intro a aristotetele
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1
Introduzione alla filosofia di Aristotele
1: Vita e scritti
Bibliografia scelta: (1) E. Berti, Profilo di Aristotele, Milano 2012; (2) J. Barnes,
Aristotele, trad. di C. Nizzo, Torino 2002
2: La filosofia e le scienze
Testi principali: Metafisica A; Analitici Secondi
Testo scelto: Analitici Secondi I 2
3: La logica e la scienza
Testi principali: De interpretatione; Analitici Primi; Topici
Testo scelto: Analitici Primi I 2
4: Gli oggetti della scienza filosofica
Testi principali: Metafisica A, , E, M, N
Testo scelto: Metafisica 1
5: Le categorie
Testi principali: Categorie
Testo scelto: Categorie 7
6: Le sostanze
Testi principali: Metafisica , Z, H,
Testo scelto: Metafisica Z 3
7: La natura
Testi principali: Fisica I-II; Le parti degli animali I
Testo scelto: Fisica II 1
8: La causalità
Testi principali: Fisica II; Le parti degli animali I; Metafisica
Testo scelto: Fisica II 3
9: La teleologia
Testi principali: Fisica II; Le parti degli animali I; La generazione degli
animali I
Testo scelto: Fisica II 8
10: La psicologia
2
Testi principali: L’Anima; Sulla sensazione
Testo scelto: L’anima, II 6, 418a7-25
11: La politica
Testi principali: La politica; La costituzione di Atene
Testo scelto: Politica I 2
12: La poetica
Testi principali: Retorica; Poetica
Testo scelto: Poetica 6
3
1: Vita e scritti di Aristotele (384/3-322/1)
Aristotele muore nell’autunno del 322/1 a.C. Aveva sessantadue anni ed
era nel pieno delle sue forze: studioso infaticabile, celebre filosofo e
scienziato, maestro che aveva formato generazioni di allievi più o meno
illustri—era stato il precettore di Alessandro il Grande—figura pubblica
controversa.
Si sa molto poco della sua vita. Proveniva da famiglia ricca. A
diciassette anni, nel 367/6, entrò nell’accademia di Platone, dove studiò e
poi insegnò fino al 348/7. Poi lasciò improvvisamente la città, non si sa
bene per quale motivo, forse perché nel 348 ad Atene prese il potere
Demostene con i suoi alleati antimacedoni, mentre pare che Aristotele
(sebbene la cosa sia controversa) ebbe per tutta la vita rapporti con la
Macedonia (suo padre era medico alla corte di Macedonia e amico del
padre di Filippo II; nel 343/2 Aristotele diviene precettore di Alessandro, e
comunque fu sempre visto come amico dei Macedoni). Come che sia,
Aristotele con alcuni compagni fece vela verso est, si stabilì ad Atarneo, al
cui governo si trovava Ermia, amico della filosofia e dei macedoni. Ermia
diede ad Aristotele e ai suoi amici la città di Asso, dove A. restò per
qualche anno. Poi si spostò a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove incontrò
Teofrasto, che sarebbe divenuto il suo allievo più fedele e il suo assistente.
Infine tornò nella sua città natale, Stagira (città-stato della Grecia
settentrionale, situata nella parte alta della penisola Calcidica), dove rimase
fino a quando non fu convocato da Filippo per diventare appunto precettore
del figlio Alessandro. Nel 335/4 tornò ad Atene e fondò il suo Liceo, in cui
insegnò fino al 322/1. Nella primavera del 322 dovette ripartirsene da
Atene, ancora una volta probabilmente per i sentimenti antimacedoni che
riacquistarono forza dopo la morte di Alessandro (nel giugno del 323).
4
Morì pochi mesi dopo, a Calcide, nell’isola di Eubea.
Generalmente si ritiene che la vita di un filosofo sia scollegata dalla sua
produzione filosofica (il caso celebre è quello di J.-J. Rousseau, che scrisse
un’opera sull’educazione ideale dei fanciulli, e poi abbandonò i suoi
numerosi figli in orfanotrofio). Nel caso di Aristotele, invece, tale
separazione è stata messa radicalmente in dubbio da un grande studioso, W.
Jaeger, che nel 1923 scrisse una monografia su Aristotele1 in cui inaugurò
il celebre metodo “storico-genetico”, cioè, come afferma Berti (Profilo di
Aristotele, p.10), «la tendenza a ricostruire la genesi e lo sviluppo delle
varie dottrine filosofiche in stretto collegamento con la vita, con l’ambiente
e in generale con la situazione storica». Attraverso l’impiego di tale
metodo, Jaeger ottenne una serie di risultati, in parte accettati come dogmi
da tutti gli studiosi di Aristotele, in parte rifiutati per la troppa radicalità.
Uno dei risultati oramai accettati da tutti è la divisione in tre grandi
periodi della vita di Aristotele, cui corrispondono, anche se non in modo
rigido, tre diverse fasi della sua produzione filosofico-scientifica:
(1) 367/6-348/7: il periodo accademico, in cui Aristotele studiò e
insegnò nell’Accademia di Platone, periodo caratterizzato da una
sostanziale adesione (totale secondo Jaeger, critica secondo altri studiosi,
tra cui Berti) alle dottrine platoniche, ma anche da una prima elaborazione
di parti del suo sistema filosofico (dettagli in Berti, 1° capitolo);
(2) 348/7-335/4: gli anni di viaggio, in cui Aristotele sviluppò soprattutto
le sue ricerche scientifiche;
(3) 335/4-322/1: gli anni del suo rientro ad Atene, in cui fondò il suo
liceo, una scuola in evidente competizione con l’Accademia di Platone, ma
anche con altre celebri scuole più basate sulla retorica, come quella di
1 Aristoteles, Berlino 1923 (trad. it. di G. Calogero, Aristotele, Firenze 1935 (varie ristampe, di cui
l’ultima pubblicata a Milano nel 2004 con prefazione di E. Berti)).
5
Isocrate. In questo periodo Aristotele rimette le mani nella sua filosofia,
completandone le parti antiche e elaborandone di nuove.
Tutto quello che ho appena detto va preso con le debite precauzioni, dal
momento che per Aristotele, come spesso succede per molti filosofi antichi,
si pongono due problemi:
1) il problema della cronologia;
2) il problema dei suoi scritti.
1) La cronologia
Secondo tutti gli studiosi (tra cui Berti, Profilo di Aristotele, p. 12), le
fonti per la conoscenza della sua vita sono poche e di dubbia credibilità.
Sono considerati più attendibili alcuni documenti, e cioè il testamento di
Aristotele, e alcune iscrizioni, che però danno delle indicazioni assai
limitate.
Tra i biografi di Aristotele ricordiamo Diogene Laerzio (II-III d.C.), che
scrive le sue Vite e dottrine dei filosofi illustri più di cinquecento anni dopo
Aristotele, pur attingendo a una biografia più antica (del III secolo a.C.), e
un certo Tolomeo (IV d.C.) dalla cui biografia ne sono state tratte una serie
in greco, in latino, in siriaco e in arabo. Diogene Laerzio è considerato non
molto attendibile perché mescola notizie di varia provenienza, spesso di
seconda mano, con intelligenza variabile. Tolomeo invece era
filosoficamente viziato, poiché, essendo di tendenza platonizzante, ha
mirato a mostrare la sostanziale concordanza tra Platone ed Aristotele.
Comunque, la cronologia di cui si tiene conto per stabilire i tre periodi della
vita di Aristotele è quella riportata da Diogene Laerzio e risalenti alle
cronache di Apollodoro, storico ateniese del II secolo a.C2.
2 E’ interessante notare che il sistema di datazione dell’epoca non era un sistema di cifre (giorno, mese,
anno) come il nostro, ma si basava sugli arconti che si succedevano regolarmente ad Atene (come in
6
2) Gli scritti
Diogene Laerzio fornisce un elenco di scritti aristotelici notevole,
qualcosa come 150 titoli che, riuniti e pubblicati con gli standard attuali,
equivarrebbero più o meno a cinquanta grossi volumi3. E l’elenco non
include tutti gli scritti di Aristotele: per esempio, non include la Metafisica
(che di fatto è una riunione di vari trattati di Aristotele attribuita a un
editore del I d.C., Andronico di Rodi), né l’Etica Nicomachea, che sono tra
le opere più studiate di Aristotele. Si tratta di un elenco che mostra una
quantità di interessi smisurata: sulla giustizia, sulla ricchezza, sull’anima,
sui pitagorici, sugli animali, su Omero, sui proverbi, sulla fisica, sul
linguaggio, ecc. ecc.
Dei suoi scritti ne è sopravvissuto solo un quinto, anche se piuttosto
rappresentativo delle sue straordinarie capacità. Le sue opere vengono
tradizionalmente divise in opere esoteriche (o interne) ed essoteriche (o
destinate alla pubblicazione). Le essoteriche (dialoghi di stile platonico)
sono andate tutte perdute, tranne qualche frammento. Noi possediamo gran
parte delle opere esoteriche, cioè di trattati dedicati all’insegnamento e
comunque al Liceo (e forse, nelle loro parti più antiche, dedicati
all’insegnamento nell’Accademia platonica). Proprio perché opere di
scuola, sono difficili da leggere perché scritte non per la pubblicazione
(cioè, per la circolazione pubblica e ufficiale), quindi con uno stile poco
accurato, e anche perché sono state chiaramente rimaneggiate, o da
Aristotele o anche dai suoi allievi. Lo stile però c’è, e anche l’eleganza e la
potenza di ragionamento: ne vedremo parecchi esempi.
Platone e Aristotele
Fin dall’antichità molto si è dibattuto sul rapporto tra i due grandi
Apollodoro), e in seguito +sui giochi olimpici, che si succedevano ogni quattro anni. 3 J. Barnes, Aristotele, p.5.
7
filosofi, e a questo proposito sono state assunte posizioni molto varie, che
vanno dal sostenere un’aperta ostilità tra i due a sostenere una sostanziale
conciliazione. Nell’Etica Nicomachea si trova una frase che più tardi ha
dato luogo alla celebre frase medievale, attribuita appunto ad Aristotele che
dice Amicus Plato, sed magis amica veritas. Questa frase significa che
Platone è e resta un amico, ma che l’amicizia per lui non può impedire ad
Aristotele di criticare le sue dottrine, qualora sia necessario per palesare la
verità. Ed è indubbio che Aristotele, allievo ma anche collega di Platone,
pur dichiarandosi a volte platonico (per esempio nel libro Alpha della
Metafisica), ha criticato spesso, e a volte molto aspramente, il suo maestro.
Anzi, un luogo comune afferma che Aristotele abbia elaborato gran parte
delle sue teorie in opposizione a quelle di Platone. In realtà, come molti
studiosi riconoscono4, in Aristotele c’è molto Platone, anche se ovviamente
Aristotele progressivamente si è staccato da Platone per elaborare delle
dottrine personali. Platone ha influenzato Aristotele in almeno cinque
aspetti5.
i) Platone ha riflettuto molto sull’unità delle scienze. Ha concepito la
conoscenza come un sistema almeno potenzialmente unificato, che
rifletteva un mondo organizzato in maniera coerente. Aristotele accoglie
questa visione di una teoria unificata della scienza, anche se se ne distaccò
sulla maniera di concepirla.
ii) Platone era in certo qual modo un logico perché ereditò e sviluppò la
confutazione socratica, inserendola in una dialettica che era anche esercizio
di ragionamento, come dialoghi quale il Parmenide o il Sofista mostrano
chiaramente. Così facendo ha preparato il terreno ad Aristotele che, pur
dichiarandosi a ragione l’inventore della logica, ha potuto esserlo proprio
4 Berti nel suo Profilo di Aristotele presenta un’accuratissima analisi dei rapporti tra Platone e Aristotele e
sul platonismo di quest’ultimo. Vedi anche Barnes, Aristotele, cap. V, Il retroterra filosofico.
8
per il retroterra dialettico dell’Accademia Platonica.
iii) Platone si è occupato di problemi ‘ontologici’, cioè ha indagato su
quali enti esistono realmente. A causa di un percorso suo, è giunto alla
conclusione che le vere realtà esistenti sono le idee, cioè gli universali
astratti (non Socrate, ma l’uomo; non Bucefalo ma il cavallo). Aristotele
criticherà aspramente la dottrina delle idee, ma molti dei suoi sforzi
saranno rivolti a costruire un’ontologia alternativa.
iv) Platone concepiva la conoscenza scientifica come una ricerca delle
cause e delle spiegazioni delle cose. Per lui le nozioni di scienza e
conoscenza sono intimamente associate ed esaminano i tipi di spiegazioni
possibili anche per i fenomeni. Aristotele fece interamente suo questo
punto di vista, come avremo modo di vedere.
v) Infine, la questione della conoscenza stessa. Platone si è variamente
interrogato su come si può conoscere, su questioni epistemologiche. E
anche in questo caso, Aristotele ha seguito le orme del suo maestro.
5 Vedi Barnes, op.cit., pp. 32-34.
9
2: La filosofia e le scienze
Testi principali: Metafisica A; Analitici Secondi
Testo scelto: Analitici Secondi I 2
Come ho detto in precedenza, uno degli aspetti che Aristotele riprende
dal suo maestro Platone è la visione di una teoria unificata delle scienze. In
particolare, Aristotele ha pensato che il sapere si ottiene attraverso la
scienza, ma la scienza viene divisa da Aristotele in parti, precisamente in
tre. In Metafisica Epsilon 1025b25 egli infatti afferma che «ogni pensiero
razionale (dianoia) è o pratico, o produttivo o teoretico», e sulla base di
questa affermazione distingue le scienze in teoretiche, pratiche e
produttive. (1) Le scienze teoretiche, come per esempio la geometria,
hanno come scopo la conoscenza di per sé; (2) le scienze pratiche, come
l’etica e la politica, riguardano il comportamento, hanno cioè lo scopo di
‘produrre’ una praxis (qui Aristotele dà un contributo fondamentale
scrivendo appunto i suoi trattati sull’etica e la politica); (3) le scienze
poietiche (da poiein, fare), di cui fanno parte tutte le arti (technai), come
l’agricoltura, l’arte di fare le scarpe, la cosmesi, ma anche la poesia e la
retorica (e anche su queste Aristotele scrive dei trattati fondamentali e
ancor oggi studiatissimi) hanno lo scopo di produrre qualcosa, tra cui anche
un discorso, o una poesia.
Per Aristotele, la conoscenza teoretica merita un posto a parte. Essa è
superiore alle altre precisamente perché il fine è la conoscenza per se
stessa, cioè non strumentale a nessuna produzione (né comportamentale, né
tecnica). La sua superiorità si basa su un’opinione che probabilmente
Aristotele riteneva universale e condivisa da tutti, e cioè che «tutti gli
uomini per natura tendono a conoscere» (Metafisica Alpha, 980a1. Si tratta
dell’inizio di quello che è considerato il primo libro della Metafisica).
10
Questo perché, platonicamente, Aristotele riteneva che l’uomo dovesse
essere identificato con l’intelletto (nous)—la cui attività fondamentale è
pensare e conoscere, come alcuni passi dell’Etica Nicomachea e non solo
mostrano.
La conoscenza teoretica viene a sua volta divisa da Aristotele in tre tipi6:
(1a) la matematica (o meglio, le matematiche, aritmetica e geometria); (1b)
la ‘fisica’ (chiamata così da Aristotele, ma da intendersi come scienza
naturale, che quindi include zoologia, psicologia, meteorologia, chimica e
fisica propriamente detta, quella che in generale si occupa delle entità in
movimento); (1c) la teologia, termine che dev’essere utilizzato con cautela,
perché non riguarda gli enti divini come i nostri, ma di fatto l’astronomia.
Gli esseri divini di cui si occupa l’astronomia aristotelica sono infatti gli
astri e i motori immobili; essi per Aristotele sono entità senza mutamento o
quasi (gli astri si muovono infatti di movimento circolare, il più perfetto),
superiori agli enti della fisica e loro causa prima.
Come potete notare, quasi tutte le scienze di cui si è occupato Aristotele
rientrano in questa classificazione: l’etica e la politica, la poesia e la
retorica, la fisica e l’astronomia. Quanto alle matematiche, sebbene
Aristotele non abbia dedicato ad esse dei trattati, ne parla moltissimo, e
sicuramente ne era esperto, come qualunque allievo platonico doveva
essere.
A questo punto si pongono due questioni:
(a) in questo schema dove si pongono due discipline aristoteliche
fondamentali, e cioè la logica e la filosofia?
(b) In che senso Aristotele parla di tutte queste discipline come di
‘scienze’?
(a) La prima questione è molto complicata e dipende anche da cosa si
11
intende per filosofia. Normalmente, si fa coincidere la filosofia aristotelica
con la ‘metafisica’, termine che però non è aristotelico né dal punto di vista
editoriale (titolo del trattato ‘Metafisica’), né dal punto di vista del
contenuto (Aristotele non ha mai usato il temine questo termine per fare
riferimento alla sua filosofia). Inoltre, come sappiamo, la Metafisica non è
un trattato unitario (e non compare come tale nelle lista delle opere di
Aristotele): essa non si occupa di una disciplina unica, ma comprende
trattati diversi (i vari libri della Metafisica) che hanno a che fare con
‘argomenti metafisici’ relativamente poco unificati: scienza delle cause
(libro Alpha), scienza dell’ente in quanto ente (libro Gamma, leggeremo il
testo pertinente), scienza della sostanza (libri Zeta, Eta, Theta), e
finalmente scienza delle sostanze divine o teologia. Sta di fatto che, con
qualche difficoltà, Aristotele farà rientrare tutti questi ‘soggetti metafisici’
nella teologia. In effetti, nel libro Epsilon della Metafisica (1026a30-31),
Aristotele afferma che la teologia (che abbiamo visto essere l’astronomia,
una sorta di super-fisica), occupandosi delle sostanze divine, che sono
principi e cause prime di tutte le altre cose, di fatto si occupa anche di tutte
le altre cose, perché secondo Aristotele, occuparsi delle cause prime e dei
principi delle cose significa occuparsi anche delle cose di cui essi sono
cause prime e principi.
Torneremo più avanti su questa gerarchia, per ora possiamo ricapitolarla:
1) sostanze divine
2) sostanze fisiche.
In alcuni passi Aristotele sembrerebbe aggiungere un livello intermedio
tra 1) e 2), e cioè gli enti matematici. Stabilirebbe così una gerarchia tra le
tre scienze teoretiche distinte in Epsilon 1026a18-19.
Quanto alla logica, che è la sola disciplina di cui Aristotele rivendica
6 Metafisica Epsilon, 1026a18-19.
12
esplicitamente l’invenzione (vedi Elenchi Sofistici, 184b1-8), come
sappiamo comprende sia la teoria sillogistica (Analitici Primi) sia la teoria
dell’argomentazione scientifica propriamente detta (Analitici secondi). Ora,
i successori di Aristotele furono in dubbio circa il suo status: per alcuni
essa era una ‘parte’ della filosofia (vedi gli stoici, che divisero la filosofia
in fisica, etica e dialettica (termine con cui designavano la logica)), mentre
per altri, tra cui i seguaci di Aristotele, essa fu piuttosto considerata come
uno ‘strumento’ della filosofia, qualcosa cioè che filosofi e scienziati
usavano senza considerarla oggetto dei loro studi. Tutti sanno che le opere
logiche di Aristotele (Categorie, De interpretatione, Analiti Primi, Analitici
secondi, Topici, Elenchi Sofistici) vanno tradizionalmente sotto il termine
Organon, che appunto significa ‘strumento’. Quanto ad Aristotele, egli non
dice niente sul posto della logica nel suo schema delle scienze. Ma alcuni
passi della sua Metafisica (ancora una volta, il riferimento è al libro
Gamma), sembrano indicare che il teologo deve essere anche logico: deve
per esempio occuparsi di quelli che i matematici chiamano ‘assiomi’
perché essi ineriscono a tutti gli enti (Metafisica Gamma, 1005a20;
1005b10; 1005a22-23). Ma altri passi invece tengono le due figure, quella
del filosofo e quella del logico, distinte, nonostante il fatto che i logici (nel
passo in questione, chiamati dialettici) si occupino delle stesse cose di cui
si occupano i filosofi (Metaph. Gamma, 1004b17-25).
(b) Lo statuto delle scienze
Come vedremo nel passo scelto, Aristotele quando parla di scienza ha in
mente un sistema assiomatico-deduttivo di tipo geometrico (si pensi per
esempio alla geometria di Euclide, che parte da elementi per dimostrare).
Secondo questo modello, si parte da assiomi per dedurre delle
conseguenze. Una questione naturale da porsi è quindi la seguente: le
scienze che Aristotele menziona e pratica (le teoriche, le pratiche e le
13
poietiche) devono avere, e nelle sue intenzioni hanno, questa struttura? E’
chiaramente difficile sostenere questa tesi per le scienze poietiche come la
poetica e la retorica, malgrado il fatto che Aristotele mostri sempre un
grande interesse per le definizioni, che sono il punto di partenza e, per così
dire, gli assiomi di qualunque scienza; e malgrado il fatto che vi sia un
sillogismo tipicamente retorico, chiamato ‘entimema’. Lo è anche per le
scienze pratiche, nonostante il fatto che ci sia una grande discussione
ancora in corso per l’etica, tant’è vero che alcuni parlano di ‘sillogismo
pratico’.
Cosa dire delle scienze teoretiche, tra cui, come abbiamo visto, si colloca
con qualche difficoltà anche la filosofia? Ovviamente le matematiche
possiedono questa struttura, e per questo sono state prese a modello sia da
Platone che da Aristotele, proprio perché all’epoca rappresentavano le
scienze più evolute. Le scienze della natura possono essere concepite come
scientifiche, anche se Aristotele a loro proposito parla di conclusioni che
valgono ‘per lo più’, cioè ammettono delle eccezioni (laddove le deduzioni
scientifiche sono universali e necessarie). Ma che dire della filosofia? Qui
da sempre si fronteggiano due schieramenti opposti: alcuni (tra cui
senz’altro Berti) ritengono che la filosofia, almeno quella che si trova nella
Metafisica, abbia un andamento ‘dialettico’ (in senso quasi socratico), cioè
cerchi di stabilire, sulla base di opinioni ‘notevoli’ contrapposte, i principi
da cui partire per i propri argomenti, scartando quelle che si mostrano
insostenibili perché contraddittorie; altri, sulla base di esplicite
affermazioni di Aristotele (ne vedremo alcune nella continuazione del
nostro corso), ritengono invece che Aristotele abbia quanto meno
l’intenzione di organizzare il sapere filosofico, una volta scoperto, in
sequenze scientifiche. L’obiezione seria è che nella Metafisica (come del
resto nemmeno nella Fisica) non si trovano argomenti di tipo assiomatico-
14
deduttivo. Una risposta plausibile (è quella data da J. Barnes nel volumetto
su Aristotele che ho indicato nella bibliografia della prima lezione) è che
nei trattati di Metafisica, così come in quelli appartenenti alla scienza della
natura, Aristotele è ancora impegnato a trovare le conoscenze, e in
particolare i principi da cui partire per poi organizzare i saperi filosofici.
Del resto Aristotele sembra pensare che qualunque principio, anche il più
scientifico, si costituisca a partire da ‘opinioni notevoli’ (quelle opinioni
condivise da tutti o da uomini sapienti) messe alla prova (vedi Topici A,
101a35-101b5).
Testo: Analitici Secondi I 2, 71b9-72b4
71b9 Noi crediamo di comprendere (epistasthai) ogni cosa in modo assoluto, e non in
modo sofistico secondo accidente,
10 quando crediamo di sapere a proposito della causa per cui la cosa è, che essa è
causa della cosa, e che la cosa non può essere altra da ciò che è. E’ quindi evidente che
la comprensione è qualche cosa di questo tipo: e in effetti (nel caso di) coloro che non
comprendono e (di) coloro che comprendono, i primi credono essi stessi di trovarsi
nella situazione descritta, mentre coloro che comprendono
15 si trovano nella situazione descritta. Di conseguenza ciò di cui vi è
comprensione in modo assoluto non può essere altro da ciò che è.
- Considereremo più tardi se, d’altra parte, c’è un altro modo di comprendere, ma qui
noi affermiamo che si può anche conoscere (eidenai) per dimostrazione. Chiamo
dimostrazione un sillogismo comprensivo; chiamo comprensivo un sillogismo secondo
il quale, grazie al fatto di possederlo, comprendiamo qualche cosa. Se quindi la
comprensione è come noi abbiamo stabilito, è necessario
20 che la comprensione dimostrativa proceda a partire da premesse vere e prime e
immediate e più conosciute e anteriori e cause delle conclusioni; così infatti saranno
anche i principi propri a ciò che è dimostrato. In effetti, ci sarà un sillogismo senza
queste condizioni, ma non sarà dimostrativo, perché non sarà produttivo di
comprensione.
25 - Bisogna che le premesse siano vere, perché non è possibile comprendere ciò
che non è; per esempio, che la diagonale del quadrato è commensurabile. E bisogna che
la scienza dimostrativa proceda a partire da premesse prime e indimostrabili, perché non
si avrebbe comprensione senza avere dimostrazione di esse, perché comprendere le cose
di cui si ha dimostrazione e non secondo accidente significa averne dimostrazione. E
bisogna che queste
30 premesse siano cause di e più conosciute di e anteriori alla conclusione: cause
perché è quando conosciamo la causa che comprendiamo; anteriori se veramente esse
sono cause; conosciute prima non solo grazie al fatto di afferrarle, ma anche per il fatto
di sapere che esse sono.
15
Le cose sono anteriori e più conosciute in due sensi: perché non c’è identità tra
ciò che è anteriore per natura e ciò che è anteriore per
72a noi, né tra ciò che è più conosciuto e ciò che è più conosciuto per noi. Chiamo
anteriori e più conosciute per noi le cose più prossime alla percezione, mentre chiamo
semplicemente anteriori e più conosciute le cose più lontane. Le cose più lontane sono
le cose più universali, mentre le cose più prossime sono le cose particolari; e le une
sono opposte alle altre.
5 - Procedere a partire da premesse prime è procedere a partire da principi propri;
infatti dico che primo e principio sono la stessa cosa. Principio di una dimostrazione è
una proposizione immediata, e immediata è quella di cui non ce n’è un’altra anteriore.
Una premessa (protasis) è l’una o l’altra parte di una contraddizione, che attribuisce una
sola cosa a una sola cosa; essa
10 è dialettica se prende indifferentemente qualunque parte, è dimostrativa se
prende una delle due parti in modo determinato, perché questa parte è vera. Un
enunciato (apofansis) è qualunque delle parti di una contraddizione. Una contraddizione
è un’opposizione di cui per se stessa non vi è intermediario. La parte di una
contraddizione che dice qualche cosa di qualche cosa è una negazione.
15 - Dei principi immediati di un sillogismo chiamo tesi quello che non è
possibile provare, né è necessario per chi apprende qualche cosa; chiamo assioma quello
che è necessario per chi apprende qualche cosa; infatti ci sono delle cose di questo tipo,
ed è soprattutto a cose di questo tipo che abbiamo l’abitudine di dare questo nome. Una
tesi che prende qualunque parte di una
20 contraddizione –cioè che una cosa esista o non esista—è un’ipotesi, una tesi senza
questo è una definizione. In effetti, una definizione è una tesi, perché l’aritmetico pone
che l’unità sia l’indivisibile secondo la quantità; ma essa non è un’ipotesi, perché “ciò
che è l’unità” e “l’unità esiste” non sono la stessa cosa
25 - Poiché è necessario credere e sapere la cosa grazie al possesso di un sillogismo
di quel tipo che chiamiamo dimostrazione, e questo è tale grazie alle premesse da cui il
sillogismo procede, è necessario non solo conoscere precedentemente le prime
premesse—tutte o alcune—ma anche conoscerle meglio delle conclusioni: sempre,
infatti, ciò a causa di cui qualche cosa è, è
30 più di quello; per esempio, ciò a causa di cui amiamo è più amabile. Di
conseguenza, se noi sappiamo e crediamo a causa delle premesse prime, sappiamo e
crediamo di più a queste, perché è a causa di esse che noi conosciamo anche le cose che
seguono. Ma se non conosciamo qualche cosa (e non ci troviamo e non ci troviamo in
una situazione più favorevole che se noi la conoscessimo), allora non possiamo credervi
più di quanto (crediamo) a ciò che conosciamo.
35 Ma questo capiterà se qualcuno tra coloro che credono tramite una
dimostrazione non conoscerà precedentemente: infatti è necessario credere più ai
principi—tutti o alcuni—piuttosto che alla conclusione.
E colui che vorrà possedere la comprensione che procede per dimostrazione non solo
deve conoscere più i principi e credere a questi che a ciò che è provato, ma bisogna
72b anche che nient’altro sia per lui più creduto e più conosciuto tra gli opposti dei
principi proverrà un sillogismo dell’errore contrario, se veramente colui che comprende
in modo assoluto dev’essere immutabile.
Iniziamo con il primo paragrafo.
16
71b9-147: «(1) Noi crediamo di comprendere (epistasthai) ogni cosa in modo
assoluto, e non in modo sofistico secondo accidente, quando crediamo di sapere a
proposito della causa per cui la cosa è, che essa è causa della cosa, e che la cosa
non può essere altra da ciò che è. (2) E’ quindi evidente che la comprensione è
qualche cosa di questo tipo: e in effetti sia (nel caso di) coloro che non
comprendono sia (nel caso di) coloro che comprendono, i primi credono essi
stessi di trovarsi nella situazione descritta, mentre coloro che comprendono si
trovano nella situazione descritta ».
Forma dell’argomento
In questa frase troviamo un argomento, segno ne è quel ‘quindi’. Questo
significa che ciò che precede è una premessa, la cui conclusione è appunto
sottolineata da quel ‘quindi’.
La forma dell’argomento è la seguente:
1) noi crediamo…
2) quindi…
3) in effetti…(che ha la forza di un perché). Quest’ultima frase può avere
o lo scopo di dimostrare 2), o lo scopo di dimostrare 1). Un’altra possibilità
è che 3) spieghi perché si possa inferire la conclusione 2) dalla premessa
1). Come decidere tra queste tre possibilità? Solo leggendo attentamente il
testo. Per ora lasciamo perdere 3) e concentriamoci sull’argomento
1) 2).
Qui Aristotele sembra dire una cosa del genere:
1) noi crediamo x
2) quindi: x.
Questo è un primo problema, che non ha nulla a che fare con il contenuto
delle proposizioni, ma con la forma: è infatti assurdo concludere P dal fatto
che noi crediamo P. Esempio: è assurdo concludere, dal fatto che gli asini
volano, che gli asini volano.
7 Ricordo che questo modo di riferirsi ad Aristotele, universalmente adottato, è quello dell’edizione critica
di Aristotele (5 volumi) fatta da I. Bekker e pubblicata negli anni 1831-1836 a Berlino. La notazione è
costituita dal numero di pagina, dalle lettere a o b che corrispondono alle colonne, e dalla riga. 71b9-14
significa dunque: pagina 71 de4ll’edizione, colonna b, righe 9-14.
17
Una domanda che si pone è la seguente: a chi si riferisce questo ‘noi’? Ci
sono tre possibilità: i) io, Aristotele (plurale maiestatis); ii) noi, i filosofi
(nel senso degli aristotelici); iii) noi, tutto quanto il genere umano. Ci sono
dei segni tecnici nel greco di questo testo che fanno propendere per un ‘noi’
universale, cioè tutti noi.
Ma di quale credenza generale si tratta? Di una credenza concettuale, che
si basa sul concetto che noi abbiamo di ‘uomo’. Aristotele sembra dire:
visto che noi consideriamo l’uomo come animale razionale, allora
crediamo che la conoscenza razionale sia così e così. Il che rende
l’argomento meno assurdo di quello che sembrerebbe a prima vista. In
generale, comunque, Aristotele pensa che le nostre credenze concettuali
universali (cioè, condivise da tutti) siano una garanzia di verità. Es.: noi
tutti crediamo che il sole giri intorno alla terra, quindi il sole gira intorno
alla terra. Questo come sappiamo è risultato falso, ma prima di Galileo tutti
pensavano che questa fosse una verità.
Contenuto dell’argomento
Qual è il contenuto di questa credenza universalmente condivisa? Si
tratta di una credenza relativa alla ‘conoscenza scientifica’ (si noti il verbo
epistasthai, da cui deriva episteme, termine greco per ‘scienza’). Aristotele
non nega che vi siano altri modi di conoscere, ma qui è impegnato a fornire
una sorta di definizione appunto della conoscenza scientifica, assoluta e
non sofistica (si noti il riferimento polemico ai sofisti. Si tratta di una finta
conoscenza, accidentale e non scientifica).
Secondo Aristotele, perché vi sia conoscenza scientifica, devono essere
soddisfatte tre condizioni:
a conosce scientificamente X (dove X è una proposizione)
se e solo se (sse = usato per definire, segnala un’equivalenza)
(i) a conosce Y (una o più proposizioni)
18
(ii) a sa che Y è la causa di X
(iii) a sa che X non può essere altrimenti, ovvero che la proposizione X è
vera e necessaria.
In che senso Aristotele parla di causa, o più precisamente di aitia?
Intanto va detto che la traduzione ufficiale di aitia con ‘causa’ qui è
fuorviante, dal momento che noi intendiamo per ‘causa’ qualcosa di attivo,
che fa qualche cosa, mentre in greco il termine aitia significa in generale
una spiegazione, cioè tutto ciò che costituisce una risposta alla domanda
‘perché?’. Aristotele quindi afferma che c’è conoscenza scientifica solo in
questo caso:
Y
____
X
Cioè Y, dunque X.
Ma che significa? Facciamo un esempio:
a) 32 è maggiore di 2
2
Perché
b) 3 è maggiore di 2.
L’esempio mostra chiaramente che la ragione della verità di a) risiede
nella conoscenza di b). Un altro modo per mostrare che cos’è la conoscenza
scientifica per Aristotele è il seguente
P1
P2
P3
.
.
.
____
Q
Q deriva da una serie di premesse precedenti, che sono a loro volta
19
conclusioni di ragionamenti successivi, fino a quando si arriva ad una
premessa non ulteriormente dimostrabile, auto-evidente. Questa è un
assioma.
E’ interessante notare che questa definizione di conoscenza scientifica,
che si trova in altri luoghi aristotelici (Analitici secondi 94a20; Fisica
184a12-14; 194b18-20; Metafisica Alpha, 983a25-26; alpha elatton
994b29-30) richiama l’idea platonica espressa nel Menone (98A) secondo
cui la conoscenza (episteme) stabile consiste nell’opinione legata con ‘il
ragionamento della causa’.
71b16-23 Considereremo più tardi se, d’altra parte, c’è un altro modo di
comprendere (epistasthai), ma qui noi affermiamo che si può anche conoscere
(eidenai) per dimostrazione. Chiamo dimostrazione un sillogismo comprensivo
(epistemonikon); chiamo comprensivo un sillogismo secondo il quale, grazie al
fatto di possederlo, comprendiamo (epistametha) qualche cosa. Se quindi la
comprensione è come noi abbiamo stabilito, è necessario che la comprensione
dimostrativa proceda a partire da premesse vere e prime e immediate e più
conosciute e anteriori e cause delle conclusioni; così infatti saranno anche i
principi propri a ciò che è dimostrato. In effetti, ci sarà un sillogismo senza queste
condizioni, ma non sarà dimostrativo, perché non sarà produttivo di
comprensione.
La frase iniziale (considereremo più tardi se c’è un altro modo di
conoscere scientificamente) probabilmente allude alla conoscenza dei
principi immediati delle scienze, quelli cioè la cui causa non è conoscibile
perché non c’è: gli assiomi (cf. Analitici secondi, I 3, 72b18-25 e
soprattutto II 19. Vedi anche la Generazione degli animali, II 6, 742b29-
33). Aristotele rimanda la considerazione di questo tipo di conoscenza, e si
concentra sulla conoscenza dimostrativa. Afferma che si ha dimostrazione
quando si ha un sillogismo dimostrativo, cioè quella sequenza P….Q che
abbiamo appena visto. Aristotele però dice qualcosa di più, e cioè che la
dimostrazione deve avere andamento sillogistico, cioè presumibilmente
deve avere una struttura basata sulla sillogistica sviluppata negli Analitici
20
primi. Questo ovviamente ha costituito un problema per i seguaci di
Aristotele, che per esempio si sono sforzati di mettere sotto forma
sillogistica celebri argomenti scientifici, come la transitività di Euclide
(vedi per esempio Alessandro di Afrodisia, noto commentatore aristotelico
del II-III d.C.). Devo dire con risultati non molto convincenti.
Qui però Aristotele non si concentra sulla dimostrazione, ma sui punti di
partenza delle dimostrazioni, cioè sulle premesse assiomatiche. Nel passo
visto, egli individua sei caratteristiche delle premesse in senso stretto, cioè
di quelle premesse che non possono anche fungere da conclusioni. queste
caratteristiche sono tradizionalmente divise in due gruppi:
A) le prime tre riguardano le premesse considerate in se stesse (vere,
prime, immediate);
B) le altre tre riguardano le premesse in relazione alle loro conclusioni
(più note, anteriori e cause delle conclusioni).
Nella continuazione del testo, Aristotele spiega in maniera più o meno
comprensibile queste sei caratteristiche:
1) verità: una premessa deve dire come stanno le cose, non come non
stanno. L’esempio è il seguente: Non si può avere conoscenza scientifica
del fatto che la diagonale è commensurabile con il quadrato (infatti, la
diagonale non è commensurabile con il quadrato, come tutti sappiamo).
2) e 3) primitività e immediatezza: A. sembra dire che essere primo e
immediato significa essere primo e indimostrabile, e sembra poi far
coincidere la primitività appunto con l’indimostrabilità (vedi infra, passo
che inizia dalla riga 25). Infatti, osserva Aristotele, in caso contrario
esisterebbero delle verità precedenti da cui potrebbero essere derivate le
proposizioni in questione, che quindi non sarebbero principi primi o
assiomi.
4) più conosciuto: nella misura in cui la nostra conoscenza dei teoremi
21
dipende dagli assiomi, è ragionevole affermare che gli assiomi debbano
essere più noti dei teoremi;
5) e 6) anteriorità e causa: questa duplice caratteristica si collega più
direttamente alla concezione aristotelica della conoscenza. La nostra
conoscenza abbiamo visto che implica la conoscenza delle cause, e la
conoscenza dei teoremi implica la conoscenza delle cause. Di conseguenza,
gli assiomi devono individuare le cause ultime (le spiegazioni, possiamo
dire alla luce di quanto visto in precedenza) che spiegano i contenuti
espressi dai teoremi.
Per capire cosa vuol dire, facciamo un esempio tratto dalle Parti degli
animali 664a8-11; 674b5-148.
- Perché le mucche hanno le corna?
- Perché non hanno i denti (la materia che avrebbe formato i denti va a
formare le corna).
- Perché non hanno i denti?
- Perché hanno quattro stomaci (e quindi possono digerire il cibo
masticato).
- Perché hanno quattro stomaci?
- Perché sono ruminanti.
- Perché sono ruminanti?
- Perché sì.
Cioè, semplicemente perché sono mucche. Non ci sono ulteriori
caratteristiche, al di là del loro essere mucche, che spieghi perché le
mucche sono ruminanti. Che le mucche siano ruminanti e auto esplicativo.
Di solito Aristotele dice che tali fatti auto esplicativi sono definizioni o
parti di definizioni. Le definizioni per Aristotele esprimono l’essenza della
cosa; e Aristotele concepisce la scienza come un metodo che partendo dalle
22
caratteristiche essenziali di certe entità (es. il triangolo a tre lati e tre
angoli) deduce caratteristiche essenziali ma non definizionali (es. la somma
dei tre angoli di un triangolo è di 180°).
Aristotele conclude il passo affermando che con queste caratteristiche, le
proposizioni saranno dei principi appropriati alle dimostrazioni. Aristotele
non esclude che ci siano sillogismi senza premesse di questo tipo (ho già
fatto l’esempio dei sillogismi pratici o degli entimemi); semplicemente,
non saranno dimostrativi, perché non produrranno una conoscenza
scientifica.
8 Vedi Barnes, op. cit., p. 50.
23
3: La logica e la scienza9
Testi principali: De interpretatione; Analitici Primi; Topici
Testo scelto: Analitici Primi I 2
La scienza per Aristotele si presenta, come abbiamo visto, come un
sistema assiomatico-deduttivo. Negli Analitici secondi egli, tra le altre
cose, presenta le caratteristiche che devono avere i principi primi o assiomi
delle scienze. Negli Analitici primi, invece, Aristotele presenta le regole di
deduzione, cioè la forma che devono possedere tutte le deduzioni. Questo
insieme di regole costituisce il primo trattato di logica formale, che avrà
enorme influenza sulla logica successiva fino alla fine dell’800.
La logica di Aristotele si basa su un preciso concetto di proposizione.
Nel De interpretatione, testo dell’Organon dedicato appunto alla teoria
dell’enunciato o proposizione, Aristotele per prima cosa osserva che molti
sono gli enunciati significanti, ma non tutti costituiscono delle
enunciazioni. Sono enunciazioni solo quelle in cui si trovano verità o falsità
(De interpretatione, 16b33-17a3), e sono le uniche proposizioni a cui il
logico si interessa: ordini, domande, esortazioni e simili sono anch’essi
significativi, ma sono oggetto di studi di altre discipline, come la retorica o
la linguistica.
Un’altra distinzione che si trova nel De interpretatione (17a20-22) è
quella tra enunciazione semplice, che afferma o nega qualcosa di
qualcos’altro, e enunciazione composta, costituita da enunciazioni
semplici.
Le enunciazioni semplici, osserva Aristotele, affermano o negano
qualcosa di qualcosa, e in questo Aristotele è erede di Platone, che nel
Sofista aveva affermato che il discorso minimo, e come tale soggetto a
9 Vedi su tutto questo J Barnes, op.cit, p.42-47.
24
verità o falsità, è costituito da nome e verbo (262c-263b). Tuttavia, in molti
aspetti Aristotele supera ampiamente le osservazioni platoniche. Per prima
cosa egli chiama le enunciazioni semplici di cui si serve la logica
‘proposizioni’ (protasis, termine greco che significa anche ‘premessa’).
Inoltre, le proposizioni vengono analizzate nei termini di soggetto (S) e
predicato (P), nel senso che, se una proposizione dice o nega P di S, allora
S e P sono i suoi termini. Le proposizioni semplici, poi, vengono divise in
universali o particolari, cioè in proposizioni che affermano o negano P o di
ogni S o di qualche S. Per esempio, “tutti gli uomini sono mortali” afferma
l’essere mortale di tutti gli uomini; “alcuni animali non hanno sangue”
nega l’avere sangue di alcuni animali.
Ci saranno così quattro tipi di proposizioni semplici:
i) universali affermative (AaB), che affermano B di tutti gli A (es: tutte
le mucche hanno quattro stomaci);
ii) particolari affermative (AiB), che affermano B di qualche A (es.
qualche fiore è blu);
iii) universali negative (AeB), che negano B di qualunque A (es. nessun
uomo ha quattro stomaci);
iv) particolari negative (AoB) che negano B di qualche A (es: alcuni
animali non hanno sangue).
La notazione AaB; AiB; AeB; AoB; è medievale e utilizza le vocali a, i
del verbo latino adfirmo per le affermative (rispettivamente universali e
particolari), e, o di nego per le negative (universali e particolari). Va notato
che le lettere B (predicato) e A (soggetto) vengono da Aristotele utilizzate
al posto di S e P. Inoltre, Aristotele usa spesso, al posto di ‘è’ copulativo, il
verbo ‘appartenere’, che assume così una funzione quasi-tecnica, pur
essendo un verbo mutuato dal linguaggio ordinario.
Il sistema logico di Aristotele (conosciuto come ‘teoria del sillogismo’)
25
si basa sulla teoria delle proposizioni vista. Negli Analitici primi Aristotele
definisce il sillogismo come «un argomento in cui, assunte certe cose,
qualcosa di differente dalle cose assunte segue di necessità per il loro stesso
porsi» (Analitici primi, 24b18-20). Il greco un po’ contorto è dovuto alla
difficoltà di esprimere concetti logici in un linguaggio ordinario, ma mette
in luce il fatto che il sillogismo è un’inferenza in cui, poste delle premesse,
segue di necessità la conclusione per il solo fatto di aver posto le premesse.
Aristotele considera solo argomenti a due premesse e a una conclusione, e
queste tre proposizioni sono tutte e tre semplici, cioè affermano o negano
un predicato di un soggetto.
La prima osservazione da fare è che Aristotele voleva dare alla logica un
carattere assolutamente generale, voleva cioè che le regole logiche si
applicassero a qualunque argomento, per non farne dipendere la validità dal
contenuto proposizionale. E’ per questo che ha utilizzato delle lettere A, B,
C, etc., proprio a garanzia della generalità.
Se in un argomento del tipo:
ogni uomo è un animale; ogni animale è mortale; quindi ogni uomo è
mortale
Sostituisco ‘uomo’ con ‘lupo’, l’argomento resta comunque valido. Di
conseguenza, esso può essere reso così:
ogni A è B; ogni B è C; ogni A è C.
Questo è il primissimo argomento considerato da Aristotele negli
Analitici primi. Esso risulta formalmente valido, come lo sono tutti gli
argomenti di questa forma.
Proprio perché Aristotele apre la strada alla generalizzazione, si pone la
questione di come distinguere tra buoni e cattivi argomenti. La sua
definizione di sillogismo risponde a questa questione, stabilendo che un
buon argomento è quello in cui la conclusione segue di necessità dall’aver
26
posto delle premesse. Aggiungiamo che, secondo la definizione, la
conclusione che segue dalle premesse è diversa dalle premesse.
La teoria sillogistica del buon argomento si trova nei primi sette capitoli
degli Analitici primi, e si occupa di proposizioni della forma i) AaB; ii)
AiB; iii) AeB, iv) AoB10
. Essa funziona sulla base di un certo numero di
stipulazioni:
a) le due proposizioni che fungono da premesse devono appunto avere
la forma a-e-i-o;
b) le due premesse devono avere un termine comune, chiamato medio.
Questa stipulazione è necessaria per trarre la conclusione dalle
premesse;
c) gli altri termini (chiamati estremi) delle proposizioni che fungono da
premesse devono essere diversi;
d) la conclusione deve contenere i termini estremi e non il medio.
Nel corso della trattazione Aristotele prende in esame tutte le
possibili coppie di proposizioni semplici e individua da quali coppie può
venire inferita correttamente la conclusione e da quali no. Divide gli
accoppiamenti in tre gruppi o figure (una quarta verrà aggiunta nel
Medio Evo) sulla base della posizione del termine medio:
1) AxB, BxC, dunque AxC
2) AxB, CxB, dunque CxA
3) AxB, AxC, dunque CxB11
e procede al loro esame rigoroso e ordinato. Dei 192 sillogismi
possibili ne risultano validi solo quattordici.
E’ importante sottolineare il fatto che Aristotele afferma che
10
Negli Analitici primi si trova anche una parte che verte sui sillogismi modali, cioè sui sillogismi che
riguardano le proposizioni che esprimono ciò che vale necessariamente o ciò che vale possibilmente
(Analitici primi, 25a1-2), ma è decisamente la parte più debole e meno famosa della teoria del sillogismo. 11
Dove ‘x’ può essere sostituita solo da a, i, e, o.
27
«qualunque dimostrazione e qualunque sillogismo devono procedere
secondo le tre figure che abbiamo descritto» (Analitici primi, 41b1-3).
Questa affermazione è sicuramente falsa: basti pensare a moltissimi
teoremi dell’aritmetica e della geometria, che non si presentano in forma
sillogistica pur essendo delle deduzioni valide. Il fatto è che la teoria del
sillogismo si basa sul concetto di proposizione intesa come soggetto-
predicato. Dove non c’è questa proposizione, non può esserci neanche il
sillogismo, ed è chiaro che molte proposizioni geometriche e
aritmetiche sfuggono a questa forma (si pensi per esempio alla
transitività di Euclide: a = b; b = c; dunque a = c). Resta però il fatto che
la logica aristotelica costituisce un primo geniale tentativo di
formalizzare gli argomenti scientifici.
Una seconda osservazione si impone. Aristotele presenta la sua
definizione di sillogismo non solo negli Analitici primi, ma anche nei
Topici (100a25-27), il trattato in cui Aristotele cerca di regolamentare le
discussioni dialettiche (di origine socratico-platonica) tra due
interlocutori. Nei Topici Aristotele distingue anche tra il sillogismo
dimostrativo (che parte da premesse vere, indimostrabili, insomma,
dagli assiomi) e il sillogismo dialettico, che invece parte da opinioni
autorevoli, quelle condivise universalmente o propugnate dai sapienti.
Ciò significa che la formalizzazione degli argomenti non è riservata solo
alle scienze come aritmetica e geometria, ma che in linea di principio
tutte le discipline possono sillogizzare, e in special modo la filosofia:
cambierà solo lo statuto dei principi delle dimostrazioni.
28
Testo: Analitici Primi I 2, 25a1-36
25a Poiché ogni proposizione (protasis) riguarda l’appartenere, o
l’appartenere per necessità, o la possibilità di appartenere, e tra queste
proposizioni le une sono affermative e le altre negative secondo ogni tipo di
attribuzione, e a loro volta
5 le proposizioni affermative e negative sono le une universali, altre
particolari, altre indefinite, è necessario che la proposizione privativa e
universale nell’appartenenza sia convertibile nei termini: per esempio, se nessun
piacere è un bene, nessun bene sarà un piacere; in compenso, bisogna che la
proposizione predicativa sia convertibile non universalmente, ma
particolarmente: per esempio, se ogni piacere è un bene, bisogna che qualche
bene sia un piacere.
10 Tra le proposizioni particolari, è necessario che l’affermativa sia
convertibile particolarmente (infatti, se qualche piacere è un bene, qualche bene
sarà un piacere), mentre non è necessario che la privativa sia convertibile
(infatti, se uomo non appartiene a qualche animale, non ne consegue che
animale non appartenga a qualche uomo).
Sia dunque la proposizione AB privativa e universale. Se quindi A non
15 appartiene a nessun B, B non apparterrà a nessun A; infatti, se B
appartiene a qualche A, per esempio a , non sarà vero che A non appartiene a
nessun B: infatti è qualcuno tra i B. Ma se A appartiene ad ogni B, anche B
apparterrà a qualche A; infatti, se B non appartiene a nessun A, A non apparterrà
a nessun B; ma A era supposto appartenere ad ogni B.
20 Ugualmente se la proposizione è particolare: se infatti A appartiene a
qualche B, è necessario che appartenga anche a qualche A; infatti, se B non
appartiene a nessun A, A non appartiene a nessun B. Ma se A non appartiene a
qualche B, non è necessario che B non appartenga a qualche A, per esempio se
B è animale e A uomo; infatti, uomo non appartiene ad ogni animale, mentre
animale appartiene ad ogni uomo.
Questo testo si divide in due parti:
A) programma che annuncia i risultati in modo informale;
B) regole ed argomenti che giustificano il programma.
A) programma che annuncia i risultati in modo informale
righe 1-13: «Poiché ogni proposizione…non appartenga a qualche
uomo)».
Aristotele enuncia i diversi tipi di proposizione semplici, quelle
che abbiamo visto l’altra volta:
i) assertive/apodittiche (cioè necessarie)/problematiche (cioè
29
possibili);
ii) affermative/negative;
iii) universale/particolari/indefinite (di queste ultime però non vi è
scienza).
Afferma che poiché ogni proposizione è bla bla, è necessario che
la proposizione privativa (cioè, negativa) universale si converta.
Aristotele non spiega il termine ‘conversione’, ma ne dà subito un
esempio:
se nessun piacere è un bene, nessun bene è un piacere.
Convertire, quindi, significa cambiare i termini (il verbo greco
antistrepho significa ‘cambiare direzione’, ‘voltare dalla parte
opposta’)
(i) nessun S è P
si converte in
(i*) nessun P è S.
Aristotele afferma che se (i) è vera, anche (i*) è vera. Ed è questo
ciò che Aristotele intende per ‘convertire’.
Quindi
(1) SeP PeS.
Poi Aristotele considera il caso della proposizione predicativa
(cioè affermativa) universale, e osserva che essa può convertirsi non
universalmente, ma particolarmente. Es:
se ogni piacere è un bene, qualche bene è un piacere.
Cioè
(2) SaP PiS.
Poi stabilisce che la proposizione particolare affermativa si
converte:
Se qualche piacere è un bene, qualche bene è un piacere
30
(3) SiP PiS.
Infine stabilisce che la particolare negativa non si converte:
se qualche animale non è uomo, non ne consegue che qualche
uomo non è animale.
(4) SoP non si converte in PoS.
Aristotele non stabilisce la verità di queste conversioni, forse
perché le riteneva evidenti (nel senso che basta riflettere un po’ per
vedere che sono vere).
B) regole ed argomenti che giustificano il programma
Aristotele però fornisce dei piccoli argomenti: «Sia dunque la
proposizione AB ecc.». Per ogni conversione dà una piccola prova,
di pochissime righe e difficile.
E’ opportuno, prima di considerare una delle prove, fare due
osservazioni:
(i) a differenza nostra, Aristotele non usa S e P ma A e B, però con
la sessa funzione di generalità;
(ii) Aristotele non dice ‘nessun S è P’, ecc., ma ‘A non appartiene
a nessun B’, o ‘A appartiene a qualche B’… ‘Appartenere’ è un
termine quasi tecnico, che rende la copula
S è P
equivale a
P appartiene a S.
Argomento per la prima conversione, righe 14-19: «Se A
…appartenere a ogni B».
Si tratta di una sorta di reductio ad absurdum: infatti A. dice
«infatti, se B appartiene a qualche A, per esempio a , non sarà vero
che A...». Aristotele cioè, per dimostrare la conversione
AeB BeA
31
prende la negazione di BeA, cioè BiA (infatti A. pensa che la
negazione di BeA sia BiA), e dimostra che allora non sarà vera AeB,
che invece era data per accettata o supposta. Ora AeB e BiA sono
contraddittorie, quindi bisogna rigettare BiA e accettare BeA.
i) AeB per ipotesi non si converte con BeA
ii) avremo allora BiA
iii) ma così avremo AiB (perché BiA si converte con AiB, vedi
supra) e quindi negheremo AeB, che invece è data
iv) quindi non BiA, cioe BeA.
Ma Aristotele non dice esattamente questo. In realtà egli dice che
se BiA è vero, prendiamo un caso, per esempio . Ma, sulla base di
, non possiamo avere AeB, perché è sia AiB che BiA («se B
appartiene a qualche A, per esempio a , non sarà vero che A non
appartiene a nessun B: infatti è qualcuno tra i B»)12
. Queste righe
non rappresentano una spiegazione ma solo un’introduzione a una
possibile spiegazione. Sono righe difficili, e i commentatori si sono
arrampicati sugli specchi per spiegarle. Noi abbiamo cercato di darne
una (passi i)-iv)).
12
Es. Se ‘qualche animale è uomo’, per esempio Socrate, non sarà vero dire che ‘nessun uomo è
animale’, perché se Socrate è uomo, allora necessariamente sarà animale, e quindi qualche uomo sarà
animale.
32
4: Gli oggetti della scienza filosofica
Testi principali: Metafisica A, , E, M, N
Testo scelto: Metafisica 1 e 2
Secondo quello che abbiamo visto fino ad ora, la scienza è composta da
proposizioni vere che si dividono in due gruppi: i) principi/assiomi e ii)
teoremi (sequenza di proposizioni in forma sillogistica).
Ogni scienza deve stabilire le proprie verità, a cominciare dagli assiomi.
Il problema fondamentale per ogni scienza è stabilire il proprio oggetto, A.
dice il proprio ‘genere’ (ghenos). Per A. gli oggetti di qualunque scienza
debbono esistere, devono essere degli onta, degli ‘enti’ in senso di
‘esistenti’. Questa convinzione sembra interessante perché non tutte le
scienze sembrano avere a che fare con oggetti esistenti, si pensi per
esempio ai numeri. Ma perché supporre che gli oggetti della scienza
debbano esistere? Perché altrimenti risulta impossibile stabilire la verità dei
teoremi. La verità, infatti, per Aristotele si trova nelle proposizioni che
dicono come le cose stanno.
Come porre il problema dell’esistenza degli enti matematici? A. parla
delle scienze matematiche in Metafisica Mu e Nu, e comincia con il porre
proprio la domanda sull’esistenza dei numeri (i numeri di cui parla A. sono
quelli interi). La risposta è che i numeri esistono perché esiste la scienza
dei numeri: A. insomma non discute il problema, ma passa
immediatamente ad analizzare il tipo di esistenza dei numeri. In particolare,
si chiede se i numeri possiedono un’esistenza indipendente o dipendente.
Secondo A. i numeri hanno un’esistenza dipendente: così come il
movimento esiste in quanto ci sono oggetti che si muovono, i numeri
esistono in quanto ci sono oggetti numerabili. Altro esempio: la salute e la
malattia sono oggetti della scienza medica ed esistono in quanto esistono
33
cose sane. L’esistenza così resta riservata agli oggetti della vita quotidiana:
cose che si vedono, che si toccano, e che sono anche numerabili, sane o
malate, esistenti, ecc. Si noterà che la posizione di A,. è diametralmente
opposta a quella di Platone: per Platone è perché esiste l’idea di movimento
che gli oggetto si muovono, per A. è perché ci sono oggetti che si muovono
che il movimento esiste. Dunque, per ritornare alla questione dell’esistenza
degli oggetti delle scienze, possiamo dire che per A. la fisica esiste perché
ci sono oggetti ‘fisici’ (in movimento, che nascono, muoiono e si
sviluppano); la medicina esiste perché ci sono cose ‘sane’ o ‘malate’; la
geometria e l’aritmetica esistono perché ci sono oggetti che si inscrivono in
figure geometriche e che sono numerabili. Anche se hanno un’esistenza
dipendente, questi oggetti costituiscono i vari generi delle scienze
corrispondenti, e a proposito di essi le scienze costruiscono dei teoremi
veri.
Vi sono delle obiezioni alla considerazione degli oggetti della geometria
e dell’aritmetica in chiave aristotelica:
1) prendiamo un numero elevatissimo, per esempio 10 alla ventotto alla
ventotto. L’aritmetica ha a che fare con numeri così elevati, ma possiamo
dire che nel mondo esiste un numero di individui così elevato? A. ha una
concezione dell’universo finito, quindi risulta non plausibile che accetti una
teoria così. A ciò si può obiettare che l’aritmetica non ha bisogno di tali
numeri, ma solo dell’unità, poiché in definitiva ogni numero è
riconducibile ad una somma di unità;
2) consideriamo il teorema secondo cui la somma degli angoli di un
triangolo è uguale a 180°. Tuttavia, se noi misuriamo i vari rettangoli che
disegniamo o che troviamo nel mondo, non troveremo mai che la somma
dei loro angoli è di 180°, perché non esistono nel mondo triangoli perfetti.
A questa obiezione A. potrebbe rispondere che non sono perfetti i triangoli
34
fisici, ma quelli che possiamo ricostruire nell’immaginazione su qualunque
tipo di superficie.
Importanza della formula ‘in quanto’: la matematica studia le mucche in
quanto numerabili; la geometria studia i tavoli in quanto rettangoli.
Insomma, ogni scienza si interessa a qualche caratteristica degli oggetti, ma
non a tutte. Idea interessante, ma che non vale per tutte le scienze.
Capitolo 1
1003a21 C’è una scienza che fa la teoria dell’ente in quanto ente, e di ciò che gli
appartiene in se stesso. Ora, essa non è identica ad alcuna delle scienze dette
parziali: infatti nessuna di esse considera l’ente in quanto ente nella sua totalità,
ma dopo averne tagliato una parte
25 è, riguardo all’ente, dell’accidente che esse fanno la teoria, come le
matematiche.
- Poiché, d’altra parte, noi cerchiamo i principi e le cause più elevate, è chiaro
che essi devono essere principi e cause di una certa natura in se stessa. Se
quindi coloro che ricercavano gli elementi degli enti
30 ricercavano anche quei principi, è necessario che questi elementi siano
elementi dell’ente, non per accidente, ma in quanto ente. Perciò noi dobbiamo
afferrare le prime cause dell’ente in quanto ente.
Capitolo 2
L’ente si dice in molti sensi, ma in relazione ad un’unità, ad una certa natura
unica, cioè in modo non omonimo:
35 esattamente come tutto ciò che si dice sano si dice relativamente alla
salute, o perché la conserva, o perché la dà, o perché ne è segno, o perché la
1003b riceve; e ciò che è medico lo è relativamente alla medicina, perché questo
è detto medico perché ha la medicina, quello perché vi è naturalmente atto,
quell’altro perché è opera delle medicina; e noi potremmo prendere altre cose
che
5 si dicono in modo simile. Così l’ente si dice in molti sensi, ma interamente in
riferimento a un principio unico: in effetti, quelli sono detti enti perché sostanze,
quelli perché affezioni della sostanza, quelli perché cammino verso la sostanza,
o distruzioni, privazioni, qualità, produzioni, generazioni, o della sostanza, o
10 delle cose che si dicono relativamente alla sostanza, o ancora negazione di
una di queste cose o della sostanza: per questo diciamo che il non-ente è non-
ente.
- Ora, esattamente come di tutto ciò che si dice sano c’è una scienza unica, è la
stessa cosa anche per il resto. Infatti non sono solo le cose che si dicono in
un’unità che costituiscono l’oggetto di una scienza una, ma anche le cose che si
35
dicono in relazione a una natura unica, poiché esse si dicono in un certo modo
15 nell’unità. E’ quindi evidente che anche gli enti, è di una sola scienza il farne
la teoria, in quanto enti.
- Ora, in tutti i casi, la scienza è eminentemente scienza del primo, di ciò da cui
il resto dipende, e grazie al quale lo si dice. Se tale è la sostanza, bisognerà che
delle sostanze il filosofo afferri i principi e le cause.
Capitolo 1
La prima cosa da osservare è che qui Aristotele parla di scienza (così
come aveva parlato di scienza delle cause prime e dei principi).
La seconda cosa da osservare è che Aristotele dice che questa scienza c'è
già: non l'ha inventata lui (invece altrove dirà, per esempio, che ha
inventato la logica). Ma, a differenza di quello che fa nel libro Alpha (in cui
analizza le indagini dei predecessori), qui non menziona nessuno. Noi
sappiamo che, prima di lui, l'ontologia (o scienza dell'essere) è stata
praticata da Parmenide e da Platone.
Fatte queste due precisazioni, vediamo che Aristotele caratterizza questa
scienza innanzitutto come assolutamente generale o universale: a differenza
delle altre scienze, infatti, questa scienza analizza in generale l'ente in
quanto ente; le altre scienze, invece, sono parziali perché analizzano solo
una parte dell'ente.
Varie le questioni da affrontare.
Innanzitutto, che significa indagare l'ente in quanto ente? Cosa significa
questa espressione, “ente in quanto ente”?
Questa espressione va divisa in due parti:
- l'ente
- in quanto ente.
L'ente.
si tratta della traduzione di to on: to = articolo neutro; on = participio del
verbo einai (essere), l'essente o l'ente. Nonostante il participio sia alla
forma singolare, la presenza dell'articolo to è segno di universalità, per cui
36
possiamo parlare di ‘tutto ciò che è’. Tra i possibili significati di questa
formula, il più plausibile (e comprensibile) è quello che riguarda
l’esistenza. Possiamo intendere quindi l'espressione con
tutto ciò che esiste
oppure
le entità esistenti.
Secondo Aristotele, l'oggetto della scienza deve esistere perché, in caso
contrario, sarebbe impossibile affermare che le proposizioni che parlano di
questo oggetto sono vere. In altre parole, l'esistenza degli oggetti è la
condizione di verità delle proposizioni che riguardano questi oggetti. Ma
che cosa si intende per esistenza? Quali cose esistono?
Capitolo 2
Aristotele afferma che le cose sono dette esistere in molti sensi, cioè, che
il verbo “essere” o “esistere” è omonimo (per Aristotele omonimia = nome
comune, ma definizione diversa, come per esempio “pesca” che si riferisce
sia al frutto, sia all'arte di catturare i pesci). Nel libro Zeta della Metafisica
(1028a10-13) egli osserva che:
«le cose sono dette esistere in molti modi […] ente significa infatti l'essenza (to ti
esti) e alcunché di determinato (cioè un tode ti), e la qualità, e la quantità, e
ciascuna delle altre cose predicate in questo modo (kategoroumenon)».
Aristotele cioè, afferma che vi sono tanti sensi di esistere quante sono le
categorie. Tornerò sulla celebre dottrina aristotelica delle categorie fra
breve.
Se si prende questo testo seriamente, Aristotele sta affermando che nella
frase “il gatto esiste” (qui il verbo si applica a un tode ti e a un ti esti, due
modi, come vedremo nelle prossime lezioni, per riferirsi alla sostanza) il
verbo esistere ha un significato diverso che nella frase “i colori esistono”
(qui il verbo si applica a una qualità). Si può dire con verità che i gatti
37
esistono e che i colori esistono: ma i gatti non esistono nella stessa maniera
in cui i colori esistono. In tal caso, diviene molto difficile il compito della
metafisica come scienza dell'esistente: infatti, gli esistenti esistono in
maniera diversa, e se questo è vero, non potremo affermare proposizioni
vere per tutti gli esistenti, come pretende invece Aristotele nel libro
Gamma della Metafisica.
Tuttavia, a un certo punto del suo percorso metafisico, Aristotele trova
una soluzione che salva una scienza unitaria degli esistenti. Infatti, nel
secondo capitolo del libro Gamma, Aristotele diche che “esistere si dice in
molti sensi, ma tutti in riferimento a una cosa e a partire da una cosa”.
Quello che intende Aristotele a proposito dell'esistente è illustrato da due
esempi, quello della salute e quello della medicina. Consideriamo il primo.
Prendiamo la parola “salute”. Un atleta, uno sport, una dieta, una
costituzione fisica,
possono essere opportunamente chiamati “sani”. Ma essi sono sani in
modo diverso:
l'essere sano per Achille non è l'essere sano per una dieta, o per una
medicina. Tuttavia, i due sensi di “essere sano” non sono sconnessi, cioè
Achille e la dieta non sono puri omonimi. In particolare, il modo in cui la
dieta è sana è parassitario (cioè, dipendente) dal modo in cui Achille è
sano: infatti, il modo in cui la dieta è sana è perché produce, o conserva, la
salute in soggetti come Achille. Insomma (1003a34-b2), ogni cosa è sana in
riferimento alla salute—o perché la preserva, o perché la produce, o perché
è segno di salute, o perché la riceve, ecc.
- Achille è sano perché è in ottima forma fisica
- una dieta è sana perché produce un'ottima forma fisica in Achille
- una medicina è sana perché permette ad Achille di ritrovare la sua
forma fisica
38
- il colorito di Achille è sano perché è segno della sua ottima forma
fisica.
Si noterà che tutte le cose a cui la parola “sano” si applica, sono sane in
riferimento
a una sola cosa (a un sostanza, nell'esempio ad Achille).
Un grande studioso (G.E.L. Owen) ha parlato, per termini come la
salute, di focal meaning (cioè, di significato focale). Una parola possiede
un focal meaning quando è usata in molti sensi, uno dei quali è primario e
gli altri derivati; le descrizioni di quelli derivati debbono contenere la
descrizione di quello primario (nell'esempio, contengono tutte un
riferimento alla salute di Achille, cioè alla sua ottima forma fisica).
Quando “sano” è applicato a Achille, è usato in senso primario, significa
che Achille ha un corpo in eccellente forma fisica. Quando “sano” è
applicato alla costituzione di Achille o alla sua dieta, è usato in senso
derivato: significa che la sua dieta è ciò che rende il corpo di Achille sano
(cioè, in perfetta forma fisica), e che la costituzione di Achille è segno del
suo essere sana (cioè, in perfetta forma fisica).
Il verbo essere (esistere) si comporta, per Aristotele, esattamente nella
stessa maniera. La parola ha un uso primario, e i suoi vari usi derivati
contengono, nella loro descrizione, la descrizione del senso dell'uso
primario: viene così fatta salva una scienza unitaria dell'esistente.
Gamma 2. 1003b5-16: esistere si dice in molti sensi, ma tutti in
riferimento alla sostanza.
- Achille è esistente
- l'affezione (per esempio, l'essere biondo) esiste perché è un'affezione di
Achille
- 55 kili esiste perché è il peso di Achille
e così via.
39
Quindi:
- in un senso primario esistente è la sostanza:
le sostanze sono per Aristotele ciò che ‘sta sotto’ o supporta altre entità;
-in senso derivato esistenti sono gli accidenti della sostanza, cioè le
qualità, le azioni, i pesi, ecc.: infatti una qualità esiste solo perché vi sono
sostanze qualificate, un peso solo perché esistono sostanze pesanti, ecc.
ecc. Gli accidenti sono cose che ‘accadono a’ o dipendono da altre entità
(le sostanze).
Ogni entità (= ogni cosa che esiste) è o una sostanza o un accidente. Ma
il primato esistenziale va alle sostanze, e se non ci fosse una differenza di
esistenze, finirebbe che tutte le entità sarebbero sostanze.
In Metafisica Zeta 1 (1028b2-4), la disciplina metafisica sembra essere
implicitamente determinata in riferimento a una questione centrale:
Aristotele, infatti, afferma che quando noi chiediamo che cos'è l'ente?
Chiediamo: che cos'è la sostanza?
Cioè, quando noi chiediamo “che cos'è l'ente?” chiediamo “che cosa
esiste?”, o meglio “quali cose esistono?”. In Zeta 1 Aristotele riduce la
questione dell'ente alla questione della sostanza, cioè, la questione “cosa
esiste?” alla questione “cosa esiste primariamente?”. Egli assume che, una
volta stabilita la categoria della sostanza, gli accidenti in qualche maniera
seguono.
A questo punto si pone un drammatico problema? Quali cose esistono?
Infinite. E come dominare scientificamente (con una scienza) le infinite
cose che esistono?
Aristotele risolve il problema fornendo una classificazione e
categorizzazione della realtà: le cose sono categorizzabili in generi e
specie, gerarchicamente organizzate. Per esempio, il gatto esiste; quindi,
anche i mammiferi esistono; quindi anche gli animali esistono. I gatti sono
40
una specie di mammiferi, e i mammiferi una specie di animali: di
conseguenza, queste tre cose saranno organizzate in una struttura
gerarchica. Procedendo verso l'alto di specie in genere più generale,
arriviamo a pochi generi supremi, che Aristotele, come sappiamo, chiama
categorie, che dovrebbero essere dieci (Aristotele oscilla nei vari testi), ma
che comunque sono in numero limitato: sostanza, qualità, quantità,
relazione, dove, quando, avere, giacere, fare, subire.
Il passo di Zeta visto sopra, e cioè 1028a10-13, sembra implicare che ci
sono tanti sensi di esistere quante sono le categorie (e tante categorie quanti
sono i sensi di esistere).
La prima cosa da osservare è che la prima categoria è quella delle
sostanze, mentre le altre sono tutte di accidenti.
Ora, nella sequenza:
- il gatto esiste
- il giallo esiste
- un chilogrammo esiste
- la paternità esiste
- piazza Vecchia esiste
ecc. ecc.
l'esistenza del gatto è diversa dall'esistenza del giallo, che è diversa
dall'esistenza del chilogrammo, ecc.
Di fatto, però, Aristotele sembra parlare solo di due esistenze differenti:
quella della sostanza, che è primaria; e quella di tutti gli altri accidenti, che
è secondaria, derivata. Cerchiamo allora di spiegare l'esistenza degli
accidenti in termini di esistenza delle sostanze, seguendo quello che dice
Aristotele in Metafisica Gamma.
Prendiamo un accidente nella categoria di qualità, diciamo il bianco.
Secondo Aristotele, il bianco esiste perché esistono sostanze che sono
41
bianche, come Socrate, mia madre, ecc. L'esistenza del bianco è quindi
derivata, cioè dipende dall'esistenza di sostanze bianche (o, più
esattamente, delle superfici bianche).
Lo stesso discorso vale per le cose astratte, per esempio la saggezza (la
saggezza esiste solo perché vi sono sostanze sagge). e così via per tutti i tipi
di categorie che non sono sostanze.
Qui c'è una differenza notevole tra Aristotele e Platone. Platone riteneva
che entità come la Giustizia o la Saggezza possedessero un'esistenza
indipendente e eterna, in quanto Idee o Forme. Invece, Aristotele riteneva
che entità come queste esistono, ma possiedono un'esistenza parassitaria,
cioè dipendente dalle sostanze giuste o sagge.
E lo stesso vale addirittura per i numeri. Anche qui vi è una posizione
differente per Platone e per Aristotele. Per Platone, i numeri hanno
un'esistenza eterna e indipendente (sono non esattamente delle forme,
perché sono molteplici, ma sono intermedie); per Aristotele i numeri
esistono solo perché esistono sostanze numerabili.
Addirittura, la relazione esiste, cioè, è un'entità, perché esistono due
sostanze che stanno in questa relazione: la paternità esiste perché esiste x
che sta in una relazione di paternità con y.
In definitiva, nel libro Gamma, Aristotele dichiara che c'è una scienza
che si occupa degli esistenti. Qui, “esistenza”, va intesa in senso molto
astratto (non come esistenza corporea, spazio-temporale, ma come
esistenza/sussistenza, anche di enti non corporei), cioè come una proprietà
che appartiene davvero a ogni entità. Per capire cosa qui si intende, vale la
pena di fare un esperimento mentale. Prendiamo Socrate che, constatiamo,
è un concentrato di proprietà. Se eliminiamo tutte quante le proprietà, e ci
chiediamo cosa resta di Socrate una volta fatta questa operazione,
risponderemo: ciò che resta è un qualcosa che c'è, un sostrato esistente che
42
permane unitario, indipendentemente da tutte le proprietà che riceve. Esso,
che è la sostanza, c'è primariamente, mentre le proprietà che ad esso
ineriscono, ci sono (e non ci sono) secondariamente.
Aristotele, quindi, stabilisce come presupposto un'asimmetria tra
l'esistenza della sostanza e quella degli accidenti.
43
5: Le categorie
Testi principali: Categorie
Testo scelto: Categorie 7
Abbiamo visto che ‘ente’ si dice in molti sensi, cioè che ‘esistere’
significa molte cose. Questo potrebbe costituire un problema per le scienze,
dal momento che esse si occupano di cose che esistono.
Un’opera aristotelica che pare occuparsi dei differenti sensi di ‘essere’ è
il testo giovanile Categorie, che infatti si occupa delle categorie dell’essere.
Nel libro in questione, la dottrina sembra piuttosto articolata, mentre
altrove A. sembra avere delle idee un po’ vaghe. L’idea generale è
comunque identificabile, anche se di essa sono state date più versioni.
Prima versione: secondo la dottrina tradizionale, le categorie sarebbero
generi dell’essere. Più precisamente, gli enti sarebbero un genere divisibile
in dieci specie: sostanza, qualità, quantità, relazione, dove, quando, avere,
giacere, fare, patire. Una questione, molto discussa, e se questa lista sia
esaustiva (addirittura sono state inventate altre categorie).
Ma questo modello non è adeguato al pensiero di Aristotele per due
ragioni:
1) tra la sostanza e le altre categorie c’è una separazione importante. Le
sostanze sono gli enti fondamentali, gli altri ‘accidenti’ (o proprietà)
esistono in modo dipendente dalle sostanze. La prima revisione da
fare sarebbe quindi quella che vede le sostanze da una parte e le altre
categorie dall’altra.
2) Ma l’obiezione più importante è che questo modello presenta gli enti
come se fossero un genere di cui le categorie sono le specie. Tuttavia,
per Aristotele, l’essere non è un genere, perché ‘essere’ si dice in
molti sensi, si applica cioè a cose differenti con significati differenti
44
(che non sono le sue specie). Il rapporto genere/specie è piuttosto di
sinonimia: ‘animale’, infatti (genere) si applica a cane, gatto, bue,
ecc., con lo stesso significato.
Seconda versione
Il termine greco kategoria non corrisponde al nostro uso (categoria
come classe o insieme), ma vuol dire ‘predicato’. Si tratta di un termine
quasi-tecnico che A. usa nella logica, dicendo per esempio che A si
predica (kategorein, verbo) di B. Ma come introdurre il predicato nello
schema delle categorie intese come significati dell’ente (vedi sopra,
Prima versione, schema che divide gli enti in sostanze da una parte e
accidenti dall’altra)?
Bisogna partire dalla proposizione incompleta, cioè costituita da
soggetto + copula:
“Socrate è…”
Bisogna in seguito fare una lista di predicati attribuibili a Socrate, e
poi classificarli. Questa classificazione non è però chiara, perché
Aristotele non spiega come distinguere tra i vari tipi di categorie. Egli
però fornisce qualche indicazione: per esempio, fornisce una serie di
domande con pronomi interrogativi, del tipo ‘chi?’; ‘dove?’, ecc. (ancora
una volta legati alla lingua greca).
Chi è Socrate? Un uomo.
Come è Socrate? Bianco.
Quanto grande è Socrate? Un metro e settanta.
In relazione a chi è Socrate? In relazione a sua moglie Santippe.
Ecc. ecc.
Sono le risposte a tali questioni che forniscono la lista delle categorie
(Sostanza, qualità, quantità, relazione, ecc.). Tutto questo resta però un
po’ vago, perché sembra legato all’accidentalità della lingua greca.
45
Problema: perché, introducendo le categorie, Aristotele parla di sensi
di ente/essere?
Aristotele stesso suggerisce almeno tre possibili risposte, che non sono
equivalenti:
i) tutti i predicati sono legati al soggetto dalla copula ‘è’. Aristotele
suggerirebbe che la copula prende dieci significati differenti, che
dipendono dal predicato che le è associato. Ma non è affatto evidente (in
nessuna lingua), che il verbo ‘è’ sia ambiguo in tal senso.
ii) “--- è pallido” una cosa pallida esiste
“---è grande” una cosa grande esiste
ecc.
Aristotele in tutti questi casi penserebbe à ‘è’ nel senso di ‘esiste’. La
differenza della classe dei predicati produrrebbe una differenza nel senso di
esistere. Ancora una volta ciò non è chiaro, e al massimo possiamo
distinguere tra esistenza indipendente (delle sostanze) e esistenza
dipendente (degli altri accidenti). Tuttavia, vi sono testi aristotelici che
suggeriscono tale versione.
iii) “--- è pallido” il pallore esiste
“---è grande” la grandezza esiste
ecc.
Questa versione potrebbe essere ricondotta a ii) poiché, come sappiamo,
per Aristotele (contrariamente a Platone) il pallore esiste perché c’è una
sostanza (mettiamo, Socrate) che è pallida.
Testo: Categorie 7, 6a36-b2 + 8a13-33
6a36 Relative sono dette le cose che sono dette ciò che sono di altre cose, o
in virtù di qualunque altra relazione ad altra cosa. Per esempio, il più grande è
detto ciò che è di un’altra cosa (infatti è detto più grande di qualche cosa) e il
doppio è detto ciò che è di un’altra cosa (infatti è detto doppio di qualche cosa).
46
Ugualmente per tutte le altre cose di questo tipo.
8a13 C’è un problema: forse che nessuna sostanza è detta relativa (come
sembra), oppure è possibile per alcune 8a15 sostanze seconde. Quanto alle
sostanze prime, è vero, perché né le sostanze intere né le loro parti si dicono
relative: un uomo individuale non è detto uomo individuale di qualche cosa, né
un bue individuale, bue individuale di qualche cosa; la stessa cosa anche per le
parti: una mano individuale non è detta mano individuale di qualche cosa (ma
mano di qualche cosa), 8a20 una testa individuale non è detta testa individuale
di qualche cosa (ma testa di qualche cosa).
La stessa cosa per le sostanze seconde, per la maggior parte. Per esempio,
l’uomo non è detto uomo di qualche cosa, né il bue, bue di qualche cosa, né il
legno, legno di qualche cosa (ma è detto la proprietà di qualche cosa). Ora, in
tali casi è evidente 8a25 che non si tratta di cose relative. Ma per alcune
sostanze seconde la cosa è discutibile. Per esempio, una testa è detta testa di
qualche cosa, una mano è detta mano di qualche cosa–e così per tutte le cose di
questo tipo. Di conseguenza, queste cose sembrano trovarsi tra le cose relative.
Ora, se la definizione delle cose relative fosse formulata in modo
soddisfacente, è o 8a30 molto difficile o impossibile risolvere il problema
mostrando che nessuna sostanza è detta relativa. Ma se la definizione non fosse
formulata in modo soddisfacente—se relative sono piuttosto le cose il cui essere
si identifica nel trovarsi in una certa relazione a qualche cosa—, in questo caso
si potrebbe forse trovare qualche cosa da dire.
La prima frase è incomprensibile. Però, per capire la definizione di
relativi data da Aristotele nelle prime righe, possiamo partire da una
distinzione vagamente famigliare:
a) le cose che sono dette ciò che sono per se = le sostanze
b) le cose che sono dette ciò che sono di altre cose = relativi, per
esempio, i genitori. I genitori, infatti, sono detti genitori di qualche cosa,
cioè dei figli.
L’esempio proposto da Aristotele è ‘il più grande’. Secondo Aristotele,
questo predicato è relativo perché si dice ‘più grande di’. Si tratta,
insomma, di quei predicati che non funzionano da soli, ma devono essere
completati da qualche altra cosa.
“o in virtù di qualunque altra relazione ad altra cosa”: Aristotele vuol
dire che i predicati
Fs
47
sono relativi
se e solo se
il predicato ‘F’ (per esempio, ‘padre’) è vero di qualunque cosa x (per
esempio, mio padre), in quanto x si trova in una certa relazione à qualche
cosa d’altro (per esempio, mio fratello).
La definizione di relativi data pone un problema per alcune sostanze, che
potrebbero essere dette relative (mentre Aristotele non vuole assolutamente
considerarle come tali).
Il problema non si pone per le sostanze prime (cioè per le sostanze
individuali, come questo bue individuale, Socrate, ecc.), perché non si dice
“questo bue di qualche cosa” in modo relativo (cioè, non si definisce il bue
individuale in rapporto a qualche cosa d’altro; in compenso padre viene
definito in rapporto a qualche cosa d’altro, il figlio).
Anche per le parti delle sostanze prime il problema non si pone: infatti se
io parlo della mano di Socrate, questo “di Socrate” non esprime relazione
ma possesso. Se io dico “la mano di Socrate è bella”, la formula “mano di
Socrate” non relativizza, ma individua la mano di cui parlo.
Neppure per le sostanze seconde (cioè per le sostanze universali, come
uomo, bue, ecc.) si pone il problema. Uomo in generale, infatti, non si
definisce in rapporto a qualcosa d’esteriore.
Invece il problema sembra porsi per le parti delle sostanze seconde:
infatti, per definire ad esempio la testa, sembra necessario dover ricorrere
al corpo, di cui la testa è appunto testa.
Per Aristotele si può risolvere il problema passando dal livello
linguistico al livello della realtà: Aristotele propone una nuova definizione
(“relative sono piuttosto le cose il cui essere si identifica nel trovarsi in una certa
relazione a qualche cosa”) che secondo lui permetterebbe di escludere tutte le
sostanze (anche le parti) dall’essere relative.
48
6: Le sostanze
Testi principali: Metafisica , Z, H,
La prima tra le categorie, è la sostanza , ousīa. E’ la più importante e
quella che pone i problemi più grandi.
La discussione sulla sostanza si trova nei libri Zeta, Eta e Theta della
Metafisica, i libri più difficili di quest’opera, soprattutto perché non è
chiaro dove Aristotele vada a parare, procedendo per tentativi.
Quello che è certo è che le sostanze sono cose di base, fondamentali, enti
che si trovano alla base degli altri enti. Le sostanze, come afferma
Aristotele nelle categorie, non si dicono di altro, mentre le altre cose sono
dette di esse.
Quindi, il predicato “----è una sostanza”, equivale a ‘è una cosa
fondamentale’.
I problemi di Aristotele sono essenzialmente due:
1) specificare un po’ questa idea di sostanza;
2) chiarire quali sono queste sostanze di base.
1) L’analisi della sostanza avviene attraverso la considerazione di due
caratteristiche:
i) la separatezza/separabilità delle sostanze (chôristos): esse infatti non
dipendono da altre cose (al contrario per esempio della salute o dei numeri,
che esistono in dipendenza da altre cose).
Ma in che senso si parla di indipendenza? Se prendiamo infatti un
esempio di sostanza aristotelica per eccellenza, un albero, diremo che esso
sembra invece un’entità dipendente (dal sole, dall’acqua, dalla semenza…).
Questo punto però non è pertinente: è vero che l’esistenza dell’albero
dipende in modo causale, naturale, da altre cose; tuttavia, la salute dipende
49
dal corpo in modo diverso dal tipo di dipendenza dell’albero dal sole.
Questa dipendenza è logico-concettuale (si sa a priori che la salute esiste in
quanto qualità dei corpi).
Ora, per Aristotele, vi sono cose che non dipendono logicamente da
altre: le sostanze separabili/separate, infatti, ‘esistono’ senza riferimento ad
altro.
ii) le sostanze sono essenziali. La parola ousīa è spesso tradotta con
‘essenza’ al posto di ‘sostanza’. Il che è corretto.
Essenza = caratteri centrali di un tipo di oggetto tali che questo tipo di
oggetto deve possedere queste caratteristiche, che fungono da
caratteristiche di base per spiegare altre caratteristiche.
Es: l’oro è malleabile, giallo, ecc.
Tutte queste proprietà dipendono dalla struttura molecolare dell’oro, che
quindi costituisce la sua essenza.
Il problema è come trovare queste proprietà, ma l’idea delle proprietà
essenziali si trova ancor oggi alla base di ogni scienza.
In generale si afferma che il termine ousīa sia ambiguo tra essenza (che è
sempre essenza di qualche cosa) e sostanza (che invece è sostanza senza
riferimento ad altro). Ma forse non si tratta di vera e propria ambiguità, ma
di stretta connessione.
Se prendiamo la frase
“Socrate è un uomo”
vediamo che ‘un uomo’ da una parte è un predicato essenziale che
specifica una proprietà di base di Socrate; dall’altro è un predicato
sostanziale che appartiene alla categoria di sostanza.
Secondo Aristotele, quando ci si trova di fronte a proprietà essenziali, il
posto del predicato deve sempre essere riempito da proprietà di base. Si
può dunque identificare la sostanza all’essenza, nel senso che le
50
predicazioni sostanziali sono sempre essenziali, e viceversa.
Aristotele così, parla di sostanza come di un tode ti, cioè di i) qualche
cosa (in greco tode, qualcosa di separato) ii) di un certo tipo (in greco ti,
che esprime le proprietà essenziali). Proprio perché dotate di queste
caratteristiche, Aristotele ha sempre avuto difficoltà a individuare le
sostanze.
2) Quali sono queste sostanze di base? Si tratta di partire da una
caratterizzazione piuttosto ampia, che ci possa aiutare a determinare se una
cosa è una sostanza oppure no.
Il testo scelto affronta tale questione.
Testo: Metafisica Z 3
- Si parla della sostanza in quattro sensi principali, se non in più: in effetti, 1028b35
l’essenza e l’universale e il genere sembrano essere la sostanza di ciascuna cosa—e
anche, quattro, il sostrato (upokeimenon). Il sostrato è ciò di cui tutte le altre cose
sono dette mentre lui non è detto di nient’altro. Per questa ragione è il sostrato che
bisogna 1029a1 in primo luogo discutere; infatti, la sostanza sembra essere
particolarmente il primo sostrato.
- Ora, la materia è detta sostrato in un certo modo, la forma in un altro, il composto di
esse in un terzo. Per materia intendo per esempio il bronzo, 1029a5 per forma (morphé)
la configurazione (schema) o la figura, per composto dei due la statua. Di conseguenza,
se la forma è anteriore alla materia e più ente di essa, per la stessa ragione essa sarà
anteriore al composto dei due.
- Ora, noi abbiamo dato un abbozzo di ciò che è la sostanza—cioè, essa è ciò che non è
detta di un sostrato, mentre le altre cose sono dette di essa. Ma non bisogna limitarsi a
questa caratterizzazione: 1029a10 essa in se stessa non è chiara, e inoltre la materia
diventerebbe allora sostanza. In effetti, se la materia non è sostanza, ci sfugge quale
altra cosa lo sarà, infatti, se le altre cose sono eliminate, sembra che nulla resti. Le altre
cose sono affezioni e atti e capacità dei corpi, mentre la lunghezza, la larghezza e la
profondità sono delle quantità e non delle sostanze, 1029a15 (una quantità non è una
sostanza): la sostanza, piuttosto, è la prima cosa a cui queste quantità appartengono. Ma
se la lunghezza e la larghezza e la profondità vengono eliminate, noi non vediamo nulla
che resta—salvo se ciò che è determinato da esse è qualche cosa. Se quindi riflettiamo
in questa maniera, solo la materia deve apparire come sostanza.
- 1029a20 Per materia intendo ciò che non è detto essere per sé né qualche cosa, né una
certa quantità, né alcun’altra delle cose per le quali l’ente è determinato. Infatti c’è
qualcosa di cui ciascuna delle cose è predicata, il cui essere non s’identifica a quello di
nessuno dei predicati (in effetti, le altre cose sono predicate della sostanza, e questa
della materia). Di conseguenza, il sostrato ultimo in sé non è né qualche cosa, né una
quantità, 1029a25 né null’altro (…).
- Ora, da queste considerazioni risulta che la materia è sostanza. Ma questo è
51
impossibile; infatti, essere separabile e essere un ‘questo qualche cosa’ (tode ti)
sembrano soprattutto appartenere alla sostanza.
Primo paragrafo: ci sono quattro candidati per essere sostanze (essenza,
universale, genere, sostrato), di cui il più probabile sembra il sostrato. Il
sostrato è qualcosa di cui si dice qualcosa, ma che a sua volta non è
predicabile di altro.
Secondo paragrafo: se si parla di sostrato, si ha una scelta di tre cose: i)
forma, ii) materia, iii) composto dei due.
Terzo paragrafo: se la sostanza si identifica con il sostrato, allora si deve
identificare con la materia. Ma vista la definizione di materia data da
Aristotele nel quarto paragrafo (sostrato del tutto privo di determinazioni),
la materia non è sostanza, e non lo sarà neppure il sostrato (contrariamente
a quanto si è creduto all’inizio del testo), se non in senso debole.
Ma che cosa intende Aristotele per ‘materia’ in questo capitolo?
A) introduzione del concetto di materia: bisogna sempre ricordare che la
materia va sempre con la forma (materia di qualche cosa; forma di qualche
cosa; oggetto come ‘composto’ dai due, nel senso che ha queste due
caratteristiche assieme). La statua, per esempio, è un composto di materia
8es. bronzo) e forma (es. lanciatore di giavellotto).
B) descrizione della materia: praticamente è la descrizione di nulla,
essendo ciò che resta una volta tolte tutte le proprietà. Ma la materia è
qualcosa: come dunque Aristotele può dire che la materia è praticamente
nulla? In realtà Aristotele dice che materia è qualcosa che non è detta per
sé, cioè non ha caratteristiche essenziali. Le qualità come colore,
grandezza, lunghezza, ecc. non sono presenti nella materia in sé, ma sono
accidentali. Tutte le proprietà che si riconoscono come ‘materiali’ non sono
essenziali ma accidentali. E’ comunque certo che Aristotele arriva ad una
conclusione esagerata, perché della materia qualcosa si può dire.
52
7: La natura
Testi principali: Fisica I-II; Le parti degli animali I
Come abbiamo visto in precedenza Aristotele si occupa principalmente
delle sostanze, tra cui quelle naturali. Le sostanze naturali sono quelle che
rientrano nella physis, termine greco che deriva dal verbo phyō, che
significa crescere).
L’universo di Aristotele è diviso in due mondi totalmente separati:
1) la parte sublunare
2) cieli.
Queste due parti obbediscono a leggi naturali diverse e sono fatte di
materie diverse.
1) il mondo sublunare è costituito da quattro elementi fondamentali
(terra, acque, aria, fuoco), ognuno dei quali ha qualità diverse (caldo-
freddo; secco-umido) e movimenti diversi (alto-basso). Il loro mélange
costituisce tutti gli esseri naturali.
2) il mondo dei cieli è invece costituito dall’etere (cosiddetto quinto
elemento). Quindi, secondo Aristotele, il sole (che fa parte del cielo) non è
caldo, perché è fatto di etere e non di fuoco. Il motivo per cui riscalda è la
sua velocità, talmente sostenuta che produce calore al suo passaggio.
Mondo sublunare
Gli esseri del mondo sublunare si muovono (movimenti verso l’alto e
verso il basso) per imitare la perfezione degli dei-astri (i quali a loro volta
si muovono di movimento circolare perché attratti dal (o dai) motori
immobili. Quello che però è importante notare è che per A. ciascun essere
naturale ha in sé una natura interna, un’essenza, che è un principio di
movimento e di sviluppo (cioè di cambiamento. A. sostiene che ci siano
quattro tipi di cambiamento: locale; di quantità (aumento/diminuzione); di
53
qualità (alterazione); sostanziale (generazione/corruzione)), che fa degli
esseri naturali quello che sono (ivi compreso il loro aspetto). Ciò implica
che ci sono sviluppi e movimenti naturali, in modo tale che ogni essere
naturale possiede un movimento naturale (naturale nel senso che grazie alla
natura interna, l’essere si muove in un determinato modo).
La natura si comporta quindi in modo regolare, altrimenti non potremmo
descriverla. Essa insomma si comporta secondo leggi naturali che però
valgono solo per la maggior parte (epi to polù) degli esseri naturali. Il
mondo dei cieli, invece, ha le proprie leggi (studiate dall’astronomia) senza
eccezioni.
Quindi, per il mondo sublunare c’è una sorta di regolarità ma non
universale. Tuttavia, questo non inficia la regolarità, per A. l’eccezionalità
della natura è qualcosa che accade, che ha anche la sua ragione
(l’imperfezione della materia), ma che fa parte della natura. Del resto A. ha
ragione: in effetti anche la fisica moderna formula le sue leggi sulla base di
una sorta di idealizzazione dei fenomeni, che non esistono così come essa
la descrive).
Testo: Fisica II 1, 192b8-32
192b8 Fra gli enti, alcuni sono per natura, altri per altre cause: per natura, gli animali
e le loro parti, le piante e 192b10 i corpi semplici, come terra, fuoco, acqua, aria; di
queste cose, infatti, e di altre dello stesso tipo, diciamo che esse sono per natura, ed
esse differiscono chiaramente da quelle che non sono composte per natura.
Qualunque essere naturale, infatti, ha in se stesso un principio di movimento e di
riposo, gli uni quanto al luogo, gli altri 192b15 quanto all’accrescimento e alla
diminuzione, altri quanto all’alterazione. Al contrario un letto, un mantello e ogni
altro oggetto di questo tipo, in quanto ciascuno ha diritto al suo predicato, e nella
misura in cui è prodotto dell’arte, non possiede nessuna tendenza naturale al
cambiamento, ma <la possiede> solo in quanto esso è in pietra o in legno 192b20 o
in un miscuglio di queste cose, e sotto questo rapporto, cosicché la natura è un
principio e una causa di movimento e di riposo per la cosa in cui essa risiede
immediatamente, per essenza e non per accidente.
- Dico ‘non per accidente’ perché potrebbe capitare che un uomo, in quanto medico,
fosse lui stesso la causa della propria salute; 192b25 e tuttavia, non è in quanto ha
54
ricevuto la guarigione che possiede l’arte medica; ma, per accidente, lo stesso uomo
è medico e ricevente la guarigione; queste due qualità possono anche separarsi l’una
dall’altra. La stessa cosa per tutte le altre cose fabbricate: nessuna ha in essa il
principio di fabbricazione; alcune lo hanno in altre cose, e fuori di esse, per esempio
una casa e qualunque oggetto manufatto dell’uomo; altre l’hanno in loro stesse, ma
non per essenza, cioè tutte quelle che possono essere per accidente cause per loro
stesse.
La prima cosa da osservare in questo testo è che la natura si comporta
come una causa (si veda prima riga: fra gli enti, alcuni sono per natura,
altri per altre cause). Si noti poi la lista degli esseri naturali, in cui A.
introduce anche i quattro corpi semplici, terra, aria, acqua, fuoco. A.
afferma che qualunque essere naturale ha in sé il principio di
cambiamento (qui egli elenca solo tre dei quattro tipi di cambiamento:
luogo, qualità, quantità).
Il fatto di avere in sé il principio di cambiamento è ciò che distingue
gli esseri naturali dagli esseri artificiali. Infatti, un letto o un mantello
non possiedono una tendenza naturale al cambiamento, salvo grazie alla
materia di cui sono fatti. Per esempio, un letto fatto di legno può
germogliare, ma non in quanto letto, ma in quanto ‘fatto di legno’
(quindi per accidente e non per essenza).
Nella successiva sezione, A. spiega il ‘per accidente’, allo scopo di
mostrare perché gli esseri artificiali non hanno in sé il movimento.
Prende l’esempio del medico che causa la guarigione in se stesso:
x è medico
x è guarito.
‘è medico’ non dipende da ‘è guarito’; in effetti, ‘è medico’ ed ‘è
guarito’ si trovano nello stesso uomo accidentalmente, perché possiamo
avere il caso in cui ‘x è uomo’ e ‘x è guarito’ sono separati.
Stesso discorso per gli oggetti artificiali. Prendiamo l’esempio del
letto:
55
i) questo letto germoglia
ii) questo letto è comodo.
ii) non dipende da i), ma i) e ii) si trovano in questo pezzo di legno
accidentalmente, perché possono anche essere separati (es. il letto di
metallo, che è comodo ma non germoglia).
56
8: La causalità
Testi principali: Fisica II; Le parti degli animali I; Metafisica
Lo studio delle cause si trova ovunque in Aristotele: nella Fisica, nella
Metafisica, nelle opere biologiche, nei Secondi Analitici (vedi sopra,
Analitici Secondi I 2, 71b9-72b4). Ma quando si parla di ‘causa’ in
Aristotele (e in Platone) non si parla esattamente della causa in senso
moderno, in quanto noi siamo abituati a pensare alla causa come a qualche
cosa (individuo (Socrate spinge Platone), o stato di cose (il calore del sole è
causa dello scioglimento del burro)) che fa qualche cosa, in senso attivo,
cioè che produce un effetto.
In greco il termine “causa” è aitia o aition (aggettivo che significa
‘responsabile’, ‘autore’ di qualcosa. Una formula equivalente, utilizzata da
Aristotele (e prima di lui, da Platone) è dioti, letteralmente “perché”, che
possiamo sostantivizzare dicendo “il perché”. Come ho detto, queste due
espressioni sono equivalenti:
x è causa di y se e solo se x fornisce il perché di y.
Alla domanda “perché y?”, si risponde dicendo “perché x”. La risposta,
cioè, il “perché”, fornisce la spiegazione causale di y.
Esempio:
“Perché la statua fonde?” “Perché è fatta di bronzo”. Questo ‘perché’
fornisce la spiegazione causale di quel perché.
Ora, per questa illustrazione della “causa” si presentano due problemi
che manifestano chiaramente una sorta di décalage tra la nostra nozione di
causa, e il “perché”.
1) il “perché” può essere utilizzato per introdurre la spiegazione di
qualche cosa: ma “causa” e “spiegazione” non si riferiscono alle stesse
cose, perché la spiegazione è più ampia.
57
Vediamo due esempi che possono chiarire quello che sto dicendo:
i) esempio tratto dalle verità matematiche:
22 è minore di 3
2
perché
2 è minore di 3.
In questo caso, la relazione causa/effetto non sembra adattarsi alle
scienze astratte come le matematiche: in compenso, la spiegazione
funziona. In effetti, il fatto che due alla seconda è un numero più piccolo di
tre alla seconda si spiega con il fatto che due è un numero più piccolo di tre
(ma non si può propriamente dire che “2 è minore di 3” causi “22 è minore
di 32”).
ii) esempio tratto dall’esperienza quotidiana:
“nevica”. Perché? “è inverno”.
Qui “è inverno” spiega il fatto che nevica. In questo caso, dare una
spiegazione significa citare un contesto in cui questo fenomeno risulta
normale. Ma non possiamo dire che l'inverno causa direttamente la neve.
2) altro problema: il “perché” implica una spiegazione in forma di
proposizione.
Se io dico y perché x
sto dicendo: il fatto che nevica avviene perché è inverno.
“nevica” e “è inverno” sono due proposizioni.
Se io invece dico
x è causa di y
riempio x e y con due nomi (o due nominalizzazioni):
per esempio: l’inquinamento è causa del riscaldamento terrestre.
Quindi, da un punto di vista linguistico, non c'è un'esatta corrispondenza
tra “causa” e “perché”. Dal punto di vista delle scienze esatte, laddove si
58
usa un concetto di causa, non vi è una causalità attiva, ma una spiegazione.
Ora, Aristotele non considera questo décalage. Spesso, egli fornisce
degli esempi della forma
x è aitia di y,
in cui, piuttosto che di causa, si potrà parlare di “spiegazione”.
Testo: Fisica II 3, 194b16-195b30
194b16 (…) bisogna esaminare le cause, di quale natura e quante siano. Poiché il
nostro studio ha per oggetto il conoscere, e noi non crediamo di conoscere nulla
prima di aver afferrato il perché di ogni cosa (cioè, di aver afferrato la causa prima),
è chiaro che dobbiamo fare la stessa cosa 194b20 per la generazione e la corruzione e
ogni cambiamento naturale, in maniera tale che, conoscendo i principi delle cose,
cerchiamo di ricondurvi ogni cosa che noi ricerchiamo.
- In un senso, la causa è ciò da cui, come suo costituente interno, una cosa è fatta,
come per esempio il bronzo è causa della statua e l’argento della coppa, così come i
194b25 loro generi. In un altro senso, è la forma e il modello, e questa è la
definizione dell’essenza, e i suoi generi (per esempio, il rapporto di due a uno per
l’ottava e generalmente il numero), e le parti della definizione. Ancora, è ciò da cui
proviene il primo inizio del cambiamento e del riposo; per esempio, 194b30 l’autore
di una decisione è causa, il padre è causa del figlio e, in generale, l’agente è causa di
ciò che è fatto, ciò che produce il cambiamento di ciò che è cambiato. Ancora, come
fine; e questo è l’in-vista-di-cui, per esempio, la salute è causa della passeggiata; in
effetti, perché passeggia? Per la sua salute, diciamo, e, con questa risposta, noi
pensiamo di aver fornito la causa. 194b35 E anche tutto ciò che, mosso da altra cosa
rispetto a sé, è intermediario del fine, come per esempio, per la salute, 195a il
dimagrimento, la purga, i rimedi, gli strumenti; infatti, tutte queste cose sono in vista
di un fine, e differiscono tra di loro per il fatto che le une sono azioni, le altre sono
strumenti.
- Ecco grosso modo in quanti modi si dicono le cause; ma poiché 195a5 le cause
sono dette in molti modi, accade che le cause di una stessa cosa siano molteplici, e
questo non per accidente; per esempio, per la statua, l’arte statuaria e il bronzo, e
questo non in rapporto a qualche cosa d’altro, ma in quanto statua, però non nello
stesso senso: una come materia, l’altra come ciò da cui proviene il movimento. Ci
sono anche delle cose che sono cause 195a10 l’una dell’altra, come per esempio lo
sforzo fisico del buono stato del corpo, e questo dello sforzo fisico, ma non nello
stesso senso: l’uno come fine, l’altro come principio del movimento. Inoltre, la stessa
cosa può essere causa dei contrari: in effetti, di ciò che grazie alla sua presenza è
causa dell’effetto, noi constatiamo l’assenza come causa dell’effetto contrario, come
per esempio l’assenza del pilota è causa del naufragio, laddove la sua presenza era
causa di salvezza.
195a15 - Ora, tutte le cause cha abbiamo menzionato cadono sotto le quattro specie
più manifeste: le lettere in rapporto alle sillabe, la materia in rapporto agli oggetti
fabbricati, il fuoco e le altre cose in rapporto ai corpi, le parti in rapporto al tutto, le
59
ipotesi in rapporto alla conclusione, sono cause come ‘ciò da cui’. Di queste cose, le
une sono cause come sostrato, 195a20 per esempio le parti, le altre come essenze, il
tutto, il composto, la forma; d’altra parte il seme, il medico, l’autore di una decisione,
e in generale l’agente, tutto questo è ciò da cui proviene l’inizio del cambiamento o
del riposo. Altre cose come fine e bene delle altre cose: infatti, l’in-vista-di-cui
195a25 vuol essere cosa eccellente e fine delle altre cose; poco importa il dire che si
tratta del bene in sé o del bene apparente.
La teoria delle quattro cause.
In questo testo Aristotele presenta la sua teoria delle quattro cause. Si
tratta di una teoria molto celebre, tipica di Aristotele (ne parlerà anche nel
libro Alpha della Metafisica): ma forse, sarebbe meglio parlare di teoria
delle quattro spiegazioni.
Ci sono due problemi nella teoria aristotelica;
1) si tratta di una teoria di quattro tipi di causa, oppure di un'analisi dei
significati di un termine (aitia) ambiguo? Nel primo caso, si tratterebbe di
un termine (aitia) che ha un solo significato, ma specie differenti (come
“animale”, che significa la stessa cosa sia quando si parla di un gatto, sia
quando si parla di un uccellino, o di un pesce). Nel secondo caso, si
tratterebbe di un termine ambiguo (come ad esempio “pesca” che significa
sia il frutto che l'arte di catturare dei pesci: si tratta di un termine che ha
due significati che non hanno nulla in comune).
Aristotele non lo dice: ma la teoria delle quattro cause è, come vedremo,
una mescolanza tra le due cose.
2) perché solo quattro cause?
Aristotele non lo dice, ma nel libro Alpha della Metafisica considera le
ricerche dei suoi predecessori, e trova quattro cause e basta. Questo
significa che, prima di lui, per analizzare i fenomeni e la realtà sono state
necessarie solamente quattro tipi di spiegazione.
L’idea aristotelica che governa tutto il testo è che conosciamo qualche
cosa se e solo ne conosciamo la causa prima (aitia prote). Cosa vuol dire
60
“causa prima”? L'idea è che ci troviamo di fronte a una sequenza di questo
tipo:
A perché B perché C....perché Y, perché Z. Immaginiamo che oltre Z
non ci sia null'altro: Z sarà allora la causa prima, ovverosia la sommità
della catena esplicativa. Z, invece, non verrà spiegato da nulla, sarà
inesplicabile (o, in termini scientifici, auto-evidente). Gli altri membri
saranno anch'essi cause (cioè, membri della spiegazione), ma solo Z sarà la
causa prima13
.
Avremo quindi un sistema di derivazione:
Z
Y
.
.
.
.
C
B
----------
A
La causa: una spiegazione in forma proposizionale.
Nel libro Zeta della Metafisica (1041a10), Aristotele dichiara che
quando si domanda “perché?”, si domanda “perché una cosa appartiene a
un'altra cosa?”.
Cosa vuol dire? Ebbene, sul piano della realtà, questo significa:
“perché una proprietà appartiene a una determinata sostanza?”
Sul piano logico-linguistico:
13
Vedi Metafisica, alpha piccolo: ogni catena di cause deve avere un primo termine (non può cioè risalire
all’infinito).
61
“perché un predicato appartiene a un dato soggetto?”14
.
Quindi, la causalità in Aristotele è, o dovrebbe essere, una teoria di
quattro tipi di spiegazione causale per le proprietà delle cose (forse con la
parziale eccezione della causa efficiente, che assomiglia un po’ più alla
‘nostra’ causa, anche se non tutti sono d’accordo).
Chiariremo questo concetto fornendo quattro esempi destinati a illustrare
i quattro tipi di causa secondo Aristotele.
1) Causa materiale :
per illustrare il primo tipo di causa (la causa materiale), prendiamo
esempi che lo stesso Aristotele presenta nella Fisica:
- il bronzo è causa della statua
- l'argento è causa della coppa.
Sappiamo, perché è Aristotele che lo dice, che la causa è il perché:
“Perché la statua?”. “Perché il bronzo”.
“Perché la coppa?”. “Perché l'argento”.
Ma questo che senso può avere?
Sulla base di quello che Aristotele dice in Metafisica Zeta 1041a10,
possiamo dire la cosa seguente:
il bronzo è la causa della statua nel senso che esso spiega perché la statua
possiede determinate proprietà.
Per esempio:
la statua è bruna perché è fatta di bronzo
la statua fonde perché è fatta di bronzo
ecc. Vi sono, cioè, molte cose che sono vere della statua a causa del fatto
che essa è fatta di bronzo. Si noterà la trasformazione di
il bronzo è causa della statua
14
Si noti che Aristotele non fa che riprendere il concetto di causa che si trova in Platone: cfr. Fedone,
95b-102a.
62
a
la statua fonde perché è fatta di bronzo.
Si tratta di spiegazioni in forma proposizionale.
Quindi, per la spiegazione materiale possiamo dare la seguente formula:
x è perché x è fatto di
x = un soggetto; = un predicato; = materia.
2) Causa formale:
vale lo stesso discorso. Vediamo un esempio di Aristotele, che possiamo
trarre dal libro Alpha della Metafisica:
“perché gli uomini sono capaci di praticare la filosofia?”
“perché sono esseri razionali”
cioè, appartiene loro la proprietà di essere razionali.
x è perché x è
x = un soggetto; = un predicato; = una parte della definizione di x,
cioè un predicato che rientra nella definizione essenziale di x. Infatti, la
causa formale riguarda quei predicati che dipendono dalla definizione della
cosa a cui tale predicato si applica.
3) Causa efficiente:
è quella che generalmente è considerata più vicina al nostro concetto
moderno di causa, intesa cioè come qualcosa di attivo, distinto dall'effetto,
e che produce qualche cosa.
Contro questa teoria, però, c'è un argomento forte, cioè che Aristotele
non presenta in nessun caso, per questo tipo di causa, una caratterizzazione
diversa rispetto alle altre cause. Quindi, anche per questa causa, occorrerà
cercare una spiegazione nei termini di “perché x?”
cioè, nei termini di una spiegazione che appunto spieghi l’appartenenza
di un predicato a un soggetto (o di una proprietà alla sostanza). Per
esempio: il figlio ha gli occhi blu perché il padre ha gli occhi blu.
63
x è perché y è
x = un soggetto; y = un altro soggetto: = un predicato (che appartiene
sia a x che a y).
Tuttavia, nel caso della causa efficiente, Aristotele fa intravedere anche
un concetto più vicino al nostro: quello di un agente, di qualcosa che fa
qualcosa. In effetti, lo stesso Aristotele (vedi Metafisica Alfa, 983a30-32)
definisce questa causa come “principio a partire da cui ha inizio il
movimento”, facendo di essa un principio dinamico esterno che trasmette
delle proprietà (es. la mano, che è calda perché il fuoco che la lambisce è
caldo).
4) causa finale: invece, il caso della causa (spiegazione) finale è
differente. Qui non vogliamo trovare la formula che ci è servita per
caratterizzare le altre, cioè, alla
domanda che utilizza “perché?” non vogliamo utilizzare come risposta
“perché”. Lo stesso Aristotele ci dà la formula:
“perché ?”
“affinché ”.
“Affinché” in greco è eneka ou, letteralmente “l'in vista di cui”. Esempio
di Aristotele: “perché passeggia?” “al fine di essere sano”, cioè, al fine di
ottenere (o preservare) l'essere sano.
x è al fine di essere .
x = soggetto; = è passeggiante (per Aristotele “passeggia” è un
predicato); = un altro predicato (una proprietà che si vuole acquisire).
Per ritornare al senso del termine aitia, possiamo dire che il termine
possiede due significati, “perché” e “in vista di”. Il primo si distingue in tre
“perché”: il perché materiale, il perché formale, il perché efficiente (anche
se, in quest’ultimo caso, con qualche riserva).
64
9: La teleologia
Tra le quattro cause viste, si distingue quella che noi chiamiamo ‘causa
finale’, a cui Aristotele si riferisce con una formula composta dalla
preposizione eneka (‘in-vista’) più l’articolo o pronome relativo al genitivo
tou (‘di-qualche-cosa’ o ‘in-vista-di-cui’): ‘in-vista-di-cui’.
Ora, la causa finale fornisce una spiegazione che lega dei
comportamenti, che si possono esprimere con le proposizioni. Si possono
pensare due proposizioni che hanno una relazione tale che la prima cosa
espressa dalla prima proposizione accade per (allo scopo di) permettere la
seconda cosa (espressa dalla seconda definizione).
Es. Ho preso un taxi…non sono in ritardo.
Alla domanda ‘perché x?’ (‘perché ho preso un taxi?’) rispondo con ‘allo
scopo di y’ (‘allo scopo di non essere in ritardo’).
Si tratta di una risposta a un perché.
In generale, per spiegare un comportamento determinato si fa ricorso ai
desideri e alle credenze del soggetto del comportamento. C’è sicuramente
uno stretto legame tra spiegazioni di questo tipo e la formula ‘allo scopo
di’.
Es.: ‘perché hai preso un taxi?’ perché desideravo non arrivare in ritardo
+ perché credevo che il taxi fosse il mezzo più rapido per arrivare.
Ma, per Aristotele non c’è una relazione, almeno non nella trattazione
della sua teoria delle quattro cause, tra ‘allo scopo di’ e desideri e credenze.
Se consideriamo l’esempio di causa finale data da Aristotele
1) ho passeggiato a causa della mia salute
si potrebbe dire che tale frase corrisponda a
2) ho passeggiato perché volevo diventare sano.
Ma per Aristotele, tra le due frasi ci sono delle differenze:
65
i) in 1) la causa segue la mia passeggiata, cioè, è la salute la causa, e io la
posso ottenere grazie alla passeggiata. Si tratta del solo caso in cui la causa
segue l’effetto. Invece in 2) il mio desiderio e la mia volontà precedono la
mia azione (è perché voglio diventare sano che passeggio).
ii) ci sono casi in cui le cause non esistono, ma restano cause: per
esempio, ho camminato, non ho ottenuto la salute, ma la salute resta la
causa della mia passeggiata. E nel caso degli atti intenzionali?
Il finalismo nella natura
Fino ad ora abbiamo preso esempi di atti umani, che sono facilmente
spiegabili nei termini di desideri, credenze e volontà. Ma per Aristotele è
nella natura nella sua interezza che si trova il senso primo del finalismo.
Per esempio, possiamo individuare una spiegazione finale a certi
comportamenti animali: per esempio, il ragno tesse la sua tela allo scopo di
catturare le mosche. Questo però non ha nulla a che fare con la volontà i
desideri, le credenze del ragno. Almeno per Aristotele. Quindi, per il ragno
i) è vero che tesse la sua tela allo scopo di catturare le mosche
ii) ma è falso che tesse la sua tela perché vuole catturare le mosche.
Altri esempi aristotelici: le querce hanno lunghe radici per (allo scopo di)
radicarsi meglio, perché per esempio all’origine si trovavano in luoghi
particolarmente ventosi.
Aristotele non crede che gli alberi abbiano desideri e volontà; tuttavia,
essi manifestano (possiamo vedere letteralmente) dei comportamenti allo
scopo di qualche cosa.
Altri esempi, considerati lungamente nelle opere biologiche di
Aristotele: le parti degli animali. Per esempio, secondo Aristotele, gli
animali come noi possiedono denti aguzzi per lacerare il cibo e piatti per
masticarlo. In tutta una serie di casi comportamentali e forme naturali, si
possono invocare delle spiegazioni finali che non hanno nulla a che fare
66
con la volontà di animali e piante in questione. Bisogna poi aggiungere che
Aristotele non crede che nella natura ci sia finalismo ovunque: per
esempio, afferma che ci sono casi di eventi naturali senza spiegazione
finale, per esempio, il colore degli occhi.
Tuttavia Aristotele pensa che la finalità si trovi in natura quasi ovunque.
Qual è allora la differenza tra il finalismo aristotelico e il finalismo
diciamo standard ?
Normalmente, quando si parla del finalismo in natura, si pensa ad una
intelligenza (Dio, il Demiurgo platonico, ecc.) che fabbrica il mondo come
una macchina, in cui ogni pezzo ha la sua funzione, decisa appunto dal
Demiurgo. Questa per esempio è l’idea di Galeno, celebre medico e
filosofo del II secolo dopo cristo, che scrive un’opera per spiegare la
funzione di ogni parte, anche la più piccola, della mano umana.
Forse Aristotele attribuisce intenzioni del tipo demiurgico, se non alle
creature naturali e a un artigiano che le fabbrica, almeno alla natura stessa ?
Vi sono passi in cui Aristotele parla della natura come di un artigiano
intelligente, ma ce ne sono altri in cui Aristotele fornendo spiegazioni finali
dettagliate (per esempio, nei suoi scritti biologici), non fa alcun riferimento
ai progetti della natura o alle intenzioni dell’artigiano. Anzi, dà
l’impressione di voler spiegare una serie di comportamenti e forme naturali
senza assolutamente riferirsi a un disegno generale che governerebbe la
natura intera. Se allora non è possibile spiegare la teleologia aristotelica nei
termini di un piano intenzionale, allora la possiamo spiegare come una
sorta di funzionalismo. In generale, la maggior parte delle caratteristiche
strutturali e comportamentali degli animali e delle piante ha una funzione.
Tali caratteristiche, cioè, permettono attività essenziali, o almeno utili,
all’organismo. Si pensi ad esempio alle zampe palmate delle anatre, che
permettono all’anatra di nuotare, sapendo che nuotare è una parte
67
essenziale della vita di un’anatra.
Perché l’anatra è palmipede?
Allo scopo di nuotare.
Queste spiegazioni non hanno nulla a che fare con gli atti intenzionali: si
tratta di una funzione, e Aristotele vede ovunque nella natura delle
funzioni.
Come vedremo ora nel testo, non bisogna confondere il funzionalismo
aristotelico (‘allo scopo di’) con la teoria della selezione naturale, che non
utilizza spiegazioni finalistiche ma meccanicistiche: l’idea è che, per
esempio, l’anatra è palmipede a causa di ciò che precede (i suoi genitori,
anch’essi palmipedi) e non a causa di ciò che segue (‘allo scopo di
nuotare’). Cioè, l’eredità dell’anatra le permette di sopravvivere, mentre
invece, se il suo organismo non fosse adattato a una certa attività essenziale
per la sua sopravvivenza, non potrebbe sopravvivere, o vivrebbe con
difficoltà.
Testo scelto: Fisica II 8, 198b10-199a8
Prima di tutto bisogna dire che la natura si trova nelle cause in-vista-di cui, poi come
il necessario esiste nelle cose naturali. Infatti, tutti riconducono le cose a questa causa,
dicendo che, poiché il caldo è per natura tale e il freddo tale, ecc., tali cose sono e
divengono per necessità; 198b15 infatti, se essi invocano un’altra causa, appena l’hanno
toccata l’abbandonano—come colui che parla dell’amore e dell’odio, o l’altro
dell’intelligenza.
Ma si presenta una difficoltà, (1) che cosa impedisce alla natura di agire non in vista
di un fine né perché è meglio, ma come Zeus fa piovere—non per far aumentare il
raccolto ma per necessità? In effetti, l’evaporazione, essendosi innalzata, deve
raffreddarsi e, essendosi raffreddata e divenuta acqua, deve discendere; 195b20 e
quando questo capita, ne consegue che il raccolto aumenta. Ugualmente, se la raccolta
si perde sull’aia, non è in vista di questo scopo che piove (allo scopo che esso si perda),
ma ne risulta. (2) Quindi, cosa impedisce che sia così anche per le parti? Per esempio,
che i denti crescano per necessità, gli incisivi aguzzi 195b25 e adatti a lacerare, i molari
larghi e atti a triturare, che non siano stati generati in vista di ciò ma che si tratti di
coincidenza? Ugualmente per le altre parti dove sembra vi sia l’in-vista-di-cui. Ora,
dove tutto è accaduto come se fosse accaduto in-vista-di-cui 195b30 in questi casi le
cose sono conservate in quanto esse possiedono, per caso, una costituzione opportuna,
mentre le cose che non sono tali sono perite e periscono—come Empedocle dice dei
68
bovini a muso umano.
(3) Ecco un argomento che potrebbe presentare delle difficoltà, e ce ne sono altri. Ma
è impossibile che sia così. In effetti, queste cose e tutte quelle che esistono per natura, si
producono come sono 195b35 o sempre o nella maggioranza dei casi, il che non è il
caso per le cose che dipendono dalla fortuna o dal caso: non si crede che è per fortuna o
per coincidenza se spesso piove in inverno, ma se piove durante la canicola, né se fa
caldo durante la canicola, ma se è così in inverno. 199a1 Se quindi queste cose
accadono o per coincidenza o in vista di qualche cose, e se non è possibile che esse
accadano per coincidenza o per caso, esse accadranno in-vista-di-cui. 199a5 ma tutte le
cose di questo tipo sono per natura, anche secondo coloro che sostengono queste tesi.
L’in-vista-di-cui si trova dunque tra le cose che divengono e sono per natura.
“Prima di tutto…intelligenza”.
Aristotele pensa che tutto ciò che accade, accada per necessità, e che
questo sia compatibile con la finalità, e questo contrariamente a coloro che,
ammettendo la necessità, rifiutino il finalismo.
Aristotele (a) deve giustificare l’ affermazione secondo cui la natura ha
un fine e (b) deve mostrare in che modo sia coinvolta la necessità nei
fenomeni naturali.
Infatti, gli altri ‘fisici’ riconducono i fenomeni alla necessità, cioè,
spiegano gli eventi naturali come il risultato necessario di ciò che precede.
Es: il caldo è per natura tale; il freddo è per natura tale. I fenomeni quindi
accadono di necessità; e i fisici di fatto accettano questa teoria, utilizzando
molto poco le altre cause che tuttavia menzionano. Per esempio, l’amore e
l’odio (Empedocle), o l’intelligenza (Anassagora). Aristotele vuol dire che
ci sono dei predecessori che hanno afferrato la causa finale, ma senza
svilupparla in maniera adeguata. Nella continuazione del testo troviamo (a),
cioè la giustificazione del finalismo.
Nel secondo paragrafo (“ma si presenta una difficoltà…muso umano),
Aristotele presenta una difficoltà contro la tesi del finalismo in natura. Si
tratta di un argomento in tre tappe:
(1) Aristotele constata che vi sono eventi naturali in cui si ha a che fare
con la necessità e non con il finalismo. Qui Zeus è menzionato non come
69
causa finale, ma come causa meccanica. Zeus, afferma Aristotele, non invia
la pioggia per permettere al raccolto di aumentare; piuttosto, la pioggia
segue di necessità dalle condizioni preesistenti, e l’aumento del raccolto
segue di necessità. La pioggia dunque, è una spiegazione meccanicista.
Solo dopo la raccolta aumenta. Ma sarebbe stupido dire che il fine della
pioggia è l’aumento del raccolto, perché la stessa pioggia può far marcire il
raccolto, e sarebbe sciocco dire che il fine della pioggia è far marcire il
raccolto…La spiegazione sarà quindi: piove, e questo fa aumentare il
raccolto.
(2) Ora, nulla impedisce che questo accada anche in altri casi, per
esempio per le parti dei corpi organici (tipico caso di finalismo
aristotelico). Potrebbe succedere che i denti si producano per necessità, e
che le loro forme per le loro funzioni (incisivi per lacerare, molari per
masticare) siano il risultato di una causa precedente. Gli oppositori di
Aristotele potrebbero dire che i molari ‘omogeneizzano’ il cibo, senza per
questo ammettere che essi siano là a questo scopo. Sarebbe la selezione
naturale, dicono gli avversari, responsabile di certe conformazioni degli
animali (es. che l’oca sia palmipede). In questo modo, gli animali che
possiedono una costituzione appropriata (per caso e per fortuna, non allo
scopo di!) possono sopravvivere, gli altri no.
(3) Il resto del capitolo (capitolo 8 del secondo libro della Fisica)
contiene una serie di risposte al meccanicismo. Nel nostro testo ne abbiamo
solo una.
Prima premessa:
- le cose naturali si producono sempre o nella maggior parte dei casi.
Seconda premessa:
- quindi, le cose naturali non si producono per caso (= senza causa).
Terza premessa:
70
le cose naturali capitano o per caso (=senza scopo) o con scopo.
Conclusione:
-le cose naturali accadono con uno scopo (infatti accadono nella maggior
parte dei casi).
Forma dell’argomento: ¬P (le cose naturali non accadono per caso); P (le
cose naturali accadono per caso) Q le cose naturali accadono con uno
scopo); quindi Q (le cose naturali accadono con uno scopo).
Difficoltà dell’argomento:
i) Aristotele utilizza la formula ‘per caso’ in modo ambiguo: una volta
nel senso di ‘senza causa’ (in opposizione a ciò che viene detto nella prima
premessa, e cioè che le cose naturali hanno quasi sempre una causa),
un’altra nel senso di ‘senza uno scopo’;
ii) la conclusione è troppo forte anche per lo stesso Aristotele, perché
egli non crede che tutte le cose naturali abbiano uno scopo.
71
10: La psicologia
Testi principali: L’Anima; Sulla sensazione
Nell’universo aristotelico ci sono due distinzioni:
1) cielo/terra (mondo sublunare);
2) mondo sublunare (fatto di esseri viventi (animali, piante) e esseri non
viventi (pietre, ecc.) e mondo lunare (fatto di esseri viventi, cioè astri).
Gli esistenti del mondo lunare sono oggetto della scienza astronomica,
quelli del mondo sublunare sono invece oggetto di molteplici discipline
(biologia, zoologia, ecc.), inclusa la psicologia (che d’altra parte non è
chiamata così da Aristotele).
La psicologia si situa così tra le scienze della natura, ed è strettamente
apparentata alla biologia, e soprattutto alla zoologia. per A. la psicologia è
connessa sia alla scienza sperimentale che alla filosofia e alla logica,
perché per lui la distinzione tra scienze empiriche e scienze analitiche non
esisteva ancora.
La traduzione di psyché con ‘anima’ è ancora una volta fuorviante, anche
se è troppo radicata per cercare un’altra traduzione. In effetti, la psyché
aristotelica è ciò che fa la differenza tra gli esseri viventi e esseri non
viventi, sicché il fatto di essere vivente ha come conseguenza logica quella
di possedere una psyché. Questo significa che essa è posseduta da tutti gli
esseri viventi, anche dagli alberi. ‘Anima’ quindi non coincide con psyché,
nella misura in cui sarebbe stupido dire che gli alberi hanno un’anima.
Cos’è dunque la psyché?
E’ ciò che distingue gli esseri viventi dagli esseri non-viventi. Varie le
risposte che sono state date dai presocratici: aria; sangue; tipo di atomi che
si trovano ovunque nel mio corpo (Epicuro), ecc. Tutte queste sono risposte
materialiste, nel senso che si è pensato che l’anima fosse una parte fisica
72
del corpo. Con Platone, però, si trova una risposta diversa: l’anima si
configura essere una parte del corpo incorporea, un principio attaccato al
corpo che lo fa funzionare.
Contrariamente a quel che si crede, nessun filosofo greco post-platonico,
con la parziale eccezione di Aristotele, ha accettato la soluzione platonica.
Perfino i primi cristiani (come ad esempio Tertulliano) hanno ritenuto che
l’anima fosse una parte corporea, altrimenti come sarebbe possibile che le
anime dei peccatori brucino all’inferno?
Aristotele non accetta né la soluzione materialistica, né quella platonica
secondo cui l’anima sarebbe un’aggiunta incorporea al corpo. Piuttosto, fa
una sorta di miscuglio delle due, difficile da spiegare perché lui stesso
procede per tentativi.
In De anima II, 1-2 Aristotele fornisce ben tre definizioni di anima.
Prima definizione: l’anima è la prima attualità di un corpo organico e
potenzialmente vivente.
Attualità: richiama la celebre teoria aristotelica di potenza/atto, che in
pratica presenta la distinzione tra ‘avere la capacità di divenire qualcosa’
(potenza) e ‘essere realmente qualcosa’.
Dire per esempio che i pomodori non sono rossi in atto ma in potenza
significa dire che essi hanno la capacità di diventare rossi. Essi saranno in
atto quando saranno effettivamente rossi. La distinzione potenza/atto è la
tematizzazione di un’idea conosciuta: vi sono cose che possono realizzarsi,
altre no. Es. sono in potenza a Parigi, ma non sono in potenza su Giove.
Prima attualità: rispetto ai vari gradi di attualità.
Di un corpo organico: di un corpo organizzato in parti che possono fare
qualcosa (organi) in atto, cioè realizzato.
L’anima come prima attualità di un corpo: per esempio, la prima volta
che un gattino ha aperto gli occhi per vedere.
73
Potenzialmente vivente: per distinguerlo dalle macchine che
costituiscono anch’esse una organizzazione di parti ma non vivente.
Questa definizione significa grosso modo questo: possedere un’anima
significa essere un corpo dotato di strumenti d’azione che esso è pronto ad
utilizzare.
Seconda definizione: l’anima è la forma di un corpo vivente.
A. fornisce un’analogia. Consideriamo una sega per tagliare il legno:
dovremo scegliere il materiale adatto (es. metallo), e dargli una forma. Ora,
noi potremmo scegliere tra varie figure di sega (infatti posso utilizzare
seghe di varie forme per tagliare il legno), quindi non c’è un’unica figura
della sega. Ciò di cui A. parla quando nomina la forma sarà piuttosto la
funzione, la configurazione della forma. La psyché come forma del corpo è
appunto la capacità di questo corpo qui.
Questa definizione significa dunque: il possesso di un’anima dà al corpo
la capacità di vivere.
Questa però è quasi una tautologia, visto che essere vivi ha come
conseguenza logica avere la psyché.
Aristotele distingue quattro capacità psicologiche (che distinguono
appunto gli esseri viventi dagli esseri non viventi, che non possiedono
queste capacità):
1) la capacità di nutrirsi
2) la capacità di percepire
3) la capacità di pensare in senso lato
4) la capacità di movimento.
Secondo A., queste capacità formano una sorta di gerarchia. Ma ciò che
è importante sottolineare è che è sufficiente una sola capacità per essere
viventi (es. le piante, che posseggono solo la capacità di nutrirsi), e quindi
per possedere l’anima. L’uomo possiede tutti i tipi di capacità. E poi vi è un
74
essere superiore, dio, che possiede 3) e 4) (questo però limitatamente ai
motori immobili, perché il motore immobile è appunto immobile), ma
certamente non possiede 1) e probabilmente neanche 2).
Testo scelto: L’anima, II 6, 418a7-25
418a7 In ciò che concerne ogni senso, bisogna innanzitutto parlare degli oggetti della
percezione. L’oggetto di percezione si dice in tre modi, di cui diciamo che due sono per
se, l’altro per accidente. Dei due 418a10 primi, l’uno è proprio a ogni senso, l’altro è
comune a tutti. Chiamo proprio quello che non si può percepire per mezzo di un altro
senso, e rispetto al quale non ci si può sbagliare, come per esempio la vista del colore,
l’udito del suono, il gusto del sapore. Il tatto, quanto a lui, ha come oggetto più
differenze. Ma almeno 418a15 ognuno giudica riguardo a queste cose e non si sbaglia
sul colore o sul suono, ma su ciò che la cosa colorata è, oppure dove essa sia, o su ciò
che produce il suono oppure dove esso sia. Le cose di questo tipo sono chiamate proprie
ad ogni senso, mentre il movimento, il riposo, il numero, la figura, la grandezza sono
comuni, perché essi non sono propri a nessun senso, ma comuni a tutti. In effetti, un
certo movimento è oggetto di percezione sia per il tatto sia per la vista.
418a20 Si parla di oggetto di percezione per accidente se per esempio questo bianco
è il figlio di Diare; è in effetti per accidente che lo si percepisce, perché ciò che si
percepisce è accidentalmente unito al bianco. E’ anche per questo che non si è
modificati dall’oggetto della percezione in quanto tale. Tra gli oggetti di percezione per
se, ci sono i propri che sono oggetto di percezione propriamente detti, ed è in rapporto
ad essi che 418a25 l’essenza di ogni senso è naturalmente determinata.
Nel testo scelto Aristotele tratta della percezione, e dichiara che
innanzitutto dobbiamo trattare gli oggetti della percezione. Perché
dobbiamo farlo? In effetti, per stabilire cos’è la percezione, potremmo
prendere tre direzioni possibili: i) considerare l’ente che possiede la
capacità; ii) considerare l’oggetto della capacità, iii) considerare la
relazione tra i due.
Per A. bisogna per prima cosa trattare l’oggetto della capacità, e non
spiega perché, ma forse la risposta è banale: è molto più semplice parlare
dell’oggetto della capacità rispetto agli organi di essa, poiché l’oggetto è
visibile, quotidiano.
Ora, ci spiega A. nella continuazione del testo, l’oggetto di percezione si
dice in tre modi, due per se (proprio e comune), uno per accidente. Il fatto
75
che A. affermi che l’oggetto “si dice” in tre modi lascia aperta una certa
ambiguità: infatti, non si capisce se A. vuol dire che ci sono tre tipi di
oggetti di percezione o tre significati di un termine (“oggetto di
percezione”) ambiguo.
Sensibile per se:
oggetto di percezione proprio: è l’oggetto che appartiene a un solo senso
(il colore per la vista, il suono per l’udito, il sapore per il gusto);
oggetto di percezione comune: è l’oggetto che, afferma A., è comune a
tutti i sensi. Tuttavia, è difficile pensare ad un oggetto percepibile da tutti i
sensi. Inoltre, quando A. commenta uno degli esempi di sensibili comuni
(movimento, riposo, numero, figura, grandezza), e cioè il movimento, dice
che esso è oggetto di percezione sia per il tatto che per la vista. Quindi
dovremo ridurre la portata di quel che dice A. e affermare che i sensibili
comuni sono quelli percepiti da più di un senso. Comunque, anche
l’esempio di movimento come sensibile comune è un po’ discutibile.
Per ciò che riguarda la distinzione tra sensibili per se e sensibili per
accidente, l’esempio dato da A. è quello di ‘questo bianco figlio di Diare’.
per rendere l’esempio più chiaro, possiamo cambiarlo e riflettere sul colore
della mai borsa. Secondo Aristotele io vedo la mia borsa solo per accidente,
cioè grazie a qualcosa d’altro che appartiene alla borsa, il suo colore. Il
colore è accidente della borsa, ma è ciò che la vista vede propriamente.
Le due tesi aristoteliche, insomma, sono queste:
i) (tesi implicita): vediamo la borsa (e in generale le cose) solo grazie al
colore;
2) (tesi implicita): vi è una teoria della percezione con i cinque sensi
collegati e subordinati.
76
11: La politica
Lo scopo dell’uomo—vedremo nell’etica, è quello di realizzare la sua
natura particolare, cioè la propria razionalità. Ma questo non basta: secondo
Aristotele, infatti, gli uomini non sono individui isolati, e l’eccellenza
umana non può essere praticata da un individuo isolato. Perché? Perché
per Aristotele l’uomo è per natura politico. E lo stato (che per Aristotele
coincide con la città-stato, cioè la polis, incarnata da Sparta e Atene) è
un’entità naturale. La politica di Aristotele, dunque, cioè lo studio dello
stato, si basa su una definizione di uomo come naturalmente politico, e di
stato come entità naturale.
Svilupperemo ora un poco l’idea di uomo come animale politico per
natura. L’altra idea, quella di stato come entità naturale, è invece sviluppata
nel testo scelto.
L’uomo è per natura animale politico
L’idea di uomo come animale politico viene sviluppata nel libro I della
Politica. La definizione (uomo =df animale politico) è subordinata alla
scienza della zoologia, di modo che la politica sembra ‘cadere’ sotto il
genere ‘zoologia’: l’uomo, cioè, risulta essere un animale di una certa
specie.
Nella Storia degli animali, 488a2ss., Aristotele presenta una distinzione
secondo cui gli animali si dividono in i) solitari e in ii) gregari.
Questi ultimi (gli animali che vivono assieme), si dividono a loro volta
in iia) non sociali (puramente gregari: per esempio le pecore, che vivono
assieme ma facendo ciascuna i fatti propri) e iib) sociali (che si aiutano a
vicenda, come uomini, api, vespe formiche, gru).
L’uomo poi, a differenza degli altri animali, è politico (cioè, abita la
polis con forme di governo—in questo senso anche le api per Aristotele
77
sono politiche, perché ad esempio hanno l’ape regina, che è segno di
politicità) perché, come vedremo nel testo scelto, è il solo in grado di
percepire bene e male, giusto e ingiusto, e il comunicarsi queste cose
costituisce la base di famiglia e stato.
“Essere politico” (caratteristica essenziale dell’uomo) significa allora
abitare una comunità dove c’è qui governa e chi è governato, e questo
secondo leggi, che si deve assicurare siano rispettate. Invece gli animali
puramente sociali collaborano assieme, ma senza governo né regole
(=leggi). In tal senso, “politico” non è una caratteristica essenziale che
dipende dalla definizione di uomo (ugualmente celebre) come “animale
razionale”, perché abbiamo visto che anche le api sono in certo qual modo
politiche. La politica rientra nel quadro della zoologia, e questa
osservazione va presa seriamente: così come le formiche e le gru hanno
comportamenti determinati dalla loro natura, ugualmente l’uomo è per
natura (e non per convenzione) politico.
Questo però non significa che per A. tutti gli uomini sono politici. Come
per tutte le leggi naturali, anche la politicità dell’uomo vale “per lo più”,
cioè nella maggioranza dei casi. Le eccezioni sono dunque ammesse. Il
fatto che l’uomo sia per natura politico, e che quindi viva nella polis, non
impedisce che ci siano individui che fuori-polis, quelli che le hanno
fondate. Aristotele vuol dire che per garantire la vita politica l’uomo deve o
ha dovuto fare qualcosa fuori politica. Questo non è una contraddizione: da
una parte noi facciamo qualcosa per natura (cioè abbiamo un
comportamento politico); dall’altra, ogni tanto, bisogna fare qualcosa che
metta in moto il comportamento naturale. Si tratta insomma di una
tendenza naturale che ha bisogno di essere avviata.
Per A. quindi essere politico significa vivere nella polis. Lo stato ideale,
per il nostro filosofo, non deve mai superare i centomila abitanti, perché A.
78
ha in mente città antiche come Atene e Sparta. Le città-stato in effetti
costituiscono la realtà di base per la teoria politica aristotelica. Il che è in
certo qual modo bizzarro, visto che Aristotele fu l’istitutore di Alessandro
il Grande, responsabile proprio della distruzione delle città-stato.
Nondimeno, A. non perse la convinzione della correttezza della città-stato
come forma corretta del viver civile.
Il cittadino
Data la tendenza naturale dell’uomo per il comportamento politico, ci si
potranno porre tre questioni:
1) chi deve governare, cioè quale forma di governo è per A. ideale;
2) in relazione a che cosa si deve governare, visto che il governo politico
in teoria non dirige tutta la vita dell’uomo;
3) quali sono le questioni politiche e quali quelle private.
In generale A. non ha trattato le varie questioni in modo chiaro, ma ci
sono indicazioni che portano a pensare che egli fosse totalitarista (cioè, che
pensasse ad uno stato forte e molto interventista nella vita degli individui) e
non molto interessato alla questione delle libertà individuali. E’ però vero
che ciò che resta della Politica di Aristotele è incompleto, e non possiamo
escludere che se ne fosse occupato
Quanto alla domanda 1), e cioè chi debba governare, la maggior parte
della Politica cerca di rispondere proprio a questo. Egli discute tale
questione sotto la rubrica più generale di “costituzione”, perché per lui
essere cittadino significa avere il diritto, e probabilmente anche il dovere,
di partecipare alla costituzione delle leggi e alle corti di giustizia. Questo
costituisce una differenza tra “cittadini” ed “abitanti della città”. I primi,
per essere tali, devono avere caratteristiche razionali, perché per A., anche
se l’uomo è “animale razionale”, vi sono uomini che non sono capaci di
ragionare, che di fatto sono la maggior parte del genere umano (i barbari,
79
gli schiavi, i bambini, le donne). La teoria sulle donne ha basi
“scientifiche”: Aristotele dice che le donne sono mutilate, come i castrati
(egli osserva gli animali castrati e nota che hanno comportamenti
femminili…).
Chi deve governare, dunque? I cittadini sotto una determinata forma di
governo, tenendo presente che la forma di governo si applica solo alla
classe selezionata dei cittadini (nel senso che solo essi si occupano di
guerra, governo e culto. Gli altri obbediscono).
Alla domanda “chi deve governare?” ci sono tre possibili risposte:
i) una sola persona tra i cittadini (non necessariamente una monarchia
ereditaria);
ii) un piccolo gruppo
iii) tutti i cittadini.
Secondo queste tre possibilità, Aristotele presenta sei forme di governo
(che chiama costituzioni), di cui tre degradate in relazione alle altre tre (a
seconda che si segua l’interesse comune o quello privato)
forma positiva forma degenerata
- monarchia tirannia (potere assoluto)
- aristocrazia (da aristos =eccellente) oligarchia (potere di pochi)
- democrazia (da demos, popolo) ochlocrazia (ochlos = plebe)
Per ciò che riguarda i nomi, si tratta evidentemente di stipulazioni; ciò
che è importante notare è che ci sono sei tipi di governo che hanno valori
differenti: il meglio per A. sarebbe la monarchia, qualora si sia in presenza
di un uomo particolarmente eccellente; il peggio è la tirannia. Tra le due si
collocano (in ordine di valori) aristocrazia, democrazia, ochlocrazia e
oligarchia.
Di fatto, Aristotele ritiene che un uomo adatto alla monarchia non esiste;
quindi, realisticamente, opta per la democrazia, cioè per un governo di
80
cittadini di ceto medio.
Da notare che A. riconosce che lo schema delle forme di governo non ha
molto valore perché troppo semplice. In effetti, egli ha riconosciuto che la
domanda non è “quante persone devono governare?”, ma “quali persone
devono governare?”. Per rispondere a questa domanda, ha individuato più
criteri: ricchezza, nobiltà di famiglia, valore militare, ecc.
In rapporto alla questione “chi deve governare?”, la risposta dipenderà in
ultima istanza dal tipo di governo. Secondo Aristotele ce ne sono diversi
tipi, tra cui esercito, marina, culto religioso: si tratta di tipi di “ministero”,
che hanno compiti diversi e che si occupano di parti diverse del governo
della polis. Per ognuna di queste parti, si risponderà diversamente: per i
preti con un’oligarchia ereditaria, per l’esercito con un’oligarchia non
ereditaria, per giustizia, leggi, ecc., con la democrazia. Le differenti forme
di governo funzioneranno insomma a seconda del “ministero” (termine
moderno che usiamo solo per chiarire ciò che A. aveva in mente), cosicché
esse saranno adatte a seconda della parte di governo in questione. La
domanda sarà allora: quale forma di governo in relazione a un ministero
dato?
Rispetto alle domande 2) e 3), la prima cosa da tenere presente è che lo
stato per A. è un’entità naturale, e come tale ha lo scopo di dare
l’opportunità di “vivere bene”. La buona vita è da A. identificata con
l’eudaimonia, che come vedremo nell’Etica, è lo scopo di ogni uomo. Dato
il valore etico dello stato, A. prevede un suo forte intervento nella vita dei
cittadini. Questo non tanto nell’economia (che riguarda innanzitutto le
famiglie, mentre lo stato non è possessore dei mezzi di produzione), anche
se lo stato interverrà con leggi che regolano il comportamento economico
dei cittadini. In compenso, l’intervento sarà forte nelle questioni sociali.
81
Lo stato per natura
Nel testo scelto, Aristotele vuole dimostrare due cose
1) che la città è per natura
2) che la città è anteriore all’individuo.
Testo scelto: Politica I 2, 1252a25, 26 + 1253a1-25
1252a25 Se si esaminano le cose a partire dalla loro origine, qui come negli altri casi
si condurrà lo studio nel modo migliore.
1253a1 E’ evidente che la città (polis) è per natura, e che l’uomo è per natura un
animale politico (politikós): quindi, chi vive fuori dalla città (polis) per natura e non per
caso o è degradato o è sovra umano, proprio1253a5 come quello biasimato da Omero
“privo di fratria, di leggi, di focolare”. Infatti è così di natura e contemporaneamente
desideroso di guerra, giacché è isolato, come una pedina al gioco degli scacchi. Perciò è
chiaro che l’uomo è animale politico più di ogni ape e animale gregario. La natura,
infatti, come diciamo, non fa niente invano; 1253a10 e solo l’uomo, tra gli animali,
possiede la parola: certamente la voce è segno di ciò che è doloroso e gioioso, e per
questo ce l’hanno anche gli altri animali (fin qui giunge la loro natura, di avere la
sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di segnalarselo reciprocamente), mentre la
parola è fatta per mostrare il giovevole e il nocivo 1253a15 cosicché anche il giusto e
l’ingiusto; questo infatti è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli
solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, e delle altre cose; la
comunanza di queste cose costituisce la famiglia e la città. E per natura la città è
anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi. 1253a20 Infatti, il tutto dev’essere
necessariamente anteriore alla parte: infatti, soppresso il tutto, non ci sarà più piede né
mano, se non per omonimia, come se si dicesse una mano di pietra (tale sarà infatti una
volta distrutta), ma tutte le cose sono definite dalla loro funzione e capacità, sicché
quando non sono più tali non si deve dire che sono le stesse se non 1253a25 per
omonimia. E’ evidente dunque che lo stato (polis) è per natura e precede l’individuo.
La città è per natura
La prima frase mostra che A. ha lo scopo l’origine, l’evoluzione e lo
scopo dello stato. Per poter fare ciò, egli propone una sorta di metodo
genetico, cioè di considerare la storia dell’uomo politico dall’origine alla
costituzione dello stato. Tale analisi è basata sulla credenza, radicata in
Aristotele, nel progresso antropologico. Egli presenta una speculazione
antropologica progressiva e ottimista grazie alla sua tesi della teleologia
82
naturale. nella parte non riprodotta del testo (quella che si trova tra la prima
fase è il testo che segue), Aristotele presenta il percorso che porta l’uomo
individuale alla polis, passando per le coppie uomo/donna,
padrone/schiavo, padre/figlio, per arrivare alla costituzione del villaggio e
poi alla polis.
Nella successiva parte del testo (“E’ evidente…gioco degli scacchi”)
Aristotele afferma che la città è per natura, e che l’uomo è per natura
animale politico. Abbiamo già visto la giustificazione della seconda
affermazione. Quanto alla prima, A. pensa che la città faccia parte delle
cose naturali come causa finale e come causa formale. Come causa finale
perché, come A. ha spiegato appena prima del passo, lo scopo della città è
l’associazione degli uomini, e la natura è un fine; come causa formale (cosa
che vedremo alla fine del testo) per ciò che si è già visto a proposito degli
organismi naturali. La città-stato è vista come un organismo le cui parti (i
cittadini) esercitano differenti funzioni che realizzano la loro essenza di
uomini. Sulla base della tendenza naturale all’associazione politica, A.
afferma che l’uomo è per natura animale politico, al punto che gli individui
al di fuori dello stato (per natura e non per caso: cioè essenzialmente non
politici) sono o degradati al livello delle bestie feroci (violenti come una
pedina isolata, forse non più umani), o sovrumani (abbiamo già visto che ci
dev’essere qualcuno che fonda le città, cioè che metta in moto la tendenza
naturale politica).
“Per ciò è chiaro che l’uomo…la famiglia e la città”.
L’uomo è animale politico più di ogni ape e animale gregario (per la
classificazione tra animali gregari, sociali e politici, vedi sopra, inizio della
lezione sulla Politica). La vera differenza tra l’uomo e gli altri animali
passa attraverso il linguaggio. Infatti, gli animali hanno la voce per
comunicarsi reciprocamente il doloroso e il piacevole (condizione
83
necessaria ma non sufficiente per fondare lo stato. Ma solo gli uomini
hanno in più il linguaggio, grazie al quale manifestare il vantaggioso e il
nocivo, e in seguito il giusto e l’ingiusto, e finalmente il bene e il male.
Questi ultimi, rispetto al piacevole e al doloroso, sono valori sociali,
perché non hanno alcun senso al di fuori della vita in comune. Da questo
punto di vista gli uomini hanno uno strumento naturale in più degli altri
animali, il linguaggio, che permette la fondazione della città e della
famiglia.
La città è anteriore all’individuo
“E per natura la città è anteriore…è per natura e precede l’individuo”.
Abbiamo già visto questa tematica in rapporto alla teoria della teleologia
naturale. secondo A. la città è anteriore alla famiglia e all’individuo così
come il tutto è anteriore alla parte. Nei corpi di natura organica, infatti, le
parti si definiscono secondo la loro funzione e la loro virtù (nel senso di
capacità a svolgere la funzione in modo eccellente), in modo tale che se il
tutto è distrutto, anche la parte lo sarà, e resterà chiamata in modo
omonimo.
Esempio esplicativo: una mano si chiama mano e si definisce grazie alla
sua funzione nel corpo umano. se il corpo umano va distrutto, la mano non
avrà più la sua funzione. Essa continuerà a chiamarsi “mano”, ma senza
avere più la funzione grazie alla quale comprendiamo il termine “mano”
(sarà mano solo per omonimia: manterrà il nome, ma non avrà più la
definizione in comune con la vera mano, quella che svolge la propria
funzione nel corpo umano).
In questo modo A. ritiene di aver dimostrato che la città è per natura, e
anteriore all’individuo.
84
12 La poetica
Testi principali: Retorica; Poetica
Torniamo un’ultima volta allo schema delle scienze che si trova
all’inizio di questa dispensa: scienze i) teoretiche (matematiche, filosofia,
ecc.), ii) pratiche (etica e politica) e iii) poietiche o produttive.
Le scienze produttive, di cui fanno parte retorica e poetica (ma anche le
tecniche), sono quelle che permettono di produrre qualcosa di differente
dall’azione stessa.
La Poetica, trattato molto breve, di cui ci è tra l’altro giunta solo una
metà, non parla tanto di emozioni, quanto di linguaggio. La maggior parte
di essa concerne ciò che i commentatori hanno considerato come un trattato
di teoria letteraria. Tuttavia, questo punto di vista non era quello di
Aristotele, perché per lui la Poetica sarebbe piuttosto un contributo alla
scienza poietica. Ciò significa che il suo scopo principale è quello di dirci
non come giudicare un’opera d’arte, ma come produrla. Infatti “poetica”
viene da poiein, che vuol dire “fare”, “fabbricare”.
Aristotele considera soprattutto la tragedia, e solo in modo subordinato
l’epica (la narrazione, come Iliade e Odissea). Ha sicuramente trattato
anche la commedia, ma la parte ad essa relativa non è giunta fino a noi
(sulla sua scomparsa si è basato il celebre libro di U. Eco Il nome della
rosa). Comunque si può dire che le osservazioni aristoteliche sulla tragedia
possono valere per l’opera d’arte in generale.
Natura e scopo dell’opera d’arte
Secondo Aristotele ciò che il poeta produce è un’imitazione (poiesis). Le
parole per il poeta sono come il legno per falegname. Il falegname non
produce del legno, ma se ne serve per produrre un tavolo; allo stesso modo
il poeta non produce delle frasi ma se ne serve per produrre un’imitazione
85
degli eventi umani. L’oggetto della Poetica non è quindi la letteratura
concepita come prodotto delle belle lettere, ma una finzione nel senso di
una imitazione della realtà. Il problema è allora quello di come produrre
delle buone imitazioni.
C’è quindi una differenza di scopo tra la poesia e per esempio la storia:
Tucidide ed Erodoto avevano lo scopo di dire la verità sugli eventi umani
passati, Omero e Sofocle invece avevano lo scopo di produrre delle
imitazioni. Ma di cosa? Come sappiamo, si ha imitazione quando si
produce qualcosa che non esiste, ma che è un po’ come le cose che
esistono. Un caso celebre in Grecia era quello di un pittore che aveva
dipinto un quadro che raffigurava dell’uva. L’imitazione era così perfetta
che gli uccelli andavano a beccarla. Nella stessa maniera, Omero ha
prodotto dei guerrieri e dei personaggi come Ulisse che sono uomini, ma
non veri, e delle guerre che non hanno avuto luogo, almeno così come le
racconta Omero. Però Omero ha prodotto una cosa come la guerra, e dei
personaggi come degli uomini, e questo grazie alle parole. Aristotele non
ha concepito l’idea di un’arte non imitativa (come per esempio la pittura
astratta), probabilmente per ragioni storiche, e cioè che i quadri astratti non
esistevano. A. spesso infatti teorizza a partire dall’esperienza. Come
abbiamo visto, la sua teoria politica si basa sulla politica greca dell’epoca;
allo stesso modo la sua poetica si basa sulle opere poetiche che si
producevano alla sua epoca.
Due tipi di poesia
A. distingue due tipi di poesia:
i) quella drammatica: si tratta delle opere teatrali, cioè della tragedia
(come ho detto prima A. ha probabilmente trattato anche la commedia, che
però non possediamo più);
ii) la narrazione: si tratta dei poemi omerici, anche se è vero che le opere
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omeriche talvolta diventano un po’ drammatiche, quando per esempio
Ulisse parla in prima persona.
Comunque, come si è già detto, Aristotele si occupa soprattutto della
tragedia.
La tragedia e la catarsi
Lo scopo della tragedia è la catarsi (katharsis), la purgazione delle
emozioni. Come vedremo nel testo scelto, secondo A., attraverso la pietà e
la paura, la tragedia porta a compimento la purgazione di queste emozioni.
Questa è una teoria celeberrima e molto contestata. Sicuramente A. utilizza
il termine catarsi in modo metaforico, ma ci sono due metafore esplicative
possibili:
a) una è la purificazione religiosa: una volta purificati, si resta con le
proprie emozioni, ma in forma moderata;
b) un’altra è la purgazione medica: si prende un vomitivo, e vomitando
ci si purga sia delle emozioni, sia del vomitivo stesso. In tale contesto, le
emozioni dovrebbero sparire.
L’idea è insomma la seguente: assistiamo alla tragedia, e nella tragedia
vengono compiuti degli atti che suscitano paura e pietà. Inseguito, si
produce la catarsi, il che significa che espelliamo queste emozioni, che
sono anche le stesse emozioni che producono l’espulsione (il vomitivo).
Alla fine, saremo purgati di queste emozioni. nel primo caso, invece, quello
della purificazione religiosa, conserviamo le emozioni, ma in forma
moderata.
Non è facile stabilire in quale dei due sensi Aristotele utilizzi il concetto
di catarsi. Altri testi suggeriscono forse la purgazione medica.
Ci sono però alcune perplessità riguardo questa teoria:
1) non sembra che sia ciò che realmente accade quando assistiamo alla
tragedia. Non pare vero che, una volta vista la rappresentazione di Edipo
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re, si ritorni a casa con le emozioni più moderate, o anche senza emozioni;
2) di fatto Aristotele non spiega come avvenga questa purificazione.
Testo scelto: Poetica 6, 49b22-50a10
49b22 Discutiamo ora la tragedia, ricavando da ciò che si è detto quella che risulta la
sua definizione essenziale. Tragedia è dunque (1) rappresentazione (mimesis) di
un’azione nobile e completa, avente una propria grandezza, (2) con linguaggio elevato
49b25, separatamente per ciascuna delle specie nelle sue parti, (3) di persone che
agiscono e non tramite una narrazione, (4) la quale, per mezzo di pietà e paura, porta a
compimento la purificazione (katharsis) di siffatte emozioni.
Dico ‘linguaggio elevato’ quello fornito da ritmo e musica; separatamente per le
49b30 specie il comporre alcuni solo con versi, altri invece col canto. Poiché è agendo
che si realizza la rappresentazione, anzitutto di necessità una parte della tragedia sarà
spettacolo, un’altra la musica e un altro lo stile. E’ con questi mezzi che si realizza la
rappresentazione. Intendo per stile la stessa composizione 49b35 dei versi e per canzone
ciò la cui funzione è perfettamente chiara. Poiché è rappresentazione di un’azione, e un
atto è compiuto da attori, che devono avere un certo carattere quanto alle loro
disposizioni e quanto alle loro idee (grazie a questi noi diciamo anche 50a1 che le
azioni sono dotate di una certa qualità, ed è in seguito ad esse che tutti hanno successo o
falliscono), rappresentazione dell’azione è la storia (mythos); per storia intendo 50a5 la
composizione delle cose, per caratteri ciò secondo cui diciamo che chi agisce ha una
propria qualità, per pensiero tutto ciò con cui, parlando, si dimostra qualcosa o si
esprime un giudizio. E’ quindi necessario che di ogni tragedia ci siano sei parti grazie a
cui la tragedia ha una propria qualità: storia, caratteri, stile, 50a10 pensiero, spettacolo e
musica.
Questo testo è estremamente celebre anche per la storia del teatro. Infatti
la definizione della tragedia qui contenuta è stata presa a modello per la
produzione delle opere teatrali del XV-XVI secolo.
Il primo paragrafo definisce la tragedia. Il secondo paragrafo presenta
una serie di deduzioni a partire dalla definizione che stabiliscono le sei
parti essenziali della tragedia.
Definizione della tragedia
“Discutiamo la tragedia…di siffatte emozioni”.
La prima osservazione da fare è che non si tratta di una definizione
standard (del tipo genere + differenza specifica), ma di un’enumerazione di
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quattro elementi essenziali:
(1) si tratta di una rappresentazione perché, come abbiamo visto, la
poetica è mimesis, imitazione di un evento tramite parole;
- è rappresentazione di un atto completo. E’ possibile che si tratti di un
solo atto? E in che senso parla di “atto”? Parla davvero di una sola azione,
o di un evento, costituito da più azioni?
Inoltre, che significa “atto completo”? Per esempio, Edipo re ha una
continuazione (Edipo a Colono), e quindi non sarebbe completo, almeno
nel senso di “finito”.
- Aristotele poi parla di atto nobile, nel senso che non è qualcosa di
quotidiano.
- infine parla di atto che ha una sua grandezza, forse nel senso di
“importanza” o “influenza” che questo atto può esercitare sullo spettatore.
Ma perché affermare che tutto ciò è tipico della tragedia? Normalmente
si crede che ciò che è tipico della tragedia è che accade sulla scena
qualcosa di catastrofico, per esempio che muoiono tutti. E’ curioso che,
enumerando gli elementi della tragedia, Aristotele non menzioni questo,
che sembra il più caratteristico.
(2) la rappresentazione dell’atto dev’essere scritta in un linguaggio
elevato, “separatamente per ciascuna delle specie nelle sue parti”.
Aristotele spiega subito dopo che “linguaggio elevato” significa linguaggio
fatto di parti differenti, cioè versi e canzone. Quindi, quello che vuol dire è
semplicemente che la tragedia è un’imitazione prodotta da un linguaggio di
specie differenti, versi e versi in musica.
(3) questa rappresentazione si realizza tramite personaggi che agiscono e
non tramite narrazione. Qui Aristotele vuol semplicemente dire che la
tragedia è drammatica (drama = azione) e non narrativa, cioè che i
personaggi parlano e agiscono in prima persona, non grazie allo scrittore
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che racconta lui cosa succede.
(4) questa rappresentazione, tramite pietà e paura, giunge alla catarsi di
tali emozioni. Abbiamo già parlato di questa parte e delle due possibili
interpretazioni della catarsi.
Deduzioni
“Poiché è agendo…spettacolo e musica”.
Qui Aristotele deduce le sei parti della tragedia:
a) storia (la trama)
b) disposizione
c) stile
d) pensiero (dei personaggi)
e) spettacolo
f) musica.
La teoria di Aristotele è che queste sei parti sono conseguenze dirette
degli elementi della definizione della tragedia data, cosa che non è sempre
evidente.
In particolare, ci sono quattro parti che derivano dal primo elemento, e
due che derivano dal terzo.
(1) rappresentazione di un atto: da esso derivano spettacolo, musica,
stile, storia. D’accordo per la storia e lo stile (che è il mezzo di imitazione
dell’atto), ma perché credere che spettacolo e musica derivino direttamente
ed essenzialmente dalla tragedia come rappresentazione di un atto?
Per lo spettacolo si è proposto di considerare la seguente soluzione: lo
spettacolo è una rappresentazione visuale di un atto, ma anche un
meccanismo che ci tocca e che provoca in noi la catarsi.
Per la musica, invece, che è realizzata da canzoni cantate dagli individui
e dai cori, si è pensato che Aristotele non stia occupandosi della tragedia,
ma dell’opera tragica, quella che oggi chiamiamo opera.
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Si noti poi che lo stile riguarda solamente la composizione in versi,
ragion per cui è impossibile per A. avere una tragedia in prosa.
(3) Rappresentazione che si realizza tramite personaggi.
Da quest’altra caratterizzazione derivano gli altri due elementi essenziali
della tragedia, la disposizione e il pensiero dei personaggi. Aristotele
spiega che sono disposizione e idee che spingono i personaggi ad agire.
Aristotele in particolare spiega che la disposizione è il carattere dei
personaggi (per esempio, la disposizione ad agire male), mentre le idee
sono ciò che i personaggi esprimono attraverso le loro opinioni e
ragionamenti. L’importanza della disposizione e delle idee deriva
ovviamente dal fatto che sono esse che fanno agire i personaggi in vista
della realizzazione dell’atto tragico.