Introduzione Verga

43
7/16/2019 Introduzione Verga http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 1/43 GIOVANNI VERGA OPERE a cura di Francesco de Cristofaro illustrazioni di Mimmo Paladino ISTITUTO DELLA

description

introd a Verga

Transcript of Introduzione Verga

Page 1: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 1/43

GIOVANNI VERGA 

OPERE

a cura di 

Francesco de Cristofaro

illustrazioni di 

Mimmo Paladino

ISTITUTO DELLA

Page 2: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 2/43

 

1

INTRODUZIONE

I. Doppio sogno

Ci sono alcuni luoghi canonici, nel corpus dei testi che è consuetudine presentare come«soglie» preparatorie alle opere narrative di Giovanni Verga (e in particolare ai suoi ro-manzi piú maturi e originali), che sembrano oggi, osservati da una maggiore distanza stori-ca e ideologica, altrettante armi a doppio taglio: sono capaci, certo, di dar conto di un la-boratorio artistico e del suo malcerto bricolage, della concezione estetica che lo innerva e

delle pratiche di invenzione che lo animano; e tuttavia, emanano una luce fredda, forseabbacinante. Quasi Verga – proprio lui, il propugnatore per eccellenza dell’opera che«sembrerà essersi fatta da sé» – ecceda nella disseminazione di dichiarazioni autotraspa-renti, di prove testimoniali, di protocolli e di ricette da propinare col «cucchiaio»1 al letto-re, finanche a quello di secondo grado; e quasi spinga il critico verso un esercizio un po’troppo servile, di piatta descrizione di quanto si ingenererebbe e si dispiegherebbe nellastoria delle forme senza scarti, senza faglie, al limite senza processo. Ma cosa ha ancora dadire al lettore del XXI secolo, e ad un’Italia vecchia ormai centocinquant’anni, un Vergadall’autocoscienza cosí granitica? Un Verga che non farebbe altro che sottoporre a verifica,in modo magari non lineare ma comunque coerente, le tecniche di cui fa parallelamentedottrina? Quali sono, se ve ne sono, le strategie per sprigionarne la modernità e per pro-durre un senso ulteriore, verso i terreni limacciosi della comprensione storica, magari an-che al di là della letteratura, dei suoi artifici e dei suoi teoremi?

Pensiamo, com’è ovvio, alla lettera programmatica a Salvatore Paola, alla novella Fan-tasticheria, alla dedicatoria a  L’amante di Gramigna, alla prefazione dei  Malavoglia. Soglie(epistolari, paratestuali, saggistiche) di cui si son fatti altrettanti monumenti; ed era fatale,perché il «caso Verga», con le sue onde e i suoi riflussi, necessitava piú del normale diqualche puntello di sicura conoscenza obiettiva, ribollente com’era di insepolti furori ri-sorgimentali – e per giunta additato da tante parti come colpevole obliquo dei mali oscuridella letteratura italiana novecentesca, dal paternalismo al pauperismo, passando natural-mente per il populismo2. In quegli scritti l’ideale dell’ostrica, il metodo della regressione,la prescrizione di una mano invisibile e di un’adaequatio ortottica, l’etica del pugno chiuso,il progetto di una fantasmagoria in cui rappresentare il «gran grottesco umano» configu-

rano una serie organica di petizioni di principio, che sono a un tempo retoriche e concet-tuali; e nonostante il superamento, in virtú di schiaccianti prove biografiche e bibliografi-

 1Il cucchiaio è un oggetto – o piuttosto un “ferro del mestiere” – per il quale Verga mostra, a piú riprese,

una singolare affezione: lo troviamo ad esempio in una sulfurea corrispondenza con Salvatore Di Giacomo (10dicembre 1889), tra l’altro ripresa da L. Russo nel suo classico Giovanni Verga, Ricciardi, Napoli 1920, p. 225.

2 Cfr. A. Asor Rosa,  Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1965. Appena pochi anni dopo, lo stessocritico coordinò l’importante ripensamento collettivo a cui si allude qui ( Il caso Verga, a cura di A. Asor Rosa,Palumbo, Palermo 1972): vi parteciparono critici di diversa formazione, da G. Petronio a V. Masiello.

Page 3: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 3/43

 

2

che, del luogo comune critico della “conversione”, nonostante anche l’enfasi sull’idea di

un «Verga moderno» e di un «altro Verga»3

, resiste ancora l’idea che la conchiusa  poetica lí sviluppata si riverberi nella relativa e conseguente poietica. Inoltre, i ritardi e le occasioniperse nella partita ecdotica non aiutano certo una lettura piú spregiudicata: a tutt’oggi,  I 

 Malavoglia, universalmente riconosciuti come il ‘caposaldo’ dell’opera verghiana – che necostituiscano anche il capolavoro, è antico assioma sempre piú di frequente messo in crisi,a vantaggio del Mastro-don Gesualdo – non dispongono di edizione nazionale, a causa del-la scomparsa del curatore Francesco Branciforti, che ha spezzato un lavoro decennale4.

Abbiamo però un’edizione critica del primo romanzo dei Vinti , allestita da FerruccioCecco 5, che offre al critico-filologo le cicatrici di un peculiare travaglio compositivo: luo-ghi testuali in cui la lettera del testo sembra incrinarsi, divenire drammaticamente polisen-sa; attuare, entro la sua vita dialettica, censure e transfert . È proprio da uno di questi luo-

ghi – un brano refoulé , quasi ricettacolo di quel «controlinguaggio notturno» di cui scrisseuna volta Michel de Certeau – che si può ripartire, per provare a istituire un  paradigma,prima ancora di avviare quella ricognizione sistematica e diacronica che è d’uopo. Si trattadella cosiddetta “prefazione rifiutata”: rifiutata (sappiamo ormai) non solo dall’editore, madall’autore stesso, dopo che l’aveva pensata, redatta, firmata e persino datata6. Cospicua-mente piú lunga di quella giunta sotto i torchi, essa differisce in modo sensibile anche nel-la dispositio, con l’effetto di essere molto meno asciutta e diretta dell’altra nell’illustrazionedel topic e delle finalità, e di gran lunga piú “estetica” che “etica” nella chiusa. Quel ‘car-tone’ alternativo ospita poi, in maniera esclusiva, alcuni brani dalla scrittura assai raffinata,e dalla notevole ricaduta estetica. Ciò vale soprattutto per la scena incipitaria, che – seb-bene attraversata, come vedremo piú avanti, dalle ombre di alcune narrazioni brevi prece-denti – costituisce un unicum nella scrittura dei  Malavoglia, sia per l’ambientazione me-

tropolitana, sia per il tono confidenziale e idiosincratico, sia infine per la modernità del«sogno dentro un sogno» in cui s’avviluppa:

Quando vi siete trovati di notte nelle vie deserte di una grande città, davanti al fanale spento ecol sigaro in bocca, non vi ha colpito l’impressione straordinaria che produce in voi quella calma?Allora forse avete cercato dietro le finestre chiuse le vaghe forme indistinte di persone ancora deste,o il capo sull’origliere che cerca il sonno con occhi spalancati, o il pallido volto chino sulle pagine diun libro, o il passo ebbro dell’uomo che ha giuocato l’ultimo suo denaro, o il respiro pesante dell’o-peraio che riprenderà col giorno il lavoro, un’espressione qualsiasi della vita che sentite in voi, e chevi tace intorno. Di fantasticheria in fantasticheria tutta questa gente che vi travaglia ancora col pen-siero, che si agita e vive, vi sfila davanti, per le vie buie, come in un giorno di festa, in una proces-

 3 Cfr. R. Luperini, Verga moderno, Laterza, Bari-Roma 2005 (ma si veda almeno, entro la ricchissima pro-

duzione di Luperini intorno allo scrittore siciliano,  Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Il Mulino, Bolo-gna 1989); e C. A. Madrignani, L’altro Verga, Introduzione a G. Verga, Drammi intimi , Sellerio, Palermo 1989.

4 Cfr. però F. Branciforti,  Lo scrittoio del verista, in  I tempi e le opere di Giovanni Verga, Firenze, Le Mon-nier 1985, pp. 59-170, durevole punto di riferimento della filologia verghiana.

 5 G. Verga, I Malavoglia, a cura di F. Cecco, Il Polifilo, Milano 1995. Il testo stabilito, che usa come testi-mone di riferimento la  princeps (Treves, Milano 1881), è stato ripreso anche nel pregevole commento che lostesso Cecco ha contemporaneamente allestito (Einaudi, Torino 1995), e da cui si citerà.

6 Si veda F. Branciforti,  La prefazione dei ‘Malavoglia’, «Annali della Fondazione Verga», I, Catania 1984,pp. 7-39.

Page 4: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 4/43

 

3

sione fantasmagorica in cui passano tutti gli appetiti, tutte le febbri, tutte le avidità, tutte le aspira-

zioni grandi e piccine; le cure che devono trambasciare quei sonni, le ansie che vegliano, le preoc-cupazioni che si agitano nell’incubo7.

Dietro il narratore che parla al passato prossimo e ad un “voi” generico (cercando re-toricamente una comunione di esperienze), dietro il viandante, trasognato e vagamentebaudelairiano, per le «deserte» e «buie» strade della notte, non facciamo fatica a indovina-re, in filigrana, una sorta di smagato autoritratto verghiano. Insomma, una controfigurad’autore, qui nei panni di compiaciuto  flâneur «col sigaro in bocca», pronto a farsi cattu-rare – piú simile allo spettatore della folla di Poe che a quello di Valera, ossia piú inclinealla identificazione dei soggetti che all’impressione delle masse – dal richiamo delle appa-renze: ecco allora che dinanzi ai suoi occhi, «davanti alle scintille del sigaro» e «al fanalespento» (si faccia particolare caso al tratteggio dei chiaroscuri) sfila una «processione fan-

tasmagorica», composta da fisionomie per lo piú umili e disforiche e da «visi pallidi e ac-cesi, che cercano qualche cosa, sempre». In questa teoria di simulacri còlti in una sorta ditensione fiacca, si fa largo anche una figura di lettore: che viene ritratto «chino sopra lepagine di un libro» – forse proprio quel  libro che va ora a iniziare. Tuttavia, sottigliezzemetaletterarie a parte, il narratore verghiano è inghiottito, senza la possibilità di un auten-tico discernimento morale, da quella fantasia, e dalle fantasie al quadrato che in essa s’in-generano; è travolto da una «folla nera che popola le vie buie, cammina, cammina tuttaverso un punto solo, pigiandosi, accalcandosi, sorpassandosi brutalmente»8.

L’«altro» prefatore dei  Malavoglia ha compreso soprattutto qualcosa, qualcosa che cidice, per speculum in aenigmate, alla fine del primo capoverso. Ha compreso, come tutti isuoi allocutori fittizi devono aver compreso, che quella vita, quel movimento continuo e

apparentemente esterno al soggetto, in realtà si svolge tutto dentro di lui («esiste attorno divoi ed in voi stesso»); sa, come tutti sanno, che esso «vi accompagnerà a casa, e nei sogni,perché l’indovinate dietro quelle finestre chiuse, accanto a voi, dappertutto». Vi accompa-gnerà a casa: lo spettacolo che s’è istallato in quella zona piú interna, «oltre le finestre chiu-se», non è che l’Unheimliche. Il sentimento inquietante e ambivalente che finisce per asse-diare uno scrittore allorché si accinge a raccontare la sua prima grande storia-biologia diuna famiglia di pescatori di un villaggio, eppure ne gira la scena inaugurale nelle vie buiedi una città. Con una sorta di modernissimo giro di vite, quell’abbandono contemplativosta tramutando Verga nell’oggetto stesso della rappresentazione, mentre lo sorprende nellasua reale, sicura, distante cabina continentale, nella posizione borghese a cui è pervenuto enella visione del mondo che ha conseguito. E allora lui scrive e riscrive, e poi cancella.

2. Fuga dalle tenebre 

L’immagine della moltitudine che «cammina, cammina tutta verso un punto solo» cisembra di conoscerla già; ma non è cosí. Se la scrutiamo con attenzione, non somiglia né al

7 G. Verga, I Malavoglia, cit., p. 377.8  Ibid.

Page 5: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 5/43

 

4

Quarto Stato, il cruciale dipinto con cui di lí a pochi anni Pellizza da Volpedo avrebbe ri-

plasmato e rifondato l’immagine “mitologica” del popolo9

, su basi certo verghiane (a parti-re dal titolo originario, che recitava appunto  La fiumana: singolare coicidenza di destinicon il ciclo dei Vinti , inizialmente battezzato La Marea); né al celeberrimo seguito del bra-no in questione, che la prefazione edita e quella inedita condividono in modo pressochéidentico. In quelle rappresentazioni, una luce vivida – interna o esterna, non importa – po-teva rischiarare ogni oggetto, ogni sagoma, ogni gesto: un fulgore «glorioso», quasi mistico,che rendeva tutto intelligibile, conferendo al movimento complessivo un senso che coinci-deva poi, né poteva essere altrimenti, con quello del progresso. Si trattava, in modo evi-dente, di una chimica piú provvidenzialistica che naturalistica, in virtú della quale dal-l’«attrito» delle «contraddizioni» poteva virtuosamente sortire «la luce della verità»: intermini fotografici, una sorgente di chiarore tesa a solarizzare o persino a virare in bianco

le immagini, piuttosto che ad aumentarne la trasparenza. Al contrario, c’era qualcosa discandalosamente moderno nell’idea – fermata nel testo inedito e autocensurata per lastampa – di una scansione degli oggetti da eseguire in due fasi distinte, con inverse condi-zioni di luce e con scale metriche sfalsate e non suturabili: dapprima un’analisi capace divedere elementi ma non sistemi e poi, contrapposta in una sorta di chiasmo, una sintesi in-capace di distinguere figure, e tuttavia atta a comprendere direttrici, masse, sovradetermi-nazioni. Per quanto condannata all’aporia di una conoscenza scissa e infine metafisica,quella ipotesi di una visione del mondo bifocale e chiaroscurale appariva, almeno nellepremesse, intellettualmente piú onesta, piú fedele ai tanto idoleggiati «colori del vero» 10.

Si torni però a Verga e alla sua lotta con l’angelo. Se riprendiamo, in un sol colpo, ilmicroscopio e il cronografo, scopriamo che tutta questa ampia giunta poi rinnegata, tuttoil brano cioè che rappresenta gli spettri della viandanza, compare e scompare nello strettis-

simo giro di tre giorni: 19 gennaio 1881, prefazione edita; 22 gennaio 1881, prefazioneinedita. Come a dire che lo scrittore – come peraltro testimoniano anche alcune lezionidella seconda prefazione infine preferite nella stampa11 – fino all’ultimo non sa se dare omeno vita a quella fantasmagoria già formata; fino al ‘si stampi’, e probabilmente anchedopo, quei simulacri formicolanti sono lí, bussano alla sua porta, riemergono davanti alleincandescenze del suo sigaro borghese, finché egli non decide, alla lettera, di rimuoverli .Con quest’approdo denegativo pare chiudersi la personale, diciamo cosí, ‘dialettica dell’il-luminismo’ inscenata attorno al pronao dei  Malavoglia: col risultato che il lettore-modellodel romanzo potrà vedere solo un bagliore pienamente irradiato, e non il corteo delle larve(che per contro sciamerà, spesso proprio in forma equorea, in tante pagine del Verga po-liticamente piú agro: grossomodo, la linea Libertà-Gesualdo); potrà consolarsi di quella vi-

sta indistinta eppure provvista di un significato trascendentale, senza lasciarsi toccare dallefigure della part maduite. Si provi a pensare per un attimo a quanto la forbice del senso sisia divaricata nel momento in cui lo scrittore, sull’orlo della noluntas, dovette compiere la

9 Cfr. C. Ossola,  Symboles et destins du peuple , in  L’Avenir de nos origins. Le copiste et le prophète, Millon,Grenoble 2004, pp. 259 ss.

10 Il riferimento corre al fondamentale R. Bigazzi,  I colori del vero. Vent’anni di narrativa (1860-1880) , Ni-stri-Lischi, Pisa 1969.

11 Cfr. F. Branciforti, La prefazione dei Malavoglia, cit., passim.

Page 6: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 6/43

 

 5

scelta, e a quanto la selezione finale abbia influito sulla ricezione del testo, sulla sua tra-

dizione ermeneutica, sul suo carisma storico-letterario; e non si potrà trattenere un brivido.Il fatto è che la posta in gioco era troppo alta: ne andava del mandato dell’artista, dellasua tavola di valori. Verga lo adombra in tanti luoghi ‘deputati’, ma non lo fa capire maicosí chiaramente – per quanto preterintenzionalmente – come tra le righe e gli apparati diquesta prefazione bifida, la cui «patologia testuale» risulta, anche nella verticalità del-l’autografo infine prescelto, straordinariamente indiziaria. Si pensi alla duplice correzioneche riguarda l’immagine «Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosiattorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via»12: immagine potentissima,che marca nella sua carriera una vera e propria mutazione di paradigma, in quanto ora lafiumana travolge tutti, e la visuale dall’alto e immunizzata di Fantasticheria è solo un ricor-do remoto. Ebbene, questa frase nel testo autografo presenta lezioni alternative sia per il

soggetto («osservatore»/«artista») che per il predicato verbale («ha il diritto»/«deve»).Supponendo la co-implicazione tra le varianti, ne deriverebbe nulla di meno che il tratteg-gio di due paesaggi etici agli antipodi: da un lato un osservatore generico che gode di undiritto, dall’altro un costruttore di immagini che soggiace a un dovere. È qui, nei gangli,nelle incrinature e nelle polarizzazioni d’una prefazione-manifesto e del suo ‘doppio’ allu-cinato, che germina, destinato a tanta fortuna, il populismo della nostra cultura letteraria:perché anche se, in extremis, Verga optò per la cancellazione di ciò che aveva in originedesignato come compito esclusivo dell’artista, quell’attitudine ideologica e formale nonpoté non depositarsi al fondo nella sua scrittura.

La fluttuazione di cui abbiamo appena detto, peraltro, è la marca testuale, in forma divariante d’autore, di un rovello che si ingenera, ancora una volta, nella stesura rifiutata:dove, proprio mentre la scrittura verghiana s’accendeva in un affresco di souffrance univer-

sale e radiosa, la distinzione tra viandante generico e artista veniva ben altrimenti articolata,conferendo al secondo quel privilegio di cui la forma definitiva del testo lo avrebbe deltutto deprivato. L’artista, e solo lui, non doveva, bensí aveva il diritto di interessarsi ai de-boli che restano per via: visto che «certamente in mezzo a quella calca, i viandanti frettolo-si anch’essi, non hanno il tempo di guardarsi attorno, per esaminare gli sforzi plebei, lesmorfie oscene, le lividure e la seta rossa degli altri» 13. Lo scrittore invece, inspiegabilmen-te o anzi per qualcosa che somiglia a un colossale lapsus, quel tempo sembrava poterlo de-tenere; e perfino governare. Di piú, egli era tenuto ad averlo: perché – ed ecco che la prosaverghiana s’inarcava e si torceva – «il grottesco di quei visi anelanti, non deve essere emi-nentemente artistico per un osservatore? non deve dare a seconda dell’aspetto che loroimpronta l’ambiente che attraversano nei luoghi e nell’età, la fisonomia storica? e quest’os-

servatore meno frettoloso degli altri, chinandosi sui caduti per esaminarne le convulsioni,sostando un momento dinanzi alle verità che la folla si lascia indietro nella fretta di correreavanti, o agli affetti che gemono invano, o alle febbri che si scambiano per passioni, o allagiustizia su cui si mettono i piedi, non ha il diritto di esclamare: – Che peccato!»14.L’ambiguità tonale del periodo, tra interrogativa retorica e interiezione conativa, pareva

12 G. Verga, I Malavoglia, cit., p. 379.13  Ibid., p. 378.14  Ibid. 

Page 7: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 7/43

 

6

rincarare l’ambiguità della scrittura e delle sue professioni morali; un’ambiguità ostinata,

se si ricorda che addirittura nella decisiva chiusa della prefazione edita si sarebbe registra-to, fra autografo e stampa, un capovolgimento essenziale (un «errore polare», di di-strazione; o forse no) circa lo «studio» di spettanza del narratore-scienziato: da «con pas-sione» a «senza passione»15. Né parrà strano, a questo punto, che il narratore (l’autore) dei

 Malavoglia si sia infine risolto a fuggire dalle tenebre e dai barlumi di storia che – vaga-bondando e fantasticando, chissà perché, per le vie della metropoli invece che tra i campidell’isola – aveva figurato in quella prefazione seconda, caduco ricettacolo o libro a venire.

3. Preistoria di un’immagine 

Un caminetto dalla fiamma scoppiettante; dinanzi ad esso, un uomo dagli occhi soc-chiusi e dalla coscienza intermittente, proprio come quel sigaro acceso a metà che gli cascadalla bocca, mentre carezza il sogno di un provvisorio oblio del presente, di un abbandonoin un’altra dimensione, lontana e sconosciuta. Questa scena, questa combinazione di po-sture di uomini e di combustioni di cose, non era nuova a Verga; non solo perché ripren-deva qualcosa che era già cristallizzato nell’immaginario letterario, grazie alle flâneries me-tropolitane dei suoi autori (specie in terra di Francia) e dei suoi sodali; ma anche, e piúspecificamente, perché si trattava in realtà di un’immagine insepolta di Nedda, il bozzettonel cui segno, sette anni prima, egli aveva intrapreso la sua fuga dai salotti cittadini. Loaveva fatto, come è noto, ritagliando la silhouette di una contadina sfiancata dal lavoro,una silhouette ripresa da quella stirpe russa e tedesca degli «umiliati e offesi» che nel pienoOttocento cominciava a brulicare anche da noi16: un falso movimento, questo da lui intra-

preso dalla città alla campagna, se è vero che solo pochi mesi piú tardi lo scrittore si sa-rebbe ritrovato di nuovo alle prese con le raffinatezze alto-borghesi di Eva. Eppure quellafigurina, che molti hanno voluto caricare di soverchie responsabilità, trasformandola nel-l’emblema stesso d’una “conversione” semplicemente indimostrabile, può servire qui percomprendere qualcosa di piú dei  Malavoglia: non tanto del nostos all’origine e all’isola,quanto della rimozione di cui s’è detto.

È il 1871. Verga ha già portato a termine la sua formazione di scrittore ‘scapigliato’ egalante, con un buon riscontro di pubblico. Decide allora di cambiare registro; lo fa, sibadi bene, per prova. Sceglie di raccontare la storia di una figura semplice e priva di sofi-sticherie, al di qua di quella «menzogna delle convenzioni sociali» che avrebbe teorizzatoMax Nordau dodici anni dopo. Incagliato in un incipit di inedita asperità, lo scrittore pro-

va a partire con una posa affabilmente autoriale e un pedale assai intellettualistico, parlan-do al lettore di una sua recente scoperta, in apparenza tutta compresa nella sfera del quo-tidiano. Da sempre persuaso che il «focolare domestico» fosse «una figura rettorica, buonaper incorniciarvi gli affetti piú miti e sereni», egli ne ha finalmente colto le virtú cordiali einsieme spettacolose: la «voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma», i «biz-zarri disegni delle scintille correnti come lucciole», le «faville fuggenti che folleggiano co- 

15  Ibid., p. 7.16 Cfr. G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Garzanti, Milano 1995, p. 254.

Page 8: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 8/43

 

7

me farfalle innamorate», persino «il linguaggio del cepperello che sospetta dispettoso»17.

Questa sinfonia petulante e sussultoria delle molle e del mantice, questo allegretto del fuo-co amico conquista rapisce il narratore in pantofole: ne riscalda il sangue e i nervi, ne libe-ra le immagini e insieme ne sopisce il principio di realtà, finanche predispone la sua mentea quella che è già una “resurrezione della memoria”. Di piú: la sinfonia che si svolge al co-spetto di chi dice “io” è in grado di fare, con la sua durata soggettiva, qualcosa di assolu-tamente moderno e sconcertante. Per un verso, può riportarlo a un remoto cronotopo idil-lico: quando, alle falde dell’Etna, gli ululati del vento agitavano una grande fiamma cheasciugava le povere vesti delle raccoglitrici di olive. Per l’altro verso, può invecchiarlo inpochissimo tempo, facendo scorrere nel teatro della sua mente le scene del mondo a unavelocità tale da incanutirgli i capelli e solcargli di rughe la fronte. È una visione potentis-sima, questa di una fiamma magica, quasi segno impazzito d’un tempo fuori di sesto, che

insieme avanza infinitamente e indefinitamente muove a ritroso; fugge dentro i furori dellastoria e nel bagliore degli ideali, e si rintana nella poetica delle radici e di un passato ritro-vato. E proprio cosí – ce lo fanno intuire gli atti linguistici del narratore, i suoi lapsus, isuoi rincari di figuralità, nonché le autocensure e i cambiamenti di rotta intervenuti sia nel-la stesura di Nedda che nella stesura della seconda prefazione ai Malavoglia – proprio cosí,scardinato e scentrato, dovè essere anche il tempo interiore di Verga in quel ’71 e inquell’81 di avvertimenti prima, e di esecuzioni poi della nuova forma: malsicuro com’erafra la ricerca di una modernità naturale e la rigenerazione di antichi artifici.

Per paradosso, la sua forma nuova era quella che parlava della natura, mentre ciò sucui si era formato e battezzato consisteva piuttosto nel racconto della mondanità, della po-litica, dell’ideologia. Se si perde di vista questo elemento, questa sorta di inversione ver-ghiana del percorso organico dalla complessità alla semplicità, si rischia di non cogliere

l’essenziale, e di non comprendere neanche il motivo dell’irreversibilità dell’itinerario. Ba-sti, come controprova di tale singolare condizione, un ulteriore e malnoto esercizio, perfet-tamente sincrono ai Malavoglia: un testo d’occasione, I dintorni di Milano, contributo del-lo scrittore catanese a  Milano 1881, una frettolosa collettanea allestita in occasionedell’Esposizione nazionale industriale e artistica18. Il titolo dell’impresa collettiva, che an-noverava collaboratori del calibro di Neera e di Capuana, faceva subito intuirne l’inscrivi-bilità, a pieno titolo, nella voga fin-de-siècle delle descrizioni. Il pezzo di bravura di Vergasi compaginava, in questo caso, come una formazione di compromesso lunga una manciatadi pagine, impiegate a parlare della «città piú città del mondo» 19 e a giustificarne l’idea ur-banistica e il senso spaziale e prossemico, costringendola a un impari e asimmetrico duelloturistico con la circostante “santa campagna”. In questo testo illuminante – giacché ancora

una volta sorprende il narratore sul limine tra l’origine e l’esilio, tra l’isola e il continente,tra la natura e l’artificio – si possono incontrare «metafore pazze», o quantomeno sperico-late, come quella che designa la città di Milano come «il piú bel fiore di quella campagna

17 G. Verga, Nedda, in Le novelle, a cura di G. Tellini, Salerno, Roma 1980, t. I, p. 130.18 Si può leggere – opportunamente chiosato, e ribattezzato  Malinconica pianura – nell’antologia in L. Cle-

rici (a cura di), Il viaggiatore meravigliato. Italiani in Italia (1714-1996), Il Saggiatore, Milano 2001, pp. 167 ss.Ringrazio molto Giancarlo Alfano per questa ed altre suggestioni.

19 Ibid., p. 168.

Page 9: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 9/43

 

8

ricca ma monotona […], un prodotto in cui l’uomo ha fatto piú della natura»20. Un miscu-

glio astratto fra urbano e rurale che non spiazza affatto il lettore, dal momento che di quel-la stessa esitazione si erano già fatti carico alcuni brani che, se letti entro un «paradigmatestuale»21, configurano una sequenza di spostamenti arbitrari sopra quello che in semio-logia viene detto «asse timico». Ma cerchiamo di vedere meglio.

Va innanzitutto chiarito come il ‘chiodo fisso’ del narratore di queste pagine non sem-bri avere troppo a che fare con la morale, con lo scandaglio sociologico o con l’indagineeconomica, né tantomeno con l’elaborazione di modelli culturali e antropologici. Tutto èmolto piú naïf e leggero: il vero punto, per questo scrittore-paesaggista, consiste nel com-prendere dove risieda l’allegria e dove la tristezza, dove la vita e dove la pace; per giunta,non è dato di sapere cosa per lui sia valore, e cosa disvalore. Ecco cosí, dapprima, la visio-ne – anzi, l’impressione – sghemba e complessiva che si riceve prospettiva sopra il treno:

«L’impressione che si riceve dal paesaggio prima di arrivare a Milano, per quaranta o cin-quanta chilometri di ferrovia, è malinconica. La pianura vi fugge dinanzi verso un orizzon-te vago, segnato da interminabili file di gelsi e di olmi scapitozzati uniformi, che non fini-scono mai; cogli stessi fossati diritti fra due file di alberelli, colle medesime cascinesull’orlo della strada, in mezo al verde pallido delle praterie. Verso sera, allorché sorge lanebbia, il sole tramonta senza pompa, e il paesaggio si vela di tristezza»22. Poco dopo, laprosa si accende nell’esplorazione della «vita allegra della grande città, in mezzo alla follache si pigia sui marciapiedi, davanti ai negozi risplendenti di gas, sotto la tettoia sonoradella Galleria, nella luce elettrica del Gnocchi, nella fantasmagoria di uno spettacolo allaScala, dove sboccia come in una serra calda la festa della luce, dei colori e delle belle don-ne»; ma piú avanti, dal duomo, «l’impressione che si riceve è grandiosa ma calma»; infine,il narratore si spinge ad ascrivere, incongruamente, tutto il movimento dell’insieme

all’«allegria chiassosa e bonaria» che si crea nelle feste campestri, perché «il milanese ha lapassione della campagna»23. Che uno dei paesaggi forse piú mossi e indefiniti nella lettera-tura della nuova Italia sia stato disegnato da un “naturalista” con una simile schizofrenia, eche per quegli i medesimi segni siano permutabili tra soggetti diversi, è molto di piú diun’astuzia della storia letteraria. Bisogna prendere estremamente sul serio quest’incertezzadella rappresentazione, fatta di furore macchiaiolo e di effetti di sfocatura: Verga sta cer-cando nulla di meno di una dimora abitabile, per sé e per la sua arte.

C’era però ancora un altro testo che, quasi come un negativo allucinato, insisteva sullaPrefazione alternativa ai Malavoglia, e lo faceva con la cogenza di un forte rapporto inter-testuale oltre che ideologico. Innanzitutto perché la novella cui si sta alludendo, Fantasti-cheria, componeva insieme a Nedda un ineludibile dittico dell’inquadratura e della messa a

fuoco della miseria; poi, perché quei due brevi testi furono altrettanti punti di svolta e diinnesto nella poetica verghiana. Se il bozzetto aveva aperto nella carriera dello scrittore ildecennio del medio cabotaggio, del buon mestiere e di un esercizio interamente risolto en-

 20  Ibid ., p. 171.21 Cfr. F. Orlando, Dodici regole per la costruzione di un paradigma testuale in Per una teoria freudiana della

letteratura, Einaudi, Torino 19962.22  Il viaggiatore meravigliato, cit., p. 169.23  Ibid., p. 170.

Page 10: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 10/43

 

9

tro il campo borghese, Fantasticheria inaugurava la stagione del nuovo paradigma. E difat-

ti in quel caso Verga individuava con esattezza il lettore modello, trasfigurandolo nei pannidi una nobildonna francese di passaggio, in treno, per Aci Trezza, a cui il narratore regala-va la chiave d’accesso al mondo dei diseredati; sicché, come il borghese col sigaro in boccaavrebbe visto attraverso il rettangolo vetrato di una finestra i suoi simulacri perturbanti,cosí la signora poteva ‘oggettivare’ entro il medesimo dispositivo scopico il piccolo borgoisolano. Ma, di là da questo simile principio di fondazione (e di primo esitante incornicia-mento) dell’oggetto, in sé foriero – lo vedremo piú avanti – di decisive implicazioni teori-che, importa anche la seconda visualizzazione che interviene nel testo, questa volta nonfrontale ma verticale, non vaga ma puntuale; e tesa a sfondare il piano dei referenti, nelladirezione di una metaforica assai cara a Verga:

Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, trac-ciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quellepovere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; matutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperata-mente al loro monticello bruno. - Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; - ma per poter com-prendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiuderetutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i picco-li cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall’altro latodel cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà 24.

Rispetto a quanto sarebbe accaduto, di lí a poco, nella prefazione ai  Malavoglia, quil’assiologia pare tutta sociale, e tra osservatore generico e artista non si produce oscillazio-ne, ma una sorta di divisione dei ruoli. Verga escogita un callido dialogismo tra una signo-

ra bene, dapprima refrattaria al calore del popolo, e un letterato che si propone come ‘am-mortizzatore’ e mediatore fra i gradini della scala sociale. E anche qui troviamo una visio-ne telescopica, dall’alto e perversamente indifferente, pronta però a farsi microscopica, atraguardare l’«orizzonte tra due zolle», e a ravvisare nell’organizzazione umana qualcosa disimile a «un esercito di formiche». Come si diceva piú sopra, quello che è inscenato o me-glio alluso è un rituale populista, un autentico «naufragio con spettatore» 25. L’insistenzadel narratore sui senhal di eleganza e di vezzosità (il ballerino, l’ombrellino…) non lasciaspazio a dubbi: sotto la corteccia figurale, quella donna non è un umano rispetto a insetti,ma un padrone rispetto ai servi. Come accade spesso nelle scritture del naturalismo, il di-verso di classe si nasconde (male) dietro il diverso di specie. Il romanziere vede e non vede,a quest’altezza del suo «vagabondaggio» di iniziazione agli umili, il loro universo creatura-

le, ciò che avrà appunto a definire, nella seconda Prefazione, come «grottesco di quei visianelanti». Ma, tra Nedda e Fantasticheria, tra treno e focolare, tutto sembra pronto perquella scena madre, nonché per la sua fatale autocensura.

24 G. Verga , Fantasticheria, in Le novelle, cit., t. I, p. 164.25 Cfr. H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza , trad. it. di C.

Gentili, Il Mulino, Bologna 1985.

Page 11: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 11/43

 

10

4. Verga siciliano 

L’idea di un Verga sagittale, la cui scrittura veicolerebbe teoremi estetici e credi ideo-logici, è sbagliata soprattutto in quanto non rispetta un percorso che appare polimorfo neltempo e nello spazio. Si può legittimamente sostenere che ci sia un Verga mondano e unVerga verista (e non solo); che ci sia un Verga romanziere e un Verga novelliere (e non so-lo); infine, che ci sia un Verga siciliano e un Verga italiano (e non solo). E si può provare aripartire, dopo questo largo preludio su alcune «soglie» e sulla loro rete segreta, daquest’ultima antinomia, citando l’emblematico incipit di uno fra i testi piú dibattuti dellaintera sua produzione: «Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonaronole campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: – Viva la libertà!» 26. I piú avran-no riconosciuto l’attacco di  Libertà, la bellissima e ambigua novella rusticana che Verga

dedicò nell’82 alla sommossa contadina e alla repressione garibaldina di Bronte, offrendodi quel «massacro che i libri di storia non hanno raccontato»27 una visione che stava tral’elegia pauperista e la condanna reazionaria. Su questa novella, da sempre la critica si di-vide. Ci si chiede, in buona sostanza, se Verga – questo Verga che sta parlando, nello stes-so tempo, della Sicilia e dell’Italia, del passato e del futuro – stia con il popolo che realizzaun episodio fuori tempo massimo di  jacquerie, o non si schieri piuttosto, sotto la pelle deltesto, coi «galantuomini». È anche noto che fu Leonardo Sciascia, piú di chiunque altro, amettere in epoché , documenti d’archivio alla mano, la solidarietà di Verga nei confronti deirivoltosi28; mentre toccò a Giancarlo Mazzacurati, in un libro programmaticamente intito-lato Forma & Ideologia – un libro che ormai ha quasi quarant’anni ma ha ancora tanto piúsmalto e capacità di presa di tanti esercizi attuali – provare a censire, su sorta di stateraideologica, gli elementi filo- e anti-popolari presenti nel testo29.

Che si tratti d’una narrazione insicura, metastabile, è d’altro canto l’impressione che siricava anche da un esame delle varianti d’autore presenti nella riedizione licenziata daVerga nel 1920, all’indomani dei fatti bolscevichi, per la collezione della «Voce». Il fazzo-letto tricolore che veniva brandito nel testo di trenta e piú anni prima, era adesso diventatorosso30. E l’ingresso tronfio e goffo di Nino Bixio era assolutamente in tinta: se nella edi-zione originaria non v’era alcuna menzione alla sua divisa garibaldina, adesso Verga senti-va di dover sottolineare il dato cromatico e súbito, com’è ovvio, politico della “camiciarossa”31. Grida vendetta il silenzio della critica verghiana attorno a questa inedita isotopiadel rosso instaurata dal vecchio e ormai (per sua stessa ammissione) «codino» Verga:un’isotopia tonale che indica, sin troppo trasparentemente, come i medesimi ideali di par-

 26 G. Verga, Libertà, in Le novelle, cit., t. I, p. 520.27 Come si ricorderà,  Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato è un film di

Florestano Vancini del 1972. 28 Cfr. L. Sciascia, Verga e la libertà, in  La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia , Torino, Einaudi 1970,

pp. 79-94.29 Cfr. G. Mazzacurati,  La bilancia di ‘Libertà’ ovvero della rotazione imperfetta, in Forma & Ideologia, Li-

guori, Napoli 1974, pp. 176-216.30 Cfr. G. Verga, Libertà, cit., p. 409.31  Ibid., p. 415. Sul legame figurale tra l’eroismo risorgimentale e quel peculiare cromatismo, assai ricco di

spunti è A. Di Grado, L’ombra dell’eroe. Il mito di Garibaldi nel romanzo italiano , Bonanno, Acireale 2011.

Page 12: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 12/43

 

11

tenza muovano quei soldati e quei contadini, ma che alla fine – di un sogno di egualitari-

smo condiviso alla radice – non resterà nulla: nulla, se non il rosso del sangue versato. Èanche cosí, con modificazioni e sfumature della trama dei colori, che i narratori fanno im-maginario del Risorgimento; perché anch’essi si son dotati, a loro volta, di una tavolozza,se tengono davvero a far vedere i loro eroi e la “scena reale” in cui sono campiti.

Nè tale scandalo figurale era il solo che la versione tardiva riservasse. Torniamo con lamente all’ingresso di Nino Bixio: in origine chiosato con un «Questo era l’uomo» di spet-tanza della voce narrante, veniva ora accompagnato da un piú ostico, a livello di senso e diresponsabilità elocutiva, «Questo era generale»32: che può significare tanto – avvertono icommentatori – una denotazione quanto una connotazione; ovvero, tanto un mero ricono-scimento da parte degli attanti (‘Costui doveva essere generale’), quanto un brachilogicoelemento di satira e di straniamento da parte del narratore (‘Ciò voleva dire essere gene-

rale’). Mentre non si modificavano i suoi primi atti di giustizia criminale, mutava invece laratio di quel tribunale sommario: se nell’82 venivano elimiminati «i primi che capitarono»,nell’edizione del ’20 a essere fucilati sono «i primi della lista»33. Il tempo non era passatoinvano per l’antico narratore della vita dei campi, ormai agiato possidente terriero e onora-tissimo senatore del Regno d’Italia: adesso c’era una lista dei colpevoli.

E chi era il primo sulla lista, il simbolico capro espiatorio della rivolta? Verga ci diceche era Pippo il nano, e qui la variante non riguarda piú il passaggio da una redazioneall’altra, ma quello dalla realtà storica alla sua rappresentazione in chiave figurale. Gli ar-chivi registrano infatti, come primo condannato, un altro genere di reietto, la cui menoma-zione non è fisica ma mentale. Si tratta di certo Nunzio Ciraldo Fraiunco, “pazzo” diBronte, «soltanto colpevole – spiegherà Sciascia – di aver vagato per le strade del paesecon la testa cinta di un fazzoletto tricolore profetizzando, prima che la rivolta esplodesse,

sciagura ai galantuomini»34. Lo scambio di persone realizzato da Verga è forse un atto adiscarico di Bixio e della sua rappresaglia: serve ad attenuare le sue pesanti responsabilitàetiche, anche in virtú della tradizione folclorica che associa il ‘pazzo’ al sacro, mentre il‘nano’ abita i territori del male. Siamo davvero alle prese con «una sorta di ausilio recatoalle esigenze di una piú generale e collettiva mistificazione risorgimentale»35. Comunquesia, che si tratti di un alienato - homo sacer o di un mostro da camera, che cioè si tratti dideficit somatico o di alienazione mentale, risulta senz’altro interessante, proprio per la suaperfida sottigliezza, questa trasfigurazione verghiana, segno di un disagio che riguarda cer-to l’ideologia, ma anche, e prima, la forma della rappresentazione.

Forse qualcosa che accade in un’altra, ma comunicante sfera dell’arte può gettare unaluce su questa storia di microvarianti. Nel 1880, alla quarta Mostra Nazionale di Torino, lo

scultore napoletano Achille d’Orsi espose un gesso, dal titolo Proximus tuus, che provocòmolte reazioni36. Nella polemica si intrecciavano valutazioni estetiche e interpretazioni eti- 32 Cfr. ibid ., p. 415 e, contra, p. 523.33 Cfr. ibid., p. 415 e, contra, p. 523.34 L. Sciascia, Verga e la libertà, cit., p. 88.35 Cfr. il commento di G. Tellini a G. Verga,  Le novelle, cit., p. 415.36 Su cui si veda I. Valente,  Scultori a Napoli al tempo di Renda. Un viaggio fra le tendenze artistiche di fine

Otto e inizio Novecento, in Giuseppe Renda 1859-1939, tra tradizione e rinnovamento, a cura di D. Esposito, ca-talogo della mostra di Napoli 2007-08, Electa, Napoli 2007, pp. 11-47.

Page 13: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 13/43

 

12

co-sociali. Era ritratto un contadino, abbandonato a terra, con la zappa tra le mani. Il ges-

so venne innanzitutto considerato un’opera di protesta, intrisa di contenuti politici: vi erarappresentato, come si scrisse, «uno zappaterra stanco morto», la cui «espressione non era di una miseria che ti fa versare una pietosa lacrima e asciugarla dolcemente»; si trattavapiuttosto della «dichiarazione energica di un peccato sociale orribile, di un’ingiustizia co-lossale»37. Ma di là da questo precocissimo populismo (come si è già detto, Pellizza daVolpedo ‘vedrà’ il suo quadro mitico, Il Quarto Stato, solo quindici anni dopo, con la rea-lizzazione del relativo ‘cartone’, La fiumana), e di là anche dalla straordinaria potenza em-patetica e fàtica del titolo latino, intriso di ecumenismo cattolico, c’è un ulteriore elementosu cui occorre soffermarsi. La linea scultorica meridionale  fin-de-siècle, tanto all’avanguar-dia quanto trascurata nelle ricostruzioni storiche, presenta negli anni ’80 due tendenze do-minanti: da un lato il «naturalismo estremo, scevro da ogni bellezza formale», rappresenta-

to appunto da Proximuus tuus, e dall’altro «un nuovo indirizzo della scultura teso a media-re tra le reminescenze dell’antico e le nuove esperienze veristiche, fondandosi sull’idea diun bello coniugato al vero, non senza esprimere significazioni ideali tout court »38. Ora, inun simile contesto era congruo che Proximus tuus fosse definito «orrendamente brutto», eche nel contempo se ne lodasse l’esecuzione. L’accusa che veniva rivolta a D’Orsi, da piúparti, era quella di aver preso a modello un contadino, non solo stremato dalla fatica fisica,ma anche ammalato di pellagra. L’arte moderna riservava dello spazio per questo?

Achille D’Orsi, Proximuus tuus (Roma, Galleria d’Arte Moderna, 1880)

Secondo Camillo Boito, il contadino non è affatto ammalato, ma «cretinizzato dal lavo-ro»: «è un contadino seduto a terra affranto. Non ha deposto la vanga. Tiene sulle ginoc-chia le mani callose dalle vene turgide. Ha le gambe nude, e grosse scarpe ai piedi. La ca-

micia lascia vedere il petto magro, ansante. Una pezzuola gli stringe il capo. Naso grande,bocca socchiusa, occhi infossati, spenti; non pensa, suda… l’esecuzione giova al concetto:è vera ma ruvida»39. Nessuna malformazione, quindi, nessuna menomazione. In altre paro-

 37 A. Cecioni, Opere e scritti. Con pagine e lettere inedite dell’autore a Giosuè Carducci , a cura di E. Somare,

L’esame, Milano 1932.38 I. Valente,  Scultori a Napoli al tempo di Renda. Un viaggio fra le tendenze artistiche di fine Otto e inizio

Novecento, cit., p. 20.39 C. Boito, Gite di un artista, Hoepli, Milano 1884, p. 79.

Page 14: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 14/43

 

13

le, i critici dell’opera, affannandosi nella diagnosi della malattia, sembrano denunciare lo

stesso disagio, le stesse aporie dell’arte sociale che traspaiono nella scrittura verghiana inquegli anni, allorché deve rappresentare il “diverso”; gli uni e l’altro si preoccupano didargli un nome che sia sussumibile nel codice convenzionale degli umani, alla voce “pato-logico” piuttosto che “anomalo”. Pellagra contro cretinismo, nanismo contro follia: le as-siologie appaiono esattamente parallele, e cosí le modulazioni del tabú sociale, che divieneun bando vigliacco e inesorabile nei confronti dell’anormalità naturale e somatica, e alcontrario prevede una sorta di immunità se si tratta di patologia mentale.

Come si accennava sopra, simili rappresentazioni non coinvolgono solo l’estetica el’ideologia, ma anche l’antropologia e la scienza positiva, nella misura in cui tendono a isti-tuire, lungo la duplice assiologia tracciata dall’evoluzionismo, un nesso tra «diverso socia-le» e «diverso biologico». Tale correlazione si verifica, ad esempio, allorché una figura reca

iscritto, nella bestialità del nome e del soma, o nelle sue pose abituali (quelle istantanee diparole che sono insieme simboli e allegorie: si pensi al Rocco Spatu dei  Malavoglia, e aquel finale dentro la prosa del mondo e l’eterno ritorno dell’uguale), un destino di emargi-nazione, di superstizioso abbandono. V’è ad esempio un luogo, ancora nel primo romanzodei Vinti , in cui si trova la traccia piú significativa d’una teoria del «marchio a fuoco» (nonremota da coevi assunti scientifici) mai scritta da Verga, e tuttavia immanente in molte suepagine. Essa compare in uno degli ultimi capitoli dell’opera, quasi a volere apporre un si-gillo apodittico a una diversità, quella del personaggio di Piedipapera, già espressa lungo ilcorso della narrazione. È don Michele a parlare a Lia, stigmatizzando, con toni sinistri, lefrequentazioni di ’Ntoni: «Di Piedipapera solo questo rammentategli: – Gli disse GesúCristo a San Giovanni, “degli uomini segnati guàrdatene!”. Lo dice pure il proverbio» 40.Soltanto adesso il segno diabolico, che introietta nel corpo di Piedipapera un principio

morale, un’innata malvagità (ed è contenuto, a sua volta, nell’ingiurioso soprannome delpersonaggio, secondo una circolarità tipica delle comunità primitive), ‘esplode’ testual-mente, dopo che alcune connotazioni diaboliche, come il «piede del diavolo» 41, avevanofatto registrare un’oscillazione di statuto, fra un demonismo propriamente detto ed unacaratterizzazione, in fin dei conti, già bloccata in una struttura tropica.

Quello che tuttavia si rivela decisivo per il nostro discorso è la formulazione retorica incui la sentenza – alla cui radice sta, naturalmente, il biblico «cave signatum» – cade. Lacritica non ha omesso di segnalare come si tratti non di un puro «motto degli antichi»,come ne proliferano nell’opera, ma di quello che si definisce un «wellerismo», ovvero unasentenza attribuita dal locutore ad un personaggio, storico o immaginario, con carattereironico oppure solenne42. Già lo statuto di quest’escogitazione retorica, ambiguo in vari

sensi (oltre che in quelli ora esposti, anche in un altro senso, che in parte li comprende:40 Cfr. G. Verga, I Malavoglia, cit., p. 306.41  Ibid., p. 45 e p. 137 (e cfr. anche l’espressione, di nuovo analogica, «zoppo come il diavolo»: p. 325).

Nel primo luogo si noterà anche, sulla scorta di Cecco, che proprio Piedipapera vi è responsabile di un attoche nella superstizione popolare (cfr. S. Salomone-Marino, Costumi ed usanze dei contadini in Sicilia, Sandron,Palermo 1897, pp. 287 ss.) si carica di valenze demoniache, se compiuto da un agonizzante: l’uccisione di ungatto grigio.

42 Cfr. ad es., da una specola antropologica, A.M. Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, Einaudi,Torino 1986, pp. 18 ss.

Page 15: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 15/43

 

14

l’attribuzione della sentenza è vera o falsa?), viene subito a dire che stiamo addentrandoci

in territori estremamente piú complessi di quelli sigillati da un atavico logos, da una sa-pienza popolare e proverbiale ontologizzata una volta per tutte: e malgrado lo stesso Verga– che si serve qui della summa approntata da Pitré43 – si affretti ad apporre al segmento,tanto nel brano citato quanto nella susseguente ripresa44, la duplice etichetta di «prover-bio» e di «detto dell’antico», andrà pur osservato che, mentre il secondo sintagma presen-ta un’essenziale variazione rispetto alla formula (paradigmatica nell’idioletto verghiano) di«motto degli antichi», il primo termine sacrifica alle ragioni, stavolta esteriori, della varia-tio la maggiore esattezza della lezione originaria45.

Inoltre, ad uno sguardo che si sforzi di traforare la forma ultima del testo, ripercorren-done la stratigrafia, non sfuggirà il particolarissimo tipo di lavorío espressivo che si svolgein questo luogo: un lavorío tanto piú significativo nella portata esegetica, in quanto conse-

gnato infine ad un restauro minuto. «È un “wellerismo” parzialmente camuffato dal di-scorso; le virgolette evidenziano infatti, a differenza della versione dell’autografo piú fede-le alla trascrizione di Pitré, solo una parte del proverbio, come se la restante rientrasse neldiscorso del personaggio»46. Cosa insomma fa don Michele? O meglio, che cosa compieVerga in questa singolare, e tuttavia esemplare, fattispecie di «regressione»? Cercheremodi ricostruire minuziosamente la sequenza: anzitutto, egli estrapola dal consueto repertorioparemiologico una diceria (una «sentenza» priva di ufficiale attestazione) che s’era ormaiproverbializzata, a tutto detrimento del potenziale destabilizzante della bestemmia che viera racchiusa; poi, di fatto la de-proverbializza, rendendole per intero il suo statuto prima-rio, di «detto», e recuperandone, mediante la semplice dislocazione al di fuori della cita-zione della frase principale, l’energia eretica; infine la ri-proverbializza, adducendovi síl’intrinseca autorità della forma apoftegmatica, ma soltanto a mo’ di rincalzo di un assunto

in sé già forte («Lo dice pure il proverbio»).La prima domanda sarà, allora, perché Verga, nel medesimo momento in cui fornisce

un’icona straordinariamente efficace della sua concezione del «segnalato» e del «diverso»,si risolva ad utilizzare – ed è un caso unico, nella complessiva scrittura del ciclo – una figu-ra dallo statuto cosí sfuggente e ambiguo, a cominciare da quella forma d’idolatria, versoun surrettizio principio d’autorità, che in essa alligna. Ancora una volta, dinanzi a questoulteriore «interno» del testo, non potremo che rispondere, a partire dalla specifica qualitàdel processo genetico sopra illustrato, con una esitante ipotesi di lettura: che il wellerismonon costituisca, alla fine, null’altro che un tipo particolare di «formazione di compromes-

 43 G. Pitré, Proverbi siciliani, raccolti e confrontati con quelli degli altri dialetti d’Italia , Pedone Lauriel, Pa-

lermo 1880: vi si veda il vol. I, p. 165: «Cci dissi Gesú Cristu a San Giuvanni: Di li sengaliati guardatinni»; cfr.anche, alla pagina successiva della medesima raccolta, quest’altro proverbio: «Diu ti guardi d’omu chi mina lupedi, e di fimmina chi neu ’n faccia teni», che viene però scartato da Verga, a causa certo di un’eccessiva ‘fron-talità’.

44 G. Verga, I Malavoglia, cit., p. 305: stavolta sarà Mena a parlare, facendosi latrice presso ’Ntoni del mo-nito di don Michele.

45 E si tratta di una correzione estrema, da apparato evolutivo: è nelle bozze, infatti, che Verga si de-termina a cassare l’espressione «detto dell’antico», che campeggiava precedentemente anche qui.

46 Cfr. il commento cit. di Cecco, ad loc. 

Page 16: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 16/43

 

15

so», anzi la figura eletta di precipitazione del «ritorno del regresso»47, del riaffiorare di un

livello di Weltanschauung che si pretende superato: in questo caso, una superstizione de-monistica, un sordido tabú, la cui responsabilità elocutiva è attribuita alla stessa voce delCristo. Un ritorno del regresso che, proprio in quanto s’innesca nel vivo d’un ulteriore ar-tificio regressivo, scatena il radicale scandalo di un attrito gnoseologico48.

A questo punto, però, conviene porsi un ulteriore interrogativo. Quanto sono universalie quanto sono siciliane queste immagini? Ci parlano di una diversità assoluta o di un’alte-rità relativa? O forse sono l’espressione straniata di quella che Sciascia, nel solco gram-sciano, designerà come «sicilitudine»49? In  Libertà come nei Malavoglia, Verga ci parla diuna terra che, nel sistema dello nuovo Stato unitario, non è piú isola, ma periferia 50: i suoitesti non avrebbero capacità simbolica né di introspezione storica se non fossero scritti daun uomo che ha conosciuto, esistenzialmente e artisticamente, la vita del continente, tanto

da mettere a punto un dispositivo linguistico ibrido, in grado di restituire questa compre-senza e questa complessità. Ciò che rappresenta non è mai avulso dai ‘rapporti di forza’operanti, sul piano culturale ed ancor piú su quello sociale, nel contesto della nazione, mailascia cadere nell’oblio il fatto che la gente di Bronte o di Aci Trezza sia l’anello debole diun sistema, innanzitutto economico, mirante alla perpetuazione di strutture di potere cri-stallizzate, se non incancrenite. In tal senso, il racconto profondamente «creaturale» delledisillusioni post-risorgimentali e dell’immobilismo isolano consegnati a questi testi narrati-vi (e a molti altri, da Cos’è il Re a La chiave d’oro, per citare alcuni tra i piú dimenticati),pur riscattando la sua cifra particolaristica in una forma universalistica e persino mitogra-fica, non smette mai di essere una rappresentazione, tanto piú efficace in quanto riverbera-ta ed effettuale, dell’Italia unita, delle sue contraddizioni, delle sue miserie, dei suoi perdu-ranti ricatti e delle sue nuove mafie. E anche su questo versante politico e storiografico,

come ci era accaduto di osservare per la selezione delle tematiche, il passaggio verghianodall’Italia alla Sicilia non sarà affatto una deminutio, ma l’occasione di un rilancio analitico,dai margini al centro. Ma per comprenderlo dobbiamo adesso fare un balzo indietro, nellaprima formazione scolastica e nel timido, paludato apprendistato del giovanissimo Verga.

 5. Verga italiano 

Come nasce un romanziere? Nella fattispecie: cosa scriveva Verga mentre accadevano ifatti di Bronte che avrebbe raccontato, e demistificato, venti anni piú tardi? In effetti, su-

 47 Cfr. F. Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana , Torino, 19972, pp. 15 ss.48 A. M. Cirese, Wellerismi e microracconti , «Lingua e stile», 2 (1970), pp. 283-92, effettua una descrizione

di quell’espediente, nonché una sua tripartizione non schiacciata sulle mere ‘funzioni’, anzi protesa a sondarnei rapporti di forza ed a formalizzarne i tratti pertinenti. Nel discuterla, M. Del Ninno (cfr. la voce, da lui stesa,Proverbi , in Enciclopedia Einaudi , XI, Torino, 1980, pp. 385-400) ha concluso che il «salto di isotopia» caratte-ristico del wellerismo condurrebbe ad un effetto destabilizzante simile a quello che distingue il Witz.

49 Cfr. L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in La corda pazza, cit., pp. 4 ss. 50 Come è periferia, prima che isola, la Sicilia di Tomasi di Lampedusa: cfr. l’interpretazione, in termini ri-

gorosamente matteblanchiani, di F. Orlando , L’intimità e la storia. Lettura del “Gattopardo”, Einaudi, Torino1998.

Page 17: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 17/43

 

16

scita un po’ di sgomento la constatazione che il primo cimento narrativo dello scrittore –

prescindendo dall’inedito Amore e patria, scritto nella minore età e, caso unico di esotismoverghiano, dedicato alla guerra d’indipendenza americana – risalga proprio al 1860; e che,pur ambientandosi mezzo secolo prima e al di là dello stretto di Messina, esibisca le cica-trici degli eventi coevi e le crepe di un’ideologia in (disorganica) formazione. Potrebbetrattarsi d’un caso di “eterogenesi dei fini”, ma tanto Libertà quanto I carbonari della mon-tagna parlano di complotti e voltafaccia, frange sociali permeabili, esecuzioni sommarie; edi un Risorgimento che, nel momento della sua aurora grigia come nel tempo delle glorio-se vittorie, induce il testimone alla stessa sospensione del giudizio, allo stesso disincanto.

L’esordio verghiano, intriso di oratoria patriottica e dozzinale, di omaggi (per non direplagi) ai Dumas e a Walter Scott, a Guerrazzi e ad una gloria locale come Domenico Ca-storina, era agitato, anzi esagitato da una tesi forte, che all’improvviso balenava sopra la

coltre degli amori corrivi, degli spiritelli vaganti e delle figurine popolari e schizzate se-condo un manicheismo di classe fin troppo scoperto. La tesi, che induceva lo scrittore no-vizio a ingaggiare una «battaglia morale» e aspramente antifrancese, era che nel 1810 iBorboni, in malafede e a tradimento, avessero inviato in Calabria gentaglia senza scrupoliper farla confondere con i Carbonari e inimicare questi ultimi al popolo:

Quando si parlò di briganti, i Carbonari per una strana coincidenza, ci tornarono in mente.Quando questo brigantaggio assunse caratteri tanto terribili da fare illudere anche spiriti elevati,italiani irreprensibili sulle vere aspirazioni di quel popolo, ebbimo la nostra ultima maledizione dalanciare a questa razza perversa, che tale avevamo conosciuto sempre. Al 1861, come al 1810, iBorboni avevano sparso il sangue a torrenti 51.

Come si vede, è di nuovo una poco nota soglia di Verga, la Prefazione ai Carbonari , alasciar scorgere, in modo sorprendente, uno strato sommerso del suo metodo conoscitivo.Alla luce di quel paratesto, cioè, possiamo affermare che lo scrittore catanese da sempreparli del passato per parlare del presente: come per una sorta di storicismo irriflesso. Col

 Mastro-don Gesualdo, quel gesto mentale diverrà addirittura fondativo, plasmante; ma giàadesso, al debutto sulla scena letteraria, si può cogliere, a motivare e innervare la scrittura,una sorta di petizione eziologica, indiziaria, retrospettiva; in ultima analisi, revisionista.

Per contro, non stupirà, considerata la giovane età e il magistero stimolante ma senz’al-tro provinciale di don Antonio Abate, qualche didascalismo e qualche impaccio di tropponello stile, viziato dal romanesque della tradizione e dalle propagande del presente: tantoche a un certo punto il narratore consegna la sua idea politica al personaggio di Corrado,Gran Maestro della Carboneria e incarnazione del Bene (un capitolo del romanzo si intito-la «L’angelo custode»…), mettendogli in bocca una battuta di smaccata trasparenza: «ilgiorno in cui i Borboni hanno voluto percuotere la Carboneria e le speranze d’Italial’hanno fatto col mandarci questi aiuti dalle galere. Io avevo un triste presentimento e neavevo parlato alla regina… La regina ha promesso… Ora fa pace col Bonaparte, la Carbo-

  51 Cfr. G. Verga,  I carbonari della montagna. Sulle lagune, a cura di C. Annoni, Vita e Pensiero, Milano

1975, p. 11.

Page 18: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 18/43

 

17

neria le è d’impaccio e la distrugge» 52. È una sagoma, quella del protagonista, ritagliata

con l’accetta: «misterioso ed imperativo» 53

, «di mezzana statura, snello e piuttosto magro,quantunque di un taglio svelto ed elegante, egli sembra di una debolezza tale da contrasta-re vivamente col suo gesto, il suo accento, la sua natura di sovranità e d’intero conl’energia del suo carattere, con la risoluzione indomabile che brilla nel suo occhio poten-te» 54; in grezzo contrasto con il diabolico deuteragonista, il traditore Gaston Guiscard,dalla pelle «di una bianchezza sí pallida da sembrare che nessuna goccia di sangue vi scor-resse di sotto» e dall’iride trasparente, che «ora si faceva bianca come quella di uno spet-tro; ora prendeva un riflesso verdognolo come lo sguardo del vampiro» 55. Sul piano dellafelicità formale, siamo insomma lontani anni luce dalla «bilancia» di  Libertà, da quella fi-guralità allegorica e disgiunta che rende cosí sospesa e indecibile la narrazione matura. Èche Verga si sta facendo le ossa come affabulatore, e se da un lato sbircia nel  feuilleton

d’oltralpe, dall’altro il suo canone, tematico e stilistico, è tutto italiano, per la precisionefoscoliano e manzoniano. Cosí, per un verso struggimenti ortisiani (e ideali politici coniu-gati ad amori altrettanto ideali), per l’altro temerarie panoramiche e sondaggi nel guazza-buglio del cuore umano, entro il solco sicuro dei Promessi sposi . Basti la maniacale orogra-fia dell’incipit , scimmiottatura del modello piú carismatico del nostro Ottocento (a sua vol-ta debitore, anche nella costruzione dell’‘attacco’, all’ Ivanhoe di Scott), non senza qualcheeffetto d’involontaria comicità:

L’estrema diramazione degli Appennini che si prolunga fino alle ultime spiagge della Calabriaassume dei caratteri particolari; non è piú quella catena superba, figlia delle Alpi, che si copre dinevi perenni; e dalla riviera di Genova sino ai confini dell’Abruzzo mostra ai suoi mari le sue cimeghiacciate al di sopra delle tempeste del cielo; poiché accostandosi alle parti piú meridionali d’Italia

sembra sentire l’influenza di questo cielo d’Oriente. I suoi gioghi […] prendono delle forme menodure piú arrotondate.. una vegetazione di boschi che ai tempi di cui scriviamo formavano delle vereforeste impenetrabili, coprivano le coste ancora selvaggie di questi monti, che si spiegano sino allespiagge del mare 56.

Eccetera, eccetera. Con ogni evidenza, è di scena un narratore alle prime armi, che nona caso impasterà il suo fluviale racconto di amori a buon mercato e di occultismo d’accatto,e non riuscirà a rattenere la sua idiosincratica (e un po’ fanatica) visione storico-politicanemmeno dietro gli scenari altamente codificati e cristallizzati che vorrà allestire. Analo-gamente, potremmo sostare a lungo sulla rigida suddivisione di registri – gentiluominicontro popolani – che lo scrittore dei Carbonari opera, secondo una stilizzazione meccani-ca e sull’orlo del melodramma. Egli sembra incapace di conseguire soluzioni stilistiche

ibride, sperimentali compromessi o invenzioni lungo gli assi diastratico e diafasico. O forse,piú ancora della imperizia mimetica, gli fa velo una mentalità ancien régime, che impedisce

 52  Ibid ., p. 441. 53  Ibid ., p. 185. 54  Ibid . 55  Ibid ., p. 414. 56  Ibid ., p. 88.

Page 19: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 19/43

 

18

al popolo di assurgere a soggetto storico, restando alla stregua di «massa di manovra» 57:

tanto è vero che le stesse tavole fisiognomiche operanti nel testo appaiono bloccate secon-do un modulo schematico e deterministico, che, a questo stadio dell’apprendistato ver-ghiano, ancora vieta agli umili l’accesso agli attributi della bellezza.

Ma piuttosto che indugiare in un fatalmente impietoso giudizio di valore, è ora oppor-tuno sforzarsi di ascoltare il basso continuo “nazionalistico” che accomuna tutte le paginefin qui discusse, sul piano della realizzazione formale come su quello dei modelli ideologici.Perché sta di fatto che, a dispetto della prima formazione, schiettamente insulare, e delleletture europee che con rimarchevole precocità coltiva, Verga, almeno nella maggior partedelle stazioni della sua carriera, si sente italiano. Pertanto, egli avverte l’ostacolo politico equello linguistico come la sfida essenziale, il primo indifferibile mandato per sé e per laclasse cui sente, con orgoglio, di appartenere. E infatti, anche se l’anno dopo  I carbonari 

della montagna si verifica per lui un incongruo passaggio a Nord-Est, il ‘centro lirico’ dellasua prosa resta quell’endiadi nel cui segno aveva battezzato l’inedito: amore e patria. E an-cora una volta, esattamente come nelle prime due prove, l’italianità può fondarsi solo invirtú dell’attrito con l’alterità. Se Amore e patria era un episodio del Settecento americano,e se i Carbonari si sviluppavano (per ben quattro tomi) negli anni del dominio francese nelRegno delle Due Sicilie, l’azione di  Sulle lagune, infarcita di fanciulle perseguitate e dianime nere, è ambientata a Venezia, nei giorni dell’occupazione asburgica. Si tratta di unromanzo, balzachianamente, di “storia contemporanea”, scritto in sincronia con gli eventiche ne costituiscono l’ossatura, quindi: è il 1861. L’unità d’Italia non è stata ancora com-pletata, e le lagune sono state e continuano ad essere il paesaggio degli estremi impeti ri-sorgimentali e delle efferate repressioni austriache. Stefano, un ufficiale magiaro ostileall’Impero, figlio di un ribelle giustiziato ad Arad nel ’49, poi disertore, poi soldato sabau-

do, infine arruolato nelle file della polizia austriaca, si innamora di Giulia, veneziana, ap-partenente a una famiglia di patrioti irredentisti, protetta e insieme insidiata da un aristo-cratico austriaco. Nel romanzo i temi del villain respinto, del duello d’onore, della fuga inbarca riciclano ed esasperano, ancora, il prestigioso ‘formato’ manzoniano; e il sogno diuna Venezia libera suggella la narrazione, facendo conflagrare gli impulsi patriottardi.

Ma questa vicenda di un Verga italiano non finiva qui, anzi probabilmente non era an-cora cominciata. Vent’anni dopo, quando si tratterà ormai di “fare gli Italiani” anche cul-turalmente, Verga si porrà il problema tecnico e insieme politico della lingua con inedito erisoluto impegno; e il frutto di questa ricerca costituirà forse il piú decisivo tra i suoi lasciti.Una lingua modernissima e stratificata, strumento di comunicazione e di conoscenza dutti-le e insieme prensile, in grado di dare espressione al conflitto sociale come alle Weltan-

shauungen piú immobilistiche, di rappresentare i moti convettivi del linguaggio e i conflittia cui essi rispondono. L’espediente artistico che rende possibile questo miracolo è, comeben noto, il «discorso vissuto» (coi suoi corollari sintattici e stilistici, dall’éternel imparfait  agli effetti di nenia o di lassa), che Verga aveva appreso alla scuola dei realisti francesi, eche nel Novecento appassionerà linguisti del calibro di Leo Spitzer e di Giacomo Devo-

  57 C. Annoni, Introduzione a G. Verga , I carbonari della montagna. Sulle lagune, cit., p. 12.

Page 20: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 20/43

 

19

to 58: una rivoluzione dei codici prosastici analoga a quella prodotta dal verso libero in poe-

sia. Perché, come lo sfondamento della gabbia metrica consentirà di svincolare e di conse-guenza potenziare il significante, cosí la spaccatura d’ogni legame cogente tra sintassi e re-gistro dà modo alla narrazione verghiana di modulare la diversità evitando a un tempo unantistorico e irreale schiacciamento verso l’alto e un folkloristico stile- pastiche. È ingenero-so ritenere, come ancora molti fanno, che l’ideologia di Verga non abbia reali negozi conquesta vera e propria “politica” formale, pensando ai suoi artifici come a esperienze da la-boratorio, pratiche estetiche avulse dal credo politico e dalla soggiacente tavola etica:l’erlebte  Rede è il ‘medio’ del suo messaggio, ma anche il suo messaggio stesso.

Nell’avvicinarsi alle genti umili della sua Sicilia, il romanziere decide di adottare nonuna lingua parlata nazionale, di fatto inesistente; non la lingua regionale, che avrebbe co-stretto il libro in un ambito ristretto; bensí una lingua italiana intessuta di espressioni e vo-

caboli locali, adatta a caratterizzare i personaggi ed a nascondere l’autore, costruita sullastessa semplice struttura sintattica della lingua siciliana, al fine di semplificarne la letturada parte di persone poco istruite e di restituire la trama della realtà. Probabilmente,l’«identità italiana» di Verga e la sua lettura ideologica della vita nazionale risiedono piú aquesto livello morfologico che nelle tante rappresentazioni e narrazioni della Storia, delRisorgimento e delle sue radici malate, che ci ha consegnato: tanto contraddittorie, scisse esfuggenti queste ultime, quanto rivoluzionaria, coerente, «soda» la forma che le contiene.

Postulare la coerenza di una forma non significa, tuttavia, escludere i punti di incrinatu-ra: solo che essi non andranno ricercati tra i gangli e i puntelli della narrazione, cioè sulpiano delle tecniche e dei procedimenti, bensí nell’impianto generale, al livello del sistema.Proprio a questo livello, la scrittura di Verga può serbare ancora, nelle sue articolazionipiú frastagliate, sorprese e dilemmi. Si pensi al diario dell’Isabellina, nel  Mastro-don Ge-

sualdo: un atollo di bovarismo in un romanzo di satira sociale, o meglio di grottesco sociale.A rileggerlo oggi, si resta colpiti da una di quelle sincronie storico-letterarie in grado forsedi dif fondere luce su motivazioni e significati reconditi del testo. La coincidenza a cui si al-lude è il destino parallelo che andava compiendosi all’altro polo della pratica narrativa madentro la stessa temperie di «crisi del romanzo», ovvero la ricerca della forma romanzo ad opera di Gabriele D’Annunzio: che esattamente in quel 1889, toccava un apice di speri-

mentalismo e di narcisismo introiettato, col journal  di Maria incastonato nel Piacere 59

, qua-si un punto di rotazione e di incrinatura del suo capolavoro narrativo.

Ebbene, fra tali romanzi radicalmente diversi si dà un isomorfismo che meriterebbe una

piú precisa analisi comparativa, sia delle decisioni estetiche di fondo che delle peculiari so-luzioni stilistiche. In ambedue le opere il punto di vista subisce infatti, nel bel mezzo dello

svolgimento finzionale, un repentino slittamento, e con esso risultano alterati il passo e lostatuto stesso del racconto. Da Andrea a Maria, da Gesualdo a Isabella: dal romanzo del-l’artista al diario intimo, in un caso; dal romanzo «di prove» ad un saggio di Er ziehungro-man, nell’altro. Siamo di fronte a due scrittori affermati che nello stesso momento storico e

 58 Cfr. L. Spitzer,  L’originalità della narrazione dei ‘Malavoglia’, in  Studi italiani , Vita e Pensiero, Milano1976; e G. Devoto, I “piani del racconto” in due capitoli dei “Malavoglia”, in Nuovi studi di stilistica, Firenze, LeMonnier, 1962.

 59 Cfr. G. D’Annunzio , Il piacere, a cura di F. Roncoroni, Mondadori, Milano 1995, pp. 188 ss.

Page 21: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 21/43

Page 22: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 22/43

 

21

6. Verga europeo 

Dalla Sicilia all’Italia, dall’Italia all’Europa: un siffatto diagramma biografico, riposantesull’ipotesi critica di una progressiva sprovincializzazione di Verga, è di per sé fin troppoapprossimativo; nel caso della carriera del letterato catanese, poi, viene clamorosamentecontraddetto da una miriade di prove controfattuali. Qui se ne ricorderà in special modouna, a nostro avviso esemplare dell’intreccio – che c’è sempre, ma in questo caso si fa ine-stricabile – tra le anime e le patrie dello scrittore. Si tratta della vicenda di una relazione atre: fra Verga, un suo auctor francese e un “altro” Verga.

Ma prima di provare a considerare le relazioni (ed eventualmente la regola del funzio-namento) dell’intertestualità attiva fra due novelle italiane e un romanzo-fiume francese, èbene cercare di ricostruire per sommi capi il contesto complessivo in cui si verifica

l’innesto. Siamo verso la metà degli anni Ottanta, e Verga sta sulla scena letteraria italianacome una specie di enigma: è emigrato nel continente da un decennio, ha avuto la sua sta-gione scapigliata ma alquanto idiosincratica, ha pubblicato le sue due cruciali raccolte dinovelle, Vita dei campi e Novelle rusticane; e soprattutto ha già dato alla luce quei  Malavo-glia che le istituzioni culturali hanno accolto in modo non unanime, ma in ogni caso rico-noscendone i caratteri (almeno sul piano morfologico) di originalità. Singolarmente, nono-stante cioè quella sicura capacità di smuovere l’orizzonte delle forme e gli statuti fonda-mentali del racconto, l’itinerario dello scrittore catanese procede però in modo tutt’altroche lineare: tanto che quel romanzo, che ha costituito il culmine di un esemplare appren-distato, appare piuttosto come una ferita aperta nella sua carriera di poligrafo, di «testimo-ne scisso», di fabulatore irrequieto, sempre in bilico tra ricerca e documento, tra tipico ediverso, tra la sperimentazione piú ardita e il ‘mestiere’ di scrivere, quasi un impulso a re-

stituire senza accomodamenti, perfino in modo irriflesso, la prosa del mondo.Si prenda – giusto alle origini della sua ricerca formale – il dittico fiorentino composto

da Una peccatrice e da Storia di una capinera: due romanzi nei quali la passione e il tormen-to, la disillusione e la malattia, il parossismo e l’emarginazione erano stati declinati secon-do una mise en scène debitrice tanto, ancora, al modello manzoniano (soprattutto il secon-do testo, con quell’eroina in gabbia, un po’ Ermengarda e un po’ Gertrude), quanto allepiú avanzate formalizzazioni d’oltralpe, da Chateaubriand a Musset alla Sand, ora acclima-tate in un’amalgama piuttosto raro nel panorama delle lettere italiane. Oppure, si consideriEva, opera di ponte tra Firenze e Milano, in cui Verga non si era limitato ad incastonareun suo alibi nella figura dell’artista siciliano (né per la verità era nuovo a narcisismi di gra-do zero: il protagonista di Una peccatrice era precisamente uno scrittore siciliano), ma ave-

va istradato il lettore, mediante la celebre introduzione sulla crisi dei valori e l’emargi-nazione dell’arte, verso una fruizione moralmente e socialmente ‘forte’ ed engagée. ProprioEva, inoltre, aveva aperto l’estremo tris di donne fatali e di amori impossibili, alla vigiliadella svolta verista: e se Tigre reale – scritto, come si ricorderà, negli stessi mesi in cui erain cantiere anche Nedda – si aggirava sempre nei dintorni della Scapigliatura, con isterichepsicomachie e vieti connubi tra amore e morte, con Eros Verga avvicinava a un piú sofisti-cato campione di estetico seduttore e di eterno marito: tra Dostoevskij e Flaubert, e natu-ralmente verso D’Annunzio. E con questo personaggio affacciato sul Novecento – nel se-gno, quindi, di un’educazione sentimentale fallita, troppo compromessa dalle cattive lettu-

Page 23: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 23/43

 

22

re e dall’infinito desiderare – si chiudeva per Verga la stagione delle passioni totalizzanti e

triangolari: la vena non era affatto esausta, ma lo scrittore si sentiva sempre piú attrattodalla sfida delle «mezze tinte dei mezzi sentimenti», ingredienti e non piú sostanza liricadel quadro complesso che aveva in mente.

Nell’inedito paesaggio di forme che Verga traguarda intorno all’80, la narrativa brevesembra offrirglisi soprattutto come una formidabile risorsa di supporto e di lavorío quoti-diano, quasi il terreno eletto per un libero giuoco tra passato e futuro: un’officina dove farbrillare sperimentazioni di letteratura mezzana, dove sviluppare idee e progetti ancora ap-partenenti alla vecchia maniera, o piuttosto mettere a punto prototipi di nuovi stili. Chiconosce l’esito dei Vinti sa anche come andò a finire questo artigianato minore, e nondi-meno febbrile; sa che quel laboratorio del futuribile fu soprattutto luogo di ibridazioni, diconati e di tentativi impossibili: al punto che la grande costellazione delle novelle verghia-

ne, se viene considerata nel suo insieme, esibisce qualcosa di eccessivo e di profondamenteambiguo, e nella sua ipertrofia di segni diffratti e discordi risulta quasi l’inverso algebricodei difetti, delle ellissi e delle tracce di non-finito che il narratore-maratoneta del ciclo dis-semina lungo la sua malcerta, ingolfata corsa. Ma proprio per questo, le novelle vanno os-servate con un occhio tanto piú clinico e sospettoso: non forniranno mai le risposte allenostre domande, ma ci aiuteranno a renderle meno pressanti e, forse, piú laiche. 

Prima metà degli anni Ottanta, dicevamo: per l’esattezza, 1884. È giusto dentro questoguado tra vecchio e nuovo, tra breve e lungo, che Verga mette a segno una brevissima esconcertante narrazione, che sarà negletta dai recensori e pressapoco dimenticata dal pub-blico: Tentazione!. Racconto di uno scherzo goliardico degenerato in stupro e in omicidio,quel testo sembra quasi lo “specchio scuro” di un’altra sua precedente, e viceversa imme-diatamente canonica, prova novellistica. Se cioè nella celebre  La Lupa, prodotta all’inizio

di quel decennio di fuoco della non lunghissima stagione verista, veniva raccontata la ‘leg-genda’ al nero di una donna-mantide – una sorta di demone incube che brutalizza i perso-naggi senza qualità di una comunità ancora totemica, ricattata da una religio ctonia60 – ,Tentazione! si presentava come il referto scabroso di una violenza fatale ai danni di unagiovane: un «guaio» commesso da una brigata pervertitasi in branco61.

Da un lato, quindi, un tempo ciclico, quasi assoluto (già Capuana, che pure vedeva nelracconto del bando e dell’impossibile redenzione della Lupa soprattutto il resoconto di unepisodio di cronaca vera, non poteva fare a meno di ravvisarne l’origine leggendaria e latrasfigurazione mitografica62), dall’altro lato l’accadimento puntuale, fatale, irripetibile di

60 Cfr. G. Mazzacurati, Scrittura e ideologia in Verga ovvero le metamorfosi della ‘Lupa’, in Forma & Ideolo-gia, cit., pp. 142-175.

61 La novella, che al suo primo apparire in rivista destò polemiche per i contenuti osceni e per un paio dibestemmie, confluí poi in  Drammi intimi : il che valse a rincararne l’ambiguità. La silloge si presentava infatticome una tipica erma bifronte: vi erano combinati due trittici, l’uno di ambiente borghese-aristocratico, el’altro di ambiente rusticano. Per la prima volta, la tipologia «documento umano» e quella «studio dell’uomointeriore» sembravano coabitare: un dato certamente casuale, che certo ha piú a vedere con gli ingranaggidell’industria culturale e con i suoi meccani posticci che con una presunta volontà “organicistica” e totalizzan-te da parte di Verga – quella volontà che concerne invece la tensione compositiva del ciclo.

62 Cfr. L. Capuana, Verga e D’Annunzio, a cura di M. Pomilio, Bologna, Pàtron, pp. 73-82 (la recensionecui si fa riferimento era originariamente apparsa in  Studi sulla letteratura contemporanea, nel 1882).

Page 24: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 24/43

 

23

un «fatto diverso»; da un lato una carnefice divenuta ostia della comunità, dall’altro una

vittima tout court ; da un lato una scrittura stratificata e ossessiva, alla quale Verga sarebbeancora tornato, senza requie, in chiave sia di riscrittura ‘interna’ che di transcodificazioneteatrale, dall’altro una scarica isolata di energia e di desiderio narrativo, sin troppo rappre-so in quel testo destinato a esser tralasciato dallo stesso autore (che lo avrebbe infineespunto dal corpus novellistico riconfluito ne I ricordi del capitano d’Arce).

Eppure, è forte l’impressione che sotto la pagina di Tentazione! si agiti ancora il fanta-sma della Lupa; di piú, che dietro l’apparente nemesi di Lupa e del suo omonimo archeti-po francese – Cecily, la «Louve» degli amati  Mystères de Paris di Sue – ci sia qualcosa diradicalmente irrisolto. Il cortocircuito fra i due racconti verghiani parla infatti di una se-greta tensione ideologica, fatta di formazioni di compromesso e di riscatti simbolici imper-fetti e, a un diverso livello, di debiti scoperti, ma non per questo meno angosciosi, con tra-

dizioni del romanzo europeo: siamo alle prese con un Verga ombelicalmente legato allasua terra, ma al contempo proiettato con indefessa curiositas verso i modelli d’oltralpe.Ripartiamo dalla prima, e piú famosa, novella. Nelle pagine già citate, Capuana ebbe a

sottolineare la realtà delle «fosche figure di quel dramma fosco»: un dramma incentrato,com’è ben noto, sulla passione di una madre snaturata, e ispirato a un fatto di cronaca,l’omicidio di una contadina da parte del genero in seguito a una incestuosa passione amo-rosa. Già la descrizione del personaggio, nell’essenzialità del suo tratteggio, si offriva comeun fascio di sintomi, ed era in questo senso un perfetto paradigma del metodo verista:

Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era piú giovane– era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi cosí, edelle labbra fresche e rosse che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era

sazia giammai – di nulla63

.

La magrezza sembrava indicare non fragilità e delicatezza, ma voracità, avidità fameli-ca; il seno «fermo e vigoroso da bruna» alludeva a una sensualità forte, mediterranea, acontrappunto di quella magrezza “vampiresca”; l’aura mitica veniva rincarata dalla segna-lazione dell’età avanzata; il pallore alludeva alla malattia, sintesi del decadimento fisico edella degradazione morale del personaggio. Infine, gli «occhi grandi cosí» e le «labbra fre-sche e rosse che vi mangiavano», elementi iterati e particolarmente erotici del ritratto (ol-tre a introdurre una sinistra particella pronominale di seconda persona plurale) conferiva-no una connotazione stregonica e medusea. Quanto al soprannome, esso, come spesso inVerga, è un marchio a fuoco, in cui il punto di vista della comunità si reifica. Simbolo dia-bolico e trasgressivo, il personaggio trasgredisce alle regole morali che tutta la società cercadi rispettare, ed è questo che determina il suo bando. E che si tratti di una figura sospesatra dimensione ferina e dimensione stregonico-leggendaria, lo si vede in espressioni come«andare randagio e sospettoso della lupa affamata» o «sola come una cagnaccia» 64, chestavolta non sono attribuite dagli uomini del villaggio, bensí dalla voce narrativa.

63 Verga, La Lupa, in Le novelle, cit., t. I, p. 67.64  Ibid ., p. 124.

Page 25: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 25/43

 

24

A quest’imagerie zoomorfo-misogina, che grazie soprattutto a Balzac si era cristallizzata

in un sistema di topoi , si aggiunge un’ulteriore connotazione, legata alle superstizioni e allepaure popolari: «Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare», i mariti e ifigli ammaliati anche se «fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina», fino all’ironiablasfema e accumulativa di una frase come «Padre Angiolino di Santa Maria di Gesú, unvero servo di Dio, aveva persa l’anima per lei»65. Verga indugia su forme di esorcismo col-lettivo e quasi ritualizzato, che non riescono però a garantire quell’ordine sacro che la Lu-pa, non allineata al conformismo pagano-religioso, sovverte: chiudendosi in una volontari-stica auto-emarginazione dal sistema sociale. Perché solo nella natura selvaggia e riarsa deiluoghi riesce a integrarsi perfettamente, manifestazione estrema di una sensualità panica edemoniaca: non dea che incanta e seduce, ma essere maledetto il cui potere terribile ha icaratteri del maleficio stregonesco da esorcizzare.

La trama della novella è troppo nota per essere qui ripercorsa nei dettagli: la passioneper il soldato, l’eros devastante che conduce all’incesto, la calma eroica e fatale della pro-tagonista, il sacrificio della figlia pur di soddisfare la propria bramosia carnale, l’atteggia-mento esitante dell’amato, fatto di attrazione e di rimorso; e poi la denuncia al brigadiere,il ricorso al parroco, e infine la sfida della Lupa alla stretta estrema di amore e morte, resacon un cromatismo a tinte piatte, di straordinaria efficacia: «lo vide venire [...] e non si ar-retrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani pienedi manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri»66. «La vittima è già tantoconscia della fine (appunto, come un animale intrappolato e senza piú scampo) che il suocammino verso la carneficina appare una volontaria eutanasia, una scelta liberatoria, unsuicidio»67: la morte, quindi, da un lato come elemento catartico per porre fine alle tenta-zioni dell’inferno, dall’altro sorte inevitabile in quanto connaturata al maledetto destino.

Ora, è proprio da questa uscita di scena della Lupa che Verga riparte, allorché doveposare nello scenario en plein air di Tentazione! la figura del successivo ‘caprio espiatorio’designato dalla comunità. Sarà utile prestare attenzione ai gradi attraverso i quali si compiela metamorfosi della protagonista della seconda novella: comparsa in scena come una sortadi Nedda oleografica, latrice nel corso della narrazione di un pizzico di malizia molto di-gnitosa, in parte difensiva e in parte offensiva (ma di un’offesa il cui solo responsabile è ilsottilmente misogino Verga: essendo la narrazione puntellata di viscide connotazioni cheequivalgono ad altrettanti capi d’accusa), finirà per tramutarsi in un’estrema, insospettabi-le variante della Lupa. Nel finale ‘a precipizio’ della novella, la contadina si rialza «comeuna bestia feroce [...], con quegli occhi spalancati dove c’erano i carabinieri e la forca. Di-ventava livida, con la lingua tutta fuori, nera, enorme, una lingua che non poteva capire

piú nella sua bocca»68

. È soprattutto qui, in questo finale a tinte piatte, che al lettore sem-bra di rivedere, a tradimento, il fantasma di quell’altro personaggio verghiano.Certo, la Lupa non era divenuta nel tempo diabolica, ma lo era stata, anche fisiogno-

micamente, sin dal principio. Il delitto finale era l’effetto quasi logico della sua hybris di

65  Ibid .66  Ibid ., p. 129.67 G. Mazzacurati, Scrittura e ideologia in Verga ovvero le metamorfosi della ‘Lupa’ , cit., p. 158.68 G. Verga, Tentazione!, in Le novelle, cit., II, p. 35.

Page 26: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 26/43

 

25

strega, mentre qui il delitto non è castigo: è una disperata, inane soluzione per sfuggire alla

giustizia. Ad ogni modo, nonostante nelle due novelle una trasgressione sessuale si dia co-me cedimento ad una «tentazione» e susciti poi la minaccia della «forca» (termini, questi,che ricorrono in entrambi i testi), i rapporti fra i personaggi appaiono ribaltati: la Lupa ènull’altro che la colpevole punita, in modo congruo a quel contesto marcatamente folklo-rico, legato a radici ctonie; mentre la contadina del secondo testo – quasi il referto di unepisodio di cronaca nera – è una vittima doppiamente sacrificata. Parimenti asimmetricorisulta, per cosí dire, l’ordine cognitivo dei due testi: si pensi al finale gnomico di Tenta-zione!, che repentinamente – in una chiusa ch’è poi tutta interna alla topica della narrazio-ne «di prove» – trasforma l’aneddoto in apologo («ripensavano […] come si può arrivaread avere il sangue nelle mani cominciando dallo scherzare»69). Si tratta di un movimentocontrario a quello della Lupa: lí, un «fatto diverso» serviva a informare, desanctisianamente,

un archetipo, un «universale», un mitema; qui, per contro, è una massima didascalica arendere universale parabola quella “microstoria” di una brigata tramutatasi in branco.Se il finale de La Lupa esso era nel segno di una natura fiorita e trionfante, nella  Span-

nung della seconda novella Verga fa in modo che una povera contadina stuprata e destina-ta a soccombere si tramuti per pochi istanti, con una sorta di recrudescenza ferina, in unabelva selvaggia: come a dire che un testo non costituirebbe solo l’imperfetto negativo ideo-logico dell’altro, ma anche una sorta di suo inquietante h ýsteron próteron. Quella Lupa chesi reincarna in un’umile vittima senza nome, mentre quest’ultima si metamorfosa in lei, è ilsegno della labilità della «freccia del tempo» dove s’incardina, o almeno vorrebbe incardi-narsi, questo segreto dittico dell’eros e della morte; e della bi-logica, in senso pieno mitica,che sembra abitarlo in profondità.

Una simile filiera genealogica, in sé tutt’altro che lineare, non esaurisce però la que-

stione che si è posta; anzi, rischia di restituire ancora l’immagine, decisamente datata, diun Verga schiacciato sul suolo dell’isola, sotto il giogo dei suoi demoni e delle sue ambiva-lenti figure. Invece, lo si è detto, Verga è scrittore europeo, attirato e appassionato da ciòche accade in Francia, che segue personalmente l’esportazione e l’acclimatazione delle sueopere, che acquista e legge di tutto. Non stupirà, allora, il fatto che, se dietro la contadinaviolata in Tentazione! c’è probabilmente la gnà Pina (col suo rapporto contrastivo con lafiglia), alle spalle della gnà Pina ci sia, con evidente decalcografia onomastica, Cecily (colsuo rapporto contrastivo con Fleur-de-Marie). Basti allegarne la canonica prosopografia:

La Louve était une grande fille de vingt ans, leste, virilement découplée, et d’une figure assezrégulière; ses rudes cheveux noirs se nuançaient de reflets roux; l’ardeur du sang couperosait sonteint; un duvet brun ombrageait ses lèvres charnues; ses sourcils châtains, épais et drus, se rejoi-gnaient entre eux, au-dessus de ses grands yeux fauves; quelque chose de violent, de farouche, debestial, dans l’expression de la physionomie de cette femme; une sorte de rictus habituel, qui, re-troussant surtout sa lèvre supérieure lors de ses accès de colère, laissait voir ses dents blanches etécartées, expliquait son surnom de la Louve70.

69  Ibid ., p. 36.70 E. Sue, Les mystères de Paris, Gosselin, Paris 1843, X, p. 149.

Page 27: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 27/43

 

26

L’immagine che Sue trova permette «di riconoscere facilmente una parte integrante del

patrimonio iconografico della donna fatale»71

, un serpente che insinua a poco a poco lasua vittima soffocandola in un abbraccio letale che, prolungando l’ardente desiderio maiappagato, la conduce a una delirante morte. Il personaggio di Cecily è immerso negli abissidella società, in cui il corpo femminile diviene oggetto di emanazioni intollerabili e forzemisteriose che suscitano morbose curiosità nella bigotta borghesia: la sua bellezza e perfi-dia di mulatta fanno parte di un armamentario esotico/erotico di estrazione romantica co-struito su un luogo comune popolare ormai acquisito; il vizio incallito e l’audacia del suocomportamento la rendono una creatura affascinante il cui segreto spinge gli uomini diogni specie e rango ad abbandonarsi ad appetiti brutali repressi dalle convenzioni morali.È una Circe che trasforma gli uomini in maiali, provoca mutazioni o meglio metamorfosifacendo leva su quella libido che fa soccombere nella piú squallida voluttà.

Era insomma in prove narrative risalenti a prima ancora della metà del secolo che Ver-ga poteva trovare, fra i contes des mille et une nuits (anzi tra le «comptes des mille et unenuits», come scherza il solito Balzac in  Illusions perdues), vicende di donne fatali e letali,concrezioni semiotiche di retorica dell’eros, di colpe e di espiazioni, di bandi e di delitti.Resta però da comprendere cosa realmente avessero da spartire, oltre alla ’ngiuria affibbia-ta da una comunità propensa alla demonizzazione, queste due Lupe. Se è vero che la gnàPina, esito “classico” della cultura verista, e Cecily, prodotto “manieristico” del romantici-smo francese, condividendo tratti fisiognomici e funzioni attanziali, sono caratterizzate en-trambe da un côté demoniaco e trasgressivo, oltre che delle generiche convenzioni sociali,anche dell’imperativo maschilista; se è vero, cioè, che l’assiologia maschio/femmina fungeda cardine ideologico e da campo di conflitto di entrambe le narrazioni (non è un caso chedi fronte alla rivalsa della donna-lupa, l’uomo, sia che si chiami Nanni e stia per uccidere,

sia che si chiami Ferrand e stia per morire, balbetti), va però chiarito che le costanti sem-brano arrestarsi qui. Di fatto, la Lupa è il negativo della Louve: al contempo carnefice evittima dei suoi sortilegi, la gnà Pina è un essere irrazionale opposto alla crudele meticciache si nasconde nei misteriosi sobborghi parigini, e la cui bellezza è capace d’incantare conil bagliore degli occhi e il colore opaco della pelle. Da una parte la Lupa, madre snaturatache non rispetta l’ordine costituito e sovverte le regole imposte dalla società, è un’esclusa,una reietta che il mondo contadino non può comprendere né accettare; dall’altra la Louve,meticcia fedifraga che si macchia dei piú orrendi peccati meritando il carcere a vita, rac-chiude in sé il mistero di quel fascino a cui nessun uomo può resistere, una volta cadutonella sua trappola. Pur essendo affine nell’aspetto, nelle arti seduttive, nella passione chel’anima e la distrugge, la creola di Sue è molto piú crudele e fredda della siciliana di Verga:

quest’ultima è una madre che vive sulla sua pelle i segni di una deleteria passione per ilgenero al punto da farsi uccidere in una volontaria morte liberatoria, mentre l’altra è unamoglie che cede alle piú turpi lusinghe senza mai pentirsi della sua condotta viziosa.

La “lupa di campagna” e la “lupa di città” costituiscono esiti figurali assai diversi; maciò non modifica il dato ineludibile che la stirpe antropologica e per cosí dire mitograficasia la stessa: quella «donna fatale» che rappresenta «la paura causata dallo strappo tra na-

 71 M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1930, p. 149.

Page 28: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 28/43

 

27

tura e progresso, la ribellione della ciclicità naturale e di tutto ciò che è ancestrale contro il

mondo votato al progresso, un mondo privo di sentimenti: la donna fatale non è che lapaura di se stessi»72. Tale carattere sinistro degli “idoli di perversità”, insieme all’osmosicontraddittoria di genealogie che le storie incrociate della Louve e della Lupa testimonia-no in modo saliente, è cruciale. Nelle mani prima di Sue e poi di Verga, un segno di per séinquietante era come impazzito: quel topos appariva, all’altezza cronologica della  fin-de-siècle, già esausto, poiché l’esplorazione delle sue possibili articolazioni narrative e concet-tuali poteva dirsi compiuta. Se un topos esplode da un capo all’altro della morale, l’effettoculturale e figurale è che viene deprivato di valenze e vettori ideologici: quell’immagine stalí, come una pietra dello scandalo, di nuovo vergine, disponibile a inediti investimenti disenso – anche paranoici, anche indecidibili. Da questo punto di vista la propaggine di Ten-tazione!, con la sua nemesi e il suo autoreverse, non aveva davvero nulla di sorprendente.

7. Le lacrime degli uomini 

Il contenzioso immaginario fra quelle due figure e l’approdo a una contro-riscritturaprofondamente autocensoria, oltre a illuminare uno strato carsico, retrivo e misogino del-l’etica verghiana, ci parla anche, a un superiore livello estetico, di un conflitto irrisolto frala mimesi e la convenzione. Come se Verga non riuscisse a scegliere, ancora una volta, trail “diverso” (che era, si ricordi, l’aggettivo pertinentizzato nello stesso paradigma goncour-tiano del fait divers) e il “tipico”, quella categoria che, dopo aver attraversato obliquamen-te il secolo serio e le codificazioni eroiche del realismo, era ora al centro di un decisivoscambio epistolare tra due intellettuali al centro del sistema letterario.

Nell’aprile del 1888, mentre lo scrittore catanese si apprestava a pubblicare la primaedizione del Mastro-don Gesualdo, Engels scriveva a una narratrice di ispirazione socialista,Margaret Harkness, una lettera che ancora oggi – piú di sessant’anni dopo la celebre di-scussione di Lukács – ha il potere di far vacillare le «idee ricevute» della storiografia lette-raria. Dopo aver adombrato un personale apprezzamento per l’ultima opera della sua cor-rispondente, il grande ideologo vi dava una definizione del realismo assolutamente antite-tica a quella che, specie nei romanzi “impegnati”, sembrava trionfare, dentro il guado diquell’epoca: «Realismo significa, secondo il mio modo di vedere, a parte la fedeltà dei par-ticolari, riproduzione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche»73. Per questa via En-gels, nell’atto di elevare a potenza la categoria del tipico, si spingeva a stigmatizzare esplici-tamente ogni scrittura narrativa che perseguisse i faits divers, mentre segnalava, come idolo

positivo, nientemeno che il Balzac della Comédie humaine. Nel farlo, non sorvolava sul le-gittimismo di questi e sulle sue simpatie per la nobiltà, ma anzi li adduceva come parados-sali argomenti a favore: se era vero che Balzac aveva dipinto l’aristocrazia con tratteggi im-pietosi, d’una «satira pungente» e di una «ironia amara», stimolando riso e stillando lacri-

 72  Ibid ., p. 193.73 F. Engels – K. Marx,  Sull’arte e la letteratura, a cura di V. Gerratana, Universale Economica, Milano

1954, p. 26.

Page 29: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 29/43

 

28

me, insomma traendo effetti d’arte dallo sfacelo che si compiva dinanzi ai suoi occhi; senza

fingere di non vederlo, quello sfacelo.Il capitale snodo teorico da cui siamo ripartiti rivela innanzitutto l’insospettabile prefe-renza accordata, dal ‘vecchio leone’ carismatico e militante, al narratore borghese (nonchégrandioso gaffeur ) di metà secolo, anziché alle pratiche di marca socialisteggiante prolife-ranti in quella infiammatissima stagione; anziché a Zola, in particolare, addirittura evocatoda Engels come antimodello, col vizio di far sgorgare troppo direttamente dalla propriapagina gli ideali politico-sociali. Il suo giudizio ci appare oscillante fra un’indicazione distrategia (passare alla denuncia, smettendo i panni dello sperimentatore e del diagnostico,e quindi economizzando sui segni del diverso) e una valutazione di gusto, la consapevolez-za di un’avvenuta saturazione delle forme della devianza: ecco perché l’idea di un ritornoai tipi, alle maschere sociali, su cui il narratore positivista avrebbe dovuto esercitare la

propria arte, trovando, grazie a quella universalità di forme, una piú alta universalità disentimenti. Questo di Engels è un segnale importante, anche se si prescinde dal pulpito dadove proviene; e nasce il dubbio che, a scavare al di sotto di molti dei monumenti e deidocumenti lasciatici dai narratori di quella stagione – cominciando da coloro che dichiara-rono di essere «non realisti, ma veri»: come, appunto, Giovanni Verga – potrebbe rinve-nirsi, al di là di tante sprezzature ed esorcismi, quella stessa idea, tra autoreferenziale econvenzionale, di rappresentazione.

Per esempio, nell’istante in cui Engels elaborava quel ragionamento, in cima a qualchecassetto di casa Verga doveva ancora giacere una carta autografa di micidiale esattezza:una carta che, strano a dirsi, la filologia ha portato alla luce non molti anni fa. Era unoschema del  Mastro-don Gesualdo in cui lo scrittore aveva abbozzato i caratteri di quellagrottesca pantomima: dal protagonista, «faccia di cane laborioso, avido», al padre Nunzio,

«faccia di mulo austero, dispotico»; da Speranza, «faccia di volpe avara, dispotica, maligna,scroccona, pettegola, piccola, magra, verde», a Fortunato, «faccia di bue pacifico, dispo-tizzato dalla moglie, erculeo, pletorico, sentenzioso, testa fina»; da Ferdinando Trao, «fac-cia di gufo asmatico, istupidito, nasuto, occhi grigi, magro, raso», a don Diego, «facciad’uccello tisico, vano, sciocco, nervoso». E ancora, il canonico Lupi, «faccia di furetto,barba folta, furbo, attivo, mitigante, arbitriante, mani e viso da contadino»; la serva Dioda-ta, «faccia di gatta nera, piccola, occhi stupendi, smorta, timida, povera, laboriosa»; la gnàGrazia, «faccia di chioccia magra, panciuta, la faccia a punta, piagnucolona» 74…

Chi si ritrovi oggi di fronte a quell’avantesto, non potrà non restare colpito dalla coe-renza di una progettualità d’autore – solo parzialmente rispettata, nei fatti – volta alla rap-presentazione degli uomini non tanto nei termini di una generica, e in se stessa prevedibile,

«estetica del brutto», quanto nella chiave di uno zoomorfismo tipologico di marca assai dis-simile da ciò che contraddistingueva le coeve sperimentazioni del romanzo europeo (be-nedette, giusto un decennio prima, da Francesco De Sanctis in persona): dissimile dalla

74 Cfr. l’appendice dell’edizione critica del  Mastro-don Gesualdo. Redazione «Nuova Antologia» , a cura diC. Riccardi, Le Monnier, Firenze 1993. Macroscopica la differenza tra quegli abbozzi e i ‘cartoni’ corrispon-denti del primo romanzo, in cui sintomaticamente predomina, in luogo dello stile nominale e dell’animal  ana-logy, l’aggettivazione qualificativa di campo morale, soprattutto denigratoria, mediante formanti non plasticima caratteriologici).

Page 30: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 30/43

 

29

koiné morfologica che verso la fine dell’Ottocento si coagulò, nelle pratiche letterarie, at-

torno ai principi della scienza positiva, creando un’autentica topologia del “diverso”.Quella di Verga sembra piuttosto un’operazione di retroguardia, un tardivo bestiario allaBalzac: per dirla in una formula, l’opzione per l’esterioriorità silhouttistica della “comme-dia umana” invece che per la failure ontologica della “bestia umana”. Insomma, i tipi anzi-ché i diversi : il realismo, come lo intendeva Engels in quella primavera del 1888 («riprodu-zione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche») che finisce per scalzare il verismo.Eppure, non possiamo dimenticare come quello scrittore – lo stesso che sembra rifarsi auna modalità fisiognomica di stampo tradizionale, stringente, addirittura teofrastea nellameccanicità dei suoi sillogismi – non nasconda di mutuare i tratti della baronessa Rubiera(come di tanti altri suoi “beniamini”) dai dagherrotipi da lui sviluppati, in prima persona,nella sua Sicilia. E allora? Chi ha la meglio? Il tipico o il diverso? La letteratura o la realtà?

Una prima risposta a tale domanda può essere questa: entrambi i momenti – pur es-sendo agli antipodi quanto a modelli letterari di riferimento – scaturiscono da un disagiodello scrittore nella focalizzazione, da una distanza non piú colmabile dai proprio oggetti.Perché quel narratore, nell’atto stesso di chiudersi nel suo cantiere poligrafico al fine dicostruire delle figure “per accumulo” di segni, ha già compiuto qualcosa di estremamentesintomatico: che sbirci nelle fotografie scattate dentro l’isola, come per frugarne le cicatrici,oppure che si rifaccia ai grandi affreschi letterari, e non solo letterari, di medio Ottocento,riprendendone i tatuaggi, egli ha comunque apposto sulle sue dramatis personae le stimma-te dell’alterità, di un’alterità che solo un’inesausta concentrazione poietica può incanalarenelle forme della scrittura, quasi cristallizzandola in una seconda natura. Le sue variazionisi svolgeranno, allora, su di uno spartito già dato: infine, è proprio dentro quel margined’azione fra tipo e replica che si gioca la partita della mimesis; ed è lí che il diverso vince.

Allora, si provi a ritornare all’immagine emblematica e diffratta da cui questo discorsoè partito, e ai suoi molteplici déjà-vu testuali: l’immagine, cioè, di un autore in cerca deipersonaggi, che si autorappresenta davanti al fuoco o ad una finestra, nell’atto di inventare le sue figure, i suoi paesaggi, i suoi «soggetti». Ebbene, nell’87 quello stesso scrittore, men-tre stava mettendo mano al suo “zoo” gesualdesco, pubblicava in volume una novella incui riaffiorava, se non l’occasione, certo la spinta motivante di Nedda e di Fantasticheria edella prefazione rifiutata ai  Malavoglia: solo che ora la pulsione scopica si era fatta osses-sione, il flâneur si era convertito in voyeur , e le persone avevano lasciato il loro posto aglioggetti. La lapidaria narrazione, posta a suggello della raccolta Vagabondaggio e intitolatavirgilianamente  Lacrymae rerum (con ammiccamento a De Sanctis, che nella celebre confe-renza del ’79 su  Zola e l’Asommoir aveva tuonato: «Dateci le lacrime delle cose, e rispar-

miateci le vostre»), si compaginava come un avanzatissimo esercizio di stile: quasi un teo-rema metanarrativo, basato su di un infilzamento calmo di istantanee, secondo un criteriodi disgregazione percettiva piuttosto che di gerarchia prospettica. Il narratore descriveva,con focalizzazione esterna e scansione in quattro tempi, una dimora guasta, abitata da se-gni enigmatici e contraddittori, erratici: anche se i frammenti di quella fredda esposizione‘cosale’ – e non già causale – venivano ricomposti e, alla lettera, disposti  in virtú di unprincipio ottico unico e unificante. Fin dalle primissime righe, infatti, il catalizzatore del-l’illusione narrativa era costituito dalla finestra: quel dispositivo che ‘ritaglia’ la vita e ne si-tua gli elementi dentro e fuori il ‘campo’ del visibile diveniva per il narratore una specie di

Page 31: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 31/43

 

30

feticcio, capace di produrre un ininterrotto gioco di luci – fra ombre, lumi, fari, tende, vol-

ti pallidi, pareti dai colori stinti e poi iridescenti – che non si può non ricollegare alla notapassione di Verga per la fotografia e per i suoi principi estetici. Era cosí che quell’internodesolato si trasformava in una camera obscura:

Alla finestra dirimpetto, si vedeva sempre il lume che vegliava, la notte – le lunghe notti piovosed'inverno, e quando la luna di marzo, ancora fredda, imbiancava la facciata della casa silenziosa. Lastanza era gialla, con una meschina tenda di velo appesa alla finestra. A volte vi apparivano dietrodelle ombre nere, che si dileguavano rapidamente.

Ogni sera, alla stessa ora, si vedeva passare un lume di stanza in stanza, sino alla camera gialla,dove la luce si avvivava intorno a un letto bianco circondato dalle stesse ombre premurose. Indi lacasa tornava scura e sembrava deserta, nel gran silenzio della via. Solamente, allorché vi saliva loschiamazzo notturno di un ubbriaco, o il passaggio di una carrozza faceva tremare i vetri nelle fine-

stre, una di quelle ombre tacite e dolorose si affacciava a spiare nella via, e poi si dileguava75

.

L’aspetto che, piú di ogni altro, sconcerta in questo incipit è lo statuto degli oggetti del-la mimesi. Nella «casa nera» che Verga ellitticamente disegna, spazio umanizzato eppurepopolato, di nuovo, da soli simulacri che dileguano, tanto il vivente è indefinito, arcano,irriflesso, quanto l’inorganico è materico, visibile, leggibile. Ciò che il narratore – questonarratore che conosce come sola risorsa sintattica l’impersonalità del medio-passivo – siaccinge a scrutare è una storia non verbale, fatta tutta di silenzi e di chiusure, di cenni e dirumori; una storia di momenti funesti e gioiosi, di camere ardenti e di scabrose alcove, diabbandoni e di dismissioni, di miseria e di collera, in cui i dettagli non umani si offronocome tracce da decifrare, e perfino le svolte narrative sono puntellate da segnali minimi eda cose che si animano («L’ultima visita che fece il legnetto nella stradicciuola solitaria fu

piú breve delle altre»; «la sega del falegname che strideva»; «i lumi sembrava si accendes-sero da sé»; «il piccone dei muratori si mangiava le rovine» 76). Tutto quanto accade nellastanza è resistente al senso, che pure l’intelligenza dell’osservatore deve ricostruire; del re-sto, a lui sarebbero interdetti persino i segni, e dunque la possibilità di attivare il processoermeneutico, se un lume collocato all’interno di quello spazio fosco non funzionasse da ri-flettore, generando «immagini “foto-grafiche” in senso stretto, proiettate su una finestrache agirebbe come placca fotosensibile»77. In queste terebranti pagine riaffiora la stessaderiva visionaria che era già all’opera, come una pulsione profonda, nell’avvio di Nedda enel ‘prologo alle tenebre’ dei Malavoglia: anche se stavolta le lacrime appartengono davve-ro esclusivamente alle cose, che stanno lí, senza empatia alcuna, come detriti di storia enon come correlativi oggettivi, o elegiache anse, dei personaggi. Come avviene nelle mi-

gliori pagine di Flaubert, essi sono corpi in esposizione, e dunque intimamente allegorici.Per paradosso, ciò rimane vero anche quando, in Lacrymae rerum, si schiudono il por-tone e le finestre della casa, e allora dovremmo, almeno in teoria, vedere di piú. Invece,non vediamo che una folla indistinta di estranei che ingombra la stanza gialla, producendo

75 G. Verga, Lacrymae rerum, in Le novelle, cit., II, pp. 214-5.76  Ibid ., pp. 215, 219, 220.77  L’“Io pittore” di Giovanni Verga: “Lacrymae rerum” e l’immaginario visivo dell’Ottocento in  Moderno e

modernità: la letteratura italiana, a cura di C. Gurreri, A. M. Jacopino, A. Quondam, La Sapienza, Roma 2009.

Page 32: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 32/43

 

31

«un luccichio tremolante di ceri» attorno a quello che solo ora apprendiamo essere un ca-

pezzale; e non capiamo cosa esattamente stia succedendo. Si direbbe che al narratore stia acuore istituire una metafisica degli spazi e degli affetti, piú che un concreto agglomerato dirapporti di forza. Ben altri saranno la plastica dei corpi e il disegno dei ruoli sociali, quan-do Verga vorrà restituire, nelle prime battute del Mastro-don Gesualdo, la figura di un an-tico regime che non è mai finito, ha solo cambiato nome: perché il nuovo Stato scaturitodal sogno risorgimentale è, in realtà, marcio fin nelle viscere. E allora, le lacrime tornanoad essere quelle degli esseri umani: perché le ferite inflitte  per la patria e dalla patria san-guinano ancora, cucite nell’angolo interno dell’occhio con l’ago della letteratura. Il palazzodei Trao, di quella dinastia che si ostina a «trarre il valore dal sangue», sta andando a fuo-co, ma nella baraonda non soltanto il dolore appartiene alle persone piú che alle cose, maqueste ultime, invece che farsi bruciare dalle lacrime, sgranano gli occhi:

Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portavano acqua; ragazzi che sirincorrevano schiamazzando in mezzo a quella confusione, come fosse una festa; curiosi che gi-randolavano a bocca aperta, strappando i brandelli di stoffa che pendevano ancora dalle pareti,

toccando gli intagli degli stipiti, vociando per udir l’eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in aria

ad osservare le dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao af fumicati che sembra-vano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro78

Sembrerebbe un autodafé  del potere che fu, un rito di passaggio verso il nuovo. Eppure,rispetto all’archetipo antropologico del sacrificio espiatorio di antenati e capi, si registrauna sorta di ribaltamento: i ritratti infatti non vengono bruciati dalla furia iconoclasta del

fuoco, ma piú sinistramente risultano «affumicati»; anzi, per la precisione, ad essere af fu-micati non sono tanto gli oggetti-quadri, ma i soggetti-Trao. Comunque, il fuoco non li an-nienta, piuttosto quasi li fa rivivere, trascolorandone la pelle; di piú, qui l’erlebte Rede ver-ghiano azzarda una regressione ideologica e linguistica ad un’anima di classe modello an-

cien  Régime, conservatrice e sprezzante, raggiunta per la via, di nuovo tutta esteti ca ovvero  percettiva, di una focalizzazione fantastica – perché sospinta fino al punto di vista di queimanufatti, corpi inanimati e pura rappresentazione di uomini che non sono piú, eppurecontinuano ad esercitare un’imponderabile forma di controllo.

Anche qui, come spesso nelle pagine di Verga, dobbiamo chiederci dove stia il narrato-

re. In questo brano non si potrebbe, infatti, rilevare una sua totale “dissociazione” da quel-

la ricattatoria ideologia: quel che si sarebbe detto, piuttosto, di un ‘modo’ che avesse de -formato, in un grottesco di tipo rudimentale o in un sarcasmo corrosivo, i personaggi eff i-giati. Nello «sfinimento della razza» che condiziona ogni elemento di questa realtà gretta e

degenerata, persino una posizione reazionaria, un’ottusità sociale ai limiti del razzismo,

può giungere a fissare stimmate semioticamente non ambigue –  e, appunto, con conni-venza da parte della voce narrante – ad una folla predatrice, mostro collettivo e, alla lette-ra, «marmaglia», secondo quanto  pensano (ovvero sentono, odorano) quei dipinti.

Il palazzotto desueto, figuralmente solidale con i suoi incartapecoriti abitanti, sarà ilsegno tangibile di un passato archiviato, eppure ancora immanente: un passato di rovescipolitico-sociali e di fin de race che assedia e svilisce ogni angolo di quello spazio, per quan-

 78 G. Verga,  Mastro-don Gesualdo (1888)-(1889), a cura di G. Mazzacurati, Einaudi, Torino 1992., p. 13. 

Page 33: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 33/43

 

32

to nel Gesualdo la storia ufficiale sia vista – e visualizzata – di sbieco, secondo una tecnica

di mimesi che (ha scritto Mazzacurati) «deve rinunciare all’anamnesi delle circostanze e alcommento, alla frontalità minuziosa e all’avvolgimento analitico; e puntare piuttosto a rag-giungere il cuore di una situazione attraverso l’enfasi di un particolare, di un sintomo, diun gesto, di un reperto che descriva per ellissi o per sineddoche una totalità, un carattere,uno stato»79. Il che non contrasta affatto con la circostanza che il secondo romanzo deiVinti – a cui sarebbe seguita, per Verga, una lunghissima stagione di limbo, di disillusione,di riuso, di dissipazione, di non-finito – tenti uno dei piú coraggiosi balzi en arrière dellanostra storia letteraria. Esso decide, cioè, di muovere fino alle radici del Risorgimento edei suoi guasti; ed è forse anche per questo che resta l’ultimo frutto del ciclo dei Vinti.

Differentemente da quanto accadeva nei  Malavoglia, dove gli eventi della Grande Sto-ria erano esatti quanto remoti, e la partenza di ’Ntoni rappresentava il principio del bara-

tro per la famiglia «all’ombra del nespolo», nel secondo romanzo del ciclo gli eventi pub-blici della nazione sono davvero iuxti ai destini privati, a un livello concreto e non simboli-co. Se il fato dei Toscano poteva essere emblematizzato nei nomi carismatici di due imbar-cazioni (Provvidenza e Il Re d’Italia: come a dire, due diversi gioghi, l’uno trascendentale eimperscrutabile, l’altro politico e riconoscibile) che progressivamente li depauperavano e liferivano, portando alla malora i frutti della terra e del mare, dell’amore e del lavoro, nel

 Mastro-don Gesualdo un piú prensile e sarcastico senso storico s’impegna a determinare icorpi e i gesti dei personaggi, a definirne l’incrocio con il piano del reale. Da questo puntodi vista, non parrà casuale che, a trent’anni dal debutto narrativo, e al precoce crepuscolodella sua arte di romanziere (certo, non poteva saperlo, ma non sarebbe mai piú riuscito aconcludere una narrazione lunga ‘pura’:  Dal tuo al mio, infatti, non è che la transcodifica-zione di un dramma), Verga torni a un suo pungolo di gioventú, intrecciando la parabola

dell’eroe che si è fatto da sé con il racconto obliquo e disincantato delle prime cospirazionicarbonare. Nella parte seconda egli delinea gli effetti della rivolta palermitana del ’20 nelpaese di Vizzini: un inedito sentimento di riscatto s’insinua negli strati popolari, fomentatodagli «arruffapopolo» del caso. È il canonico Lupi ad illustrare a Gesualdo i pericoli della«rivoluzione» e le insidie della Carboneria, la «sètta» nei cui piani «ogni villano […] vuoleil suo pezzo di terra! Pesci grossi e minutaglia, tutti insieme»80. I termini sono posti conuna sorta di lucidità impaurita che sfida a duello la strategia invece fine, attendista, spre-giudicata di Gesualdo: il quale non esita ad autoritrarsi come  parvenu, salito dalla danna-zione della povertà e dalla fame attraverso i varchi aperti dal nuovo corso della storia. Per-ché è stato proprio sull’onda della madre di ogni rivoluzione, quella francese, che egli hapotuto divenir parte della razza padrona, e ora sa che bisogna mantenere il sangue freddo

e difendere le posizioni conquistate: quella società segreta può divenire lo strumento didominio, di controllo, di incanalamento degli impulsi eversivi della plebe.È tempo di governare la storia e il suo nuovo furore: secondo la retorica elementar-

mente zoomorfa che è propria dell’ultimo eroe verghiano, bisogna «tenersi a galla», «cavarle castagne dal fuoco con le zampe del gatto; tirar l’acqua al suo mulino, e se capitavad’acchiappare anche il mestolo un quarto d’ora, e di dare il gambetto a tutti quei pezzi

79  Ibid ., p. 7.80  Ibid ., p. 209.

Page 34: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 34/43

 

33

grossi che era riescito ad ingraziarsi neppure sposando una di loro, senza dote e senza nul-

la, tanto meglio....»81

. Per far questo, infine, occorre accettare di aver parte in commedia; eallora, su sollecitazione dello stesso protagonista, quei galantuomini e altri loro pari, trave-stiti in modo carnevalesco quanto patetico (Lupi da pecoraio, Gesualdo da ecclesiasti-co…), partecipano a una riunione notturna della società. Come gli capita spesso nel se-condo romanzo dei Vinti , Verga si diverte maledettamente nella descrizione di quel mi-nuetto di “trasformismo” avant la lettre, che riverbera sulle radici della patria un vizio del-la neonata Italia, impastando in una melma contro-epica le chimere del risorgimento man-cato e le mitografie della giovinezza, mitografie generazionali ma anche domestiche.

Quasi che i carbonari di quell’esordio lontano, e mai sconfessato, fossero infine discesidalle montagne calabre e dalle frange borboniche per infiltrare la Sicilia: la sua dimoradell’anima, malata sin nelle fondamenta. Malata da secoli, quella terra avrebbe continuato

ad esserlo nelle piú sincere fra le ricostruzioni e rappresentazioni a venire: malata nel rac-conto indefesso – cosí attuale da venire censurato e camuffato dal governo centrale di Na-poli – dei Vespri siciliani che Michele Amari aveva intrapreso mezzo secolo prima, senzamai abbandonarlo, fino alla morte sopraggiunta proprio in quel 1889; malata nella mimesis frontale dell’insurrezione di Bronte, o nella narrazione straniante dei moti palermitani, o inaltre pagine verghiane ancora piú reticenti, ancora piú velate; malata, infine, nel documen-tario progettato da Luchino Visconti nel 1948, all’indomani del massacro di Portella dellaGinestra, di quella esplosione ripugnante e virulenta di banditismo e latifondismo che an-cora oggi offende la coscienza della nostra nazione. Quel documentario mancato divenne,com’è noto, uno stupendo film di dichiarata matrice verghiana, dove la famiglia di ’Ntoninon era schiacciata dalla legge imperscrutabile di un nemico lontano o metafisico, madall’oppressione e dallo sfruttamento delle classi capitalistiche e padrone. Era il segno di

una ferita non curabile; di una tristissima, tragica modernità. La terra non aveva mai smes-so di tremare; e gli uomini – altro che le cose – mai avrebbero smesso di piangere.

FRANCESCO DE CRISTOFARO 

81  Ibid ., p. 210. Gesualdo si serve, ad oltranza, di un immaginario zoomorfo che crede di dominare, ma dacui è in realtà dominato: non a caso le stazioni della sua malattia e del suo calvario saranno tutto nel segno me-taforico (o allegorico) di un bestiario cupo, costituito da cani neri, bachi nella carne, enigmatiche capre, corvinecrofaghi, vitelli infuoriati (per questi aspetti, mi sia lecito rimandare al mio Corporale di Gesualdo. Il bestiarioselvaggio della malattia, «Modern Language Notes», 113, Jan. 1998, Italian Issue, pp. 52-78); mentre tutta lanarrazione inscenerà una sagra del ritratto carico e della grottesca, coerentemente con lo schizzo preparatoriodi cui si è detto. Lo vide assai bene Giacomo Vaccari, che nel suo straordinario sceneggiato del 1964 enfatizzòquella cifra figurale, connotando le fisionomie dei personaggi in chiave animalesca e daumieriana, sorprenden-doli in espressioni di «esaltazione fissata», deformandoli con inquadrature oblique ed abissali chiaroscuri.

Page 35: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 35/43

 

34

PROFILO BIOGRAFICO

A tutt’oggi contrastanti le tesi circa il luogo che ha dato i natali al maggiore esponente delverismo italiano. La documentazione ufficiale, basata sull’atto di nascita, registra l’evento nellacittà di Catania, presso l’abitazione paterna di via Sant’Anna. Tuttavia, sono numerose e nonprive di fondamento le argomentazioni che collocano in un piccolo podere di campagna diproprietà dello zio don Salvatore, in località Tièpidi (a pochi chilometri da Vizzini), il luogoesatto in cui Giovanni Carmelo Verga sarebbe nato: il 2 settembre 1840 o, secondo alcuni stu-diosi, il 29 agosto, giorno della festa di San Giovanni. A sostegno di questa ipotesi ci sarebbeun fatto particolare: l’ondata di colera che colpisce Catania nell’estate di quell’anno, spingendo

la famiglia Verga a lasciare momentaneamente la città siciliana per trovare riparo presso la fre-sca aria collinare della vicina Vizzini.Giovanni è primogenito di cinque figli; il padre, Giovanni Battista Verga Catalano, è origi-

nario di Vizzini e discendente da un ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca, mentre la ma-dre, Caterina Di Mauro Barbagallo, proviene da un’agiata famiglia della borghesia catanese.Gli anni della prima formazione risalgono al periodo 1851-1857. Dopo essere stato avviato aglistudi primari presso la scuola di Francesco Carrara, passerà, per l’istruzione secondaria, sottola guida del liberale Antonino Abate, attivista patriota durante i moti insurrezionali antiborbo-nici del 1848. Gli anni ’54-’55 sono segnati da una nuova epidemia colerica e dal ritorno dellafamiglia Verga nella campagna di Vizzini. Le esperienze di questi anni, intrise di ricordi cam-pestri e adolescenziali, costituiranno il principale materiale d’ispirazione della prima raccoltadi novelle verghiane, Vita dei Campi  (1880), in particolare del tessuto narrativo di Cavalleria

 Rusticana e  Jeli il Pastore, ma anche del secondo romanzo dell’incompiuto ciclo dei Vinti , il Mastro Don Gesualdo 1889). Agli anni ’56-’57 risale il primo romanzo,  Amore e patria, scrittoda un Verga appena quindicenne, ispirato alla rivoluzione americana e d’impianto risorgimen-tale. Il testo, considerato immaturo da don Mario Torrisi, insegnante di latino di Verga, rimar-rà inedito fino al 1929, anno della sua prima pubblicazione frammentaria nella raccolta di Studi verghiani  di L. Perroni. Nel 1858, sotto la pressione paterna, Verga si iscrive alla Facoltà diLegge dell’Università di Catania, senza tuttavia riuscire ad appassionarsi alle discipline giuridi-che che, difatti, deciderà di abbandonare nel 1861, per dedicarsi totalmente all’attività lettera-ria e al giornalismo politico. Nel 1860, anno in cui è reclutato per quattro anni nella GuardiaNazionale, istituita durante la campagna garibaldina, realizza insieme alla collaborazione diNicolò Niceforo e Antonino Abate il foglio politico «Roma degli Italiani», dai chiari intentiunitari e anti-regionalistici. Seguirà il secondo romanzo verghiano, questa volta d’impianto sto-

rico: I carbonari della montagna (1861-1862). Ambientato nella Calabria dei moti carbonari del1810-’12 contro il dispotismo napoleonico di Murat, è pubblicato in due fasi (voll. I-II, Tipo-grafia Galatola; voll. III-IV, Tipografia dell’Ospizio di Beneficenza) a spese dello scrittore, chesi serve del denaro datogli dal padre per la conclusione della carriera universitaria. Nel ’61Verga tenta nuovamente, con Niceforo, la strada giornalistica, attraverso la fondazione del pe-riodico letterario «L’Italia contemporanea», dove appare la prima novella verista di Verga, Ca-sa da thè. Tuttavia, immediatamente dopo l’uscita del primo numero, la pubblicazione della ri-vista è arrestata, per poi essere assimilata da Enrico Montazio al giornale fiorentino «Italia, ve-glie letterarie». Stesso destino per la sua terza esperienza giornalistica di qualche anno succes-siva, segnata dall’inaugurazione del giornale politico «L’indipendente» (1864), diretto inizial-

Page 36: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 36/43

 

35

mente da Verga e, dal decimo numero in poi, affidato all’Abate. Sono questi gli anni dell’in-

contro con la letteratura degli scrittori francesi moderni, da I tre moschettieri di Dumas padre a La signora delle camelie di Dumas figlio, dai romanzi d’appendice a carattere sociale di EugèneSue, primo fra tutti I misteri di Parigi , al  Romanzo di un giovane povero di Octave Feuillet, pa-dre di tutta la narrativa d’appendice.

Tuttavia, sono i romanzi storici italiani di spiccato carattere romantico, in particolare quellidi Francesco Domenico Guerrazzi, a fare da modello al terzo romanzo verghiano, Sulle lagune(1863). Realizzata da un Verga ancora acerbo, infiammato dallo spirito romantico e patriotticodi quegli anni, questa terza prova letteraria è pubblicata grazie all’opportunità a lui concessa discrivere per la prima volta sul quotidiano fiorentino «La Nuova Europa», dove il testo appariràin appendice in ventidue puntate. A fare da cornice al tessuto narrativo, tenuto insieme da unatravagliata storia d’amore, sono le angherie del potere straniero della Venezia contemporanea,ancora segnata, all’indomani dell’unità d’Italia, dall’occupazione austro-ungarica. Tra il maggio

e il giugno del 1865, Verga si allontanerà per la prima volta dalla sua Sicilia, raggiungendo lacapitale e cuore pulsante del Regno, crogiuolo incandescente delle varie forme dell’intellighen-zia contemporanea, Firenze.

Di questo primo soggiorno fiorentino, l’inizio della fraterna amicizia con Luigi Capuana,l’allora critico della Nazione, e la partecipazione al Concorso Drammatico Nazionale (banditodalla Società d’incoraggiamento all’arte teatrale) lasciano le tracce maggiori. Verga prende par-te alla competizione con una commedia inviata in forma anonima, I nuovi tartufi , giudicata du-ramente dalla commissione esaminatrice e rimasta inedita fino al 1980. Dell’anno successivo è,invece, il suo quarto romanzo, Una peccatrice: pubblicato a Torino, ha forte carattere autobio-grafico e melodrammatico, narrando i «misteri del cuore» di Pietro e Narcisa, primi vinti delmondo verghiano.

La nuova ondata di epidemia colerica del 1867 costringe Verga e la sua famiglia a trovare

riparo dapprima nelle proprietà di Sant’Agata li Battiati e, successivamente, a Tracastagno.Nell’aprile del ’69 sarà la volta di un nuovo soggiorno fiorentino, in via dell’Alloro al numero11, dove lo scrittore siciliano risiederà fino al settembre di quello stesso anno. Durante la se-conda esperienza nella capitale, Verga intreccerà importanti relazioni politiche e intellettuali,inserendosi nei salotti culturali piú in voga del momento. Una lettera di presentazione firmatadal poeta catanese Mario Rapisardi introduce Verga in casa di Francesco Dall’Ongaro, scritto-re e patriota che ha preso parte ai moti rivoluzionari di Venezia e Roma, entrando in contattocon Mazzini. Dall’Ongaro gli dà la possibilità di frequentare i salotti culturali di Ludmilla As-sing, scrittrice e pubblicista, nipote di Karl-August Varnhagen von Ense, che recensirà Una

 peccatrice nella Neue Freie Presse di Vienna, e delle pittrici Swanzberg. Non meno influentil’incontro con Vittorio Imbriani e con i politici e gli intellettuali che animano la vita mondanadi quegli anni al Caffè Doney, o al Caffè Michelangelo, luogo prediletto dagli appartenenti del

movimento pittorico dei macchiaioli. L’influenza che la nuova dinamicità sociale e intellettualeesercitano sulla maturazione artistica del giovane Verga, ha come risultato immediato la realiz-zazione di due lavori teatrali: la commedia L’onore, rimasta incompiuta, e il dramma  Rose ca-duche (probabilmente sottoposto al giudizio di Dall’Ongaro l’anno precedente), apparso po-stumo in «Le maschere», nel giugno 1928.

Il primo vero successo arriva, tuttavia, con  Storia di una capinera, vicenda di una monaca-zione forzata. Il romanzo, in forma epistolare, esce inizialmente a puntate sul settimanale mila-nese del Lampugnani «Il Corriere delle Dame. Giornale di mode ed amena letteratura» (16maggio al 22 agosto del 1870), semplicemente con il titolo  La capinera e, successivamente suun’altra rivista di moda, «La ricamatrice». Al 1871 risale la prima pubblicazione ufficiale del

Page 37: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 37/43

 

36

romanzo in volume a Milano, presso la tipografia del Lampugnani. Questa prima edizione con-

tiene una lettera-prefazione dedicata da Dall’Ongaro alla scrittrice Caterina Percoto, grandesostenitrice dell’opera. Il notevole successo riscosso dal romanzo è testimoniato dalle sue nu-merose riproposte a distanza ravvicinata sull’«Illustrazione popolare», a puntate (9 marzo - 29giugno1873) e, successivamente, in un volume pubblicato da Treves quello stesso anno. A par-tire dal 20 novembre 1872, lo scrittore siciliano soggiornerà a Milano per circa vent’anni, finoal 1893, interrompendo la permanenza solo con periodici ritorni a Catania. Accompagnato dauna fama in aumento e sostenuto dall’amicizia di Dall’Ongaro (che lo raccomanda al pittore escultore Tullio Massarani) e di Capuana (che lo avvicina, invece, al romanziere Salvatore Fari-na, direttore della «Rivista minima»), Verga riesce a venire in contatto con gli ambienti piú fer-venti della cultura milanese, dai salotti della contessa Maffei, di Vittoria Cima, di Teresa Man-nati-Vigoni, al circolo del Caffè Cova. Qui ha modo di interagire con intellettuali e artisti delcalibro di Rovetta, De Roberto, Giacosa, Torelli-Viollier, Fortis, e di incontrare alcuni grandi

esponenti del mondo della scapigliatura come Boito, Praga, Gualdo, Sacchetti e Cameroni. Nel1873, grazie alla sempre piú stretta collaborazione con Emilio Treves, Verga riesce a pubblica-re Eva, il romanzo iniziato durante il soggiorno fiorentino, considerato ‘scandaloso’ dai criticidi parte moderata avversi al naturalismo, tra cui il Carducci che, in una lettera all’amante LinaPiva Cristofori, in data 23 aprile 1873, arriverà a definire lo scrittore siciliano «un vigliacco ri-dicolo parvenu». Del 1874 è, invece, la novella Nedda. Bozzetto siciliano, apparsa in estratto il15 giugno nella «Rivista italiana di Scienze, Lettere ed Arti», per poi essere ristampata in opu-scolo dall’editore Brigola. Nel dicembre di quello stesso anno, Verga avvia anche il «bozzettomarinaresco» Padron ’Ntoni , sottoposto in parte al giudizio di Treves, e nel 1875 pubblica, an-cora una volta con Brigola, i romanzi Eros (stampato alla fine del 1874 ma datato ’75) e Tigre

 Reale, mentre si dedica alla commedia Dopo, rimasta incompiuta. Sempre a Brigola, nel 1876,viene affidata la pubblicazione della raccolta di novelle Primavera e altri racconti , apparsa in

seconda edizione l’anno successivo, con l’aggiunta del bozzetto Nedda. Il progetto di realizzareun ciclo di cinque romanzi dal titolo complessivo di La marea (a cui successivamente sarà pre-ferita la ‘soglia’  I   vinti ) viene presentato per la prima volta dall’autore in una lettera del 21aprile 1878, indirizzata all’amico Salvatore Paolo Verdura. Dei cinque romanzi ideati, solo iprimi due, Padron ’Ntoni (poi diventato I Malavoglia) e Mastro-don Gesualdo , saranno portati atermine; il terzo,  La Duchessa delle Gargantas (poi La Duchessa di Leyra), rimarrà incompiuto,mentre gli ultimi due, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, non saranno mai scritti.

Il 5 dicembre del ’78, la vita di Verga viene profondamente segnata dalla morte della madre,preceduta da quella della sorella Rosa scomparsa nel ’77. L’avvenimento segna l’inizio di unlungo periodo di depressione, nel corso del quale lo scrittore decide di fare ritorno a Catania,dove rimarrà fino al giugno dell’anno seguente. Con il rientro a Milano, tuttavia, Verga ritrove-rà anche il fervore della scrittura e le idee: tra il ’78 e il ’79 usciranno le novelle Rosso Malpelo 

(in seguito inclusa in Vita dei campi), e Fantasticheria , rispettivamente sulle riviste «Il Fanfulla»e «Fanfulla della domenica», mentre è in corso di elaborazione  Jeli il Pastore. Finalmente, nel1880 viene data alle stampe, presso gli editori Treves, la raccolta di novelle già pubblicate in ri-vista tra il ’78 e l’80, Vita dei campi, e nel mese di settembre, ha inizio la lunga relazione senti-mentale, destinata a durare circa quattro anni, con Giselda Fojanesi, moglie di Mario Rapisardi,conosciuta a Firenze nel ’69. Sul numero di gennaio della Nuova Antologia, nell’anno 1881,appare con il titolo Poveri Pescatori!, una anticipazione dell’episodio tratto dal decimo capitolodei  Malavoglia. Il romanzo, la cui imminente pubblicazione è annunciata dal siciliano EnricoOnufrio sul Capitan Fracassa del 14 settembre 1880, sarà pubblicato da Treves nel mese difebbraio, raccogliendo pareri molto severi da parte della critica. Nonostante quello che Verga,

Page 38: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 38/43

 

37

in una lettera dell’11 aprile all’amico Capuana, ha definito un «fiasco pieno e completo», nello

stesso anno viene predisposta la traduzione dell’opera in francese, affidata a Edouard Rod,scrittore svizzero residente a Parigi che, dal 1880 avvierà una lunga corrispondenza con il veri-sta siciliano. Nel frattempo, Verga pubblica con Treves una nuova edizione della Vita dei cam-

 pi , caratterizzata dall’aggiunta del racconto, Il come, il quando ed il perché e, a Roma, stringe ilforte legame d’amicizia con la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo con la quale a partire dal1896 inizierà una vera e propria relazione d’amore. Nel 1882, oppresso dai bisogni economici,decide di pubblicare presso Treves  Il marito di Elena, un nuovo romanzo esterno al progettodei Vinti, cui segue la novella Pane nero, pubblicata in opuscolo dall’editore catanese Giannot-ta e poi inserita in Novelle rusticane, la silloge che esce a fine anno (ma con data 1883), per i ti-pi dell’editore Casanova di Torino. Nel maggio del 1882, durante l’incontro con Rod a Parigi,Verga ha l’opportunità di raggiungere Zola a Médan, per poi recarsi a Londra nel mese di giu-gno, e iniziare, al suo rientro, la collaborazione alla rivista «La rassegna settimanale», diretta da

Franchetti e Sonnino. Del 1883 è la pubblicazione dei racconti milanesi raccolti sotto il titoloPer le vie, iniziati l’anno precedente e già presentati singolarmente nelle riviste «Fanfulla delladomenica», «Domenica letteraria» e «Cronaca bizantina»; ma anche una nuova amicizia, quel-la con la contessa Paolina Greppi Lester, che si protrarrà per oltre vent’anni.

Il 1884 è segnato dall’esordio teatrale dello scrittore che, il 14 gennaio, al Teatro Carignanodi Torino, mette in scena Cavalleria rusticana, adattamento dell’omonima novella contenuta inVita dei campi , rappresentata dalla compagnia di Cesare Rossi, con Eleonora Duse nei panni diSantuzza e Flavio Andò nel ruolo di Turiddu. La rappresentazione guadagna il consenso favo-revole della critica e il grande successo anticipato da Giocosa, che ha seguito l’intero lavoro.Forte dell’esito positivo della versione teatrale di Cavalleria rusticana, Verga, in seguito allapubblicazione dei  Drammi intimi  (edito da Sommaruga), si occupa della riduzione teatrale diun’altra novella, Il canarino del n. 15, contenuta nella raccolta Per le vie. L’opera è rappresenta-

ta con il titolo  In portineria , al teatro Manzoni di Milano il 16 maggio 1885, senza riscuotere,tuttavia, il successo agognato.

Il triennio 1886-88 è quello della permanenza romana, interrotta occasionalmente da qual-che viaggio di ritorno a Catania reso necessario dall’acuta crisi psicologica dello scrittore, acausa di preoccupazioni finanziarie e dalla percezione dell’impossibilità di portare avanti il ci-clo narrativo intrapreso. Ma sono anche anni contrassegnati da nuove pubblicazioni: nell’87esce presso l’editore Barbèra di Firenze la raccolta di racconti intitolata Vagabondaggio e, nellostesso anno, viene pubblicata la traduzione francese dei Malavoglia, curata da Rod ( Les Mala-voglia, Mœurs siciliennes, A. Savine, Paris) senza grande clamore. Terminata nel frattempo laprima stesura del romanzo  Mastro-don Gesualdo, esso viene pubblicato dapprima a puntatesulla rivista «La Nuova Antologia» (I° luglio – 16 dicembre), e successivamente, alla fine del1889, dopo un’attenta revisione, in volume (con data 1890) presso l’editore Treves. La nuova

stesura del testo, grazie a rilevanti modifiche rispetto all’edizione precedente, riscuote un suc-cesso notevole e immediato. Il 17 maggio 1890 va in scena al teatro Costanzi di Roma la primadell’opera Cavalleria rusticana, diventata melodramma su libretto di G. Targioni Tozzetti emusica di Pietro Mascagni. Il successo clamoroso dell’opera si conclude, tuttavia, con una cau-sa giudiziaria intentata da Verga a Mascagni e all’editore Sonzogno per il riconoscimento deidiritti d’autore sull’opera lirica; lo scrittore siciliano, rappresentato e difeso dall’avvocato PaoloVerdura, riesce a ottenere nel gennaio 1893 una transazione, in base alla quale riceve dall’e-ditore la somma di lire 143.000 «una volta per sempre». Rispettivamente al 1891 e al 1894 ri-salgono le pubblicazioni, presso Treves, delle due ultime raccolte di novelle,  I ricordi del capi-tano d’Arce e Don Candeloro e C.i , mentre al 1893 risale il suo ritorno definitivo a Catania, dal-

Page 39: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 39/43

 

38

la quale Verga si allontanerà solo per brevi viaggi all’estero, a Milano e a Roma, dove nel 1895

incontra, nell’abitazione romana di Capuana, Émile Zola. Il 26 gennaio dell’anno seguente, alteatro Gerbino di Torino è rappresentato il dramma La Lupa, ricavato dall’adattamento teatra-le della omonima novella verghiana. Sempre nel 1896 è affidata a Treves la pubblicazione delvolume Teatro, raccolta contenente i drammi  La Lupa, In portineria, Cavalleria rusticana, men-tre, nel corso dell’estate, Verga continua a lavorare al romanzo La duchessa di Leyra, la cui ste-sura, tuttavia, si arresterà a un frammento del secondo capitolo. L’abbozzo apparirà postumo,il I° giugno 1922, sulla rivista mensile illustrata «La Lettura», curata da De Roberto. Ad inau-gurare il 1897 è la pubblicazione della novella  La caccia al lupo, apparsa il I° gennaio diquell’anno sulla rivista catanese «Le Grazie». Del ’97 è anche la nuova edizione di Vita dei campi , edita da Treves, con le illustrazioni del pittore Arnaldo Ferraguti e una struttura diversa(comprende Nedda, uscita nel ’74 e ristampata nel ’76 nella raccolta Primavera e altri racconti ,ed esclude  Il come, il quando ed il perché ), nonché correzioni notevoli rispetto alle precedenti

edizioni. Sembra intanto proseguire assiduamente la stesura de  La duchessa di Leyra, come siapprende da una lettera scritta all'amico Edouard Rod nel 1898, notizia confermata da «LaNuova Antologia» che ne annuncia la prossima pubblicazione. Il 2 novembre 1901, al TeatroManzoni di Milano sono rappresentati gli atti unici  La caccia al lupo e La caccia alla volpe, pub-blicati l’anno successivo da Treves. Alla morte del fratello Pietro, avvenuta il 21 aprile 1903, inipoti sono affidati alla sua tutela. Nel mese di luglio di quell’anno, sulla rivista «La Critica»compare il saggio di Benedetto Croce dedicato all’opera di Verga e nel mese di novembre,sempre al Teatro Manzoni è allestito il dramma Dal tuo al mio, la cui versione narrativa appari-rà nel 1905 a puntate sulla «Nuova Antologia» (16 maggio – 16 giugno) e nel 1906 in volumepresso Treves, con una premessa dagli accesi toni antisocialisti.

Gli anni 1912-15 lo vedranno impegnato nell’adattamento cinematografico di alcune sueopere, la sceneggiatura delle quali viene affidata a De Roberto; Verga interviene personalmente

sul lavoro di riduzione cinematografica di  Storia di una capinera e  La caccia al lupo. Nel corsodi questi anni, alle soglie dello scoppio del primo conflitto mondiale, egli si avvicinerà in ma-niera sempre piú convinta a tendenze ideologiche rigidamente conservatrici, alimentate da unaforte ammirazione per il movimento nazionalista, a cui dichiarerà di essere «favorevolissimo»;l’apice di questa stagione reazionaria sarà la piena approvazione, dopo qualche effimero ten-tennamento, dell’interventismo nella grande guerra, considerata necessaria. La sua ultima no-vella, Una capanna e il tuo cuore, elaborata nel 1919, uscirà postuma nell’«Illustrazione Italia-na» del 12 febbraio 1922, mentre nell’ottobre di quello stesso anno (ma con data 1920), pressol’editore Ricciardi di Napoli, verrà pubblicata la monografia di Luigi Russo Giovanni Verga;sempre nel’20 comparirà a Roma, per le edizioni della Voce, un’edizione riveduta (e con corre-zioni sostanziali) delle Novelle rusticane.

Il suo ottantesimo compleanno, compiuto nel luglio di quell’anno, viene celebrato con so-

lenni onoranze nel mese di settembre a Roma, presso il Teatro Valle, alla presenza del Ministrodella Pubblica Istruzione Benedetto Croce, e al Circo Massimo di Catania, con un discorso uf-ficiale tenuto da Luigi Pirandello ma in assenza del festeggiato. Il 30 ottobre Giovanni Giolittinomina Verga senatore del Regno d’Italia, probabilmente su proposta dello stesso Croce. Gliultimi giorni della sua lunga esistenza si svolgono tra il 24 gennaio del 1922, quando perde co-noscenza in seguito ad una trombosi cerebrale, e il 27 gennaio, giorno del decesso avvenuto aCatania, presso la casa paterna di via Sant’Anna.

[f.d.c.]

Page 40: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 40/43

 

39

NOTA BIBLIOGRAFICA

1. Biografie e strumenti bibliogtafici 

Prima ancora di ogni studio biografico e monografico, bisogna segnalare l’omaggio amicaledi Federico De Roberto: Casa Verga, curato da C. Musumarra (Le Monnier, Firenze 1964) èun libro incompiuto, ma nondimeno ricchissimo di notizie e di spunti sulle origini, l’adolescen-za e la prima formazione culturale dello scrittore, nonché sul suo percorso incompiuto; ad esso

andrà aggiunto almeno, per quanto viziato da molte imprecisioni, il saggio di Lina Perroni (alungo custode, con il fratello Vito, delle carte verghiane)  Ricordi di D’Artagnan (La prima gio-vinezza di Giovanni Verga e due romanzi sconosciuti: «Amore e patria» e «I carbonari della mon-tagna»), «Studi verghiani», II-III, Edizioni del Sud, Palermo 1929.

Tra le biografie vere e proprie, si vedano quella pioneristica di N. Cappellani, Vita di G.Verga, Le Monnier, Firenze 1940, il Giovanni Verga di G. Cattaneo (Utet, Torino 1969) e infi-ne la ricchissima, e ordinata annalisticamente, Vita di Giovanni Verga di Gino Raya (Herder,Roma 1990).

Allo stesso Raya si devono inoltre, insieme a una miriade di contributi critici mirati (daltema trofico ai rapporti con l’industria cinematografica), la monumentale  Bibliografia verghia-na (1840-1971), Ciranna, Roma 1972; insieme ad essa, si può utilmente consultare G. Santan-gelo,  Storia della critica verghiana, La Nuova Italia, Firenze 19692. Per un regesto dei volumi

posseduti (e spesso chiosati) da Verga, si vedano G. Garra Agosta,  La biblioteca di Giovanni Verga, Greco, Catania 1977, nonché il catalogo  La biblioteca di Giovanni Verga, a cura di C.Lanza, S. Giarratana e C. Reitano, con introduzione di S. S. Nigro, Edigraf, Catania 1985.

Tra i molti saggi a carattere monografico (o di critica integrale), si segnalano, dopo lo stu-dio pilota di Luigi Russo – vero ‘monumento in vita’ – , A. Seroni, Verga, Palumbo, Palermo19694; M. Pomilio,  La fortuna del Verga dal 1880 al 1918, Liguori, Napoli 1963; R. Luperini,

 Interpretazioni di Verga, Savelli, Roma 1975; E. Ghidetti, Verga. Guida storico-critica, EditoriRiuniti, Roma 1979; N. Borsellino,  Storia di Verga, Laterza, Roma-Bari 1982; G. Mazzacurati,Verga, Liguori, Napoli 1984; V. Masiello , Il punto su Verga, Laterza, Roma-Bari 1986; R. Fedi,Giovanni Verga, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 2002.

2. Edizioni 

A metà degli anni ’80 del Novecento, la Fondazione Verga di Catania, guidata allora daFrancesco Branciforti, ha promosso l’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Verga,pubblicata da Le Monnier e dal Banco di Sicilia. Il volume I tempi e le opere di Giovanni Verga,Le Monnier, Firenze 1986 (comprendente il saggio di G. Galasso La Sicilia ai tempi del Verga eil fondamentale F. Branciforti,  Lo scrittoio del verista) illustrava il piano dell’opera. Esauritosilo slancio iniziale, l’impresa sembra essersi arenata. Sono usciti finora meno della metà dei ven-tidue volumi previsti: Vita dei campi , a cura di C. Riccardi, 1987;  Drammi intimi , a cura di G.

Page 41: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 41/43

 

40

Alfieri, 1987; I carbonari della montagna – Sulle lagune, a cura di R. Verdirame, 1988; Tigre rea-

le, a cura di M. Spampinato Beretta, 1988;  I ricordi del capitano d’Arce , a cura di S. Rapisarda,1992; Mastro-don Gesualdo, a cura di C. Riccardi, 1993; Don Candeloro e C.i , a cura di C. Cu-cinotta, 1994; Dal tuo al mio, a cura di T. Basile, 1995; Per le vie, a cura di R. Morabito, 2003.

Anche l’edizione-monstre de  I Malavoglia, a cui Branciforti da molto tempo, è rimasta in-compiuta a causa della scomparsa del curatore: esiste però un’edizione critica a cura di F. Cec-co (Il Polifilo, Milano 1995), come anche un puntuale commento redatto dallo stesso (Einaudi,Torino 1995). Essendo i sette volumi delle Opere di Giovanni Verga, a cura di L. e V. Perroni,Mondadori, Milano 1939-1946 viziati da una miriade di inesattezze testuali, conviene rifarsi adalcune edizioni di singoli o di piú romanzi verghiani: I carbonari della montagna – Sulle lagune,a cura di C. Annoni, Vita e Pensiero, Milano 1975; Tutti i romanzi , a cura di E. Ghidetti, San-soni, Firenze 1983; Mastro-don Gesualdo (1888)-(1889), a cura di G. Mazzacurati, Einaudi, To-rino 1992. Quanto ai Malavoglia, ne esistono moltissimi commenti: segnaliamo soltanto quello

a cura di L. Russo (Vallecchi, Firenze 1924); di G. Carnazzi (Rizzoli, Milano 1978); di N. Me-rola, (Garzanti, Milano 1980); di M. Pieri (Tea, Milano 1990); I. Gherarducci (Theorema, Mi-lano 1993).

Per la produzione novellistica, ci limitiamo a segnalare le due edizioni complessive piú av-vedute scientificamente ed esaurienti sul piano documentario, ancorché contraddistinte dacontrarie opzioni metodologiche: da un lato quella a cura di C. Riccardi (Mondadori, Milano1979), che privilegia le prime edizioni, dall’altro quella curata, con maggiore dovizia di appara-ti di commento, da G. Tellini (Salerno, Roma 1980), che si rifà, nell’ordine e della scelta dellevarianti, all’ultima volontà d’autore. Ad esse si aggiunge l’originale lavoro di M. Pieri (Novellee teatro, Utet, Torino 2002). Per il Verga drammaturgo, le raccolte di riferimento sono quelle acura di N. Tedesco, Mondadori, Milano 1980; e di G. Oliva, Garzanti, Milano 1987.

Dell’epistolario verghiano, ricchissimo (come testimoniano l’imponente Regesto delle lette-

re a stampa di Giovanni Verga, a cura di G. Finocchiaro Chimirri, Società di Storia Patria perla Sicilia Orientale, Catania 1977 e la silloge, a cura della stessa studiosa, Lettere sparse, Bulzoni,Roma 1979), sono fin qui pubblicati solo alcuni episodi, tra cui spiccano  Lettere al suo tradut-tore, a cura di F. Chiappelli, Le Monnier, Firenze 1954; Lettere d’amore, a cura di G. Raya, Ci-ranna, Roma 1972; Carteggio Verga-Capuana, Ateneo, Roma 1984.

3. La fortuna critica

La storia critica di Verga inizia parallelamente al suo esercizio narrativo piú alto: contributicruciali sulle sue opere si troveranno in L. Capuana, Verga e D’Annunzio, a cura di M. Pomilio,

Cappelli, Bologna 1972 e in F. Cameroni, Interventi critici sulla letteratura italiana, a cura di G.Viazzi, Guida, Napoli 1974; U. Ojetti,  Alla scoperta dei letterati , a cura di P. Pancrazi, LeMonnier, Firenze 1946; e ancora, dentro il Novecento, in B. Croce,  La letteratura della nuova

 Italia, III, Laterza, Bari 1915; R. Serra, Le lettere, a cura di D. De Robertis e L. Grilli, Le Mon-nier, Firenze 1958; F. Tozzi, Pagine critiche, a cura di G. Bertoncini, ETS, Pisa 1993; G.A.Borgese, Tempo di edificare, Treves, Milano 1923. Su tutti, naturalmente, L. Pirandello, Saggi.Poesie. Scritti vari , a cura di M. Lo Vecchio Musti, Mondadori, Milano 1960.

La stagione ‘moderna’ e per cosí dire ‘scientifica’ della critica verghiana (sincrona ai cimen-ti di Tozzi, Pirandello e Borgese) è aperta invece da L. Russo, Giovanni Verga, Ricciardi, Na-poli 1920 [ma 1919], poi Laterza, Bari 1934 ss. Nei successivi cinquant’anni, fino cioè alla

Page 42: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 42/43

 

41

esplosione del «caso Verga», la ricerca documentaria e la nuova attenzione filologica sono ac-

compagnati da un primo sforzo ermeneutico, che ha i suoi momenti piú significativi in: A.Momigliano, Giovanni Verga narratore (1923), in  Dante, Manzoni, Verga, D’Anna, Messina1944; D. Garrone, Giovanni Verga, Vallecchi, Firenze 1941. Gli anni ’50 si aprono con lestraordinarie lezioni di un critico poco accademico all’Università di Messina (che vedranno laluce solo un quarto di secolo piú tardi: G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Garzanti, Mila-no 1976); mentre a metà dello stesso decennio lo studio di F. Devoto  I piani del racconto in duecapitoli dei “Malavoglia” (1954), successivamente stampato in Id., Nuovi studi di stilistica, LeMonnier, Firenze 1962 e l’analisi spitzeriana dell’erlebte Rede (del 1956: poi in L. Spitzer,  Studi italiani , Vita e Pensiero, Roma 1976) imprimono un rinnovamento decisivo allo studio sullalingua verghiana. Seguono, attenti al livello stilistico come a quello storico-culturale. G. Trom-batore,  Riflessi letterari del Risorgimento in Sicilia, Manfredi, Palermo 1960; N. Sapegno,  Ri-tratto di Manzoni e altri saggi , Laterza, Bari 1961; E. Giachery, Verga e D’Annunzio, Silva, Mi-

lano 1968; E. Cecchetti, Il Verga maggiore, La Nuova Italia, Firenze 1968.Ma il ’68 – l’anno fatale delle ideologie e del rinnovamento culturale – segna soprattuttol’avvento sulla scena della critica verghiana di una nuova generazione di critici di ispirazionemarxista: esce innanzitutto R. Luperini, Pessimismo e verismo in Giovanni Verga, Liviana, Pa-dova 1968 (a cui seguiranno, dello stesso, L’orgoglio e la disperata rassegnazione. Natura e socie-tà, maschera e realtà nell’ultimo Verga, Savelli, Roma 1974 e Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su "Rosso Malpelo", Liviana, Padova 1976; fino a  Simbolo e costruzione allego-rica in Verga, Il Mulino, Bologna 1989); negli anni immediatamente successivi, V. Masiello,Verga tra ideologia e realtà, De Donato, Bari 1970 (ma anche, piú avanti,  I Miti e la Storia, Li-guori, Napoli 1984), A. Asor Rosa (a cura di),  Il caso Verga, Palumbo, Palermo 1972 (e Id., Il 

 punto di vista dell’ottica verghiana, in AA.VV.,  Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, II, Bulzoni, Roma 1975. Ad essi andrà aggiunto almeno il fondamentale, e diversa-

mente engagé , L. Sciascia, La corda pazza, Einaudi, Torino 1970.Seguiranno P. De Meijer, Costanti del mondo verghiano, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1969;

R. Bigazzi,  I colori del vero. Vent’anni di narrativa (1860-1880), Nistri-Lischi, Pisa 1969; G. P.Marchi, Concordanze verghiane, Fiorini, Verona 1970 (nonché Id., Verga e il rifiuto della storia,Sellerio, Palermo 1987); S. Ferrone,  Il teatro di Verga , Bulzoni, Roma 1972; C. A. Madrignani,

 Ideologia e narrativa dopo l’unificazione, Savelli, Roma 1974; G. Mazzacurati, Forma & Ideolo-gia, Liguori, Napoli 1974 (ma anche Id.,  Stagioni dell’apocalisse, Einaudi, Torino 1996); G. Pi-rodda,  L’eclissi dell’autore. Tecnica ed esperimenti verghiani , Editrice democratica sarda, Ca-gliari 1976; V. Spinazzola, Verismo e positivismo, Garzanti, Milano 1977; S. Campailla, Anato-mie verghiane, Pàtron, Bologna 1978; N. Merola, Su Verga e D’Annunzio, Edizioni dell’Ateneoe Bizzarri, Roma 1978.

Con gli anni ’80, gli studi verghiani conoscono una nuova svolta, sia per l’impegno della

Fondazione Verga, che organizza costantemente convegni, ospitando spesso contributi di pre-gevole carattere innovativo; sia per la pubblicazione dell’importante G. Baldi,  L’artificio dellaregressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Liguori, Napoli 1980. La stagioneche si apre è estremamente attenta al dato formale e alla ricostruzione filologica, grazie anchealla spinta delle sincrone edizioni critiche nazionali e dei citati commenti di Cecco e, soprattut-to, di Mazzacurati. Fra i molti e diversi contributi, andranno ricordati almeno G. BàrberiSquarotti, Verga. Le finzioni dietro il verismo, Flaccovio, Palermo 1982; E. Ghidetti,  L’ipotesi del verismo, Liviana, Padova 1982; F. Nicolosi, Verga tra De Sanctis e Zola, Pàtron, Bologna1986; G. Nencioni,  La lingua dei Malavoglia, Morano, Napoli 1988; G. Patrizi,  Il mondo dalontano, Fondazione Verga, Catania 1989; M. Muscariello, Le passioni della scrittura. Studio sul 

Page 43: Introduzione Verga

7/16/2019 Introduzione Verga

http://slidepdf.com/reader/full/introduzione-verga 43/43

 

 primo Verga, Liguori, Napoli 1989 (e poi Ead., Gli inganni della scienza. Percorsi verghiani , Li-

guori, Napoli 2001); P. Mazzamuto, Il parvenu risorgimentale. Giovanni Verga tra antropologiae storia, Dharba, Palermo 1990; G. Petronio,  Restauri letterari da Verga a Pirandello, Roma-Bari, Laterza 1990; M. Pieri, Caso Verga. Schede per una storia del verghismo minimamente di-versa, Zara, Parma 1990; G. Tellini, L’invenzione della realtà. Studi verghiani , Nistri-Lischi, Pi-sa 1993; C. Musumarra,  Di là del mare. Saggi di critica verghiana, Palumbo, Palermo 1993; A.Di Silvestro, Le intermittenze del cuore. Verga e il linguaggio dell’interiorità , Fondazione Verga,Catania 2000; V. Roda, Verga e le patologie della casa, Clueb, Bologna 2002; R. Luperini, Vergamoderno, Laterza, Roma-Bari 2005.

[f.d.c.]