Introduzione all'articolo di George L. Engel sul modello biopsicosociale pubblicato su Science nel...

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Introduzione alla traduzione italiana dell'articolo di George L. Engel, The Need for a New Medical Model: A Challenge for Biomedicine. Science (1977), 196(4286):129-136. La necessità di un nuovo modello di medicina: una sfida per la biomedicina. A quasi trent'anni dall'articolo di Engel: considerazioni sull'integrazione biopsicosociale in medicina. Di Cesare Albasi, Carlo Alfredo Clerici.
Testo pubblicato in "Nucleo monografico sul saggio di George L. Engel: la necessità di un nuovo
modello di medicina: una sfida per la biomedicina" pubblicato in AeR-Abilitazione e Riabilitazione, Anno XV - N. 1 - 2006 a cura di Cesare Albasi e Carlo Alfredo Clerici

, p 41-46

George L. Engel, George Engel, Cesare Albasi, Carlo Alfredo Clerici, Modello biopsicosociale
Integrazione, biopsicosociale, 
Bio-psico-sociale, 
Modello integrato
, Psicologia clinica
, www.carloclerici.com

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"Nucleo monografico sul saggio di George L. Engel: la necessità di un nuovo

modello di medicina: una sfida per la biomedicina" pubblicato in AeR-Abilitazione

e Riabilitazione, Anno XV - N. 1 - 2006 a cure di Cesare Albasi e Carlo Alfredo

Clerici

Note introduttive, p. 9-12 di Clerici e Albasi

Articolo di G. Engel, p 13-32

Commento di Clerici e Albasi, p 41-46

A QUASI TRENT'ANNI DALL’ARTICOLO DI ENGEL:

CONSIDERAZIONI SULL'INTEGRAZIONE BIOPSICOSOCIALE IN

MEDICINA

CARLO ALFREDO CLERICI°^

CESARE ALBASI*^

Nell’evoluzione della medicina sono ricordate storicamente alcune tappe

fondamentali. Una di queste è stata l’avvio, da parte di Rudolf Virchow, dello

studio della patologia cellulare, che individuava nella cellula l’origine morfologica e

funzionale delle malattie. Da qui la medicina ha avuto realmente un’evoluzione in

senso scientifico che ne ha fondato l’identità essenziale in una matrice biologica e

clinica.

Diversamente, la psicologia scientifica, per la sua fondazione come disciplina

sperimentale, ha rischiato a lungo di rinchiudersi in laboratori che si pensavano

adatti allo studio delle prestazioni cognitive pure o, nella sua versione

comportamentistica, adatti allo studio delle risposte che animali, assai lontani

dall’uomo sul piano della complessità dei processi psichici, emettevano in

situazioni artefatte. Questi studi hanno rivelato, con il tempo, di non offrire spesso

risultati con un significato ecologico (cioè i risultati non servivano per

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comprendere l’essere umano nei suoi contesti abituali di vita), né, tanto meno,

essere utili nella pratica clinica.

La psicologia clinica, forse disciplina a sé stante, e con una storia che può ancora

essere scritta e riscritta da angolature differenti a seconda degli interessi culturali e

politici in campo, ha tuttavia attraversato fra Ottocento e Novecento una tappa

molto importante del suo sviluppo, con la nascita di un’attenzione crescente verso i

significati soggettivi che le manifestazioni psicopatologiche potevano avere.

In particolare, l’approccio di Freud all’isteria aveva avviato lo studio scientifico del

significato dei sintomi e della loro comprensibilità, grazie all’ipotesi di un apparato

psichico, con l’articolazione teorica, di complessità crescente, delle sue diverse

istanze. Le vicende del rapporto tra la psicoanalisi e la comune attività clinica

medica però, per anni, non ha permesso la diffusione di tentativi di applicazione

delle intuizioni psicoanalitiche nella pratica della medicina.

Ferenczi, riconosciuto dai suoi contemporanei come il più grande psicoanalista

clinico vivente, aveva trascorso gli ultimi sette anni della sua vita (dal 1924 al 1933)

sperimentando modalità tecniche di trattamento della sofferenza dei suoi pazienti

che prevedevano con essi un rapporto molto intimo e stretto. Come oggi

sappiamo, le sue sperimentazioni sono state tenute il più possibile nascoste per le

vicende che hanno caratterizzato la storia del movimento psicoanalitico (Borgogno,

2004; Albasi, 2005).

E’ stato con la pubblicazione nel 1955 da parte di Balint (allievo di Ferenczi) del

volume “Medico, paziente e malattia” che il ruolo degli aspetti psicologici del

paziente, e del medico stesso, ha avuto accesso ad un uditorio più ampio e non

strettamente specialista della salute mentale.

Nello stesso periodo si stava verificando un’evoluzione della psicoanalisi, grazie alle

teorie interpersonali (anch’esse a lungo emarginate dalla psicoanalisi ufficiale

freudiana, mentre oggi centrali nell’orientamenti clinici relazionali) che

sottolineavano come il soggetto possa essere compreso soltanto in un contesto di

relazioni interpersonali (Sullivan 1953).

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A partire dagli anni Sessanta, la teoria generale dei sistemi (GST) di Von

Bertalanffy era sempre più utilizzata soprattutto dagli approcci di terapia della

famiglia e, negli stessi anni, quel genio del secolo scorso che è stato Gregory

Bateson (1972) offriva le sue attenzioni al campo della malattia mentale,

sviluppando alcuni concetti, come quello di contesto e di doppio vincolo, per

comprendere i paradossi della comunicazione umana.

Ciò non era frutto però soltanto di isolate intuizioni e, nello stesso tempo, si

poneva alla medicina l’esigenza di considerare maggiormente la soggettività dei

pazienti, sotto la crescente pressione sia della società sia, potremmo dire, del

mercato. Infatti, con gli anni Sessanta aumentò la considerazione generale per gli

aspetti sociali fino all'introduzione negli anni Settanta, almeno in Italia, del Servizio

Sanitario Nazionale per garantire cure mediche a tutta la popolazione. Si sviluppò

così una crescente domanda di cure qualitativamente adeguate e nella popolazione

di strumenti culturali di giudizio, critica e contrattazione.

In questo contesto il concetto di multidimensionalità della malattia, articolata su

piani biologici, psicologici e sociali, divenne nozione comune. La paternità di

questo concetto è generalmente attribuita all’articolo dello psichiatra George L.

Engel, pubblicato su Science nel 1977, che stiamo leggendo in questo numero

monografico della rivista. Le idee di Engel, docente per circa cinquant’anni

all’Università di Rochester, devono, però, essere considerate all’interno di certe

linee evolutive del pensiero medico sviluppate nel XX secolo. Le dimensioni bio-

psico-sociali citate da Engel riprendono, ad esempio, quasi letteralmente la

definizione di “salute” formulata nel 1948 dall'Organizzazione Mondiale della

Sanità, come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la

semplice assenza dello stato di malattia o infermità". Visto che il concetto delle

dimensioni bio-psico-sociali della salute era già stato formulato quasi trent’anni

prima dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, occorre ricontestualizzare

l’originalità di Engel, benché questi sia quasi invariabilmente conosciuto soltanto

come il padre della medicina bio-psico-sociale.

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Il lavoro di Engel del 1977 è stato largamente citato nelle pubblicazioni italiane e

internazionali, e la straordinaria fortuna del termine per cui questo autore è noto è

verificabile cercando in Internet con un comune motore di ricerca1.

"Bio-psico-sociale" sembra diventato uno slogan molto popolare; il concetto ha

avuto tale fortuna, e tale solidità, da mantenersi suggestivo se si aggiunge un

elemento (ottenendo ad esempio bio-psico-socio-spirituale) o addirittura se si

sostituisce, con belle indifference, uno degli elementi, ottenendo il concetto di bio-

psico-spirituale, utilizzato ad esempio come slogan in un centro ospedaliero

universitario molto noto.

L’articolo di Engel aveva caratteristiche straordinarie ed alcuni limiti. Uno di questi

era l'impiego di un linguaggio complesso e di una forma, a prima vista, poco

accattivante.

L’articolo, poi, non contiene alcun riferimento ad autori europei famosi e

considerati padri dell’integrazione delle discipline psicologiche in medicina: per

esempio, non sono citati né Schneider né Balint, tanto per richiamare i più illustri

assenti.

Ci si può domandare quanto questi limiti siano importanti dal momento che,

trascorsi quasi trent’anni dall’articolo, la situazione e i problemi riscontrabili nel

panorama attuale non sono di molto cambiati!

Certamente si è sviluppata nel frattempo in Italia la psicologia nel contesto

accademico, come percorso di formazione universitaria e come disciplina

professionale. E la psicologia clinica è stata contemplata all’interno del più ampio

novero delle “psicologie”, con la varietà di metodi, strumenti e obiettivi scientifici e

applicativi che costituiscono questo variegato universo pre-paradigmatico (nel

senso di Kuhn, 1970).

Molta strada, però, deve essere ancora percorsa per la costruzione di un immagine

sociale del ruolo della psicologia clinica, per una condivisione di fondamenti teorici

e metodologici della sua specificità (rispetto, per esempio, alla psichiatria), nel

1 Ad esempio con Google nel giugno 2005 si reperivano oltre 29.000 voci utilizzando la parola

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trattamento degli aspetti che le competono nella cura delle malattie organiche, e per

lo sviluppo del suo sfaccettato universo (che, forse, più che pre-paradigmatico è, e

resta, pluri-paradigmatico) in forme di dialogo, sia interno sia verso le altri ambiti

disciplinari, privo di ambiguità e di incertezze che la facciano ancora spesso,

purtroppo, connotare come “acerba”, “poco efficace” o “poco supportata da

evidenze empiriche”.

Una riflessione sull’integrazione operativa delle discipline biologiche, psicologiche

e sociali, e sulle pratiche d’invio da una competenza all’altra, è indispensabile ancor di

più oggi, dato che il paradigma bio-psico-sociale non può essere soddisfatto

semplicemente ponendo sotto uno stesso tetto medici, psicologi ed assistenti

sociali. Ciò si può realizzare soltanto integrando realmente nel processo di cura, nel

rispetto della sua articolazione in punti di vista differenti, specifici contributi nella

comprensione e nel trattamento della psicopatologia.

In particolare, si può osservare il rischio che la psicologia diventi un oggetto

decorativo, idealizzato (quando va bene) ma inutilizzato e inutilizzabile per la cura

dei pazienti nei contesti clinici reali.

Un passaggio del lavoro di Engel coglie un aspetto fondamentale, ancora irrisolto,

che può essere considerato un punto di partenza per ulteriori studi:

“L’unità psicobiologica dell’uomo richiede che il medico accetti la responsabilità di

valutare qualsiasi problema il paziente presenti e raccomandare una serie di

provvedimenti, incluso l’invio ad altri professionisti dell’aiuto. Ecco perché la

conoscenza professionale di base del medico e le sue competenze devono

comprendere gli aspetti sociali, psicologici e biologici per poter decidere e agire

nell’interesse del paziente che è coinvolto in tutte e tre le dimensioni”.

Il passaggio, ancor oggi problematico, è l'invio ad un intervento sulla salute mentale,

una volta appurato che al paziente occorra una competenza non della medicina ma

delle discipline che si occupano di pensieri, emozioni e comportamento.

chiave bio-psycho-social.

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Questa integrazione e, diremmo, fiducia reciproca fra medicina e psicologia è

ancora ben lungi dall'essere ampiamente realizzata, come dimostra la non ancora

sopita questione sulla possibilità dei medici di praticare la psicologia clinica,

vigorosamente dibattuta con il caro Lorenzo Bignamini, o sulla infondata e non

fondabile, né scientificamente né clinicamente, superiorità dei medici nel praticare

la psicoterapia (che è per definizione, una terapia attraverso strumenti psichici).

La dimensione clinica, in concerto con quella etica, impone di riaffermare il

principio per cui l'oggetto della cura deve essere sempre il soggetto che soffre e che

è malato; il contributo della psicologia clinica è fondato, quindi al centro della

clinica tout court, nella ricerca di comprensione (diagnosi) e di trattamento a partire

da una considerazione centrale assegnata al al significato soggettivo del paziente.

Non meno marginale è il problema dell'integrazione del terzo elemento identificato

da Engel, quello sociale, nelle cure mediche. Nella realtà, solo pochi reparti

all’avanguardia hanno nel proprio organico, assistenti sociali, fisicamente presenti

nel reparto di cura, immediatamente accessibili dagli utenti, anziché collocati nei

meandri degli uffici degli ospedali.

Da alcuni anni l'esperienza di collaborazione fra medici, specialisti della salute

mentale e assistenti sociali si è perfezionata e sono state avviate riflessioni sul

riconoscimento dei bisogni e della sofferenza dei pazienti e sull'invio ad un

intervento.

Tutto ciò porta alla necessità di una nuova concezione della sofferenza psichica in

medicina.

Nella concezione medico-psichiatrica del disagio psichico, spesso la psicopatologia

viene ridotta a ciò che è sintomatico. Stando all’interno di questa prospettiva, si

rischia che il disagio non sia rilevato in mancanza di sintomi. Una solida tradizione

psicopatologica, non nosografia ma che risale alla nascita, nell’Ottocento, di un

orientamento psicodinamico alla comprensione della patologia psichica, ci insegna,

invece, ad osservare l’esistenza della sofferenza mentale non manifesta, sia essa

inconscia, inespressa o inesprimibile. Oggi, un rischio è che non ci si ponga più

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all’ascolto del paziente e non si cerchi di capire cosa sia la psicopatologia, cosa

voglia dire per il paziente dover vivere con una sofferenza insopportabile che gli

deriva dall’impossibilità di costruire dei significati intersoggettivi per gli eventi

cruciali della sua esistenza. Se l’intervento psicologico non è condotto sulla base di

nuovi criteri operativi, attenti ugualmente sia alla dimensione diagnostica

categoriale (sostenuta dalla nosografia contemporanea, rappresentata dai manuali

dell’American Psychiatric Association, i DSM, fra tutti), sia alla soggettività e alle

relazioni del paziente, si corre il rischio di perdere l’occasione di fare un lavoro

clinico, a partire dalla prevenzione, su condizioni psicopatologiche, anche gravi. E’

noto infatti come alcune situazioni abbiano un periodo prodromico asintomatico,

magari caratterizzato da forme (autoplastiche) di adattamento agli eventi che, se

valutate con criteri estrinseci a quelli psicologico-clinici, potrebbero risultare

apparentemente ottime.

Sulla mancata integrazione della psicologia nei contesti ospedalieri sono stati

pubblicati innumerevoli contributi, per esempio nei contesti congressuali (il tema

della specificità del ruolo è molto frequentato). Senza entrare nel merito di diatribe

corporative, occorrerebbe un nuovo impulso e rinnovato vigore nello studio dei

fattori che intrinsecamente rendono problematica l’integrazione nella cura della

persona di strumenti psicologici e cure mediche.

La rilettura del lavoro di Engel speriamo possa essere una buona occasione per

stimolare il dibattito e la ricerca.

BIBLIOGRAFIA

Albasi C. (2006) Attaccamenti traumatici. I modelli Operativi Interni Dissociati, Utet,

Torino.

Bateson, G., 1972, Stetps to an Ecology of Mind, Chandler Publishing Company, trad.

it. Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976.

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Bignamini L, Clerici CA., I medici, la psicologia clinica e la psicoterapia: alcuni problemi

scottanti. In dossier “Psicoclinica”, allegato a “La Rivista del Medico Pratico”,

maggio 2001. Pag. 35 - 37.

Borgogno F. (2004), Ferenczi oggi, Bollati Boringhieri, Torino

Kuhn, T.S. (1970), The structure of scientific revolutions. Chicago: University of Chicago

press. Tr. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Torino, Einaudi, 1978.

Virchow R. La patologia cellulare fondata sulla dottrina fisiologica e patologica dei

tessuti. Milano, Francesco Vallardi, 1865.