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Materiali di didattica lingue moderne: Introduzione alla linguistica generale. Pagine scelte dai Materiali integrativi al corso di “Didattica delle lingue moderne” di Manuel Barbera. La scelta operata dalla Prof.ssa Marello contiene anche il modulo “Tipologia linguistica” di Puglielli e Frascarelli (modulo preparato nel 2004 per il corso di formazione del MIUR Italiano come L2:lingua di contatto e lingua di culture”). 1. Il linguaggio. 1.3 Ancora sul segno linguistico: da Saussure a Hjelmslev, Jakobson e oltre. 1.3.0 Introduzione. Abbiamo già avuto modo di constatare come da Saussure sia nata una feconda tradizione di linguistica "strutturale", tutt'ora vitale ed alternativa alla linea chomskyana. In questa linea semiotico- strutturale, che è prevalentemente continentale fatto salvo il tardivo innesto di Peirce, anche altri pensatori hanno apportato significativi contributi, ed è ormai tempo di vederne almeno i principali (almeno Hjelmslev, Jakobson e Trubeckoj, oltre naturalmente a Peirce); di altri invece ci contenteremo dei cenni che ne abbiamo già fatto (Martinet). In molti casi, infatti, da queste ricerche sono emerse teorie che hanno arricchito significativamente la concezione del segno linguistico e del linguaggio umano, ed alcune delle nozioni che sono state individuate vanno pertanto integrate alla "lista" delle caratteristiche costitutive del linguaggio che abbiamo finora idealmente compilato in base a Saussure e Chomsky. 1

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Materiali di didattica lingue moderne: Introduzione alla linguistica generale.Pagine scelte dai

Materiali integrativi al corso di “Didattica delle lingue moderne”

di Manuel Barbera.

La scelta operata dalla Prof.ssa  Marello contiene anche il modulo “Tipologia linguistica” di Puglielli e Frascarelli (modulo preparato nel 2004 per il corso di formazione del MIUR Italiano come L2:lingua di contatto e lingua di culture”).

1. Il linguaggio.

1.3 Ancora sul segno linguistico: da Saussure a Hjelmslev, Jakobson e oltre.

1.3.0 Introduzione.Abbiamo già avuto modo di constatare come da Saussure sia nata una feconda tradizione di linguistica "strutturale", tutt'ora vitale ed alternativa alla linea chomskyana. In questa linea semiotico-strutturale, che è prevalentemente continentale fatto salvo il tardivo innesto di Peirce, anche altri pensatori hanno apportato significativi contributi, ed è ormai tempo di vederne almeno i principali (almeno Hjelmslev, Jakobson e Trubeckoj, oltre naturalmente a Peirce); di altri invece ci contenteremo dei cenni che ne abbiamo già fatto (Martinet). In molti casi, infatti, da queste ricerche sono emerse teorie che hanno arricchito significativamente la concezione del segno linguistico e del linguaggio umano, ed alcune delle nozioni che sono state individuate vanno pertanto integrate alla "lista" delle caratteristiche costitutive del linguaggio che abbiamo finora idealmente compilato in base a Saussure e Chomsky.

1.3.1 Il segno per Hjelmslev: semiotica e glossematica.L'interpretazione più rigorosa e formalizzata della lezione di Saussure nel Novecento è stata probabilmente quella del danese Louis Hjelmslev (1899-1965), e della "scuola di Copenhagen" da lui ispirata. Come Saussure, anche Hjelmslev è nato come linguista storico idoeuropeo, ma l'aspetto della sua attività che qui ci interessa è quello della sua teoria del linguaggio (che chiamò "glossematica") che giunse ad una compiuta formulazione nel suo Omkring Sprogteoriens Grundlæggelse (1943, trad. it. I fondamenti della teoria del linguaggio, Introduzione e traduzione di Giulio C. Lepschy, Torino, Einaudi, 1968, già citata).

In particolare, è importante l'approfondimento in senso semiotico della struttura del segno linguistico. Lo schema seguente riassume la concezione di Hjelmslev del segno (Hjelmslev, in realtà, non disegna alcuno schizzo della sua teoria: il tipo di raffigurazione che ho adottato è studiato per evidenziare la omologia di struttura con Saussure):

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 [tav. 1] Il segno linguistico per Hjelmslev. Basato su Louis Hjelmslev, Omkring Sprogteoriens Grundlæggelse (1943), trad. it. I fondamenti della teoria del linguaggio, Introduzione e traduzione di Giulio C, Lepschy, Torino, Einaudi, 1968, pp. 52-65.

A livello puramente terminologico, noteremo innanzitutto che Helmslev usa «espressione e contenuto come designazione dei funtivi che contraggono la funzione [...] segnica» (Fondamenti, cit., p. 52), ossia di "significante" e "significato". La reale innovazione, però, è quella di avere riconosciuto che piano dell'espressione e piano del contenuto sottintendono a loro volta una scansione interna in piani distinti: i termini chiave sono, questa volta, materia, forma e sostanza, tre termini di pesante tradizione filosofica, e bisognerà pertanto stare molto attenti al modo con cui Hjelmslev li concepisce.

Iniziamo a prendere in considerazione il contenuto, il signifié 'significato / concetto' di Saussure. Come già Saussure (cfr. § 1.1.3), Hjelmslev inizia considerando la fenomenologia interlinguistica che rende evidente l'arbitrarietà del significato, solo proponendone una analisi più approfondita: «Ogni lingua - ibidem, pp. 56-57 - traccia le sue particolari suddivisioni all'interno della "massa del pensiero" amorfa, e dà rilievo in essa a fattori diversi in disposizioni diverse, pone i centri di gravità in luoghi diversi e dà loro enfasi diverse. È come una stessa manciata di sabbia che può prendere forme diverse, o come la nuvola di Amleto che cambia aspetto da un momento all'altro. Come la stessa sabbia si può mettere in stampi diversi, come la stessa nuvola può assumere forme sempre nuove, così la materia può essere formata o strutturata diversamente in lingue diverse. A determinare la sua forma sono soltanto le funzioni della lingua, la funzione segnica e le altre da essa

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deducibili. La materia rimane, ogni volta, sostanza per una nuova forma, e non ha altra esistenza possibile al di là del suo essere sostanza per questa o quella forma. Riconosciamo così - Hjelmslev conclude - nel contenuto linguistico, nel suo processo, una forma specifica, la forma del contenuto che è indipendente dalla materia ed ha con essa un rapporto arbitrario, e la forma rendendola sostanza del contenuto».

«Precisamente la stessa cosa - prosegue Hjelmslev, ibidem, p. 59 - si può osservare per l'altra entità che è un funtivo della funzione segnica, l'espressione». Anche il procedimento dimostrativo si sviluppa secondo le stesse linee. « Si possono - ibidem, pp. 59-60 - anche scoprire, confrontando lingue diverse, zone nella sfera fonetica suddivise in maniera diversa in lingue diverse. Possiamo per esempio pensare a una sfera fonetico fisiologica di movimento, che si può ovviamente rappresentare come spazializzata in varie dimensioni, e che si può pensare come un continuo inanalizzato ma analizzabile [...]. In tale zona amorfa è posto un numero diverso di figure (fonemi) in lingue diverse, poiché le suddivisioni si trovano in punti diversi del continuo», fatto a supporto del quale si possono portare molti esempi, come lo spazio articolatorio ("il continuo", per usare l'espressione di Hjelmslev) delle vocali: «il numero delle vocali - ibidem, p. 60 - varia da lingua a lingua, e le suddivisioni sono diverse. L'eschimese distingue solo tra un'area i, un'area u ed un'area a», laddove invece, ad es., l'ialiano settentrionale distingue cinque aree, delimitando anche /e/ ed /o/, e l'italiano toscano ne distingue sette, differenziando ancora e ed o stretti da quelli aperti (nel senso di grado d'apertura dello spazio articolatorio orale), ecc. «Grazie in particolare alla straordinaria mobilità della lingua, le possibilità sono indefinitamente ampie, ma ciò che è caratteristico è che ogni idioma pone le proprie suddivisioni particolari entro questo indefinito numero di possibilità. Poiché la situazione è evidentemente analoga per l'espressione e per il contenuto, converrà poter sottolineare questo parallelismo ricorrendo per entrambi alla stessa terminologia: [...] gli esempi che abbiamo dato [...] sono dunque le zone fonetiche della materia, formate in maniera diversa in lingue diverse, a seconda delle funzioni specifiche delle singole lingue, e organizzate quindi come sostanza dell'espressione rispetto alla loro rispettiva forma dell'espressione».

Proviamo a vedere con un esempio pratico (quello, raffigurato nella nostra tavola, della parola italiana "mela") come funzionano le cose. Sul piano del contenuto, all'interno dell'area della massa amorfa del pensiero (materia) la griglia concettuale specifica della lingua italiana (forma, "langue") delimita una zona di frutti commestibili formando il concetto 'mela' (sostanza del contenuto). La funzione segnica assegna poi una espressione a questo contenuto. E anche sul piano dell'espressione le cose vanno nello stesso modo: all'interno indifferenziato di tutte le possibilità fonatorie (materia), la griglia del sistema fonologico della lingua italiana (forma, "langue") struttura quelle possibilità nella definita (fonologica, diremmo con un termine che spiegheremo in seguito) immagine acustica mela (sostanza dell'espressione). L'effettiva, eventuale, fonazione ['mela] è poi solo l'atto di "parole" corrispondente a questo processo semiotico, a proposito del quale, comunque, dobbiamo sempre ricordarci che le varie "fasi" che abbiamo descritto rappresentano momenti solo logicamente distinguibili: nella realtà nessuna componente della funzione segnica può esistere autonomamente fuori dalla funzione medesima.

Vorrei, per concludere, sottolineare come questa moltiplicazione dei piani del segno linguistico abbia avuto conseguenze fondamentali non solo nella linguistica generale (e nelle discipline che dalla linguistica strutturale hanno tratto ispirazione, come certa parte della teoria e della critica letteraria), ma anche nella semiotica, dato che quasi tutta la tradizione semiotica europea, al di là dell' "innesto" americano di Peirce (cfr. § 1.3.4), si è rifatta prevalentemente a Hjelmslev.

1.3.2 Il segno per Jakobson: comunicazione e funzioni della lingua.L'opera del grande linguista Roman Jakobson (Mosca 1896 - Boston 1982) si pone invece, almeno in una sua importante parte, all'interno della cosiddetta "scuola di Praga" (cui appartenne anche il fondatore della fonologia, principe Nikolaj Seergeevic Trubeckoj), la cui interpretazione dello

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strutturalismo sassuriano si potrebbe dire soprattutto "funzionalista" (laddove quella di Hjelmslev era piuttosto semiotica e matematizzante). Dal "funzionalismo" praghese discende anche il funzionalismo francese, la cui figura fondante André Martinet abbiamo già menzionato a proposito della teoria della "doppia articolazione del linguaggio". Cosa, poi, dobbiamo intendere per "funzionalismo" lo vedremo subito, approfondendo il pensiero di Jakobson.

L'attività di Jakobson, in realtà, è stata poliedrica (dal linguaggio infantile all'afasia, dalla teoria della comunicazione alla teoria della letteratura) e svolta in un numero sconcertante di lingue: noi qui ci acconteremo di trattare solo un aspetto, quello, appunto, della teoria funzionale del linguaggio.

La novità, se vogliamo, di Jakobson rispetto alla semiologia di Saussure, è quella di essersi fortemente ispirato al modello della teoria della comunicazione (cui avevamo sommariamente accennato anche noi all'inizio di questo nostro capitolo) in cui inserisce a pieno titolo anche la struttura del segno linguistico. Lo schema seguente impagina schematicamente seguendo la stessa struttura rappresentativa che abbiamo seguito per Saussure e Hjelmslev, in modo da permettere di cogliere più facilmente omologie e differenze (il modello impaginato dallo stesso Jakobson aveva in effetti una disposizione diversa, che potete trovare comunque fedelmente riprodotta nel manuale di Graffi e Scalise):

[tav. 2] Segno e funzioni linguistiche per Jakobson. Basato su Roman Jakobson, Closing Statements: Linguistics and Poetics, intervento ad un congresso sullo stile tenuto all'Indiana University nel 1958, poi raccolto negli atti Style and Language, a cura di Thomas A. Sebeok, New York - London, 1960, pp. 350-377 e quindi in Roman Jakobson, Essais de linguistique générale, Paris, Editions de Minuit, 1963, traduzione italiana Saggi di linguistica generale, a cura di Luigi Heilmann, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 181-218.

Una notevole intuizione di Jakobson è che il linguaggio non ha solo la funzione di descrivere oggetti, ma anche altre funzioni, che sono legate all'attenzione posta su uno piuttosto che su un altro degli elementi in gioco nella comunicazione, secondo una stretta corrispondenza che ho

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illustrato nello schema soprastante (funzioni in blu con esempi in verde). L'idea che il linguaggio abbia molteplici funzioni non è in sé nuova (già Humboldt, 1767-1835, distingueva tra una funzione espressiva ed una denotativa), ma coniugarla ad una impostazione che assume il modello della teoria della comunicazione (per il quale la funzione referenziale è praticamente la sola che interessa) come modello psicolinguistico era un'idea originale e feconda. Lo spunto gli è probabilmente venuto dalla volontà di spegare la specificità del discorso poetico: il saggio fondante della sua teoria era, infatti, proprio dedicato al problema del linguaggio poetico (poetica e stilistica sono sempre stati due nuclei tematici costanti e centrali nella ricchissima produzione di Jakobson). Non mi diffonderò, comunque, ad illustrare nei dettagli le sei funzioni, accontentandomi dell'esemplificazione impaginata nella tavola, e rimandandovi comunque alla chiara trattazione del manuale di Graffi e Scalise.

Almeno due aspetti "informazionali" della impostazione di Jakobson devono però essere ancora sottolineati. Il primo è il concetto di codice che Jakobson impiega per caratterizzare la funzione segnica, traendolo dalla teoria dell'informazione, ed esplicitamente da Colin Cherry (1914-...), uno dei grandi patres della scienza della comunicazione, che, secondo cita Jakobson (trad. it. cit., p. 68), nel suo On Human Communication, New York - London, 1957, p. 7 definiva il codice come «trasformazione convenuta, di norma elemento per elemento e reversibile, mediante la quale un insieme di unità di informazione è trasferito in un altro insieme». Un aspetto particolare del codice come lo intende Jakobson è che è strutturato solo in base a tratti binari (non comprenderebbe ossia opposizioni distintive multilaterali), secondo un principio che sarà ripreso dal generativismo, ma che non sarà condiviso da altre correnti dello strutturalismo linguistico,

Un altro importante aspetto (che, vedremo, ci riuscirà utile per comprendere il problema del linguaggio animale) introdotto dal modello di Jakobson è quello dell'esplicitazione del canale in cui si manifesta la "parole". In effetti, dire che il canale che caratterizza il liguaggio umano è quello fonico-acustico, e basta, rappresenta in qualche modo una semplificazione: «il messaggio nella sua formulazione deve poi subire successive trasformazioni mentre procede nel suo viaggio verso la destinazione. Le trasmissioni sono, per così dire, tramandate da una stazione trasmettente a un'altra e, prima di raggiungere l'area primaria di proiezione, devono essere riorganizzate - filtrate e variamente adattate - per rispondere ai requisiti del canale scelto» (cito da T. Sebeok, A sign is just a sign. La semiotica globale, Milano, Spirali, 1998, p. 68: lo sviluppo di queste considerazioni, in effetti, anche se scaturito dal modello di Jakobson, è stato soprattutto dovuto ai semiologi e specialisti comunicazione). Nello schema seguente (che non risale tuttavia a Jakobson, ma bensì al citato semiologo Sebeok) sono delineati i canali possibili più importanti:

[tav. 3] I vari tipi di canale. Riprodotto da Thomas A. Sebeok, A sign is just a sign, Bloomington, Indiana University Press, 1991; trad it. A sign is just a sign. La semiotica globale, Introduzione e traduzione a cura di Susan Petrilli, Milano, Spirali, 1998, p. 69.

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Non è solo che possiamo immaginare (e l'osservazione sarà importante quando affronteremo il problema del linguaggio animale) "linguaggi" che facciano ricorso a canali diversi da quello normale nel linguaggio umano. A ben guardare, infatti, perfino nel caso di una normale comunicazione orale il canale "acustico" proprio (onde sonore propagate nell'aria) deve poi ricodificarsi (ricordate la definizione di "codice" di Cherry?) nell'orecchio umano (che funge da trasduttore) in altro modo per giungere ai neuroni del cervello. O pensate piuttosto a casi ancora più complessi e mediati, come ad esempio il seguente: sto ascoltando Lauritz Melchior cantare "O diese Sonne" dal "Tristan und Isolde" nel 1936 al Covent Garden. Qui il canale acustico (onda sonora) del messaggio è stato ricodificato in impulso elettrico (dal trasduttore del microfono usato in teatro nel 1936), poi in meccanico (incisione degli acetati da parte della casa discografica), poi di nuovo in elettrico, prima analogico e poi digitale, (nel riversamento moderno della registrazione originaria) e quindi in ottico (bruciatura del CD), e poi ancora da ottico ad elettrico (lettura del CD ed amplificazione), quindi di nuovo in acustico (il magnete e la membrana dei diffusori acustici fungono da trasduttore inverso rispetto a quelli del micorofono); l'onda acustica perviene alle mie orecchie e, finalmente convertita chimicamente in impulsi elettrici raggiunge le zone appropriate del mio cervello dove ne avviene la "comprensione" e, se vogliamo, anche la sua traduzione 'oh, questo sole!'.

1.3.3 Trubeckoj: la fonologia e l'analisi del significante.Abbiamo già accennato al principe Nikolaj Seergeevic^ Trubeckoj (1890-1938), tanto come membro della cosiddetta "scuola di Praga" (cui appartenne anche Roman Jakobson), quanto come fondatore della fonologia, che, nella prima metà del Novecento, con la glossematica di Hjelmslev è stata la più importante corrente nata dallo strutturalismo di Saussure. Il testo chiave di questa disciplina, cui il principe lavorò per molti anni e che uscì postumo, sono i Grundzüge der Phonologie, in "Travaux du Circle linguistique de Prague" VII (1939), poi Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1958 (trad it. Fondamenti di fonologia. Edizione italiana a cura di Giulia Mazzuoli Porru, Torino, Einaudi, 1971). Andrebbe, peraltro, anche sottolineata l'importanza di Trubeckoj pure in sede di linguistica storica (per via della sua concezione della protolingua come Sprachbund 'lega linguistica') su cui torneremo nella prossima sezione. Quello che qui ci pertiene, però, è la posizione della fonologia nell'àmbito delle teorie sul segno linguistico. Per gli aspetti più tecnici ed istituzionali (descrizione delle categorie della fonetica articolatoria, metodo per analizzare i sistemi fonologici, ecc.) rimando invece al Graffi - Scalise. Nella parte sulle lingue, tuttavia, presenterò alcuni sistemi fonologici, in base ai quali si possono costruire alcuni percorsi di studio.

La fonologia, propriamente, si occupa non tanto dei segni linguistici nella loro totalità, quanto della sola faccia significante dei segni, ossia delle unità distintive che la langue disegna nella massa delle possibili articolazioni fonatorie. Della componente fonetica del linguaggio, dunque, la fonologia si occupa dei soli aspetti che fanno essenzialmente parte del segno linguistico, ossia delle fonazioni che hanno un valore distintivo, di quelle espressioni (significanti), in altre parole, che sono interfacciate con un contenuto (significato); in altri termini ancora, martinettiani questa volta (e pertanto successivi, si badi), si occupa delle unità della seconda articolazione. Della parte "non distintiva" delle fonazioni, degli oggetti sonori concreti analizzabili dalla fisica acustica, in breve della "parole", si occupa invece la fonetica, che può anche essere di diversi tipi a seconda dei suoi interessi specifici. La fonetica articolatoria, che analizza i suoni in base ai meccanismi fisiologici con cui vengono prodotti (cavità orale, lingua ...), è quella immediatamente più irrinunciabile per la linguistica, non fosse che perché fornisce la nomenclatura con cui riferirsi ai diversi tipi di suono. La distinzione tra una disciplina che «est une des parties essentielles de la science de la langue» ed un'altra che «n'est que une discipline auxiliarie et ne relève que de la parole» (Cours, Introduzione, cap. VII, § 1, pp. 55-56 fr. = 44-45 it.), va comunque detto, non solo era necessariamente implicata dal sistema saussuriano, ma era comunque già esplicitamente presente nel Cours, sia pure non ancora nei termini trubeckojani e moderni: i termini "fonetica" e "fonologia", ad esempio, erano usati invertiti rispetto all'uso moderno (la "fonetica" di Saussure è la "fonologia" di Trubeckoj!).

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Le unità significanti di seconda articolazione, oggetto dello studio della fonologia, sono dette fonemi, e sono contrapposte appunto ai foni (di cui si occupa invece la fonetica), che sono i concreti elementi fonetici della parole, ma non sono però in sé dotati di significato linguistico. I foni possono essere in variazione libera, non sistematica (ad es. se parlo in fretta articolerò in modo più affrettato, se "grido" varierò contingentemente le mie articolazioni, se sono raffreddato le mie fonazioni saranno diverse dal normale, ecc. ecc.), oppure osservare una qualche regola di ripartizione combinatoria determinata (ad esempio il fonema nasale dentale /n/ in italiano davanti a /k,g/ è articolato velare - cfr. ancora, davanti a /f/ è articolato labiodentale - cfr. anfora, davanti alla maggior parte degli altri fonemi è articolato dentale - cfr., appunto, dente), nel qual caso sono detti allofoni. Parte delle convenzioni terminologiche (ad es. "fono" come corrispondente fonetico di fonema) e simboliche (ad es. gli slash per rappresentare i /fonemi/ e le quadre per i [foni]) della fonologia moderna, bisogna infine avvertire, non sono comunque ancora usate da Trubeckoj (anche se i concetti che sottointendono vi sono tutti).

2. Le lingue.

2.0 Introduzione: lingue, classificazioni e genealogia.

2.0.0 Introduzione.Nella sezione precedente avevamo cercato di spiegarci cosa sia il linguaggio, delineandone le caratteristiche affatto generali ma soffermandoci soprattutto su quelle del linguaggio umano in particolare. Qui ci occuperemo invece delle lingue storiche, parlate dagli uomini in dati punti del tempo e dello spazio. Nei capitoli seguenti, più precisamente, introdotte alcune necessarie premesse sulla classificazione linguistica e sulla linguistica storica, presenteremo una panoramica dell'Eurasia linguistica, in base a due punti di vista: (a) corredare i problemi teorici della classificazione genealogica di esempi concreti che servano al contempo ad illuminare le aree culturali che studiamo; (b) fornire una serie di esempi di fenomeni linguistici che appaiano in modo esemplare in lingue o famiglie raggiunte dalla nostra rassegna, in modo da ampliare l'esemplificazione del manuale di Graffi - Scalise, basata prevalentemente sull'italiano e sull'inglese; (c) dato che tutta la manualistica (con, probabilmente, la sola meritoria eccezione di Lyle Campbell, Hystorical Linguistics. An Introduction, Edimburgh, Edimburgh University Press, 1998, un manuale molto ricco che caldamente consiglio a chi scoprisse di essere interessato alla linguistica storica) è prevalentemente focalizzata sull'indoeuropeo, e che l'interesse della maggior parte dei miei studenti è piuttosto spostato sull'Asia, trascureremo molto l'indoeuropeo per mettere in maggior in rilievo, invece, le altre famiglie linguistiche dell'Eurasia. Certo, è spiacevole limitarsi alla sola Eurasia, come se le Americhe, l'Oceania e l'Africa non serbassero anche loro scrigni preziosi di diversità linguistica, ma in un corso di 60 ore bisogna per forza fare rinunce dolorose ...

2.0.1 Lingue vs. linguaggio: la lingua come "specie".Avevamo ripetutamente insistito nella sezione precedente, tanto parlando della fondazione del linguaggio come istituto "sociale" (da Saussure a Wittgenstein) quanto della sua possibile origine (biologica evoluzionistica e biosemiotica), sulla radicale differenza tra le lingue storiche sviluppate, in diverse zone del tempo e dello spazio, dall'umanità ed il linguaggio come istituto (Saussure ecc.) o facoltà generale (Chomsky). La distinzione tra lingua (anzi, meglio, "lingue") e linguaggio è in effetti davvero fondamentale. Una analogia potrebbe essere in biologia la distinzione tra specie (unità di "popolazione" vivente: cfr. "lingue") e vita (condizione comune a tutte le "popolazioni": cfr. "linguaggio"). Alla stessa maniera che la specie è l'unità tassonomica base della scienza naturale, la "lingua" può essere considerata l'unità base della linguistica naturale.

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Anche il problema dell'origine del linguaggio deve essere rigorosamente distinto da quello delle lingue storiche umane. È infatti spesso capitato che si sostenesse la tesi della monogenesi delle lingue chiamandola erronemaente (e talvolta anche fraudolentemente) "monogenesi del linguaggio": tale tesi sostiene che tutte le lingue odierne sarebbero evolute da una unica lingua progenitrice, allo stesso modo che tutti gli uomini hanno una unica origine genetica, (e non che il linguaggio sia una struttura fondante della vita stessa, come abbiamo visto essere probabilmente vero). Già nell'Ottocento i linguisti più avveduti rifiutavano tali questioni (che chiamavano "glottogoniche"), in quanto scientificamente intrattabili. L'idea, però, non è mai davvero tramontata, e nella seconda metà del Novecento è rinata più forte di prima, col presunto appoggio della genetica (si tratta, in realtà, di una illusione dovuta, tra l'altro, all'equivoco tra lingue e linguaggio). Non è tra l'altro mancato l'appoggio (abbastanza inspiegabile) di linguisti illustri, come Morris Swadesh (1909-1967, noto specialista di lingue amerindie) e Joseph Greenberg (1916-2001, il fondatore della tipologia moderna), né la diffusa divulgazione ad opera di mistificatori dai pochi scrupoli come Merrit Ruhlen. In realtà, basandoci sugli unici "dati" che abbiamo - ossia le lingue esistenti od esistite che conosciamo - e sull'unica metodologia che ci garantisca risultati scientificamente controllabili - il "metodo storico-comparativo", su cui torneremo in seguito - arriviamo a dimostrare l'esistenza di circa 250 famiglie linguistiche (di cui 37 nella sola Eurasia), con un certo numero di lingue che rimangono isolate (non connesse con alcuna unità genealogica verificabile); per alcune di queste famiglie esistono ipotesi di connessioni genealogiche in altre unità più vaste, ed alcune di queste ipotesi è anche probabile che vengano di fatto dimostrate in futuro: ma resta il fatto che non si riesce empiricamente, a posteriori, ad arrivare neanche lontamente vicino alla origine unica, ed ogni supposta "dimostrazione" che ne è stata divulgata è viziata da un erroneo utilizzo del metodo comparativo e/o da un troppo disinvolto uso dei dati linguistici (sono nate non solo parole inesistenti ma anche lingue inesistenti ...). Resta il presunto argomento che la monogenesi sarebbe la tesi più "economica" per spiegare l'emergenza delle lingue umane: il che è naturalmente vero per il linguaggio, come per le specie biologiche, ma per le lingue è assolutamente falso. Per le specie (almeno per quelle eucariote, dotate di riproduzione sessuata, diploide) esiste infatti la barriera riproduttiva, ossia il fatto che la riproduzione non può avvenire tramite accoppiamento di due membri di specie diverse; i contorni possono essere più (si pensi al fenomeno dell'ibridazione) o meno sfumati (un asino ed un cavallo, ad esempio "possono" accoppiarsi, ma la loro prole, il mulo, è sterile), ma il fatto è ben assodato, ed anzi è stato alla base della definizione stessa di specie prima che lo studio dei procarioti (asessuati) imponesse che venisse affiancato da altre caratteristiche. Per le lingue, invece, a quanto sappiamo è vero proprio il contrario: lingue diverse si possono egregiamente fondere in nuove lingue (è il cosiddetto fenomeno della creolizzazione: conosciamo infatti molte lingue creole delle quali sappiamo anche abbastanza bene come "si sono create") e ogni lingua può assumere una parte del proprio patrimonio da altre lingue (basti pensare ai prestiti nel lessico ...). È, in pratica, come se per un organismo vivente il patrimonio genico non venisse di norma trasmesso linearmente ma riassemblato diffusionalmente con pezzi di genoma di diversa provenienza .... Dunque, la monogenesi per le lingue NON è la teoria più economica (mentre lo è per le specie).

E poi: dobbiamo pure, in qualche modo rendere conto del grado di diversità linguistica presente nel mondo.Un calcolo approssimativo (l'approssimazione è dovuta non solo alla nostra conoscenza ancora imperfetta di alcune aree "selvagge" come la Nuova Guinea, ma anche alla instabiltà stessa del concetto di "lingua", cfr. il paragrafo sg.) porrebbe il numero delle lingue esistenti intorno alle 6.000. Questo dato quantitativo, in sé molto alto, è probabilmente l'unico fatto oggettivo inconfutabile riguardo alla diversità linguistica del mondo. Qualitativamente, infatti, la valutazione della "glottodiversità" (se così vogliamo chiamare il fenomeno in questione, in analogia con la "biodiversità" che studiano i naturalisti) è inevitabilmente legata a reazioni soggettive e ad aspettative diverse in base alle diverse teorie linguistiche dell'osservatore: un linguista di formazione storica ed empirica sarà colpito dalla straordinaria diversità delle lingue, mentre uno

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studioso di formazione più razionalista e generativista sarà piuttosto colpito dalle somiglianze, specie a livello di struttura profonda. Entrambe le reazioni sono probabilmente giustificate, e rispondono a diversi progetti di studio. Provate a guardare le due seguenti frasi, l'una traduzione dell'altra, in eskimo groenlandese (Kalaallit oqaasii, "Western Greenlandic", la lingua ufficiale della Groenlandia) ed in inglese:

 

Kal. naalaqqisaaqquaanaala- qqisaa- qqu- aa'ascoltare' 'attentamente' 'dire a' 3/SOG.3/OGG.IND

Eng. he told him to listen carefullyhe told him to listen carefully3.SOG 'dire'-PT 3.OGG INF-'ascoltare' 'attentamente'

[tav. 2.1] Due frasi dallo stesso significato in eskimo groenlandese ed in inglese. Nell'analisi linguistica i numeri (3) stanno per la persona verbale o pronominale, IND per "indicativo", INF per "infinito", PT per "passato", SOG per "soggetto" ed OGG per "oggetto". L'esempio è adattato da Michael Fortescue, Western Greenlandic, London - Sydney - Dover, Croom Helm, 1984, p. 43.

La diversità tra le due lingue è innegabile, ma lo è anche il fatto che entrambe rispettano la structure dependency almeno per quanto riguarda il principio di proiezione e la teoria x-barra (se provate a costruire, seguendo le indicazioni mie e del manuale di Graffi-Scalise, un albero sintattico della frase in eskimo, vedrete che è un esercizio forse non facile, ma comunque possibile), come prevede la teoria di Chomsky. Seguire una strada piuttosto che un'altra è più che altro funzione dei vostri interessi e di quello che volete studiare in una lingua: la singolarità e la specificità delle sue strutture, dal punto di vista diacronico della loro formazione o da quello sincronico del loro attuale funzionamento, o piuttosto i principi generali, la struttura profonda - come si usa dire nella tradizione generativa - che la determinano.

2.0.2 Definizione di lingua e criteri per determinare una lingua.Ma cosa sarà poi, in fin dei conti, una lingua? Se non ci fosse già stato intuitivamente presente, ormai dovremmo averlo abbastanza chiaro: una specifica forma di linguaggio usata da una determinata popolazione in un certo punto dello spazio e del tempo. Anche se il concetto è ben definito, questo non significa che, concretamente, ci serva a molto per identificare una lingua. Anzi, è purtroppo vero che identificare una lingua, ossia distinguere univocamente una varietà linguistica da un'altra varietà a lei prossima nello spazio geografico, sociale, culturale, temporale, ecc. (tanto sullo stesso piano, lingua vs. lingua, quanto su piani subordinati, lingua vs. dialetto, considerato quest'ultimo come sottovarietà della lingua), è un'operazione a volte estremamente difficile, e spesso non c'è alcun consenso né sui criteri da adottare né sui risultati da cercare. Esempi di questa incertezza sono sotto gli occhi di tutti. Io, ad esempio, mi riferisco alla mia madrelingua piemontese come "lingua", ma un politico vi si riferirebbe (con intenti probabilmente diminutivi) come ad un "dialetto" - ed una analoga esperienza potrebbe essere capitata anche ad alcuni di voi. Nella legislazione italiana, per fare un altro esempio, il friulano ed il ladino sono considerati "lingue" minoritarie, e sono pertanto in qualche modo salvaguardate, ma il piemontese od il veneto no, nonostante nessun linguista (per tacere di nessun vero piemontese o veneto) nutrirebbe dubbi sul loro "esser lingue". Un altro esempio, che muove in senso contrario, può essere dato dal croato e dal serbo, di cui le nazioni che ne contengono la maggioranza dei parlanti si sono sforzate di trattarle come "lingue" diverse, cercando di nasconderne le somiglianze con l'uso di scritture diverse (l'una

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latina, e l'altra cirillica) e col favorire scelte lessicali divergenti, ma che vengono di solito considerate dai linguisti come due varietà di una stessa lingua, il "serbocroato". A volte la differenziazione od il livellamento non sono neppure introdotti di forza da una volontà politica nazionalista, ma sono il naturale risultato di una diversità culturale tra comunità che pure fanno uso di uno strumento linguistico sostanzialmente simile: è questo ad esempio, in India, il caso di hindi ed urdu, che sono divise da diversa scrittura (nagari vs. arabica), religione (induista vs. islamica), cultura e letteratura, pur essendo due forme della medesima lingua, ed entrambe reciprocamente non riducibili a dialetto l'una dell'altra. Che criteri sono, insomma, di norma usati per l'identificazione di una "lingua"? Ve ne sono molteplici, schematicamente riconducibili a due gruppi generali: criteri extralinguistici e criteri linguistici.

Iniziamo da quelli extralinguistici che pure, facendo noi linguisti "by trade, ci interessano intrinsecamente meno. Il più tipico nel nostro Occidente, figlio nel bene e nel male dal nazionalismo romantico dell'Ottocento, è il criterio nazionale: una lingua è tale se è la varietà standard di uno stato nazionale sovrano. Così, il sardo, la più isolata ed originale tra le lingue romanze, sarebbe un mero "dialetto" dell'italiano, come anche il mio povero piemontese; anche il basco, che pure è la lingua più aberrante e storicamente inspiegata di tutta Europa, diventerebbe un "dialetto" dello spagnolo (o del francese? che anche questa è un'altra contraddizione di questo approccio); il lussemburghese, invece, che ogni germanista sa essere un dialetto medio-tedesco del gruppo francone mosellano, è invece la "lingua" ufficiale dello stato del Granducato del Lussemburgo. Il criterio, evidentemente, non è utile dal punto di vista linguistico, ed è anche piuttosto funesto nelle sue conseguenze politiche e culturali. Meno esiziali, e di fatto talvolta utili per determinati scopi, possono essere i criteri sociolinguistici, culturali e di prestigio culturale o letterario. Da questi punti di vista, ad es., praticamente tutte le varietà linguistiche presenti in Italia si trovano sotto l'ombrello dell'italiano, rispetto al quale si pongono sostanzialmente in un rapporto di dipendenza lingua-dialetto, cosa che (purtroppo) è un dato di fatto, anche se contraddice la natura strettamente linguistica e storica di quelle varietà, e del quale bisogna per forza tenere conto.

I criteri linguistici sono comunque, naturalmente, i più pertinenti per identificare una lingua in quanto tale; idealmente, anzi, dovrebbero essere i soli a contare realmente, sennonché le lingue sono pur sempre costruzioni sociali ... Il criterio più "ingenuo" che ci si può affacciare naturalmente alla mente è la quantità di coincidenza, ossia quanto delle regole e del lessico è simile od uguale in due lingue. Nei casi estremi, ed un poco a spanna, le cose sono abbastanza evidenti: nelle due frasi in eskimo ed inglese della tavola precedente non troviamo nulla di simile, mentre tra i l'àj màl ao còl e i l'àj màl al còl, 'ho mal di collo' rispettivamente nella parlata della bassa Valsusa ed in quella di Torino, le somiglianze sono molto più delle differenze (nel campione scelto la sola diversità è nell'espressione dell'articolo determinativo, [u] vs. [l]), sicché nel primo caso avremo due lingue diverse, mentre nel secondo due dialetti della stessa lingua, o, più accuratamente, due forme dello stesso "diasistema", nel senso di 'sommatoria, matrice componenziale, di una serie di sistemi tra loro convergenti in alcuni parametri e divergenti in altri' con cui è stato introdotto dal sociolinguista Uriel Weinreich (in Is a Structural Dialectology Possible?, in "Word" X (1954) 388-400, poi raccolto in italiano in Lingue in contatto, con saggi di Giuseppe Francescato, Corrado Grassi e Luigi Heilmann, Torino, Bollati Boringhieri, 1974, traduzione arricchita di Languages in Conctat, New York, 1953). Significativo, comunque, è che il test in questione da solo non sia in grado di definire una percentuale assoluta di divergenze che segni il confine tra lingue diverse: il metodo del diasistema è descrittivamente efficace, ma discriminativamente inefficiente; è proprio, in effetti, quando le cose non sono così nette, ossia proprio quando più ci troviamo in dubbio, che il sistema perde efficacia, e non consente di trarre decisioni definite. Il secondo criterio cui potremmo fare ricorso è quello dell'intercomprensibilità: se tra parlanti di due varietà linguistiche non c'è comprensione reciproca (sia pure imperfetta), allora ci troveremmo di fronte a due lingue distinte. Il criterio è a tutta prima molto attraente, perché permette riscontri oggettivi ed è radicato su una prerogativa essenziale della lingua, l'uso. Purtroppo anche in questo caso non è tutto oro quel che

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luce ... Tutto il discorso presuppone che l'intercomprensione sia simmetrica (se io capisco te, tu capisci me): purtroppo la comprensione, come l'amore, non è detto che debba essere sempre ricambiata, ossia, più formalmente, non gode dalla proprietà reciproca. Forse un esempio concreto ci aiuterà a comprendere meglio la questione. Una area in cui, nel corso del Novecento, l'attività dei linguisti è stata particolarmente attiva nel definire le "lingue" con cui dovevano confrontarsi (anche praticamente, per preparare programmi di istruzione primaria in lingua) è il Messico, che è una delle zone a più grande varietà linguistica del mondo: nello stato di Oaxaca, in particolare, su una superfice di poco più ampia del Portogallo sono tuttora parlate circa cento lingue diverse, tra cui le più numerose sono le lingue zapoteche e le mixteche (entrambe appartenenti ad una delle famiglie linguistiche più vaste e meglio studiate dell'America, l' "otomangueo"). Per definirne il numero (oggi stimato intorno risp. alle 38 ed alle 29: cfr. Jorge A. Suárez, The Mesoamerican Indian Languages, Cambridge - London - New York - New Rochelle - Melbourne - Sydney, Cambridge University Press, 1983, p. 18) si era pensato di fare ricorso in larga scala ai test di intercomprensibilità, con risultati affatto analoghi a quelli che riporto qui sotto per un campione tre città zapoteche:

[tav. 2.2] Percentuali di intercomprensibilità in tre città zapoteche. La percentuale critica al di sotto della quale non c'è più comprensione accettabile si trova intorno all'80%, o poco sotto (comunque non oltre il 70%): anche questo fattore si è rivelato, infatti, in parte specifico lingua per lingua. Ma la conclusione più interessante è che parlanti di Yatzeche possono capire la variante di Ocotlán, e parlanti di Tilquiapan possono capire la varietà di Yatzeche, ma i parlanti di Tilquiapan e di Ocotlán non si capiscono tra di loro; c'è comprensione reciproca tra Yatzeche e Tilqiapan, ma mentre i parlanti di Yatzeche capiscono quelli di Ocotlán non accade il contrario. Riprodotto da Jorge A. Suárez, The Mesoamerican Indian Languages, Cambridge - London - New York - New Rochelle - Melbourne - Sydney, Cambridge University Press, 1983, p. 15; basato su S. Egland e D. Bartholomew, La inteligibilidad interdialectal en México: resultados de algunos sondeos , México, Institudo Lingüístico de Verano, p. 79.

La situazione può essere resa anche più evidente con uno schema lineare in cui, rispetto ad un centro, ogni singola linea ("isoglossa") rappresenta la percentuale di comprensione, al cui interno più punti possono essere raggruppati; una linea che racchiude un punto od un gruppo di punti significa anche che alla percentuale indicata non ci possono essere ulteriori raggruppamenti. L'esempio seguente rappresenta otto città dell'area mixteca settentrionale:

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[tav. 2.3] Percentuali di intercomprensibilità tra le principali città zapoteche settentrionali, rappresentate con isoglosse centrate su Chazumba. Per le lingue mixteche la percentuale critica al di sotto della quale non c'è più comprensione accettabile è stata fissata al 70% (per le lingue zapoteche è invece intorno all'80%: il fattore è, infatti, lingua-specifico). Al 90% solo due punti possono essere raggruppati (Chazumba e Tonahuixtla), al 85% si aggiungono altri quattro punti (Xayacatlan, Tepejillo, Cosoltepec e Las Palmas) ed all'80% un ultimo ancora (Petlacingo). Dopo questa soglia, anche scendendo al 60% nessun altro punto può essere raggruppato: il punto più prossimo, Chigmecatitlan, può essere aggiunto solo al 38%. In base a quello che abbiamo detto potremmo concludere che in questa area ci troviamo di fronte a due lingue mixteche. Riprodotto da Jorge A. Suárez, The Mesoamerican Indian Languages, Cambridge - London - New York - New Rochelle - Melbourne - Sydney, Cambridge University Press, 1983, p. 17; basato su S. Egland e D. Bartholomew, La inteligibilidad interdialectal en México: resultados de algunos sondeos, México, Institudo Lingüístico de Verano, p. 29.

Per tirare le somme di quanto abbiamo detto, possiamo dunque concludere che determinare esattamente una lingua è una operazione spesso delicata, per la quale possono rendersi necessari anche più criteri contemporaneamente, tra i quali la preminenza va senz'altro data a quelli linguistici, senza tuttavia negarsi il ricorso anche a criteri culturali e sociolinguistici. In pratica: bisogna decidere caso per caso.

2.0.3 Classificazione e tassonomia.Confrontarsi con la diversità delle lingue del mondo e poterle studiare in quanto tali significa anche attrezzarsi per "classificarle", non fosse che per avere un sistema generale, condiviso da tutti gli studiosi, cui fare riferimento. Tale necessità non è poi molto diversa dalle istanze che mossero Carolus Linnaeus, il grande naturalista svedese (poi Carl von Linne, 1707-1778) nel 1735 a proporre il suo Systema Naturae, che ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo delle scienze naturali, e la cui struttura (anche se, ovviamente, non la sua lettera) è tutt'ora seguita nella "sistematica" biologica. In effetti, molte delle discussioni sul concetto di "classificazione" che sono scorse copiose in tutta la storia delle scienze naturali dal Settecento ad oggi sono illuminanti anche

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per il compito del linguista. (Un affresco storico di quelle discussioni assolutamente stimolante è quello che ne dà Enst Mayr nel suo The Growth of Biological Thought. Diversity, Evolution, and Inheritance, Cambridge (Mass.) - London (UK), The Belknap Press of Harvard University Press, 1982, tradotto come Storia del pensiero biologico. Diversità, evoluzione, eredità, edizione italiana a cura di Pietro Corsi, Torino, Bollati Boringhieri, 1990; cfr. in particolare le pp. 83-243 dell'ed. it. dedicate a La diversità della vita ed alla Macrotassonomia, la scienza della classificazione).

In particolare due ordini di considerazioni sono particolarmente importanti anche per la classificazione delle lingue: quello relativo alla struttura (tassonomia) e quello relativo ai criteri (arbitrarietà). In effetti, è la struttura del sistema linneiano, inteso come una griglia di taxa (plurale del greco taxon 'posto'), ossia una "tassonomia", ad essere ancora attuale (soprattutto la struttura binomiale dei nomi, genere + specie, come Homo sapiens, la cui introduzione risale appunto a Linneo), e non i principi con cui le specie (il taxon base) venivano definite e collocate nella tassonomia (Linneo operava un secolo prima di Darwin, ed aveva, necessariamente, un concetto non evoluzionistico, ed anzi essenzialistico, della specie). Riproduco qui sotto, nella sua forma più dettagliata, la tassonomia oggi in uso nella sistematica biologica:

[tav. 2.4]. Nomi e gerarchia dei taxa nella tassonomia biologica moderna. La nomenclatura nella tavola è in inglese; è ancora, comunque, spesso usato ancora il latino, che userò invece in questa didascalia. Solo quattro taxa, ossia regnum, classis, genus e species, risalgono al Systema originario di Linneo, phylum invece è stato introdotto da Georges Cuvier (1769-1832) nel 1799; quasi tutti i taxa possono contenere dei subtaxa quando necessario (quelli stampati sono i più standard, ma sono frequenti anche subphylum e subordo); cohors e tribus non sono usati in tutte le tassonomie. Riprodotto da Ernst Mayr, What Evolution Is, New York, Basic Books, 2001.

In linguistica non c'è ancora un consenso così consolidato sui taxa da usare, cosa, se ci pensate bene, anche comprensibile date le difficoltà che abbiamo visto nella determinazione del nostro taxon di base, la lingua (~ species), e del suo immediato inferiore, il dialetto (~subspecies). Una esempio di classificazione linguistica tassonomica (filogenetica ma anche sincronico-sociolinguistica e geografica: è significativo, infatti che non si possa, in questo come in altri casi, fare una classificazione "puramente" evolutiva) è quello che ho proposto per le lingue baltofinniche,

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e che trovate nel capitolo dedicato alle lingue uraliche (cfr. la tassonomia BF). Utile, in particolare, sarà un confronto tra i taxa della biologia e quelli che ho impiegato per le lingue baltofinniche, che trovate compendiati in una apposita tavola cui rimando.

Se l'articolazione e la consensualità della griglia di classificazione, compendiata nel concetto di tassonomia, è la prima lezione che abbiamo imparato dalla sistematica biologica, l'altro punto fondamentale è quello della arbitrarietà ed appropriatezza dei principi in base ai quali viene fatta una classificazione. Già intuitivamente è evidente che quando si fa una classificazione si hanno dei precisi scopi pratici: se metto in ordine le minute ferramenta posso voler separare, ad esempio, viti e chiodi lunghi da quelli corti perché ho due scatole di dimensioni diverse in cui metterli, od invece voler separare viti da legno da bulloni da ferro perché ho zone diverse del laboratorio per lavorare il legno ed il metallo. In entrambi i casi faccio una classificazione decidendo di mio arbitrio (in base ai mie scopi) il criterio in base ai quali assegno gli oggetti da classificare a taxa diversi. Significativamente, come abbiamo rilevato, gli scopi (identificare e descrivere tutti i vegetali e gli animali) ed i criteri (basilarmente il tipo di riproduzione) della sistematica di Linneo sono diversi da quelli della biologia moderna, post-darwiniana, per la quale lo scopo è piuttosto identificare la corretta filogenesi delle specie, e gli strumenti impiegativi sono sempre più le sequenziazioni geniche, anche se le caratteristiche morfologiche (come quelle legate alla riproduzione, care a Linneo) tengono ancora il loro posto. Il primo "albero filogenetico" della vita è probabilmente quello disegnato da Ernst Haeckel (1834-1919) nel 1866, che riproduco qui sotto per via della concretizzazione materiale - un poco ingenua, se vogliamo - del concetto che noi (matematicamente) chiameremmo "struttura arborescente orientata" in un albero vero e proprio: la rappresentazione ad albero della filogenesi è infatti uno schema che ha avuto grande fortuna anche nella linguistica (cfr. la discussione più avanti nel paragrafo dedicato alle classificazioni storiche):

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[tav. 2.5] Il primo (1866) albero filogenetico della vita: il monophiletischer Stammbaum di Ernst Haeckel, dalla sua Generelle Morphologie der Organismen: Allgemeine Grundzüge der Organischen Formen-Wissenschaft, mechanisch begründet durch die von Charles Darwin reformierte Descendenz-Theorie, Berlin, Georg Reimer, 1866. Potete utilmente confrontarlo con il moderno albero della vita, che avevamo presentato nelle lezioni precedenti, tanto dal punto di vista della struttura (qui "Stammbaum" naturalistico, là "struttura arborescente orientata" generata formalmente), quanto da quello del contenuto (l'avanzamento delle conoscenze in poco più di un secolo di biologia è stupefacente!).

Il corrispondente della classificazione filogenetica delle specie è, in linguistica, la classificazione storico-genealogica delle lingue, che ci occuperà prevalentemente nei prossimi capitoli. Non è però l'unico tipo di classificazione praticato in linguistica. Vi sono infatti vari altri sistemi, non storici, come (1) quello quantitativo (criterio base: numero di parlanti: scopo: programmi didattici, interventi sociali, marketing, ecc.), (2) quello geografico (criterio: vicinanza areale; scopo: identificare caratteristiche areali, diffusionali) o (3) quello tipologico (criterio: strutture linguistiche, morfologiche o sintattiche; scopo: quantificare il numero di caratteristiche grammaticali delle lingue del mondo, e comprenderne le relazioni). Sono in particolare questi ultimi due ad avere maggiore interesse linguistico. Intorno al secondo, il criterio geografico, in effetti, si è sviluppata una particolare disciplina, la geografia linguistica, che ha trovato proprio in Torino, specie intorno alle figure di Matteo Bartoli (1873-1946, istriano di origine ma insegnante all'università di Torino dal 1908), prima, e dell'Istituto dell'Atlante linguistico italiano, poi, uno dei suoi centri principali. La classificazione il base al criterio tipologico, invece, praticata largamente nel corso dell'Ottocento in base a criteri morfologici, è risorta nella seconda metà del Novecento intorno ed a partire dall'opera del già menzionato linguista americano Joseph Greenberg (Some Universals of Grammar with Particular Reference to the Order of Meaningful Elements, in Universals of languages, edited by Joseph Greenberg, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1966, pp. 73-113) concentrandosi prevalentemente su criteri sintattici, e costituendosi in una sorta di corrente autonoma della linguistica moderna.

2.0.4 La classificazione tipologica.Si veda il modulo di Annarita Puglielli e Mara Frascarelli

Tipologia linguistica: riflessione sulle lingue e loro comparazione

Nel sito di Didattica delle lingue moderne

2.0.5 Filogenesi e tassonomia nelle classificazioni storiche.Dopo le considerazioni che abbiamo fatto sulla natura delle lingue e sul loro modo storico di costituirsi, è evidente come una tassonomia filogenetica delle lingue sarà indubbiamente più "difficile" da costruire e di solito meno netta di quella biologica, da cui pure ha ereditato modelli di rappresentazione e logica. Il modello di rappresentazione ad albero, normalmente noto col nome tedesco di Stammbaum, che abbiamo visto adottato in biologia fin da Haeckel, è stato subito (e, con vari ammodernamenti, resta tuttora) il sistema rappresentazionale preferenziale. Si noti comunque come già il primo e più famoso degli Stammbaum linguistici, quello disegnato da August Schleicher per l'indoeuropeo nel 1861 non solo fosse ancora più tempestivo di quello biologico di Haeckel del 1866 (l'Origine della specie era uscita solo nel 1859!) ma era anche meno "ingenuamente" iconico (niente tronchi, fronde e foglie ...) di quello di Haeckel, e pertanto, almeno graficamente, più simile alla nostra idea moderna di mero "grafo arborescente orientato". La maggiore "disinvoltura" nell'uso degli Stammbaumen contraddistingue comunque la pratica dei linguisti (come anche quella dei filologi che disegnano gli "alberi" - chiamati "stemmi" - della

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tradizione manoscritta od a stampa di un testo), confrontati spesso con la necessità di rappresentare situazioni non semplicemente lineari.

[tav. 2.6ab] Stammbaumtheorie: il modello ad albero delle lingue indoeuropee secondo August Schleicher, Compendium der vergleichenden Grammatik der indogermanischen Sprachen, Weimar, Böhlau, 1861-1862 (2 vll.). Riprodotto (a) dalla versione originale (sesta edizione, 1866, p. 9) ed in versione (b) "rammodernata" e volta in inglese da James P. Mallory, In Search of the Indo-Europeans. Language, Archeology and Myth, London, Thames and Hudson, 1989, p. 18.

La principale critica che si può muovere alla "Stammbaumtheorie" è quella di considerare la filiazione come un procedimento sostanzialmente unilaterale per cui in linea di principio non si possono rappresentare incroci od influssi. Come si è visto, però, dai pochi esempi citati, si è riuscito a conseguire un minimo di flessibilità per rappresentare le influenze areali e le commistioni laterali anche in questo sistema. Un approccio rappresentazionale alternativo è invece quello del "modello

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ad onde" (in tedesco Wellentheorie) proposto per l'indoeuropeo da Johannes Schmidt (1843-1901) nel 1872, secondo il quale i mutamenti linguistici si propagano ad onde, seguendo ognuno una propria isoglossa. Questo approccio è conseguente alla raggiunta consapevolezza che le lingue sono sistemi fortemente composti, difficilmente semplificabili in un rapporto genetico lineare; consapevolezza che è nata soprattutto in base agli studi sulla costruzione delle lingue creole da parte del grande linguista Hugo Schuchardt (1842-1927) ed alle esperienze della geografia linguistica di Jules Gilliéron (1854-1926) nata intorno all'atlante linguistico francese.

[tav. 2.7] Wellentheorie: il modello ad onde delle lingue indoeuropee secondo Johannes Schmidt, Die Verwantschaftverhältnisse der indogermanischen Sprachen, Weimar, Böhlau, 1872. Nel paragrafo 2.1 potrete confrontare una versione moderna del medesimo schema preparata da Raimo Anttila. Alcune delle "isoglosse" usate sono le seguenti: (pongo tra parentesi il numero corrispondente nello schema di Anttila): I. Indoiranico a vs. cetera e,a,o (=3); II. satem vs.centum (=1); III. marche casuali in -m vs. -bh (=11); ecc. Provate ora ad identificare le altre due isoglosse usando lo schema di Anttila come riferimento ... Riprodotto da James P. Mallory, In Search of the Indo-Europeans. Language, Archeology and Myth, London, Thames and Hudson, 1989, p. 19.

Se la valorizzazione della natura composita delle lingue è certo ottima cosa, il modello della Wellentheorie non era altrettanto buono per finalità tassonomiche (ossia per produrre una classificazione genealogica delle lingue), in quanto polverizza tutte le informazioni filogenetiche disponibili in una galassia di micro-osservazioni puntuali, rendendo impossibile o perlomeno difficile cogliere le grandi linee dei mutamenti. La tendenza odierna, in effetti (come ben riassume il manuale di Graffi e Scalise a pp. 233-237), è quella di combinare in qualche modo le due tecniche, disegnando Stammbaumen e tassonomie in qualche modo miste e multifattoriali, come quelle che ho presentato per le lingue uraliche (cfr. lo Stammbaum più avanti) ed ancor più per le baltofinniche (cfr. la tassonomia più avanti).

Non è infatti vero che la propagazione "orizzontale" delle onde renda vana la individuazione (in base al metodo storico-comparativo) dei rapporti "verticali" di genealogia descritti dagli schemi arborescenti: la realtà è che bisogna saper discriminare gli strati diversi accumulati in una lingua e saperli ricondurre alle tradizioni filogenetiche cui appartengono. La componente primaria (strato

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"genetico") e le secondarie (strati "diffusi") vanno sceverate e trattate con lo stesso metodo. Pensate al solito esempio dell'inglese: una analisi capillare di tutte le unità della lingua inglese che però non sappia distinguerne le principali stratificazioni, potrebbe anche concludere che si tratta di una lingua romanza abbastanza strana (sommando elementi francesi anglonormanni e latini colti il lessico di origine latina in inglese ha pari peso di quello di origine antico-inglese germanica; inoltre la maggior parte delle caratteristiche morfologiche del germanico sono state perse): se invece distinguiamo tra strato antico-inglese, strato latino, strato anglonormanno e strati più recenti, ed applichiamo ad ogni strato il metodo storico-comparativo otterremmo risultati affatto attendibili e che potremmo rappresentare in un grafo ad albero (adattato ad hoc, certo, ma pur sempre dall'elevato potere informativo: cfr. quello che ho disegnato per le lingue baltofinniche).

2.0.6 Appoggi extralinguistici all'evoluzione: archeologia, storia e genetica.La complessità delle operazioni interpretative che abbiamo visto essere necessarie per la classificazione filogenetica rende se non necessaria certo auspicabile anche la possibilità di ricorrere ad aiuti extralinguistici. Per meglio capire il possibile uso di queste fonti, si pensi all'esempio dell'inglese che avevamo fatto alla fine del paragrafo precedente: sapere che dopo la battaglia di Hastings del 1066 la dinastia regnante in Inghilterra non è più anglosassone ma bensì normanna ci può ben servire per individuare ed interpretare lo strato linguistico francese anglonormanno; conoscere la storia dell'impero britannico ci può aiutare a risolvere l'origine di un certo gruppo di parole (come ad esempio chutney, che è un adattamento del hindi cat,nî); sapere che una certa area dell'Inghilterra è stata sotto il controllo danese (Danelaw) nell'alto medioevo, ci può dare il punto di partenza per distinguere uno strato germanico (norreno) diverso da quello (anglosassone) della principale componente germanica della lingua inglese moderna; ecc.L'antichità, dunque, delle attestazioni (che è stata una delle ragioni dello stato per lungo tempo privilegiato della ricostruzione dell' indoeuropeo) e la ricchezza di informazioni storiche sono da questo punto di vista una fonte di conoscenza privilegiata che purtroppo è disponibile solo per poche famiglie linguistiche.

Un caso particolare di aiuti extralinguistici è quello offerto dai dati archeologici tradizionali: la loro importanza, soprattutto per la conoscenza delle fasi antiche, non coperte dalla conoscenza storica, in cui proiettiamo le protolingue capostipiti delle famiglie linguistiche che riscostruiamo, è intuitivamente molto grande. Altrettanto grande deve essere però la cautela nell'usarli per la ricostruzione linguistica, in quanto le testimonianze dell'archeologia sono, in sé, culturalmente e storicamente significanti ma linguisticamente mute. Pensate, per comprendere il punto, al paradosso (l'esempio risale a Lyle Campbell) di un archeologo del 4.000 che faccia scavi in Brasile e trovi i resti di qualche Volkswagen: dovrebbe per questo concluderne che in Brasile nel remoto secolo XX si parlava tedesco? Come vedete la cautela è d'obbligo: l'importanza delle informazioni archeologiche è indubbia, ma la loro interpretazione non è mai semplice. Un altro tipo di dati archeologici (in molti casi anche di tipo più moderno: mappe dei pollini, datazioni al radiocarbonio, ecc.) spesso utili per la linguistica storica sono quelli relativi all'insorgenza del neolitico. Mi permetto, en passant, di ricordarvi la relatività della cronologia archeologica, basata su una griglia di caratteristiche solo culturali e non cronologiche assolute, per cui si può avere un "paleolitico" anche oggi, III millenio d.C., in alcune zone della Nuova Guinea, mentre in Anatolia si era passati al "neolitico" già nel VIII-VII millenio a.C. L'evento "neolitico", in generale, è collegato alla diffusione dell'agricoltura, ed è stato recentemente ancorato anche ad una cronologia assoluta grazie alle datazioni al carbonio 14 (cfr. oltre). L'insorgere del neolitico è importante perché può forse essere collegato all'apparizione delle famiglie linguistiche che ricostruiamo con maggiore profondità: l'esempio migliore è quello della teoria dell'origine neolitica dell’indoeuropeo che tratteremo nel prossimo capitolo.

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[tav. 2.8] La nascita poligenetica del neolitico in più centri indipendenti e legati alla domesticazione di cereali selvatici diversi. Riprodotto da Luca Cavalli Sforza, Gènes, peuples et langues, Paris, Éditions Odile Jacob - Travaux du Collège de France, 1996; trad. It. Geni, popoli e lingue, Milano, Adelphi, 1996, p. 151.

Un altro aiuto esterno alla interpretazione storica dei dati linguistici (con tutte le cautele del caso, naturalmente, per le quali valgono le stesse avvertenze che per i dati archeologici) può venire dai lavori della genetica di popolazione umana, in particolare quelli sul campionamento di componenti geniche significative del DNA, perseguiti negli ultimi venti anni da una scuola italiana (e nello specifico pavese) di origine, ma di fatto accademicamente americana, centrata intorno alle figure di Alberto Piazza e, soprattutto, di Luca Luigi Cavalli-Sforza. Negli anni precedenti un grande lavoro era già stato compiuto sulla sequenziazione (e retrocostruzione filogenetica) del DNA mitocondriale (mtDNA). Su questo tipo di procedura avevamo già parlato nella precedente sezione a proposito della filogenesi dei procarioti: il mitocondrio, infatti, per ricapitolare brevemente, è un organello dotato di corredo genico proprio (distinto da quello presente nel nucleo, pertanto) presente in (quasi) tutte le cellule eucariote, ed è, evoluzionisticamente, un batterio (lo ritrovate infatti riportato nella tavola generale dell'albero della vita) diventato simbionte della proto-cellula eucariota; il mtDNA è aploide e viene trasmesso dalla sola linea materna; sequenziando un vasto campione (la cui scelta è stata comunque discussa) di mtDNA della popolazione mondiale è stato perciò possibile rintracciare un comune ascendente. Nonostante l'importanza di questi risultati, la scoperta è stata in parte svuotata di valore dalla strumentalizzazione giornalistica, come se fosse con ciò dimostrato che tutti discendiamo da un'unica donna (falso: il fatto che sopravviva la linea evolutiva del DNA di una sola donna non significa che all'alba della specie uomo ci fosse un'unica donna ... a parte il fatto che sarebbe stato molto triste per i protoominidi maschi, e molto stanchevole per la nostra supposta protoominide femmina ;-), cui è stato anche dato il nome di Eva (che strano...), ecc. ecc. Una descrizione scientificamente corretta della questione è in Luigi Luca Cavalli-Sforza - Paolo Menozzi - Alberto Piazza, Storia e geografia dei geni umani, Milano, Adelphi, 1997, pp. 156-166. Per superare queste difficoltà Cavalli-Sforza si è invece concentrato sul DNA principale, diploide, e più facilmente portatore di mutazioni, ossia di errori nella replicazione. Le mutazioni, in assoluto, sono rare (ricordate il discorso sulla stabilità del genoma che avevamo affrontato parlando dei procarioti?), dell'ordine di 1 su 200 milioni di nucleotidi, ma in perlopiù avvengono in geni diversi, e lo stesso gene, nel tempo, può subire mutazioni diverse. In una popolazione possono pertanto esistere diverse varianti (dette "alleli") di uno stesso gene, che verrà così detto "gene polimorfico".

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«I geni polimorfici, o polimorfismi, costituiscono i marcatori usati in tutti i tipi di studi genetici, inclusi quelli riguardanti l'evoluzione» (Cavalli-Sforza cit. p. 9). Il metodo usato dal nostro studioso consiste, dato un elevato numero di geni che presentino alleli diversi, nell'individuare delle "componenti principali" (CP), ossia delle classi di polimorfismi che presentino tra loro una correlazione di percentuale significativa. Per la popolazione mondiale sono state individuate sette CP, delle quali le prime tre sono le più quantitavamente rilevanti. Nella tavola seguente, giusto per dare un'idea del tipo di metodo impiegato, riporto la composizione di queste prime tre CP.

[tav. 2.9] I geni polimorfici (marcatori genici) che presentano le correlazioni più elevate e definiscono le tre "componenti" geniche principali dell'umanità; il segno "più" o "meno" indica se l'allelo è associato ad una correlazione negativa o positiva. Riprodotto da Luigi Luca Cavalli-Sforza - Paolo Menozzi - Alberto Piazza, The

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History and Geography of Human Genes, Princeton University Press, 1994; trad. it. Storia e geografia dei geni umani, Milano, Adelphi, 1997, p. 252.

I dati esibiti in questa tavola non dicono certo molto ai non biologi. Ma se si prova a tracciare su una mappa cromatica i risultati ottenuti dallo studio di queste prime tre CP, otterremo un panorama che ci è molto più informativo, e che concorda con alcune delle conclusioni raggiunte dalla paleontologia (come l'origine africana dell'Homo sapiens), dall'archeologia (alcune correlazioni con la diffusione dell'agricultura neolitica) ed a volte, lo vedremo nei capitoli seguenti, eventualmente anche dalla linguistica (ad es. si possono forse individuare le componenti geniche dei baschi, dei pre-lapponi e (?) degli indoeuropei).

[tav. 2.10] Mappa cromatica delle tre prime componenti geniche principali (DNA) della popolazione umana. Il verde è associato alla prima componente, il blu alla seconda ed il rosso alla terza. Ne risultano ben distinti gli africani (giallo-verde), i caucasoidi (blu-verde) e gli australiani (rosso), mentre orientali ed amerindi mostrano la variazione genica maggiore e condividono somiglianze da un lato con gli europei (violaceo-azzurrognolo nella Siberia centrale) e dall'altro con gli australiani (violaceo in zone dell'America e della Siberia antistante lo stretto di Bering). Chiaramente visibili sono anche i gradienti dovuti alle mescolanze tra africani e caucasoidi nell'Africa settentrionale e tra caucasoidi ed orientali nell'Asia centrale. Riprodotto da Luigi Luca Cavalli-Sforza - Paolo Menozzi - Alberto Piazza, The History and Geography of Human Genes, Princeton University Press, 1994; trad. it. Storia e geografia dei geni umani, Milano, Adelphi, 1997.

I risultati di Cavalli-Sforza (che, oltre tutto, ha esplicitamente cercato di collegarsi anche alla linguistica), va però avvertito che godono in genere di cattiva stampa presso i linguisti, per via della sua malaugurata decisione di appoggiarsi alle classificazioni linguistiche di Merrit Ruhlen, che ogni buon linguista sa essere, per dirla il più gentilmente possibile, perlomeno fantastiche. La diffidenza della comunità linguistica è certo giustificata, ma questo nulla toglie alla serietà scientifica dei risultati biologici del lavoro di Cavalli-Sforza, i cui risultati biologici sarebbe sciocco trascurare solo perché non si è d'accordo con le sue conclusioni linguistiche. Anzi, è certo da apprezzare il tentativo di interdisciplinarità e di ricerca di dialogo con discipline diverse messo in atto da Cavalli-Sforza, e perciò è tanto più da rammaricare che abbia finito per trovare interlocutori sbagliati.

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2.1 L'indoeuropeo.

2.1.0 Indoeuropeistica e metodo storico.Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la storia dell'indoeuropeistica e del metodo storico, almeno per tutto l'Ottocento, sostanzialmente coincidono. Così, la famiglia indoeuropea è stata senz'altro quella più a lungo ed approfonditamente studiata. Se del padre fondatore, Franz Bopp, abbiamo già accennato, e così anche al ruolo seminale di Friedrich Schlegel, resta da aggiungere: (a) che la paternità assoluta del riconoscimento dell'esistenza di una famiglia indoeuropea è di solito data a Sir William Jones (1746-1794), che nel 1785 colse le affinità tra greco, latino e sanscrito; (b) che anche il grande linguista danese Rasmus Kristian Rask (1787-1832) presentò nel 1814 (due anni prima del Conjugationssystem di Bopp, anche se purtroppo andò a stampa solo nel 1818, due anni dopo ...) alla Società danese di scienze le Undersøgelse om det gamle Nordiske eller Islandiske Sprogs Oprindelse 'Ricerche sulla origine della lingua antico nordica od islandese', in cui la parentela indoeuropea è chiaramente dimostrata. Ed a partire da questa data praticamente tutti i grandi linguisti che abbiamo finora menzionato (così come i molti che non abbiamo citato) sono stati di formazione indoeuropeistica, campo nel quale hanno prodotto capolavori della linguistica, come Saussure, Hjelmslev, e Martinet, o comunque si sono occupati anche di indoeuropeistica, come Trubeckoj e Jakobson.

Quali le cause di questo privilegio dell'indoeuropeistica? A parte la considerazione, banale ma non per questo meno vera, che la linguistica storica nasce in Europa, e che quindi uno spontaneo eurocentrismo era inevitabile, ve ne sono anche molte altre. Una è di natura piuttosto culturale. Abbiamo sottolineato la cultura "romantica" in cui il metodo comparativo si sviluppa: per questa le Origini germaniche, e tutto quello che sa di "origine" (ur- in tedesco) dei popoli (tedesco Volk) è fondamentale, primo tra tutti un'indagine sull' Urvolk germanico che lo ricolleghi con pari dignità alla cultura classica greco-latina ed all'appena scoperto magico mondo orientale sanscrito e persiano. Non per niente in tedesco non si dice "indoeuropeo" ma bensì Indogermanische 'indogermanico'. Alcune altre cause sono di natura piuttosto pratica. Per la linguistica storica, infatti, le lingue indoeuropee presentano numerosi vantaggi, legati al fatto che di molte lingue abbiamo attestazioni antiche e prestigiose, e di altrettante conosciamo bene la storia. Circostanze entrambe che, come abbiamo visto nel precedente capitolo, sono spesso assai preziose per la ricostruzione. Significativo, tra l'altro, è il fatto che le cose, da questo punto di vista, siano ancora enormemente migliorate nel Novecento con la decifrazione dell'ittita (una lingua indoeuropea di cui si hanno attestazioni dirette a partire dal II millennio a.C. !) e poi delle altre lingue anatoliche minori, e, più tardi con la scoperta del tocario. Nella tavola seguente fornisco una cronologia elementare delle attestazioni, giusto per rendersi conto dell'entità del fenomeno.

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[tav. 2.11] Cronologia di attestazione delle lingue indoeuropee. Riprodotto ed adattato da James P. Mallory, In Search of the Indo-Europeans, London, Thames and Hudson, 1989, p. 15.

Nei pochi paragrafi che seguono, coerentemente con quanto avevamo detto nell'introduzione a questo secondo modulo, non daremo una trattazione sistematica dell'indoeuropeistica, ma accenneremo solo a pochi punti di particolare interesse. Per l'ABC, comunque, potete riferirvi al manuale di Graffi - Scalise: in particolare il § 10.1.3, pp. 237-240, tratta della ricostruzione del protoindoeuropeo, ed il § 3.2, pp. 57-59, presenta brevemente le lingue della famiglia (per le quali cfr. anche il nostro breve paragrafino seguente).

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2.1.1 Diffusione delle lingue indoeuropee.La cartina sotto riprodotta rappresenta schematicamente la diffussione primaria delle principali famiglie linguistiche iscrivibili nell'indoeuropeo, comprese le estinte. Al di là del costituire la maggiore componente dell'Europa linguistica, la sua diffusione è in realtà ancora maggiore, perché con l'espansione della lingue inglese, spagnola e portoghese si può dire che lingue indoeuropee siano ormai parlate in tutto il mondo (si è calcolato che il 48,10 % della popolazione mondiale parla lingue indoeuropee, seguito dal 22,01 % di parlanti di lingue sinotibetane). Sulla formazione linguistica dell'Europa, comunque, mi permetto di consigliare, a chi fosse interessato, la lettura di La formazione dell'Europa linguistica. Le lingue d'Europa tra la fine del I e del II millenio, a cura di Emanuele Banfi, Firenze, La Nuova Italia, 1993 (che vanta, tra l'altro, un'eccellente parte sulle lingue non indoeuropee scritta da Gianguido Manzelli).

[tav. 2.12] Carta linguistica delle principali famiglie linguistiche indoeuropee. Riprodotta da Encyclopedia of Indo-European Culture, edited by James P. Mallory and Douglas Q. Adams, London - Chicago, Fitzroy Dearborn Publishers, 1997, p. 300.

2.1.2 Filogenesi e raggruppamenti nell'indoeuropeo.Abbiamo più volte, nel capitolo precedente, parlato delle insufficienze delle Stammbaum- e Wellentheorie, soprattutto se usate in modo semplicistico, come metodi per rappresentare l'evoluzione filogenetica del linguaggio, e, naturalmente, abbiamo già fatto riferimento all'indoeuropeo. Da questo punto di vista, in effetti, l'indoeuropeo presenta particolari difficoltà, in quanto le relazioni reciproche tra i diversi rami non si lasciano cogliere facilmente, essendo probabilmente oscurate dalla prevalente permanenza di relazioni diffusionali tra le diverse famiglie attraverso i millenni. Istruttivo può essere da questo punto di vista il paragone con l'uralico (cfr.

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oltre), dove la separazione tra i vari rami è netta ed univoca, dato che la differenziazione linguistica si è quasi sempre accompagnata ad un effettivo dislocamento di popolazioni.

In questa particolare situazione i grafi che rappresentano isoglosse (sulla scorta della vecchia Wellentheorie) possono dare informazioni particolarmente utili, cfr. il seguente

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[tav. 2.13] Isoglosse nel continuum linguistico indoeuropeo secondo Raimo Anttila; la scelta degli "ingredienti" di cui tenere conto si propone di seguire, ammodernandola, la ricetta di Schmidt: confrontatela con lo schema proposto da quest'ultimo nel 1872. Riprodotto da Raimo Anttila, Historical and Comparative Linguistics. Second revised edition, Amsterdam - Philadelphia, John Benjamins, 1989, p. 305.

ma non eliminano la necessità di una rappresentazione arborescente, sia pure stratigraficamente e diffusionalmente consapevole e ragionata, come quella proposta negli anni Ottanta da due grandi studiosi, uno russo e l'altro georgiano, in quello che è stato probabilmente il volume più importante sull'indoeuropeo della seconda metà del secolo scorso:

[tav. 2.14] Uno schema ad albero più completo (nel numero delle lingue) più moderno e più maturo nella impostazione teorica (tiene conto di variazioni diasistemiche interne nei proto-stock) rispetto a quello originale di Schleicher, cfr. la tavola del suo Stammbaum. Riprodotto da Tamaz Valerianoviĉ Gamkrelidze - Vjaĉeslav Vsevolodoviĉ Ivanov, Indoevropejskij jazyk i indoevropejcy. Rekonstrukcija i istoriko-tipologiĉeskij analiz prajazyka i protokultury, t. II, Tbilisi, Izdatel'stvo Tbilisskogo Universiteta, 1984, in base alla rifusione inglese dell'Encyclopedia of Indo-European Culture, edited by James P. Mallory and Douglas Q. Adams, London - Chicago, Fitzroy Dearborn Publishers, 1997, p. 551.

2.1.3 L'origine delle lingue indoeuropee.Un altro problema che è stato dibattutissimo è quello che, con termine germanico e romantico, si è detto dell' Urheimat 'proto-patria': in quale regione è nato il proto-indoeuropeo? Le risposte che se ne sono date sono pressoché infinite, tanto che viene persino da chiedersi se si tratti di un problema davvero insolubile. Più probabilmente si tratta di un problema prima di tutto metodologico: pensare ad una protolingua come ad una lingua affatto vera, parlata da una popolazione certa e compatta, in un preciso punto del tempo e dello spazio, abbiamo ormai capito che è un modo di ragionare forse

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molto "romantico" ma terribilmente ingenuo e foriero di equivoci. Se invece pensiamo (come già Trubeckoj, tra l'altro, provocatoriamente aveva già proposto proprio per l'indoeuropeo) alla protolingua come ad un diasistema, allora non ci stupiremo più di trovare "indizi" culturali non del tutto coerenti, che puntano in direzioni diverse: questa relativa polivocità è infatti intrinseca ed ineliminabile nell'oggetto ricostruito stesso.

[tav. 2.15] Le proposte degli ultimi quarant'anni sulla localizzazione dell'Urheimat indoeuropea. Riprodotto da James P. Mallory, In Search of the Indo-Europeans, London, Thames and Hudson, 1989, p. 144.

Ciò non toglie che alcune coordinate in cui situare l'insorgere del fenomeno indoeuropeo si possono senz'altro cogliere, anche se poi bisogna essere molto cauti nel tracciarne le conseguenze. È, naturalmente, soprattutto il lessico, con tutte le sue correlazioni culturali ed ambientali, a fornire gli indizi migliori. Un esempio classico, che è stato molto sfruttato, è quello della presenza del faggio e del salmone nel protolessico ricostruito: dato che la diffusione di queste due specie nel mondo è peculiare, questa può essere messa in relazione alla localizzazione dell'indoeuropeo:

[tav. 2.16] La ricostruzione del protolessico come strumento per la localizzazione protolinguistica: la distribuzione geografica del faggio e salmone. Riprodotto ed adattato da James P. Mallory, In Search of the Indo-Europeans, London, Thames and Hudson, 1989, p. 160.

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Un altro possibile approccio al problema dell'Urheimat è quello di fare coincidere l'identikit culturale dell'indoeuropeo (che possiamo trarre dalla ricostruzione culturale del protolessico, come compiuta da Émile Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris, Éditions de Minuit, 1969) con quello di una "cultura" archeologica, collocata nel tempo e nello spazio in una zona compatibile con gli altri requisiti "ambientali" del protolessico. L'ipotesi che potremmo chiamare "classica", proposta dall'archeologa Marija Gimbutas nel 1968 e 1970, in cui molti indoeuropeisti, specie i più tradizionalisti, credono ancora, è appunto fondata in questo modo. Si tratta dell'ipotesi dei kurgan, che mette in connessione l'indoeuropeo con una "cultura" di tipo guerriero diffusa nelle steppe ponto-baltiche c. 4500-2500 a.C. e nota a partire da particolari sepolture a tumulo (dette, appunto, kurgan):

[tav. 2.17] L'origine dell'indoeuropeo. L'ipotesi dei kurgan: steppe ponto-baltiche c. 4500-2500 a.C. Riprodotto da Encyclopedia of Indo-European Culture, edited by James P. Mallory and Douglas Q. Adams, London - Chicago, Fitzroy Dearborn Publishers, 1997, p. 299.

Questi dati archeologici, va inoltre detto, troverebbero qualche conferma anche in un altro ordine di argomenti ausiliari: quelli genetici. La mappa della terza componente genica principale dell'Europa (tra le sette individuate da Cavalli-Sforza) disegna un tracciato affatto paragonabile a quello della diffusione della cultura dei kurgan:

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[tav. 2.18] Mappa della terza componente principale genica dell'Europa secondo Cavalli-Sforza. C'è una buona coincidenza tra l'area caspica in nero e la diffusione dei ritrovamenti archeologici dei kurgan. Riprodotto da Luigi Luca Cavalli-Sforza - Paolo Menozzi - Alberto Piazza, The History and Geography of Human Genes, Princeton University Press, 1994; trad. it. Storia e geografia dei geni umani, Milano, Adelphi, 1997, p. 552.

Ancora dall'archeologia sono però poi venute anche nuove proposte. La cosiddetta "nuova archeologia" degli anni Settanta ed Ottanta, con le rivoluzionarie datazioni al radiocarbonio (C14) e le "calibrazioni" ottenute con la dendrocronologia (il libro più rappresentativo è Colin Renfrew, Before Civilization. The Radiocarbon Revolution and Prehistoric Europe, Cambridge University Press, 1979; trad. it. L'Europa della preistoria, Roma - Bari, Laterza, 1987), hanno ormai completamente sconvolto la tradizionale visione della preistoria europea come ci era stata consegnata dal grande V. Gordon Childe a partire dagli anni Venti (cfr. il suo riassuntivo The Prehistory of European Society, London, Penguin, 1958; trad. it. La preistoria della società europea, Firenze, Sansoni, 1979 [1958]). Questo sconvolgimento ha avuto la sua eco anche nell'indoeuropeistica, dato che le nuove datazioni al radiocarbonio dei siti connessi con l'espansione dell'agricoltura neolitica hanno suggerito una nuova interessante proposta sull'Urheimat indoeuropea, e sulla indoeuropeizzazione d'Europa. Questi sono i dati archeologici:

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[tav. 2.19] Diffusione dell'agricoltura in Europa in base ai più antichi siti di insediamenti agricoli datati al radiocarbonio (non calibrato) fino al 1965. Riprodotto da Colin Renfrew, Archeology and Language. The Puzzle of Indo-Europeans origins, London, Jonathan Cape, 1987 (trad it. Archeologia e linguaggio, Roma - Bari, Laterza, 1989, p. 169), a sua volta basato su J. D. G. Clark, Radiocarbon Dating and the Expansion of Farming from the Near East over Europe, in "Proceedings of the Prehistoric Society" XXI (1965) 58-73.

Questi dati, tradotti in uno schema di fasce isocrone, restituirebbero l'immagine seguente:

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[tav. 2.20] Mappa isocrona della diffusione dell'agricoltura in Europa, basata sui dati archeologici della tavola precedente; le isocrone sono tracciate ad intervalli di 500 anni. Riprodotta da Albert J. Ammerman - Luigi L. Cavalli-Sforza, The Neolithic Transition and tha Genetics of Population in Europe, Princeton, Princeton University Press, 1984; trad it. La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa, Torino, Boringhieri, 1986.

La mappa archeologica dell'espansione dell'agricoltura neolitica trova una corrispondenza impressionante con quella della prima componente genica principale dell'Europa, che, secondo Cavalli-Sforza «costituisce la spina dorsale della genetica europea». Tanto che non possono sussistere dubbi che le due mappe rappresentino epifenomeni diversi dello stesso evento storico:

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[tav. 2.21] Mappa della prima componente principale genica dell'Europa secondo Cavalli-Sforza. Si noti la pressoché perfetta coincidenza con la diffusione dell'agricoltura neolitica della tavola precedente. Riprodotto da Luigi Luca Cavalli-Sforza - Paolo Menozzi - Alberto Piazza, The History and Geography of Human Genes, Princeton University Press, 1994; trad. it. Storia e geografia dei geni umani, Milano, Adelphi, 1997, p. 550.

L'idea che questo maggiore evento genico-culturale nella costruzione della popolazione europea non debba essere messo in rapporto anche con l'altro suo più grande evento, l'indoeuropeizzazione linguistica, sorge spontaneo, anche se resterebbero da spiegare i dati contradditori della ricostruzione culturale (bellica e non agricolturale) e dei dati archeologico-genetici relativi ai kurgan.Nella sua forma dura e pura, con datazione intorno all'Ottavo millennio a.C. e con ricostruzione dell'Urheimat in Anatolia, la tesi neolitica è stata sostenuta dallo stesso Colin Renfrew nello stimolante volume Archaeology and Language: the Puzzle of Indo-European Origin, London, Jonathan Cape, 1987 (trad. it. Archeologia e linguaggio, Roma - Bari, Laterza, 1989), ma è stata in genere accolta con scarso favore dai linguisti. In una forma modificata, ed appoggiata ad una ricostruzione linguistica e culturale di smisurata portata, è stata invece sostenuta dagli studiosi Tamaz Valerianoviĉ Gamkrelidze (un georgiano) e Vjaĉeslav Vsevolodoviĉ Ivanov (un russo) in un'opera (cui abbiamo già attinto, riportandone gli estremi bibliografici, la tav. 4 della classificazione "ad albero ammodernato" delle lingue indoeuropee) che rappresenta probabilmente il contributo indoeuropeistico più vasto ed innovatore di tutta la seconda metà del Novecento. In questa variante, che prevede una cronologia intorno al Sesto millennio ed immagina l'Urheimat in una zona di poco più orientale di quella di Renfrew, coincidente con la zona del lago Van, ossia l'Armenia moderna e l'Urartu antica, è diventata, insieme alla teoria più tradizionalista dei kurgan, la teoria più spesso accettata nella comunità linguistica:

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[tav. 2.22] L'origine dell'indoeuropeo. L'ipotesi neolitica dell'onda di avanzamento dell'agricolura: tra Anatolia ed Armenia c. 6000 a.C. Adattato da Encyclopedia of Indo-European Culture, edited by James P. Mallory and Douglas Q. Adams, London - Chicago, Fitzroy Dearborn Publishers, 1997, p. 297 in base a Tamaz Valerianoviĉ Gamkrelidze - Vjaĉeslav Vsevolodoviĉ Ivanov, Indoevropejskij jazyk i indoevropejcy. Rekonstrukcija i istoriko-tipologiĉeskij analiz prajazyka i protokultury, t. II, Tbilisi, Izdatel'stvo Tbilisskogo Universiteta, 1984.

Decidere tra le due alternative non è certo facile. Personalmente sono piuttosto favorevole (come, con piccole varianti, molti indoeuropeisti, tra cui linguisti come Martinet) all'idea di una indoeuropeizzazione avvenuta in ondate successive, di cui una quella kurganica, ma sempre a partire da una fase iniziale neolitica alla Ivanov e Gamkrelidze. Ma i giochi sono ancora del tutto aperti.

3. Il linguaggio.

3.1 Linguaggio, strutture specializzate e acquisizione.

3.1.0 L'opposizione mind - brain e l'emergere di strutture specializzate.Il linguaggio umano, ormai ci è ben evidente, è un sistema estremamente complesso; come tale deve appoggiarsi a strutture specializzate per poterlo gestire. Alcune di queste strutture sono propriamente fisiologiche, come l'apparato fonatorio (che esamineremo perlando della fonetica), l'apparato auditivo, il cervello ed il sistema nervoso, altre più propriamente mentali come la memoria.Dire "mentali", nell'accezione più intuitiva, vale 'dotate senz'altro di un sostrato fisiologico, ma ad esso non intieramente riducibili': in realtà l'opposizione tra mente e cervello o (come più spesso si dice, essendo la moderna filosofia della mente prevalentemente di area anglofona) mind - brain è uno dei problemi più dibattuti nella filosofia moderna: proprio intorno a questo problema si è

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sviluppata la cosiddetta Cognitive science e molta parte della moderna filosofia analitica. Cosa, in effetti, possa o debba più precisamente intendersi per "mentale" è un problema complesso quanto affascinante, che non possiamo certo approfondire adeguatamente qui. Ci basti ricordare che tutta la tradizione linguistica che si richiama a Saussure e tutta la tradizione filosofica che si rifà a Brentano ed alla sua nozione di "intenzionalità" sostengono la radicale alterità degli stati mentali (cfr. la "inesistenza intenzionale") dagli stati di cose (fisicità e natura); una consistente parte dei moderni filosofi della mente (tra cui Chomsky) ne sostengono invece la riducibilità agli stati naturali, ossia la loro "naturalizzazione". Da un lato, pertanto, si accentua l'opposizione mente - cervello, e dall'altra si cerca di ridurre il più possibile la mente al cervello.

Le strutture per gestire il linguaggio (assumendo che una distinzione tra l'ordine del mentale e l'ordine del fisiologico di fatto ci sia, la si spieghi poi come si vuole) sono frutto dell'evoluzione alla pari di tutti gli altri organi degli esseri viventi. Un "sistema nervoso" (che comprende le strutture associate al linguaggio), ad esempio, è stato sviluppato solo negli animali ("Metazoa"), ma un sistema centralizzato anziché una mera rete di gangli nervosi è innovazione di un solo gruppo di animali, i "Cordata", al cui sottogruppo "Vertebrata" appartengono i principali animali superiori (pesci, rettili, uccelli, anfibi, mammiferi), e pertanto anche l'uomo. Per rendersi conto della "singolarità" evolutiva dei vertebrati rispetto agli altri animali considerate la tavola seguente:

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[tav. 3.1] La filogenesi degli animali (Metazoa): l'albero del regno "Metazoa". Riprodotto da Claus Nielsen, Animal Evolution. Interrelationships of the living phyla, 2nd edition, New York, Oxford University Press, 2001.

3.1.1 Memoria e linguaggio.Intuitivamente, tutti sappiamo cosa è la memoria, e consideriamo il linguaggio come qualcosa di strettamente legato (nel senso la langue è qualcosa che deve essere "ricordato" dall'individuo). In generale, la memoria, le sue strutture fisiologiche ed il suo funzionamento, sono stati studiati molto approfonditamente, tanto da psicologi e linguisti quanto da neurologi e medici, sicché possiamo dire di averne una discreta conoscenza. Il primo dato interessante è che anche la memoria sembra una struttura frutto dell'evoluzione naturale. Tutti i mammiferi, ad esempio, uomo compreso sembrano condividere la stessa impostazione di funzionamento:

[tav. 3.2] Il funzionamento della memoria nei mammiferi: riprodotto da Richard F. Thompson, The brain. A Neuroscience Primer, 3rd edition, New York, Worth Publishers, 2000, p. 354. L'informazione sensoriale entra in un "registro sensoriale" ("memoria iconica") dove è mantenuto per un tempo brevissimo (nell'ordine dei decimi di secondo: la dimostrazione risale a G. Sperling nel 1960). Alcune di queste informazioni sono scartate, altre invece sono trasferite nella "memoria operativa a breve termine" (nell'ordine delle decine di secondi), parte delle quali è poi salvata, in genere dopo essere stata adeguatamente esercitata, nella memoria a lungo termine (di durata teoricamente illimitata), mentre un altra parte viene definitivamente persa (alcune informazioni visive, inoltre, possono passare direttamente dal registro sensoriale alla memoria a lungo termine). Seguendo la via contraria, invece, le informazioni sono recuperate dalla memoria profonda, trasferite nella memoria operativa, e poste in esecuzione.

Particolarmente interessante è che la memoria operativa sembra coincidere con la consapevolezza e con quello che chiamiamo di solito "coscienza", mentre la memoria a lungo termine ha più le caratteristiche dell' "inconscio" (è cioè un gigantesco serbatoio di conoscenze delle quali non siamo propriamente consapevoli, ma alle quali attingiamo al bisogno riportandole nella memoria operativa a breve termine). La concezione della memoria a breve termine come "coscienza", frequente in neuroscienza, converge anche nella nozione di intenzionalità, così come la avevamo definita, e rende linguisticamente assai interessante il problema della Animal Consciousness: la tradizione

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filosofica (Cartesio) e la religione (cattolicesimo) occidentali negavano infatti agli animali una "coscienza"!

Quanto al linguaggio (la "langue") dovrebbe, ragionevolmente, essere depositato nella memoria a lungo termine. In realtà, dobbiamo ormai specificare ulteriormente il nostro discorso: quando si parla di "memoria" intendiamo, in effetti, molte strutture diverse, solo con alcune delle quali il linguaggio ha relazioni:

[tav. 3.3] I principali tipi di memoria a lungo termine: riprodotto da Richard F. Thompson, The brain. A Neuroscience Primer, 3rd edition, New York, Worth Publishers, 2000, p. 365. La memoria non dichiarativa è procedurale, implicita (è relativa al "come"), quella dichiarativa è esplicita (ed è relativa al "cosa").

Il linguaggio, nello schema precedente, è posto nella memoria dichiarativa, più precisamente in quel suo sottotipo che è la "conoscenza semantica" (in base alla quale, ad es., uno ricorda il significato delle parole o le tabelline aritmetiche, ma non "quando" le ha imparate) - l'altro sottotipo è la "memoria episodica" (in base alla quale, ad es., uno ricorda cosa ha mangiato a pranzo, o chi ha incontrato il giorno prima, ecc.).

Un dato interessante dello schema precedente è che le principali strutture "mentali" (tipi di memoria) sono messi in relazione alle strutture materiali (aree del cervello). Un ruolo centrale, in particolare, sembra giocato dall' "ippocampo", nel lobo medio temporale (ne sono presenti due, uno nel lato destro ed uno nel lato sinistro): è infatti famoso nella letteratura medica il caso di HM, un paziente che dovette subire la rimozione di entrambi gli ippocampi sviluppando una amnesia anterograda (vive esclusivamente nel presente, in tutto normale se non nella impossibilità di immagazzinare nuove informazioni ed esperienze nella memoria a lungo termine).Analoghe esperienze cliniche hanno però insegnato che le aree del cervello coinvolte dall'attività linguistica sono soprattutto altre, nell'adulto di solito localizzate nel solo emisfero destro (anche se questa "lateralizzazione" non è assoluta: nel bambino entrambi gli elisferi sono coinvolti, e solo gradualmente si specializza il destro), in particolare l'area di Broca e l'area di Wernicke:

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[tav. 3.4] Le principali strutture fisiologiche (emisfero destro) del cervello coinvolte nell'attività linguistica: riprodotto da Richard F. Thompson, The brain. A Neuroscience Primer, 3rd edition, New York, Worth Publishers, 2000, p. 442.

In particolare, l'area di Broca (riassumo e traduco le parole di Thompson cit. p. 442), che è vicina alle zone "motorie" della corteccia cerebrale che controllano i muscoli dell'apparato fonatorio (lingua, ecc.), sembra controllare la coordinazione di questi muscoli nel parlato: lesioni all'area di Broca provocano difficoltà nel parlare, ma non intaccano la comprensione. L'area di Wernicke, invece, che è più vicina alle aree che ricevono gli stimoli acustici (Herschel gyrus) e che le connettono (angular gyrus) con le aree della visione (corteccia visiva), sembra più legata alla elaborazione semantica: in caso di lesioni all'area di Wernicke la fonazione è fluente, ma senza senso, e la comprensione è persa. Entro certi limiti, sembra quindi che la distinzione tra signifiant e del signifié sia riprodotta anche al livello fisico delle strutture cerebrali.In realtà, recentissimi (la notizia è del giugno 2003) studi svolti da Andrea Moro, un linguista attualmente all'Università San Raffaele di Milano, rivendicano un ruolo ancora più importante all'area di Broca, che è risultata coinvolta nell'uso delle regole effettive della lingua, ma non in quelle "finte" inventate dai ricercatori: ruolo che la candiderebbe (dal punto di visto chomskyano) a principale sede del linguaggio. Un resoconto di facile leggibilità, di mano di M. Piattelli Palmarini, è ora consultabile sul web.

3.1.2 Acquisizione del linguaggio: introduzione al problema.Un altro interessante punto, oltre a dove viene immagazzinato ed quali strutture si appoggia il linguaggio, è come viene acquisito - e se viene acquisito (non è infatti qui in questione l'apprendimento di una lingua seconda, "L2", quanto la acquisizione della propria madrelingua, "L1", ossia de "linguaggio" tout court). La letteratura sull'apprendimento del linguaggio è sterminata, ed i suoi caposaldi sono riportati in tutti i manuali di glottodidattica, cui possiamo rimandare (da Giovanni Freddi, Psicolinguistica, sociolinguistica, glottodidattica, Torino, UTET, 1999 a Camilla Bettoni, Imparare un'altra lingua, Bari, Laterza, 2001). A noi, però, in questo momento non interessano tanto gli aspetti "applicati" quanto quelli "teorici", ed in questo senso vanno intesi i pochi appunti seguenti.

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Schematizzando al massimo, vi possono essere due modi diversi di impostare il problema, ossia, estremizzando le posizioni: (1) nasciamo già "sapendo", già possediamo il linguaggio ed "imparare" vuole solo dire esercitare e portare alla coscienza; (2) alla nascita "non sappiamo" ancora nulla, non possediamo già il linguaggio, e siamo una tabula rasa che dobbiamo riempire inparando dall'esperienza.

3.1.3 Innatismo vs. empirismo in filosofia.La polarità di questo dibattito tra innatismo ed empirismo, al di là dell'aspetto specifico del linguaggio, è ben noto si può dire da sempre nella filosofia occidentale. La prima formulazione esplicita dell'innatismo risale a Platone (427-347 a.C.; cfr. soprattutto i dialoghi Fedro, Fedone e Menone, dei quali non v'è un e-text in italiano, ma si può liberamente scaricare almeno la versione inglese dal Project Gutenberg), con la sua concezione delle idee innate, che l'uomo non deve fare altro che "ricordare"; le prime critiche, invece, ad Aristotele, con la sua rivalutazione dell'esperienza come fonte di conoscenza.

È tuttavia alla fine del Seicento che si assiste ad una migliore definizione, in senso moderno, del problema: da un lato abbiamo la radicale confutazione, su base empiristica, dell'innatismo da parte dell'inglese John Locke (1632-1704) nel primo libro de An Essay Concerning Human Understanding, con argomentazioni che riteniamo ancora oggi valide e conclusive; dall'altro lato abbiamo la riaffermazione idealistica su base razionalistica (la "mente" fa le veci delle "idee" di Platone ed è distinta dal "corpo" fisico), dell'innatismo da parte di Cartesio (cfr. anche Descartes' Epistemology), o meglio René Descartes (1596-1650).

3.1.4 Comportamentismo e funzionalismo in psicologia.È soprattutto nella psicologia del Novecento, tuttavia, che il dibattito delineato nel paragrafo precedente ha trovato espressioni che sono state spesso trasportate anche nella teoria e nella pratica della linguistica.

Un valoroso tentativo di fondare la psicologia su basi empiriste è il comportamentismo (o behaviourismo), una teoria psicologica fondata dall'americano John Broadus Watson (1878-1958) nel 1913 (con l'articolo Psychology as a Behaviorist Views It, in " Psychological Review" XX (1913) 158-77), e sostenuta poi in termini più radicali da Burrhus Frederik Skinner (1904-90). Incidentalmente, visto che il comportamentismo ha ispirato molti programmi glottodidattici (fino grosso modo agli anni Settanta) che oggi si concorda nel ritenere superati e meno efficaci di altri, in molti manuali di glottodidattica circola un ritratto perlomeno ingeneroso del behaviourismo e soprattutto del povero Skinner che, ad onta del parziale fallimento dei programmi didattici a lui ispirati, fu uno studioso di irreprensibile livello scientifico.

Il postulato fondamentale, d'altra parte, del behaviourismo è solo che (1) la psicologia studia il comportamento e non la mente, e che (2) le fonti del comportamento sono esterne, nell'ambiente, e non interne, nella mente. Nelle sue formulazioni più radicali (e non condivisibili), viene tuttavia anche sostenuta la posizione che (3) non esiste (e non solo che non è direttamente studiabile) altra attività mentale al di fuori dei comportamenti.

Come che sia, in questo quadro teorico il comportamento può essere spiegato senza fare riferimento ad eventi mentali interni: empiristicamente, dunque, si vuole limitare il ricorso della psicologia ai soli dati osservabili (il che è scientificamente opportuno), ed eliminare il problema del dualismo tra "mente" e "corpo" introdotto da Cartesio "riducendo" (il che è meno opportuno) la mente al comportamento. Siamo, in ultima analisi, di fronte ad un tentativo di riduzione del mentale analogo, come strategia, ma ben diverso nella sostanza, a quello che compieranno i filosofi mentalisti (come

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Chomsky) "naturalizzatori": gli uni riducono gli stati mentali a comportamenti (cioè alle loro manifestazioni), gli altri direttamente ad oggetti naturali.

Oltre al behaviourismo (su cui mi sono soffermato anche per compensare le carenze della manualistica glottodidattica) un'altra teoria meno radicale ma ugualmente "riduzionista" è il funzionalismo, in quanto riduce gli stati mentali a stati funzionali anziché a comportamenti; e dire "stati funzionali" vuole in generale dire 'stati non sempre riconducibili a motivazioni empiriche dirette': le "funzioni" sono pertanto di solito più complesse, nella loro origine e nel loro ruolo, dei semplici schemi "stimolo-risposta" del behaviourismo.

In realtà, si dovrebbe parlare di vari tipi di funzionalismo, dato che se ne sono date diverse forme nella storia del pensiero novecentesco. Almeno due accezioni principali vanno considerate tra le molte.Il "primo" funzionalismo, come potremmo chiamarlo, è quello fondante, fortemente legato alla filosofia americana di fine Ottocento ed alla tradizione del pragmatismo. È stato principalmente espressa ne The principles of Psychology (1890) di William James e ne The New Psychology (1884) di John Dewey. Per riassumere drasticamente, potremmo dire che, in una prospettiva al contempo pragmatista ed evoluzionista, questa teoria sosteneva che le funzioni mentali sono attività globali e non scomponibili (ossia non interpretabili se non olisticamente: in realtà ogni attività di un organismo vivente è un processo globale e continuo), ossia "processi dinamici" di carattere strumentale utili all'adattamento.

L'altra forma importante è quella del "funzionalismo da macchina di Turing", che intende le funzioni come delle specie di programmi, e la mente come una specie di computer, o meglio, nella sua forma più semplice, di "macchina di Turing" (così chiamata dal matematico che la propose), che è un tipo di automa (nel senso di software di computer) fortemente semplificato.

«A Turing machine is an abstract representation of a computing device. It consists of a read/write head that scans a (possibly infinite) one-dimensional (bi-directional) tape divided into squares, each of which is inscribed with a 0 or 1. Computation begins with the machine, in a given "state", scanning a square. It erases what it finds there, prints a 0 or 1, moves to an adjacent square, and goes into a new state. This behavior is completely determined by three parameters: (1) the state the machine is in, (2) the number on the square it is scanning, and (3) a table of instructions. The table of instructions specifies, for each state and binary input, what the machine should write, which direction it should move in, and which state it should go into. (E.g., "If in State 1 scanning a 0: print 1, move left, and go into State 3".) The table can list only finitely many states, each of which becomes implicitly defined by the role it plays in the table of instructions. These states are often referred to as the "functional states" of the machine. A Turing machine, therefore, is more like a computer program (software) than a computer (hardware).»

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[tav. 3.5] Cos'è in breve una "macchina di Turing" secondo la Stanford Encyclopedia of Philosophy.

In sostanza il «Turing machine functionalism, - per usare ancora le parole della già citata Internet Encyclopedia - proposed by Hilary Putnam [che tuttavia cambierà più tardi idea!], uses as its model a special theoretical mechanical device (the Turing machine). Most succinctly, the machine (a) receives input, (b) carries out the instructions of the input program, (c) changes its internal state, and (d) produces an appropriate output based on the input and instructions. A pop machine, for example, shows these features insofar as it has instructions on various acceptable inputs with various associated behavioral outputs. Based on this model, Putnam argues that humans are probabilistic automatons».

I tentativi, comunque, anche se da un certo punto di vista nobili, del behaviourismo e del funzionalismo, non risolvono certo tutti i problemi, ad esempio il primo non rende conto degli stati mentali non accompagnati da comportamento, ed il secondo tanto degli stati mentali soggettivi e privati quanto degli stati intenzionali come le credenze ed i desideri. Entrambi questi punti sono stati dimostrati dal filosofo John Searle con il famoso "esperimento mentale della Camera Cinese" (J. Searl, Minds, Brains and Programs, in "Behavioural and Brain Sciences" III (1980) 417-457 e The Chinese Room Revisited, ibidem V (1982) 345-348), indirizzato, in realtà, soprattutto contro il "funzionalismo da macchina di Turing".

«Immaginate di essere chiusi a chiave in una stanza che ha due finestre; attraverso una delle due finestre vi passano un fascio di fogli con dei segni che sembrano scrittura. Si trattano in effetti di ideogrammi cinesi, ma voi non sapete il cinese: per voi sono solo dei ghirigori senza senso. Ma vi vengono anche passate delle istruzioni (scritte in italiano, che voi conoscete) che vi dicono come fare corrispondere i segni che entrano dalla prima finestra a degli altri segni, per voi non meno incomprensibili, che vi si chiede di far passare attraverso l'altra finestra. Dopo un po', diventate abilissimi a seguire le istruzioni, sicché la messa in corrispondenza dei segni si svolge molto velocemente; ma ancora non capite che cosa sta succedendo. Ora, si scopre che la prima serie di segni erano domande (in cinese), e le istruzioni vi insegnavano a far loro

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corrispondere le risposte pertinenti (erano i segni che facevate passare dalla seconda finestra). Non sapevate il cinese prima, e continuate a non saperlo ora nonostante l'abilità che avete acquisito nel far corrispondere le due serie di segni; siete certamente in grado di manipolare i segni molto rapidamente seguendo le istruzioni che avete ricevuto, ma ancora non li comprendete. Ora, secondo Searle un computer su cui è implementato un sistema di comprensione del linguaggio naturale è esattamente nelle vostre condizioni: è in grado di manipolare simboli (che identifica in base alla loro forma) secondo regole tanto da emulare una seduta di domande e risposte, o qualsiasi altra prestazione linguistica; ma non capisce i simboli che manipola più di quanto voi, chiuso nella stanza, comprendiate il cinese.»

[tav. 3.6] Un chiaro ma succinto resoconto in italiano dell'esperimento mentale della camera cinese di Searle è quello fatto da Diego Marconi in La competenza lessicale, Roma - Bari, Laterza, 1999, pp. 161-2, da cui è tratta la citazione in tav. 6.

Al di là, in effetti, del confutare singoli aspetti del comportamentismo e del funzionalismo (un osservatore esterno crederebbe che voi comprendiate il cinese, allo stesso modo - ricordate? - che nell'esperimento mentale di Wittgenstein della partita di scacchi solo apparente che avevamo visto?), l'esperimento mentale di Searle mira proprio a mettere in discussione l'idea generale che la nostra mente funzioni come una sorta di computer (o di "macchina di Turing"): processamento di operazioni e loro comprensione in questo esperimento sembrano infatti cose distinte.

[tav. 3.7] La convinzione che intelligenza artificiale ed intelligenza umana siano in qualche misura costituzionalmente diverse riflette anche una opinione (fondata od infondata che sia) abbastanza diffusa a livello di comune sentire: che in fin dei conti è proprio quello espresso da Garfield in questa spiritosa striscia. Riprodotto da Jim Davis, Garfield rounds out, New York, Ballantines Books, 1988.

3.1.5 Apprendimento ed innatismo in grammatica generativa.Ad ogni buon conto, pur tra singoli problemi, il panorama della scena filosofica e psicologica fino all'inizio degli anni Sessanta del Novecento, era dunque sostanzialmente dominato da teorie di tipo empiristico, per cui tutti gli stati mentali sono determinati dall'esterno da fatti del mondo, apprendimento del linguaggio compreso. A spezzare il fronte è stato nel 1957 Noam Chomsky (di cui già abbiamo parlato) con la linguistica generativa, cui presto si alleeranno il cognitivismo in psicologia, ("nato" nel 1967 con un lavoro di U. Neissert), la filosofia e le altre scienze cognitive, cui pure abbiamo già accennato.

Avendendo visto nel § 1.4.3 la filiazione filosofica platonico-cartesiana dell' innatismo, è facile immaginare come Chomsky non possa non posizionarsi su questa linea. Al di là delle sue preferenze filosofiche, comunque, l'argomento principe che Chomsky usa è di tipo piuttosto empirico che non teorico. Si tratta della facilità con cui un bambino impara uno strumento complesso come il linguaggio in relativamente poco tempo ed in modo naturale e spontaneo

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(l'adulto è limitato alla correzione sporadica, non interviene remunerando od allenando), soprattutto paragonata alla difficoltà con cui un adulto impara una lingua straniera: l'output (strutture linguistiche che il bimbo produce) sembra superare l'imput (stimolo dato dalle persone che circondano il bimbo). «La vecchia idea - per usare le parole di Paolo Casalegno, Filosofia del Linguaggio, Roma, Carocci, 1998, p. 328 - che imparare a parlare voglia dire sviluppare un sistema di disposizioni al comportamento verbale indotto da un qualche semplice meccanismo di rinforzo è [...] vistosamente inadeguata». Bisogna pertanto, per Chomsky, ritornare, a Platone ed ipotizzare che i bambini pervengono facilmente a parlare perché la conoscenza del linguaggio è in larga misura innata. Chomsky, però, a differenza di Platone non pensa alla teoria dell'anamnesi (imparare equivale a fare riaffiorare il ricordo di ciò che l'anima ha dimenticato nascendo), quanto ad una fondazione biologica ed evoluzionistica di tutte quelle facoltà, strutture e disposizioni che si possono intendere come l'organo, geneticamente predeterminato, del linguaggio o facoltà del linguaggio (ricordate che nelle nostre definizioni generali nel § 1.0.1 avevamo usato anche questa formulazione?).Questo "organo" (a volte indicato come LAD "Language Acquisition Device") si sviluppa come gli altri "organi" dell'uomo: si attiva solo in base all'esposizione a fattori esterni (uso di una data lingua nell'ambiente circostante), cresce ed è pienamente funzionale solo tra i quattro ed i dodici anni, poi si atrofizza. Chomsky, più esattamente, ha in mente una struttura a principi (universali del linguaggio) e parametri (attivabili singolarmente dalle singole lingue), che potrebbe dare conto tanto della diversità delle lingue naturali (che in genere, però, il generativismo tende a sottostimare) quanto della uniformità della Grammatica Universale (che, invece, il generativismo tende a esaltare): non è però qui la sede per sostare diffusamente sullo schema "a principi e parametri", dato che ci si sofferma adeguatamente già il manuale di Graffi e Scalise.

La teoria chomskiana ha senz'altro avuto il grande merito di gettare il sasso nello stagno, riportando all'attenzione il problema della mente (Chomsky, anzi, si richiama in modo esplicito e decisamente controcorrente proprio a Cartesio) collegandolo alla biologia evoluzionistica ed al dibattito filosofico contemporaneo. Non è però detto che debba rappresentare l'ultima parola, o che risolva tutti i problemi sul tappeto: nonostante la sua teoria presenti certo «difficoltà, Chomsky è un autore con il quale ci si deve cimentare per forza», per dirla con le parole del filosofo Paolo Casalegno in una delle più valide introduzioni recenti alla filosofia del linguaggio (Paolo Casalegno, Filosofia del linguaggio. Un'introduzione, Roma, Carocci, 1997; la cit. è da p. 327; si noti, tra l'altro, che pure nella prospettiva "filosofica" del volume un intero capitolo, il 12, è monograficamente dedicato a Chomsky. Tale capitolo, inoltre, costituisce una buona introduzione a Chomsky consigliabile a tutti, dato che limita al minimo il "tecnicismo" linguistico).

3.1.6 Oltre il generativismo: linguistica computazionale e reti neurali.Un punto empiricamente debole della teoria chomskyana è la questione dell'arresto completo dell'acquisizione linguistica naturale intorno ai dodici anni: questa è, infatti, stata più volte messa in discussione, anche se è in genere data per scontata dalla maggioranza dei linguisti contemporanei (soprattutto dai glottodidatti). Naturalmente in anni di behaviourismo dominante si riteneva (con pochi dati alla mano, in verità) il contrario (come esempio farò il nome di un solo grande linguista americano, che si può considerare il padre della moderna linguistica in America, Leonard Bloomfield, 1877-1949), ma per attendere una falsificazione sperimentale oggettiva dobbiamo attendere tempi più recenti, ed in particolare la maturazione della linguistica computazionale. La linguistica computazionale, nata accanto allo sviluppo dell'informatica e dei calcolatori, cresciuta a partire dagli anni Settanta ed ora in piena espansione, si occupa del trattamento automatico e dell'analisi assistita dai calcolatori del linguaggio naturale. I dati linguistici che analizza ed elabora sono di solito costituite da corpora, ossia grandi collezioni di enunciati effettivamente prodotti in una determinata lingua (che possono andare dai testi scritti, letterari o meno, alle registrazioni di

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testi orali, siano esse conversazioni spontanee o meno), che vengono trattati in modo da renderli utilizzabili dalle macchine. Sono, ossia, da un punto di vista chomskyano, semplici raccolte di esecuzioni (di atti di "parole", diremmo noi, ed in ciò teoricamente niente affatto diverse dai materiali che studiavano i linguisti-filologi prima di Saussure e gli strutturalisti dopo): non stupirà, pertanto che Chomsky abbia ripetutamente sostenuto che da un corpus il linguista non può imparare nulla. In ciò, almeno in questo, sbagliandosi, come si può vedere da questo caso. Da quando è stato messo a disposizione il British National Corpus o BNC, si sono potuti avere dati controllabili scaglionati su fasce di età diverse di parlanti inglese, in base ai quali Geoffrey Sampson ha potuto far vedere che l'uso di strutture sintattiche incassate aumentava col progredire degli anni, confutando così che l'aquisizione si arresti completamente a dodici anni:

[tav. 3.8] Correlazioni demografiche della complessità sintattica (central embedding) in inglese (BNC Corpus, subcorpus CHRISTINE). Riprodotto da Geoffrey Sampson, Empirical Linguistics, London - New York, Continuum, 2001, p. 62

L'obiezione che i dati raccolti nel BNC siano solo "esecuzioni" e non riguardino la "competenza" stenta a questo punto a convincerci (anzi, mostra la debolezza intrinseca di un rifiuto generalizzato della "parole" come oggetto d'indagine della linguistica), così come l'esperienza comune a tutti che imparare una lingua da adulti è molto più difficile che non da bambini, non è necessariamente una prova conclusiva (da bambini, ad esempio, correvamo e giocavamo tutto il giorno, ora da adulti non reggeremmo una simile iperattività fisica neanche per poche ore, anche se siamo naturalmente sempre in grado di correre, saltare, ecc.: entrambi i fenomeni potrebbero rientrare nel normale sviluppo dell'invecchiamento). Sulla base di considerazioni di questo tipo, Geoffrey Sampson, che è uno dei più importanti linguisti computazionali britannici, ha proposto un programma, polemicamente antigenerativista e che recupera alcune istanze (le migliori) del behaviourismo, che ha chiamato Empirical Linguistics (cfr. Geoffrey Sampson, Educating Eve. The "Language Instinct" debate, London - New York, Cassell, 1997 e Geoffrey Sampson, Empirical Linguistics, London - New York, Continuum, 2001).

Ma a fare intravedere soluzioni parzialmente diverse, e più "empiriche", di quella del generativismo ortodosso, sono anche le reti neurali, sviluppate nel corso degli ultimi vent'anni in ambito dell' intelligenza artificiale. Una rete neurale, semplificando all'osso, è una simulazione informatica di un circuito cerebrale: consiste in una rete di nodi-neuroni connessi ad altri nodi, con delle connessioni-

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sinapsi che hanno un determinato "peso sinaptico" con valori da 1 (eccitazioni) a -1 (inibizioni); la rete può imparare, in quanto il peso sinaptico delle connessioni può variare in base all'esperienza. Su queste basi, sono state progettate delle reti neurali come modelli per simulare il processo della acquisizione linguistica. L'esperienza più significativa è stata la rete sviluppata da David Rummelhart e Jay McClelland nel 1986 per l'apprendimento dei tempi passati dei verbi, poi espansa dallo stesso McClelland e Mark Sedemberg nel 1989 per un apprendimento più generale del linguaggio. «The input of the network - riporto la efficace descrizione di Richard F. Thompson, The brain. A Neuroscience Primer, 3rd edition, New York, Worth Publishers, 2000, pp. 455-456 - was simply verbs and their past tenses. The rules for forming past tenses were not put into the network; instead it had to learn these rules by example. The investigators fed verbs and their past tenses into the network in proportion to their frequency of use in English. A key issue was how the networks learned to form correct past tenses of regular and irregular verbs. The astonishing result was that the network seemed to learn the past tenses of verbs much as young children do. It learned the general rules for forming regular past tenses before it learned to form the past tenses of irregular verbs correctly. Thus, during the learning process it formed regular past tenses for irregular verbs, for example, "digged" rather than "dug" This result had profound implications for the nature of language. The network had no deep grammatical structure built into it. Rather, it learned the abstract rules for forming past tenses strictly from example; it learned the rules by "inference". If a simple neural network with a few hundred units can learn this way, so can the vastly complex human brain. Perhaps there is no deep language structure built into the brain». Esperimenti con reti neurali anche in vivo (cfr. le esperienze con i molluschi Aplysia condotte da Daniel Gardner cui accenneremo nel § 1.5.3) sono tutt'ora in pieno sviluppo, e sono da aspettarsi risultati molto importanti. Certo, se le reti neurali artificiali costituiscono un campo di ricerca in grande sviluppo, anche per le numerose applicazioni pratiche che se ne possono fare (cfr. ad esempio l'istruttiva pagina del Gruppo reti neurali dell'Istituto nazionale di fisica nucleare), va però detto che lo studio delle reti neurali in vivo procede più lentamente, forse a causa dell'enorme numero di competenze in campi diversi richieste (matematica, biologia, fisica, chimica, logica, informatica ...); su sviluppi recenti (o non fosse che per misurare il grado di difficoltà della disciplina) si può consultare The Neurobiology of Neural Network, edited by Daniel Gardner, Cambridge (Massachusetts) - London (England), MIT Press, 1993.

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IndiceMateriali di didattica lingue moderne: Introduzione alla linguistica generale.....................................1

1. Il linguaggio.................................................................................................................................1

1.3 Ancora sul segno linguistico: da Saussure a Hjelmslev, Jakobson e oltre.............................1

1.3.0 Introduzione.....................................................................................................................1

1.3.1 Il segno per Hjelmslev: semiotica e glossematica...........................................................1

1.3.2 Il segno per Jakobson: comunicazione e funzioni della lingua.......................................3

1.3.3 Trubeckoj: la fonologia e l'analisi del significante..........................................................6

2. Le lingue.......................................................................................................................................7

2.0 Introduzione: lingue, classificazioni e genealogia.................................................................7

2.0.0 Introduzione.....................................................................................................................7

2.0.1 Lingue vs. linguaggio: la lingua come "specie"..............................................................7

2.0.2 Definizione di lingua e criteri per determinare una lingua..............................................9

2.0.3 Classificazione e tassonomia.........................................................................................12

2.0.4 La classificazione tipologica.........................................................................................16

2.0.5 Filogenesi e tassonomia nelle classificazioni storiche..................................................16

2.0.6 Appoggi extralinguistici all'evoluzione: archeologia, storia e genetica........................19

2.1 L'indoeuropeo.......................................................................................................................23

2.1.0 Indoeuropeistica e metodo storico.................................................................................23

2.1.1 Diffusione delle lingue indoeuropee.............................................................................25

2.1.2 Filogenesi e raggruppamenti nell'indoeuropeo.............................................................25

2.1.3 L'origine delle lingue indoeuropee................................................................................27

3. Il linguaggio...............................................................................................................................34

3.1 Linguaggio, strutture specializzate e acquisizione...............................................................34

3.1.0 L'opposizione mind - brain e l'emergere di strutture specializzate...............................34

3.1.1 Memoria e linguaggio...................................................................................................35

3.1.2 Acquisizione del linguaggio: introduzione al problema................................................38

3.1.3 Innatismo vs. empirismo in filosofia.............................................................................39

3.1.4 Comportamentismo e funzionalismo in psicologia.......................................................39

3.1.5 Apprendimento ed innatismo in grammatica generativa...............................................42

3.1.6 Oltre il generativismo: linguistica computazionale e reti neurali..................................43

Indice..................................................................................................................................................46

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