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INTRODUZIONE 1. – Il diritto 1.1. – Diritto e società 1.2. – Norma giuridica e ordinamento giuridico 1.3. – Giusnaturalismo e positivismo giuridico. 1.4. – Ordinamento giuridico e costituzione materiale 2. – Le tecniche giuridiche 2.1. – I soggetti e le situazioni giuridiche 2.2. – La cittadinanza 2.3. – Attività giuridica e dinamica del diritto 3. – Lo Stato 4. – La Costituzione 4.1. – Costituzione (formale) e costituzionalismo 4.2. – Teoria della Costituzione e integrazione sovranazionale 4.3. – Globalizzazione e Costituzione multilivello 5. – Scienza del diritto, diritto pubblico, diritto costituzionale

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INTRODUZIONE

1. – Il diritto

1.1. – Diritto e società

1.2. – Norma giuridica e ordinamento giuridico

1.3. – Giusnaturalismo e positivismo giuridico.

1.4. – Ordinamento giuridico e costituzione materiale

2. – Le tecniche giuridiche

2.1. – I soggetti e le situazioni giuridiche

2.2. – La cittadinanza

2.3. – Attività giuridica e dinamica del diritto

3. – Lo Stato

4. – La Costituzione

4.1. – Costituzione (formale) e costituzionalismo

4.2. – Teoria della Costituzione e integrazione sovranazionale

4.3. – Globalizzazione e Costituzione multilivello

5. – Scienza del diritto, diritto pubblico, diritto costituzionale

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1. – Il diritto

1.1. – Diritto e società

SINTESI: In qualsiasi epoca e territorio ogni società umana possiede

il suo diritto (ubi societas, ibi jus), inteso come sistema di regole, il cui

fine generale consiste nella prevenzione, nel controllo e nella

soluzione dei conflitti, mediante tecniche giuridiche adeguate.

Il controllo degli esseri umani sull’habitat e sulle risorse naturali

inizia con il passaggio dalla mera convivenza alla cooperazione in

società, di natura e forma variabili, il cui presupposto necessario è la

stabilità di lungo periodo, evitando che i conflitti tra i loro membri

rendano impossibile la cooperazione.

Questa funzione di stabilizzazione è svolta dal diritto.

In ogni tempo e in ogni luogo del pianeta, ogni società umana

possiede il suo diritto (ubi societas, ibi jus), inteso come sistema di

regole, il cui fine generale consiste nella prevenzione, nel controllo e

nella soluzione dei conflitti, mediante tecniche giuridiche adeguate.

Queste hanno natura e consistenza variabile, da forme estremamente

semplificate, come l’ordalia, alle più complesse, come le attuali

procedure urbanistiche, ma hanno in comune la causa efficiente, cioè

la difesa della società dal pericolo che i conflitti finiscano per

distruggere le basi di convivenza e di cooperazione su cui essa si

fonda.

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Ai fini del corretto funzionamento nella dinamica sociale le

tecniche giuridiche debbono essere adeguate rispetto alla direttiva

primaria (stabilizzare la cooperazione), e, a seconda delle circostanze,

adattarsi alle condizioni materiali (storiche, economiche e naturali)

della società di riferimento. Il diritto pertanto assume forme e

contenuti storicamente diversificati in relazione dialettica con tali

circostanze materiali.

a. Un primo corollario di quanto finora detto è il principio di

relatività storica dei fenomeni giuridici: il diritto è una

tecnica di controllo sociale che presenta una variabilità

sincronica (spaziale) e diacronica (temporale) di forme e di

modelli.

b. Un secondo corollario è il principio di coerenza, intesa come

tendenziale corrispondenza alle esigenze strutturali e

prevalenti della società: il diritto nel suo complesso (non una

singola regola imposta a un soggetto recalcitrante) non

funziona solo perché imposto con la forza o con altri sistemi,

ma solo se esso riflette le esigenze materiali di ogni

determinata fase della cooperazione all’interno di società

umane organizzate; il diritto deve essere coerente con tali

esigenze, altrimenti resterebbe inapplicato, o, se imposto,

porterebbe quella società all’autodistruzione. Il grado di

coerenza del diritto di una società misura anche il suo grado di

razionalità; se il diritto ha la pace come fine, non può non

avere la coerenza come «virtù» (Kant).

c. Infine, vi è il principio di legittimazione: il diritto deve

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essere, rispetto alla società che ordina, legittimato, perché solo

a questa condizione esso acquisisce effettività, cioè si poggia

saldamente sulla convinzione collettiva della sua necessità

(Barile), e dunque può svolgere stabilmente la sua funzione.

1.2. – Norma giuridica e ordinamento giuridico

SINTESI: I caratteri fondamentali delle norme giuridiche nella

società moderna sono l’astrattezza, la generalità, la sistematicità, la

necessarietà e la coattività. L’insieme coordinato delle norme

giuridiche costituisce l’ordinamento giuridico, che rende effettivi i

suddetti caratteri mediante strutture organizzative specializzate

(magistrature, pubbliche amministrazioni, forza pubblica). Nell’età

contemporanea gli ordinamenti giuridici coincidono con gli stati e le

loro proiezioni sovranazionali e infrastatali.

Nel mondo antico le tecniche giuridiche assumevano in genere

forme concrete, cioè costruite sul caso particolare attivate

successivamente all’insorgere di un conflitto. Ad esempio, il modello

giuridico feudale era espressione del diritto privato del signore del

feudo, inteso come somma di singole posizioni contrattuali di

soggezione, ciascuna delle quali personalizzata e autonoma. In queste

condizioni il diritto si presenta come tecnica di controllo sociale

concreta e particolare: lo spazio giuridico di ciascun ceto e di ciascun

abitante del feudo è determinato dal suo ceto e dalla sua identità

personale, e dal fascio di privilegi che il signore feudale gli ha

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concesso. Non esiste un concetto generale di libertà giuridica. La

libertà degli antichi è una somma particolare e personalizzata di poteri,

che per ciascuna persona o ceto può avere contenuti e ampiezza

differenti.

Nell’antichità i concetti di capacità giuridica e di soggetto di diritto

sono concreti, perché è la personalità del soggetto (concreto) che

determina la legge a lui applicabile, mentre nel diritto moderno

capacità è soggetto sono modelli astratti; qui mentre nel diritto

moderno è la legge che determina il soggetto (astratto) e i suoi poteri.

Come il diritto antico è “diseguale”, perché particolare e concreto, il

diritto moderno è eguale, perché generale e astratto.

In altre parole, nei sistemi giuridici moderni i conflitti sono disciplinati

in modo astratto e preliminare – nel senso che la regola è conoscibile

preventivamente all’effettivo verificarsi dei conflitti stessi – mediante

modelli normativi espressi in forma condizionale e in termini di potere

o di dovere: chi si trova in una certa condizione può (o a seconda dei

casi non può, o deve, o non deve) tenere un certo comportamento; il

contesto specifico del modello si chiama tecnicamente «fattispecie».

Malgrado alcuni problemi concettuali, quanto detto può essere

applicato a entrambe le grandi «famiglie» della civiltà giuridica

occidentale, vale a dire i sistemi di common law e quelli di civil law; in

entrambi, infatti, i destinatari del diritto conoscono la norma da seguire

(sia sotto la forma della legge che sotto la forma del precedente

giudiziario), prima di compiere azioni alle quali il diritto stesso

attribuisce conseguenze giuridiche, in applicazione dei principali

teoremi della civiltà giuridica moderna, la certezza del diritto e il

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principio di legalità (rule of law).

Gli strumenti di comunicazione sociale delle fattispecie e delle

reazioni del diritto alle eventuali violazioni sono le norme giuridiche,

i cui caratteri fondamentali nella società moderna sono:

1. l’astrattezza (la norma disegna una fattispecie astratta, non

descrive casi concreti),

2. la generalità (la norma si applica a tutti i casi concreti che

rientrano nella fattispecie-modello),

3. la sistematicità (le norme giuridiche sono tra loro

interconnesse, e ulteriormente riconducibili a norme sempre più

generali),

4. la necessarietà (nelle varie società esistono diversi sistemi di

norme non giuridiche come quelle familiari, etiche, religiose;

tutti possono essere dotati di sanzione, ma a questa l’individuo

può sottrarsi, semplicemente uscendo o venendo espulso dal

gruppo; alla norma giuridica, invece, nessuno può in alcun

modo sottrarsi, perché la sua applicazione è necessaria e non

volontaria).

A differenza di tutte le regole sociali, le norme giuridiche hanno il

requisito della coattività che va intesa in vari sensi:

1. le norme giuridiche sono obbligatorie e vincolanti, in quanto

pongono al destinatario un obbligo di osservanza e si

applicano anche contro la sua volontà;

2. esse agiscono in modo collegato (sono cioè co-attive), in

quanto la violazione di una norma fa scattare meccanismi

sanzionatori; tali forme di reazione a loro volta sono previste

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da altre norme, che si rivolgono a soggetti incaricati

appositamente di applicare le sanzioni, e che sono a loro volta

protette da ulteriori sanzioni;

3. le norme infine sono coercibili, cioè eseguibili coattivamente

in forma specifica ai fini del ripristino dell’ordine giuridico

violato, indipendentemente dalla collaborazione del soggetto,

come avviene ad esempio quando si dispone la vendita

all’asta dei beni di un debitore inadempiente;

4. l’applicazione delle norme è garantita dall’esistenza di

strutture organizzative specializzate (magistrature,

pubbliche amministrazioni, forze di polizia, enti, istituzioni,

che costituiscono il sostrato materiale del diritto), e, in ultima

istanza, dall’uso esclusivo della forza.

L’insieme delle norme giuridiche di una determinata società

costituisce l’ordinamento giuridico, che ha ovviamente gli stessi

attributi peculiari della norma giuridica, in particolare i caratteri di

necessarietà e coercibilità. Secondo la manualistica tradizionale gli

elementi necessari dell’ordinamento giuridico sono:

1. la plurisoggettività (una collettività di individui che

convivono e cooperano),

2. la normazione (un sistema più o meno complesso di regole

giuridiche),

3. l’organizzazione (una struttura di apparati, istituzioni,

centri di potere cui è demandata la dinamica

dell’ordinamento, cioè la predisposizione e l’applicazione

delle regole, la soluzione dei conflitti, la coercizione, l’uso

della forza).

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Tuttavia questo modello appare incompleto e generico (anche la

mafia risponderebbe alla definizione); occorre, infatti, considerare gli

altri elementi che distinguono il fenomeno giuridico dalle altre forme

di regolazione sociale, in particolare i caratteri di necessarietà e

coercibilità, che, insieme al monopolio della forza, esistono solo

negli Stati e, in forma derivata, negli ordinamenti politici substatali,

nonché, negli anni più recenti, anche nelle istituzioni sovranazionali

(in particolare nell’Unione europea), che sono in fondo proiezioni

degli Stati; a prescindere dai nuovi e delicati problemi che tale

contesto pone alla scienza del diritto pubblico, e che saranno trattati

più oltre, possiamo in questa sede rilevare che solo ai livelli statali e

sovranazionali la struttura dell’ordinamento giuridico diventa piena e

consolidata, venendo a coniugarsi con il concetto di sovranità.

La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici è pertanto

infondata, a meno che si alluda alla pluralità di Stati e di entità

sovranazionali; gli ordinamenti diversi da quello statale e sovrastatale

(la famiglia, il sindacato, la religione, l’organizzazione sportiva, ma

anche ordinamenti «illegali», come appunto la mafia, o organizzazioni

eversive con finalità rivoluzionarie) non sono ordinamenti giuridici,

ma ordinamenti sociali che traggono legittimazione giuridica

dall’ordinamento statale, o si contrappongono a questo, violandolo.

Senza tale legittimazione, essi possono anche avere un sistema di

norme, ma non si tratta di diritto.

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1.3. – Giusnaturalismo e positivismo giuridico.

SINTESI: Il diritto naturale non ha validità scientifica. Il diritto

positivo e i valori giuridici in esso contenuti trovano fondamento e

limiti negli imperativi derivanti dalla configurazione del sistema

socioeconomico.

I caratteri di storicità e relatività del diritto implicano che solo

l’ordinamento giuridico effettivamente vigente in un determinato

tempo, e presso una determinata società, si identifica con il diritto

positivo (da positum, imposto, nel senso di necessario e coercibile), la

cui configurazione non è data solo dal sistema normativo formale (law

in the books), ma anche, e soprattutto in caso di divergenza, dal diritto

effettivamente applicato (law in action) dalle istituzioni e dai poteri ai

quali l’ordinamento giuridico attribuisce le funzioni necessarie di

garanzia e attuazione.

Di conseguenza, ogni pretesa di validità di regole di natura diversa

dal diritto positivo, per quanto legittima sul piano morale, religioso,

filosofico e politico, appare ragionevolmente destituita di fondamento

scientifico.

Un’annosa discussione, rinverdita a intervalli di tempo più o meno

regolari, riguarda il rapporto tra diritto positivo e diritto naturale, che

è un oggetto di difficile, se non impossibile definizione scientifica,

anche quando si presenta come teoria della giustizia. Le correnti di

pensiero che si richiamano al giusnaturalismo affermano in genere che

gli ordinamenti positivi sono validi e vanno osservati solo se conformi

al diritto naturale, cioè un sistema di valori che sarebbero dettati

direttamente dalla natura dell’uomo, o a seconda delle variazioni, del

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mondo, o della cultura umana, o della ragione, o della divinità. Il

diritto naturale verrebbe così a costituire un test di valore e

applicabilità delle regole del diritto positivo.

Ma esiste davvero il diritto naturale?

La supremazia di leggi di natura sul diritto positivo è scientificamente

infondata, anche perché è smentita dalla critica storica, basata sulla

teoria della relatività e della storicità dei valori giuridici. Ma la critica

più radicale al diritto naturale è quella illuministica, che muove

dall’irrazionalità scientifica della derivazione da una proposizione

descrittiva (cioè la descrizione di un fatto) di una proposizione

prescrittiva (cioè l’imposizione di un valore). Affermare che il leone

mangia la gazzella, e che ciò avviene in natura, e dunque è giusto, è

logicamente scorretto sia come ragionamento in sé, sia qualora se ne

traggano generalizzazioni (la legge del più forte, il principio

meritocratico); infatti, manca di una premessa maggiore, cioè che un

fatto è giusto se avviene in natura, che poi significa che tutto quello

che avviene in natura è giusto. Con ciò, i valori prescrittivi perdono di

significato, perché un fatto sarebbe legittimo solo perché è avvenuto, e

dunque non servirebbe più alcun diritto.

Da ciò deriva che le dottrine dei «valori» non sono in sé prive di

carattere scientifico, ma solo a patto che siano riconosciuti come

valori giuridici solo quelli che l’ordinamento giuridico positivo

considera tali. Sul piano formale, solo quando ciò avviene i valori

giuridici possono essere garantiti dall’ordinamento attraverso le

tecniche della validità, della necessarietà, della coattività e della

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coercibilità.

Ma allora l’ordinamento giuridico, come diritto positivo, non ha

alcun limite sul piano dei valori? con il diritto si può fare tutto? In

realtà non è esattamente così. Abbiamo già visto che, quando le regole

giuridiche diventano incoerenti con società e sistema economico, esse

semplicemente non funzionano, sono soppiantate dalla law in action, o

vengono espulse dalla società, insieme al loro apparato di strutture

organizzative, istituzioni, tecniche giuridiche.

Come si spiega tutto questo sul piano teorico?

Dobbiamo a questo riguardo riflettere su alcune questioni

scientifiche generali. La teoria pura o formale del diritto (Kelsen)

sostiene che il sistema normativo è autosufficiente; il diritto sarebbe

una scienza di norme e il suo studio e la sua applicazione dovrebbero

basarsi solo su queste, così come sono nell’ordinamento positivo.

Questa teoria, se interpretata nel senso che il diritto è una variabile

indipendente dal mutamento socioeconomico, è scientificamente

incompleta, per varie ragioni, ma soprattutto perché non spiega lo

scarto tra diritto formale e diritto vivente. I due problemi fondamentali

del diritto – quello ontologico (in che consiste) e quello teleologico (a

che serve) – sono in realtà strettamente complementari (Lavagna). Il

diritto dipende dalla dinamica concreta delle relazioni e dei

conflitti; questi a loro volta dipendono dalle pressioni della struttura

socioeconomica, in una prospettiva storicizzata. Il diritto, dipendendo

dal «fatto», ne segue il movimento e le trasformazioni, e si trasforma

quando la struttura socioeconomica assume nuovi assetti e nuove

configurazioni: il diritto rappresenta uno dei più forti condizionamenti

sociali, ma esso stesso è condizionato dalla matrice economica della

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società, nel suo storico divenire.

La dinamica sociale fluisce nell’ordinamento giuridico stabilizzando

un nucleo di valori, che danno fondamento alle norme giuridiche; tali

valori, in ogni tempo e in ogni luogo, devono essere formulati in

armonia con le condizioni materiali e culturali della società in quel

tempo ed in quel luogo. Questo non significa che tutte le norme

giuridiche e che tutti i diritti sono comunque giusti o giustificati, ma

solo che esiste (o meglio deve esistere, pena la disgregazione sociale)

una tendenziale coerenza tra l’ordinamento giuridico e la società in cui

esso si applica.

Sotto questo profilo l’unità di misura scientifica storicamente

universale del fenomeno giuridico non può che essere il sistema

socioeconomico, inteso in senso ampio come l’insieme delle modalità

storicamente determinate di cooperazione sociale e di produzione della

stessa esistenza degli uomini. Le matrici fondamentali di tali modalità

si formano e cambiano come processi storici, come «condizioni

materiali», non come atti di volontà di gruppi politici o di istituzioni

costituenti; questi intervengono e assumono consistenza sociale e

forma giuridica solo quando la forma e la sostanza delle suddette

condizioni lo consentono.

La relazione delle forme del diritto positivo e il nucleo

socioeconomico della società è naturalmente dialettica, fatta di

reciproche interferenze e di interconnessioni con altri grandi fattori di

configurazione dei quadri storici (le tradizioni, la cultura, la lingua, la

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posizione geografica, il clima, l’ambiente naturale, la scienza e la

tecnica...), che a loro volta spiegano come, in presenza di sistemi

sociali ed economici analoghi, esista una relativa variabilità di forme

giuridiche compatibili.

Le condizioni materiali che stabilizzano nel lungo periodo il sistema

socioeconomico costituiscono dunque un limite inviolabile per il

diritto positivo; se attraverso la legge si potesse davvero obbligare la

società verso un percorso incompatibile con le matrici intime del

sistema economico, questo sarebbe irrimediabilmente bloccato. Ciò

significa che in ogni fase storica sono razionali e legittimati solo i

vincoli giuridici che rientrano nel margine di elasticità del modello

sociale e del ciclo produttivo, in relazione a un livello dato di sviluppo.

In questo senso le condizioni storicamente determinate di convivenza e

cooperazione si possono immaginare come il «diritto naturale» che

condiziona il diritto positivo, in quel tempo e in quel luogo.

1.4. – Ordinamento giuridico e costituzione materiale

SINTESI: La costituzione materiale di ciascuna società e del suo

ordinamento giuridico corrisponde al nucleo di valori che in ogni fase

storica traduce in ordinamento giuridico gli imperativi

socioeconomici e le regole intime della cooperazione tra gli individui

in una determinata società.

Dalle precedenti considerazioni si può estrarre un ulteriore

corollario estremamente significativo: i caratteri di storicità e relatività

dei fenomeni giuridici implicano che non esiste «il» diritto ma

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esistono «i» diritti, intesi come sistemi giuridici storicizzati, ciascuno

dei quali trae fondamento, razionalità e legittimazione da assetti storici

della società e dell’economia, e si estingue con il mutare di tali

condizioni. L’evoluzione nel tempo delle forme di potere,

dall’antichità al sistema feudale, da questo allo Stato, nei suoi vari

passaggi e forme (Assolutismo, Stato liberale di diritto, Stato

democratico sociale), e dallo Stato alle moderne entità sovranazionali,

costituisce la prova più vistosa dell’effetto del mutamento

socioeconomico sul mutamento del diritto.

In termini di scienza giuridica, la spiegazione di cambiamenti di

tale portata si fonda sulle trasformazioni del nucleo di valori (core) che

in ogni fase storica traduce in ordinamento giuridico gli imperativi

socioeconomici e le regole intime della cooperazione tra gli individui

in una determinata società. Possiamo chiamare tale nucleo

costituzione in senso materiale; il cambiamento, superficiale o

profondo o addirittura sovversivo e rivoluzionario, degli ordinamenti

giuridici dipende dalla intensità del mutamento della costituzione

materiale, che, a differenza di quanto afferma la teoria pura del diritto,

non è un presupposto di base inconoscibile ed estraneo al diritto, ma

ne è la componente essenziale.

La costituzione materiale si presenta alla cognizione scientifica

come sistema di regole strutturali e oggettive, la cui fonte è la

dialettica storica dell’economia e della società. Essa costituisce, per

ciascun tipo di ordinamento, il limite generale per tutti gli elementi che

ne compongono la struttura: per i centri di produzione normativa, per

l’insieme dei centri di potere, per ciascun soggetto necessariamente

destinatario dell’ordinamento stesso.

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Dal punto di vista considerato, tutti gli ordinamenti giuridici

storicamente esistiti posseggono una “costituzione”, che racchiude i

valori imperativi risultanti dal nesso e dalla coerenza tra l’ordinamento

e la società di cui esso è espressione e garanzia; non necessariamente

tali valori debbono risultare trascritti in un testo formale, e non

sempre, quando ciò avviene, il testo formale resta coerente nel tempo

con la dinamica della costituzione materiale.

Solo quando i valori giuridici formalmente garantiti sono anche

coerenti con la costituzione materiale l’ordinamento conserva la

condizione essenziale di stabilità; in caso contrario, esso si addentra in

uno stato di crisi, più o meno grave, più o meno strutturale, di

coerenza, di razionalità e di legittimazione, nel corso della quale

compaiono nuovi valori, che si installano progressivamente nella

società e aggiornano i precedenti, in forma parziale, mediante tecniche

revisioniste o riformatrici, o in forma globale, mediante processi

rivoluzionari.

2. – Le tecniche giuridiche

2.1. – I soggetti e le situazioni giuridiche

SINTESI: Le norme giuridiche, nell’ambito di un contesto astratto

(fattispecie) individuano i destinatari delle regole (soggetti del diritto)

attribuendo ad essi posizioni di potere e/o di dovere (situazioni

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giuridiche soggettive), che essi azionano mediante l’attività giuridica,

contribuendo a formare il diritto vivente (law in action).

La principale tecnica giuridica degli ordinamenti moderni consiste

nella previsione mediante norme di un contesto (fattispecie) in cui a un

destinatario (soggetto di diritto) sono attribuite posizioni di diritto

attive o passive (situazioni giuridiche soggettive) in base alle quali

può, o non può, o deve, o non deve compiere azioni (atti giuridici).

I veri soggetti del diritto sono gli individui, cioè le persone fisiche,

perché solo essi sono in grado di agire. Le persone fisiche sono dotate

di capacità giuridica, cioè attitudine a essere titolari di diritti e

obblighi, che si acquista con la nascita, e capacità di agire, cioè

legittimazione a disporre dei propri diritti, che si acquista con la

maggiore età, a meno di situazioni particolari, quale ad esempio

l’emancipazione del minore, l’interdizione, l’inabilitazione. Si tratta

però di situazioni astratte e statiche; ai fini della loro effettiva

attuazione occorre che l’ordinamento attribuisca al soggetto, in base

alle varie circostanze della vita associata, poteri giuridici precisi, cioè

la concreta possibilità di compiere atti giuridici; così ad esempio, per

poter disporre di un bene occorre prima esserne venuto in possesso e

avere un titolo giuridicamente valido, per poter richiedere un salario

occorre aver stipulato un contratto di lavoro, per poter arrestare un

malvivente occorre essere inserito in servizio attivo nell’organico della

polizia, Tali poteri concreti possono essere conferiti dall’ordinamento

nell’esclusivo interesse del soggetto, oppure nell’interesse pubblico; in

questo secondo caso essi assumono la configurazione della funzione

pubblica.

Esistono soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche. A volte

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infatti il diritto compie una finzione, attribuendo con procedure

particolari (riconoscimento), la capacità giuridica a persone

giuridiche, per varie e importanti ragioni derivanti dalla complessità

sociale; ad esempio, costruire uno schermo tra una società e i suoi soci,

per limitare legittimamente la responsabilità economica di questi. Le

principali forme sono le associazioni, in cui prevale l’elemento

personale (ad esempio società commerciali), e le fondazioni, in cui vi

è un patrimonio destinato a uno scopo. La personalità giuridica

(pubblica) è anche tipica di pubblici poteri come lo stesso Stato, nella

maggior parte degli ordinamenti, gli enti pubblici, e alcuni poteri

sovranazionali (ad esempio, la Commissione europea).

La persona giuridica, in quanto fictio juris, ovviamente non dispone

di una autonoma capacità di agire; gli atti giuridici che l’ordinamento

imputa alla sua sfera giuridica sono compiuti da persone fisiche

(organi), in forma singola (o monocratica) oppure in forma collegiale,

legate alla persona giuridica da un particolare rapporto, detto rapporto

organico.

Le situazioni giuridiche soggettive sono le posizioni di potere o di

dovere che le norme imputano variamente ai soggetti di diritto. Si

distinguono in attive (attribuite nell’interesse del soggetto), e passive

(cui il soggetto è tenuto nell’interesse di altri soggetti, individualmente

specificati, oppure nell’interesse pubblico).

1. Fanno parte delle prime il potere giuridico (cioè la potenziale

capacità di attivare dinamiche modificatrici dell’ordinamento

giuridico), che è generalmente pubblico, cioè attribuito alle

strutture e alle istituzioni dell’ordinamento, ma può

configurarsi anche come privato, e in questo caso spesso è

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assorbito dal diritto soggettivo, che è composto di un fascio di

facoltà attribuite al soggetto esclusivamente nel suo interesse

(esempio tipico il diritto alla retribuzione per il proprio lavoro),

o dall’interesse legittimo, per il quale la tutela dell’interesse

individuale è solo mediata e indiretta, in genere conseguente

alla necessità di tutelare, in via principale, un interesse

pubblico (esempio di scuola è la facoltà attribuita ai

partecipanti ad un pubblico concorso di ricorrere contro

decisioni illegittime della commissione giudicatrice). Sono

interessi legittimi anche gli interessi diffusi e gli interessi

collettivi, che l’ordinamento attribuisce ai rappresentanti di

categorie sociali (i consumatori, gli utenti di servizi, gli

ambientalisti, i cittadini di un comune) i quali possono agire in

giudizio contro attività illegali della pubblica amministrazione

o di imprese private (class action).

2. Fanno parte delle situazioni passive il dovere giuridico

(imposto al soggetto in quanto tale e non per soddisfare

interessi o diritti di altri), l’obbligo (collegato invece alla

soddisfazione di interessi di altri soggetti), la soggezione (che è

una posizione del soggetto in dipendenza di un potere esercitato

da altri, come nel caso dell’imputato di fronte ai poteri di

indagine della magistratura), la funzione, detta anche potere-

dovere o potestà, che consiste in una particolare dinamica del

potere, cioè in azioni che un soggetto privato (ad esempio i

genitori di fronte al dovere di educare i figli) o pubblico (tutta

l’azione dello Stato e dei pubblici poteri è ordinata su funzioni)

ha l’obbligo di esercitare nel pubblico interesse.

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2.2. – La cittadinanza

SINTESI: La nozione di popolo dello Stato coincide con l’insieme

delle persone fisiche legate ad esso da un rapporto di cittadinanza.

Carattere speciale possiede lo status, che comprende un fascio di

situazioni giuridiche, sia attive, che passive (status familiare,

cittadinanza, status di socio in società commerciali). Particolare rilievo

per il diritto costituzionale possiede lo status di cittadino, che nel

diritto moderno nasce e si sviluppa a partire dalla condizione di

suddito, in correlazione alla nascita ed alla evoluzione dello Stato

assoluto in Stato di diritto, sull’onda delle rivoluzioni borghesi del

settecento e dell’ottocento.

Si tratta di un concetto essenziale per la determinazione dell’elemento

soggettivo dell’ordinamento giuridico statuale; infatti, la nozione di

popolo dello Stato è determinata dall’insieme dei cittadini di quello

Stato, considerati non come mera somma di entità singole, ma come

universo e sintesi di quella somma. Al popolo infatti spettano, nei

moderni ordinamenti a democrazia rappresentativa, il potere di

eleggere le persone destinate a svolgere funzioni pubbliche sovrane (il

Parlamento, o, come si vedrà meglio in seguito, a seconda delle forme

di governo, sia il Parlamento che il Capo dello Stato), nonché i poteri

di democrazia diretta (petizioni, iniziativa legislativa, referendum).

Tali poteri, tuttavia, sono concretamente esercitati solo da una parte

del popolo, cioè dai cittadini dotati di capacità elettorale (che in genere

si acquista con la maggiore età); l’insieme di tali cittadini forma il

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Corpo elettorale.

Le forme assunte dal legame giuridico di cittadinanza variano

diacronicamente e sincronicamente:

1. alcuni ordinamenti giuridici, e tra questi quello italiano (l.

91/1992), privilegiano il fatto della nascita da genitori

cittadini di uno Stato (acquisto della cittadinanza per jus

sanguinis);

2. altri il fatto della nascita nel territorio di uno Stato (jus loci,

o jus soli); ciò, com’è evidente, può provocare il fenomeno

della doppia cittadinanza.

3. A volte (ed è anche il caso italiano) è prevista l’acquisizione

della cittadinanza per effetto del matrimonio con un cittadino

o con una cittadina (per trasmissione, o juris communicatio),

4. o per beneficio di legge (stranieri o persone prive di

cittadinanza, cioè apolidi, nati nello Stato, che abbiano

particolari rapporti con esso, come ad esempio, aver svolto in

quello Stato il servizio militare),

5. o ancora per naturalizzazione, cioè mediante una decisione dei

pubblici poteri (in Italia, decreto del Presidente della

Repubblica previo parere del Consiglio di Stato, in presenza di

specifici requisiti).

La cittadinanza può essere anche perduta, per rinuncia espressa da

parte di una persona dotata di doppia cittadinanza, o per decisione dei

pubblici poteri, ma solo nel caso in cui un cittadino sia al servizio di

un altro Stato e si rifiuti di obbedire all’intimazione del governo di

interrompere tale rapporto. La cittadinanza, tuttavia, si può facilmente

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riacquistare, ponendo fine alle cause che ne hanno prodotto la perdita.

Come si dirà più diffusamente in seguito, in corrispondenza alle

recenti trasformazioni in senso sovrastatale degli ordinamenti giuridici

il concetto di cittadinanza non è più riservato al solo rapporto tra

individuo e Stato, ma si diffonde nello spazio giuridico multilivello; in

particolare, a partire dal Trattato di Maastricht (1992), si è

giuridicamente consolidata la nozione di cittadinanza europea.

2.3. – Attività giuridica e dinamica del diritto

SINTESI: Se lo scarto tra law in action e law in the books dipende da

cattiva formulazione delle norme o da lacune, l’ordinamento stesso

dispone di strumenti di controllo, quali le tecniche interpretative o di

razionalizzazione normativa. Se invece lo scarto dipende da un

radicale mutamento della costituzione materiale la crisi assume

carattere rivoluzionario e travolge l’intero ordinamento giuridico.

La dinamica del diritto è azionata essenzialmente dagli atti

giuridici, cioè dalle azioni dei soggetti di diritto abilitate

dall’ordinamento a produrre effetti giuridici. Si tratta delle tecniche

fondamentali che consentono alla cooperazione fra gli individui di

svolgersi dinamicamente nella società, e ai centri di potere pubblico di

produrre e applicare le norme giuridiche.

Gli atti giuridici possono produrre effetti giuridici in ogni caso (atti

in senso stretto o non negoziali), o solo se gli effetti giuridici sono

voluti dal soggetto stesso (atti negoziali); per questi ultimi assume

grande rilevanza la dichiarazione di volontà, che non deve essere

viziata da errore, violenza o dolo, pena l’invalidità giuridica.

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Gli atti pubblici, cioè le attività giuridiche che attuano le funzioni

pubbliche, sono ovviamente oggetti di studio direttamente rilevanti per

il diritto costituzionale; di essi si dirà più diffusamente nei prossimi

capitoli.

Attraverso gli atti giuridici il modello formale della fattispecie

giuridica descritto nei codici e nelle leggi (law in the books) modifica

la realtà risolvendo i conflitti che si verificano nella società. Il diritto

in tal modo si materializza, presentandosi come diritto vivente (law in

action). La distinzione è nota, in particolare agli studiosi di diritto

comparato e di teoria generale, ma possiede una grande rilevanza

anche nel diritto pubblico interno e in particolare nel diritto

costituzionale, in quanto consente di fare chiarezza sulla natura, la

portata e la dimensione dei principi chiave che, in un dato tempo e in

un dato luogo, fondano l’ordinamento giuridico.

A volte infatti si rileva uno scarto, anche consistente, tra law in action

e law in the books. In molti casi, ciò dipende dall’incompletezza della

fattispecie astratta, o dalla cattiva formulazione delle norme, o da

lacune: in tali casi l’ordinamento stesso dispone di valvole di controllo

che, attraverso le tecniche interpretative, consentono di colmare le

lacune. L’ordinamento giuridico in genere dispone degli strumenti di

riforma che consentono di aggiornare e migliorare le proprie norme; a

volte però il mutamento materiale è talmente radicale e rivoluzionario

che la società ritira il suo consenso al diritto formale; l’ordinamento

entra in crisi di razionalità e di legittimazione, viene travolto nelle sue

componenti, in particolare nei centri di potere, e sostituito

integralmente da un nuovo ordinamento.

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3. – Lo Stato

SINTESI: Lo stato compare in Europa in corrispondenza con il

declino della società feudale, e con la progressiva affermazione della

prima «globalizzazione» dell’economia rappresentata dalla

rivoluzione commerciale e industriale e dalla formazione dei mercati

nazionali. Nella fase attuale la globalizzazione spinge gli stati alla

integrazione economica e giuridica in nuove entità e ordinamenti di

carattere sovranazionale.

Negli ordinamenti moderni, il paradigma dell’organizzazione dei

centri di potere è costituito dallo Stato. La configurazione generale dei

rapporti tra gli organi che esercitano le potestà sovrane è studiata dalla

teoria delle forme di governo, mentre la dottrina delle forme di stato

ha per oggetto la configurazione del potere nel rapporto fra i poteri

sovrani e i soggetti destinatari dell’ordinamento stesso. In questa sede

ci limiteremo a tratteggiare alcuni caratteri dello sviluppo storico della

figura.

Va in primo luogo precisato che lo Stato, come qualsiasi ordinamento

storicamente esistito, e in qualsiasi forma si sia storicamente

presentato (assoluto, liberale, liberal-democratico, autoritario, sociale

interventista, socialista) è innestato nella dinamica di una costituzione

materiale storicamente determinata, nel senso precedentemente

esposto. In altre parole, se ogni ordinamento giuridico si fonda su una

costituzione materiale, non esistono, né sono mai esistiti Stati privi di

“Costituzione”, intesa in senso materiale. In questa accezione, risulta

più comprensibile l’affermazione che lo Stato non «ha» una

Costituzione, ma «è» una Costituzione (Schmitt).

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La forma-stato compare in Europa in corrispondenza con il declino

della società feudale, e con la progressiva affermazione di quella prima

globalizzazione dell’economia rappresentata dalla rivoluzione

commerciale e industriale e dalla formazione dei mercati nazionali.

Di conseguenza, tra le istituzioni politiche del Medioevo e quelle

dell’età moderna esiste un baratro culturale. Anche per effetto della

disgregazione dell’impero romano e delle continue invasioni, e quindi

della instabilità dal punto di vista della sicurezza delle popolazioni,

l’età di mezzo è strutturata sulla base di collettività locali ristrette e

chiuse, politicamente autonome ed economicamente autosufficienti.

Questo tipo di economia «curtense» è basata su agricoltura,

autoconsumo e autoproduzione; il modello di scambio più largamente

presente non ha carattere mercantile, essendo finalizzato alla

sopravvivenza della società locale. Il ciclo commerciale si fonda

sull’equazione psicosociologica cose-denaro-cose, che consente uno

scambio di beni destinato non alla accumulazione capitalistica, ma al

soddisfacimento dei bisogni dei singoli produttori. Non esiste ancora il

mercato, perché non esiste ancora la merce. Il modello di potere che

si costruisce su questa struttura economica è fortemente gerarchizzato

e composto di strati, ciascuno dei quali ha come limite le

determinazioni dei livelli superiori, e l’esercizio del potere deriva al

feudatario direttamente dal possesso e dal controllo esclusivo del

territorio. Il signore feudale controlla tutti i ceti, organizzati su una

stratificazione sociale invalicabile, mediante relazioni di dominio

assoluto. Come si è già detto, la struttura del diritto assume una forma

concreta; si configura un ordinamento feudale, come regime

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privatistico caratterizzato dalla patrimonialità della legittimazione del

potere, ma non si può parlare, se non in forma assolutamente

embrionale, di Stato, neppure facendo seguire il termine da

aggettivazioni sostanzialmente corrette (patrimoniale, feudale); ne

mancano infatti gli elementi strutturali (territorio vasto e mercato

nazionale, esercito stabile, amministrazione pubblica). Neppure si può

parlare di diritto pubblico, perché manca la possibilità di generalizzare

in forma omogenea il rapporto tra chi comanda e chi è comandato.

Con la rivoluzione commerciale e industriale l’economia diviene

multipla, sempre più serializzata, e si configura come produzione di

merci a mezzo di merci. I nuovi mercanti, i borghesi, tendono alla

produzione come fine in sé, e al commercio sistematico su scala

territoriale ampia. Lentamente questo interesse particolare, di una

classe sociale, diviene interesse generale: il mercato economico

travalica le barriere di pietra dei feudi, mediante un processo di

«globalizzazione», dalla scala feudale a quella degli Stati-nazione. È

l’inizio della fine per il sistema feudale: la nuova economia ha bisogno

di regole certe, di uniformità giuridica, di comando centralizzato. I

pluralismi feudali costituiscono invece altrettante “catene” per il ciclo

produttivo e distributivo, ed entrano rapidamente in una crisi di

razionalità e di legittimazione.

Lo Stato nasce dunque dalla espansione economica e sociale dei

ceti borghesi che si connette strettamente con l’accentramento politico,

la riunificazione dei feudi in un unico territorio con un unico comando,

per garantire la regolazione uniforme dell’economia e della società. Si

tratta di un processo irto di conflitti e di sanguinose rivolte locali, che

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si conclude con la vittoria dell’Assolutismo. L’accentramento, in

sinergia con le nuove forme della produzione, innesta una

trasformazione non solo quantitativa, una rivoluzione nella struttura

intima del diritto, che genera una forma di potere differente da ogni

altra del passato, appunto lo Stato, nella sua prima versione di Stato

assoluto.

Il sovrano assoluto ha un interesse diretto al controllo uniforme del

territorio, al fine di razionalizzare e rendere operativo il suo potere,

soprattutto in relazione alla imposizione fiscale, le cui procedure

divengono sempre più standardizzate e uniformi, attraverso

l’organizzazione di una embrionale contabilità pubblica.

L’imposizione fiscale serve non solo per sostenere la corte e le guerre

del sovrano, ma anche per finanziare una struttura organizzativa

centralizzata, specializzata e permanente, resa necessaria dalla

straordinaria espansione del ruolo dello Stato, sia sotto forma di

regolazione e controllo delle attività economiche e sociali sia sotto

forma di appropriazione, monopolio e gestione di industrie e

«fabbricerie» (regie aziende). Siamo alle origini di ciò che noi oggi

chiamiamo pubblica amministrazione: da allora le burocrazie

pubbliche saranno una costante del diritto moderno e in continua

espansione. Inoltre, si genera fin dall’inizio un’osmosi tra burocrazia

e borghesia.

Come testimonia lucidamente Alexis de Tocqueville, il burocrate dello

Stato assoluto non è quasi mai un nobile, è una figura «emergente»,

che i nobili disdegnano perché lo vedono come un funzionario

preposto agli «affari dei borghesi», del terzo stato. Ma vi sono anche

altre, più profonde, ragioni.

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L’amministrazione centralizzata dello Stato assoluto crea le basi

per la costruzione del mercato nazionale mediante il trattamento

giuridico omogeneo di medesimi fatti e situazioni economiche, sociali

e territoriali: si tratta di un’esigenza amministrativa perfettamente

integrata con le dinamiche fondamentali del ciclo economico moderno.

La classe borghese, se pure coltiva il progetto di lungo periodo di

eliminazione di tutti i privilegi feudali, condivide con il sovrano

l’interesse fortissimo all’uniformità della gestione del potere.

L’uniformità amministrativa nasce dunque nello Stato assoluto e nel

tempo genera il capovolgimento della forma generale del diritto

feudale (concreto e diseguale), nel diritto moderno (astratto ed eguale).

La macchina amministrativa, con la quale inizialmente i sovrani

assoluti organizzano il controllo dell’economia e della società, diverrà

lo strumento della costruzione giuridica del mercato nazionale.

Ma la nuova amministrazione non è da sola sufficiente per

controllare tutti gli aspetti di territori diventati incredibilmente vasti, e

in continuo conflitto interno ed esterno. Il monopolio dell’uso della

forza, che è un carattere costante di ogni diritto e di ogni forma di

potere, diventa tecnicamente e qualitativamente diverso dal

precedente, dando origine alla genesi storica del potere militare in

senso moderno. La nuova strutturazione della società impone che

dall’armata ad hoc e dalle bande dei capitani di ventura si passi

all’esercito permanente, basato sul reclutamento e sulla carriera dei

militari e controllabile attraverso una serie di tecniche organizzative, in

cui concentrare la gestione pubblica della forza verso l’interno e verso

l’esterno dello Stato, specie nella fase che gli economisti chiamano

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mercantilismo, in cui la borghesia ha tutto l’interesse alla tutela delle

frontiere. La politica militare divenne un business per la borghesia (e

lo è ancora alle soglie del terzo millennio); la spesa militare

rafforzava l’indebitamento dei sovrani nei confronti della finanza

internazionale e contemporaneamente diveniva un potente fattore di

incentivo e crescita dell’economia, influenzandone tutti i settori, dalla

ricerca tecnologica alle scienze urbanistiche.

Lo Stato assoluto è spesso descritto in negativo rispetto alle forme

successive, evidenziando cioè i caratteri che in esso mancherebbero,

presenti invece nello Stato liberale di diritto: non vi sarebbero controlli

sul potere, libertà, democrazia, rappresentanza, consenso popolare,

certezza del diritto; il sovrano sarebbe legibus solutus, cioè al di sopra

delle leggi. Questa immagine di un potere arbitrario e concentrato

nelle mani di una sola persona, senza limiti, consenso e controlli, è

storicamente insostenibile. In realtà lo Stato assoluto è sostanzialmente

un prototipo, molto più rozzo, naturalmente, dello Stato liberale e di

diritto: la più vistosa differenza è che in questo il controllo della

borghesia sul diritto, sui rapporti economici, sull’amministrazione,

sull’esercito è totale, mentre nello Stato assoluto la sua posizione è

conflittuale e minoritaria rispetto alle antiche classi feudali e alle corti

del re.

Lo Stato assoluto, in realtà, era un ordinamento giuridico dotato

di razionalità e legittimazione.

a. Infatti, è assurda la «personalizzazione» dell’assolutismo: l’ipotesi

che una sola persona, come l’imperatore mutante dei romanzi di

Isaac Asimov, possa governare uno Stato secondo il suo arbitrio è

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del tutto bizzarra. Lo Stato assoluto, come qualsiasi forma di

potere stabile, ha meccanismi di prevenzione, compensazione e

stabilizzazione delle irrazionalità economiche e dei conflitti

politici.

b. In secondo luogo, la concentrazione del potere, nel contesto del

periodo, è ben altro che una qualità negativa, essendo invece la

condizione storica per il passaggio a una configurazione delle

istituzioni adatta alle nuove forme economiche e all’ampliamento

dei mercati: il potere concentrato è la misura del processo di

smantellamento dei vincoli feudali allo sviluppo economico.

c. Soprattutto, nella misura in cui si presenta come

uniformizzazione dei rapporti giuridici, esso costituisce il

substrato materiale della nascita dell’ordinamento giuridico

moderno, basato su astrattezza e generalità della legge (cioè la

versione rozza dell’eguaglianza formale), e sulla prevedibilità dei

vincoli e delle situazioni obbligate, che equivale a una proto-

versione del principio di certezza del diritto. L’assolutismo è

dunque la culla di questi valori, e l’amministrazione ne è la

nutrice.

d. Un’altra banalità sull’assolutismo è l’idea del potere fiscale senza

limiti; in realtà, un potere arbitrario di appropriazione della

ricchezza dei sudditi non è riuscito a stabilizzarsi in nessuna

epoca. Nella specie dello Stato assoluto, il potere fiscale non può

essere esercitato oltre la soglia della riproducibilità della fonte

della ricchezza, che costituisce un limite razionale oltre il quale il

dominio fiscale del sovrano non può andare. In altre parole, una

imposta è tale quando è stabile, cioè ripetibile e ripetuta nel tempo,

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altrimenti è rapina, o saccheggio, o espropriazione. Affinché sia

ripetibile occorre che sia stabile anche il suo oggetto (un atto di

scambio, un bene immobile, una attività produttiva); se un prelievo

coattivo è troppo alto, al punto da inibire nuovi atti di scambio, o

da estinguere le attività economiche, o da distruggere il valore

capitale del bene, la struttura economica entra in crisi, si

impoverisce la società, e di conseguenza si distruggono i

presupposti stessi del dominio fiscale.

Se il potere fiscale non rimane entro forme e limiti razionali, il sistema

esplode in forme rivoluzionarie. Un esempio illuminante è dato dalle

riforme fiscali tra seicento e settecento, discusse all’interno di un fitto

contesto di relazioni, incontri e scontri tra il sovrano, i suoi Ministri, le

burocrazie ministeriali, i parlamenti e le altre corti sovrane. È noto che

in Francia acquistò un dinamismo eccezionale proprio la struttura

amministrativa (il Contrôle général des finances, una sorta di

gabinetto economico dell’epoca) composta da «managers» colti,

professionalmente competenti, e di idee avanzate, favorevole a una

transizione verso modelli fiscali razionali con le altre politiche

economiche, e in armonia con gli interessi della borghesia, giunta al

limite di tollerabilità della pressione tributaria. Si rendeva insomma

ineluttabile la ricerca di fonti fiscali in altri luoghi della stratificazione

sociale, vale a dire nelle vecchie classi feudali.

Ma mentre in alcuni Stati europei l’assolutismo riuscì a guidare la

transizione (la land tax inglese risale al 1691, il catasto generale nel

Piemonte sabaudo al 1697), la riforma francese fallì, innescando in

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forma rivoluzionaria processi che avrebbero potuto svolgersi più

armonicamente.

Sebbene la borghesia avesse dalla sua parte l’apparato amministrativo,

le antiche classi feudali dominavano all’interno dei vari Parlements,

che si rifiutavano di «registrare», cioè di approvare, i nuovi editti

fiscali del sovrano. Altro che potere assoluto, fu un periodo di potere

bloccato, e l’opposizione delle antiche corti venne risolta non dalla

forza del re, ma dalla rivoluzione borghese dell’ottantanove, la quale,

come scrive Alexis de Tocqueville, non costituì affatto l’avvento di un

nuovo regime ma una semplice difesa delle strutture amministrative

esistenti e dei principi di riforma legislativa già razionalizzati

all’interno di esse. Dunque il passaggio dallo Stato assoluto a quello di

diritto non avviene nel momento traumatico della rottura

rivoluzionaria, ma è processuale: dentro il primo esistono già tutti gli

ingredienti del secondo, anche se in forma grezza, non ancora

raffinata.

In definitiva, se al concetto di Stato assoluto si attribuisce un valore

o un disvalore, viene meno l’oggettività scientifica; più che un valore

esso descrive un fatto: che il controllo sul diritto non avveniva in

esclusiva dentro un Parlamento rappresentante dei ceti produttivi. Nel

giudizio storico, l’assolutismo deve dunque essere visto come un

indispensabile ‘terreno di coltura’; il salto verso il diritto moderno, dal

diritto diseguale al diritto eguale, è reso possibile proprio dallo Stato

assoluto, dalla concentrazione del potere, dalla creazione di un esercito

stabile, dalla progressiva tendenza all’uniformità dell’

amministrazione, che asseconda e tutela l’espansione economica.

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Esaurita la sua funzione storica di stabilizzare il mercato nazionale,

l’assolutismo scompare progressivamente dalla faccia del pianeta.

Come ogni forma di potere esso nasce quando l’economia lo richiede e

muore quando l’economia non ne ha più bisogno. L’avvento dello

Stato liberale di diritto porta una nuova riorganizzazione dei poteri

tra le classi sociali, e la borghesia rovescia il dominio politico delle

antiche classi feudali; le strutture chiave dello Stato assoluto, cioè

l’amministrazione e l’esercito, passano senza problemi allo Stato

liberale come seguendo un ciclo naturale.

4. – La Costituzione

4.1. – Costituzione (formale) e costituzionalismo

SINTESI: Il costituzionalismo, inteso nella sua accezione più genuina

e storicamente razionale, è definibile come teoria e prassi della

limitazione del potere, ponendo a fondamento del diritto la

Costituzione formale, intesa come un complesso normativo di ordine

superiore contenente principi organizzativi, funzionali e procedurali

destinati a durare a lungo nel tempo, in quanto caratterizzanti

l’essenza intima dei rapporti tra autorità e libertà.

Con la dissoluzione dell’Assolutismo, sulla teoria dello Stato si è

innestata, con varie vicende e modalità, una teoria della Costituzione,

intesa come un sistema normativo di ordine superiore, generalmente

inserito in un documento scritto, che enuncia i principi e le regole

organizzative, funzionali e procedurali destinati a durare a lungo nel

tempo e sottratti alle mutevoli vicende delle norme giuridiche

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ordinarie, in quanto caratterizzanti l’essenza intima sia del rapporto tra

governanti e governati sia del rapporto tra gli stessi centri di potere

dell’ordinamento giuridico.

La vitale centralità di questo complesso di regole e principi, ha

implicato nel corso del tempo la ricerca di forme e tecniche di

protezione, rispetto agli stessi detentori dei poteri di creazione del

diritto; si è in tal modo venuto ad enucleare un principio-chiave delle

costituzioni moderne, vale a dire il garantismo, che è rapidamente

divenuto dottrina della limitazione del potere, compiutamente

canonizzato nell’art. 16 della Dichiarazione francese dei diritti

dell’uomo e del cittadino del 1789.

Il movimento politico e culturale che ha posto al centro della sua

storica azione l’affermazione e lo sviluppo di tali principi è il

costituzionalismo, inteso nella sua accezione più genuina e

storicamente razionale di teoria e prassi della limitazione del potere

mediante il diritto (Pace).

Va subito segnalato che, malgrado il suddetto limite teorico

dell’oggetto del costituzionalismo, in dottrina si è variamente

sviluppata la tendenza ad allargare all’estremo il campo d’azione e la

portata del movimento costituzionalista, con l’effetto di diluire i suoi

metodi e principi in altre metodologie e strumentazioni, in particolare

quelle della politica costituzionale, sminuendone

contemporaneamente, e talora radicalmente, il valore scientifico, e

conducendo spesso i suoi adepti, i costituzionalisti, a vere crisi di

identità. Come scrive Massimo Luciani, «raramente, come in questi

ultimi dieci quindici anni, i costituzionalisti sono stati così divisi. Non

su singole questioni dei loro studi, come è sempre accaduto e sempre

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accadrà, ma sullo statuto stesso della disciplina e sull’utilizzazione del

concetto di Costituzione».

Si è aperto di conseguenza il dibattito sulla distinzione tra ciò che è

costituzionalismo e ciò che non lo è, non solo allo scopo di distinguere

gli Stati «costituzionali» dagli Stati «non costituzionali», ma

soprattutto al fine di «valutare la conformità alla logica del

costituzionalismo delle tecniche giuridiche utilizzate dal legislatore,

dalla giurisprudenza e dalla dottrina nella concreta disciplina del

potere (pubblico e privato) e dei diritti individuali» (Pace).

Ma come, e soprattutto, da chi, deve essere attuata tale valutazione?

Partiamo dal «come». La struttura delle dottrine del

costituzionalismo si configura intono ad una serie di idee-forza, che

rappresentano altrettanti criteri di valutazione degli ordinamenti.

Secondo visioni diffuse e risalenti (Matteucci) tali nuclei sarebbero

costituiti da:

1. esistenza di una Costituzione scritta;

2. esistenza di un «potere costituente», distinto e superiore

rispetto al «potere costituito»;

3. esistenza di una «dichiarazione dei diritti»;

4. presenza di meccanismi di separazione dei poteri, bilanciamenti

e controlli (checks & balances);

5. presenza di sistemi per il controllo giurisdizionale di

costituzionalità delle leggi ordinarie.

Esistono tuttavia alcune difficoltà, sia teoriche che concrete, in tale

impostazione. Ad esempio, il requisito di una Costituzione formale

scritta porterebbe a escludere dall’Olimpo degli ordinamenti

«costituzionali» quelli che non ne dispongono, come quello inglese,

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così come il criterio del potere costituente/costituito connesso con

quello del controllo giurisdizionale sulle leggi ne terrebbe fuori la

maggior parte delle forme storiche in cui si è presentato lo Stato

liberale di diritto, compreso quello italiano. Sul punto la dottrina è

divisa, e spesso confusa.

È meglio allora restringere i parametri, e tornare alla concezione

originaria di Costituzione: diritti di libertà da un lato, potere limitato

dall’altro.

Più del «come», infatti, conta «chi» valuta l’esercizio del potere

pubblico. Se il soggetto che agisce è lo stesso che valuta l’azione, se

non vi è reale separazione tra azione e controllo, se chi controlla non

è indipendente e non è a sua volta responsabile del suo operato, allora

il potere è senza limiti, i diritti sono sospesi a un filo; scritta o meno,

non esiste Costituzione, né costituzionalismo.

4.2. – Teoria della Costituzione e integrazione sovranazionale

SINTESI: In seguito ai processi di integrazione sovrastatali, in

particolare in seno all’Unione europea, la Costituzione non possiede

più soltanto una dimensione nazionale ma si configura come

Costituzione transnazionale multilivello.

Come si è detto, fino a pochi decenni fa, il costituzionalismo aveva

come focus dominante la teoria dello Stato «costituzionale». A cavallo

del millennio, in corrispondenza alla comparsa di nuovi scenari e

all’espansione su scala europea e, in prospettiva, planetaria, della

costituzione materiale, la dottrina del costituzionalismo ha iniziato ad

allargare la sua azione alla configurazione dei centri di potere

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esponenziali dei nuovi ordinamenti sovranazionali in formazione e

assestamento, il cui paradigma è appunto costituito dall’Unione

europea.

Il dibattito dottrinale sulla natura e sui caratteri dell’integrazione

sovranazionale di popoli e sistemi socioeconomici è pertanto confluito

nel problema-chiave della configurabilità e della stessa esistenza di

una Costituzione sovranazionale, in particolare di una Costituzione

europea; naturalmente, un tale ordine di problemi ha rilanciato la

questione del concetto di Costituzione tout court.

Se si circoscrive l’area della speculazione solo alla problematica

della Costituzione formale, la conclusione più ovvia, addirittura troppo

banale per non dare adito a ragionevoli perplessità, è che nessuna

Costituzione sovranazionale potrà dirsi installata fino a quando, con

procedure formali, una Costituzione scritta non sarà definitivamente

approvata dai centri di potere degli Stati che intendono raccogliersi

sotto di essa. Ma questa «dottrina delle Carte» è tutt’altro che

convincente.

Al contrario, in un’ottica più realistica, il dibattito se l’Europa ha o

meno bisogno di una Costituzione scritta diventa del tutto irrilevante,

perché, secondo una recente e suggestiva corrente teorica, una

Multilevel European Constitution esiste già da tempo; a questa

affermazione si è giunti anche soltanto partendo dal complesso

normativo composto dalle costituzioni degli Stati membri, coagulate

insieme in un corpus di fonti supreme costituito dai Trattati europei

(Pernice).

Nell’intento di negare scientificità a questa visione, si è obiettato

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(Pinelli) che essa si riferisce a un processo, a «qualcosa che è in

divenire, che non è ancora compiuto», e che pertanto non si tratta di

un’operazione di studio condotta sul «diritto costituzionale positivo di

un certo Stato», ma su una più o meno fantascientifica anticipazione

del futuro dell’Unione europea, in teoria estensibile ad altre realtà di

unioni di tipo continentale, come ad esempio il Mercosur.

La ragione intima di questo tipo di critica sta nell’impostazione del

problema, che porta esplicitamente o meno a negare che i principi del

costituzionalismo possano connotare un ordinamento diverso da uno

Stato «costituzionale». Così facendo, viene compiuta una operazione

molto pericolante sul piano scientifico, identificando la Costituzione

con lo Stato costituzionale, definito come «Stato democratico,

connotato da principi fondamentali di libertà, di dignità, di

eguaglianza, di separazione dei poteri, di legalità cui venga

riconosciuta una portata di un diritto più alto della legge» (Pinelli).

Questo modo di procedere porta a conclusioni sconcertanti, ad

esempio quella che lo Stato liberale ottocentesco non possiede una

Costituzione, o quella che, tramite lo Stato costituzionale, la

democrazia continuerebbe a trovare nell’ambito dello Stato-nazione la

sola sede del suo sviluppo, la sede cioè in cui i detentori del potere

vengono chiamati a rispondere di fronte ai cittadini del loro operato; in

questa ottica antistoricistica, il paradigma Stato viene assolutizzato

come unico contenitore possibile di Costituzione e democrazia.

Per comprendere fino in fondo le ragioni per cui riteniamo che

questa impostazione sia «rigorosamente» antiscientifica occorre

distinguere accuratamente tra «Costituzione» e «costituzionalismo»:

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mentre il primo concetto è «puramente descrittivo (nel senso, cioè, che

le costituzioni potrebbero anche non tutelare i diritti fondamentali, non

prevedere la divisione dei poteri, non essere democratiche e così via)»,

non altrettanto può dirsi del costituzionalismo, che si risolve in idee-

forza di natura assiologica, che, se applicate, porterebbero a «negare,

contro la storia, la qualifica di Costituzione ... alle costituzioni

napoleoniche e alle costituzioni dei Paesi del socialismo reale, per il

fatto che non sarebbero state «garantiste» nel significato proprio dei

regimi liberaldemocratici»; in sostanza, mentre la Costituzione

(meglio, «le» Costituzioni») sono un oggetto fenomenico, cioè

materiale di studio e analisi scientifica, il costituzionalismo è un

«movimento politico, filosofico e culturale» che però deve possedere

delle connotazioni precise, funzionali alla predisposizione e alla

affermazione di tecniche «volte a limitare sia funzionalmente che

strutturalmente il potere politico», altrimenti «non è

costituzionalismo» (Pace).

Pertanto, anche all’interno di una logica meramente formale,

l’assolutizzazione dello Stato costituzionale come «migliore» forma di

potere viene smentita: non è necessario che vi sia uno Stato

costituzionale perché vi sia una Costituzione; più precisamente, si

potrebbe concludere, l’esistenza di una Costituzione non richiede

necessariamente l’esistenza di uno Stato.

Questa prospettiva assume maggiore risoluzione se viene inserita in

una logica storicistica: se l’essenza fondante degli ordinamenti

giuridici sta nella loro costituzione materiale è più che ragionevole che

il «processo costituente» europeo abbia da tempo raggiunto il suo

«punto di non ritorno» sul piano sostanziale, nella misura in cui il

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complesso delle regole che ne costituiscono l’ossatura di base è

divenuto «diritto vivente» di tutti i popoli che aderiscono all’Unione, e

costituzione materiale dell’intera struttura socioeconomica europea.

4.3. – Globalizzazione e Costituzione multilivello

SINTESI: La nuova Costituzione europea multilivello trae

fondamento da rivoluzionarie trasformazioni socioeconomiche e dai

conseguenti mutamenti delle costituzioni materiali degli stati

nazionali, che tendono a convergere nella formazione di una

costituzione materiale (economica) globale.

L’approccio formalista nella spiegazione dei processi di transizione

sovranazionale delle spazio costituzionale, nella misura in cui tenta

affannosamente di ricondurre l’analisi dei medesimi dentro le strettoie

concettuali della teoria tradizionale dello Stato e della Costituzione,

porta a risultati deludenti, perché rende invisibile l’azione di fenomeni

oggettivi di dimensione ultrastatale.

Occorre infatti rilevare che l’accelerazione delle trasformazioni

costituzionali in tutto il pianeta a cavallo tra il secondo e il terzo

millennio non deriva da azioni coscienti e premeditate di poteri

mondiali occulti o palesi finalizzate a usurpare la sovranità degli Stati

nazionali, ma da cascate di eventi in larga misura oggettivi e

incontrollabili, la cui spiegazione non può essere ricondotta nell’alveo

dei volontarismi della politica costituzionale ma deve essere valutata

alla luce dello studio dei mutamenti nelle costituzioni materiali degli

Stati nazionali.

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Le regole che la “Costituzione” europea stabilisce per i parlamenti e i

governi nazionali esistevano, sotto forma di imperativi economici,

ancora prima che i Trattati le formalizzassero: allargamento e

liberalizzazione del mercato, privatizzazioni, de-nazionalizzazione,

deregulation, stabilità finanziaria, equilibrio monetario, hanno il

fondamento comune in un processo materiale che riduce i margini di

manovra degli Stati (Baldassarre), ridimensiona le funzioni pubbliche,

separa il controllo della moneta dalla politica economica dei governi,

riconfigura le regole della finanza, obbliga i pubblici poteri a

metamorfosi radicali, soggettive e oggettive, depotenzia le dottrine

giuridiche e le obbliga a riconvertirsi, modernizza le amministrazioni,

ne impone la produttività e ne razionalizza la spesa, decentra la

fiscalità e innesta la competizione dei territori e delle istituzioni, è

incompatibile con inefficienza e corruzione dei funzionari, smantella e

ristruttura i processi di regolazione, sposta e riduce i confini economici

dello Stato, espande le libertà del mercato e la concorrenza.

In termini sintetici, il processo di globalizzazione dell’economia

provoca la crisi delle «costituzioni keynesiane» (Buchanan), vale a

dire le costituzioni sociali e interventiste, condizionandole a regole

oggettive, quali il principio del mercato competitivo, la stabilità

monetaria, il rispetto di equazioni parametriche, espresse in funzione

della ricchezza effettivamente prodotta, nel controllo della finanza

pubblica. La sanzione per la violazione di queste regole è la crisi

fiscale, di razionalità e di legittimazione, con la conseguente perdita

di identità, ricchezza, sovranità.

Il nucleo fondante di tali regole non è determinato da nessuno, il loro

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contenuto non è influenzabile dai pubblici poteri. Attraverso questa

chiave, la globalizzazione può essere letta come una forza materiale di

trasformazione delle costituzioni e di convergenza dei modelli

costituzionali; questa forza viaggia da sola, e non sembra possibile

invertirne la direzione. Pertanto, se le dislocazioni transnazionali della

sovranità monetaria e finanziaria possono essere lette come risposte

obbligate alle crisi economiche, monetarie, finanziarie e fiscali degli

Stati, innestate dai processi di globalizzazione dell’economia, la

traslazione di sovranità verso l’Europa o altri poteri ultrastatali non è

un aspetto della globalizzazione, ma è la risposta ad essa, così come il

prevalere della Costituzione europea sulle costituzioni nazionali non è

un effetto dell’azione di lobby multinazionali, ma la migliore difesa

dei popoli degli Stati membri contro la violenza cieca della

globalizzazione.

In tale contesto, è un grave errore strategico reclamare il ritorno alle

sovranità nazionali e al costituzionalismo statuale, indebolendo le

Istituzioni europee. Occorre invece costruire un nuovo

costituzionalismo e un nuovo diritto costituzionale che riallinei, in uno

spazio multilivello, indirizzo politico, governo dell’economia e

garanzia dei diritti, non solo nella «casa» europea, che è quasi

completa, ma anche nella città globale, di cui si scorgono le fondazioni

giuridiche, così fragili in un preoccupante contesto di violenza

militare, eppure così vitali.

Ovviamente, il nucleo è nella questione della sovranità. È noto da

tempo che il concetto di sovranità degli Stati nazionali è «relativo e

fortemente storicizzato», e nello «stadio attuale dello sviluppo storico

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... più che esprimere una precisa realtà, tende sempre più a configurarsi

come mera sintesi verbale»; l’attenzione dell’interprete deve spostarsi

dal «tema astratto della titolarità a quello concreto dell’esercizio dei

poteri sovrani»; ne deriva che la sovranità popolare deve esprimersi

mediante la funzione di governo, intesa non solo come governo in

senso stretto, né solo come azione dell’insieme degli organi di vertice

dello Stato, bensì in una accezione molto più ampia, di «insieme dei

poteri e delle forze, non solo di apparato e non solo statali, in grado di

guidare gli sviluppi politici della comunità» (Cheli).

In questa ottica, la sovranità oggi si presenta frazionata e

distribuita variamente ai diversi livelli, e si dispiega in un

«polycentric, pluri-systemic, multi-state legal order» (MacCormick);

dunque la crisi della sovranità statale non significa crisi della sovranità

tout court: il mercato non è un soggetto; è solo una icona ad alta

risoluzione della costituzione economica, che non ha soggettività, non

prende decisioni, non ha volontà. Il costituzionalismo non può

comunicare con le icone; se oltre a queste davvero non ci fosse altro,

se non vi fossero più poteri e soggetti sovrani da limitare e garanzie da

proceduralizzare, allora il costituzionalismo scomparirebbe, insieme

allo Stato.

In realtà, all’interno della mondializzazione dei mercati e del potere,

costituzionalismo e diritto costituzionale esistono ancora, anzi esistono

necessariamente, forse anche con maggior rilievo rispetto al passato.

Soltanto, la loro lettura è possibile solo a patto che si esca dai confini e

dai linguaggi della dottrina dello Stato, incapace di descrivere,

spiegare e orientare la complessità dell’attuale movimento

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costituzionale (Häberle) e si cancelli la linea di demarcazione tra il

diritto pubblico e il diritto internazionale, perché l’economia globale

non potrà che esprimere un diritto pubblico globale, in cui le istituzioni

sovrane, studiate e sistematicamente ordinate, non sono circoscritte ai

poteri costituzionali classici dello Stato. Non siamo nel campo delle

congetture: tutto questo sta già avvenendo. È solo un problema di

linguaggio giuridico scientificamente appropriato.

5. – Scienza del diritto, diritto pubblico, diritto costituzionale

SINTESI: Una teoria del diritto pubblico ha validità scientifica solo

se è diretta a descrivere con metodi oggettivi il ruolo e l’influenza di

fenomeni «costituzionali» nel contesto dell’ordinamento giuridico.

Teorie che abbiano l’obiettivo di influire sui suddetti fenomeni per

orientarli e guidarli non hanno alcun valore scientifico, e si

sostanziano in «politiche del diritto» pubblico.

La catalogazione e la spiegazione degli ordinamenti giuridici è, in

prima approssimazione, l’oggetto della scienza del diritto, sulla cui

natura e sulla cui stessa legittimazione teorica esiste una quantità

infinita di problemi e discussioni.

Per di più, in dottrina si è tradizionalmente riconosciuta la necessità di

introdurre nella scienza del diritto partizioni (che oggi, in linguaggio

burocratico-ministeriale comune a tutte le altre discipline scientifiche,

si chiamano settori scientifico-disciplinari, a dire il vero spesso creati

più per questioni accademiche e didattiche che per reali esigenze

scientifiche). A ciascuna di tali partizioni gli studiosi di settore

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tendono ad attribuire esplicitamente autonomia scientifica, oltre che

autonomia didattica, con la conseguenza che la scienza giuridica si è

riprodotta e moltiplicata in discipline settoriali; si parla, in questo

senso, di scienza del diritto civile, amministrativo, commerciale,

costituzionale e così via.

A parte alcune discipline comuni (teoria generale, diritto

comparato) o di confine (filosofia del diritto) la principale dicotomia è

quella tra diritto privato e diritto pubblico; il primo studia regole e

modelli dei rapporti tra individui e gruppi in posizione simmetrica di

parità; le sue partizioni interne più importanti sono il diritto civile, il

diritto del lavoro, il diritto commerciale.

Il secondo ha come oggetto l’analisi e la catalogazione della

struttura e dell’azione dei centri di potere (autorità) e delle relazioni

tra questi e la libertà degli individui. In particolare il suo oggetto è

tradizionalmente lo Stato, e si è poi esteso ai poteri sovranazionali. Il

diritto pubblico comprende, tra le altre partizioni, il diritto penale, il

diritto processuale, il diritto internazionale, ma la suddivisione

principale è tra il diritto amministrativo, che ha per oggetto

l’organizzazione e la funzione delle pubbliche amministrazioni, quali

apparati serventi dei centri di potere, e il diritto costituzionale, più

orientato all’analisi della struttura e della dinamica dei centri di potere

sovrano e della composizione generale del rapporto tra autorità e

libertà.

Per una migliore comprensione della portata, dei confini e dei

caratteri della disciplina del diritto costituzionale occorre premettere

che una teoria del diritto costituzionale ha un senso scientificamente

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definito solo se ha la funzione di descrivere l’influenza di fenomeni

«costituzionali» sulla trama fisica del diritto stesso, così come esso

dispiega la sua effettività nei vari settori e nella società nel suo

complesso. In questo senso, essa costituisce contemporaneamente

un’analisi del disegno delle norme-base e una teoria dei limiti materiali

alla volontà e all’azione degli attori del diritto; abbiamo cioè una

nozione descrittiva/materiale del diritto costituzionale, che ne

approssima la natura alla configurazione minima perché una disciplina

possa essere considerata «scientifica» in senso proprio.

Un diverso approccio, una teoria costituzionale che abbia

l’obiettivo di influire sul diritto, o più precisamente sull’uso del

diritto da parte del potere, cade nel soggettivismo, nella misura in cui

pretende di costruire prescrizioni di rango costituzionale che modellino

il diritto e/o limitino culturalmente l’autonomia e la discrezionalità

degli attori. Invece di studiare e spiegare i fenomeni costituzionali

queste dottrine vi intervengono direttamente, cercando di guidarli: non

c’è nulla di più lontano dalla scienza, quando un (presunto) scienziato

può e/o vuole influire sul fenomeno che studia.

Qui abbiamo una nozione prescrittiva/ideologica del diritto

pubblico e costituzionale. Siamo cioè di fronte a «costituzionalismi»

che non hanno nulla a che vedere con la dottrina del potere limitato,

che non solo è la vera essenza del costituzionalismo, ma è anche

l’unica ragionevolmente valida sul piano scientifico; piuttosto che di

teoria (costituzionale) del diritto qui occorre parlare di ideologie

costituzionali del diritto, o di «politiche del diritto» costituzionale.

Tipico di queste correnti di pensiero è la continua emissione di giudizi

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di valore sulle scelte costituzionali degli organi pubblici o dei popoli;

bene ha fatto il popolo francese a dire «non» alla Costituzione

europea; male (o bene) ha fatto la Corte costituzionale italiana a

giudicare in questo modo o in quello; le scelte del governo in materia

di federalismo sono incostituzionali, irrazionali, sbagliate, giuste,

eccessive. In definitiva, questo tipo di argomentazione è tipico di una

dottrina politica, non di una disciplina scientifica; qualsiasi pretesa di

oggettività è completamente eclissata; non si studia la Costituzione

effettivamente vigente in sé e gli effetti di questa sull’ordinamento, ma

si prospettano tante pretese costituzionali quante sono le scuole dei

costituzionalisti, a volte quanti sono i costituzionalisti. Ad esempio, di

fronte alle difficoltà di attuazione dei diritti sociali, questo modello di

pensiero può esprimere un range di soluzioni offerte da studiosi che si

dichiarano tutti, e ovviamente sono tutti, costituzionalisti. Così mentre

alcuni, anzi molti, sostengono la richiesta imperativa di diritti sociali a

tutti i costi, come conseguenza di una idea «alta» di costituzionalismo

«sociale», altri, da McIllwain in poi, affermano che i diritti sociali

costituiscono al contrario un attacco ai principi del costituzionalismo

in quanto, piuttosto che cercare i limiti al potere politico, ne

aumentano campo di azione e discrezionalità.

Da un diverso punto di vista, in relazione alla estensione

dell’oggetto, si deve rilevare che la scienza del diritto costituzionale

è stata tradizionalmente connessa alla teoria della Costituzione

(formale), intesa come assetto di regole che stabiliscono tecniche e

procedure finalizzate alla limitazione e al bilanciamento dei pubblici

poteri. Tuttavia, richiamando le argomentazioni svolte in precedenza, è

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necessario salire a un diverso livello metodologico, introducendo

l’azione del principio di storicità e delle trasformazioni della

costituzione materiale che configurano il diritto costituzionale come

disciplina dinamica e in continua evoluzione, sia perché la

Costituzione, da sola, non è altro che law in the books, sia perché

sfuggirebbe totalmente, allo studioso del diritto costituzionale, tutta

l’area del potere sovranazionale di rilevo costituzionale.

Va pertanto escluso che il diritto costituzionale sia limitato allo

studio dei principi fondamentali di organizzazione e funzionamento

del c.d. «Stato costituzionale» (quello organizzato secondo i “dettami”

del costituzionalismo); la ragione oggettiva dovrebbe risultare chiara

da quanto si è detto nei precedenti paragrafi, e la medesima

conclusione è stata di recente elegantemente argomentata (Rinella),

spiegando che il futuro del diritto costituzionale va oltre lo Stato,

mentre altri hanno offerto una motivazione soggettiva forte di un

nuovo costituzionalismo (trasnazionale, post-nazionale o

sovranazionale che dir si voglia), racchiusa nella necessità di «forgiare

gli strumenti mediante i quali i singoli possano sia influire sul c.d.

sistema europeo di governo multi-livello ... sia continuare ad influire

sugli Stati» (Pace).

Accettando questa impostazione, spetterebbe ai costituzionalisti

non solo battersi contro il potere arbitrario, ma anche risolvere i

problemi e indicare soluzioni. E dato ilcore della teoria costituzionale

dell’Unione europea è nella sua Costituzione economica, cosa dovrà

chiedere (o imporre) allora il “nuovo costituzionalismo” agli Stati,

all’«Europa costituzionale» e ai poteri globali? Sarà ancora sufficiente

battersi per diritti e garantismi, freni e contrappesi, bilanciamenti e

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proceduralizzazioni, e contro premier (ritenuti) eccessivamente

spregiudicati? Oppure i costituzionalisti dovranno rivedere il proprio

armamentario e ricostruire nell’arena europea e sopranazionale,

insieme al costituzionalismo dei diritti e delle garanzie, il

costituzionalismo dei rapporti economici?