Io ho ucciso

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Delitti e atrocità commesse da personaggi reali

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Io Ho UccisoIo Ho UccisoIo Ho UccisoIo Ho Ucciso

Emanuele Cislaghi

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1° edizione Aprile 20121° edizione Aprile 20121° edizione Aprile 20121° edizione Aprile 2012

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A tutte le vittime.

Delle scelte sbagliate.

L’uomo deve poter scegliere fra bene e male,

anche se sceglie il male.

Se gli viene tolta questa scelta

egli non è più un uomo, ma un’arancia meccanica.

Stanley Kubrick

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Indice Indice Indice Indice

PREFAZIONE 6

PREMESSA DELL’AUTORE 15

LABELVAÈFUORI 18

NESSUNOTOCCHICAINO 31

SCUOLAMATERNA 47

ILPRINCIPEAZZURRO 62

LAMORTETIFABELLA 72

DICIOTTOCANDELINE 87

BENVENUTIALCIRCO 100

ILLUPOEL’AGNELLO 113

TUTTOILSUCCODELLAFOLLIA 124

LAFESTADELPAPÀ 137

COLORICHEESPLODONO 151

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BLACKJACK 163

GIORNODIBUCATO 175

LACARNEFABUONSANGUE 185

ILFIGLIOLPRODIGO 199

ILPRIGIONIEROPOETA 212

PENSIONEEDEN 226

ALFREDHITCHCOCKPRESENTA 239

SAPONETTEINOMAGGIO 251

GRANDEFRATELLO 265

PORGIL’ALTRAGUANCIA 279

BLOODYMARY 292

ILCAPPIOALCOLLO 304

EPILOGO 315

UN’ARANCIAAOROLOGERIA 317

FONTI BIBLIOGRAFICHE 325

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PrefazionePrefazionePrefazionePrefazione

C’era una volta un assassino…

Nessuno è totalmente buono o totalmente cattivo. Come

sosteneva La Rochefoucauld, “spesso ci vergogneremmo

delle nostre azioni migliori se il mondo ne conoscesse le

motivazioni”. Allo stesso modo determinati eventi della vita

possono rappresentare per alcune persone il punto di rottura

fra un’esistenza più o meno normale e il baratro del “male”.

Ed è proprio questo punto di non ritorno che indaga Io ho

ucciso. Emanuele Cislaghi mette al centro della sua raffina-

ta penna non il crimine, l’evento delittuoso, ma il criminale. I

racconti qui raccolti, tutti liberamente ispirati a fatti real-

mente accaduti a eccezione del letterario

Un’aranciaaorologeria, sono scritti in prima persona, favo-

rendo la capacità immedesimativa del lettore che viene tra-

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Prefazione

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scinato in un vero e proprio viaggio nella mente criminale,

attraverso lo spazio e il tempo. Le diverse ambientazioni,

descritte con realismo e con un attento cambio di registro

linguistico, conducono ad esempio, dai vicoli malfamati del-

la Londra vittoriana, lontani anni luce dal mondo edulcorato

di una Jane Austen o dai buoni sentimenti di un Dickens, al-

la Milano degli anni Cinquanta, caratterizzata dalla doppia

morale del “si fa ma non si dice”, passando attraverso la

Roma dell’occupazione nazista.

Di ogni criminale emerge un ritratto a tutto tondo. In modo

chiaro e incisivo l’autore sbozza, attraverso un’accurata in-

dagine storica e psicologica, una galleria di personaggi che,

pur non cercando di giustificarsi, raccontano i propri percorsi

di vita. E se è impossibile provare simpatia per chi ha com-

messo delitti tanto efferati, affiora tuttavia un sentimento di

empatia che l’autore crea conducendo nella psiche dei pro-

tagonisti se stesso e il lettore, portando entrambi a sospen-

dere momentaneamente il giudizio morale per concentrarsi,

invece, sugli stati d’animo e sugli eventi che precedono il

“punto di non ritorno”.

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Io ho ucciso è un libro che si legge tutto d’un fiato, un libro

che ci trasmette raccapriccio e, nello stesso tempo, ci attrae

irresistibilmente, e questo proprio perché nessuno è comple-

tamente buono o totalmente cattivo: la parte oscura, come

quella buona, è dentro ciascuno di noi. È il nostro stesso

contrasto interiore a spingerci con curiosità verso l’abisso

del baratro altrui per dare un’occhiata a cosa accade laggiù.

Emergono le paure ancestrali contro cui combattiamo fin da

piccoli e che, inconsapevolmente, cerchiamo di esorcizzare

con la lettura delle fiabe che ci mostrano pericoli e difficoltà,

ma che si concludono sempre con un roseo finale.

Cos’altro rappresentano orchi e streghe se non il “male”

che da adulti i bambini si troveranno ad affrontare nella vita

reale, nella società? La strega che nella propria spelonca

cuoce ingredienti misteriosi nel suo pentolone è poi tanto

lontana dalla saponificatrice di Correggio? L’orco che man-

gia i propri figli per poi pentirsene è così diverso dall’orribile

Josef Fritzl? Milena Quaglini non può, forse, essere conside-

rata una sorta di Barbablù in gonnella? E la storia di Hänsel

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Prefazione

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e Gretel non ricorda troppo drammaticamente quella delle

bambine tenute prigioniere dal mostro di Marcinelle?

Leggere per credere. E sarà forse con stupore che ci ac-

corgeremo che orchi e streghe sono fra noi.

Ilaria Mattioni

(Docente di Storia dell’educazione presso l’Università Cat-

tolica del Sacro Cuore e assistente di cattedra in Storia con-

temporanea presso l’Università degli Studi di Macerata)

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La ragione del male

Nel dare voce in prima persona ai protagonisti dei venti-

quattro racconti che compongono Io ho ucciso, Emanuele

Cislaghi si cala, senza mai invaderlo, in quel particolare in-

terstizio fra autore e fatto, difficilmente ricostruibile dallo

spettatore esterno e forse proprio per questo poco esplorato

nelle aule giudiziarie. Nel processo si tende piuttosto ad ana-

lizzare distintamente i due piani, quello soggettivo e quello

oggettivo. Ci si concentra sul soggetto agente per indagarne

eventuali patologie psichiche direttamente incidenti sulla

sua imputabilità, e ci si sofferma sulle dinamiche fattuali

per ricostruire una verità processuale il più possibile rappre-

sentativa delle coordinate spazio-temporali in cui un fatto di

reato, astrattamente ascrivibile a quel soggetto, si è consu-

mato. Gli esiti della duplice indagine vengono poi fatti siner-

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Prefazione

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gicamente confluire nella valutazione: fase prodromica alla

decisione sull’accertamento di responsabilità.

Molto diversa da questa consueta dimensione processuale

è quella in cui si inquadrano i ventiquattro racconti. Qui non

interessa più delineare le dinamiche del fatto, perché il fatto

è già stato commesso e ricostruito e viene solo nuovamente

descritto, a volte in modo incalzante, dal suo autore. Non in-

teressa neppure capire se è stata la malattia mentale la

molla scatenante gli atti seriali, o se lo stato passionale ha

indotto a eliminare il rivale dell’amore e, dunque, della vita.

Qui un responsabile c’è già, è già noto e diventa, dopo es-

serlo già stato nel processo, il protagonista della sua storia,

ma per farla rivivere e per rivelarne, appunto, aspetti rimasti

spesso inediti. Certamente incentivato, in questo compito,

dal fatto di essere virtualmente intervistato dall’Autore, il

quale però se ne sta in disparte e ascolta silente, senza giu-

dicare come già fatto da un Giudice, ciò che ogni omicida

vuole raccontare rimanendo immerso in quell’anelito di li-

bertà narrativa, che è l’unica forma di libertà rimastagli.

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In questo per lui sofferto amarcord, il singolo protagonista,

più che guardarsi dentro per scovare un pentimento quasi

sempre inesistente, guarda indietro, agli scalini più scoscesi

della sua vita che lo hanno fatto discendere verso il male.

Muovendosi agevolmente in questa retrospettiva, quasi tutti

i protagonisti sono impegnati per il raggiungimento di un fi-

ne dato per implicito: cercare la ragione del male e offrirla al

lettore, per consentirgli una chiave di lettura dei fatti diversa

da quella che il processo ha offerto alla cronaca, ai più.

Ognuno ha le sue ragioni, insediatesi in una vita difficile, e

assurte a spinta propulsiva per sconsacrare la vita altrui. C’è

chi racconta di un abbandono genitoriale risalente, in uno

con un senso di incompletezza o con una violenza fisica o

psicologica permanentemente subita nell’infanzia, per dare

una coltre di plausibilità all’avere sottratto violentemente ad

altri la felicità a lui mancata. C’è anche chi si appella alla

presunta causa di giustificazione dell’adempimento di un

dovere derivante da un ordine del superiore gerarchico per

bilanciare il male compiuto con un ineludibile senso di ri-

spetto per le sue vittime.

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Prefazione

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O chi invece percepisce la propria lucida determinazione a

raggiungere il fine omicidiario come una ragione, da un lato,

sufficiente per l’eliminazione cruenta degli ostacoli frappo-

stisi, dall’altro, necessaria per assicurarsi una meritata se-

renità. In questa ricerca della ragione del proprio male, ra-

ramente il lettore “ascolta” parole di autocommiserazione;

più spesso è il compiacimento per il gesto compiuto ad ave-

re la meglio, o la rabbia per una deviazione imprevedibile

dai propri piani, che diventa così irragionevole e inspiegabile

e stride fortemente con il male che appare agli occhi del

protagonista l’unica componente ragionevole della propria

esistenza.

Non mancano neppure le sfumature a mezz’aria fra

l’autoironia e il sarcasmo, celebrative delle proprie prodezze

per evadere da una condizione più o meno perpetua di re-

strizione della libertà personale. Spesso le sfumature si tra-

mutano in tocchi di pennello, colori quasi palpabili, e

l’improvvisato pittore di questo quadro ideale contorna le

ragioni del suo male persino con considerazioni intime che

non fanno in tempo ad essere etichettate dal lettore come

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poetiche – quali vorrebbero essere – perché subito dopo

prende il sopravvento una rendicontazione spesso asettica

del gesto compiuto, che suscita, se non riprovazione, certa-

mente fastidio. Come diventa altrettanto fastidioso per il

protagonista narrante dovere cercare la ragione del male

fuori dal fatto di reato, fuori da sé e dentro a un complice,

oppure accanto a un sogno non coltivato, o al di fuori di un

progetto sfumato.

In questa ricerca spesso tormentata, L’Autore è stato abile

nell’attribuire a ogni singolo protagonista la responsabilità

primaria, ben più grande di quella già accertata nel proces-

so: trovare la ragione del male commesso. Ma non è facile

trovare questa ragione, anzi, per dirla con le parole di uno

dei protagonisti di questi frammenti di vita non vissuta, “è

praticamente impossibile”. E questo perché una ragione del

male non esiste: il male è in noi, dobbiamo solo essere ca-

paci di riconoscerlo per non esserne sopraffatti.

Concetta Miucci

(Avvocato penalista in Milano)

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PremessaPremessaPremessaPremessa dell’Autoredell’Autoredell’Autoredell’Autore

Entrate in una libreria qualsiasi. Coraggio, entrate… Oltre-

passata la zona delle ultime novità di narrativa, dopo aver

fatto qualche passo troverete senz’altro uno scaffale dedica-

to all’attualità e ai fatti di cronaca nera. Libri dalle copertine

un po’ inquietanti, titoli dai caratteri rossi e fotografie di per-

sonaggi dagli sguardi taglienti. Siete arrivati nel posto giu-

sto, dove si raccontano quei delitti efferati che suscitano

tanto orrore quanta curiosità nella sfera emotiva

dell’opinione pubblica. Storie vere, storie vissute. Storie di

uomini e di donne, del nostro passato e del nostro presente,

che hanno commesso qualcosa di malvagio, qualcosa di

oscuro e indecifrabile. Persone che hanno lasciato una ferita

inguaribile nella storia e nella coscienza dell’essere umano.

Ergo, dato che esistono già numerose pubblicazioni che si

occupano, in maniera forse un po’ fredda ed enciclopedica,

di fatti del genere, ho pensato che sarebbe stato più interes-

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sante compiere uno sforzo di immedesimazione nella mente

e nel cuore degli stessi protagonisti. Così sono nate le storie

che seguono. Si basano tutte su fatti assolutamente reali e

documentati, nonché verificabili attraverso le fonti a vostra

disposizione. Alcune si perdono nella memoria dei secoli

passati, altre sono ancora vive nel ricordo di noi contempo-

ranei, ma sono tutte minuziosamente rielaborate in modo

che sembrino davvero raccontate in prima persona, dalla vi-

va voce dei protagonisti. Come dicevo poc’anzi, si tratta di

una mia libera interpretazione, di un gioco recitativo che mi

ha visto impegnato a indossare l’abito, forse scomodo ma a

tratti seducente, dei personaggi che seguono.

Un’ultima precisazione. Per correttezza, e per il rispetto

che sento di dovere ai protagonisti di queste storie, vittime e

carnefici, ho preferito trattare di fatti giuridicamente conclu-

si e sufficientemente lontani dalla più stretta attualità, per

poter essere osservati e vissuti con un sano e doveroso di-

stacco.

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Premessa

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Per quanto il frutto dell’albero della conoscenza del bene e

del male possa essere bello, buono e a portata di mano, c’è

un fascino direi ancor più irresistibile nella nostra libertà di

coglierlo, o di lasciarlo marcire.

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18

LaBelvaLaBelvaLaBelvaLaBelvaÈFuoriFuoriFuoriFuori

…e quel giorno del ’75 me lo ricordo come se fosse ieri.

Sono venuti da me e mi hanno detto che il presidente della

repubblica Giovanni Leone mi concedeva la grazia. Voi cari

signori per vostra fortuna non lo potete neanche immagina-

re cosa vuol dire uscire di prigione dopo ventinove dico ven-

tinove anni che sei chiusa là dentro, e poter andare in giro

così in mezzo alla gente. Come una persona normale dicia-

mo. È qualcosa che non si può spiegare con le parole, è im-

possibile. Adesso siamo nel 1985, oggi son dieci anni che

sono libera, e posso anche dire di star bene, abbastanza in-

somma. Ma non ho voglia mica di festeggiare, questo no.

Quando sono uscita di prigione Pippo era morto da poco. Il

Signore se l’era portato via giusto qualche mese prima, ma

tanto non sarei più tornata da lui, anche perché comunque

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LaBelvaÈFuori

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si era risposato, e poi ha avuto anche un erede. Avrei voluto

essere la signora Ricciardi, ma purtroppo le cose sono anda-

te come sono andate. Evidentemente fra noi due non era

proprio destino.

La mia vita non è stata per niente facile, fin dall’inizio. Su

di me si potrebbe scrivere un libro, e vi dirò, magari qualcu-

no l’ha anche fatto. Di sicuro sui giornali ci sono stata parec-

chio, tanti anni fa. Quelli ne scrivono di cose… Non dico che

se le inventano, ma di sicuro ci ricamano sopra, questo sì, e

magari danno peso a un particolare, a una cosa da niente, e

poi invece un’altra cosa che sarebbe importante da dire se

la dimenticano, o la scrivono così giusto per scriverla. E poi ti

attaccano anche delle etichette, per fare notizia, per fare

scena e basta. A me per esempio dicevano che ero la belva

di via san Gregorio, che è una via di Milano. Adesso, io capi-

sco che quello che è successo è stata una cosa orribile, ma

dire che una persona è una belva non mi pare giusto, così, in

generale.

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Mio padre è morto che ero piccola, si può dire. Eravamo in

montagna a fare un’escursione, e lui per aiutarmi in un pun-

to che era difficile è scivolato, o ha come perso l’equilibrio

adesso non mi ricordo, sta di fatto che è caduto. Il mio fi-

danzato anche lui, è morto di tubercolosi poco prima del

matrimonio. Poi mi sono sposata con un mio compaesano.

Io sono di Budoia, nel Friuli. Solo che lui ha cominciato subi-

to ad avere dei disturbi di mente ed è stato ricoverato in

manicomio. Io per fortuna son riuscita a ottenere la separa-

zione, volevo andar via da lì, rifarmi una vita. E guardate che

non era mica facile separarsi a quei tempi. Non era come

oggi, che son quasi più i divorzi e le separazioni. Allora non

era così. Stiamo parlando degli anni Trenta, prima della

guerra. Così mi sono trasferita a Milano da mia sorella. È lì

che nel ’45 ho conosciuto il mio Pippo, cioè Giuseppe. Era

siciliano, di cognome faceva Ricciardi. Aveva un negozio di

tessuti e ho cominciato a lavorare da lui. In quel periodo ero

contenta, stavo bene. Anche lui era contento del mio lavoro,

le cose andavano per il verso giusto. Poi dopo un po’ sono

diventata anche la sua amante, ma vi giuro che non lo sape-

vo che era sposato e aveva la famiglia giù a Catania. Moglie

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LaBelvaÈFuori

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e due figli. Che poi son diventati tre. Lui non me lo aveva

mai detto. E allora da lì le cose han cominciato ad andare

male, e poi è successo quello che è successo.

Nell’ottobre del ’46 la moglie con i bambini è venuta su a

Milano. Qualche suo parente mi sa che l’ha messa in guar-

dia, gli ha messo la pulce nell’orecchio. Così si è trasferita

dal marito, in quella casa lì di via san Gregorio, al 40. Lei,

che di nome faceva Franca, e i tre bambini. Giovannino di

sette anni, Pinuccia di cinque, e Antoniuccio di dieci mesi.

Sicuramente poi lei deve aver parlato con Giuseppe, per via

di quelle voci che giravano su di noi, avranno anche litigato,

e allora lui m’ha licenziata. Ha dovuto farlo per forza, per il

quieto vivere.

Sua moglie me l’aveva detto più di una volta che dovevo

lasciar perdere il suo Pippo. E mi aveva anche detto di esse-

re ancora incinta. Per la quarta volta. Questa cosa non so se

era proprio vera, fatto sta che mi ha messo addosso la de-

pressione, per me è stato come uno choc. Perché invece io

bambini non li potevo avere, lo sapevo già da tanto tempo, e

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il fatto che lei era ancora in stato interessante mi faceva

stare male, mi faceva sentire… non so, come una donna che

non era completa. Come una donna che non era una donna

fino in fondo.

Io lo so quello che ho dichiarato nella mia confessione, lo

so a memoria. Ma quelle cose lì non sono tutte vere. Me l’ha

detto anche il giudice al processo. Mi ha detto che stavo

cambiando la mia versione dei fatti. Però io quelle cose le

ho dette perché mi hanno costretto! Perché durante

l’interrogatorio mi hanno malmenato, hanno usato i man-

ganelli! Comunque dopo tutte quelle ore io non ce la facevo

più. E poi non mi sentivo bene. Anche durante la tragedia

non mi sentivo bene. Ci sono delle cose che proprio non mi

ricordo. Io so che Pippo in quel periodo aveva parecchi pro-

blemi col negozio, soprattutto da quando mi aveva mandata

via, perché io ci sapevo fare, mentre dopo senza di me gli af-

fari hanno cominciato ad andar male. E appunto c’erano dei

debiti. Allora Pippo ha pensato che facendo finta di fare una

rapina in casa sua, poi i creditori si sarebbero calmati, al-

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meno per un po’. E comunque secondo me con quella finta

rapina voleva spaventare anche la moglie, così poi magari

lei decideva di tornare in Sicilia coi bambini e noi potevamo

ancora stare insieme come prima. E poi un’altra cosa, que-

sta è molto importante. C’era un’altra persona in casa quel-

la sera. Io infatti mica potevo fare tutto da sola. Questa è

una cosa che nessuno ma proprio nessuno si è mai sforzato

di capire, eppure mi sembra così ovvia. Hanno voluto dare a

me tutta la colpa, ma io questa cosa l’ho scritta anche al

mio avvocato. C’è una parte del delitto che non è mia e non

la voglio.

Era il 29 novembre del ’46, intorno alle nove di sera, forse

anche prima. Io ero con Carmelo, che era quell’altra perso-

na, anche se non mi ricordo come faceva di cognome. Di

fatto lui era il complice. Ci incontriamo e andiamo a casa di

Giuseppe e della moglie, in via san Gregorio appunto. Lui

comunque non c’era, non ci doveva essere, perché il piano

era così, che lui era andato a Prato per motivi di lavoro.

Mentre siamo per la strada Carmelo mi dà una sigaretta, ma

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era una sigaretta molto forte, per me era come drogata. Sta

di fatto che andiamo su in casa. Bussiamo alla porta e la si-

gnora ci apre. Aveva in braccio il piccolo Antoniuccio, gli altri

due bambini invece giocavano per i fatti loro. Io non mi sen-

tivo molto bene, mi girava come la testa, tanto che la signo-

ra mi dà un bicchiere d’acqua con un po’ di limone. E mi di-

ce: “Cara signora, lei si deve metter l’animo in pace e non

portarmi via Pippo, che tiene pure famiglia. Questa cosa de-

ve finire assolutamente, perché io sono buona e cara, ma se

lei continua così finisce che la rimando al suo paese”. Poi va

in cucina a prendere una bottiglia di liquore. Così beviamo

tutti e tre. Tutti e tre, capito? Infatti la polizia dopo ha trova-

to tre bicchieri sul tavolo, e non due. Io poi qui non mi ricor-

do molto bene, sempre per via di quella maledetta sigaretta

e forse anche per il liquore che era un po’ forte. Comunque

mi sembra di aver preso un ferro dalla cucina, non so cosa

esattamente, e poi l’ho colpita. La signora Franca. L’ho col-

pita alla testa. Tre o quattro volte, anche di più. Ero gelosa,

non so, ero fuori dalla grazia di Dio. Non riuscivo a fermarmi.

E poi sentivo anche… come dei rumori, dei colpi, che veniva-

no dalle altre stanze. Forse era Carmelo, non lo so. Doveva

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essere lui che stava aprendo i cassetti e tirava fuori delle co-

se, un po’ di argenteria, cose così, per far credere alla rapi-

na. A un certo punto so che mi ritrovo per terra, quasi svenu-

ta. E Carmelo che mi dà un bicchiere, forse per farmi ripren-

dere. Poi ecco, mi ricordo che sono uscita dall’appartamento

e sono scesa nelle cantine, mi sono nascosta lì per qualche

minuto, poi sono tornata a casa e ho mangiato. Mi sembra

due uova fritte con dei grissini.

Poi è successo che la mattina dopo io me ne sono andata

tranquillamente al lavoro. Mentre la nuova commessa di

Pippo, quella che aveva preso il mio posto, è passata a casa

sua per prendere le chiavi del negozio. Ha visto che la porta

era aperta, così è entrata in casa e ha trovato quello che ha

trovato. Tutto il sangue in giro e i morti che c’erano.

La polizia ha pensato subito che quella non poteva essere

una rapina. È vero che in casa mancavano sì delle cose, che

poi erano anche di modesto valore, ma comunque in giro si

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sapeva che loro non se la passavano bene in quel periodo. E

poi uno che vuole rubare non si mette a uccidere anche del-

le creature innocenti. Però c’è anche un altro fatto. Hanno

trovato una fotografia di loro due, Pippo e la moglie, fatta il

giorno del matrimonio, che era stracciata, così, sul pavimen-

to. Anche per questo hanno pensato che la rapina non

c’entrava niente. E allora per forza di cose doveva essere un

delitto passionale. Io comunque la storia della foto proprio

non me la ricordo. Ve lo dico sinceramente. Anche perché

sarei stata proprio una stupida a fare una cosa del genere,

perché sarebbero venuti subito a cercarmi, che poi è proprio

quello che è successo. Questo mi fa pensare che allora è ve-

ro che io quella sera non ero per niente lucida, che non sta-

vo bene. E infatti l’ho detto fin dall’inizio. Sennò non avrei

mai stracciato quella fotografia. A meno che non è stato

Carmelo, mentre metteva tutto in disordine per far credere

alla rapina. Ma anche questa cosa secondo me non può es-

sere. Se non che l’ha fatto per sbaglio, per via della fretta e

della confusione che c’era.

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Sta di fatto che la mattina dopo sono venuti subito a cer-

carmi. Io ho cercato di difendermi, non sono mica una che si

fa mettere i piedi in testa. Ho detto com’erano andate le co-

se veramente, che c’era anche un complice, che io non avrei

mai toccato quei poveri bambini che non avevano nessuna

colpa, ma non c’è stato niente da fare. Pippo ha detto che

non era vero che era sua l’idea della rapina, che lui non

c’entrava niente, che lui invece era la vittima perché gli ave-

vano ammazzato tutta la famiglia. Insomma è andata a fini-

re che al processo nessuno mi ha creduto. Tutto quello che

dicevo mi son resa conto che comunque non serviva a nien-

te. Tanto io ero la Fort, ero la belva, come dicevano i giornali.

Dovevo essere stata io per forza. Allora non c’è stato niente

da fare, alla fine mi hanno dato l’ergastolo. Era il 9 aprile del

’52.

Così mi hanno messo in prigione. Veramente anche prima

ero in prigione, ma adesso la cosa era proprio definitiva.

Prima a Perugia, poi per motivi di salute mi hanno spostato

a Trani, e poi per ultimo a Firenze. Comunque la prigione è

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una cosa terribile, una cosa che non finisce più. Potrebbe

anche mandarti fuori di testa. Bisogna stare tranquilli e

prenderla com’è sennò è la fine.

Dieci anni fa per fortuna è arrivata la grazia del presidente

Leone. Se ci penso… Son già passati dieci anni! Comunque è

una cosa stranissima, appena sei fuori di prigione il tempo

ricomincia a correre che neanche te ne accorgi, prima inve-

ce non passava mai. Adesso son qui a Firenze, in casa di

questa famiglia che mi ospita da quando sono uscita. Non

mi faccio più chiamare Rina Fort perché insomma basta,

chiudiamola lì adesso. Io ho sbagliato lo so, ma per come

sono andate le cose per me è stata anche un’ingiustizia, e

non mi stancherò mai di dirlo. Che poi alla fine son sempre

io. Trent’anni più vecchia e coi capelli bianchi ma comunque

son sempre io. La Fort è una donna in gamba cari miei, con

un’intelligenza superiore alla media. E non è che lo dico io,

no no. L’aveva detto proprio la perizia, quelli del tribunale.

Questo me lo ricordo bene.

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Caterina FortCaterina FortCaterina FortCaterina Fort, detta Rina, nasce a Budoia, in provincia di

Pordenone, il 28 giugno 1915. Sin da giovane la sua vita ini-

zia a costellarsi di eventi traumatici. Subisce dapprima la

morte del padre durante un’escursione in montagna, poi

qualche anno più tardi il fidanzato si ammala di tubercolosi

e muore poco prima del matrimonio. Nonostante la precoce

sterilità sposa un compaesano, che presto però evidenzia i

sintomi di una patologia mentale che lo condurrà al ricovero

in un manicomio. Dopo aver ottenuto la separazione dal ma-

rito si trasferisce a Milano dalla sorella. In città conosce il si-

ciliano Giuseppe Ricciardi, proprietario di un negozio di tes-

suti, e inizia a lavorare per lui. Secondo le dichiarazioni della

donna, pare che l’uomo le avesse nascosto di essere sposa-

to e padre di tre figli. I due presto diventano amanti, sino al

momento in cui la moglie, che inizialmente era rimasta a

Catania, decide di trasferirsi con i bambini a Milano, forse

preoccupata dalle voci che circolavano sulla relazione fra i

due.

Dopo essere stata licenziata, la Fort trova un impiego nella

pasticceria di un amico, ma il rapporto sentimentale con il

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suo ex datore di lavoro risulta ormai compromesso, soprat-

tutto dopo che la moglie di lui le rivela di essere in attesa del

quarto figlio. La notizia suscita in lei un tale stato di frustra-

zione che decide di vendicarsi. Il 29 novembre 1946 si reca

presso l’abitazione della rivale e approfittando di un mo-

mento di distrazione la aggredisce con un oggetto di ferro,

colpendola ripetutamente alla testa. Poi si avventa sui bam-

bini. Dopo aver compiuto il massacro mette a soqquadro

l’intero appartamento, nel tentativo di inscenare una rapina.

Il giorno successivo viene arrestata. Inizialmente nega ogni

responsabilità, poi accusa il suo ex amante di essere il

mandante dell’eccidio. Dichiara poi che non sarebbe mai

stata capace di uccidere dei bambini innocenti e fa il nome

del suo presunto complice, un certo Carmelo Zampulla, che

verrà poi prosciolto da ogni accusa. Il 9 aprile 1952 il pro-

cesso si conclude con la sua condanna all’ergastolo. Dopo

trent’anni di carcere, nel 1975 ottiene la grazia del presiden-

te della repubblica Giovanni Leone e trova ospitalità presso

una famiglia di Firenze, che la accoglie in casa propria. Muo-

re il 2 marzo 1988, colpita da un infarto.

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NessunoTocchiCainoNessunoTocchiCainoNessunoTocchiCainoNessunoTocchiCaino

C’è silenzio, qui.

Un silenzio vero, reale.

Profondo.

E non solo perché non c’è rumore. Tutti quei rumori che

Roma produce a qualsiasi ora del giorno e della notte. Per-

ché qui arriverebbero comunque soffusi, ovattati…

Qui il silenzio nasce da dentro. Ti prende tutto.

Solo qui riesco a trovarlo. Specialmente quando non c’è

nessuno, come adesso.

Solo pochi raggi opachi che filtrano dai lucernari.

Qualche candela che si consuma in un alone ambrato.

Lo scricchiolio della panca, con questo legno vecchio che

si assesta, appena mi ci siedo. Fa sempre lo stesso rumore,

lo riconoscerei fra mille…

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Eppure neanche qui posso stare davvero solo. La polizia è

sempre con me, è la mia ombra. Mi accompagna dappertut-

to. Anche qui, in chiesa. Oppure al supermercato. O in far-

macia. È una persecuzione sottile che mi logora lentamente.

Come se a novantotto anni avessi bisogno davvero di qual-

cosa che mi logori, che mi porti via un pezzetto di vita, o

quello che ne rimane. C’era una persona che si occupava di

me, di alcune incombenze, ma ora non è più in grado di farlo

per motivi di salute. Così io e l’avvocato Giachini abbiamo

chiesto al tribunale militare di sorveglianza di applicare

quanto prevede la legge. Solo questo. Articolo 284 del codi-

ce di procedura penale. L’istanza è stata accolta. E non è un

regalo. È la legge. Anche se può sembrare che sia stato con-

cesso dall’alto, per grazia divina.

Sono in stato di detenzione domiciliare presso la casa del

mio avvocato, e ogni spostamento deve avvenire con la poli-

zia al seguito. La motivazione ufficiale è la necessità di tute-

lare la mia incolumità, ma diciamoci la verità, ormai nessu-

no vuole più prendersela con un centenario, uno che cam-

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NessunoTocchiCaino

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mina a fatica e quasi mai da solo. Qui adesso Erich Priebke

lo conoscono tutti. Tutti mi riconoscono per la strada, ma

ormai è come se fossi un fantasma che scivola in silenzio

fra la gente. Sono qualcosa di trasparente, qualcosa che si

intravede con lo sguardo, giusto un attimo, poi l’occhio va

subito oltre, scappa via. Ormai non c’è più nemmeno la cu-

riosità di guardarmi da lontano, di nascosto. Fermarsi e vol-

tarsi non succede più. Vivo un anonimato fatto di nebbia.

Sono una figura grigia che si confonde col grigio della città.

Questo servizio di accompagnamento forzato non l’ha de-

ciso il giudice. È un vero abuso. Mascherato dalla necessità

di tutelarmi. Alla mia età nessuno si è mai sognato di rite-

nermi socialmente pericoloso. Non c’è alcuna possibilità di

reiterare il reato commesso. La mia condotta è sempre sta-

ta irreprensibile, fuori e dentro il carcere. Non mi sono mai

considerato una vittima del sistema o della società. Non mi

sono mai lasciato condizionare dalla sindrome del giustifi-

cazionismo a oltranza. Mi sono assunto tutte le mie respon-

sabilità. E anche se certi conformisti benpensanti si indigna-

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no, anche se a qualcuno piace gridare allo scandalo, io sono

qui a difendere sulla mia pelle il concetto stesso di giustizia.

Le Fosse Ardeatine. Il mio destino si è compiuto lì, il 24

marzo 1944. Quello è stato il bivio che ha cambiato in modo

radicale tutta la mia vita. Abbiamo ucciso trecentotrentacin-

que italiani, dieci per ogni soldato tedesco morto il giorno

prima nell’attentato di via Rasella. Cinque vittime in più, un

errore dovuto alla fretta. Li abbiamo uccisi come atto di rap-

presaglia, un’esecuzione voluta da Hitler in persona. Io ho

eseguito l’ordine. Non ero spinto da un sentimento d’odio o

di rancore. Ho ucciso perché mi è stato ordinato. Ero in guer-

ra, eravamo tutti in guerra. Non ho mai ucciso prima di allo-

ra e non ho mai più dovuto uccidere in seguito, Dio mi è te-

stimone. Quando ho ricevuto l’ordine dal Supremo Comando

ho pensato ad Alice, mia moglie, e ai nostri due bambini, di

due e quattro anni. Ho pensato a cosa sarebbe stato di noi

se mi fossi rifiutato di fare il mio dovere.

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Oggi sono tutti in grado di stabilire cosa è giusto e cosa è

sbagliato. La storia ha espresso il suo giudizio, ha emesso le

sue sentenze. Sarebbe fin troppo facile per me alzare il dito

contro coloro che oggi mi guardano e mi condannano senza

sapere davvero. Persone che pensano, che riflettono, che

manifestano tutta la loro scienza e coscienza davanti alla

Bibbia o al codice penale. Persone che hanno sempre vissu-

to in tempo di pace. Che la guerra non l’hanno mai vista né

subita. Sarebbe troppo facile per me guardare costoro e di-

leggiarli. Compatirli, di rimando. Hanno la fortuna di essere

nati oggi, quando i giochi ormai sono fatti, quando si può ra-

gionare, quando già si sa dove sta la ragione. Quando si può

prendere posizione senza rischiare nulla per sé e per la pro-

pria famiglia. Signori, sappiate che davanti a voi io non ab-

basserò mai lo sguardo. Ci confrontiamo ad armi pari. La

saggezza a posteriori è la più grande comodità del giorno

d’oggi.

Le vittime e i loro familiari, molti dei quali oggi ancora vi-

venti, hanno tutto il mio rispetto. Tutto quello che è avvenuto

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