Introduzione - Corriere della Sera · 2013. 4. 5. · un libro intitolato Prediche inutili, se le...

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9 Introduzione di Marzio Breda Il presidente della Repubblica è la sola persona cui il cerimoniale militare consente di non chinarsi davanti alla bandiera tricolore che, all’opposto, deve essere inchinata quando lui passa. È uno dei tanti piccoli esempi formali di simbolico omaggio (e sot- tomissione) studiati per dare riconoscimento all’au- torità del capo dello Stato, che incarna il ruolo di «garante e custode della Costituzione». Un ruolo al quale sono attribuite funzioni «altissime, vaghissime, imprecisate e imprecisabili» – come ha sottolinea- to il giurista Carlo Fusaro – che sono state a lun- go esercitate in una chiave minimalista, notarile, o, tutt’al più, all’insegna di un attivismo tanto blando e prudente da non turbare con troppe polemiche i partiti e il Paese. Non per nulla era consuetudine dire che quella carica aveva un significato poco più che decorativo, da «taglianastri». Poi, dal crollo del © RCS MediaGroup SpA Divisione Quotidiani Riproduzione riservata

Transcript of Introduzione - Corriere della Sera · 2013. 4. 5. · un libro intitolato Prediche inutili, se le...

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    Introduzionedi Marzio Breda

    Il presidente della Repubblica è la sola persona cui il cerimoniale militare consente di non chinarsi davanti alla bandiera tricolore che, all’opposto, deve essere inchinata quando lui passa. È uno dei tanti piccoli esempi formali di simbolico omaggio (e sot-tomissione) studiati per dare riconoscimento all’au-torità del capo dello Stato, che incarna il ruolo di «garante e custode della Costituzione». Un ruolo al quale sono attribuite funzioni «altissime, vaghissime, imprecisate e imprecisabili» – come ha sottolinea-to il giurista Carlo Fusaro – che sono state a lun-go esercitate in una chiave minimalista, notarile, o, tutt’al più, all’insegna di un attivismo tanto blando e prudente da non turbare con troppe polemiche i partiti e il Paese. Non per nulla era consuetudine dire che quella carica aveva un significato poco più che decorativo, da «taglianastri». Poi, dal crollo del ©

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    Muro di Berlino (novembre 1989) e dal terremo-to di Tangentopoli (febbraio 1992), l’equilibrio di potere instauratosi nel primo dopoguerra si è rotto, le vecchie famiglie ideologiche si sono annichili-te, nuovi partiti e movimenti si sono affermati e lo stesso sistema istituzionale ha cominciato a entrare in torsione, cambiando molte cose anche per chi sta di casa al Quirinale.

    Un processo cominciato in tempi ormai distan-ti, con risvolti comunque meno impegnativi e vi-stosi di quelli cui ci siamo abituati nelle stagioni di Cossiga, Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Con loro, in un continuo e crescente attivismo, l’influenza dei presidenti è progressivamente aumentata. Fi-no a imporli – quasi sempre, quasi tutti – come l’unico punto di riferimento condiviso, la Cassa-zione cui far sbrogliare i casi politici più comples-si, la cattedra morale in grado di proteggerci dai conflitti più acuti, il motore di riserva che può riattivare i meccanismi inceppati del processo de-mocratico, l’antidoto al collasso di una nazione in ogni senso depressa e sfiduciata. Si è insomma realizzata la situazione descritta con preveggenza mezzo secolo fa dal grande costituzionalista libe-rale Carlo Esposito, che avvertiva come nelle crisi di sistema il presidente avrebbe dovuto vestire i panni del «reggitore dello Stato».©

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    Tra pressioni, ammonimenti, veti, mediazioni, negoziati irrituali, condizionamenti, vere e pro-prie supplenze, i presidenti della Repubblica hanno colmato i deficit di governi e Parlamento. Con un interventismo incisivo che a volte li ha indotti a spingersi perfino oltre lo schema dei «vasi comu-nicanti», secondo cui la dialettica istituzionale non ammette vuoti e, quando questi si producono, qual-cuno deve riempirli. Un cambio di passo per il qua-le qualcuno parla di modello borderline, descrivendo chi «regna» dal Colle come una sorta di contro-potere che sconfina in un semipresidenzialismo di fatto. E con il risultato che la pretesa neutralità dei capi dello Stato si è rivelata in certe fasi recenti, se non impossibile, quantomeno vacillante, al punto da rendere fatale che, quando l’interesse nazionale lo ha richiesto, divenissero arbitri in gioco. Pronti a farsi sentire sui fronti più disparati, in una posizione di pungolo o di freno al potere della maggioran-za. Così, li abbiamo visti dire la loro sulle riforme istituzionali, la politica estera, l’economia, i conflitti sulla giustizia, la questione morale, il federalismo, le memorie divise…

    Una capacità di leadership e un protagonismo legittimati da un’opinione pubblica confusa, sem-pre più intollerante verso i partiti e sempre più orientata a investire sul presidente della Repub-©

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    blica un enorme carico di aspettative, ciò che è corrisposto alla prassi del dialogo diretto con i cittadini attraverso le esternazioni. E lo stesso va-le per il surplus di forza che al Quirinale viene riconosciuto nei fori internazionali, in particolare nell’ambito dell’Unione Europea. Trasformazione resa possibile anche da quell’«enigmatico coacervo di poteri non omogenei», come li definiva il costi-tuzionalista Paolo Barile, assegnatigli dalla nostra Magna Charta e che a volte possono provviden-zialmente dispiegarsi «a fisarmonica» senza pro-durre lesioni istituzionali.

    L’esito del voto del 24 e 25 febbraio 2013, che ha sancito l’esistenza di tre grandi minoranze in uno scenario di difficilissima governabilità, ha rimesso il presidente della Repubblica al centro della scena. Nell’impotenza generale ci si affida ancora a lui, a costo di qualche fraintendimento sulle reali risorse di cui dispone.

    Questo volume a più voci del Corriere della Se-ra racconta com’erano e come sono diventati gli undici inquilini del Quirinale in età repubblicana, spiegando i passaggi cruciali della loro metamorfosi. E aiuta a capire come potrà battersi, e con quali ar-mi, il dodicesimo, davanti ai problemi aperti dall’ir-risolta transizione italiana. Sfide che nessuno ormai sottostima: 1) mettere in sicurezza un sistema istitu-©

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    zionale sotto stress da troppo tempo; 2) civilizzare un confronto politico che, scivolando in un’isteria quotidiana, ha già largamente delegittimato i parti-ti; 3) farsi promotore delle riforme indispensabili a modernizzare il Paese; 4) assicurare una difesa dei valori fondanti della nazione, minacciati da qualun-quismo e antipolitica.

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    Evoluzione di un poteredi Sergio Romano

    Quando si discussero il ruolo e i poteri del pre-sidente della Repubblica, la maggioranza dei costi-tuenti sapeva bene ciò che non voleva. Non voleva un monarca repubblicano autorizzato a scavalcare la volontà del Parlamento, come aveva fatto Vitto-rio Emanuele III nell’ottobre del 1922. Non voleva un presidente governante, autorizzato a decidere le politiche del governo e a valersi del primo ministro come di un collaboratore. I presidenzialisti del Par-tito d’Azione (fra cui un noto e rispettato giurista, Piero Calamandrei) erano intellettualmente autore-voli, ma quantitativamente irrilevanti. Nei dibattiti della Commissione dei 75, a cui era stato affidato il compito di redigere il testo della Costituzione, prevalse quindi la tesi che il capo dello Stato doves-se rappresentare e impersonare «l’unità e la conti-nuità nazionale, la forza permanente dello Stato al ©

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    disopra delle fuggevoli maggioranze». Nelle parole di Meucci Ruini, presidente della Commissione, il presidente «è il grande consigliere, il magistrato di persuasione e d’influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica. Ma perché possa adempiere a queste essenziali funzioni deve avere consistenza e solidità di posizione nel sistema costituzionale».

    Non sarebbe stato un presidente governante, quindi, ma neppure un semplice notaio della Re-pubblica. Nella relazione all’Assemblea che accom-pagna il testo della Costituzione proposto dai 75, Ruini scrisse anche: «Il capo dello Stato non gover-na, la responsabilità dei suoi atti è assunta dal primo ministro e dai ministri che li controfirmano, ma le attribuzioni che gli sono specificamente conferite dalla Costituzione, e tutte le altre che rientrano nei suoi compiti generali, gli danno infinite occasio-ni di esercitare la missione di coordinamento e di equilibrio che gli è propria». Le «attribuzioni» più importanti erano la nomina del primo ministro e, «su proposta di questo», dei ministri; «lo scioglimen-to delle Camere»; la presidenza del Consiglio supe-riore della magistratura e del Consiglio supremo di difesa. Il profilo del presidente era apparentemente chiaro, ma i suoi poteri, come era stato implicita-mente riconosciuto dallo stesso Ruini, erano, forse ©

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    intenzionalmente, imprecisi. Non basta. Il presiden-te doveva impersonare l’unità nazionale, ma sareb-be stato eletto da un Parlamento dove sedevano i rappresentanti dei partiti politici. Sarebbe stato fa-cile eleggere un personaggio rappresentativo e de-corativo; molto più difficile scegliere una persona che avrebbe nominato il presidente del Consiglio e, all’occorrenza, sciolto le Camere. Il «magistrato di persuasione e d’influenza», quindi, sarebbe stato eletto da una maggioranza politica. Sino a che pun-to sarebbe riuscito a prenderne le distanze o evita-re accuse di partigianeria, se la situazione lo avesse costretto a tagliare nodi con decisioni destinate a favorire una parte contro l’altra? La storia della Re-pubblica, quindi, è anche la storia del modo in cui ogni presidente interpretò le proprie funzioni e riempì il vuoto lasciato dai costituenti.

    Luigi Einaudi sembrò a molti italiani la miglio-re delle scelte possibili. Era notoriamente monar-chico, ma aveva accettato lealmente il risultato del referendum costituzionale. Proveniva dal Senato del Regno, ma ne aveva fatto parte soprattutto per i suoi meriti accademici. Era stato ministro del Bilan-cio nel governo De Gasperi, ma aveva conservato la guida della Banca d’Italia ed era noto soprattutto per le sue competenze. Alcide De Gasperi deside-rava Carlo Sforza, ma scelse di appoggiare Einaudi ©

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    non appena capì che l’elezione del suo ministro de-gli Esteri si sarebbe scontrata con difficoltà insor-montabili. Quando prese possesso della sua carica, quindi, Einaudi era espressione dei nuovi equilibri politici che De Gasperi aveva instaurato nel Paese con la formazione di un governo che non era più, dopo l’uscita dei comunisti e dei socialisti, quello del Comitato di liberazione nazionale. Ma era an-che l’economista liberale che nell’Assemblea Co-stituente aveva proposto l’articolo 81 («ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve in-dicare i mezzi per farvi fronte») e che al ministero del Bilancio aveva difeso l’ortodossia dei conti pub-blici anche contro i petulanti consigli keynesiani dell’amministrazione americana. Non era disposto a tollerare che i suoi principi venissero dimenticati e i suoi consigli ignorati. Rinviò alle Camere alcuni provvedimenti che non avevano copertura e prese posizione pubblicamente, con un articolo sul Mon-do del 2 febbraio 1952, contro i 45 miliardi concessi agli statali senza pretendere contemporaneamente alcun miglioramento del servizio e senza tenere conto delle condizioni dei «braccianti pugliesi, sar-di, veneti». Pungolava il governo con consigli che erano al tempo stesso liberali e sociali, raccomanda-va l’abolizione del valore legale del titolo di studio, lanciava strali contro le baronie accademiche, difen-©

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    deva i concorsi pubblici contro i semplici «giudizi d’idoneità» (la porta larga da cui passeranno, nella storia della Repubblica, milioni di assunzioni clien-telari). Fu quindi un presidente «interventista». Ma non avrebbe pubblicato, dopo la fine del mandato, un libro intitolato Prediche inutili, se le sue racco-mandazioni fossero state ascoltate.

    I suoi interventi furono più efficaci quando il quadro politico italiano venne messo a soqquadro dalle elezioni del giugno 1953, dal fallimento della «legge truffa» (la legge elettorale voluta da Alcide De Gasperi) e dal graduale declino dell’uomo po-litico trentino. Quando la Camera negò la fiducia a un governo De Gasperi composto soltanto da de-mocristiani, Einaudi accettò l’indicazione del pre-sidente dimissionario e dette l’incarico ad Attilio Piccioni. Ma non appena questi fallì nel tentativo di comporre una nuova coalizione, Einaudi convocò un cattolico liberale, Giuseppe Pella, e gli dette l’in-carico. Il colloquio non ebbe luogo al Quirinale ma nella Villa Farnese di Caprarola, dove Einaudi passa-va una breve vacanza, e non fu preceduto da alcuna consultazione. Quando Vittorio Gorresio, giorna-lista della Stampa, gliene chiese il motivo, Einaudi rispose: «La Costituzione non parla di consultazioni e si affida al criterio del capo dello Stato, e il mio criterio mi dice che in questo momento quello che ©

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    è necessario è il governo». Nacque così il primo «governo del presidente» della storia repubblicana.

    Una delle ragioni per cui Einaudi poté invocare la necessità di un governo era la questione di Trieste, che scoppiò di lì a poco quando la Jugoslavia sem-brò prepararsi a un colpo di mano sulla città. Mal tollerato dalla Democrazia cristiana, il governo Pella dovette dimettersi il 3 gennaio 1954, ma la que-stione di Trieste rimase da allora saldamente nelle mani del presidente della Repubblica. Sulla legitti-mità degli interventi del capo dello Stato in politica estera, Einaudi non aveva dubbi. Intratteneva una frequente corrispondenza con alcuni ambasciato-ri, li riceveva durante i loro passaggi a Roma, era convinto che il presidente della Repubblica avesse ereditato le prerogative, in materia di relazioni in-ternazionali, a cui il re aveva solo temporaneamente rinunciato fra il 28 ottobre del 1922 e il 25 luglio del 1943. Non vi furono gravi screzi né divergen-ze con l’esecutivo perché le sue idee sull’Europa e sull’Alleanza atlantica erano sostanzialmente quelle degli uomini che governarono il Paese fra il 1948 e il 1955. Era europeista e poteva legittimamente vantarsi di avere nutrito con i suoi suggerimenti le riflessioni di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli men-tre lavoravano al Manifesto di Ventotene. Era atlantico perché credeva che la costruzione dell’unità euro-©

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    pea richiedesse una sicurezza che soltanto gli Stati Uniti, in quegli anni, potevano garantire.

    Il clima fra il Quirinale e il Viminale (dove era allora la presidenza del Consiglio) cambiò dal gior-no alla notte dopo l’elezione di Giovanni Gronchi alla presidenza della Repubblica. Gronchi non era «atlantico» al modo di De Gasperi e lasciò com-prendere sin dal suo discorso inaugurale che nel Patto d’alleanza dell’aprile del 1949 apprezzava sol-tanto l’articolo 2: una elencazione di buoni principi e di generosi auspici in cui si parlava soprattutto di pace, stabilità, benessere, cooperazione economica. Voleva migliorare i rapporti con l’Unione Sovieti-ca, sognava una Germania riunificata, era convinto che l’Italia avrebbe potuto recitare nei rapporti Est-Ovest la parte dell’onesto sensale. Quando decise di andare a Mosca per trattare direttamente con la dirigenza sovietica, dovette superare molti ostacoli: la riluttanza del governo, l’ostilità della Chiesa ro-mana, la diffidenza degli Stati Uniti. Ma il mag-giore nemico del suo progetto si rivelò Nikita Chrušč ëv. Il leader sovietico non era interessato alle idee di Gronchi e le seppellì con una memorabile tirata anti-capitalista nel corso di un ricevimento all’ambasciata d’Italia.

    Ma Gronchi aveva anche progetti mediterranei. Dopo il fallimento dell’impresa anglo-francese a ©

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    Suez nel 1956, ritenne che l’Italia, forte della sua presunta verginità colonialista, avesse le qualità ne-cessarie per diventare il partner privilegiato degli Stati Uniti e avviare insieme a Washington nuovi rapporti con i Paesi arabi. Nel marzo 1957 scrisse una lettera al generale Eisenhower, presidente de-gli Stati Uniti, e chiese al ministero degli Esteri di inoltrarla. Ma il segretario generale Alberto Rossi Longhi la trattenne e informò il ministro Gaetano Martino, che ebbe, insieme al presidente del Con-siglio (Antonio Segni), un brusco scambio di ve-dute con il presidente della Repubblica. Gronchi non era isolato. Le sue idee mediterranee erano in perfetta sintonia con i progetti petroliferi di Enrico Mattei e riflettevano le ambizioni di altri esponenti della Democrazia cristiana, fra cui Amintore Fan-fani. Ma al governo non piaceva che il presidente della Repubblica si attribuisse il diritto di fare dal Quirinale la politica estera del Paese.

    Lo scontro, tuttavia, toccò il suo punto più alto in politica interna quando Gronchi nominò alla pre-sidenza del Consiglio un uomo politico democri-stiano, Fernando Tambroni. Era una mossa «gollista» che avrebbe dovuto, nelle intenzioni del presidente, accorciare i tempi per la successiva creazione di un governo di centrosinistra. Ma Tambroni tradì le at-tese del capo dello Stato, accettò i voti della destra ©

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    missina e provocò un putiferio di cui la Democrazia cristiana si servì per sbarazzarsi di un compagno di partito divenuto ormai imprevedibile e ingombran-te. Se quello di Tambroni fu il secondo «governo del presidente», la rivolta democristiana contro la sua persona fu un voto di sfiducia indirizzato al capo dello Stato.

    Dopo Gronchi venne Antonio Segni, notabile sardo di buona cultura, persona affabile, autore di una riforma agraria che lo privò di alcune proprie-tà. Fu scelto per controllare il centrosinistra, nato formalmente con il governo Moro del dicembre 1963, ed evitare che l’arrivo al governo dei socialisti di Nenni rendesse la Dc meno affidabile agli occhi degli elettori moderati. Fu questa la ragione per cui venne additato al Paese come il regista di una sor-ta di colpo di Stato che sarebbe stato organizzato con i piani dell’Arma dei carabinieri. Ho sempre avuto l’impressione che questa tesi appartenga al-la storia del complottismo italiano piuttosto che a quella della Repubblica. Segni comunque non po-té difendersi. Fu colpito da una trombosi cerebrale nell’agosto 1964 e dovette dimettersi in dicembre.

    Il nuovo presidente fu eletto, quindi, con un for-te anticipo sulla naturale scadenza del mandato, nel dicembre del 1964. Era Giuseppe Saragat, socialista, esule in Austria e in Francia durante il fascismo, am-©

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    basciatore a Parigi per pochi mesi dopo la fine della guerra, protagonista della scissione di Palazzo Bar-berini quando i socialdemocratici si erano staccati dai socialisti di Pietro Nenni, alleati dei comunisti, per creare un nuovo partito. Fu eletto al Quirinale con i voti dei comunisti sulla base di un equivoco. Il Pci decise di appoggiarlo perché Giorgio Amen-dola sperava che la sua presenza al vertice dello Sta-to avrebbe favorito la nascita di un grande blocco delle sinistre. Ma Saragat pagò il debito concedendo qualche amnistia per reati commessi da partigiani durante la Resistenza e dedicò da allora gran par-te del suo tempo a un obiettivo che lo impegnava ormai da parecchi anni: la riunificazione socialista. Aveva diviso i socialisti agli inizi della guerra fredda ed era deciso a riunirli. Il partito riunificato nac-que nel 1966, ma durò soltanto un paio d’anni e l’obiettivo di Saragat fu sostanzialmente mancato. Il Paese scoprì comunque che la «missione» di un presidente della Repubblica poteva essere alquanto diversa da quella di «coordinamento ed equilibrio» che Meuccio Ruini aveva descritto nella sua rela-zione all’Assemblea Costituente.

    Giudicato con i criteri di Ruini, il «migliore» fra i presidenti fu probabilmente il successore di Saragat, Giovanni Leone. Era un brillante giurista napoletano, bonario, gioviale, gradevolmente pro-©

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    vinciale e devoto (forse troppo) alla sua ambiziosa famiglia. Come notabile democristiano si era di-mostrato particolarmente adatto per compiti utili e decorosi come la presidenza della Camera e la guida di due governi «balneari», vale a dire formati per tappare un buco nelle fasi in cui i partiti non riuscivano a mettersi d’accordo. Ebbe la sventura d’essere coinvolto in uno scandalo di provvigioni segrete per la vendita di aerei militari americani in Italia. La sua responsabilità non fu mai accertata, ma divenne, grazie alla sua natura compiacente, il capro espiatorio delle laboriose trattative fra la Democra-zia cristiana e il Partito comunista per il loro «com-promesso storico».

    Il successore di Leone, Sandro Pertini, dette un prodigioso colpo d’acceleratore alla crescente pre-senza del capo dello Stato nella politica. Aveva un obiettivo politico: interrompere la lunga egemonia democristiana spostando a sinistra l’asse del gover-no per accentuare il ruolo dei socialisti e, in pro-spettiva, dei comunisti. Durante la crisi del governo Andreotti, nel 1979, incaricò dapprima il presidente dimissionario, poi, quando questi fallì nel tentativo di rattoppare il vecchio governo, dette l’incarico, senza promuovere nuove consultazioni, a Ugo La Malfa. E quando il leader del Partito repubblicano abbandonò la partita, Pertini inventò una sorta di ©

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    triarchia presidenziale in cui il presidente del Con-siglio sarebbe stato il segretario della Dc (Zaccagni-ni), affiancato da due vicepresidenti nelle persone di Saragat e La Malfa. Vi fu una sollevazione della Dc, che mandò all’aria il progetto di Pertini, e l’incarico finì ancora una volta, dopo questa curiosa recita a soggetto, nelle mani di Andreotti. Il presidente prese una nuova iniziativa nella stessa direzione quando, dopo le elezioni del giugno 1979, chiamò al Qui-rinale Bettino Craxi e lo incaricò della formazione del governo. Ma il segretario del Partito socialista non riuscì a superare le resistenze della Dc e il go-verno venne formato in ultima istanza da Francesco Cossiga. Pertini non era più un regista neutrale. Era il vecchio combattente socialista, sceso in campo dall’alto del Quirinale per influire sull’esito della partita con il peso del suo ruolo. Ebbe maggiore fortuna quando riuscì finalmente a rompere la cate-na dei presidenti del Consiglio democristiani dando l’incarico a un repubblicano, Giovanni Spadolini. E coronò la sua strategia chiamando a Palazzo Chigi Bettino Craxi, il «primo presidente del Consiglio socialista della storia d’Italia»: una definizione che ignora le origini socialiste di Benito Mussolini e Ivanoe Bonomi.

    Nel frattempo Pertini aveva «risolto» il problema dei controllori di volo, abolito il giuramento di fe-©

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    deltà che i funzionari dello Stato dovevano prestare prima di prendere servizio, trascorso parecchie ore accanto al pozzo in cui era caduto il piccolo Alfre-dino Rampi, applaudito fragorosamente la vittoria della nazionale italiana a Madrid, preso impegni in nome dell’Italia con uomini di Stato stranieri, dia-logato con gli studenti dell’Università di Pechino e portato a Roma sul proprio aereo la salma di Enri-co Berlinguer. Non è facile tracciare un confine, in queste «esternazioni», tra le strategie politiche del presidente e la sua irresistibile vocazione tribunizia. Di certo ebbe l’effetto di ampliare l’area degli inter-venti presidenziali e di rendere ancora più impre-vedibile il ruolo del capo dello Stato nella politica nazionale.

    La prima parte della presidenza di Francesco Cossiga fu un ritorno all’ordine. Il nuovo presiden-te sembrava deciso ad accompagnare diligentemen-te, con funzioni pressoché notarili, il corso della politica nazionale. Ma il suo stile cambiò dopo il crollo del Muro di Berlino e la crisi del sistema co-munista. Cossiga capì che la fine della guerra fredda avrebbe rimosso le ultime riserve a un maggiore ruolo dei comunisti e credette che a questa svol-ta dovesse corrispondere il rifacimento del sistema istituzionale italiano. Era una posizione ragionevo-le, ma questo obiettivo fu perseguito con uno stile ©

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    chiassoso, goliardico e stravagante che fece la gioia dei mezzi d’informazione. I comunisti avrebbero dovuto dimostrare una certa gratitudine per le in-tenzioni del presidente, ma reagirono stizzosamente e si servirono dell’inchiesta su «Gladio» per trattarlo alla stregua di un incurabile golpista. Gladio era una delle formazioni militari segrete create in alcuni Paesi dell’Alleanza atlantica per condurre operazio-ni partigiane dietro il fronte nell’eventualità di una invasione degli eserciti del Patto di Varsavia. Cossi-ga era attratto dalle questioni militari, aveva parte-cipato alla nascita della branca italiana, ne andava orgoglioso e non resistette alla tentazione di riven-dicare i suoi meriti. I comunisti diventati pidiessini, dal canto loro, reagirono istintivamente come se la guerra fredda non fosse finita e chiesero l’incrimi-nazione del capo dello Stato. Cossiga, a sua volta, ne approfittò per alzare il volume dei suoi continui interventi nella vita pubblica. La sua iniziativa più interessante e promettente (un lungo messaggio alle Camere nel giugno 1991 sulla riforma della Costi-tuzione) fu sommersa in un mare di lazzi, invettive e polemiche.

    Oscar Luigi Scalfaro divenne presidente in uno dei peggiori momenti della storia nazionale. Gli scandali di Tangentopoli, lo sfaldamento dei vecchi partiti e l’offensiva terroristica della mafia lo au-©

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    torizzavano a usare tutta l’autorità morale di cui dispone il capo dello Stato. Nelle incertezze provo-cate dalla crisi dei vecchi partiti di governo fece un suo esecutivo, ne scelse il presidente (Carlo Azeglio Ciampi) e in buona parte i ministri, sciolse le Ca-mere dopo la riforma della legge elettorale. Era ciò che il Paese attendeva in quel momento dal capo dello Stato. Ma la lettera a Silvio Berlusconi con cui pretese di delimitare l’azione del suo governo in politica estera e in politica interna, dopo le elezioni del 1994, confermò che il Quirinale diffidava del nuovo arrivato e lo avrebbe tenuto d’occhio seve-ramente. Più tardi, quando il presidente del Consi-glio fu abbandonato dalla Lega e dovette dimettersi, Scalfaro rifiutò di rinviare il presidente alle Camere, come accade frequentemente in queste circostanze, e il governo di Lamberto Dini, costituito nei giorni seguenti, fu a tutti gli effetti, ancora una volta, il go-verno del presidente. Nessuno fu sorpreso quando Scalfaro, qualche anno dopo la fine del suo manda-to, accettò di guidare la campagna referendaria con-tro le riforme costituzionali approvate dalle Camere durante il governo Berlusconi. Era questo lo spirito con cui aveva «vigilato» negli anni del suo mandato.

    Carlo Azeglio Ciampi non era un uomo politico e il suo stile, al Quirinale, durante il governo Ber-lusconi, fu alquanto diverso da quello del predeces-©

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    sore. Ma nella sua campagna per l’unità nazionale e per la diffusione del tricolore vi era un evidente ammonimento al Paese contro gli umori separatisti della Lega. Cercò di correggere le leggi ad perso-nam, confezionate sulla base degli interessi del pre-sidente del Consiglio, vi riuscì soltanto in parte e le promulgò con visibile fastidio. Inviò un messaggio alle Camere sul pluralismo nell’informazione che produsse, come quasi tutti i messaggi presidenziali, effetti modesti, ma lasciò agli atti il suo dissenso per l’uso che il presidente del Consiglio faceva delle proprie televisioni e della Rai. Rivendicò contro il ministro leghista della Giustizia il diritto di conce-dere personalmente la grazia e ricorse alla Consulta per ottenerne conferma. Fu marcatamente europei-sta, anche per reagire a certe sortite euroscettiche del governo, e rinviò parecchie leggi alle Camere. Il caso in cui ebbe maggiore successo concerneva la politica estera. Quando il governo Berlusconi fu sul punto d’intervenire militarmente in Iraq, agli ini-zi del 2003, Ciampi convocò il Consiglio supremo di difesa e sostenne che l’art. 11 della Costituzione («L’Italia ripudia la guerra come strumento di of-fesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali») im-pediva la nostra partecipazione al conflitto. Fu una mossa europeista, fatta per evitare una posizione ita-©

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    liana totalmente diversa da quella dei Paesi schierati contro la guerra (Francia, Germania, Belgio) e una frattura nel cuore dell’Europa comunitaria. Ma il ricorso a un articolo della Costituzione scritto nel clima del dopoguerra poteva rappresentare un peri-coloso precedente per un Paese che non intendesse rinunciare a uno strumento dei rapporti internazio-nali. Berlusconi, comunque, fu probabilmente felice che il capo dello Stato lo togliesse d’imbarazzo. Il papa si era pronunciato contro la guerra e il Paese era tappezzato di bandiere arcobaleno.

    Lo stile è diverso, ma anche la presidenza Napo-litano ha avuto con il governo Berlusconi un rap-porto di reciproca diffidenza non troppo diverso da quello di altri presidenti con altri governi: Gronchi con Segni, Segni con Moro, Cossiga con Andreot-ti, Scalfaro con Berlusconi, Ciampi con Berlusconi. La formazione del governo Monti nel novembre del 2011 ricorda quella del governo Pella nel 1953, del governo Tambroni nel 1960, del governo Ciam-pi nel 1993 e del governo Dini nel 1995, per non parlare dei numerosi tentativi più o meno falliti di Sandro Pertini. Esiste dunque, al di là delle differen-ze caratteriali fra le singole personalità, un rapporto dialettico fra il Quirinale e Palazzo Chigi che la Costituzione non esclude e che contribuisce in ul-tima analisi alla difesa della democrazia? Potremmo ©

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    accontentarci di questa tesi se il presidente interve-nisse soltanto quando il sistema è inceppato e faces-se un passo indietro, dopo la conclusione della crisi, per lasciare al governo una sfera d’azione compara-bile a quella degli esecutivi delle maggiori demo-crazie europee. Ma la situazione è alquanto diver-sa. Anche nei momenti in cui il governo è stabile, il presidente interviene per giudicare, ammonire, esortare, pungolare, manifestare sentimenti e con-vinzioni. Come appare evidente dal libro di Marzio Breda La guerra del Quirinale (Garzanti) e dalle sue pagine in questo libro, la storia della Repubblica è anche una storia di «esternazioni». Cominciaro-no con Luigi Einaudi, proseguirono con Gronchi e Saragat, divennero innumerevoli e tribunizie con Pertini, clamorose e scandalose con Cossiga, arcigne con Scalfaro, pedagogiche con Ciampi, politiche, sociali e istituzionali con Napolitano. Il presidente non è soltanto il simbolo dell’unità nazionale e il ricorso d’ultima istanza per i nodi che governo e partiti non riescono a sciogliere. È continuamente in scena nel dibattito nazionale, è chiamato in causa, è invitato a parlare e ad agire. Non è sorprendente che Giorgio Napolitano, dopo le elezioni del feb-braio 2013, sia subito apparso a molti come l’unico possibile arbitro della crisi.

    Esiste quindi in Italia una istituzione che cresce © R

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    nella stima generale quando le altre perdono credi-to e rispettabilità, che deve la sua fortuna alla sfor-tuna dell’esecutivo. Sollecitata dalla sua popolarità, la presidenza risponde all’appello del Paese molti-plicando i suoi interventi e crea così l’illusione che il Quirinale possa risolvere i problemi della nazio-ne. Non è necessario disconoscere i meriti di mol-ti presidenti per constatare che una tale situazione rischia di pregiudicare la governabilità del Paese e il buon funzionamento delle sue istituzioni. Che cosa accadrebbe se il capo dello Stato cercasse d’imporsi contro la volontà del governo o del Parlamento? Che cosa accadrebbe se il governo rivendicasse il diritto di decidere e il conflitto paralizzasse il Paese? In Europa non mancano modelli a cui ispirare una riforma: la Germania e la Spagna, se vogliamo raf-forzare il ruolo del premier; la Francia, se vogliamo rafforzare quello del capo dello Stato. Dopo quello che è accaduto negli scorsi mesi vorremmo che di questo si occupasse, anzitutto, la legislatura appena cominciata.

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  • IL GRANDE GIOCO DEL QUIRINALEA cura di Marzio BredaDi Michele Ainis, Marzio Breda, Antonio Carioti, Giuseppe Galasso, Ernesto Galli della Loggia, Angelo Panebianco, Antonio Puri Purini, Sergio Romano In edicola e in e-book nei migliori store digitali DAL 5 APRILE© RCS MediaGroup SpA Divisione QuotidianiRiproduzione riservata