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Scuola della Parola nell’Anno della Fede
I miracoli della fede.
Accogli la Parola sulla tua “bocca” e nel tuo “cuore”.
INTRODUZIONE GENERALE
Benedetto XVI, con atto sapiente rivelativo della sollecitudine di
pastore universale e di custode della fede della Chiesa, ci invita in questo
Anno a risvegliare, riconsiderare, vivere consapevolmente la nostra fede.
Nella Lett. Ap. Porta fidei incoraggia a rileggere i documenti del
Concilio Vaticano II e a riprendere in mano il Catechismo della Chiesa
Cattolica, sia nel compendio apposito e sia nella versione del Youcat per
i Giovani.
Assecondando, con docile e sicura obbedienza, l’invito del Santo
Padre anche nella nostra Chiesa particolare, abbiamo ripreso il magistero
conciliare soprattutto nella Scuola Diocesana di Formazione. Ma pure in
questa Quaresima, prima della “lectio orante” riguardante alcuni
“Racconti di miracoli” di Luca, riascolteremo taluni brani della
Costituzione “Dei Verbum” del Concilio dedicata appunto alla “Parola di
Dio”.
Vi invito a riprendere questi testi, stampati sul fascicoletto distribuito,
in momenti di silenzio e di preghiera che ognuno si ritaglierà durante la
settimana, accogliendo la mia esortazione come “penitenza” nel senso
spirito penitenziale tipico del tempo quaresimale.
Intanto faccio mio quanto scrive l’apostolo Paolo nella prima lettera ai
Tessalonicesi:
“Fratelli, ringraziamo Dio continuamente perché, avendo ricevuto da
noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola
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di uomini, ma, come è veramente, quale Parola di Dio, che opera in voi
che credete” (1 Ts 2, 13-14).
E ancora quanto Paolo scrive ella lettera ai Romani:
“Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore, cioè la
Parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca
proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo
ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per
ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere
la salvezza. Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà
deluso” (Rm 10, 8-11).
La grazia del Vangelo
Il Vangelo non è una cronaca giornalistica, ma è una vera “grazia”, è
la “buona notizia” della salvezza. Nella sua concretezza letteraria, il
vangelo si fa “racconto” di un testimone (oculare) in modo che noi
possiamo “renderci conto della solidità degli insegnamenti che abbiamo
ricevuto” (cfr. Lc 1, 1-4). Ora e qui noi siamo “ascoltatori” del racconto
e il racconto diventa parte integrante di noi che crediamo, che
accogliamo ascoltando la Parola raccontata, con l’“orecchio” dello
Spirito.
In tal modo la Parola di Dio rivela oggi la sua potenza. Scrive Mons.
Lino Cassi: “Noi siamo sollecitati ad ascoltare la Parola, ad assumerla in
tutta la sua forza e la sua onnipotenza. Detto in termini essenziali: la
Parola di Dio è una Parola che crea, che non si limita a dire, ma produce;
e chiede al discepolo di prendere sul serio la Parola”.
Così sempre più avvertiamo e comprendiamo che la Parola di Dio sta
a fondamento della vita cristiana e pone le basi salde e forti della vita
della Comunità ecclesiale (cfr. Ne 8, 2-4.5-6.8-10). In tal senso la Parola
è proclamata nella comunità credente per diventare sempre più
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famigliare alla nostra vita personale e stabilirsi come punto essenziale di
riferimento e criterio di giudizio della realtà.
Perché è decisiva la Parola di Dio? Essa svela il progetto di Dio su di
noi, manifesta la sua volontà di salvezza e di misericordia, trasforma
l’uomo credente da passivo in attivo interlocutore di Dio, tale da
diventare un testimone fedele della grazia mediante una vita morale
degna di Dio.
In tal modo la Parola, accolta, meditata e interiorizzata, orienta il
credente a ritrovare la sua vocazione, la sua identità, la sua capacità di
pregare e di aprirsi agli altri, di condividere nella carità di Dio la
condizione del prossimo. Sotto questo punto di vista la Parola genera
comunione, è sorgente della vita comunitaria in cui ognuno “gioca” la
sua parte in forma reciproca, creando l’ambiente in cui ogni persona
trova il suo spazio di vita, di collaborazione, di integrazione.
Il vangelo ci dice che l’uomo non si costruisce da sé, che non si salva
da solo, ma che è Dio che suscita la chiamata ad essere cristiano, che
edifica la comunione, l’intesa, la fraternità, l’aiuto vicendevole. Non
siamo frutto del nostro semplice impegno, ma è l’evidenza dell’opera di
Dio in noi, perché Dio non parla invano: egli è all’opera per noi
mediante segni, prodigi, miracoli e manifesta pienamente la sua grazia.
L’azione di Dio in noi e nel mondo non è per fare spettacolo o per
suscitare consensi, ma per la nostra edificazione-santificazione in modo
che possiamo lodare e benedire, ringraziare e accogliere Dio nel nostro
cuore con fiducia e aver parte del suo Regno di giustizia e di pace.
I miracoli di Gesù
Benedetto XVI ha scritto: “Nelle guarigioni miracolose del Signore e
dei Dodici, Dio si rivela nel suo potere benigno sul mondo. Sono,
secondo la loro essenza, “segni” che rimandano a Dio stesso e tendono a
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mettere in movimento l’uomo verso Dio. Solo il cammino di progressiva
unione con lui può essere il vero processo di guarigione dell’uomo” (J.
Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret).
Gesù fa i “miracoli”. Egli rappresenta qui e ora il “sì” di Dio che
incontra il suo popolo posto nella confusione, nella sofferenza, nel
dubbio e nell’incertezza, come nell’indifferenza, nell’apatia, nella
sospensione della fede. Per questo il racconto dei miracoli chiede a noi,
“ascoltatori-uditori” della Parola potente, di aderire a lui e di affidarci
con semplicità di cuore.
Il miracolo non è in modo immediato la prova della verità di Gesù, in
quanto Gesù è “vero” anche senza i miracoli, ma esprime il segno della
sua potenza che prende e scuote il torpore dell’anima e del corpo che sta
soffocando lo spirito dell’uomo.
Così il racconto del miracolo diventa “storia” della rivelazione di
Gesù. Il miracolo ti prende per mano, ci aiuta ad introdurci nel “mistero”
di Gesù, per conoscerlo meglio e per sentire di condividere oggi la sua
presenza, cioè l’amore di Dio per ognuno di noi. Perché, alla fine, il
miracolo è un intervento sulla persona, non sulle masse. Le folle
osservano, vedono, commentano ciò che accade sotto i loro occhi.
Di fatto con il miracolo è presa in causa la tua condizione personale, la
tua malattia, la tua povertà, così come sei, oggi, per sollecitare la tua
adesione di fede. In te Gesù diventa la “tua” storia: lui si fa parte di te e
prosegue la sua predicazione del vangelo di Dio in tuo favore. Nel
miracolo diventa protagonista lo Spirito Santo che “è su Gesù” (Lc 4, 14-
21) e ancor più lo è oggi perché è “lo Spirito che dà vita” (Gv 6, 63) e
Gesù è colui che lo rende visibile, sperimentabile.
Nel miracolo è annunciata la misericordia di Dio, ormai “fatta carne”
in Gesù, che si attua nella liberazione dal male, nella guarigione, nel
perdono.
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Il miracolo è per la fede
Attraverso il miracolo si attua, per via sorprendente, la ricostruzione
dell’uomo e la restituzione dell’uomo alla comunità, al mondo e
ultimamente a Dio. Nel miracolo avviene, come in una visione sintetica,
il compimento della speranza, dell’attesa di Israele. Il miracolo dà una
scossa, ti risveglia. Ti pone davanti a Dio. Ti interroga sul fine della vita.
Il miracolo è per credere. Nella richiesta di miracolo o nel fatto del
miracolo, si manifesta l’affidarsi a Gesù senza condizioni, è riconoscere
in Gesù la potenza in atto di Dio. Allora diventa necessario l’incontro
personale con Gesù che opera il cambiamento e diventa segno di quanto
avverrà con la morte-resurrezione di Gesù. Nel “miracolo” si rivela che
Gesù è unito a Dio; Gesù è il volto del Dio vicino.
L’evangelista Luca vede concretamente nella Chiesa (cfr. Atti) i segni
della potenza di Gesù che si prolunga e si attua mediante l’opera della
predicazione. E’ questa una sottolineatura molto importante per capire la
“cristologia” del vangelo di Luca.
Sovente il vangelo annota che la gente chiede i miracoli per credere.
La “richiesta” è comprensibile sotto certi profili, ma Gesù avverte di
dover “rettificare” una cattiva interpretazione dei miracoli:
“Maestro, da te vogliamo vedere un segno. Ed Egli rispose loro:“Una
generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà
dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona
rimane tre giorni e tre notti nel ventre del pesce , così il Figlio dell’uomo
resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Mt 12,38-40).
Gesù non si presta ad essere mal compreso con i miracoli. Perciò
orienta al vero significato del miracolo che è la rivelazione del “mistero”
di Gesù, l’inviato del Padre. Infatti i discepoli sono istruiti a vedere il
vero Gesù nel quale si manifesta Dio che è per la vita e non per la morte.
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Gesù sente il bisogno di spiegare: “Se io scaccio i demoni con il dito di
Dio è dunque giunto a voi il regno di Dio” (Lc 11, 20).
In definitiva, Gesù libera da ogni fonte di male: è il liberatore
universale. Perciò i miracoli sono i segni del Regno vicino, cioè della
presenza di Dio in atto. Di conseguenza il miracolo chiede la fede o
genera la fede, comunque è per la fede. Proprio nella fede il miracolo
restituisce la dignità dell’uomo e della natura.
Nel miracolo avviene una sorta di “restitutio ad integrum”, prima
della caduta originale. Ricostituzione dell’origine come anticipo di quel
che avverrà con la redenzione. Il miracolo diventa segno di Dio per
l’uomo. E l’uomo si lascia provocare in modo che si renda disponibile e
aperto a Dio.
Così Dio riprende il suo posto perché è il fondamento della natura, del
cosmo, dell’uomo. Il miracolo diventa segno “ragionevole” della
signoria di Dio e svela come la razionalità non si oppone alla fede, anzi
la riguarda.
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22 febbraio 2013
Una fede così grande (Lc 7, 1-10)
Introduzione
I racconti dei miracoli sono sempre sorprendenti e un po’ anche
curiosi. Accadono nelle forme più impensabili e diverse, presentano
situazioni drammatiche di sofferenza, di vincolamento demoniaco, di
asservimento a spiriti immondi, di estraneazione della convivenza civile.
Rivelano la condizione umana più emarginata, più irrisolvibile, più
impotente.
Il popolo che attende miracoli sconfina nelle moltitudini perché la
cronicità del male affonda nel corpo e nell’anima degli esseri viventi
destinati alla morte, pagando il prezzo della malattia o di altre situazioni
di dolore. Il miracolo riguarda il corpo e lo spirito.
Il miracolo è invocato, supplicato, atteso perché provoca disperazione,
sgomento, ribellione dal momento che si presenta come rivelazione di un
assurdo inaccettabile, qualcosa di contrario al diritto alla vita, allo star
bene, a vivere in una società di sani e di normali. Qualunque malattia
porta al grido, all’imprecazione, perché si evidenzia come “scandalo”,
come profonda e ingiustificata condizione di servitù. Lo stato di malattia
è subito e sentito come una cocente ingiustizia.
Così nelle narrazioni evangeliche il miracolo non nasce da una
necessità, da un risarcimento di giustizia, ma da un gesto di gratuità,
come dono immeritato che scende dalla compassione di Dio. E’ dunque
un atto di benevolenza, una manifestazione straordinaria di potenza
creatrice che vince le regole della natura. Il miracolo consiste in una fede
“grande” che trascina Dio nel proprio cuore e lo trasforma.
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“1Quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che
stava in ascolto, Gesù entrò in Cafàrnao. 2Il servo di un centurione era
ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. 3Perciò,
avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a
pregarlo di venire e di salvare il suo servo.4Costoro, giunti da Gesù, lo
supplicavano con insistenza: «Egli merita che tu gli conceda quello che
chiede – dicevano –, 5perché ama il nostro popolo ed è stato lui a
costruirci la sinagoga». 6Gesù si incamminò con loro. Non era ormai
molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a
dirgli: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il
mio tetto; 7per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da
te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. 8Anch’io infatti sono
nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno:
“Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo:
“Fa’ questo!”, ed egli lo fa». 9All’udire questo, Gesù lo ammirò e,
volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in
Israele ho trovato una fede così grande!». 10
E gli inviati, quando
tornarono a casa, trovarono il servo guarito” (Lc 7, 1-10).
COMMENTO
Lc 7, 1 “Quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al
popolo che stava in ascolto”.
Dopo il “discorso programmatico”, pronunciato “in un luogo
pianeggiante” (Lc 6, 17) davanti a una moltitudine immensa, dove “tutta
la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva
tutti” (Lc 6, 15), Gesù “entrò in Cafarnao” (Lc 7, 1). Il discorso
inaugurale è finito (Lc 6, 17-7,1). Si compone di parti essenziali
dell’annuncio evangelico di Gesù: le Beatitudini (Lc 6, 20-26), l’amore
verso i nemici (Lc 6, 27-35); il dovere della misericordia e della
beneficenza (Lc 6, 36-38); le condizioni dello zelo (Lc 6, 39-45); la
necessità della pratica (Lc 6, 46-49).
A questo punto Luca inserisce il racconto del miracolo che riguarda la
guarigione del “servo del centurione”. Si svolge a Cafarnao, città posta
ai confini con le vie orientali di comunicazione e di commercio. Il
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presidio dell’occupatore romano si presenta solido e conosciuto dalla
popolazione.
Lc 7, 2 “Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il
centurione l’aveva molto caro”.
L’apertura conduce l’occhio su un letto dove sta quasi agonizzando il
“servo del centurione”. La scena è facilmente visualizzabile e ha i
contorni domestici. Si capisce subito che a primeggiare è la figura del
centurione che sta al centro e tutto si muove attorno a lui. Il centurione è
un personaggio interessante per l’evangelista Luca e per i suoi uditori, e
il motivo è intrinseco al suo ampio uditorio di catecumeni e di nuovi
cristiani.
Il centurione è un pagano, un comandante di media importanza delle
truppe romane accampate in Palestina. Come pagano appartiene alla
categoria dei peccatori (cfr. S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di
Luca, p. 203) e come romano è visto di malocchio e con fastidio.
Tuttavia, essendo buono e generoso, mantiene buoni rapporti con gli
anziani Giudei e le istituzioni giudaiche.
Il servo è ammalato gravemente: per lui non ci sono speranze di
guarigione, “sta per morire”. Questa fine suscita subito un andamento
drammatico al racconto. Quando un uomo s’appresta a morire, si istaura
un clima di pietà, di vicinanza. Cadono le barriere etniche e religiose, i
pregiudizi e i pensieri corrono all’essenziale della vita.
Di fronte al servo amato e morente, il centurione avverte la sua
finitezza e la sua impotenza: sa bene che non può fare nulla. Si nota il
contrasto insuperabile di fronte alla morte certa: da una parte
l’impraticabilità di vie d’uscita per una guarigione e dall’altra l’acutezza
di un affetto senza potere. Il dramma umano è evidente: l’amore non
impedisce il distacco dalla morte.
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Ma proprio qui inizia il percorso della fede: la costatazione del male e
della sua insuperabilità porta l’uomo a rendersi conto della sua pochezza
e del suo finire e dunque emerge il bisogno di un Dio che riempie il
vuoto , che lo preservi dalla disperazione angosciante. Se l’amore umano
si mostra impotente, si ricorre ad una potenza sovraumana, ad un Amore
che supera l’uomo.
La fede è la risposta ad un bisogno di Dio perché Dio solo può
colmare il desiderio di salvezza.
Lc 7, 3 “Perciò, avendo udito parlare Gesù, gli mandò alcuni anziani dei
Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo”.
Luca descrive il comportamento del centurione utilizzando il
linguaggio “catecumenale” e cioè di uno che si avvicina da lontano a
Gesù, “avendo udito parlare” di lui. Qui c’è l’eco della predicazione di
Paolo che afferma nella sua catechesi ai Romani che l’ascolto sta
all’inizio della fede e l’accompagna.
“Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come
crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne
sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo
annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: Quanto sono
belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene! Ma non tutti
hanno obbedito al Vangelo. Lo dice Isaia: Signore, chi ha creduto dopo
averci ascoltato? Dunque, la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda
la parola di Cristo” (Rm 10, 14-17).
Questo è un testo trascinante e avvolgente che si riferisce al rifiuto di
Israele di seguire la luce proposta da Cristo. Il vertice del testo sta nella
dichiarazione: “La fede viene dall’ascolto”, per dimostrare la sordità dei
Giudei e quindi la loro non-fede.
Qui gli anziani Giudei fanno invece da tramite perché conoscono
Gesù e possono essere testimoni autorevoli. Udire è il verbo della fede e
il servirsi di mediatori indica una eccellente disponibilità fiduciale verso
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colui al quale si è inviati. D’altra parte per arrivare a Gesù servono
“mediatori”: proprio gli anziani (= presbiteri) fanno da collegamento,
come un ponte tra Gesù e i pagani.
Questi Giudei attuano il “passaggio” alla salvezza, come a dire fanno
da ponte tra Israele e i Gentili. Luca anticipa i tempi e lo schema della
missione: i portatori-depositari della fede vera sono i Giudei che
conducono a Gesù i pagani, e la motivazione trainante è l’amore:
“perché ama il nostro popolo”.
Inoltre val bene sottolineare il valore simbolico dei due verbi usati dal
centurione: lui prega perché Gesù possa “venire” e “salvare” il suo
servo. Ma Gesù non è forse “venuto a salvare chi era perduto”? (Lc 19,
10). Il centurione non rimane scettico, dubbioso, chiuso nel suo dolore.
Già interagisce da lontano con colui che può venire e che può salvare.
Quello che emerge dal suo cuore è la condizione certa che, se viene,
Gesù salva.
Lc 7, 4-5 “Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza:
«Egli merita che tu gli conceda quello che chiede –
dicevano – perché ama il nostro popolo ed è stato lui a
costruirci la sinagoga»”.
Anche i Giudei fanno la loro parte. Non si sarebbero mossi a seguito
della “raccomandazione” del centurione se costui non fosse stato degno,
se non l’avesse “meritato”. Si attua una solidarietà vera come per dire
che da un bene nasce un bene migliore. Dunque mettono in moto
argomenti persuasivi e operano con sincerità di cuore: infatti ci vanno,
parlano con Gesù e “lo supplicano con insistenza”.
Ma questa non è forse una vera preghiera di intercessione? Sono
anche concordi, così la loro istanza è più convincente e disinteressata.
Qui si anticipa una caratteristica che sarà il punto di forza del pagano: i
Giudei testimoniano che lui “merita”, cioè è “degno” di essere esaudito,
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mentre il centurione dirà – per due volte – di “non essere degno”. Il fatto
che lui partecipi alla costruzione della sinagoga è un motivo in più
rispetto al fatto che “ama” il popolo.
I due argomenti dimostrano che il centurione appartiene ai “timorati di
Dio” pur essendo pagano. Il timore di Dio infatti rende umili e
misericordiosi. Egli diventa esemplare per la sua vicinanza a chi ha
bisogno. Lui già è allineato alla parola di Gesù, espressa poco prima:
“Siate misericordiosi, come il padre vostro è misericordioso” (Lc 6, 36).
E’ già nelle “vicinanze” del Regno di Dio, prossimo ad essere un
“catecumeno” che segue l’invito della parola del Signore.
Lc 7, 6a “Gesù si incamminò con loro”
E’ sorprendente la decisione di Gesù. Non fa obiezioni, ma avanza
“con loro”. Facciamo attenzione agli atti ben precisati compiuti da Gesù,
rivelatori della sua intima volontà: sono espressi con l’aoristo (passato
remoto) che indica un’azione definitiva e irrevocabile, che perdura nel
tempo. Prima “entrò in Cafarnao” e poi “si incamminò con loro”, per
dire la direzione di un volere determinato: lui stesso si rende presente
con la sua intenzione di salvezza.
Non tergiversa, non chiede spiegazioni ulteriori, non fa obiezioni. E’
dunque una “scena altamente simbolica” (cfr. Ortensio da Spinetoli,
Luca, p. 264) nel senso che la “Chiesa e sinagoga potrebbero e
dovrebbero essere concordi nell’apportare la buona novella ai gentili
invece di osteggiarsi reciprocamente come fanno al presente” (ivi).
Lc 7, 6b-7 “Non era ormai molto distante dalla casa, quando il
centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non
disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio
tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di
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venire da te; ma dì una parola e il mio servo sarà
guarito»”.
Qui sta il vertice del racconto. Siamo di fronte al compimento
dell’intenzione evangelica. Con la confessione di fede cristologica del
centurione – senz’altro una delle più belle e complete formulazioni di
fede presenti nel vangelo – si manifesta lo scopo della “catechesi” di
Luca.
Tanto è densa e significativa che la Chiesa ha voluto si ripetesse ogni
volta che ci si accosta al sacramento dell’Eucaristia. Infatti
all’ostensione del celebrante: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che
toglie il peccato dal mondo”, subito l’Assemblea risponde: “O Signore,
non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola e
io sarò salvato”.
Non è successo ancora nulla di strepitoso, eppure lo “strepitoso” sta
succedendo nel cuore del centurione. Qui la “funzione” del miracolo
viene anticipata non più su un piano della guarigione fisica, ma sul piano
della rigenerazione spirituale
Lui manda a dire una sorta di contr’ordine, una volta saputo che Gesù
aveva accolto la sua supplica. La delegazione di “alcuni amici” rifanno
la strada verso Gesù e riportano la parola, segnata da un profondo
sentimento di stupore e di umiltà (= sono i sentimenti della fede!), del
centurione quasi “stordito” dal venire di Gesù. Prima lo chiama in causa
disperato, poi lo prega di non venire.
Cosa è successo? In lui avviene un cambiamento di intenzione perché
percepisce la grandezza di ciò che sta per accadere, venendo Gesù in
casa sua. Qui è necessario annotare che non si tratta solo un’emozione
incontenibile e prorompente, ma dell’affacciarsi della fede: al centurione
si aprono gli occhi della fede, forse ancora in modo allusivo, incoativo,
iniziale, eppure visibile. Infatti esclama: “Signore, non disturbarti!”.
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L’espressione è di rispetto, ma già si intravede in prospettiva di fede la
visione del kurios della resurrezione.
In realtà questo rispetto pone le basi della fede in quanto promuove il
riconoscimento dell’alterità trascendente di Dio e nel contempo l’infinita
distanza e “indegnità” del centurione. Qui è l’atteggiamento tipico del
“peccatore” che emerge con forza e lo confessa pubblicamente. Per il
centurione non sussistono le condizioni di “parità” perché Gesù entri
nell’intimità della sua casa.
E ancor più il centurione manifesta l’imparagonabilità con Gesù
quando dichiara di non essere degno neppure di andare lui stesso da
Gesù. Di qui scatta di nuovo la professione di fede con un’affermazione
dichiarativa della potenza creatrice della “parola”, capace di agire a
distanza, senza il contatto diretto. E’ la premessa del… “miracolo a
distanza”!
Il centurione attribuisce a Gesù un potere taumaturgico: basta che lui
pronunci la parola e il “servo sarà guarito”. Lui ha fede nei poteri di
Gesù perché, essendo militare, sa il valore della parola detta dall’autorità
(cfr. Ortensio da Spinetoli, p. 265). Di fatto questa fiducia cieca espressa
dal centurione, serve all’evangelista Luca per stimolare e incoraggiare i
suoi uditori della potenza di Gesù anche in sua assenza (cfr. S. Fausti, p.
205), scorgendovi dunque la fede della Chiesa che crede nell’efficacia
della presenza-assenza della persona di Gesù.
Così anche nell’impossibilità di accedere a Gesù, la fede crede nella
certezza del suo intervento di bontà e di misericordia. Il centurione
mostra di non avere paura di nessuno, non teme le reazioni dei Giudei,
non ha quel “rispetto umano” che sovente frena la testimonianza. In
verità la sua dichiarazione pubblica di fede in Gesù è semplice e sicura.
Se vogliamo leggere nel profondo il dinamismo che ha guidato il
centurione, scorgiamo che la “spinta” a rivolgersi a Gesù è l’amore per il
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suo servo-figlio che sta per morire. E vediamo come l’amore è la via
della fede e come la fede è ispirata dall’amore. Possiamo dire che la fede
porta all’amore e non c’è fede senza amore e non c’è amore senza un
atto di fede.
La fede del centurione passa attraverso la carità e la scoperta della
sua impotenza e insufficienza di fronte alla morte imminente. E ancora
vediamo come la fede da sola rischia di essere “vuota” se non è ancorata
alla solidità della parola che è Cristo. Così il “bisogno” dell’uomo trova
esaudimento nella potenza di Dio.
Lc 7, 8 “Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei
soldati sotto di me e dico a uno: «Va!» ed egli va; e a un altro:
«Vieni”» ed egli viene; e al mio servo: «Fa questo!» ed egli lo
fa”.
Il centurione fa il pedagogo della parola. Se la sua parola – parola di
un “subalterno”! – ha il potere (di comando) ed è eseguito, tanto più
quella di Gesù! La parola detta dal superiore diventa parola eseguita
dall’inferiore. Se la parola è detta dal kurios, allora non può che essere
obbedita e opera ciò che dice (cfr. S. Fausti, p. 205).
Qui il gergo e lo stile militare diventano esemplificativi di una realtà
più profonda quella del rapporto con l’autorità di Dio. Chi crede, ascolta
la parola e la esegue in autentica obbedienza e nell’obbedienza guarisce,
è perdonato, è accolto nell’amore di chi parla per amore.
Lc 7, 9 “All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo
seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato
una fede così grande»
Di fronte alla parola riferita del centurione, Gesù “lo ammirò”. Questo
è il terzo verbo (il primo è “andò”, il secondo “si incamminò”) che rivela
Gesù nel suo agire e tanto disegna reazione di Gesù che ancor oggi par
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di vederla sul suo volto. E’ lì scolpita l’immagine ammirata di Gesù.
Gesù ammira il credente per il coraggio di credere, per la tenacia contro
ogni speranza umana, per la fiducia sconfinata posta in lui. E’ come se
Gesù vedesse il risultato della sua missione sotto i suoi occhi e se ne
rallegra in una “contemplazione” estatica.
E presenta il centurione come un modello di fede, perché ha “una fede
così grande”, straripante, coinvolgente. Gesù non ha mai visto una fede
di quella qualità e intensità perché il centurione ha creduto senza vedere
nella potenza della parola del Signore. In tal modo Gesù diventa il punto
di convergenza, come un magnete, del venire alla fede, del cammino di
fede, sia di Israele e sia dei pagani.
Su di lui converge ogni cosa e l’apostolo Paolo spiega così: “E’
piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di
lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con
il suo sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia
quelle che stanno in cielo” (Col 1, 19-20).
Si comprende allora come la parola di Gesù si faccia perentoria: “Io vi
dico”. Qui Gesù impegna tutta la sua divina autorità, perché conoscendo
ogni cosa dell’uomo e la condizione di fede dell’uomo, interviene con
potenza sicura e svela la verità del cuore.
Lc 7, 10 “E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo
guarito”.
La scoperta del miracolo avviene “a casa” da dove era iniziato il
racconto. Il segno della “casa” rivela la domesticità dell’evento di grazia,
ma altresì il vero “luogo” della fede. In realtà il centurione non si muove,
permane accanto al servo morente, non “vede” il Signore che si ferma
per strada.
17
Gesù riprende il suo cammino di annunciatore del vangelo e lascia che
in “famiglia” si faccia festa per il miracolo ricevuto. Il miracolo non
chiude la vita, ma la dilata oltre. Con il “miracolato”, segno dell’amore
misericordioso di Dio, si espande il bene per tutti.
Come si vede la fede non cambia le cose, ma le persone. Ora il cuore
è in festa e la tristezza della malattia è vinta dalla potenza invisibile di
Dio. Così il centurione diventa il “catechista” della fede e mostra come è
vera la parola di Gesù: “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9, 23).
18
Preghiera
Gesù, sei instancabile. Di giorno e di notte
volgi il passo, la parola e lo sguardo
verso di noi.
Gesù, sei sempre in cammino e non ti fermi mai.
Vai alla ricerca di ogni uomo e non ti riposi perché
“Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8, 20)
Da un pagano sei pregato di “venire” e di “salvare”
il suo servo. E’ un uomo, fuori da Israele,
che intuisce la salvezza perché già crede in te.
Anch’io sono tuo servo e credo in te.
Vieni a me e salvami,
tanto sono malato nello spirito da morire.
Anch’io mi scopro tutto compreso
nelle parole del Centurione:
“Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto” (Lc 7, 6).
Anzi “non sono degno neanche di venire da te” (Lc 7, 7).
Sotto il peso della mia indegnità,
sento che mi ritrovo inguaiato,
impagliato, immobilizzato.
Ecco: solo la potenza della tua parola
libera la mia anima dalla malattia spirituale.
Ho bisogno solo del tuo sguardo.
Ho bisogno solo di una tua parola.
La mia fede è debole, fragile come una foglia al vento.
Non indugiare, vieni e guariscimi.
Vieni e destami dal sonno della coscienza.
Vieni e manifesta la tua volontà di salvezza.
Fai grande la mia fede piccola.
Gesù sei stato scosso e ammirato dalla fede del Centurione,
tanto che la tua umanità s’è stupita di fronte a lui.
Prendimi nella tua umanità
e deponi in me la meraviglia del tuo amore.