un’autobiografia rela-zionale (madre di, figlia di, moglie di…). Mi chiedo se questa qualità dialo-gica sia segno di una forza o di una debolezza. Forse, come spesso avviene inquesti casi, si tratta di tutte e due le cose. Per contrasto mi viene in mente l’au-tobiografia di Bertha Thompson, Box-Car Bertha. Autobiografia di una vaga-bonda americana del 1937, una donna che cresce fra barboni e operai delleferrovie. Molti le dicono che sta fuggendo da qualcosa: «…e improvvisamen-te seppi cos’era: avevo sempre cercato di sfuggire al mio bisogno di essere

34. Rossana ROSSANDA, Le altre. Conversazioni a Radiotre sui rapporti tra donne e politica, libertà.fraternità, uguaglianza, democrazia, fascismo, resistenza, stato, partito, rivoluzione, Milano:Bompiani, 1979.

35. Ibidem, p. 53.36. Anais NIN, Fuoco, Milano: Bompiani, 1996.37. Mary G. MASON, The other Voice, in Authobiography; Essays Theoretical and Critical, a

cura di James OLNEY, Princeton: Princeton University Press, 1980, p. 123-144. Per un qua-dro del processo di avvicinamento delle donne alla scrittura e ai codici letterari, com-piuto tra il XVIII e il XX secolo, mi sia permesso rimandare all’eccellente contributo diAdriana CHEMELLO e Luisa RICALDONE, Geografie e genealogie letterarie. Erudite, biogra-fe, croniste, narratrici, epistolières, utopiste tra Settecento e Ottocento, Padova: il Poligrafo,2000.

«Io senza garanzie». Donne e autobiografia. Dialogo […] Quaderns d’Italià 6, 2001 29

responsabile per qualcuno, di vivere per qualcuno, per una persona specialeche appartenesse a me sola».38

Prima parlavo di un io legato. Vorrei fare, però, a questo riguardo, un esem-pio estremo, di cui tu hai già parlato: la scrittura delle mistiche. Ci troviamo difronte «non a una scrittura di donne, ma una scrittura attraverso le donne».39

S.: Di nuovo le mie interferenze e convergenze. Intersezione e dialogo. È veroquanto Ernestina osservava. Dalle tante storie di mistiche del passato si hal’impressione che la scrittura (potente e più comune di quanto prima si pen-sasse) si costituisse sempre attraverso un transito di legittimazione, per sugge-rimenti, per spinte e voci che provenivano o interpretavano un progettotrascendente. Eppure queste spinte, noi diremmo oggi quasi superegoiche,questa «scrittura attraverso le donne» sono uno strumento importante cheinduce a rompere il silenzio, a lasciar tracce di sé. È, ad esempio, un rigidoconfessore e direttore spirituale a spingere Marie de l’Incarnation a scrivere leproprie visioni. A legittimarla a fermare sulla carta quelle «parole di fuoco»che la liberavano dalla potenza insopportabile dei propri sentimenti verso ilsanto verbo incarnato: «Ah quale dolce amore siete: Voi ci sigillate gli occhi,ci rapite i sensi».40

Una scrittura e una traccia che poteva trasformarsi, da segno e progettodella trascendenza e quindi segno edificante, in parola pericolosa ed eretica.Penso ad esempio a Lucrezia de León, profetessa e visionaria nella Spagna di fine‘500 e scrittrice indiretta di un Libro di Sogni in cui si articolava una potentecondanna dei vizi della monarchia di Filippo II e se ne vaticinava il destino.All’inizio protetta da tre ecclesiastici che trascrivevano i suoi sogni pensando chefossero «di vitale importanza per il futuro della Spagna» e quindi da far cono-scere al re, e poi consegnata come eretica all’inquisizione a cui si presentò comedonna fragile incapace di capire la portata delle sue profezie e solo spinta a tra-scriverle dagli stessi ecclesiastici.

L’atto della scrittura è così un atto difficile, pericoloso, che ha bisogno dilegittimazione. Sono molte le testimonianze di donne che dicono di soffrirenello scrivere. Di scrivere con «riluttanza» e solo perché il Signore glielo avevaordinato. Un «tormentoso cimento»,41 lo definì una austera religiosa, Elisa-beth Stouwen, madre superiora ed annotatrice delle memorie del conventocattolico nell’Olanda del primo Seicento.

La «parola potente» (Ida Magli) delle mistiche e delle protesse nasce quin-di in questo transito di legittimazione che le protegge, le inscrive ma anche leautorizza alla scrittura. Sono scrittrici legittimate dalla trascendenza anche le

38. Bertha THOMPSON, Box-Car Bertha. Autobiografia di una vagabonda americana, Firenze:Giunti, 1986.

39. Anna IUSO (a cura di), Scritture di donne. Uno sguardo europeo, Arezzo: Quaderni dellaBiblioteca Città di Arezzo, 1999.

40. Natalie ZEMON DAVIS, cit., p. 72.41. Florence KOORN, Elisabeth Trouven, la donna religiosa, in Barocco al femminile, cit., p. 138.

30 Quaderns d’Italià 6, 2001 Alessandra Contini, Ernestina Pellegrini

«sante vive» del Rinascimento, studiate dalla Zarri, che parlano e scrivonocostruendo i propri percorsi di santità educando alla religione e facendosi madrispirituali di principi ed uomini di potere.42 Come legittimate e spinte alla scrit-tura epistolare sono spesso anche le donne delle famiglie aristocratiche, quan-do, come ha visto bene Marina D’Amelia, gli stessi mariti e i figli le incitanoad usare correttamente la penna per svolgere quella funzione quotidiana diservizio alla famiglia, di cerimoniale indispensabile a tener attivi e funzionan-ti i canali clientelari.43

Ciò ovviamente non esclude che la scrittura epistolare sia essa stessa unostraordinario tramite di affermazione individuale, come nella vicenda dellaintraprendente Maria Mancini, nipote del Mazzarino, già favorita del re diFrancia e poi sposa separata del principe Colonna, che esprime nel suo car-teggio con il marito che ha deciso di abbandonare, tutta la propria forza diindividuo, la propria volontà. Come quando all’ennesima richiesta del marito-principe di rientrare sotto il tetto coniugale, la Mancini, nella sua fuga di donnaseparata ma controllata in giro per l’Europa, rispondeva, con fermezza: «quan-do ritornerò sarà di mia spontanea volontà né voglio che habiate obligatione allamia sfortuna ma a me sola».44

E.: Un numero della rivista «Primapersona. Percorsi autobiografici», dedicatoal mito e alle traversie d’amore nella scrittura di sé, è intitolato significativa-mente L’ego legato.45 Grazia Livi e Francesca Pasini, in un dialogo brioso e teo-ricamente denso dal titolo Donne senza cuore, ironizzando sul tema canonicodi tanta letteratura femminile, «il sogno d’amore», ad un certo punto dicono:«Il cuore? Io non vorrei sentirmelo più tanto addosso».46 Da un lato c’è la scrit-tura-ponte dell’io-tu, orma di una tensione di fusionalità assoluta nel rappor-to esclusivo di un amore o di una messa in giudizio, dall’altro c’è la scrittura chevuole, come George Sand nella propria Histoire de ma vie,47 presentare il pro-prio autoritratto in piedi, sempre pubblico, coi suoi travestimenti e le sue iden-tità parziali, il suo piglio provocatorio e le sue vittorie nell’arte e nella vita. Perdare questa testimonianza George Sand trova giusto tacere, porre sotto cen-sura alcuni lati della sua esistenza privata, non vuole parlare per esempio deisuoi amori.

Linda Giuva, in un saggio presente nel bel volume Reti della memoria,sostiene che non solo esistono nelle donne dei livelli diversi (spesso carenti)nella consapevolezza dell’organizzazione della propria memoria, ma soprat-tutto notiamo in molte di loro la spinta ad occultare le tracce della propria

42. Gabriella ZARRI, Le sante vive. Cultura e religiosità femminile nella prima età moderna, Tori-no: Rosenberg-Sellier, 1990.

43. Marina D’AMELIA, Lo scambio epistolare tra Cinque e Seicento: scene di vita quotidiana e aspi-razioni segrete, in Per Lettera, cit., p. 79-110.

44. Elisabetta GRAZIOSI, Lettere da un matrimonio fallito, Ivi, p. 554.45. «Prima Persona», n. 4, marzo 2000.46. Grazia LIVI- Francesca PASINI, Donne senza cuore, Milano: La Tartaruga, 1996, p. 150.47. George SAND, Storia della mia vita, Milano: La Tartaruga, 2000.

«Io senza garanzie». Donne e autobiografia. Dialogo […] Quaderns d’Italià 6, 2001 31

vita privata e a certificare la sola vita pubblica, volendo tramandare solo il ricor-do di una donna forte e impegnata.48

S.: Si tratta spesso di proteggere le donne da loro stesse e dalle loro autocensure.E qui cambio veste e mi presento non più con gli abiti della storica ma conquelli di archivista di Stato responsabile delle carte della scrittura femminilepresso l’Archivio di Stato di Firenze, da cui è nata, in collaborazione con l’U-niversità di Firenze, la nostra associazione «Archivio per la memoria e la scrit-tura delle donne», associazione che Ernestina ed io abbiamo l’onore di guidare.

Nei colloqui che andiamo facendo con le scrittrici e le artiste che contattiamoper averne le carte da conservare e valorizzare, ci è spesso capitato di doverciscontrare con la paura che le donne\intellettuali sembrano avere in comunenei confronti della conservazione delle tracce sporche della propria scrittura.Mentre tengono a documentare, fino all’ultimo foglietto, che provi la loro fati-ca di autore, temono di conservare i diari, le carte intime, i quaderni autobio-grafici. La giustificazione è il pudore verso i figli, verso gli esterni, ma questopudore mi pare abbia movenze più profonde: muove forse dalla paura di rico-noscere come propria creatura una scrittura di sé non spiata, il largo deposito«prescritturale», le tracce sporche. Tracce che assumono diritto di cittadinan-za, e quindi diritto di sopravvivenza, solo se attentamente selezionate e vaglia-te, spogliate dal pericoloso ed indicibile deposito coscienziale.

Un pudore, una difficoltà di parlare di sé, mi pare — e qui mi rivolgo avoi letterate — che è stata tipica di quella lunga fase in cui molte autrici (un po’come fanno le storiche oggi) hanno usato lo specchio di forti personalità didonne del passato per riflettere sul proprio sé di autrici e di donne. Da Rina-scimento privato della Bellonci alla Camicia bruciata e all’Artemisia della Banti.Entrambe le autrici lavorano sul sé della contemporaneità riscrivendosi sulcalco e sulle tracce di personalità del passato. Un parlare attraverso, transitan-do ancora una volta su un altro soggetto. Forse ancora una volta il tentativodi autolegittimazione? Un tentativo che risulta alla fine anche una operazio-ne di riparazione storica, dando voce alle protagoniste di ieri. Ma qui sconfi-no e chiedo lumi ad Ernestina. Ad esempio, mi pare fondamentale l’atto delpassaggio dalle biografie all’autobiografia nella letteratura contemporanea.

E.: Mi sia permesso rimandare, qui, per quanto concerne la commistione esovrapposizione di biografia e autobiografia (un vero e proprio gioco di spec-chi e di manipolazioni autocamuffatorie) a un altro mio studio, dal titoloAuto/biografie imperfette,49 che fu relazione dell’ultimo convegno della Società

48. Linda GIUVA, Archivi neutri archivi di genere: problemi di metodo e di ricerca negli universi docu-mentari, in Reti della memoria. Censimento di fonti per la storia delle donne in Italia, a curadi Oriana CARTAREGIA e Paola DE FERRARI, Genova: Lilith-Coordinamento donne lavorocultura, 1996, p. 13-41.

49. Ernestina PELLEGRINI, Auto/Biografie imperfette, in corso di stampa nel volume Passaggi, a curadi Liana BORGHI, per l’Editore QuattroVenti di Urbino.

32 Quaderns d’Italià 6, 2001 Alessandra Contini, Ernestina Pellegrini

delle letterate. Voglio, invece, notare come ci sia, e molto forte, in alcune auto-biografie, la consapevolezza di fare un atto politico. Penso, per esempio, agliscritti autobiografici di Simone De Beauvoir, in particolare al volume ultimoA conti fatti, in cui, parlando del movimento di «decolonizzazione della donna»,scrive: «La mia vita: familiare e lontana, mi definisce, e nel tempo stesso io lesono esteriore. Che cos’è, esattamente, quest’oggetto bizzarro?».50

A conti fatti è già nel titolo un bilancio e rivela la prospettiva rigorosamentepresbite, intessuta di distanze, dell’autobiografia. Mi viene in mente ancheNatalia Ginzbug che, nell’intervista dal titolo Non è facile parlare di sé, dice:«Però volevo anche scrivere come un uomo; allora ci tenevo molto a scriverecome un uomo, a sembrare… non essere appiccicaticcia».51

Davanti al testo autobiografico di una donna ci troviamo di fronte nonsolo al suo mondo interno, ma anche al suo mondo esterno sotto l’aspettodella cultura, dei canoni, degli elementi della società in cui vive, direi meglioil mondo in cui è stata gettata, e così noi si vive, in maniera obliqua e doppia-mente intensificata, il mondo della cultura di questa donna, perché lo vivia-mo attraverso il filtro della sua personalità, attraverso il suo punto diosservazione. Godiamo del vizio, ma anche della lucidità dataci dall’anacro-nismo, dall’essere contemporaneamente dentro e fuori.

Queste scrittrici impegnate in un gesto di estroversione concepiscono lapropria autobiografia come qualcosa di «mostruoso», di eccentrico e nello stes-so tempo di estremamente contestualizzato, un racconto politico in cui il per-sonaggio si stacca dalla storia del suo tempo, nel bene e nel male, come unastravagante escrescenza, una orgogliosa disarmonia.

Queste autobiografie sono in qualche modo anche una specie di Histoirebataille nelle trincee quotidiane della lotta fra i sessi. So che è come scoprirel’acqua calda dire che la sessualità, la sua rappresentazione, è il primo motivorilevatore da rintracciare nei documenti. Questi testi, questi specchi di identità,tendono a offrire una specie di grumo, in cui le donne contemporanee posso-no condensare e sintetizzare, con vero brio intellettuale, i luoghi comuni del-l’identità collettiva, materia facilmente riciclabile dal consumo intellettuale delfemminismo.

S.: Una sorta di «invenzione della tradizione» (Eric Hobsbawm) per cui, adesempio, si tende a recuperare, di questa identità collettiva, di questo luogocomune della memoria, solo i tragitti biografici più forti; i casi, anche nel pas-sato di affermazione del sé, negando cittadinanza, in una sorta di rovescia-mento del precedente paradigma vittimistico, alle voci minori, alle esili figureschiacciate dai recinti e nei recinti, la cui sofferenza non fu tramite di affer-mazione ma espressione di incompiutezza. Le voci piccole, solo a tratti docu-

50. Simone DE BEAUVOIR, A conti fatti, Torino: Einaudi, 1973.51. Natalie GINSBURG, Non è facile parlare di sé. Conversazione a più voci, condotta da Marino

SINIBALDI, a cura di Cesare GARBOLI e Lisa GINZBURG, Torino: Einaudi, 1999.

«Io senza garanzie». Donne e autobiografia. Dialogo […] Quaderns d’Italià 6, 2001 33

mentate dalla scrittura, ma più spesso, di nuovo con la Perrot,52 restate indie-tro, non documentabili, nel «silenzio della storia».

Mi viene in mente la tenerezza di accenti e il valore rievocativo che emer-gono ad esempio dal carteggio fra Galileo Galilei e la figlia Suor Maria Cele-ste, testimone nel chiuso del convento degli eventi che travagliano la vita delpadre, che costruisce orioli su disegno dello scienziato e che al padre mandapiccole cose. Come quando manda al padre un po’ di cedro confettato nonben riuscito e due pere cotte per i giorni della vigilia natalizia.53

E.: Quando parlavo di autobiografia come gesto politico, di esplicitazione dellapropria «disarmonia» su fondo oro, pensavo naturalmente, in questa chiaveestrema, a un modello straordinario del femminismo degli anni Settanta comeil libro di Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista: «Al diariosono stata spinta dalla necessità di presentarmi a me stessa motivata nel farequello che faccio. E la motivazione che io stessa scopro via via con sempremaggiore convinzione, risale a un bisogno di conoscenza di me e degli altri dicui mi prendo tutta la responsabilità».54

Sul polo opposto, si situano, invece, le autobiografie spostate sul territo-rio del diario intimo, in cui si assiste ad un’opera in fieri, opere che mostrano,con punte di simpatico e straziante esibizionismo, la disfatta della propria iden-tità. Qui vige una prospettiva miope, ravvicinata, appuntita spesso dal bistu-ri psicoanalitico. Ci sono due modi paradossali e complementari per dare vitaa questa attività coraggiosamente destruens: quella euforica dei diari erotici diAnais Nin (penso soprattutto a Fuoco), e quella malinconica dei diari di SylviaPlath. Anais Nin scrive la storia della propria «nevrosi incendiaria», dà la cro-naca in diretta dei suoi molteplici amori e dice di riuscire a scrivere soltanto acaldo, mentre le cose accadono, lasciando sullo sfondo come uno sfondo inter-cambiabile e sostanzialmente piatto la grande storia, con le sue quinte mute-voli (la guerra di Spagna, Parigi, i salotti di New York). Tutto si ingarbuglia,in mezzo a orgasmi e sedute psicoanalitiche:

Io sono dentro la vita. […] Io domino con la seduzione. […] Ma adesso voglioessere tutto io stessa. Voglio essere un mondo completo perché — bhè, per-ché ne ho voglia. Ho voglia di recitare tutti i ruoli. […] Ho trovato colui concui posso finalmente giocare davvero a essere donna, giocare a tutto quello cheho nella testa e nel corpo con il ritmo. […] Credo che mi piaccia il materialenon trasformato, mi piace la cosa prima che sia trasformata. Ho paura dellatrasformazione.55

52. Michelle PERROT, Les femmes ou le silence de L’Histoire, Paris: Flammarion, 1998.53. Mario ROSA, La religiosa, cit., p. 95.54. Carla LONZI, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Milano: Scritti di Rivolta Fem-

minile, 1978, p. 123.55. Anais NIN, Fuoco, cit., p. 153.

34 Quaderns d’Italià 6, 2001 Alessandra Contini, Ernestina Pellegrini

E così lei, che ha paura della trasformazione, sceglie di essere una trasfor-mista esagerata (sistema omeopatico, si direbbe). Penso, poi, ai Diari sfarzo-samente cupi di Sylvia Plath, in cui tutto vibra sotto lo sguardo snebbiato delledepressioni e si sottomette alle catastrofi lucidissime degli sfondi psichici, men-tre la scrittrice sprofonda nel Mar dei Sargassi della propria immaginazione,mettendo su, però, nonostante tutto, una mitologia dell’io, come una che esi-bisce e lacera le maschere, le facce visibili dei suoi io minori, falsi e provviso-ri, del suo dramma interiore mostrando ciò che resta, ciò che avrebbe definitoin una sua poesia, Contusion. Scrive: «Ormai sono una discarica composita difili sciolti e inconcludenti, senza la nobiltà e nemmeno l’illusione di un sogno».56

Quello che mi interessa nei testi ibridati dello spazio autobiografico fem-minile non è solo la autorappresentazione e il percorso che lega la consapevo-lezza della propria importanza sociale all’uso della scrittura, ma anche laprogettualità, quegli elementi di una autobiografia del possibile o del deside-rio, che mi piace affiancare a quella sorta di ossificazione storicizzante che siottiene da una ricerca quantitativa e seriale. Recuperare questi frammenti inti-mi, questi resoconti dal basso, dal dentro, dal dietro, significa arricchire il qua-dro storico, dotarlo della molteplicità dei punti di vista, di prospettive spessoantagoniste rispetto al trionfante modello patriarcale, sfatando — è questo ilpunto — il luogo comune che vuole che ci siano virtù particolarmente fem-minili, come l’emozionalità, la soggettività, l’irrazionalità, la quotidianità, indi-viduando, invece, i modi e le forme a cui queste illusorie strategie dellaconfessione dell’io vengono sottoposte a una forte normazione culturale e socia-le. Voglio dire che, al di là del riconoscimento dell’unicità di ogni storia, nonsi deve dimenticare che la costruzione di questi testi è comunque una prassisociale. Sono scritture storicamente e socialmente situate. Come ha scritto lascrittrice afroamericana Bell Hooks, «il margine non è solo un luogo di priva-zione, è anche un luogo di resistenza».57 Resistenza a che?

Gargani su Anterem parla di nascita attraverso la scrittura, sospesa tra sco-perta e invenzione, un gesto di consapevolezza che richiede ciò che si può defi-nire sinteticamente «l’esattezza intellettuale dell’emozione».58

Vorrei finire con una bella citazione da Il mio noviziato di Colette, che rac-conta il modo in cui è diventata scrittrice, ed è la storia di una espropriazio-ne, visto che il marito pubblicava a proprio nome le cose che lei oscuramentescriveva. Un autoritratto che comincia così: «… Ho preferito le persone oscu-re, colme di un succo che proteggevano». E finisce così:

56. Silvya PLATH, Contusion: «Il colore inonda la macchia, porpora opaca. / In una cavità dellaroccia / il mare succhia ossessivamente, / un vuoto è il perno di tutto il mare. / Non piùgrande di una mosca, / il segno del destino / striscia giù lungo il muro. / Il cuore si chiude,/ il mare scivola via, / gli specchi sono coperti». La poesia è stata scritta poche settimaneprima della morte. Per la sua analisi si veda G. BOMPIANI, cit., p. 172-174.

57. Bell HOOKS, Elogio del margine, Milano: Feltrinelli, 1998.58. Aldo GARGANI, La nascita attraverso la scrittura, in Anterem, n. 60 (2000), p. 11-13.

«Io senza garanzie». Donne e autobiografia. Dialogo […] Quaderns d’Italià 6, 2001 35

Fuggire?…Come si fa a fuggire?…Fuggire… E quel sangue monogamo cheportavo nelle vene, che scomodità. […] Bisogna anche che un prigioniero,animale o uomo che sia, non pensa tutto il tempo ad evadere, a dispetto del-l’andirivieni dietro le sbarre, di un certo modo di puntare lo sguardo lontanolontano, attraverso le muraglie… Questi sono riflessi imposti dall’abitudine, dalledimensioni del carcere. Aprite allo scoiattolo, alla belva, all’uccello stesso, laporta che essi soppesano, assediano e supplicano: quasi sempre, in luogo delbalzo, del frullo che vi aspettate, la bestia sconcertata si immobilizza, indie-treggia verso il fondale della gabbia. Io avevo tutto il tempo per riflettere, eudivo così spesso la gran frase sprezzante, sarcastica, tutta lucente di catene:«In fin dei conti, siete liberissima…».59

S.: Di queste scritture nascoste, sofferte, o — come nel caso appena citato —addirittura cedute, rubate, di questi sempre ambigui e sfuggenti paradigmi del-l’emancipazione, pensiamo si debba oggi ricostruire insieme, fra letteratura estoria, il tragitto di lungo periodo. Un tragitto che individui, nelle differenzee nelle somiglianze, le ragioni dell’emergere del sé delle donne contempora-nee partendo dai percorsi lontani e paludati del sé delle donne del passato. Untragitto fatto di continui riaffioramenti per scavi sistematici nel lungo periodo,come stiamo tentando di fare grazie ad un finanziamento della Regione Tosca-na. Uno scavo approfondito che permetta di far emergere nella sua ampiezzae complessità la polifonica voce della memoria scritta delle donne dai giaciglidegli archivi familiari e conventuali dove è ancora in massima parte annidatao incistata. In questo tentativo ovviamente non siamo sole, come dimostranole molte esperienze che si muovono in questa direzione. Il riappropriarsi dellascrittura delle donne del passato ci pare infatti costituisca uno degli strumen-ti culturali più importanti — per dirla con le parole di uno dei massimi stori-ci contemporanei, Eric Hobsbawm — di quella «rivoluzione morale eculturale»60 che è stata l’emancipazione e la liberazione delle donne, «l’unica rivo-luzione riuscita del ventesimo secolo, una rivoluzione ancora non conclusa». Unarivoluzione che non può che indurci a riflettere, senza retorica e trionfalismi,sui percorsi attraverso i quali le donne usarono la scrittura. Una scrittura che,fuori da ogni paradigma di vittimismo, servì — non vi è dubbio — come vieneemergendo dalle molte storie di donne ricostruite, a segnare il proprio tragit-to di vita. Dai carteggi delle donne sposate, che attraverso larghi percorsi epi-stolari furono in grado a volte di intessere una vera politica di squadra per lapropria famiglia (come dalle ricerche di Renata Ago, o di Marina D’Amelia oanche nel bellissimo volume sulle sorelle Lennox di Stella Tillyard61), ai piùrari ma sempre straordinari diari intimi e privati, fino alle preziose autobio-grafie.

59. COLETTE, Il mio noviziato, Milano: Adelphi, 1981, p. 153. Si veda ora la raccolta Roman-zi e Racconti, a cura di Maria Teresa GIAVERI, Milano: Mondadori, 2000.

60. Eric J. HOBSBAWM, Il secolo breve, trad. it., Milano: Rizzoli, 1995, p. 376 e passim.61. Renata AGO, Carriere e clientele nella Roma barocca, Bari-Roma: Laterza, 1990; EAD.,

Giochi di squadre: uomini e donne nelle famiglie nobili del XVII, in Maria Antonietta VISCE-

36 Quaderns d’Italià 6, 2001 Alessandra Contini, Ernestina Pellegrini

Dovunque emergono le composite strategie di affermazione che le donnefurono in grado di intessere, e di testimoniare nella parola scritta, pur muo-vendo tutte dallo spazio stretto loro concesso: dai perimetri stretti della Calvi,dai recinti della Zarri o dai margini della Davis. Si tratta di dar voce a quellacomposita e polifonica strategia in un contesto che non può che ricordarci ildovere di rispondere, a più di due secoli di distanza, a quella ironica e fine cri-tica della Austen nell’Abazia di Northanger:

Quanto allo storia vera e propria, la storia seria e solenne, non riesco a tro-varla interessante… ad ogni pagina litigi di papi ed imperatori, guerre e pesti-lenze. Gli uomini in genere sono dei buoni a nulla e le donne, praticamente nonci sono mai: è una noia terribile.62

GLIA (a cura di), Signori, patrizi e cavalieri nell’età moderna, Roma-Bari: Laterza, 1992, p. 256-264; Maria D’AMELIA, Diventare madre nel secolo XVII: l’esperienza di una nobile romana, inTempi e spazi di vita, cit. 279-310; Stella TILLYARD, Quattro inglesi aristocratiche. Le viteinquiete delle sorelle Lennox. 1740-1832, trad it., Milano: Mondadori, 1994.

62. Jane AUSTEN, Northanger Abbey, (1818): la citazione è tratta dalla traduzione del passo fat-tane da Gianna POMATA, Storia particolare e storia universale: in margine ad alcuni manua-li di storia delle donne, in «Quaderni storici», n. 74, (1990), p. 341-385, cit. p. 342; vedianche la traduzione di Anna Banti e la bella introduzione di Ornella DE ZORDO in: JaneAUSTEN, Abazia di Northanger, Firenze: Giunti, 1994, il passo in questo caso è a p. 88.

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Ressenyes

El pasado mes de octubre de 2000 tuvolugar en la Facultad de Filología de laComplutense el Seminario InternacionalComplutense sobre «La recepción de Boc-caccio en España», organizado por elDepartamento de Filología Italiana de esaFacultad; los Departamentos de Litera-tura Española y Teoría de la Literatura,de Filología Clásica y de Filología Italianade la UNED; el Seminario de FilologíaMedieval y Renacentista de la Universi-dad de Alcalá, con la participación dediversos organismos universitarios, ofi-ciales y editoriales.

El acto reunió a una treintena de in-vestigadores del medievalismo hispánico,junto a italianistas españoles, italianos ycentroeuropeos, y clasicistas españoles,presididos por el profesor V. Branca, elmás destacado especialista en temas boc-caccianos e impulsor de los más impor-tantes proyectos sobre el tema que se hanhecho realidad en los últimos cincuentaaños en Italia: la edición crítica de los diezvolúmenes de las obras completas de G.Boccaccio, los casi treinta números de larevista Studi sul Boccaccio, la edición delautógrafo Hamilton del Decameron, lareciente publicación de los tres tomos deBoccaccio visualizzato, por citar sólo losmás relevantes.

El Profesor Branca trajo a Madrid enesta ocasión, junto al aquilatado saber desus ochenta y seis años, una vitalidad pro-

fesional asombrosa y un espectacular entu-siasmo hacia su trabajo, hacia los temasque tiene entre las manos (editar la pri-mera redacción juvenil del Decameron) yuna visión lúcida de la obra boccaccianaque le permite valorarla en su aportaciónesencial a la historia de la cultura euro-pea, yendo desde los datos del análisis filo-lógico más concreto y puntual (a los queél ha dedicado toda su vida) a los valoresbásicos de la historia de nuestra cultura,por su gran fe en la literatura como sal-vadora del hombre: «dobbiamo essereconvinti di questo: il mondo può esseresalvato dalle lettere intese come espres-sione dello spirito umano», fueron suspalabras de conclusión al Seminario, sumensaje más esperanzador, y la mejorenseñanza para todos los allí presentes.

El grupo de italianistas de proceden-cia centroeuropea (G. Gorni, M. Picone,M.A. Andreoli, T. Crivelli) abordarondesde distintos ángulos un mismo relatodecameroniano, demostrando que la foca-lización de nuevas fuentes y antecedentesde la gigantesca elaboración boccaccianapermite siempre, de manera inagotable,iluminar mejor la comprensión de sumundo narrador. Fue una prueba más dela inmensa riqueza del texto boccacciano,y una buena demostración del rigor y efi-cacia del italianismo actual. Se presentóademás la edición hipertextual informá-tica que se está llevando a cabo en la Uni-

Seminario Internacional Complutense sobre «La recepción de Boccaccio en España».

202 Quaderns d’Italià 6, 2001 Ressenyes

versidad de Zürich bajo la dirección delProfesor M. Picone, que amplía y com-plementa de manera rotunda los tradi-cionales sistemas de investigación.

Desde el medievalismo hispánico seenfocaron con buen acierto algunos delos puntos neurálgicos de la recepción his-pánica de la obra del certaldés; especia-listas destacados como M.Á. Pérez Priego,C. Alvar, A. Ruffinatto, M.ªJ. Lacarra, Á.Gómez Moreno, F. Gómez Redondo, J.Rubio Tovar, J.C. Conde, J.M. Lucía, R.Recio, V. Díaz Corralejo, etc. abordaronaspectos determinantes de la cultura cas-tellana del siglo XV que acogió la pro-ducción boccacciana, aspectos que sinduda darán fruto en investigaciones pos-teriores que permitan avanzar en estostemas, adormecidos en nuestro actualpanorama bibliográfico (desde el ya leja-no pero impecable trabajo de C. Bour-land) y necesitados por ello de unestímulo impulsor. El entorno literariodel Marqués de Santillana, la labor biblió-fila de Nuño de Guzmán, la función clavede Alfonso García de Santamaría, los ras-gos de las traducciones de la época, laposible mediación de la versión francesadel Decamerón para la castellana, entreotros aspectos, quedaron apuntados desdecoincidentes perspectivas.

Los clasicistas participantes (M. Mar-tínez Hernández, C. Álvarez, R.Mª Igle-sias) replantearon el estudio, la difusióny la trascendencia de algunas de las obraslatinas del escritor, tan decisivas en nues-tra historia literaria peninsular, rozandosólo una problemática que, por susinmensas dimensiones, por su enormeproyección, requiere el espacio muchomás amplio de varios proyectos de inves-tigación.

Especialistas del ámbito catalán (L.Badía, J. Butiñá, J.M. Ribera, J.L. Mar-tos, a quienes se añadirá en las Actas lacontribución de B. Renesto, de la Uni-versidad de Venecia) volvieron al estudiode los textos claves de la historia de larecepción de Boccaccio en las letras cata-

lanas, como las obras de Metge y Roís deCorella, y en las Actas se podrán aportarnuevos aspectos de la versión catalana delDecamerón cuyo estudio inició hace añosel magisterio del Profesor M. de Riquer.

Los italianistas, en grupo más redu-cido por el enfoque hispánico del Semi-nario, dieron cuenta de sus investigacionesde muchos años sobre el tema: G. Gui-dotti desde su especialidad de historia dela lengua, M. Hernández Esteban en suestudio de aspectos estructurales e ideo-lógicos del Decamerón, replanteando ade-más el análisis de la versión castellanaantigua, en la que sigue trabajando en laactualidad, y que habrá que editar críti-camente, para frenar los desmanes yacometidos.

En este intercambio enriquecedor par-ticipó activamente un nutrido grupo dealumnos, profesores, investigadores y estu-diosos a nivel nacional e internacional (loque no significa que pudieran asistir todoslos que en justicia habrían debido estar);no faltó, por poner un sólo ejemplo, lapresencia de M. Rodríguez Barcia, de laUniversidad de Vigo, que está ultiman-do su versión al gallego del Decamerón(sin olvidar el cotejo con la versión por-tuguesa del XVII), entre otros asistentesque enriquecieron también, con sus enfo-ques y sugerencias, las limitaciones ine-vitables de un proyecto de trabajo comoeste.

Podrían ser tres las principales con-clusiones: los numerosos caminos abier-tos, o redescubiertos, para futurasinvestigaciones, que quedan afianzadospor las coincidencias en las hipótesis, porla confluencia de ideas. Por otro lado estántambién las muchas carencias que al finalde este tipo de acontecimientos se perci-ben con más nitidez, las lagunas por lle-nar. Junto a las aportaciones quedantambién evidenciadas las múltiples par-celas por abordar; en este caso los gran-des huecos por analizar se hacen másevidentes por el inmenso panorama degéneros que Boccaccio trazó para Italia,

Ressenyes Quaderns d’Italià 6, 2001 203

para España y para buena parte de Euro-pa, con una fuerza expansiva excepcional.La tercera conclusión afecta al método detrabajo: el espacio cultural que acoge a loliterario es tan denso y complejo, tan poli-valente, que requiere esfuerzos comunes,

desde las áreas más diversas. La historiade la recepción lo exige así por su propiaconformación.

María Hernández Esteban

El volumen de Manifiestos del humanis-mo nos presenta una serie de textos dehumanistas italianos del cuatrocientosdonde algunos de sus más significadosprotagonistas se definen frente a la socie-dad y la cultura medieval de base esco-lástica, y de ahí el título de Manifiestos,aunque no tengamos que tomar el tér-mino «manifiestos» en el sentido de unmovimiento organizado que tendrá enépocas posteriores, aunque sí con plenaconciencia de sí mismo. Tarea nada sen-cilla, desde luego, y que dentro del lími-te del volumen en 165 páginas, sin notasy con apenas unas perentorias nótulasbibliográficas, resuelve con holgura. Elvolumen nos presenta en traduccionescastellanas una decena de textos esencia-les para la comprensión del movimientohumanista. Abre la selección de una formaun tanto simbólica, en cuanto fuente delmovimiento, un texto de Petrarca, la Subi-da al Ventoso, es decir, la epístola a Dio-nisio da Burgo San Sepolcro (RerumFamiliarium libri, IV, I). Una ascensiónsimbólica que es también un recorridoliterario y una auscultación ética y estéti-ca de la personalidad desgarrada de Fran-cesco Petrarca. Le siguen un par dediálogos de Leonardo Bruni (tomados delos Diálogos ad Petrum Histrum, 1401),donde, en esencia, nos encontramos conel vituperio retórico y la defensa elocuentede la tríada italiana (Dante, Petrarca, Boc-caccio). La introducción general y los cua-tro prólogos, de los seis de que consta, de

las Elegantiae linguae latinae de LorenzoValla (completadas en 1440), constituyencuatro textos dedicados cada uno de ellosa un tema concreto, y que quieren serapología desde diferentes puntos de vistade la nueva cultura humanista y del latínclásico ciceroniano. Constituyen de porsí un texto fundacional del humanismoeuropeo. Basta recordar que el primerode ellos lo dedica Valla a la relación entrela lengua latina y el imperio (translatiostudii) en una forma que el lector hispá-nico le recordará de inmediato la Gra-mática (1492) de Nebrija. En ellos vemosdesfilar como pensamientos vivos y com-bativos los que, andando unas décadas,pasarán a ser tópicos del humanismotriunfante del quinientos. La defensa dela elocuencia, la gramática como reina delas ciencias, en contraposición con la cien-cia jurídica medieval, por una parte, perotambién frente a la teología en el ejem-plo egregio de San Jerónimo («ser cristia-no y tuliano»), que nos recuerdan lasAnotaciones al Nuevo Testamento, y en fin,el ennoblecimiento de las lenguas verná-culas a través del estudio de la lengua lati-na. El Discurso de la dignidad del hombrede Giovanni Pico della Mirandola (Ora-tio, conservada en dos versiones de 1485y 1488) desarrolla otro de los temascentrales del humanismo. Finalmente elvolumen se cierra con tres Entremeses(Intercenales) de León Battista Alberti,Religio, Virtus y Fatum et Fortuna tomadosdel libro primero de las Intercenales (tex-

PETRARCA, BRUNI, VALLA, PICO DELLA MIRANDOLA, ALBERTI,Manifiestos del humanismo,M. Morrás (ed.), Barcelona: Península, 2000, 165 págs.

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tos redactados entre 1430 y 1437 y quecircularon manuscritos en la época), ydonde de nuevo nos podemos encontrarmotivos y procedimiento de este huma-nismo temprano que se generalizaráncomo temas favoritos de la Europa de lacenturia siguiente, como, por ejemplo, lareferencia al Somnium Scipionis en la últi-ma de las piezas citadas. Claro está queuna selección siempre puede resultar dis-cutible por la serie de nombres incluidosen un movimiento cultural tan rico yvariado, tan extremadamente complejo,y que siempre se echarán en falta (Ficino,Pomponazzi, por ejemplo) o textos noseleccionados. Pero, en resumen, el volu-men logra agavillar una serie de textosesenciales del primer humanismo en unaselección que se extiende a lo largo delcuatrocientos, y permite al lector, inclu-so al lector no especialista, un acceso rápi-do y directo a estos textos, bien traducidosy seleccionados, y algunos de ellos vertidospor primera vez al castellano.

Acompañando a los textos, el volu-men se abre con una Presentación y se cie-rra con un epílogo (El humanismo y susmanifestaciones). En la Presentación nosencontramos con una rápida reseña decada una de las piezas que integran laantología, así como un rápido perfil his-tórico y esbozo personal del autor. En el

epílogo tenemos en diez estrictas páginasun resumen de algunas de las perspectivasprincipales del vasto complejo literario ycultural que constituye el humanismoeuropeo, comenzando con una detalladaexplanación del mismo término de huma-nismo y el apretado resumen de sus prin-cipales tesis de la mano de algunos de susmás señalados estudiosos (Burckhardt,Kristeller, Rico, Nauert). También aquí, yen el límite de sus escasas diez páginas,será fácil que cualquier lector eche en faltaalgún aspecto o autor: por poner un ejem-plo, la extraña ausencia de Eugenio Garin.Pero no se trata de hacer una historia delhumanismo —otra más— sino de pro-porcionar al lector unas perspectivas his-tóricas básicas para atacar los textos delvolumen dentro de una evidente econo-mía de medios. Y hay que decir que eseresumen epilogal cumple con acierto sufunción culminando con una explicaciónhistórica donde se detallan los perfilesbásicos del humanismo, su significaciónesencial para la tradicción cultural europeay algunos de los motivos que están en labase de su éxito, y entre ellos, el aciertoen asumir y responder a las aspiracionesy las necesidades de la sociedad de sutiempo.

Jorge García López

Le sette satire di Ludovico Ariosto nonerano state tradotte in castigliano, e pre-sentate con introduzione e annotazione,fino ad ora, fino a questo splendido volu-me che offre con tutta eleganza e chia-rezza la traduzione affrontata al testoitaliano e, in appendice, un succinto appa-rato di note puntuali, sia storico-illustra-tive che linguistiche; ma per chi abbia

avuto occasione di ascoltare l’autore dellatraduzione per esempio in un corso didottorato su Luis de Góngora, e quindinella sua vera veste di filologo e di esper-to di letteratura del Siglo de oro, vi era giàstato, omaggio discreto quanto gradito,il ghiotto assaggio della traduzione diAriosto satiro sotto forma del primolibretto della serie «Parva domus» del

Ludovico ARIOSTO,Sátiras,edición bilingüe, traducción, prólogo y notas de José María Micó, Barcellona: Península, 1999.

Ressenyes Quaderns d’Italià 6, 2001 205

Seminari d’Edició de textos dell’UniversitàPompeu Fabra (Barcellona, 1997). Anchein quell’occasione l’edizione era bilingue;conteneva la traduzione della I, della II edella VI delle Satire e nella breve avver-tenza Micó si dichiarava, tra l’altro, inattesa della prossima traduzione comple-ta, con prologo e note. Ed eccola qui; siapprezza in una simile operazione (accan-to all’ampia selezione e traduzione del Deremediis utriusque fortune di FrancescoPetrarca, Península, 1999) la costante pas-sione degli studia humanitatis, lo sguardoaperto sull’universo umanistico-rinasci-mentale e sulle sue fitte trame geografi-che e culturali, in una parola soprattuttol’intenzione appassionata di fare, comequasi per diletto, ai grandi spiriti di un’e-poca d’oro amati, studiati, l’estremoomaggio possibile oggi, la loro circola-zione e — hoc erat in votis — la loro let-tura; infatti questa traduzione, nella vesteeditoriale in cui si presenta, offre tutti ipregi, e nessuno dei vizi, di un’edizionealtamente e raffinatamente divulgativa.

«L’essenza autobiografica è una solacosa con l’essenza moralistica delle Sati-re» avvertiva Segre, e nel Prólogo Micó,incisivo, fa il punto proprio sulla con-densazione di epistola e satira orazianenella scrittura ariostesca che trasforma,attraverso l’assillo del verso, il disincantoin ironia, l’ironia somma dell’Ariosto sati-ro (che senza l’Orlando non si capirebbe,come avverte il traduttore, ed è vero ancheil contrario) che parla di sé come di unabestia da soma che a differenza delle altrenon accetta facilmente certi carichi, anzirompe il dosso, o che identifica lo starein corte con l’esser servi, come cantanoaspri i famosi versi «So ben che dal parerdei più mi tolgo / che ‘l stare in corte sti-mano grandezza, / ch’io pel contrario aservitù rivolgo», III, 28-30. Nella vestepreziosa e insieme quotidiana delle terzi-ne di endecasillabi, nella parola taglien-te, le Satire lette oggi ci riportano un’altravolta al non mai risolto problema dellalibertà e della vita di un artista e della sua

relazione con la società, problema che l’A-riosto fa bruciare vivissimo in molti deiversi delle satire e che ha, per lui comeper noi, radice poetica, ossia vitale, nel-l’inesauribile «Tu proverai sì come sa disale / lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale».

La traduzione passa dalle terzine diendecasillbi all’endecasillabo sciolto, nel-l’impossibilità di conservare la rima(Notas, p. 140), impossibilità che nullatoglie al pregio dei risultati e che rientraperfettamente nel progetto di raffinatadivulgazione della collana (Crespo e Sagar-ra, ricreando la terzina dantesca, visseroun altro spazio della traduzione e, evi-dentemente, di altra opera). La traduzio-ne di Micó è sempre di impeccabileesattezza e nell’insieme si osserva cheriproduce abbassato e contemporaneiz-zato il tono apparentemente piano, e dicorrispondente umiltà di stile, dell’origi-nale, in cui è lo scarto linguistico internoa conservare e ad esprimere per accensio-ni ricorrenti il sostenuto dell’eleganza let-teraria e dell’orgoglio ferito. Nella generalemedietà realizzata dalla traduzione spic-cano momenti linguisticamente e lette-rariamente notevoli, come I, 226-228: «Siquiere que le sirva (sin sacarme / del cor-rillo) con pluma e con tintero, / puedesdecir: “Señor, mi hermano es vuestro”»(«Il qual se vuol di calamo et inchiostro/ di me servirsi, e non mi tòr da bomba,/ digli: “Signore, il mio fratello è vostro”»),in cui l’attenzione cade sull’espressionesin sacarme del corrillo<e non mi tòr dabomba e la felice, letteralmente rotonda,corrispondenza corrillo<bomba; come VI,19-21: «Sé que está la doctrina más amano / que la bondad: hoy casi es impo-sible / que de su unión florezca brote algu-no» («So ben che la dottrina fia più presta/ a lasciarsi trovar che la bontade: / sí mall’una ne l’altra oggi s’inesta»), che nellariformulazione e dislocazione dei signifi-canti conserva esplicitandola la metaforadell’innesto, que de su unión florezca brotealguno<sí mal l’una ne l’altra oggi s’inesta,

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anche metricamente compiuto; come V,256-258: «Si se equivoca alguna vez,regáñala / sin ira y con amor: ya es buencastigo / hacerla enrojecer sin coloretes»(«Se pur talvolta errasse, l’ammonisci /sanza ira, con amore; e sia assai pena / chela facci arrossir senza por lisci»), con laritmica soluzione sin coloretes<senza porlisci.

Annotiamo infine due luoghi, tra imolti, esemplari dell’abbassamento o pro-saicizzazione, spesso e utilmente spiega-zione dell’originale, che caratterizzano latraduzione: «Hace que sienta menos lapobreza; / que no desee la riqueza tanto/ que mi libertad deje por buscarla; / queno ambicione cosas imposibles, / que eldesprecio o la envidia no me coman / siel señor llama a Celio o a Marón, / puesno espero, en las noches de verano, / cenarcon el señor para ser visto: / no medeslumbran esas vanidades; / yo voy soloy a pie donde me lleva / mi deseo, y siquiero ir a caballo / le amarro las alforjasa la grupa», I, 166-177 («Fa che la povertàmeno m’incresca, / e fa che la ricchezzasí non ami / che di mia libertà per suoamor esca; / quel ch’io non spiero aver, fach’io non brami, / che né sdegno né invi-dia me consumi / perché Marone o Celioil signor chiami; / ch’io non aspetto amezza estade i lumi / per esser col signorveduto a cena, / ch’io non lascio accecar-mi in questi fumi; / ch’io vado solo e apiedi ove mi mena / il mio bisogno, equando io vo a cavallo, / le bisacce gliattacco su la schiena»), in cui spicca la

riformulazione que no ambicione cosasimposibles<quel ch’io non spiero aver, fa ch’ionon brami; ancora, IV, 49-54: «Yo nomato, no hiero, no importuno / a nadie,solo siento estar tan lejos / de la mujerque siempre está conmigo: / no digo queno sea yerro el mío, / más no tan graveque no pueda el vulgo / -que admite otrospeores- perdonarme» («Io non uccido, ionon percuoto o pungo, / io non do noiaaltrui, se ben mi dolgo / che da chi mecoè sempre io mi dilungo: perciò non diconé a difender tolgo / che non sia fallo ilmio; ma non sí grave / che di via più nonme perdoni il volgo»), tra sintesi fino allasoppressione e aggiunte esplicative comela mujer que siempre está conmigo<da chimeco è sempre: la traduzione toglie dub-bio e magia ad Alessandra Benucci, coleiche «tien del mio cor sola la briglia», IV24, colei che riempie della sua assenza ilfinale della satira VII, nella pudibondaironia che converte l’amata in preterizio-ne poetica oltre che biografica (le note disolito salvano l’anagrafe, e la poesia). Sipotrebbe continuare, riportando peresempio le ultime tre terzine della satiraI, o citando puntualmente l’incipit di cia-scuna delle satire, perché la traduzionesuona allettante fin dall’inizio; non sifarebbe altro, però, che insistere nell’in-vitare il lettor a prendere questa poesia ea deliziarsene, tra le sapienti spine dell’i-ronia dei tempi, della vita, della lingua.

Maria Pertile

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Girolamo de Miranda, estudioso de lacultura napolitana de la Época barroca,ofrece en esta nueva obra una parte de sutesis doctoral, elaborada en el Departa-mento de Filología Moderna de la Facul-tad de Letras de la Universidad FedericoII de Nápoles, entre los años 1991 y1994. El resultado es una visión amplia,documentada y bien contextualizada dela producción literaria de la Academia delos Ociosos, de Nápoles, así como la he-terogénea composición social de susmiembros, y la estrecha relación que laAcademia mantuvo con las más relevan-tes figuras políticas e intelectuales deNápoles y Sicilia. A través de sus páginasse aprecia la actividad de la nobleza y delalto funcionariado napolitanos, al servi-cio de la monarquía hispánica, y es posi-ble realizar una valoración diferente ymucho más matizada de la incidenciapolítica y cultural de las autoridades espa-ñolas en el reino napolitano, gracias alestudio del entorno de las cortes virrei-nales, en la primera mitad del siglo XVII,en pleno apogeo de la cultura áurea espa-ñola.

El eje central conductor de la obra loconstituyen las academias literarias y suimportancia a partir del siglo XVI, espe-cialmente en Italia, que ostenta la prima-cía en Europa. Se analizan las relacionesentre el poder político (foráneo) y la socie-dad napolitana a través de estas institu-ciones culturales, con lo que, en brevetiempo, las academias no solo adquierenrelevancia histórica sino que ejercen unafunción complementaria de legitimaciónde las elites autóctonas. El estudio con-creto de la «Accademia degli Oziosi», elsimbolismo de su nombre, la composi-ción social de sus miembros, vinculadosmayoritariamente a las más ilustres fami-

lias de la nobleza napolitana (los Bran-caccio, Carafa, Spinelli, etc.) así como laestrecha vinculación con los dominicos,constituyen el marco previo al análisis delas actividades académicas llevadas a caboentre 1611 y 1645, año este último de lamuerte del principal impulsor de la Aca-demia, Giambattista Manso, príncipe deVilla. De esta etapa merecen destacarsedos momentos directamente relacionadoscon el dominio español. El primero coin-cide con el virreinato de Pedro Fernándezde Castro, conde de Lemos (1611-1615),en el período inicial de la Academia, cuyosmiembros fundacionales compartían unmismo amor por la literatura. Una partedestacada de las publicaciones, en latín oen vulgar, responde a las composicionespoéticas destinadas a las ceremonias y fas-tos funerarios dedicados a los miembrosde la familia real española. Destaca en estatarea la colaboración directa de BartoloméLeonardo de Argensola, a la sazón estre-cho colaborador del virrey. El conde deLemos supo aprovechar con habilidad susestrechas relaciones con la Academia, através de la cual pudo mantener un diá-logo abierto con las diversas faccionesnobiliarias napolitanas y asegurarse unclima de cooperación e integración en laadministración española.

La otra etapa digna de relevanciacorresponde al virreinato de Pedro Téllezde Girón (1616-1622), duque de Osuna,personaje de incuestionable cultura, perode modales políticos y diplomáticos hartodiferentes de los de su predecesor. Eldesinterés por mantener y renovar unaeficaz burocracia, diversos problemas yenfrentamientos con la alta jerarquía ecle-siástica napolitana o el distanciamientode la aristocracia local, tienen su reflejoen un claro alejamiento de la Academia

Girolamo DE MIRANDA,Una quiete operosa. Forma e pratiche dell’Accademia napoletana degli Oziosi (1611-1645), Napoli: Fridericiana Editrice Universitaria, 2000.

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misma y sus miembros, centrada duran-te este periodo en la actividad teatral, laexagerada devoción a santo Tomás deAquino y el apoyo a los dominicos fren-te a la obsesiva protección de los jesuitaspor parte del duque de Osuna. No falta-ron, sin embargo, los trabajos literarios,especialmente destacables los de Giam-battista Basile, a quien se atribuyen diver-sas ediciones críticas de obras en vulgar,como las Rime de Bembo, junto a com-posiciones poéticas propias, en italiano oen español; esta actividad puede conside-rarse como paradigma del cambio opera-do en las preferencias literarias de laAcademia, abierta definitivamente a laslenguas vulgares. A la vez que se conservael peso del grupo fundacional de la Aca-demia, fiel al poder virreinal, fuese cualfuese; grupo que manifestó su adhesióna Osuna encargando a Giambattista Basi-le un texto teatral, Il Giron, para celebrarlos triunfos navales del duque contra losturcos. Los años posteriores vieron desfi-

lar por la Academia y la corte virreinalintelectuales y poetas del prestigio de Gio-vanni Battista Marini, los hermanosArgensola, Antonio Mira de Amescua oel conde de Villamediana, de cuya cola-boración y adhesión puede considerarsereflejo el «Cancionero italoespañol», com-puesto entre 1625 y 1635, originaria-mente dedicado al duque de Alba y,posteriormente, completado con otrascomposiciones dedicadas a Adriana Basi-le, hermana de Giambattista.

Un curioso apéndice documental ycronístico, con la edición íntegra de losestatutos de la Academia y diversos testi-monios contemporáneos, ajenos a la ins-titución, completan un sugerente yamplio estudio, que ha sido capaz deaunar y fundir el interés histórico y lite-rario por una institución y un períodoharto significativos de la historia de Nápo-les.

Montserrat Casas

Per quanto non si possa dividere la criticadel Novecento in detrattori di Campanada una parte e in campanofili dell’altra,il nome del Poeta traccia comunque unconfine che ha percorso le poetiche e leantologie di quello che Hobsbawm avreb-be poi chiamato il «secolo breve». Da unlato si schierino i riduzionisti, da Conti-ni a Mengaldo, passando per la stronca-tura di Saba («era matto e solo matto»);dall’altro gli esaltatori, che vanno dallacoppia neoavanguardista Anceschi-San-guineti — che nel Marradese ritrova ilcentro propulsore delle esperienze espres-sionistiche del Novecento — fino ad arri-vare alla linea ermetica Bigongiari-Luzi,per cui l’orfismo diventa parola chiave in

una riappropriazione poetica che negal’opposizione visivo/veggente. E perciò èoltremodo imprecisa quella calata di tonocon cui Carlos Vitale, nel prologo all’e-dizione spagnola, fa il punto sulla que-stione critica sostenendo che «los Cantosórficos convierten rápidamente a Campa-na en un “mito” de la poesía italiana delsiglo XX». Ma al di là di questi piccoli inci-denti di percorso, il testo di presentazio-ne e la cura del volume si rivelano, ingenerale, senz’altro validi. Il lettore spa-gnolo viene infatti avvicinato alla figuradi Campana con un’introduzione che nonsi limita — come purtroppo avviene sem-pre più spesso — a un semplice scorciobiografico ma riesce ad essere piacevol-

Dino CAMPANA,Cantos órficos y otros poemas, Barcellona: DVD ediciones, 1998.

Ressenyes Quaderns d’Italià 6, 2001 209

mente divulgativo senza perdere di vistale linee essenziali sull’autore, sull’opera esulla fortuna critica. Il tallone d’Achilleè, piuttosto, la mancanza di una notabibliografica sugli studi e le traduzioni diCampana in Spagna: senza scendere ingiudizi di merito, bisognava dar atto alme-no dell’esistenza di un’altra versione deiCanti Orfici in lingua castigliana portataa termine nel 1991 da Pedro Luís Ladrónde Guevara Mellado, che in fondo si è alungo occupato del Marradese in varisaggi e articoli. E non avrebbe poi sfigu-rato un elenco delle traduzioni parzialipubblicate in passato, di cui la maggiorparte ad opera dello stesso Vitale (e sisegnala al proposito la sua scelta corposadei Cantos Órficos pubblicata nel 1984 aSaragozza per i tipi dell’Olifante).

Tornando all’edizione in esame,comunque, dobbiamo attribuirle ancoraun altro valore preliminare. Le difficoltàtecniche nelle pubblicazioni di opere contesto a fronte (o, come in questo caso, apiè di pagina) sono particolarmente insi-diose, per cui i refusi sono all’ordine delgiorno: qui, invece, bisogna constatare laquasi totale correttezza della riproduzio-ne dell’originale italiano.

Ma entrando infine nel merito dellatraduzione, va riconosciuto lo sforzo concui Vitale ha cercato di aggiustare in spa-gnolo il linguaggio visionario di Campa-na. I migliori risultati vengono raggiuntisenza dubbio sul piano semantico e,soprattutto, nei brani in prosa, quandoevidentemente il traduttore si sente sgan-ciato da parecchie costrizioni formali. L’at-tacco con cui riproduce l’incipit della«Notte» è, in tal senso, emblematico:«Ricordo una vecchia città, rossa di murae turrita, arsa su la pianura sterminata nel-l’Agosto torrido, con il lontano refrigeriodi colline verdi e molli sullo sfondo»diventa «Recuerdo una vieja ciudad, demuros rojos y torreada, abrasada sobre lainfinita llanura en el tórrido agosto, con ellejano alivio de colinas verdes y suaves alfondo». Basta, in definitiva, la posposi-

zione di un aggettivo («rojo») e la felicesoluzione di un sostantivo («alivio» per«refrigerio») per dare una versione imme-diatamente convincente. Meno forte sidimostra invece Vitale di fronte alla metri-ca campaniana. E lo sguardo non può,ora, non uscire dagli Orfici propriamen-te detti per vagare fra le altre poesie, allaricerca dell’attacco del «Notturno teppi-sta», con cui quest’edizione spagnola sichiude. Ripetiamo il famoso verso di aper-tura di Campana: «Firenze nel fondo eragorgo di luci di fremiti sordi». Nella ver-sione di Vitale: «Florencia al fondo eraun torbellino de luces, de estremeci-mientos sordos». Ecco: una minuzia comequella virgola al centro diventa l’indiziopiù chiaro della trasformazione. Si è perso,insomma, il ritmo anapestico, triadico einfernale che sosteneva circolarmente tuttoil verso, e il sabbah metropolitano diCampana si salva nella traduzione solofuori dalla metrica, merito del resto di unsostantivo allungato e foneticamente ruvi-do come «estremecimientos».

Stessa osservazione si potrebbe fareper la traduzione di «Batte botte». Anchelì il lettore è trascinato ad imum dagli ana-pesti martellanti che riproducono i movi-menti spasmodici della nave: «Ne la nave/ Che si scuote, / Con le navi che per-cuote / Di un’aurora / Sulla prora / Splen-de un occhio / Incandescente». (E vienein mente, a confronto/scontro, la placi-da malinconia catulliana del vecchio fase-lo presentato nei trimetri giambici puriche scandivano il tonfo dei remi sulleacque: «PhasElus Ille quEm vidEtishOspitEs, / aIt se fuIsse nAviUm celEris-simUs»). Ma Vitale sceglie di non rispet-tare la catena accentuativa per giocaretutte le sue carte sulla fonetica: «En lanave / Que se debate, / Con las naves quepercute / De una aurora / Sobre proa /Brilla un ojo / Incandescente». Dove, sinoterà, la consonanza «se debate» e «per-cute» è rinsaldata dal titolo del componi-mento mantenuto il più fedele possibile:«Bate botes». E il risultato dev’essere frut-

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to di un ragionamento sofferto dato chelo stesso traduttore, nel 1989, nel florile-gio campaniano Viaje a Montevideo y otrosviajes (Pamplona, Pamiela), si era accon-tentato di un più anodino «Pega botes».

Ma fermiamoci qui. La versione spa-gnola, anche nei passaggi più ardui, rima-ne pur sempre credibile e godibile. Unprodotto ben riuscito e ben curato, mal-grado l’orribile immagine in copertina:

un biglietto scaduto della metropolitanadi Barcellona, la cui obliterazione riman-da alla data di morte del Poeta. Peccato,perché Sergio Gaspar, factotum dellaDVD, ci aveva abituati, con una graficamoderna e aggressiva, a risultati certa-mente molto più convincenti.

Francesco Ardolino

Nos hallamos, sin duda, ante uno de lospoetas españoles que en estas últimasdécadas más inclinación ha demostradohacia las letras italianas. En la presenteantología serán muchos quienes percibanel eco de los Poetas italianos contemporá-neos que Antonio Colinas publicó en1977. Desde esa fecha ya lejana hastanuestros días, el autor ha perseverado conregularidad en su trayectoria vertiendo alcastellano algunos de los textos másemblemáticos de los siglos XIX y XX: Lascenizas de Gramsci (1975), los Cantos deLeopardi (1980), Cristo se paró en Éboli(1982), las Poesías completas de Quasi-modo (1991), El jardín de los Finzi-Con-tini (1993). La Antología esencial de lapoesía italiana que ahora nos ocupa reca-pitula los intereses y trabajos de todosestos años, pero no sería justo ver en ellauna simple refundición de viejos ma-teriales, por más que recoja tanto tra-ducciones leopardianas como un grannúmero de las incluidas en la antologíade 1977: versiones de Saba, Campana,Cardarelli, Ungaretti, Montale y Quasi-modo. Colinas ha sometido a revisióncada uno de los textos recuperados, a lavez que ha suprimido, sustituido o aña-dido poemas en todos y cada uno de losautores. Lo más significativo, sin embar-

go, es que la nueva antología recorre todala historia literaria italiana, y satisface asis-tir a esta ampliación cronológica, habidacuenta, por un lado, la vasta difusión quegarantiza la editorial en que el volumenha visto la luz y, por otro, la falta de anto-logías en lengua castellana de estas carac-terísticas desde la histórica de Juan LuisEstelrich, publicada en 1889 y nunca ree-ditada.

Menor satisfacción produce, en cam-bio, el criterio de Colinas como colector.Y es que, pese al predominio de traduc-ciones suyas, el volumen incluye otras dediferente mano, hasta el punto de que —como el propio Colinas declara—podría hablarse de una antología de tra-ductores. Nadie —esperamos— nos acu-sará de dogmatismo o intransigencia siafirmamos que resulta difícil conjugar ladisparidad de estilos y criterios en una ope-ración «compuesta» de esta naturaleza yno se nos censurará —en virtud de esamisma heterogeneidad— por haber teni-do que renunciar en estas páginas a cual-quier valoración cualitativa de lastraducciones. Seleccionar y traducir noparece, en suma, ser la doble cara de unamisma moneda, como el título Antologíaesencial de la poesía italiana sugiere. Se pue-den seleccionar traducciones y, por lo

Antonio COLINAS,Antología esencial de la poesía italiana,Madrid: Espasa Calpe (Colección Austral), 1999, 477 p.

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tanto, rendir justo homenaje a los ya clá-sicos Carlos Alvar (Dolce Stil Novo),Ángel Crespo (Dante y Petrarca), LuisAntonio de Villena (Miguel Ángel, Areti-no y Sandro Penna), José Agustín Goyti-solo (Pavese), Carlos Manzano (Bassani),etc. Menos convincente resulta el intentode mantenerse en un término medio,sobre todo si se presta atención a los home-najeados. No es que la mayoría de los ele-gidos no se merezca el protagonismo queles brinda Colinas, pero las ausencias resul-tan, pese a ello, desconcertantes. Dignode elogio es que Colinas haya autoexclui-do sus traducciones de Pavese en favor delinsuperado José Agustín Goytisolo, peroes inevitable preguntarse qué lo ha indu-cido a prescindir de otras aportacionescomo, por ejemplo, las de Joaquín Arcecomo traductor de Montale y MiguelÁngel o las de los latinoamericanos Hora-cio Armani y Carlos Vitale, autores a suvez de meritorias antologías de poesía ita-liana contemporánea. Una última obser-vación: ¿por qué para Ariosto es escogidala traducción del siglo XVI de Jerónimo deUrrea? ¿No resta homogeneidad al «siste-ma comunicativo» instaurado por la anto-logía? O bien, admitiendo que se abranlas puertas a las traducciones antiguas, ¿erala única digna de aprobación para el antó-logo? Recuérdese, sin ir más lejos, el cele-brado Aminta traducido por Juan deJáuregui, que aquí cede paso a un frag-mento vertido por el propio Colinas.

Otros interrogantes surgen en lo querespecta al valor representativo de estaantología y a la selección de autores. Eneste sentido queremos señalar que el iti-nerario propuesto es, en general, extre-madamente áulico y en ningún momentose hace eco del ya más que consolidadoreencuentro de la crítica literaria italianacon la línea jocosa, popular y «plurilin-güe» de su tradición. Así, por ejemplo, siempezamos por el nutrido grupo demedievales, se incluye a Giacomo da Len-tini, pero se omite a Cielo d’Alcamo. Seofrece una amplia gama de stilnovisti (si

bien sorprende que entre los poemas deCavalcanti no se encuentren la cancióndoctrinal Donna me prega… ni el celebé-rrimo soneto Tu m’hai sì piena di dolor…)y un atinado florilegio petrarquesco, fren-te a los cuales la única presencia «alter-nativa» es la de Cecco Angiolieri, puesincluso en un texto como la Divina Come-dia, tan rico en registros, la selecciónapunta unívocamente hacia la alta retó-rica. En la épica del Humanismo y elRenacimiento se da cabida a Ariosto, noa Pulci ni a Boiardo —este último, sinembargo, bien representado como poetalírico, en llamativo contraste con la ausen-cia de Bembo y Tansillo—. Menos enconsonancia con esta tendencia, y por lotanto de difícil explicación, la ausencia deParini en el siglo XVIII y el escaso relievedado a Manzoni en el XIX, del cual Coli-nas traduce únicamente un fragmento delPentecostés (¿por qué romper la unidad deuna poesía?), y no la bella y famosa odaIl cinque maggio, entre cuyas muchas tra-ducciones existentes cabía sólo «l’imba-razzo della scelta».

En lo que respecta al siglo xx, queocupa un tercio del volumen, Colinassigue fiel a sus preferencias «monolin-gües», dejando muy en segundo plano lascorrientes vanguardistas y experimenta-les, además de quedar notablemente anti-cuada la lista de autores. Las vanguardiashistóricas quedan reducidas a un frag-mento de un poeta menor como Soffici,el único futurista entre los antologados,y dos poemas de Palazzeschi. De Gozza-no se ofrece un fragmento insignificanteque nada dice sobre la originalidad delautor de los Colloqui. Pocas son las vocesde la segunda mitad de siglo, y en partees comprensible, puesto que se ha deci-dido no incluir a ningún autor vivo —aunal precio de ignorar a Zanzotto y MarioLuzi—, pero habría que preguntarse porqué no hay sitio para poetas fallecidoscomo Caproni, Sereni, Fortini o Berto-lucci y, sobre todo, qué ha impulsadoa eliminar a Pasolini, presente en la an-

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tología de 1977, para sustituirlo porBassani.

Terminaremos mencionando el esca-so protagonismo otorgado a las mujeresen esta antología: cincuenta y dos auto-res frente a tres autoras, todas ellas delsiglo XVI. ¿Era necesario prescindir denombres tan reconocidos como los de AdaNegri o Amelia Rosselli —por citar sólodos ejemplos de escritoras «muertas»—?Un poeta colector tiene todo el derechode hacer su antología, pero en ese casohubiéramos preferido que respondiera ver-daderamente a ese gusto personal expli-citando con mayor rigor los criteriosseguidos y asumiendo el riesgo de tradu-cir todos los textos elegidos. En cualquier

caso, sin analizar otras infracciones al cri-terio de representatividad, como el desa-juste en la distribución de textos porautor, el simple hecho de que la ediciónno sea bilingüe impediría responder posi-tivamente al augurio con que se cierra lapremisa al volumen: «nos sentiríamossatisfechos si el lector español, especiali-zado o no, encuentra en las páginas quesiguen una referencia de primera manopara una mayor y mejor aproximación ala poesía italiana de todos los tiempos».La traducción, por excelente que sea, noes nunca una «referencia de primeramano». En poesía, menos aún.

Helena Aguilà

Carlos Vitale aveva già tradotto quattroanni fa per Igitur/poesía il primo libro diUngaretti, L’Allegria (1914-1919), ed oraè ritornato con il libro che, almeno nellaprospettiva di un oggi che considera il per-corso artistico della vita d’un uomo, è forseil più grande del lucchese egiziano: Il Dolo-re (1937-1946). Con questa traduzione sifa più completa l’ideale mappa dell’Un-garetti poeta tradotto in volume, senzacontare le numerose antologizzazioni: Sen-timento del tempo (1919-1935) è stato rie-ditato insieme alla traduzione nuova deLa Terra Promessa (1935-1953) da TomàsSegovia (Gutenberg, 1998; cfr. Quadernsd’Italià, n. 4/5); Il Dolore, che cade cro-nologicamente in mezzo alle due raccol-te, esce ora, essendo da tempo introvabilela storica traduzione di Vintilia Horia(Madrid, 1958); possiamo leggere Il Tac-cuino del vecchio (1952-1960) nella tra-duzione di Luis Muñoz (València, 2000).

Il bel volume di Igitur offre intelli-gentemente, e come è costume della col-

lezione, la traduzione e a piè della stessapagina l’originale; porta in seconda dicopertina la famosa nota autoesegeticacon la quale Ungaretti spiega nelle Noteda lui preparate insieme ad AriodanteMarianni per la prima edizione nei Meri-diani della Vita d’un uomo, a cura di Pic-cioni, 1969, la ragion poetica piùpersonale e profonda del Dolore, la mortedel suo bambino: «…So che cosa signifi-chi la morte, lo sapevo anche prima; maallora, quando mi è stata strappata la partemigliore di me, la esperimento in me, daquel momento, la morte. Il Dolore è illibro che di più amo, il libro che ho scrit-to negli anni orribili, stretto alla gola. Sene parlassi mi parrebbe d’essere impudi-co. Quel dolore non finirà più di stra-ziarmi.» (Piccioni, p. 543); tale nota,accompagnata dall’altra nota con cui nel1947 Ungaretti introduceva l’edizionesempre mondadoriana negli Specchi,riprodotta all’interno del volume, prece-de la traduzione, ed è un peccato che

Giuseppe UNGARETTI,El dolor,prólogo de Antonio Colinas, traducción de Carlos Vitale, Montblanc: Igitur,2000.

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un’incongruenza tipografica, parificandola nota d’autore con la nota redazionaledi Marianni, guasti un po’ l’accuratezzadella veste editoriale e soprattutto l’ope-razione utilissima di tradurre anche le noted’autore così come stanno nell’edizionedi Piccioni.

Il Prólogo di Antonio Colinas, dinotevole densità interpretativa, proponefin dal titolo, Regreso a la alegría desde eldolor, una suggestiva visione del librocome maturazione della vera allegria chenasce di ritorno dal dolore: «…Al revésde lo que la cronología y los títulos de suslibros parecen indicarnos (al dolore por laalegría), en este libro, ya plenamente demadurez, hay un viaje sutilísimo y for-malmente muy logrado de ese dolor queda título al libro a una alegría mucho másdefinitiva. No está ahora el lector ante esaalegría fugaz, instantánea, de sus poemasbreves, ante el fogonazo del hallazgo inspi-rado, sino frente a una alegría que brota— como en el musical clamor beethove-niano — de las mismísimas raíces deldolor» (p. 12); visione suggestiva, illu-strata con forza dal parallelo musicale, mache, personalmente, non ci sentiamo dicondividere, sia perché L’Allegria ci risul-ta difficilmente convertibile da titolo acontenuto folgorantemente ingenuo delprimo lavoro ungarettiano (che non peressere il primo né per altra ragione mancadi piena maturità, al contrario ci è sem-pre sembrato nato tutto intero comeMinerva dal capo di Giove), sia perchéforse allegria e dolore non sono più népresenti né adoperabili, una volta oltre-passate certe soglie, come gli ultimi quar-tetti sembrano indicare. Nella maggiorparte del Prólogo Colinas espone con undiscorso estremamente tagliente e appas-sionato i contenuti storici e civili che illibro ungarettiano trasfigura e che sonouno dei tre temi del Dolore: la tragediadella seconda guerra mondiale e l’univer-sale strazio del massacro fratricida, in cuiColinas legge l’anelito metafisico che vivenell’invocazione del poeta a un angelo del

povero, a pecorelle e ad agnelli dispersi,al Santo che soffre, a una Patria che si faesilio. La memoria del fratello morto e laperdita del figlio bambino sono, come sisa, gli altri due temi, in parole di Unga-retti: «…Tutto ho perduto fu scritto inmemoria di mio fratello; in Giorno pergiorno e nel gruppo Il tempo è muto, è pre-sente Antonietto, mio figlio, perduto inBrasile; nelle altre poesie, Il Dolore è piùparticolarmente ispirato dalla tragedia diquesti anni» (Piccioni, p. 543; El dolor,p. 17); dopo l’ampia riflessione sulla guer-ra, nel penultimo paragrafo del Prólogoleggiamo: «Sin embargo, para terminar,—más allá de los símbolos y soluciones—,no hay que olvidar que este libro nacióbajo el influjo de un duro hecho que elautor reconoce como “tragedia de estosaños”. Me refiero a la muerte de su hijoAntonietto», e non sappiamo come con-ciliare la dichiarazione d’autore con la let-tura qui offertane.

La traduzione che Vitale ha fatto dellesedici poesie del Dolore ci sembra nell’in-sieme bella, muovendosi con equilibrioinstabile e personalissimo tra i due polidella limpida e sempre elegante letteralità(fin dove, ovviamente, sia possibile) e delcambio, o riformulazione o trans-scrittu-ra, se non addirittura della radicale inter-pretazione del frammento poetico, coninterventi che vanno dalla punteggiatura— modificata, aggiunta di solito piutto-sto che espunta — all’inversione sintatti-ca, dal trattamento degli articoli allasostituzione apparentemente sinonimicadi verbi e nomi, e, nel cambio, da unagenerale felicità di soluzioni a pochi puntiche non ci sembrano convincenti, comevediamo subito. Del primo polo ci sem-bra completamente esemplare Il tempo èmuto (p. 41), per sobrietà e coincidenzeanche ritmiche; qualche altro esempio,per frammenti: «He vuelto a las colinas,a los pinos amados, / Y del ritmo del aireel patrio accento / Que ya no oiré conti-go / Me quiebra en cada soplo…» (Sonotornato ai colli, ai pini amati / E del ritmo

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dell’aria il patrio accento / Che non riu-drò con te, / Mi spezza ad ogni soffio;Giorno per giorno, 10, p. 32); «Veo ahoraen la noche triste, aprendo / Sé que elinfierno se abre sobre la tierra / A medidaque el hombre se sustrae, loco / A la pure-za de Tu pasión» («Vedo ora nella nottetriste, imparo, / So che l’inferno s’apresulla terra / Su misura di quanto / L’uo-mo si sottrae, folle, / Alla purezza dellaTua passione», Mio fiume anche tu, 2, p.64, in cui però i cinque versi dell’origi-nale sono diventati una quartina); «En lasvenas, ya casi vacías tumbas, / El aún galo-pante afán, / En mis huesos que se hielanel guijarro, / En el alma la añoranza sorda,/ La indomable maldad, disuelve;» («Nellevane già quasi vuote tombe / L’ancoragaloppante brama, / Nelle mie ossa chesi gelano il sasso, / Nell’anima il rimpiantosordo, / L’indomabile nequizia, dissolvi»,primi versi di Nelle vene, p. 56; si noti lapunteggiatura nel primo verso in tradu-zione). Nel polo del cambio annotiamodue fatti ricorrenti, quasi stilema della tra-duzione: le inversioni sintattiche, sia all’in-teno del verso sia passandone la misura,e il trattamento dell’articolo: «Quién sabequé otros horrores / Me traerán los años[…] Busco en el cielo tu rostro feliz […]Una enfurecida tierra, un desmedido mar»(«Mi porteranno gli anni / Chissà qualialtri orrori […] In cielo cerco il tuo feli-ce volto […] Inferocita terra, immanemare», Giorno per giorno, 3, 7 e 9, p. 28,30 e 31); «Que la espera sin tregua delmal […] Por la ascensión de los milenioshumanos; / Ahora que, ya alterada, tran-scurre la noche, / Y aprendo cuánto puedepadecer un hombre; / Ahora mismo,mientras el mundo, / Esclavo, en una abi-smal pena se ahoga» («Che di male l’at-tesa senza requie […] Per ascensione dimillenni umani; / Ora che già sconvoltascorre notte, / E quanto un uomo puòpatire imparo; / Ora ora, mentre schiavo/ Il mondo d’abissale pena soffoca;» Mio

fiume anche tu, 1, p. 61-62); «Tienen unimperceptible susurro» («Hanno l’imper-cettibile sussurro», Non gridate più, p. 72).Sinonimie, che annotiamo frammenta-riamente: Y el rostro ya demacrado — Eil volto già scomparso; Corriendo sobre elpeso del aire inmóvil — Correndo nelpeso dell’aria immota; Mente fecunda —Genitrice mente; Invicto prolongaba, mor-tificándose — Invitto macerandosi pro-trasse; Del verdadero amor — Dell’amorenon vano (verdadero — non vano ci sem-bra discutibile); El vano renovarse / Dearena que se mueve — Il riversarsi vano/ Di sabbia che si muove (renovarse —riversarsi ci sembra invece particolarmenteefficace). I punti non convincenti: «Y teamo, te amo, y es una continua aflic-ción!…» («E t’amo, t’amo, ed è continuoschianto!…, Giorno per giorno, 8, p. 30);«Reconfortado por pertinaces humos» («Dapertinaci fumi risalito», Defunti su mon-tagne, p. 60); «Aún podría, / En un descui-do, estrechártela / De nuevo, hermano»(«Ancora potrei, / Di nuovo in uno slan-cio d’oblio, stringere, / Fratello, unamano», Se tu mio fratello, p. 24).

Ci sembra di poter concludere dicen-do che, nell’insieme, il testo tradottoappiana le complicazioni dello stile spes-so nominale ed ellittico dell’originale, conl’intenzione palese di ‘tradurre due volte’e quasi sempre in direzione di una certaprosaicità; sembra insomma che il tra-duttore si preoccupi più della compren-sione, da parte del lettore, dei contenutilirici che dello strumento attraverso ilquale essi passano e con il quale, evi-dentemente, nell’originale coincidonoinscindibilmente, preoccupazione (e con-traddizione) obbligata di ogni tradurre(di ogni poetare?) ma che dovrebbe esse-re transitoria, di passaggio verso la ri-crea-zione dell’originalità in un altro luogo, inun’altra lingua appunto.

Maria Pertile

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Negli ultimi due decenni Giorgio Caproniè stato senza dubbio uno dei lirici no-vecenteschi le cui quotazioni nella borsa-valori letteraria sono salite ed hannotrovato una fortuna critica di grande soli-dità. I segnali di questo passaggio da unacondizione di appartata minorità (le anto-logie di Contini e Sanguineti lo avevanoconsegnato ai margini del dibattito poe-tico, preferendo esperienze o di stilismopiù prezioso o rotture formali dai segnipolitici più marcati) ad una di centralitànel canone stanno tutti sia nell’alto gradodi attenzione critica alla sua opera (si vadalle monografie di Surdich, della Dei,della Frabotta, ai Convegni tematici a luidedicati, con Genova soprattutto comesede naturale del polifonico concerto cri-tico, per finire nell’apoteosi postuma delMeridiano della Mondadori, affine adun’edizione critica, grazie ad un appara-to di note monumentale e puntigliosocurato dal giovane filologo friulano LucaZuliani). I contributi sono stati molti edhanno svariato nelle variate direzioni chel’attività creativa di Caproni ha tenuto,perseguendo la totalità di un’esperienzadi scrittura che ha occupato un sessan-tennio: sono state riunite da Raboni (Lascatola nera, Garzanti, 1996) le moltepagine critiche sui contemporanei, uscitealla spicciolata su quotidiani e settima-nali italiani, sono state ristampate le aspreprove narrative nel racconto di media lun-ghezza, e sono state accorpate per la primavolta le innumerevoli traduzioni lirichedell’autore (Quaderno di traduzioni, Tori-no, Einaudi, 1998) dal francese (Char,Apollinaire, Frenaud, Prévert, Baudelai-re) e dallo spagnolo (García Lorca eManuel Machado).

Era nell’introduzione a questo volu-me che Mengaldo accennava ad un lavo-ro critico notevole, ma ancora inedito, di

un giovane dottorando a lui prossimo,lavoro che apportava dati e osservazioniinteressanti sulle costanti stilistiche delletraduzioni di Caproni, nella fattispeciequella, ardua, impervia, di «Mort à crédit»di Céline. Ora il contributo in questioneè uscito presso le edizioni dell’Istituto Vene-to di scienze, lettere ed arti (P. Benzoni,Da Céline a Caproni. La versione italianadi Mort à crédit, Venezia, 2000), e ad essodedicherò le righe che seguono.

La prospettiva critica, il taglio meto-dologico, che affiora subito dall’indice (lamateria argomentativa si divide in «Pun-teggiatura e sintassi», «Trame di suoni»,«Lessico e modi della traduzione», poiulteriormente suddivise) è quello della sti-listica comparativa e individualizzante (sihanno presenti i campioni analitici diContini su Gadda e Bacchelli traduttori,i numerosi interventi di Mengaldo supoeti traduttori come Solmi, Sereni, For-tini, Luzi e lo stesso Caproni), congiuntoad una forte attenzione ai fatti di storiagenerale della lingua. Il lavoro di Benzo-ni prende l’abbrivio da un raffronto tra idue sistemi linguistici del francese e del-l’italiano, insinuandosi nel corpo dellecompagini narrative, per dedurne a pocoa poco differenti opzioni estetiche. Se,infatti, la prosa narrativa di Cèline è ecce-zionale, non solo per merito di un voca-bolario svariante e sterminato, ma perscansione ritmica e inventività analogica,lo studioso mostra come il traduttore nonsi ritragga intimorito ma reagisca estro-samente, sciorinando trovate, gareggian-do in incandescenze. Caproni, si sostiene,dà vita ad un organismo linguisitico indi-pendente, e lo fa, naturalmente, allonta-nandosi dalle soluzioni più letterali, convariazioni profonde che vanno lette all’in-terno di un sistema di compensazioni.Soprattutto si tiene conto della non-coin-

Pietro BENZONI,Da Céline a Caproni. La versione italiana di Mort à crédit,Venezia: Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, 2000.

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cidenza della strumentazione linguistica:il francese popolare e l’argot non hannoun equivalente in Italia, Benzoni lo sabene e mostra come il traduttore da unaparte non assecondi l’anarchia gramma-ticale dell’originale, le sue emotive sloga-ture sintattiche, dall’altra rimpolpi ilfraseggio più continuo e fluido della tra-duzione, esplorando le risorse del tosca-no popolare, con fini di giocosa e corposaespressività. Si rileva anche come un’altramossa, agonistica, di Caproni sia stataquella di sfruttare pienamente le qualitàplastiche dell’italiano, la sua elastica capa-cità di far germinare nuovi vocaboli onuove suggestioni verbali da combina-zioni e formazioni inconsuete, inserzionidi prefissi o suffissi, agglutinamenti. E’ inquesto modo che l’irriducibile (intradu-cibile) espressionismo lessicale di Célinepuò trovare un equivalente italiano all’al-tezza (Benzoni non manca di contestua-lizzare la versione negli anni sessanta,quando la menippea linguistica di Gadda,e i pasticci stilistici dei narratori, Testori,Bianciardi, Arbasino, erano esperienzeall’ordine del giorno).

Se nei capitoli che abbiamo indicatoquello che prevale è un andamento ana-litico-descrittivo, attento alla schedaturadei fenomeni, concreto nei rilievi, le con-clusioni, come devono, spiccano un saltooltre, stringono in efficace sintesi inter-pretativa la dispersività dei dati testuali.

«L’impressione è che tra l’originale e latraduzione vi sia una sfasatura sostanzia-le per cui il fondo rabbioso e violentodella narrazione celiniana risulta smorza-to». Questa sfasatura viene ricondotta allesue origini psico-ideologiche, alla diffe-renza tra il nichilismo misantropico delfrancese e il pensiero ateologico, ma tre-mantemente umanistico, del poeta geno-vese, tra l’iraconda furia iconoclasta diCéline e la «disperazione calma/senzasgomento» di Caproni. Quello che si vienealla fine configurando da questa esperienzadi traduzione è una sorta di letterariaavventura nel dissimile, un «impulsivo attod’amore», un «atto temerario» (secondoparole posteriori dell’autore stesso) di-perdimento in un’ alterità, che diventascoperta di un sé, anche stilistico, altri-menti sconosciuto. E’ come se in Spagnaa tradurre la lirica di Caproni fosse unnarratore e un lirico basso e gergale, ma-ledettistico, come Sanchez-Ostiz: la si-tuazione si rovescerebbe, da affrontaresarebbe un melodismo insidioso, un fra-seggio di rime insistite, che nasconde, nonostenta, nella sua fluidità appena elegan-temente inceppata, uno psicologismoattorto e ombroso; da mettere da partesarebbero gli iterati artifici delle speri-mentazioni oraleggianti, le fosche e risen-tite armi dell’espressionismo linguistico.

Piero Dal Bon

Dopo quattro anni da La testa perdutadi Damasceno Monteiro, Tabucchi hapubblicato Si sta facendo sempre più tardi(marzo 2001), un romanzo epistolaremodulato su diciasette voci maschili edue femminili che si sovrappongononella lettera di Atropos-Arianna. Since-ramente, dopo aver frequentato per molti

anni la narrativa di Tabucchi, non so direse l’ultimo Si sta facendo sempre più tardisia un libro atteso, sia solo una scadenzaeditoriale o, come dice il protagonista diTe voglio, te cerco, te chiammo, te veco, tesento, te sonno, sia la raccolta di quantoTabucchi ha «composto in questi anni».L’autore del resto ci ha fin troppo abi-

Antonio TABUCCHI,Si sta facendo sempre più tardi,Milano: Feltrinelli, 2001, p. 230.

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tuati a queste perplessità poiché, esclu-dendo i romanzi o racconti di più imme-diato successo, è nota la patina diambiguità che avvolge le sue storie e ancorpiù le domande che provoca nel lettore.Anche in questa occasione gli interrogativinon mancano perché alla lettura tutto rie-cheggia e la sensazione del già letto, sen-tito o visto, prevale. Il lettore non puòche provare un «certo imbarazzo» in quan-to l’attuale libro è dominato da una fortecircolarità, volutamente non dissimulata,con la precedente produzione. Non solosi citano o menzionano i romanzi pub-blicati causando «claustrofobiche» itera-zioni alla Sostiene Pereira, ma il fil rougedi molti testi è l’attacco ex abrupto di Anywhere out of the world (in Piccoli equivocisenza importanza) di cui esempi chiaripossono essere gli inizi di ForbiddenGames o A cosa serve un’arpa con una cordasola? E il richiamo è insistente tanto daprovocare una sensazione di fastidio inchi legge; i mittenti ci obbligano a segui-re un loro itinerario a dir poco carsico cheattraversa queste lettere-racconto fino altaglio perentorio dell’«Adesso. Ora. Subi-to» della diciottesima lettera. La volontà didepistare confondendo con i molti riman-di musicali, fotografici e letterari è unaprassi conosciuta della sapiente gestionetestuale di Tabucchi, anche se qui sem-bra venir meno quel patto autoriale finora mantenuto con il lettore. In un mono-logo evocativo e amaro i diciotto scritto-ri parlano di un amore lontano, perdutoo sognato, un amore condizionato dalleregole della vita a cui nessuno può sot-trarsi: per chi le infrange o le nega c’è soloil silenzio. Aleggia su tutto il libro unsenso di rimpianto, di malinconico sguar-do al passato con la presente coscienzache quello che è stato non si può némodificare, né far rivivere. Una sorta ditristezza che non si ferma nemmenodavanti all’infantile vendetta di Buonocome sei, ai viaggi alla Walser o alla diciot-tesima lettera di Arianna. Il titolo, il refraindi «come vanno le cose. E cosa le guida:

un niente» e il finale risolutivo dell’ulti-ma lettera suggeriscono il sentimento dellaperdita, la consapevolezza dello scorreredel tempo, la coscienza che i giochi sonofatti e che è impossibile far tornare quan-to è già stato come, non a caso, ricorda ilgenere usato, scritto sempre in assenza deldestinatario e basato sulla distanza. Laveste epistolare già utilizzata, e mai in fun-zione neutra (vedi Il gioco del rovescio,Donna di Porto Pin, I volatili del BeatoAngelico), fa nascere il sospetto che Tabuc-chi sfrutti un genere «minore» per par-larci dello status della scrittura e diun’esistenza sofferente che ha questa voltacome centro l’amore, simbolo dell’alte-rità, della ricerca e dell’inseguimento del-l’altro o di se stessi. Ed è un amore fattodi ricordi, ma anche di rancore in Buonocome sei, di occasioni perdute in cui lescelte imposte dalla vita hanno determi-nato la lontananza dalla persona amata.Ma se la traccia sentimentale guida conuna scrittura affascinate e coinvolgente illettore va anche detto che questa certa-mente non è l’unica chiave di lettura.Diversamente non si possono spiegare lelettere di Libri mai scritti, viaggi mai fattiin cui chiarissima è l’influenza bartlebia-na di Vila-Matas, il «preferisco di no» inVigilia dell’Ascensione o in Occhi miei chia-ri, miei capelli di miele lettera-racconto incui la destinataria si è innamorata di unuomo che scrive libri solo mentalmente.Quel Robert Walser di cui Vila-Matasscrive «sabía que escribir que no se puedeescribir, también es escribir» è lo stesso acui Tabucchi dedica Sono passato a tro-varti, ma non c’eri. Frequenti le ripetizio-ni e le riprese che creano ambiguità fra leistanze dialoganti dell’io — il motivo dellalettera — e quelle formali-poetiche dellascrittura. La scelta del romanzo epistola-re, che l’autore non «esclude» sia basatosu «lettere d’amore» ci spinge ad interro-garci sull’intersezione del soggettivo delsentimento con l’oggettivo della scrittu-ra, del privato della storia con il pubbli-co del mezzo, della presenza con l’assenza.

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La fusione e lo scollamento dei due pianicontrapposti se da un lato accrescono lamagia della lettera, anche indirizzata «ase stessi», dall’altro non permettono allibro di trovare sempre una propria misu-ra. Mentre l’autoreferenzialità martellan-te e il citazionismo rischiano di bloccarela scrittura, i motivi palesi della lettera(l’appuntamento o il saldo con l’altro e/ocon il passato) e le ragioni più intrinse-che (la ricerca di un senso, i motivi chespingono alla stesura oscillanti fra mono-loghi interiori e intenti dialoganti con illettore) aprono la prospettiva meramenteindividuale all’orizzonte ontologico emetalettario. Si sta facendo sempre più tardiquindi, pur rappresentando la mappatu-ra di una geografia dell’anima ineditasubordinata alle coordinate temporali sim-bolicamente raffigurate dall’equinozio set-tembrino, suggerisce anche la volontà diandare oltre la scadenza del vissuto, di sot-trarre la scrittura al contingente, «di veni-re a patti con la mancanza di senso dellavita». Le lettere sono scritte a chi non c’èpiù, anche ai morti, rivisitando quelle voci(Kavafis) che da sempre accompagnanola prosa tabucchiana e che qui si fondo-no con le parole dei mittenti. L’«equivo-co messaggero» che porta in sè il segnodell’episodicità, della falsità e del fram-mento può rovesciare il proprio status eprospettare un’unità attraverso la ripeti-zione della frase menzionata, l’equinozio,il frattempo, lo specchio, il silenzio, lafinestra e non ultimo, la struttura aromanzo. Quindi la scrittura è sì falsifi-cazione della realtà, gioco semantico trale varie lingue (alvido/olvido), ma ancheunico scampo allo scorrere del tempo.Così se da un lato viene rincorso il mitobartlebiano del silenzio, dall’altro si affer-

ma che Lettera al vento è stata sottratta adun romanzo non ancora scritto ma giàesistente tantoché, il congedo dalle «sto-rie querule» dei propri personaggi che«Adesso. Ora. Subito» devono tacere, parepoco probabile. Come non mai, con ilchiaro rischio dell’eccesso, l’autore usababelicamente tutti i linguaggi possibilisiano essi fotografici, pittorici, musicali,letterari o idiomatici (uzbeco, ladino sefar-dita, portoghese, tedesco, inglese, france-se, napoletano) e questa schizofreniadell’espressione è anche specchio dello«smarrimento» dei diciotto mittenti chesondano i «territori ignoti» dell’amore. Leperplessità iniziali non si sono risolte, con-vivono piuttosto con la convinzione del-l’impegno formale e poetico di questolibro che saluto con piacere. Il gioco sot-tile che interpella l’esperienza del lettore(chi non ha ricevuto o scritto / non scrit-to una lettera?) mettendola a confrontocon il testo è anche la scommessa del-l’autore, e nostra, di formulare un’aggior-nata tavola di valori o di ipotizzarel’«apertura di una nuova fase» (Luperini)che caratterizza la narrativa odierna. Spin-te diverse muovono questo libro e solointegrando la cifra sentimentale con la let-teraria si può entrare nei complessi labirintiumani dell’alterità e della frammentazio-ne dell’io che da sempre caratterizzanol’accattivante prosa di Tabucchi segnatapiù dalla riflessione che dalle facili rispo-ste. Ai destinatari di Si sta facendo semprepiù tardi spetta quindi una lettura con-trassegnata da una volontà interrogante eorientata a ripercorrere i codici, anche esi-stenziali, del nostro tempo.

Nieves Trentini

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A che serve un dizionario di falsi amici?E come va consultato? Certo, normal-mente si parla di «strumento di base» pergli studenti, gli studiosi, i traduttori o iprofessori di lingua, ma nessuno poi vienea darci delle istruzioni concrete per l’uso.È difficile immaginare un qualunque let-tore, impegnato nell’interpretazione diun testo in un’altra lingua che, di frontealla parola che gli pare sospetta o il cuisenso all’interno della frase gli sembraassurdo, si scomodi per cercarne la defi-nizione in un dizionario del genere. Lacercherà, piuttosto, in uno bilingue (sec’è) o direttamente in uno monolingue— ammesso che la sua conoscenza dellalingua «straniera» sia sufficiente a fornir-gli una comprensione accettabile. Allora,un lavoro come quello di Turull è sem-plicemente uno studio lessicale destinatoa far bella presenza negli atti di un qual-siasi convegno di linguistica comparata?No. O meglio: non solo. Infatti, l’operain questione è senz’altro uno splendidoesempio metodologico di un approcciocontrastivo serio e pragmatico; ma è ancheun testo di lettura indispensabile perchiunque sia interessato — a qualunquelivello professionale — ai rapporti tra lalingua italiana e quella catalana. In altreparole, ora che questo dizionario è adisposizione dei lettori, la sua conoscen-za diventa obbligatoria e peccherà auto-maticamente di dilettantismo chi si vorràconcedere il lusso di cadere negli errori ditraduzione messi in luce da Turull. Insom-ma, è un’opera da leggere, rileggere e posa-re sul comodino più che accanto alcomputer, poiché la sua funzione è pro-pedeutica e non correttiva: proprio perquesto, bisogna armarsi di umiltà e con-sultarla per filo e per segno.

Ci si accorgerà, allora, della rigorosasistematizzazione di un corpus che toccasvariati piani stilistici; e con motivi piú

che validi, dato che non è assurdo pensa-re che anche uno studioso ben preparatopossa incappare nei tranelli tesi dalla con-fusione fra it. monopattino e cat. patinetda una parte e it. skateboard e cat. mono-patí dall’altra. Altre volte, invece, la defi-nizione del dizionario diventa uno stimoload ordinare e a far emergere alla coscien-za nuove classificazioni, per cui le esem-plificazioni della coppia it. risultare/cat.resultar non coprono forse del tutto lacasistica ma fanno chiarezza su vaste zoned’ombra e danno l’incentivo al lettore perproseguire da solo su una strada già cor-rettamente impostata.

Ma un dizionario come questo è fattoper essere discusso, criticato (con cogni-zione di causa) e, infine, personalizzato,non per essere accettato supinamente. Chiscrive questa nota dissente, per esempio,dall’incorporazione del binomio it. anco-ra/cat. encara, perché, in situazioni di que-sto tipo, le ambiguità sono così palesi che,ad ammettere la necessità di spiegarle, sidovrebbe aumentare a dismisura il nume-ro delle entrate. Lo stesso valga per l’in-serimento dell’it. teoria nel senso di fila,coda, talmente specifico da non poteressere considerato alla stregua di un veroe proprio falso amico. E poi, in terminidi equilibrio interno, tali presenze nonsono giustificate da alcune lacune (poche,a dire il vero) che sarebbe stato logicoriempire, come per it. bilancio e bilanciadi fronte ai corrispettivi cat. balanç ebalança. O, all’interno delle varie signifi-cazioni di roba nei due idiomi, non sareb-be forse stato fuori luogo segnalare anchela coincidenza del termine catalano conl’it. panni. Così, si stenta a condividere laposizione di Turull che evita «les parau-les que en italià tenen un ús vulgar o unasegona accepció en registre vulgar». Leragioni dichiarate dall’autrice nell’in-troduzione rimandano a problemi di

Isabel TURULL,Diccionari de paranys de traducció italià-català,Barcellona: Enciclopèdia Catalana, 2001.

220 Quaderns d’Italià 6, 2001 Ressenyes

dimensione dell’opera e, del resto, unavvertimento sui «fondamentali» (it. sco-pare e simili) è facile trovarlo. Ma vieneil sospetto di un’esagerata pudicizia nel-l’attribuire a sinonimo dell’it. trescare («lamoglie con il cognato») un insipido amo-reggiare (disonestamente), al quale avrem-mo preferito un più colloquiale se la faceva(con).

In generale, è ottima la scelta dellefrasi e la relativa traduzione. Le inesat-tezze sono davvero minime ma vannosegnalate. Per cui, «puoi voltare la fritta-ta quando sia cotta da una parte» è dicerto un calco un po’ frettoloso dal cata-lano, e di un italiano incespicante è«potresti badare alle mie piante mentremanco?». In ultimo, si segnala anche l’ac-cezione forzata dell’it. rimandare nella tra-duzione della frase «si em tornen asuspendre el llatí, canviaré de facultat!»,dove bocciare sembrerebbe più logico oltreche appropriato.

Ci si è soffermati solo sugli errori, realio presunti, che sono limitatissimi e pun-tuali. Ma l’opera rappresenta veramenteun salto in avanti rispetto ad altri testi

comparabili; e poi, diciamoci la verità,anche qualche dizionario italiano mono-lingue di altissima qualità ha il suo tallo-ne d’Achille proprio nelle tabelle dedicateai falsi amici con le altre lingue (tanto chespesso viene da chiedersi che bisogno cisia di inserirle).

Nel campo della catalanistica, invece,rispetto al Diccionari de paranys de tra-ducció francès-català, sempre dell’Enci-clopèdia Catalana, il volume di Turull haun terzo in meno di pagine ma, anche adun rapido confronto, le dimensioni nondeterminano un valore aggiunto, soprat-tutto se, come nel caso qui analizzato, cisi decanta a favore della razionalità e dellacoerenza. Inoltre, se si pensa che l’autri-ce ha dovuto lavorare senza poter con-sultare la versione definitiva del volumeItalià-Català dell’Enciclopèdia Catalana,in fase di stampa al momento della ste-sura di questa recensione, bisogna vera-mente parlare di un lavoro pioneristico.E, al tempo stesso, straordinariamentematuro.

Francesco Ardolino

Quaderns d’Italià 6, 2001 221

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L’esponente del rinvio per le note a pié di pagina verrà inserito dopo la pun-teggiatura e le parentesi ma precederà sempre la lineetta, come nei seguentiesempi:

Ne parleremo in seguito.1

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I riferimenti bibliografici andranno esplicitati in nota, segnalando per estesonome e cognome (quest’ultimo in maiuscoletto) dell’autore, luogo di edizio-ne, anno, pagina/-e (p.). Si prega di riportare integralmente il numero dellepagine: p. 345-347 e non 345-47. Se si fa riferimento ad un’edizione successiva

222 Quaderns d’Italià 6, 2001

alla prima sarà bene indicarlo aggiungendo un esponente all’anno di pubbli-cazione e riportando fra parentesi quadre la prima edizione. Ci si può basare sulseguente modello:

Francesco ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino: Einaudi,19873 [1973], p. 130-131.

I dati sulla traduzione di un libro citato seguiranno fra parentesi tonde quellidell’edizione originale (l’inserimento del nome del traduttore è discrezionale):

Robert SCHOLES e Robert KELLOG, The Nature of Narrative, New York: OxfordUniversity Press, 1966 (tr. it. di Rosanna Zelocchi, La natura della narrativa, Bolo-gna: Il Mulino, 1970).

I titoli degli articoli vanno inseriti fra virgolette caporali mentre i titoli delleriviste andranno sempre in corsivo come nell’esempio:

Cesare SEGRE, «La critica semiologica in Italia», Quaderns d’Italià, n. 1, 1996,p. 21-28.

Se si tratta di una rivista mensile o comunque con scadenze di pubblicazioneinferiori ad un anno sarà bene segnalare il mese (o i mesi) della pubblicazione.

Nel caso di volume collettivo si dovrà specificare il nome del curatore segui-to, senza virgola interposta, dalla formula: (a cura di). Per la citazione di unsingolo articolo ci si atterrà a questo criterio:

Giorgio BÀRBERI SQUAROTTI, «Il simbolo dell’artifex», in Emilio MARIANO (a curadi), D’Annunzio e il simbolismo europeo. Atti del convegno di studio Gardone Rivie-ra (14-15-16 settembre 1973), Milano: Il Saggiatore, 1976, p. 163-196.

Si cercherà sempre di evitare la formula AA.VV.

ALTRI SEGNI DIACRITICI

Si eviterà sempre l’uso delle sottolineature.

Si eviterà sempre di usare l’apostrofo al posto dell’accento con le lettere maiu-scole (per cui si scriverà È e non E’, ecc.).

Si cercherà di differenziare graficamente il trattino dalla lineetta. Es.:

Facendo attenzione a questi segni — per quanto possibile — si eviteranno ulte-riori problemi.

D’altra parte si scriverà:

dizionario italiano-spagnolo.

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