intro a aristotetele

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1 Introduzione alla filosofia di Aristotele 1: Vita e scritti Bibliografia scelta: (1) E. Berti, Profilo di Aristotele, Milano 2012; (2) J. Barnes, Aristotele, trad. di C. Nizzo, Torino 2002 2: La filosofia e le scienze Testi principali: Metafisica A; Analitici Secondi Testo scelto: Analitici Secondi I 2 3: La logica e la scienza Testi principali: De interpretatione; Analitici Primi; Topici Testo scelto: Analitici Primi I 2 4: Gli oggetti della scienza filosofica Testi principali: Metafisica A, , E, M, N Testo scelto: Metafisica 1 5: Le categorie Testi principali: Categorie Testo scelto: Categorie 7 6: Le sostanze Testi principali: Metafisica , Z, H, Testo scelto: Metafisica Z 3 7: La natura Testi principali: Fisica I-II; Le parti degli animali I Testo scelto: Fisica II 1 8: La causalità Testi principali: Fisica II; Le parti degli animali I; Metafisica Testo scelto: Fisica II 3 9: La teleologia Testi principali: Fisica II; Le parti degli animali I; La generazione degli animali I Testo scelto: Fisica II 8 10: La psicologia

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Introduzione alla filosofia di Aristotele

1: Vita e scritti

Bibliografia scelta: (1) E. Berti, Profilo di Aristotele, Milano 2012; (2) J. Barnes,

Aristotele, trad. di C. Nizzo, Torino 2002

2: La filosofia e le scienze

Testi principali: Metafisica A; Analitici Secondi

Testo scelto: Analitici Secondi I 2

3: La logica e la scienza

Testi principali: De interpretatione; Analitici Primi; Topici

Testo scelto: Analitici Primi I 2

4: Gli oggetti della scienza filosofica

Testi principali: Metafisica A, , E, M, N

Testo scelto: Metafisica 1

5: Le categorie

Testi principali: Categorie

Testo scelto: Categorie 7

6: Le sostanze

Testi principali: Metafisica , Z, H,

Testo scelto: Metafisica Z 3

7: La natura

Testi principali: Fisica I-II; Le parti degli animali I

Testo scelto: Fisica II 1

8: La causalità

Testi principali: Fisica II; Le parti degli animali I; Metafisica

Testo scelto: Fisica II 3

9: La teleologia

Testi principali: Fisica II; Le parti degli animali I; La generazione degli

animali I

Testo scelto: Fisica II 8

10: La psicologia

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Testi principali: L’Anima; Sulla sensazione

Testo scelto: L’anima, II 6, 418a7-25

11: La politica

Testi principali: La politica; La costituzione di Atene

Testo scelto: Politica I 2

12: La poetica

Testi principali: Retorica; Poetica

Testo scelto: Poetica 6

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1: Vita e scritti di Aristotele (384/3-322/1)

Aristotele muore nell’autunno del 322/1 a.C. Aveva sessantadue anni ed

era nel pieno delle sue forze: studioso infaticabile, celebre filosofo e

scienziato, maestro che aveva formato generazioni di allievi più o meno

illustri—era stato il precettore di Alessandro il Grande—figura pubblica

controversa.

Si sa molto poco della sua vita. Proveniva da famiglia ricca. A

diciassette anni, nel 367/6, entrò nell’accademia di Platone, dove studiò e

poi insegnò fino al 348/7. Poi lasciò improvvisamente la città, non si sa

bene per quale motivo, forse perché nel 348 ad Atene prese il potere

Demostene con i suoi alleati antimacedoni, mentre pare che Aristotele

(sebbene la cosa sia controversa) ebbe per tutta la vita rapporti con la

Macedonia (suo padre era medico alla corte di Macedonia e amico del

padre di Filippo II; nel 343/2 Aristotele diviene precettore di Alessandro, e

comunque fu sempre visto come amico dei Macedoni). Come che sia,

Aristotele con alcuni compagni fece vela verso est, si stabilì ad Atarneo, al

cui governo si trovava Ermia, amico della filosofia e dei macedoni. Ermia

diede ad Aristotele e ai suoi amici la città di Asso, dove A. restò per

qualche anno. Poi si spostò a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove incontrò

Teofrasto, che sarebbe divenuto il suo allievo più fedele e il suo assistente.

Infine tornò nella sua città natale, Stagira (città-stato della Grecia

settentrionale, situata nella parte alta della penisola Calcidica), dove rimase

fino a quando non fu convocato da Filippo per diventare appunto precettore

del figlio Alessandro. Nel 335/4 tornò ad Atene e fondò il suo Liceo, in cui

insegnò fino al 322/1. Nella primavera del 322 dovette ripartirsene da

Atene, ancora una volta probabilmente per i sentimenti antimacedoni che

riacquistarono forza dopo la morte di Alessandro (nel giugno del 323).

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Morì pochi mesi dopo, a Calcide, nell’isola di Eubea.

Generalmente si ritiene che la vita di un filosofo sia scollegata dalla sua

produzione filosofica (il caso celebre è quello di J.-J. Rousseau, che scrisse

un’opera sull’educazione ideale dei fanciulli, e poi abbandonò i suoi

numerosi figli in orfanotrofio). Nel caso di Aristotele, invece, tale

separazione è stata messa radicalmente in dubbio da un grande studioso, W.

Jaeger, che nel 1923 scrisse una monografia su Aristotele1 in cui inaugurò

il celebre metodo “storico-genetico”, cioè, come afferma Berti (Profilo di

Aristotele, p.10), «la tendenza a ricostruire la genesi e lo sviluppo delle

varie dottrine filosofiche in stretto collegamento con la vita, con l’ambiente

e in generale con la situazione storica». Attraverso l’impiego di tale

metodo, Jaeger ottenne una serie di risultati, in parte accettati come dogmi

da tutti gli studiosi di Aristotele, in parte rifiutati per la troppa radicalità.

Uno dei risultati oramai accettati da tutti è la divisione in tre grandi

periodi della vita di Aristotele, cui corrispondono, anche se non in modo

rigido, tre diverse fasi della sua produzione filosofico-scientifica:

(1) 367/6-348/7: il periodo accademico, in cui Aristotele studiò e

insegnò nell’Accademia di Platone, periodo caratterizzato da una

sostanziale adesione (totale secondo Jaeger, critica secondo altri studiosi,

tra cui Berti) alle dottrine platoniche, ma anche da una prima elaborazione

di parti del suo sistema filosofico (dettagli in Berti, 1° capitolo);

(2) 348/7-335/4: gli anni di viaggio, in cui Aristotele sviluppò soprattutto

le sue ricerche scientifiche;

(3) 335/4-322/1: gli anni del suo rientro ad Atene, in cui fondò il suo

liceo, una scuola in evidente competizione con l’Accademia di Platone, ma

anche con altre celebri scuole più basate sulla retorica, come quella di

1 Aristoteles, Berlino 1923 (trad. it. di G. Calogero, Aristotele, Firenze 1935 (varie ristampe, di cui

l’ultima pubblicata a Milano nel 2004 con prefazione di E. Berti)).

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Isocrate. In questo periodo Aristotele rimette le mani nella sua filosofia,

completandone le parti antiche e elaborandone di nuove.

Tutto quello che ho appena detto va preso con le debite precauzioni, dal

momento che per Aristotele, come spesso succede per molti filosofi antichi,

si pongono due problemi:

1) il problema della cronologia;

2) il problema dei suoi scritti.

1) La cronologia

Secondo tutti gli studiosi (tra cui Berti, Profilo di Aristotele, p. 12), le

fonti per la conoscenza della sua vita sono poche e di dubbia credibilità.

Sono considerati più attendibili alcuni documenti, e cioè il testamento di

Aristotele, e alcune iscrizioni, che però danno delle indicazioni assai

limitate.

Tra i biografi di Aristotele ricordiamo Diogene Laerzio (II-III d.C.), che

scrive le sue Vite e dottrine dei filosofi illustri più di cinquecento anni dopo

Aristotele, pur attingendo a una biografia più antica (del III secolo a.C.), e

un certo Tolomeo (IV d.C.) dalla cui biografia ne sono state tratte una serie

in greco, in latino, in siriaco e in arabo. Diogene Laerzio è considerato non

molto attendibile perché mescola notizie di varia provenienza, spesso di

seconda mano, con intelligenza variabile. Tolomeo invece era

filosoficamente viziato, poiché, essendo di tendenza platonizzante, ha

mirato a mostrare la sostanziale concordanza tra Platone ed Aristotele.

Comunque, la cronologia di cui si tiene conto per stabilire i tre periodi della

vita di Aristotele è quella riportata da Diogene Laerzio e risalenti alle

cronache di Apollodoro, storico ateniese del II secolo a.C2.

2 E’ interessante notare che il sistema di datazione dell’epoca non era un sistema di cifre (giorno, mese,

anno) come il nostro, ma si basava sugli arconti che si succedevano regolarmente ad Atene (come in

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2) Gli scritti

Diogene Laerzio fornisce un elenco di scritti aristotelici notevole,

qualcosa come 150 titoli che, riuniti e pubblicati con gli standard attuali,

equivarrebbero più o meno a cinquanta grossi volumi3. E l’elenco non

include tutti gli scritti di Aristotele: per esempio, non include la Metafisica

(che di fatto è una riunione di vari trattati di Aristotele attribuita a un

editore del I d.C., Andronico di Rodi), né l’Etica Nicomachea, che sono tra

le opere più studiate di Aristotele. Si tratta di un elenco che mostra una

quantità di interessi smisurata: sulla giustizia, sulla ricchezza, sull’anima,

sui pitagorici, sugli animali, su Omero, sui proverbi, sulla fisica, sul

linguaggio, ecc. ecc.

Dei suoi scritti ne è sopravvissuto solo un quinto, anche se piuttosto

rappresentativo delle sue straordinarie capacità. Le sue opere vengono

tradizionalmente divise in opere esoteriche (o interne) ed essoteriche (o

destinate alla pubblicazione). Le essoteriche (dialoghi di stile platonico)

sono andate tutte perdute, tranne qualche frammento. Noi possediamo gran

parte delle opere esoteriche, cioè di trattati dedicati all’insegnamento e

comunque al Liceo (e forse, nelle loro parti più antiche, dedicati

all’insegnamento nell’Accademia platonica). Proprio perché opere di

scuola, sono difficili da leggere perché scritte non per la pubblicazione

(cioè, per la circolazione pubblica e ufficiale), quindi con uno stile poco

accurato, e anche perché sono state chiaramente rimaneggiate, o da

Aristotele o anche dai suoi allievi. Lo stile però c’è, e anche l’eleganza e la

potenza di ragionamento: ne vedremo parecchi esempi.

Platone e Aristotele

Fin dall’antichità molto si è dibattuto sul rapporto tra i due grandi

Apollodoro), e in seguito +sui giochi olimpici, che si succedevano ogni quattro anni. 3 J. Barnes, Aristotele, p.5.

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filosofi, e a questo proposito sono state assunte posizioni molto varie, che

vanno dal sostenere un’aperta ostilità tra i due a sostenere una sostanziale

conciliazione. Nell’Etica Nicomachea si trova una frase che più tardi ha

dato luogo alla celebre frase medievale, attribuita appunto ad Aristotele che

dice Amicus Plato, sed magis amica veritas. Questa frase significa che

Platone è e resta un amico, ma che l’amicizia per lui non può impedire ad

Aristotele di criticare le sue dottrine, qualora sia necessario per palesare la

verità. Ed è indubbio che Aristotele, allievo ma anche collega di Platone,

pur dichiarandosi a volte platonico (per esempio nel libro Alpha della

Metafisica), ha criticato spesso, e a volte molto aspramente, il suo maestro.

Anzi, un luogo comune afferma che Aristotele abbia elaborato gran parte

delle sue teorie in opposizione a quelle di Platone. In realtà, come molti

studiosi riconoscono4, in Aristotele c’è molto Platone, anche se ovviamente

Aristotele progressivamente si è staccato da Platone per elaborare delle

dottrine personali. Platone ha influenzato Aristotele in almeno cinque

aspetti5.

i) Platone ha riflettuto molto sull’unità delle scienze. Ha concepito la

conoscenza come un sistema almeno potenzialmente unificato, che

rifletteva un mondo organizzato in maniera coerente. Aristotele accoglie

questa visione di una teoria unificata della scienza, anche se se ne distaccò

sulla maniera di concepirla.

ii) Platone era in certo qual modo un logico perché ereditò e sviluppò la

confutazione socratica, inserendola in una dialettica che era anche esercizio

di ragionamento, come dialoghi quale il Parmenide o il Sofista mostrano

chiaramente. Così facendo ha preparato il terreno ad Aristotele che, pur

dichiarandosi a ragione l’inventore della logica, ha potuto esserlo proprio

4 Berti nel suo Profilo di Aristotele presenta un’accuratissima analisi dei rapporti tra Platone e Aristotele e

sul platonismo di quest’ultimo. Vedi anche Barnes, Aristotele, cap. V, Il retroterra filosofico.

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per il retroterra dialettico dell’Accademia Platonica.

iii) Platone si è occupato di problemi ‘ontologici’, cioè ha indagato su

quali enti esistono realmente. A causa di un percorso suo, è giunto alla

conclusione che le vere realtà esistenti sono le idee, cioè gli universali

astratti (non Socrate, ma l’uomo; non Bucefalo ma il cavallo). Aristotele

criticherà aspramente la dottrina delle idee, ma molti dei suoi sforzi

saranno rivolti a costruire un’ontologia alternativa.

iv) Platone concepiva la conoscenza scientifica come una ricerca delle

cause e delle spiegazioni delle cose. Per lui le nozioni di scienza e

conoscenza sono intimamente associate ed esaminano i tipi di spiegazioni

possibili anche per i fenomeni. Aristotele fece interamente suo questo

punto di vista, come avremo modo di vedere.

v) Infine, la questione della conoscenza stessa. Platone si è variamente

interrogato su come si può conoscere, su questioni epistemologiche. E

anche in questo caso, Aristotele ha seguito le orme del suo maestro.

5 Vedi Barnes, op.cit., pp. 32-34.

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2: La filosofia e le scienze

Testi principali: Metafisica A; Analitici Secondi

Testo scelto: Analitici Secondi I 2

Come ho detto in precedenza, uno degli aspetti che Aristotele riprende

dal suo maestro Platone è la visione di una teoria unificata delle scienze. In

particolare, Aristotele ha pensato che il sapere si ottiene attraverso la

scienza, ma la scienza viene divisa da Aristotele in parti, precisamente in

tre. In Metafisica Epsilon 1025b25 egli infatti afferma che «ogni pensiero

razionale (dianoia) è o pratico, o produttivo o teoretico», e sulla base di

questa affermazione distingue le scienze in teoretiche, pratiche e

produttive. (1) Le scienze teoretiche, come per esempio la geometria,

hanno come scopo la conoscenza di per sé; (2) le scienze pratiche, come

l’etica e la politica, riguardano il comportamento, hanno cioè lo scopo di

‘produrre’ una praxis (qui Aristotele dà un contributo fondamentale

scrivendo appunto i suoi trattati sull’etica e la politica); (3) le scienze

poietiche (da poiein, fare), di cui fanno parte tutte le arti (technai), come

l’agricoltura, l’arte di fare le scarpe, la cosmesi, ma anche la poesia e la

retorica (e anche su queste Aristotele scrive dei trattati fondamentali e

ancor oggi studiatissimi) hanno lo scopo di produrre qualcosa, tra cui anche

un discorso, o una poesia.

Per Aristotele, la conoscenza teoretica merita un posto a parte. Essa è

superiore alle altre precisamente perché il fine è la conoscenza per se

stessa, cioè non strumentale a nessuna produzione (né comportamentale, né

tecnica). La sua superiorità si basa su un’opinione che probabilmente

Aristotele riteneva universale e condivisa da tutti, e cioè che «tutti gli

uomini per natura tendono a conoscere» (Metafisica Alpha, 980a1. Si tratta

dell’inizio di quello che è considerato il primo libro della Metafisica).

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Questo perché, platonicamente, Aristotele riteneva che l’uomo dovesse

essere identificato con l’intelletto (nous)—la cui attività fondamentale è

pensare e conoscere, come alcuni passi dell’Etica Nicomachea e non solo

mostrano.

La conoscenza teoretica viene a sua volta divisa da Aristotele in tre tipi6:

(1a) la matematica (o meglio, le matematiche, aritmetica e geometria); (1b)

la ‘fisica’ (chiamata così da Aristotele, ma da intendersi come scienza

naturale, che quindi include zoologia, psicologia, meteorologia, chimica e

fisica propriamente detta, quella che in generale si occupa delle entità in

movimento); (1c) la teologia, termine che dev’essere utilizzato con cautela,

perché non riguarda gli enti divini come i nostri, ma di fatto l’astronomia.

Gli esseri divini di cui si occupa l’astronomia aristotelica sono infatti gli

astri e i motori immobili; essi per Aristotele sono entità senza mutamento o

quasi (gli astri si muovono infatti di movimento circolare, il più perfetto),

superiori agli enti della fisica e loro causa prima.

Come potete notare, quasi tutte le scienze di cui si è occupato Aristotele

rientrano in questa classificazione: l’etica e la politica, la poesia e la

retorica, la fisica e l’astronomia. Quanto alle matematiche, sebbene

Aristotele non abbia dedicato ad esse dei trattati, ne parla moltissimo, e

sicuramente ne era esperto, come qualunque allievo platonico doveva

essere.

A questo punto si pongono due questioni:

(a) in questo schema dove si pongono due discipline aristoteliche

fondamentali, e cioè la logica e la filosofia?

(b) In che senso Aristotele parla di tutte queste discipline come di

‘scienze’?

(a) La prima questione è molto complicata e dipende anche da cosa si

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intende per filosofia. Normalmente, si fa coincidere la filosofia aristotelica

con la ‘metafisica’, termine che però non è aristotelico né dal punto di vista

editoriale (titolo del trattato ‘Metafisica’), né dal punto di vista del

contenuto (Aristotele non ha mai usato il temine questo termine per fare

riferimento alla sua filosofia). Inoltre, come sappiamo, la Metafisica non è

un trattato unitario (e non compare come tale nelle lista delle opere di

Aristotele): essa non si occupa di una disciplina unica, ma comprende

trattati diversi (i vari libri della Metafisica) che hanno a che fare con

‘argomenti metafisici’ relativamente poco unificati: scienza delle cause

(libro Alpha), scienza dell’ente in quanto ente (libro Gamma, leggeremo il

testo pertinente), scienza della sostanza (libri Zeta, Eta, Theta), e

finalmente scienza delle sostanze divine o teologia. Sta di fatto che, con

qualche difficoltà, Aristotele farà rientrare tutti questi ‘soggetti metafisici’

nella teologia. In effetti, nel libro Epsilon della Metafisica (1026a30-31),

Aristotele afferma che la teologia (che abbiamo visto essere l’astronomia,

una sorta di super-fisica), occupandosi delle sostanze divine, che sono

principi e cause prime di tutte le altre cose, di fatto si occupa anche di tutte

le altre cose, perché secondo Aristotele, occuparsi delle cause prime e dei

principi delle cose significa occuparsi anche delle cose di cui essi sono

cause prime e principi.

Torneremo più avanti su questa gerarchia, per ora possiamo ricapitolarla:

1) sostanze divine

2) sostanze fisiche.

In alcuni passi Aristotele sembrerebbe aggiungere un livello intermedio

tra 1) e 2), e cioè gli enti matematici. Stabilirebbe così una gerarchia tra le

tre scienze teoretiche distinte in Epsilon 1026a18-19.

Quanto alla logica, che è la sola disciplina di cui Aristotele rivendica

6 Metafisica Epsilon, 1026a18-19.

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esplicitamente l’invenzione (vedi Elenchi Sofistici, 184b1-8), come

sappiamo comprende sia la teoria sillogistica (Analitici Primi) sia la teoria

dell’argomentazione scientifica propriamente detta (Analitici secondi). Ora,

i successori di Aristotele furono in dubbio circa il suo status: per alcuni

essa era una ‘parte’ della filosofia (vedi gli stoici, che divisero la filosofia

in fisica, etica e dialettica (termine con cui designavano la logica)), mentre

per altri, tra cui i seguaci di Aristotele, essa fu piuttosto considerata come

uno ‘strumento’ della filosofia, qualcosa cioè che filosofi e scienziati

usavano senza considerarla oggetto dei loro studi. Tutti sanno che le opere

logiche di Aristotele (Categorie, De interpretatione, Analiti Primi, Analitici

secondi, Topici, Elenchi Sofistici) vanno tradizionalmente sotto il termine

Organon, che appunto significa ‘strumento’. Quanto ad Aristotele, egli non

dice niente sul posto della logica nel suo schema delle scienze. Ma alcuni

passi della sua Metafisica (ancora una volta, il riferimento è al libro

Gamma), sembrano indicare che il teologo deve essere anche logico: deve

per esempio occuparsi di quelli che i matematici chiamano ‘assiomi’

perché essi ineriscono a tutti gli enti (Metafisica Gamma, 1005a20;

1005b10; 1005a22-23). Ma altri passi invece tengono le due figure, quella

del filosofo e quella del logico, distinte, nonostante il fatto che i logici (nel

passo in questione, chiamati dialettici) si occupino delle stesse cose di cui

si occupano i filosofi (Metaph. Gamma, 1004b17-25).

(b) Lo statuto delle scienze

Come vedremo nel passo scelto, Aristotele quando parla di scienza ha in

mente un sistema assiomatico-deduttivo di tipo geometrico (si pensi per

esempio alla geometria di Euclide, che parte da elementi per dimostrare).

Secondo questo modello, si parte da assiomi per dedurre delle

conseguenze. Una questione naturale da porsi è quindi la seguente: le

scienze che Aristotele menziona e pratica (le teoriche, le pratiche e le

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poietiche) devono avere, e nelle sue intenzioni hanno, questa struttura? E’

chiaramente difficile sostenere questa tesi per le scienze poietiche come la

poetica e la retorica, malgrado il fatto che Aristotele mostri sempre un

grande interesse per le definizioni, che sono il punto di partenza e, per così

dire, gli assiomi di qualunque scienza; e malgrado il fatto che vi sia un

sillogismo tipicamente retorico, chiamato ‘entimema’. Lo è anche per le

scienze pratiche, nonostante il fatto che ci sia una grande discussione

ancora in corso per l’etica, tant’è vero che alcuni parlano di ‘sillogismo

pratico’.

Cosa dire delle scienze teoretiche, tra cui, come abbiamo visto, si colloca

con qualche difficoltà anche la filosofia? Ovviamente le matematiche

possiedono questa struttura, e per questo sono state prese a modello sia da

Platone che da Aristotele, proprio perché all’epoca rappresentavano le

scienze più evolute. Le scienze della natura possono essere concepite come

scientifiche, anche se Aristotele a loro proposito parla di conclusioni che

valgono ‘per lo più’, cioè ammettono delle eccezioni (laddove le deduzioni

scientifiche sono universali e necessarie). Ma che dire della filosofia? Qui

da sempre si fronteggiano due schieramenti opposti: alcuni (tra cui

senz’altro Berti) ritengono che la filosofia, almeno quella che si trova nella

Metafisica, abbia un andamento ‘dialettico’ (in senso quasi socratico), cioè

cerchi di stabilire, sulla base di opinioni ‘notevoli’ contrapposte, i principi

da cui partire per i propri argomenti, scartando quelle che si mostrano

insostenibili perché contraddittorie; altri, sulla base di esplicite

affermazioni di Aristotele (ne vedremo alcune nella continuazione del

nostro corso), ritengono invece che Aristotele abbia quanto meno

l’intenzione di organizzare il sapere filosofico, una volta scoperto, in

sequenze scientifiche. L’obiezione seria è che nella Metafisica (come del

resto nemmeno nella Fisica) non si trovano argomenti di tipo assiomatico-

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deduttivo. Una risposta plausibile (è quella data da J. Barnes nel volumetto

su Aristotele che ho indicato nella bibliografia della prima lezione) è che

nei trattati di Metafisica, così come in quelli appartenenti alla scienza della

natura, Aristotele è ancora impegnato a trovare le conoscenze, e in

particolare i principi da cui partire per poi organizzare i saperi filosofici.

Del resto Aristotele sembra pensare che qualunque principio, anche il più

scientifico, si costituisca a partire da ‘opinioni notevoli’ (quelle opinioni

condivise da tutti o da uomini sapienti) messe alla prova (vedi Topici A,

101a35-101b5).

Testo: Analitici Secondi I 2, 71b9-72b4

71b9 Noi crediamo di comprendere (epistasthai) ogni cosa in modo assoluto, e non in

modo sofistico secondo accidente,

10 quando crediamo di sapere a proposito della causa per cui la cosa è, che essa è

causa della cosa, e che la cosa non può essere altra da ciò che è. E’ quindi evidente che

la comprensione è qualche cosa di questo tipo: e in effetti (nel caso di) coloro che non

comprendono e (di) coloro che comprendono, i primi credono essi stessi di trovarsi

nella situazione descritta, mentre coloro che comprendono

15 si trovano nella situazione descritta. Di conseguenza ciò di cui vi è

comprensione in modo assoluto non può essere altro da ciò che è.

- Considereremo più tardi se, d’altra parte, c’è un altro modo di comprendere, ma qui

noi affermiamo che si può anche conoscere (eidenai) per dimostrazione. Chiamo

dimostrazione un sillogismo comprensivo; chiamo comprensivo un sillogismo secondo

il quale, grazie al fatto di possederlo, comprendiamo qualche cosa. Se quindi la

comprensione è come noi abbiamo stabilito, è necessario

20 che la comprensione dimostrativa proceda a partire da premesse vere e prime e

immediate e più conosciute e anteriori e cause delle conclusioni; così infatti saranno

anche i principi propri a ciò che è dimostrato. In effetti, ci sarà un sillogismo senza

queste condizioni, ma non sarà dimostrativo, perché non sarà produttivo di

comprensione.

25 - Bisogna che le premesse siano vere, perché non è possibile comprendere ciò

che non è; per esempio, che la diagonale del quadrato è commensurabile. E bisogna che

la scienza dimostrativa proceda a partire da premesse prime e indimostrabili, perché non

si avrebbe comprensione senza avere dimostrazione di esse, perché comprendere le cose

di cui si ha dimostrazione e non secondo accidente significa averne dimostrazione. E

bisogna che queste

30 premesse siano cause di e più conosciute di e anteriori alla conclusione: cause

perché è quando conosciamo la causa che comprendiamo; anteriori se veramente esse

sono cause; conosciute prima non solo grazie al fatto di afferrarle, ma anche per il fatto

di sapere che esse sono.

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Le cose sono anteriori e più conosciute in due sensi: perché non c’è identità tra

ciò che è anteriore per natura e ciò che è anteriore per

72a noi, né tra ciò che è più conosciuto e ciò che è più conosciuto per noi. Chiamo

anteriori e più conosciute per noi le cose più prossime alla percezione, mentre chiamo

semplicemente anteriori e più conosciute le cose più lontane. Le cose più lontane sono

le cose più universali, mentre le cose più prossime sono le cose particolari; e le une

sono opposte alle altre.

5 - Procedere a partire da premesse prime è procedere a partire da principi propri;

infatti dico che primo e principio sono la stessa cosa. Principio di una dimostrazione è

una proposizione immediata, e immediata è quella di cui non ce n’è un’altra anteriore.

Una premessa (protasis) è l’una o l’altra parte di una contraddizione, che attribuisce una

sola cosa a una sola cosa; essa

10 è dialettica se prende indifferentemente qualunque parte, è dimostrativa se

prende una delle due parti in modo determinato, perché questa parte è vera. Un

enunciato (apofansis) è qualunque delle parti di una contraddizione. Una contraddizione

è un’opposizione di cui per se stessa non vi è intermediario. La parte di una

contraddizione che dice qualche cosa di qualche cosa è una negazione.

15 - Dei principi immediati di un sillogismo chiamo tesi quello che non è

possibile provare, né è necessario per chi apprende qualche cosa; chiamo assioma quello

che è necessario per chi apprende qualche cosa; infatti ci sono delle cose di questo tipo,

ed è soprattutto a cose di questo tipo che abbiamo l’abitudine di dare questo nome. Una

tesi che prende qualunque parte di una

20 contraddizione –cioè che una cosa esista o non esista—è un’ipotesi, una tesi senza

questo è una definizione. In effetti, una definizione è una tesi, perché l’aritmetico pone

che l’unità sia l’indivisibile secondo la quantità; ma essa non è un’ipotesi, perché “ciò

che è l’unità” e “l’unità esiste” non sono la stessa cosa

25 - Poiché è necessario credere e sapere la cosa grazie al possesso di un sillogismo

di quel tipo che chiamiamo dimostrazione, e questo è tale grazie alle premesse da cui il

sillogismo procede, è necessario non solo conoscere precedentemente le prime

premesse—tutte o alcune—ma anche conoscerle meglio delle conclusioni: sempre,

infatti, ciò a causa di cui qualche cosa è, è

30 più di quello; per esempio, ciò a causa di cui amiamo è più amabile. Di

conseguenza, se noi sappiamo e crediamo a causa delle premesse prime, sappiamo e

crediamo di più a queste, perché è a causa di esse che noi conosciamo anche le cose che

seguono. Ma se non conosciamo qualche cosa (e non ci troviamo e non ci troviamo in

una situazione più favorevole che se noi la conoscessimo), allora non possiamo credervi

più di quanto (crediamo) a ciò che conosciamo.

35 Ma questo capiterà se qualcuno tra coloro che credono tramite una

dimostrazione non conoscerà precedentemente: infatti è necessario credere più ai

principi—tutti o alcuni—piuttosto che alla conclusione.

E colui che vorrà possedere la comprensione che procede per dimostrazione non solo

deve conoscere più i principi e credere a questi che a ciò che è provato, ma bisogna

72b anche che nient’altro sia per lui più creduto e più conosciuto tra gli opposti dei

principi proverrà un sillogismo dell’errore contrario, se veramente colui che comprende

in modo assoluto dev’essere immutabile.

Iniziamo con il primo paragrafo.

Page 16: intro a aristotetele

16

71b9-147: «(1) Noi crediamo di comprendere (epistasthai) ogni cosa in modo

assoluto, e non in modo sofistico secondo accidente, quando crediamo di sapere a

proposito della causa per cui la cosa è, che essa è causa della cosa, e che la cosa

non può essere altra da ciò che è. (2) E’ quindi evidente che la comprensione è

qualche cosa di questo tipo: e in effetti sia (nel caso di) coloro che non

comprendono sia (nel caso di) coloro che comprendono, i primi credono essi

stessi di trovarsi nella situazione descritta, mentre coloro che comprendono si

trovano nella situazione descritta ».

Forma dell’argomento

In questa frase troviamo un argomento, segno ne è quel ‘quindi’. Questo

significa che ciò che precede è una premessa, la cui conclusione è appunto

sottolineata da quel ‘quindi’.

La forma dell’argomento è la seguente:

1) noi crediamo…

2) quindi…

3) in effetti…(che ha la forza di un perché). Quest’ultima frase può avere

o lo scopo di dimostrare 2), o lo scopo di dimostrare 1). Un’altra possibilità

è che 3) spieghi perché si possa inferire la conclusione 2) dalla premessa

1). Come decidere tra queste tre possibilità? Solo leggendo attentamente il

testo. Per ora lasciamo perdere 3) e concentriamoci sull’argomento

1) 2).

Qui Aristotele sembra dire una cosa del genere:

1) noi crediamo x

2) quindi: x.

Questo è un primo problema, che non ha nulla a che fare con il contenuto

delle proposizioni, ma con la forma: è infatti assurdo concludere P dal fatto

che noi crediamo P. Esempio: è assurdo concludere, dal fatto che gli asini

volano, che gli asini volano.

7 Ricordo che questo modo di riferirsi ad Aristotele, universalmente adottato, è quello dell’edizione critica

di Aristotele (5 volumi) fatta da I. Bekker e pubblicata negli anni 1831-1836 a Berlino. La notazione è

costituita dal numero di pagina, dalle lettere a o b che corrispondono alle colonne, e dalla riga. 71b9-14

significa dunque: pagina 71 de4ll’edizione, colonna b, righe 9-14.

Page 17: intro a aristotetele

17

Una domanda che si pone è la seguente: a chi si riferisce questo ‘noi’? Ci

sono tre possibilità: i) io, Aristotele (plurale maiestatis); ii) noi, i filosofi

(nel senso degli aristotelici); iii) noi, tutto quanto il genere umano. Ci sono

dei segni tecnici nel greco di questo testo che fanno propendere per un ‘noi’

universale, cioè tutti noi.

Ma di quale credenza generale si tratta? Di una credenza concettuale, che

si basa sul concetto che noi abbiamo di ‘uomo’. Aristotele sembra dire:

visto che noi consideriamo l’uomo come animale razionale, allora

crediamo che la conoscenza razionale sia così e così. Il che rende

l’argomento meno assurdo di quello che sembrerebbe a prima vista. In

generale, comunque, Aristotele pensa che le nostre credenze concettuali

universali (cioè, condivise da tutti) siano una garanzia di verità. Es.: noi

tutti crediamo che il sole giri intorno alla terra, quindi il sole gira intorno

alla terra. Questo come sappiamo è risultato falso, ma prima di Galileo tutti

pensavano che questa fosse una verità.

Contenuto dell’argomento

Qual è il contenuto di questa credenza universalmente condivisa? Si

tratta di una credenza relativa alla ‘conoscenza scientifica’ (si noti il verbo

epistasthai, da cui deriva episteme, termine greco per ‘scienza’). Aristotele

non nega che vi siano altri modi di conoscere, ma qui è impegnato a fornire

una sorta di definizione appunto della conoscenza scientifica, assoluta e

non sofistica (si noti il riferimento polemico ai sofisti. Si tratta di una finta

conoscenza, accidentale e non scientifica).

Secondo Aristotele, perché vi sia conoscenza scientifica, devono essere

soddisfatte tre condizioni:

a conosce scientificamente X (dove X è una proposizione)

se e solo se (sse = usato per definire, segnala un’equivalenza)

(i) a conosce Y (una o più proposizioni)

Page 18: intro a aristotetele

18

(ii) a sa che Y è la causa di X

(iii) a sa che X non può essere altrimenti, ovvero che la proposizione X è

vera e necessaria.

In che senso Aristotele parla di causa, o più precisamente di aitia?

Intanto va detto che la traduzione ufficiale di aitia con ‘causa’ qui è

fuorviante, dal momento che noi intendiamo per ‘causa’ qualcosa di attivo,

che fa qualche cosa, mentre in greco il termine aitia significa in generale

una spiegazione, cioè tutto ciò che costituisce una risposta alla domanda

‘perché?’. Aristotele quindi afferma che c’è conoscenza scientifica solo in

questo caso:

Y

____

X

Cioè Y, dunque X.

Ma che significa? Facciamo un esempio:

a) 32 è maggiore di 2

2

Perché

b) 3 è maggiore di 2.

L’esempio mostra chiaramente che la ragione della verità di a) risiede

nella conoscenza di b). Un altro modo per mostrare che cos’è la conoscenza

scientifica per Aristotele è il seguente

P1

P2

P3

.

.

.

____

Q

Q deriva da una serie di premesse precedenti, che sono a loro volta

Page 19: intro a aristotetele

19

conclusioni di ragionamenti successivi, fino a quando si arriva ad una

premessa non ulteriormente dimostrabile, auto-evidente. Questa è un

assioma.

E’ interessante notare che questa definizione di conoscenza scientifica,

che si trova in altri luoghi aristotelici (Analitici secondi 94a20; Fisica

184a12-14; 194b18-20; Metafisica Alpha, 983a25-26; alpha elatton

994b29-30) richiama l’idea platonica espressa nel Menone (98A) secondo

cui la conoscenza (episteme) stabile consiste nell’opinione legata con ‘il

ragionamento della causa’.

71b16-23 Considereremo più tardi se, d’altra parte, c’è un altro modo di

comprendere (epistasthai), ma qui noi affermiamo che si può anche conoscere

(eidenai) per dimostrazione. Chiamo dimostrazione un sillogismo comprensivo

(epistemonikon); chiamo comprensivo un sillogismo secondo il quale, grazie al

fatto di possederlo, comprendiamo (epistametha) qualche cosa. Se quindi la

comprensione è come noi abbiamo stabilito, è necessario che la comprensione

dimostrativa proceda a partire da premesse vere e prime e immediate e più

conosciute e anteriori e cause delle conclusioni; così infatti saranno anche i

principi propri a ciò che è dimostrato. In effetti, ci sarà un sillogismo senza queste

condizioni, ma non sarà dimostrativo, perché non sarà produttivo di

comprensione.

La frase iniziale (considereremo più tardi se c’è un altro modo di

conoscere scientificamente) probabilmente allude alla conoscenza dei

principi immediati delle scienze, quelli cioè la cui causa non è conoscibile

perché non c’è: gli assiomi (cf. Analitici secondi, I 3, 72b18-25 e

soprattutto II 19. Vedi anche la Generazione degli animali, II 6, 742b29-

33). Aristotele rimanda la considerazione di questo tipo di conoscenza, e si

concentra sulla conoscenza dimostrativa. Afferma che si ha dimostrazione

quando si ha un sillogismo dimostrativo, cioè quella sequenza P….Q che

abbiamo appena visto. Aristotele però dice qualcosa di più, e cioè che la

dimostrazione deve avere andamento sillogistico, cioè presumibilmente

deve avere una struttura basata sulla sillogistica sviluppata negli Analitici

Page 20: intro a aristotetele

20

primi. Questo ovviamente ha costituito un problema per i seguaci di

Aristotele, che per esempio si sono sforzati di mettere sotto forma

sillogistica celebri argomenti scientifici, come la transitività di Euclide

(vedi per esempio Alessandro di Afrodisia, noto commentatore aristotelico

del II-III d.C.). Devo dire con risultati non molto convincenti.

Qui però Aristotele non si concentra sulla dimostrazione, ma sui punti di

partenza delle dimostrazioni, cioè sulle premesse assiomatiche. Nel passo

visto, egli individua sei caratteristiche delle premesse in senso stretto, cioè

di quelle premesse che non possono anche fungere da conclusioni. queste

caratteristiche sono tradizionalmente divise in due gruppi:

A) le prime tre riguardano le premesse considerate in se stesse (vere,

prime, immediate);

B) le altre tre riguardano le premesse in relazione alle loro conclusioni

(più note, anteriori e cause delle conclusioni).

Nella continuazione del testo, Aristotele spiega in maniera più o meno

comprensibile queste sei caratteristiche:

1) verità: una premessa deve dire come stanno le cose, non come non

stanno. L’esempio è il seguente: Non si può avere conoscenza scientifica

del fatto che la diagonale è commensurabile con il quadrato (infatti, la

diagonale non è commensurabile con il quadrato, come tutti sappiamo).

2) e 3) primitività e immediatezza: A. sembra dire che essere primo e

immediato significa essere primo e indimostrabile, e sembra poi far

coincidere la primitività appunto con l’indimostrabilità (vedi infra, passo

che inizia dalla riga 25). Infatti, osserva Aristotele, in caso contrario

esisterebbero delle verità precedenti da cui potrebbero essere derivate le

proposizioni in questione, che quindi non sarebbero principi primi o

assiomi.

4) più conosciuto: nella misura in cui la nostra conoscenza dei teoremi

Page 21: intro a aristotetele

21

dipende dagli assiomi, è ragionevole affermare che gli assiomi debbano

essere più noti dei teoremi;

5) e 6) anteriorità e causa: questa duplice caratteristica si collega più

direttamente alla concezione aristotelica della conoscenza. La nostra

conoscenza abbiamo visto che implica la conoscenza delle cause, e la

conoscenza dei teoremi implica la conoscenza delle cause. Di conseguenza,

gli assiomi devono individuare le cause ultime (le spiegazioni, possiamo

dire alla luce di quanto visto in precedenza) che spiegano i contenuti

espressi dai teoremi.

Per capire cosa vuol dire, facciamo un esempio tratto dalle Parti degli

animali 664a8-11; 674b5-148.

- Perché le mucche hanno le corna?

- Perché non hanno i denti (la materia che avrebbe formato i denti va a

formare le corna).

- Perché non hanno i denti?

- Perché hanno quattro stomaci (e quindi possono digerire il cibo

masticato).

- Perché hanno quattro stomaci?

- Perché sono ruminanti.

- Perché sono ruminanti?

- Perché sì.

Cioè, semplicemente perché sono mucche. Non ci sono ulteriori

caratteristiche, al di là del loro essere mucche, che spieghi perché le

mucche sono ruminanti. Che le mucche siano ruminanti e auto esplicativo.

Di solito Aristotele dice che tali fatti auto esplicativi sono definizioni o

parti di definizioni. Le definizioni per Aristotele esprimono l’essenza della

cosa; e Aristotele concepisce la scienza come un metodo che partendo dalle

Page 22: intro a aristotetele

22

caratteristiche essenziali di certe entità (es. il triangolo a tre lati e tre

angoli) deduce caratteristiche essenziali ma non definizionali (es. la somma

dei tre angoli di un triangolo è di 180°).

Aristotele conclude il passo affermando che con queste caratteristiche, le

proposizioni saranno dei principi appropriati alle dimostrazioni. Aristotele

non esclude che ci siano sillogismi senza premesse di questo tipo (ho già

fatto l’esempio dei sillogismi pratici o degli entimemi); semplicemente,

non saranno dimostrativi, perché non produrranno una conoscenza

scientifica.

8 Vedi Barnes, op. cit., p. 50.

Page 23: intro a aristotetele

23

3: La logica e la scienza9

Testi principali: De interpretatione; Analitici Primi; Topici

Testo scelto: Analitici Primi I 2

La scienza per Aristotele si presenta, come abbiamo visto, come un

sistema assiomatico-deduttivo. Negli Analitici secondi egli, tra le altre

cose, presenta le caratteristiche che devono avere i principi primi o assiomi

delle scienze. Negli Analitici primi, invece, Aristotele presenta le regole di

deduzione, cioè la forma che devono possedere tutte le deduzioni. Questo

insieme di regole costituisce il primo trattato di logica formale, che avrà

enorme influenza sulla logica successiva fino alla fine dell’800.

La logica di Aristotele si basa su un preciso concetto di proposizione.

Nel De interpretatione, testo dell’Organon dedicato appunto alla teoria

dell’enunciato o proposizione, Aristotele per prima cosa osserva che molti

sono gli enunciati significanti, ma non tutti costituiscono delle

enunciazioni. Sono enunciazioni solo quelle in cui si trovano verità o falsità

(De interpretatione, 16b33-17a3), e sono le uniche proposizioni a cui il

logico si interessa: ordini, domande, esortazioni e simili sono anch’essi

significativi, ma sono oggetto di studi di altre discipline, come la retorica o

la linguistica.

Un’altra distinzione che si trova nel De interpretatione (17a20-22) è

quella tra enunciazione semplice, che afferma o nega qualcosa di

qualcos’altro, e enunciazione composta, costituita da enunciazioni

semplici.

Le enunciazioni semplici, osserva Aristotele, affermano o negano

qualcosa di qualcosa, e in questo Aristotele è erede di Platone, che nel

Sofista aveva affermato che il discorso minimo, e come tale soggetto a

9 Vedi su tutto questo J Barnes, op.cit, p.42-47.

Page 24: intro a aristotetele

24

verità o falsità, è costituito da nome e verbo (262c-263b). Tuttavia, in molti

aspetti Aristotele supera ampiamente le osservazioni platoniche. Per prima

cosa egli chiama le enunciazioni semplici di cui si serve la logica

‘proposizioni’ (protasis, termine greco che significa anche ‘premessa’).

Inoltre, le proposizioni vengono analizzate nei termini di soggetto (S) e

predicato (P), nel senso che, se una proposizione dice o nega P di S, allora

S e P sono i suoi termini. Le proposizioni semplici, poi, vengono divise in

universali o particolari, cioè in proposizioni che affermano o negano P o di

ogni S o di qualche S. Per esempio, “tutti gli uomini sono mortali” afferma

l’essere mortale di tutti gli uomini; “alcuni animali non hanno sangue”

nega l’avere sangue di alcuni animali.

Ci saranno così quattro tipi di proposizioni semplici:

i) universali affermative (AaB), che affermano B di tutti gli A (es: tutte

le mucche hanno quattro stomaci);

ii) particolari affermative (AiB), che affermano B di qualche A (es.

qualche fiore è blu);

iii) universali negative (AeB), che negano B di qualunque A (es. nessun

uomo ha quattro stomaci);

iv) particolari negative (AoB) che negano B di qualche A (es: alcuni

animali non hanno sangue).

La notazione AaB; AiB; AeB; AoB; è medievale e utilizza le vocali a, i

del verbo latino adfirmo per le affermative (rispettivamente universali e

particolari), e, o di nego per le negative (universali e particolari). Va notato

che le lettere B (predicato) e A (soggetto) vengono da Aristotele utilizzate

al posto di S e P. Inoltre, Aristotele usa spesso, al posto di ‘è’ copulativo, il

verbo ‘appartenere’, che assume così una funzione quasi-tecnica, pur

essendo un verbo mutuato dal linguaggio ordinario.

Il sistema logico di Aristotele (conosciuto come ‘teoria del sillogismo’)

Page 25: intro a aristotetele

25

si basa sulla teoria delle proposizioni vista. Negli Analitici primi Aristotele

definisce il sillogismo come «un argomento in cui, assunte certe cose,

qualcosa di differente dalle cose assunte segue di necessità per il loro stesso

porsi» (Analitici primi, 24b18-20). Il greco un po’ contorto è dovuto alla

difficoltà di esprimere concetti logici in un linguaggio ordinario, ma mette

in luce il fatto che il sillogismo è un’inferenza in cui, poste delle premesse,

segue di necessità la conclusione per il solo fatto di aver posto le premesse.

Aristotele considera solo argomenti a due premesse e a una conclusione, e

queste tre proposizioni sono tutte e tre semplici, cioè affermano o negano

un predicato di un soggetto.

La prima osservazione da fare è che Aristotele voleva dare alla logica un

carattere assolutamente generale, voleva cioè che le regole logiche si

applicassero a qualunque argomento, per non farne dipendere la validità dal

contenuto proposizionale. E’ per questo che ha utilizzato delle lettere A, B,

C, etc., proprio a garanzia della generalità.

Se in un argomento del tipo:

ogni uomo è un animale; ogni animale è mortale; quindi ogni uomo è

mortale

Sostituisco ‘uomo’ con ‘lupo’, l’argomento resta comunque valido. Di

conseguenza, esso può essere reso così:

ogni A è B; ogni B è C; ogni A è C.

Questo è il primissimo argomento considerato da Aristotele negli

Analitici primi. Esso risulta formalmente valido, come lo sono tutti gli

argomenti di questa forma.

Proprio perché Aristotele apre la strada alla generalizzazione, si pone la

questione di come distinguere tra buoni e cattivi argomenti. La sua

definizione di sillogismo risponde a questa questione, stabilendo che un

buon argomento è quello in cui la conclusione segue di necessità dall’aver

Page 26: intro a aristotetele

26

posto delle premesse. Aggiungiamo che, secondo la definizione, la

conclusione che segue dalle premesse è diversa dalle premesse.

La teoria sillogistica del buon argomento si trova nei primi sette capitoli

degli Analitici primi, e si occupa di proposizioni della forma i) AaB; ii)

AiB; iii) AeB, iv) AoB10

. Essa funziona sulla base di un certo numero di

stipulazioni:

a) le due proposizioni che fungono da premesse devono appunto avere

la forma a-e-i-o;

b) le due premesse devono avere un termine comune, chiamato medio.

Questa stipulazione è necessaria per trarre la conclusione dalle

premesse;

c) gli altri termini (chiamati estremi) delle proposizioni che fungono da

premesse devono essere diversi;

d) la conclusione deve contenere i termini estremi e non il medio.

Nel corso della trattazione Aristotele prende in esame tutte le

possibili coppie di proposizioni semplici e individua da quali coppie può

venire inferita correttamente la conclusione e da quali no. Divide gli

accoppiamenti in tre gruppi o figure (una quarta verrà aggiunta nel

Medio Evo) sulla base della posizione del termine medio:

1) AxB, BxC, dunque AxC

2) AxB, CxB, dunque CxA

3) AxB, AxC, dunque CxB11

e procede al loro esame rigoroso e ordinato. Dei 192 sillogismi

possibili ne risultano validi solo quattordici.

E’ importante sottolineare il fatto che Aristotele afferma che

10

Negli Analitici primi si trova anche una parte che verte sui sillogismi modali, cioè sui sillogismi che

riguardano le proposizioni che esprimono ciò che vale necessariamente o ciò che vale possibilmente

(Analitici primi, 25a1-2), ma è decisamente la parte più debole e meno famosa della teoria del sillogismo. 11

Dove ‘x’ può essere sostituita solo da a, i, e, o.

Page 27: intro a aristotetele

27

«qualunque dimostrazione e qualunque sillogismo devono procedere

secondo le tre figure che abbiamo descritto» (Analitici primi, 41b1-3).

Questa affermazione è sicuramente falsa: basti pensare a moltissimi

teoremi dell’aritmetica e della geometria, che non si presentano in forma

sillogistica pur essendo delle deduzioni valide. Il fatto è che la teoria del

sillogismo si basa sul concetto di proposizione intesa come soggetto-

predicato. Dove non c’è questa proposizione, non può esserci neanche il

sillogismo, ed è chiaro che molte proposizioni geometriche e

aritmetiche sfuggono a questa forma (si pensi per esempio alla

transitività di Euclide: a = b; b = c; dunque a = c). Resta però il fatto che

la logica aristotelica costituisce un primo geniale tentativo di

formalizzare gli argomenti scientifici.

Una seconda osservazione si impone. Aristotele presenta la sua

definizione di sillogismo non solo negli Analitici primi, ma anche nei

Topici (100a25-27), il trattato in cui Aristotele cerca di regolamentare le

discussioni dialettiche (di origine socratico-platonica) tra due

interlocutori. Nei Topici Aristotele distingue anche tra il sillogismo

dimostrativo (che parte da premesse vere, indimostrabili, insomma,

dagli assiomi) e il sillogismo dialettico, che invece parte da opinioni

autorevoli, quelle condivise universalmente o propugnate dai sapienti.

Ciò significa che la formalizzazione degli argomenti non è riservata solo

alle scienze come aritmetica e geometria, ma che in linea di principio

tutte le discipline possono sillogizzare, e in special modo la filosofia:

cambierà solo lo statuto dei principi delle dimostrazioni.

Page 28: intro a aristotetele

28

Testo: Analitici Primi I 2, 25a1-36

25a Poiché ogni proposizione (protasis) riguarda l’appartenere, o

l’appartenere per necessità, o la possibilità di appartenere, e tra queste

proposizioni le une sono affermative e le altre negative secondo ogni tipo di

attribuzione, e a loro volta

5 le proposizioni affermative e negative sono le une universali, altre

particolari, altre indefinite, è necessario che la proposizione privativa e

universale nell’appartenenza sia convertibile nei termini: per esempio, se nessun

piacere è un bene, nessun bene sarà un piacere; in compenso, bisogna che la

proposizione predicativa sia convertibile non universalmente, ma

particolarmente: per esempio, se ogni piacere è un bene, bisogna che qualche

bene sia un piacere.

10 Tra le proposizioni particolari, è necessario che l’affermativa sia

convertibile particolarmente (infatti, se qualche piacere è un bene, qualche bene

sarà un piacere), mentre non è necessario che la privativa sia convertibile

(infatti, se uomo non appartiene a qualche animale, non ne consegue che

animale non appartenga a qualche uomo).

Sia dunque la proposizione AB privativa e universale. Se quindi A non

15 appartiene a nessun B, B non apparterrà a nessun A; infatti, se B

appartiene a qualche A, per esempio a , non sarà vero che A non appartiene a

nessun B: infatti è qualcuno tra i B. Ma se A appartiene ad ogni B, anche B

apparterrà a qualche A; infatti, se B non appartiene a nessun A, A non apparterrà

a nessun B; ma A era supposto appartenere ad ogni B.

20 Ugualmente se la proposizione è particolare: se infatti A appartiene a

qualche B, è necessario che appartenga anche a qualche A; infatti, se B non

appartiene a nessun A, A non appartiene a nessun B. Ma se A non appartiene a

qualche B, non è necessario che B non appartenga a qualche A, per esempio se

B è animale e A uomo; infatti, uomo non appartiene ad ogni animale, mentre

animale appartiene ad ogni uomo.

Questo testo si divide in due parti:

A) programma che annuncia i risultati in modo informale;

B) regole ed argomenti che giustificano il programma.

A) programma che annuncia i risultati in modo informale

righe 1-13: «Poiché ogni proposizione…non appartenga a qualche

uomo)».

Aristotele enuncia i diversi tipi di proposizione semplici, quelle

che abbiamo visto l’altra volta:

i) assertive/apodittiche (cioè necessarie)/problematiche (cioè

Page 29: intro a aristotetele

29

possibili);

ii) affermative/negative;

iii) universale/particolari/indefinite (di queste ultime però non vi è

scienza).

Afferma che poiché ogni proposizione è bla bla, è necessario che

la proposizione privativa (cioè, negativa) universale si converta.

Aristotele non spiega il termine ‘conversione’, ma ne dà subito un

esempio:

se nessun piacere è un bene, nessun bene è un piacere.

Convertire, quindi, significa cambiare i termini (il verbo greco

antistrepho significa ‘cambiare direzione’, ‘voltare dalla parte

opposta’)

(i) nessun S è P

si converte in

(i*) nessun P è S.

Aristotele afferma che se (i) è vera, anche (i*) è vera. Ed è questo

ciò che Aristotele intende per ‘convertire’.

Quindi

(1) SeP PeS.

Poi Aristotele considera il caso della proposizione predicativa

(cioè affermativa) universale, e osserva che essa può convertirsi non

universalmente, ma particolarmente. Es:

se ogni piacere è un bene, qualche bene è un piacere.

Cioè

(2) SaP PiS.

Poi stabilisce che la proposizione particolare affermativa si

converte:

Se qualche piacere è un bene, qualche bene è un piacere

Page 30: intro a aristotetele

30

(3) SiP PiS.

Infine stabilisce che la particolare negativa non si converte:

se qualche animale non è uomo, non ne consegue che qualche

uomo non è animale.

(4) SoP non si converte in PoS.

Aristotele non stabilisce la verità di queste conversioni, forse

perché le riteneva evidenti (nel senso che basta riflettere un po’ per

vedere che sono vere).

B) regole ed argomenti che giustificano il programma

Aristotele però fornisce dei piccoli argomenti: «Sia dunque la

proposizione AB ecc.». Per ogni conversione dà una piccola prova,

di pochissime righe e difficile.

E’ opportuno, prima di considerare una delle prove, fare due

osservazioni:

(i) a differenza nostra, Aristotele non usa S e P ma A e B, però con

la sessa funzione di generalità;

(ii) Aristotele non dice ‘nessun S è P’, ecc., ma ‘A non appartiene

a nessun B’, o ‘A appartiene a qualche B’… ‘Appartenere’ è un

termine quasi tecnico, che rende la copula

S è P

equivale a

P appartiene a S.

Argomento per la prima conversione, righe 14-19: «Se A

…appartenere a ogni B».

Si tratta di una sorta di reductio ad absurdum: infatti A. dice

«infatti, se B appartiene a qualche A, per esempio a , non sarà vero

che A...». Aristotele cioè, per dimostrare la conversione

AeB BeA

Page 31: intro a aristotetele

31

prende la negazione di BeA, cioè BiA (infatti A. pensa che la

negazione di BeA sia BiA), e dimostra che allora non sarà vera AeB,

che invece era data per accettata o supposta. Ora AeB e BiA sono

contraddittorie, quindi bisogna rigettare BiA e accettare BeA.

i) AeB per ipotesi non si converte con BeA

ii) avremo allora BiA

iii) ma così avremo AiB (perché BiA si converte con AiB, vedi

supra) e quindi negheremo AeB, che invece è data

iv) quindi non BiA, cioe BeA.

Ma Aristotele non dice esattamente questo. In realtà egli dice che

se BiA è vero, prendiamo un caso, per esempio . Ma, sulla base di

, non possiamo avere AeB, perché è sia AiB che BiA («se B

appartiene a qualche A, per esempio a , non sarà vero che A non

appartiene a nessun B: infatti è qualcuno tra i B»)12

. Queste righe

non rappresentano una spiegazione ma solo un’introduzione a una

possibile spiegazione. Sono righe difficili, e i commentatori si sono

arrampicati sugli specchi per spiegarle. Noi abbiamo cercato di darne

una (passi i)-iv)).

12

Es. Se ‘qualche animale è uomo’, per esempio Socrate, non sarà vero dire che ‘nessun uomo è

animale’, perché se Socrate è uomo, allora necessariamente sarà animale, e quindi qualche uomo sarà

animale.

Page 32: intro a aristotetele

32

4: Gli oggetti della scienza filosofica

Testi principali: Metafisica A, , E, M, N

Testo scelto: Metafisica 1 e 2

Secondo quello che abbiamo visto fino ad ora, la scienza è composta da

proposizioni vere che si dividono in due gruppi: i) principi/assiomi e ii)

teoremi (sequenza di proposizioni in forma sillogistica).

Ogni scienza deve stabilire le proprie verità, a cominciare dagli assiomi.

Il problema fondamentale per ogni scienza è stabilire il proprio oggetto, A.

dice il proprio ‘genere’ (ghenos). Per A. gli oggetti di qualunque scienza

debbono esistere, devono essere degli onta, degli ‘enti’ in senso di

‘esistenti’. Questa convinzione sembra interessante perché non tutte le

scienze sembrano avere a che fare con oggetti esistenti, si pensi per

esempio ai numeri. Ma perché supporre che gli oggetti della scienza

debbano esistere? Perché altrimenti risulta impossibile stabilire la verità dei

teoremi. La verità, infatti, per Aristotele si trova nelle proposizioni che

dicono come le cose stanno.

Come porre il problema dell’esistenza degli enti matematici? A. parla

delle scienze matematiche in Metafisica Mu e Nu, e comincia con il porre

proprio la domanda sull’esistenza dei numeri (i numeri di cui parla A. sono

quelli interi). La risposta è che i numeri esistono perché esiste la scienza

dei numeri: A. insomma non discute il problema, ma passa

immediatamente ad analizzare il tipo di esistenza dei numeri. In particolare,

si chiede se i numeri possiedono un’esistenza indipendente o dipendente.

Secondo A. i numeri hanno un’esistenza dipendente: così come il

movimento esiste in quanto ci sono oggetti che si muovono, i numeri

esistono in quanto ci sono oggetti numerabili. Altro esempio: la salute e la

malattia sono oggetti della scienza medica ed esistono in quanto esistono

Page 33: intro a aristotetele

33

cose sane. L’esistenza così resta riservata agli oggetti della vita quotidiana:

cose che si vedono, che si toccano, e che sono anche numerabili, sane o

malate, esistenti, ecc. Si noterà che la posizione di A,. è diametralmente

opposta a quella di Platone: per Platone è perché esiste l’idea di movimento

che gli oggetto si muovono, per A. è perché ci sono oggetti che si muovono

che il movimento esiste. Dunque, per ritornare alla questione dell’esistenza

degli oggetti delle scienze, possiamo dire che per A. la fisica esiste perché

ci sono oggetti ‘fisici’ (in movimento, che nascono, muoiono e si

sviluppano); la medicina esiste perché ci sono cose ‘sane’ o ‘malate’; la

geometria e l’aritmetica esistono perché ci sono oggetti che si inscrivono in

figure geometriche e che sono numerabili. Anche se hanno un’esistenza

dipendente, questi oggetti costituiscono i vari generi delle scienze

corrispondenti, e a proposito di essi le scienze costruiscono dei teoremi

veri.

Vi sono delle obiezioni alla considerazione degli oggetti della geometria

e dell’aritmetica in chiave aristotelica:

1) prendiamo un numero elevatissimo, per esempio 10 alla ventotto alla

ventotto. L’aritmetica ha a che fare con numeri così elevati, ma possiamo

dire che nel mondo esiste un numero di individui così elevato? A. ha una

concezione dell’universo finito, quindi risulta non plausibile che accetti una

teoria così. A ciò si può obiettare che l’aritmetica non ha bisogno di tali

numeri, ma solo dell’unità, poiché in definitiva ogni numero è

riconducibile ad una somma di unità;

2) consideriamo il teorema secondo cui la somma degli angoli di un

triangolo è uguale a 180°. Tuttavia, se noi misuriamo i vari rettangoli che

disegniamo o che troviamo nel mondo, non troveremo mai che la somma

dei loro angoli è di 180°, perché non esistono nel mondo triangoli perfetti.

A questa obiezione A. potrebbe rispondere che non sono perfetti i triangoli

Page 34: intro a aristotetele

34

fisici, ma quelli che possiamo ricostruire nell’immaginazione su qualunque

tipo di superficie.

Importanza della formula ‘in quanto’: la matematica studia le mucche in

quanto numerabili; la geometria studia i tavoli in quanto rettangoli.

Insomma, ogni scienza si interessa a qualche caratteristica degli oggetti, ma

non a tutte. Idea interessante, ma che non vale per tutte le scienze.

Capitolo 1

1003a21 C’è una scienza che fa la teoria dell’ente in quanto ente, e di ciò che gli

appartiene in se stesso. Ora, essa non è identica ad alcuna delle scienze dette

parziali: infatti nessuna di esse considera l’ente in quanto ente nella sua totalità,

ma dopo averne tagliato una parte

25 è, riguardo all’ente, dell’accidente che esse fanno la teoria, come le

matematiche.

- Poiché, d’altra parte, noi cerchiamo i principi e le cause più elevate, è chiaro

che essi devono essere principi e cause di una certa natura in se stessa. Se

quindi coloro che ricercavano gli elementi degli enti

30 ricercavano anche quei principi, è necessario che questi elementi siano

elementi dell’ente, non per accidente, ma in quanto ente. Perciò noi dobbiamo

afferrare le prime cause dell’ente in quanto ente.

Capitolo 2

L’ente si dice in molti sensi, ma in relazione ad un’unità, ad una certa natura

unica, cioè in modo non omonimo:

35 esattamente come tutto ciò che si dice sano si dice relativamente alla

salute, o perché la conserva, o perché la dà, o perché ne è segno, o perché la

1003b riceve; e ciò che è medico lo è relativamente alla medicina, perché questo

è detto medico perché ha la medicina, quello perché vi è naturalmente atto,

quell’altro perché è opera delle medicina; e noi potremmo prendere altre cose

che

5 si dicono in modo simile. Così l’ente si dice in molti sensi, ma interamente in

riferimento a un principio unico: in effetti, quelli sono detti enti perché sostanze,

quelli perché affezioni della sostanza, quelli perché cammino verso la sostanza,

o distruzioni, privazioni, qualità, produzioni, generazioni, o della sostanza, o

10 delle cose che si dicono relativamente alla sostanza, o ancora negazione di

una di queste cose o della sostanza: per questo diciamo che il non-ente è non-

ente.

- Ora, esattamente come di tutto ciò che si dice sano c’è una scienza unica, è la

stessa cosa anche per il resto. Infatti non sono solo le cose che si dicono in

un’unità che costituiscono l’oggetto di una scienza una, ma anche le cose che si

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35

dicono in relazione a una natura unica, poiché esse si dicono in un certo modo

15 nell’unità. E’ quindi evidente che anche gli enti, è di una sola scienza il farne

la teoria, in quanto enti.

- Ora, in tutti i casi, la scienza è eminentemente scienza del primo, di ciò da cui

il resto dipende, e grazie al quale lo si dice. Se tale è la sostanza, bisognerà che

delle sostanze il filosofo afferri i principi e le cause.

Capitolo 1

La prima cosa da osservare è che qui Aristotele parla di scienza (così

come aveva parlato di scienza delle cause prime e dei principi).

La seconda cosa da osservare è che Aristotele dice che questa scienza c'è

già: non l'ha inventata lui (invece altrove dirà, per esempio, che ha

inventato la logica). Ma, a differenza di quello che fa nel libro Alpha (in cui

analizza le indagini dei predecessori), qui non menziona nessuno. Noi

sappiamo che, prima di lui, l'ontologia (o scienza dell'essere) è stata

praticata da Parmenide e da Platone.

Fatte queste due precisazioni, vediamo che Aristotele caratterizza questa

scienza innanzitutto come assolutamente generale o universale: a differenza

delle altre scienze, infatti, questa scienza analizza in generale l'ente in

quanto ente; le altre scienze, invece, sono parziali perché analizzano solo

una parte dell'ente.

Varie le questioni da affrontare.

Innanzitutto, che significa indagare l'ente in quanto ente? Cosa significa

questa espressione, “ente in quanto ente”?

Questa espressione va divisa in due parti:

- l'ente

- in quanto ente.

L'ente.

si tratta della traduzione di to on: to = articolo neutro; on = participio del

verbo einai (essere), l'essente o l'ente. Nonostante il participio sia alla

forma singolare, la presenza dell'articolo to è segno di universalità, per cui

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36

possiamo parlare di ‘tutto ciò che è’. Tra i possibili significati di questa

formula, il più plausibile (e comprensibile) è quello che riguarda

l’esistenza. Possiamo intendere quindi l'espressione con

tutto ciò che esiste

oppure

le entità esistenti.

Secondo Aristotele, l'oggetto della scienza deve esistere perché, in caso

contrario, sarebbe impossibile affermare che le proposizioni che parlano di

questo oggetto sono vere. In altre parole, l'esistenza degli oggetti è la

condizione di verità delle proposizioni che riguardano questi oggetti. Ma

che cosa si intende per esistenza? Quali cose esistono?

Capitolo 2

Aristotele afferma che le cose sono dette esistere in molti sensi, cioè, che

il verbo “essere” o “esistere” è omonimo (per Aristotele omonimia = nome

comune, ma definizione diversa, come per esempio “pesca” che si riferisce

sia al frutto, sia all'arte di catturare i pesci). Nel libro Zeta della Metafisica

(1028a10-13) egli osserva che:

«le cose sono dette esistere in molti modi […] ente significa infatti l'essenza (to ti

esti) e alcunché di determinato (cioè un tode ti), e la qualità, e la quantità, e

ciascuna delle altre cose predicate in questo modo (kategoroumenon)».

Aristotele cioè, afferma che vi sono tanti sensi di esistere quante sono le

categorie. Tornerò sulla celebre dottrina aristotelica delle categorie fra

breve.

Se si prende questo testo seriamente, Aristotele sta affermando che nella

frase “il gatto esiste” (qui il verbo si applica a un tode ti e a un ti esti, due

modi, come vedremo nelle prossime lezioni, per riferirsi alla sostanza) il

verbo esistere ha un significato diverso che nella frase “i colori esistono”

(qui il verbo si applica a una qualità). Si può dire con verità che i gatti

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37

esistono e che i colori esistono: ma i gatti non esistono nella stessa maniera

in cui i colori esistono. In tal caso, diviene molto difficile il compito della

metafisica come scienza dell'esistente: infatti, gli esistenti esistono in

maniera diversa, e se questo è vero, non potremo affermare proposizioni

vere per tutti gli esistenti, come pretende invece Aristotele nel libro

Gamma della Metafisica.

Tuttavia, a un certo punto del suo percorso metafisico, Aristotele trova

una soluzione che salva una scienza unitaria degli esistenti. Infatti, nel

secondo capitolo del libro Gamma, Aristotele diche che “esistere si dice in

molti sensi, ma tutti in riferimento a una cosa e a partire da una cosa”.

Quello che intende Aristotele a proposito dell'esistente è illustrato da due

esempi, quello della salute e quello della medicina. Consideriamo il primo.

Prendiamo la parola “salute”. Un atleta, uno sport, una dieta, una

costituzione fisica,

possono essere opportunamente chiamati “sani”. Ma essi sono sani in

modo diverso:

l'essere sano per Achille non è l'essere sano per una dieta, o per una

medicina. Tuttavia, i due sensi di “essere sano” non sono sconnessi, cioè

Achille e la dieta non sono puri omonimi. In particolare, il modo in cui la

dieta è sana è parassitario (cioè, dipendente) dal modo in cui Achille è

sano: infatti, il modo in cui la dieta è sana è perché produce, o conserva, la

salute in soggetti come Achille. Insomma (1003a34-b2), ogni cosa è sana in

riferimento alla salute—o perché la preserva, o perché la produce, o perché

è segno di salute, o perché la riceve, ecc.

- Achille è sano perché è in ottima forma fisica

- una dieta è sana perché produce un'ottima forma fisica in Achille

- una medicina è sana perché permette ad Achille di ritrovare la sua

forma fisica

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38

- il colorito di Achille è sano perché è segno della sua ottima forma

fisica.

Si noterà che tutte le cose a cui la parola “sano” si applica, sono sane in

riferimento

a una sola cosa (a un sostanza, nell'esempio ad Achille).

Un grande studioso (G.E.L. Owen) ha parlato, per termini come la

salute, di focal meaning (cioè, di significato focale). Una parola possiede

un focal meaning quando è usata in molti sensi, uno dei quali è primario e

gli altri derivati; le descrizioni di quelli derivati debbono contenere la

descrizione di quello primario (nell'esempio, contengono tutte un

riferimento alla salute di Achille, cioè alla sua ottima forma fisica).

Quando “sano” è applicato a Achille, è usato in senso primario, significa

che Achille ha un corpo in eccellente forma fisica. Quando “sano” è

applicato alla costituzione di Achille o alla sua dieta, è usato in senso

derivato: significa che la sua dieta è ciò che rende il corpo di Achille sano

(cioè, in perfetta forma fisica), e che la costituzione di Achille è segno del

suo essere sana (cioè, in perfetta forma fisica).

Il verbo essere (esistere) si comporta, per Aristotele, esattamente nella

stessa maniera. La parola ha un uso primario, e i suoi vari usi derivati

contengono, nella loro descrizione, la descrizione del senso dell'uso

primario: viene così fatta salva una scienza unitaria dell'esistente.

Gamma 2. 1003b5-16: esistere si dice in molti sensi, ma tutti in

riferimento alla sostanza.

- Achille è esistente

- l'affezione (per esempio, l'essere biondo) esiste perché è un'affezione di

Achille

- 55 kili esiste perché è il peso di Achille

e così via.

Page 39: intro a aristotetele

39

Quindi:

- in un senso primario esistente è la sostanza:

le sostanze sono per Aristotele ciò che ‘sta sotto’ o supporta altre entità;

-in senso derivato esistenti sono gli accidenti della sostanza, cioè le

qualità, le azioni, i pesi, ecc.: infatti una qualità esiste solo perché vi sono

sostanze qualificate, un peso solo perché esistono sostanze pesanti, ecc.

ecc. Gli accidenti sono cose che ‘accadono a’ o dipendono da altre entità

(le sostanze).

Ogni entità (= ogni cosa che esiste) è o una sostanza o un accidente. Ma

il primato esistenziale va alle sostanze, e se non ci fosse una differenza di

esistenze, finirebbe che tutte le entità sarebbero sostanze.

In Metafisica Zeta 1 (1028b2-4), la disciplina metafisica sembra essere

implicitamente determinata in riferimento a una questione centrale:

Aristotele, infatti, afferma che quando noi chiediamo che cos'è l'ente?

Chiediamo: che cos'è la sostanza?

Cioè, quando noi chiediamo “che cos'è l'ente?” chiediamo “che cosa

esiste?”, o meglio “quali cose esistono?”. In Zeta 1 Aristotele riduce la

questione dell'ente alla questione della sostanza, cioè, la questione “cosa

esiste?” alla questione “cosa esiste primariamente?”. Egli assume che, una

volta stabilita la categoria della sostanza, gli accidenti in qualche maniera

seguono.

A questo punto si pone un drammatico problema? Quali cose esistono?

Infinite. E come dominare scientificamente (con una scienza) le infinite

cose che esistono?

Aristotele risolve il problema fornendo una classificazione e

categorizzazione della realtà: le cose sono categorizzabili in generi e

specie, gerarchicamente organizzate. Per esempio, il gatto esiste; quindi,

anche i mammiferi esistono; quindi anche gli animali esistono. I gatti sono

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40

una specie di mammiferi, e i mammiferi una specie di animali: di

conseguenza, queste tre cose saranno organizzate in una struttura

gerarchica. Procedendo verso l'alto di specie in genere più generale,

arriviamo a pochi generi supremi, che Aristotele, come sappiamo, chiama

categorie, che dovrebbero essere dieci (Aristotele oscilla nei vari testi), ma

che comunque sono in numero limitato: sostanza, qualità, quantità,

relazione, dove, quando, avere, giacere, fare, subire.

Il passo di Zeta visto sopra, e cioè 1028a10-13, sembra implicare che ci

sono tanti sensi di esistere quante sono le categorie (e tante categorie quanti

sono i sensi di esistere).

La prima cosa da osservare è che la prima categoria è quella delle

sostanze, mentre le altre sono tutte di accidenti.

Ora, nella sequenza:

- il gatto esiste

- il giallo esiste

- un chilogrammo esiste

- la paternità esiste

- piazza Vecchia esiste

ecc. ecc.

l'esistenza del gatto è diversa dall'esistenza del giallo, che è diversa

dall'esistenza del chilogrammo, ecc.

Di fatto, però, Aristotele sembra parlare solo di due esistenze differenti:

quella della sostanza, che è primaria; e quella di tutti gli altri accidenti, che

è secondaria, derivata. Cerchiamo allora di spiegare l'esistenza degli

accidenti in termini di esistenza delle sostanze, seguendo quello che dice

Aristotele in Metafisica Gamma.

Prendiamo un accidente nella categoria di qualità, diciamo il bianco.

Secondo Aristotele, il bianco esiste perché esistono sostanze che sono

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41

bianche, come Socrate, mia madre, ecc. L'esistenza del bianco è quindi

derivata, cioè dipende dall'esistenza di sostanze bianche (o, più

esattamente, delle superfici bianche).

Lo stesso discorso vale per le cose astratte, per esempio la saggezza (la

saggezza esiste solo perché vi sono sostanze sagge). e così via per tutti i tipi

di categorie che non sono sostanze.

Qui c'è una differenza notevole tra Aristotele e Platone. Platone riteneva

che entità come la Giustizia o la Saggezza possedessero un'esistenza

indipendente e eterna, in quanto Idee o Forme. Invece, Aristotele riteneva

che entità come queste esistono, ma possiedono un'esistenza parassitaria,

cioè dipendente dalle sostanze giuste o sagge.

E lo stesso vale addirittura per i numeri. Anche qui vi è una posizione

differente per Platone e per Aristotele. Per Platone, i numeri hanno

un'esistenza eterna e indipendente (sono non esattamente delle forme,

perché sono molteplici, ma sono intermedie); per Aristotele i numeri

esistono solo perché esistono sostanze numerabili.

Addirittura, la relazione esiste, cioè, è un'entità, perché esistono due

sostanze che stanno in questa relazione: la paternità esiste perché esiste x

che sta in una relazione di paternità con y.

In definitiva, nel libro Gamma, Aristotele dichiara che c'è una scienza

che si occupa degli esistenti. Qui, “esistenza”, va intesa in senso molto

astratto (non come esistenza corporea, spazio-temporale, ma come

esistenza/sussistenza, anche di enti non corporei), cioè come una proprietà

che appartiene davvero a ogni entità. Per capire cosa qui si intende, vale la

pena di fare un esperimento mentale. Prendiamo Socrate che, constatiamo,

è un concentrato di proprietà. Se eliminiamo tutte quante le proprietà, e ci

chiediamo cosa resta di Socrate una volta fatta questa operazione,

risponderemo: ciò che resta è un qualcosa che c'è, un sostrato esistente che

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42

permane unitario, indipendentemente da tutte le proprietà che riceve. Esso,

che è la sostanza, c'è primariamente, mentre le proprietà che ad esso

ineriscono, ci sono (e non ci sono) secondariamente.

Aristotele, quindi, stabilisce come presupposto un'asimmetria tra

l'esistenza della sostanza e quella degli accidenti.

Page 43: intro a aristotetele

43

5: Le categorie

Testi principali: Categorie

Testo scelto: Categorie 7

Abbiamo visto che ‘ente’ si dice in molti sensi, cioè che ‘esistere’

significa molte cose. Questo potrebbe costituire un problema per le scienze,

dal momento che esse si occupano di cose che esistono.

Un’opera aristotelica che pare occuparsi dei differenti sensi di ‘essere’ è

il testo giovanile Categorie, che infatti si occupa delle categorie dell’essere.

Nel libro in questione, la dottrina sembra piuttosto articolata, mentre

altrove A. sembra avere delle idee un po’ vaghe. L’idea generale è

comunque identificabile, anche se di essa sono state date più versioni.

Prima versione: secondo la dottrina tradizionale, le categorie sarebbero

generi dell’essere. Più precisamente, gli enti sarebbero un genere divisibile

in dieci specie: sostanza, qualità, quantità, relazione, dove, quando, avere,

giacere, fare, patire. Una questione, molto discussa, e se questa lista sia

esaustiva (addirittura sono state inventate altre categorie).

Ma questo modello non è adeguato al pensiero di Aristotele per due

ragioni:

1) tra la sostanza e le altre categorie c’è una separazione importante. Le

sostanze sono gli enti fondamentali, gli altri ‘accidenti’ (o proprietà)

esistono in modo dipendente dalle sostanze. La prima revisione da

fare sarebbe quindi quella che vede le sostanze da una parte e le altre

categorie dall’altra.

2) Ma l’obiezione più importante è che questo modello presenta gli enti

come se fossero un genere di cui le categorie sono le specie. Tuttavia,

per Aristotele, l’essere non è un genere, perché ‘essere’ si dice in

molti sensi, si applica cioè a cose differenti con significati differenti

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44

(che non sono le sue specie). Il rapporto genere/specie è piuttosto di

sinonimia: ‘animale’, infatti (genere) si applica a cane, gatto, bue,

ecc., con lo stesso significato.

Seconda versione

Il termine greco kategoria non corrisponde al nostro uso (categoria

come classe o insieme), ma vuol dire ‘predicato’. Si tratta di un termine

quasi-tecnico che A. usa nella logica, dicendo per esempio che A si

predica (kategorein, verbo) di B. Ma come introdurre il predicato nello

schema delle categorie intese come significati dell’ente (vedi sopra,

Prima versione, schema che divide gli enti in sostanze da una parte e

accidenti dall’altra)?

Bisogna partire dalla proposizione incompleta, cioè costituita da

soggetto + copula:

“Socrate è…”

Bisogna in seguito fare una lista di predicati attribuibili a Socrate, e

poi classificarli. Questa classificazione non è però chiara, perché

Aristotele non spiega come distinguere tra i vari tipi di categorie. Egli

però fornisce qualche indicazione: per esempio, fornisce una serie di

domande con pronomi interrogativi, del tipo ‘chi?’; ‘dove?’, ecc. (ancora

una volta legati alla lingua greca).

Chi è Socrate? Un uomo.

Come è Socrate? Bianco.

Quanto grande è Socrate? Un metro e settanta.

In relazione a chi è Socrate? In relazione a sua moglie Santippe.

Ecc. ecc.

Sono le risposte a tali questioni che forniscono la lista delle categorie

(Sostanza, qualità, quantità, relazione, ecc.). Tutto questo resta però un

po’ vago, perché sembra legato all’accidentalità della lingua greca.

Page 45: intro a aristotetele

45

Problema: perché, introducendo le categorie, Aristotele parla di sensi

di ente/essere?

Aristotele stesso suggerisce almeno tre possibili risposte, che non sono

equivalenti:

i) tutti i predicati sono legati al soggetto dalla copula ‘è’. Aristotele

suggerirebbe che la copula prende dieci significati differenti, che

dipendono dal predicato che le è associato. Ma non è affatto evidente (in

nessuna lingua), che il verbo ‘è’ sia ambiguo in tal senso.

ii) “--- è pallido” una cosa pallida esiste

“---è grande” una cosa grande esiste

ecc.

Aristotele in tutti questi casi penserebbe à ‘è’ nel senso di ‘esiste’. La

differenza della classe dei predicati produrrebbe una differenza nel senso di

esistere. Ancora una volta ciò non è chiaro, e al massimo possiamo

distinguere tra esistenza indipendente (delle sostanze) e esistenza

dipendente (degli altri accidenti). Tuttavia, vi sono testi aristotelici che

suggeriscono tale versione.

iii) “--- è pallido” il pallore esiste

“---è grande” la grandezza esiste

ecc.

Questa versione potrebbe essere ricondotta a ii) poiché, come sappiamo,

per Aristotele (contrariamente a Platone) il pallore esiste perché c’è una

sostanza (mettiamo, Socrate) che è pallida.

Testo: Categorie 7, 6a36-b2 + 8a13-33

6a36 Relative sono dette le cose che sono dette ciò che sono di altre cose, o

in virtù di qualunque altra relazione ad altra cosa. Per esempio, il più grande è

detto ciò che è di un’altra cosa (infatti è detto più grande di qualche cosa) e il

doppio è detto ciò che è di un’altra cosa (infatti è detto doppio di qualche cosa).

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46

Ugualmente per tutte le altre cose di questo tipo.

8a13 C’è un problema: forse che nessuna sostanza è detta relativa (come

sembra), oppure è possibile per alcune 8a15 sostanze seconde. Quanto alle

sostanze prime, è vero, perché né le sostanze intere né le loro parti si dicono

relative: un uomo individuale non è detto uomo individuale di qualche cosa, né

un bue individuale, bue individuale di qualche cosa; la stessa cosa anche per le

parti: una mano individuale non è detta mano individuale di qualche cosa (ma

mano di qualche cosa), 8a20 una testa individuale non è detta testa individuale

di qualche cosa (ma testa di qualche cosa).

La stessa cosa per le sostanze seconde, per la maggior parte. Per esempio,

l’uomo non è detto uomo di qualche cosa, né il bue, bue di qualche cosa, né il

legno, legno di qualche cosa (ma è detto la proprietà di qualche cosa). Ora, in

tali casi è evidente 8a25 che non si tratta di cose relative. Ma per alcune

sostanze seconde la cosa è discutibile. Per esempio, una testa è detta testa di

qualche cosa, una mano è detta mano di qualche cosa–e così per tutte le cose di

questo tipo. Di conseguenza, queste cose sembrano trovarsi tra le cose relative.

Ora, se la definizione delle cose relative fosse formulata in modo

soddisfacente, è o 8a30 molto difficile o impossibile risolvere il problema

mostrando che nessuna sostanza è detta relativa. Ma se la definizione non fosse

formulata in modo soddisfacente—se relative sono piuttosto le cose il cui essere

si identifica nel trovarsi in una certa relazione a qualche cosa—, in questo caso

si potrebbe forse trovare qualche cosa da dire.

La prima frase è incomprensibile. Però, per capire la definizione di

relativi data da Aristotele nelle prime righe, possiamo partire da una

distinzione vagamente famigliare:

a) le cose che sono dette ciò che sono per se = le sostanze

b) le cose che sono dette ciò che sono di altre cose = relativi, per

esempio, i genitori. I genitori, infatti, sono detti genitori di qualche cosa,

cioè dei figli.

L’esempio proposto da Aristotele è ‘il più grande’. Secondo Aristotele,

questo predicato è relativo perché si dice ‘più grande di’. Si tratta,

insomma, di quei predicati che non funzionano da soli, ma devono essere

completati da qualche altra cosa.

“o in virtù di qualunque altra relazione ad altra cosa”: Aristotele vuol

dire che i predicati

Fs

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47

sono relativi

se e solo se

il predicato ‘F’ (per esempio, ‘padre’) è vero di qualunque cosa x (per

esempio, mio padre), in quanto x si trova in una certa relazione à qualche

cosa d’altro (per esempio, mio fratello).

La definizione di relativi data pone un problema per alcune sostanze, che

potrebbero essere dette relative (mentre Aristotele non vuole assolutamente

considerarle come tali).

Il problema non si pone per le sostanze prime (cioè per le sostanze

individuali, come questo bue individuale, Socrate, ecc.), perché non si dice

“questo bue di qualche cosa” in modo relativo (cioè, non si definisce il bue

individuale in rapporto a qualche cosa d’altro; in compenso padre viene

definito in rapporto a qualche cosa d’altro, il figlio).

Anche per le parti delle sostanze prime il problema non si pone: infatti se

io parlo della mano di Socrate, questo “di Socrate” non esprime relazione

ma possesso. Se io dico “la mano di Socrate è bella”, la formula “mano di

Socrate” non relativizza, ma individua la mano di cui parlo.

Neppure per le sostanze seconde (cioè per le sostanze universali, come

uomo, bue, ecc.) si pone il problema. Uomo in generale, infatti, non si

definisce in rapporto a qualcosa d’esteriore.

Invece il problema sembra porsi per le parti delle sostanze seconde:

infatti, per definire ad esempio la testa, sembra necessario dover ricorrere

al corpo, di cui la testa è appunto testa.

Per Aristotele si può risolvere il problema passando dal livello

linguistico al livello della realtà: Aristotele propone una nuova definizione

(“relative sono piuttosto le cose il cui essere si identifica nel trovarsi in una certa

relazione a qualche cosa”) che secondo lui permetterebbe di escludere tutte le

sostanze (anche le parti) dall’essere relative.

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48

6: Le sostanze

Testi principali: Metafisica , Z, H,

La prima tra le categorie, è la sostanza , ousīa. E’ la più importante e

quella che pone i problemi più grandi.

La discussione sulla sostanza si trova nei libri Zeta, Eta e Theta della

Metafisica, i libri più difficili di quest’opera, soprattutto perché non è

chiaro dove Aristotele vada a parare, procedendo per tentativi.

Quello che è certo è che le sostanze sono cose di base, fondamentali, enti

che si trovano alla base degli altri enti. Le sostanze, come afferma

Aristotele nelle categorie, non si dicono di altro, mentre le altre cose sono

dette di esse.

Quindi, il predicato “----è una sostanza”, equivale a ‘è una cosa

fondamentale’.

I problemi di Aristotele sono essenzialmente due:

1) specificare un po’ questa idea di sostanza;

2) chiarire quali sono queste sostanze di base.

1) L’analisi della sostanza avviene attraverso la considerazione di due

caratteristiche:

i) la separatezza/separabilità delle sostanze (chôristos): esse infatti non

dipendono da altre cose (al contrario per esempio della salute o dei numeri,

che esistono in dipendenza da altre cose).

Ma in che senso si parla di indipendenza? Se prendiamo infatti un

esempio di sostanza aristotelica per eccellenza, un albero, diremo che esso

sembra invece un’entità dipendente (dal sole, dall’acqua, dalla semenza…).

Questo punto però non è pertinente: è vero che l’esistenza dell’albero

dipende in modo causale, naturale, da altre cose; tuttavia, la salute dipende

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49

dal corpo in modo diverso dal tipo di dipendenza dell’albero dal sole.

Questa dipendenza è logico-concettuale (si sa a priori che la salute esiste in

quanto qualità dei corpi).

Ora, per Aristotele, vi sono cose che non dipendono logicamente da

altre: le sostanze separabili/separate, infatti, ‘esistono’ senza riferimento ad

altro.

ii) le sostanze sono essenziali. La parola ousīa è spesso tradotta con

‘essenza’ al posto di ‘sostanza’. Il che è corretto.

Essenza = caratteri centrali di un tipo di oggetto tali che questo tipo di

oggetto deve possedere queste caratteristiche, che fungono da

caratteristiche di base per spiegare altre caratteristiche.

Es: l’oro è malleabile, giallo, ecc.

Tutte queste proprietà dipendono dalla struttura molecolare dell’oro, che

quindi costituisce la sua essenza.

Il problema è come trovare queste proprietà, ma l’idea delle proprietà

essenziali si trova ancor oggi alla base di ogni scienza.

In generale si afferma che il termine ousīa sia ambiguo tra essenza (che è

sempre essenza di qualche cosa) e sostanza (che invece è sostanza senza

riferimento ad altro). Ma forse non si tratta di vera e propria ambiguità, ma

di stretta connessione.

Se prendiamo la frase

“Socrate è un uomo”

vediamo che ‘un uomo’ da una parte è un predicato essenziale che

specifica una proprietà di base di Socrate; dall’altro è un predicato

sostanziale che appartiene alla categoria di sostanza.

Secondo Aristotele, quando ci si trova di fronte a proprietà essenziali, il

posto del predicato deve sempre essere riempito da proprietà di base. Si

può dunque identificare la sostanza all’essenza, nel senso che le

Page 50: intro a aristotetele

50

predicazioni sostanziali sono sempre essenziali, e viceversa.

Aristotele così, parla di sostanza come di un tode ti, cioè di i) qualche

cosa (in greco tode, qualcosa di separato) ii) di un certo tipo (in greco ti,

che esprime le proprietà essenziali). Proprio perché dotate di queste

caratteristiche, Aristotele ha sempre avuto difficoltà a individuare le

sostanze.

2) Quali sono queste sostanze di base? Si tratta di partire da una

caratterizzazione piuttosto ampia, che ci possa aiutare a determinare se una

cosa è una sostanza oppure no.

Il testo scelto affronta tale questione.

Testo: Metafisica Z 3

- Si parla della sostanza in quattro sensi principali, se non in più: in effetti, 1028b35

l’essenza e l’universale e il genere sembrano essere la sostanza di ciascuna cosa—e

anche, quattro, il sostrato (upokeimenon). Il sostrato è ciò di cui tutte le altre cose

sono dette mentre lui non è detto di nient’altro. Per questa ragione è il sostrato che

bisogna 1029a1 in primo luogo discutere; infatti, la sostanza sembra essere

particolarmente il primo sostrato.

- Ora, la materia è detta sostrato in un certo modo, la forma in un altro, il composto di

esse in un terzo. Per materia intendo per esempio il bronzo, 1029a5 per forma (morphé)

la configurazione (schema) o la figura, per composto dei due la statua. Di conseguenza,

se la forma è anteriore alla materia e più ente di essa, per la stessa ragione essa sarà

anteriore al composto dei due.

- Ora, noi abbiamo dato un abbozzo di ciò che è la sostanza—cioè, essa è ciò che non è

detta di un sostrato, mentre le altre cose sono dette di essa. Ma non bisogna limitarsi a

questa caratterizzazione: 1029a10 essa in se stessa non è chiara, e inoltre la materia

diventerebbe allora sostanza. In effetti, se la materia non è sostanza, ci sfugge quale

altra cosa lo sarà, infatti, se le altre cose sono eliminate, sembra che nulla resti. Le altre

cose sono affezioni e atti e capacità dei corpi, mentre la lunghezza, la larghezza e la

profondità sono delle quantità e non delle sostanze, 1029a15 (una quantità non è una

sostanza): la sostanza, piuttosto, è la prima cosa a cui queste quantità appartengono. Ma

se la lunghezza e la larghezza e la profondità vengono eliminate, noi non vediamo nulla

che resta—salvo se ciò che è determinato da esse è qualche cosa. Se quindi riflettiamo

in questa maniera, solo la materia deve apparire come sostanza.

- 1029a20 Per materia intendo ciò che non è detto essere per sé né qualche cosa, né una

certa quantità, né alcun’altra delle cose per le quali l’ente è determinato. Infatti c’è

qualcosa di cui ciascuna delle cose è predicata, il cui essere non s’identifica a quello di

nessuno dei predicati (in effetti, le altre cose sono predicate della sostanza, e questa

della materia). Di conseguenza, il sostrato ultimo in sé non è né qualche cosa, né una

quantità, 1029a25 né null’altro (…).

- Ora, da queste considerazioni risulta che la materia è sostanza. Ma questo è

Page 51: intro a aristotetele

51

impossibile; infatti, essere separabile e essere un ‘questo qualche cosa’ (tode ti)

sembrano soprattutto appartenere alla sostanza.

Primo paragrafo: ci sono quattro candidati per essere sostanze (essenza,

universale, genere, sostrato), di cui il più probabile sembra il sostrato. Il

sostrato è qualcosa di cui si dice qualcosa, ma che a sua volta non è

predicabile di altro.

Secondo paragrafo: se si parla di sostrato, si ha una scelta di tre cose: i)

forma, ii) materia, iii) composto dei due.

Terzo paragrafo: se la sostanza si identifica con il sostrato, allora si deve

identificare con la materia. Ma vista la definizione di materia data da

Aristotele nel quarto paragrafo (sostrato del tutto privo di determinazioni),

la materia non è sostanza, e non lo sarà neppure il sostrato (contrariamente

a quanto si è creduto all’inizio del testo), se non in senso debole.

Ma che cosa intende Aristotele per ‘materia’ in questo capitolo?

A) introduzione del concetto di materia: bisogna sempre ricordare che la

materia va sempre con la forma (materia di qualche cosa; forma di qualche

cosa; oggetto come ‘composto’ dai due, nel senso che ha queste due

caratteristiche assieme). La statua, per esempio, è un composto di materia

8es. bronzo) e forma (es. lanciatore di giavellotto).

B) descrizione della materia: praticamente è la descrizione di nulla,

essendo ciò che resta una volta tolte tutte le proprietà. Ma la materia è

qualcosa: come dunque Aristotele può dire che la materia è praticamente

nulla? In realtà Aristotele dice che materia è qualcosa che non è detta per

sé, cioè non ha caratteristiche essenziali. Le qualità come colore,

grandezza, lunghezza, ecc. non sono presenti nella materia in sé, ma sono

accidentali. Tutte le proprietà che si riconoscono come ‘materiali’ non sono

essenziali ma accidentali. E’ comunque certo che Aristotele arriva ad una

conclusione esagerata, perché della materia qualcosa si può dire.

Page 52: intro a aristotetele

52

7: La natura

Testi principali: Fisica I-II; Le parti degli animali I

Come abbiamo visto in precedenza Aristotele si occupa principalmente

delle sostanze, tra cui quelle naturali. Le sostanze naturali sono quelle che

rientrano nella physis, termine greco che deriva dal verbo phyō, che

significa crescere).

L’universo di Aristotele è diviso in due mondi totalmente separati:

1) la parte sublunare

2) cieli.

Queste due parti obbediscono a leggi naturali diverse e sono fatte di

materie diverse.

1) il mondo sublunare è costituito da quattro elementi fondamentali

(terra, acque, aria, fuoco), ognuno dei quali ha qualità diverse (caldo-

freddo; secco-umido) e movimenti diversi (alto-basso). Il loro mélange

costituisce tutti gli esseri naturali.

2) il mondo dei cieli è invece costituito dall’etere (cosiddetto quinto

elemento). Quindi, secondo Aristotele, il sole (che fa parte del cielo) non è

caldo, perché è fatto di etere e non di fuoco. Il motivo per cui riscalda è la

sua velocità, talmente sostenuta che produce calore al suo passaggio.

Mondo sublunare

Gli esseri del mondo sublunare si muovono (movimenti verso l’alto e

verso il basso) per imitare la perfezione degli dei-astri (i quali a loro volta

si muovono di movimento circolare perché attratti dal (o dai) motori

immobili. Quello che però è importante notare è che per A. ciascun essere

naturale ha in sé una natura interna, un’essenza, che è un principio di

movimento e di sviluppo (cioè di cambiamento. A. sostiene che ci siano

quattro tipi di cambiamento: locale; di quantità (aumento/diminuzione); di

Page 53: intro a aristotetele

53

qualità (alterazione); sostanziale (generazione/corruzione)), che fa degli

esseri naturali quello che sono (ivi compreso il loro aspetto). Ciò implica

che ci sono sviluppi e movimenti naturali, in modo tale che ogni essere

naturale possiede un movimento naturale (naturale nel senso che grazie alla

natura interna, l’essere si muove in un determinato modo).

La natura si comporta quindi in modo regolare, altrimenti non potremmo

descriverla. Essa insomma si comporta secondo leggi naturali che però

valgono solo per la maggior parte (epi to polù) degli esseri naturali. Il

mondo dei cieli, invece, ha le proprie leggi (studiate dall’astronomia) senza

eccezioni.

Quindi, per il mondo sublunare c’è una sorta di regolarità ma non

universale. Tuttavia, questo non inficia la regolarità, per A. l’eccezionalità

della natura è qualcosa che accade, che ha anche la sua ragione

(l’imperfezione della materia), ma che fa parte della natura. Del resto A. ha

ragione: in effetti anche la fisica moderna formula le sue leggi sulla base di

una sorta di idealizzazione dei fenomeni, che non esistono così come essa

la descrive).

Testo: Fisica II 1, 192b8-32

192b8 Fra gli enti, alcuni sono per natura, altri per altre cause: per natura, gli animali

e le loro parti, le piante e 192b10 i corpi semplici, come terra, fuoco, acqua, aria; di

queste cose, infatti, e di altre dello stesso tipo, diciamo che esse sono per natura, ed

esse differiscono chiaramente da quelle che non sono composte per natura.

Qualunque essere naturale, infatti, ha in se stesso un principio di movimento e di

riposo, gli uni quanto al luogo, gli altri 192b15 quanto all’accrescimento e alla

diminuzione, altri quanto all’alterazione. Al contrario un letto, un mantello e ogni

altro oggetto di questo tipo, in quanto ciascuno ha diritto al suo predicato, e nella

misura in cui è prodotto dell’arte, non possiede nessuna tendenza naturale al

cambiamento, ma <la possiede> solo in quanto esso è in pietra o in legno 192b20 o

in un miscuglio di queste cose, e sotto questo rapporto, cosicché la natura è un

principio e una causa di movimento e di riposo per la cosa in cui essa risiede

immediatamente, per essenza e non per accidente.

- Dico ‘non per accidente’ perché potrebbe capitare che un uomo, in quanto medico,

fosse lui stesso la causa della propria salute; 192b25 e tuttavia, non è in quanto ha

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54

ricevuto la guarigione che possiede l’arte medica; ma, per accidente, lo stesso uomo

è medico e ricevente la guarigione; queste due qualità possono anche separarsi l’una

dall’altra. La stessa cosa per tutte le altre cose fabbricate: nessuna ha in essa il

principio di fabbricazione; alcune lo hanno in altre cose, e fuori di esse, per esempio

una casa e qualunque oggetto manufatto dell’uomo; altre l’hanno in loro stesse, ma

non per essenza, cioè tutte quelle che possono essere per accidente cause per loro

stesse.

La prima cosa da osservare in questo testo è che la natura si comporta

come una causa (si veda prima riga: fra gli enti, alcuni sono per natura,

altri per altre cause). Si noti poi la lista degli esseri naturali, in cui A.

introduce anche i quattro corpi semplici, terra, aria, acqua, fuoco. A.

afferma che qualunque essere naturale ha in sé il principio di

cambiamento (qui egli elenca solo tre dei quattro tipi di cambiamento:

luogo, qualità, quantità).

Il fatto di avere in sé il principio di cambiamento è ciò che distingue

gli esseri naturali dagli esseri artificiali. Infatti, un letto o un mantello

non possiedono una tendenza naturale al cambiamento, salvo grazie alla

materia di cui sono fatti. Per esempio, un letto fatto di legno può

germogliare, ma non in quanto letto, ma in quanto ‘fatto di legno’

(quindi per accidente e non per essenza).

Nella successiva sezione, A. spiega il ‘per accidente’, allo scopo di

mostrare perché gli esseri artificiali non hanno in sé il movimento.

Prende l’esempio del medico che causa la guarigione in se stesso:

x è medico

x è guarito.

‘è medico’ non dipende da ‘è guarito’; in effetti, ‘è medico’ ed ‘è

guarito’ si trovano nello stesso uomo accidentalmente, perché possiamo

avere il caso in cui ‘x è uomo’ e ‘x è guarito’ sono separati.

Stesso discorso per gli oggetti artificiali. Prendiamo l’esempio del

letto:

Page 55: intro a aristotetele

55

i) questo letto germoglia

ii) questo letto è comodo.

ii) non dipende da i), ma i) e ii) si trovano in questo pezzo di legno

accidentalmente, perché possono anche essere separati (es. il letto di

metallo, che è comodo ma non germoglia).

Page 56: intro a aristotetele

56

8: La causalità

Testi principali: Fisica II; Le parti degli animali I; Metafisica

Lo studio delle cause si trova ovunque in Aristotele: nella Fisica, nella

Metafisica, nelle opere biologiche, nei Secondi Analitici (vedi sopra,

Analitici Secondi I 2, 71b9-72b4). Ma quando si parla di ‘causa’ in

Aristotele (e in Platone) non si parla esattamente della causa in senso

moderno, in quanto noi siamo abituati a pensare alla causa come a qualche

cosa (individuo (Socrate spinge Platone), o stato di cose (il calore del sole è

causa dello scioglimento del burro)) che fa qualche cosa, in senso attivo,

cioè che produce un effetto.

In greco il termine “causa” è aitia o aition (aggettivo che significa

‘responsabile’, ‘autore’ di qualcosa. Una formula equivalente, utilizzata da

Aristotele (e prima di lui, da Platone) è dioti, letteralmente “perché”, che

possiamo sostantivizzare dicendo “il perché”. Come ho detto, queste due

espressioni sono equivalenti:

x è causa di y se e solo se x fornisce il perché di y.

Alla domanda “perché y?”, si risponde dicendo “perché x”. La risposta,

cioè, il “perché”, fornisce la spiegazione causale di y.

Esempio:

“Perché la statua fonde?” “Perché è fatta di bronzo”. Questo ‘perché’

fornisce la spiegazione causale di quel perché.

Ora, per questa illustrazione della “causa” si presentano due problemi

che manifestano chiaramente una sorta di décalage tra la nostra nozione di

causa, e il “perché”.

1) il “perché” può essere utilizzato per introdurre la spiegazione di

qualche cosa: ma “causa” e “spiegazione” non si riferiscono alle stesse

cose, perché la spiegazione è più ampia.

Page 57: intro a aristotetele

57

Vediamo due esempi che possono chiarire quello che sto dicendo:

i) esempio tratto dalle verità matematiche:

22 è minore di 3

2

perché

2 è minore di 3.

In questo caso, la relazione causa/effetto non sembra adattarsi alle

scienze astratte come le matematiche: in compenso, la spiegazione

funziona. In effetti, il fatto che due alla seconda è un numero più piccolo di

tre alla seconda si spiega con il fatto che due è un numero più piccolo di tre

(ma non si può propriamente dire che “2 è minore di 3” causi “22 è minore

di 32”).

ii) esempio tratto dall’esperienza quotidiana:

“nevica”. Perché? “è inverno”.

Qui “è inverno” spiega il fatto che nevica. In questo caso, dare una

spiegazione significa citare un contesto in cui questo fenomeno risulta

normale. Ma non possiamo dire che l'inverno causa direttamente la neve.

2) altro problema: il “perché” implica una spiegazione in forma di

proposizione.

Se io dico y perché x

sto dicendo: il fatto che nevica avviene perché è inverno.

“nevica” e “è inverno” sono due proposizioni.

Se io invece dico

x è causa di y

riempio x e y con due nomi (o due nominalizzazioni):

per esempio: l’inquinamento è causa del riscaldamento terrestre.

Quindi, da un punto di vista linguistico, non c'è un'esatta corrispondenza

tra “causa” e “perché”. Dal punto di vista delle scienze esatte, laddove si

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58

usa un concetto di causa, non vi è una causalità attiva, ma una spiegazione.

Ora, Aristotele non considera questo décalage. Spesso, egli fornisce

degli esempi della forma

x è aitia di y,

in cui, piuttosto che di causa, si potrà parlare di “spiegazione”.

Testo: Fisica II 3, 194b16-195b30

194b16 (…) bisogna esaminare le cause, di quale natura e quante siano. Poiché il

nostro studio ha per oggetto il conoscere, e noi non crediamo di conoscere nulla

prima di aver afferrato il perché di ogni cosa (cioè, di aver afferrato la causa prima),

è chiaro che dobbiamo fare la stessa cosa 194b20 per la generazione e la corruzione e

ogni cambiamento naturale, in maniera tale che, conoscendo i principi delle cose,

cerchiamo di ricondurvi ogni cosa che noi ricerchiamo.

- In un senso, la causa è ciò da cui, come suo costituente interno, una cosa è fatta,

come per esempio il bronzo è causa della statua e l’argento della coppa, così come i

194b25 loro generi. In un altro senso, è la forma e il modello, e questa è la

definizione dell’essenza, e i suoi generi (per esempio, il rapporto di due a uno per

l’ottava e generalmente il numero), e le parti della definizione. Ancora, è ciò da cui

proviene il primo inizio del cambiamento e del riposo; per esempio, 194b30 l’autore

di una decisione è causa, il padre è causa del figlio e, in generale, l’agente è causa di

ciò che è fatto, ciò che produce il cambiamento di ciò che è cambiato. Ancora, come

fine; e questo è l’in-vista-di-cui, per esempio, la salute è causa della passeggiata; in

effetti, perché passeggia? Per la sua salute, diciamo, e, con questa risposta, noi

pensiamo di aver fornito la causa. 194b35 E anche tutto ciò che, mosso da altra cosa

rispetto a sé, è intermediario del fine, come per esempio, per la salute, 195a il

dimagrimento, la purga, i rimedi, gli strumenti; infatti, tutte queste cose sono in vista

di un fine, e differiscono tra di loro per il fatto che le une sono azioni, le altre sono

strumenti.

- Ecco grosso modo in quanti modi si dicono le cause; ma poiché 195a5 le cause

sono dette in molti modi, accade che le cause di una stessa cosa siano molteplici, e

questo non per accidente; per esempio, per la statua, l’arte statuaria e il bronzo, e

questo non in rapporto a qualche cosa d’altro, ma in quanto statua, però non nello

stesso senso: una come materia, l’altra come ciò da cui proviene il movimento. Ci

sono anche delle cose che sono cause 195a10 l’una dell’altra, come per esempio lo

sforzo fisico del buono stato del corpo, e questo dello sforzo fisico, ma non nello

stesso senso: l’uno come fine, l’altro come principio del movimento. Inoltre, la stessa

cosa può essere causa dei contrari: in effetti, di ciò che grazie alla sua presenza è

causa dell’effetto, noi constatiamo l’assenza come causa dell’effetto contrario, come

per esempio l’assenza del pilota è causa del naufragio, laddove la sua presenza era

causa di salvezza.

195a15 - Ora, tutte le cause cha abbiamo menzionato cadono sotto le quattro specie

più manifeste: le lettere in rapporto alle sillabe, la materia in rapporto agli oggetti

fabbricati, il fuoco e le altre cose in rapporto ai corpi, le parti in rapporto al tutto, le

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59

ipotesi in rapporto alla conclusione, sono cause come ‘ciò da cui’. Di queste cose, le

une sono cause come sostrato, 195a20 per esempio le parti, le altre come essenze, il

tutto, il composto, la forma; d’altra parte il seme, il medico, l’autore di una decisione,

e in generale l’agente, tutto questo è ciò da cui proviene l’inizio del cambiamento o

del riposo. Altre cose come fine e bene delle altre cose: infatti, l’in-vista-di-cui

195a25 vuol essere cosa eccellente e fine delle altre cose; poco importa il dire che si

tratta del bene in sé o del bene apparente.

La teoria delle quattro cause.

In questo testo Aristotele presenta la sua teoria delle quattro cause. Si

tratta di una teoria molto celebre, tipica di Aristotele (ne parlerà anche nel

libro Alpha della Metafisica): ma forse, sarebbe meglio parlare di teoria

delle quattro spiegazioni.

Ci sono due problemi nella teoria aristotelica;

1) si tratta di una teoria di quattro tipi di causa, oppure di un'analisi dei

significati di un termine (aitia) ambiguo? Nel primo caso, si tratterebbe di

un termine (aitia) che ha un solo significato, ma specie differenti (come

“animale”, che significa la stessa cosa sia quando si parla di un gatto, sia

quando si parla di un uccellino, o di un pesce). Nel secondo caso, si

tratterebbe di un termine ambiguo (come ad esempio “pesca” che significa

sia il frutto che l'arte di catturare dei pesci: si tratta di un termine che ha

due significati che non hanno nulla in comune).

Aristotele non lo dice: ma la teoria delle quattro cause è, come vedremo,

una mescolanza tra le due cose.

2) perché solo quattro cause?

Aristotele non lo dice, ma nel libro Alpha della Metafisica considera le

ricerche dei suoi predecessori, e trova quattro cause e basta. Questo

significa che, prima di lui, per analizzare i fenomeni e la realtà sono state

necessarie solamente quattro tipi di spiegazione.

L’idea aristotelica che governa tutto il testo è che conosciamo qualche

cosa se e solo ne conosciamo la causa prima (aitia prote). Cosa vuol dire

Page 60: intro a aristotetele

60

“causa prima”? L'idea è che ci troviamo di fronte a una sequenza di questo

tipo:

A perché B perché C....perché Y, perché Z. Immaginiamo che oltre Z

non ci sia null'altro: Z sarà allora la causa prima, ovverosia la sommità

della catena esplicativa. Z, invece, non verrà spiegato da nulla, sarà

inesplicabile (o, in termini scientifici, auto-evidente). Gli altri membri

saranno anch'essi cause (cioè, membri della spiegazione), ma solo Z sarà la

causa prima13

.

Avremo quindi un sistema di derivazione:

Z

Y

.

.

.

.

C

B

----------

A

La causa: una spiegazione in forma proposizionale.

Nel libro Zeta della Metafisica (1041a10), Aristotele dichiara che

quando si domanda “perché?”, si domanda “perché una cosa appartiene a

un'altra cosa?”.

Cosa vuol dire? Ebbene, sul piano della realtà, questo significa:

“perché una proprietà appartiene a una determinata sostanza?”

Sul piano logico-linguistico:

13

Vedi Metafisica, alpha piccolo: ogni catena di cause deve avere un primo termine (non può cioè risalire

all’infinito).

Page 61: intro a aristotetele

61

“perché un predicato appartiene a un dato soggetto?”14

.

Quindi, la causalità in Aristotele è, o dovrebbe essere, una teoria di

quattro tipi di spiegazione causale per le proprietà delle cose (forse con la

parziale eccezione della causa efficiente, che assomiglia un po’ più alla

‘nostra’ causa, anche se non tutti sono d’accordo).

Chiariremo questo concetto fornendo quattro esempi destinati a illustrare

i quattro tipi di causa secondo Aristotele.

1) Causa materiale :

per illustrare il primo tipo di causa (la causa materiale), prendiamo

esempi che lo stesso Aristotele presenta nella Fisica:

- il bronzo è causa della statua

- l'argento è causa della coppa.

Sappiamo, perché è Aristotele che lo dice, che la causa è il perché:

“Perché la statua?”. “Perché il bronzo”.

“Perché la coppa?”. “Perché l'argento”.

Ma questo che senso può avere?

Sulla base di quello che Aristotele dice in Metafisica Zeta 1041a10,

possiamo dire la cosa seguente:

il bronzo è la causa della statua nel senso che esso spiega perché la statua

possiede determinate proprietà.

Per esempio:

la statua è bruna perché è fatta di bronzo

la statua fonde perché è fatta di bronzo

ecc. Vi sono, cioè, molte cose che sono vere della statua a causa del fatto

che essa è fatta di bronzo. Si noterà la trasformazione di

il bronzo è causa della statua

14

Si noti che Aristotele non fa che riprendere il concetto di causa che si trova in Platone: cfr. Fedone,

95b-102a.

Page 62: intro a aristotetele

62

a

la statua fonde perché è fatta di bronzo.

Si tratta di spiegazioni in forma proposizionale.

Quindi, per la spiegazione materiale possiamo dare la seguente formula:

x è perché x è fatto di

x = un soggetto; = un predicato; = materia.

2) Causa formale:

vale lo stesso discorso. Vediamo un esempio di Aristotele, che possiamo

trarre dal libro Alpha della Metafisica:

“perché gli uomini sono capaci di praticare la filosofia?”

“perché sono esseri razionali”

cioè, appartiene loro la proprietà di essere razionali.

x è perché x è

x = un soggetto; = un predicato; = una parte della definizione di x,

cioè un predicato che rientra nella definizione essenziale di x. Infatti, la

causa formale riguarda quei predicati che dipendono dalla definizione della

cosa a cui tale predicato si applica.

3) Causa efficiente:

è quella che generalmente è considerata più vicina al nostro concetto

moderno di causa, intesa cioè come qualcosa di attivo, distinto dall'effetto,

e che produce qualche cosa.

Contro questa teoria, però, c'è un argomento forte, cioè che Aristotele

non presenta in nessun caso, per questo tipo di causa, una caratterizzazione

diversa rispetto alle altre cause. Quindi, anche per questa causa, occorrerà

cercare una spiegazione nei termini di “perché x?”

cioè, nei termini di una spiegazione che appunto spieghi l’appartenenza

di un predicato a un soggetto (o di una proprietà alla sostanza). Per

esempio: il figlio ha gli occhi blu perché il padre ha gli occhi blu.

Page 63: intro a aristotetele

63

x è perché y è

x = un soggetto; y = un altro soggetto: = un predicato (che appartiene

sia a x che a y).

Tuttavia, nel caso della causa efficiente, Aristotele fa intravedere anche

un concetto più vicino al nostro: quello di un agente, di qualcosa che fa

qualcosa. In effetti, lo stesso Aristotele (vedi Metafisica Alfa, 983a30-32)

definisce questa causa come “principio a partire da cui ha inizio il

movimento”, facendo di essa un principio dinamico esterno che trasmette

delle proprietà (es. la mano, che è calda perché il fuoco che la lambisce è

caldo).

4) causa finale: invece, il caso della causa (spiegazione) finale è

differente. Qui non vogliamo trovare la formula che ci è servita per

caratterizzare le altre, cioè, alla

domanda che utilizza “perché?” non vogliamo utilizzare come risposta

“perché”. Lo stesso Aristotele ci dà la formula:

“perché ?”

“affinché ”.

“Affinché” in greco è eneka ou, letteralmente “l'in vista di cui”. Esempio

di Aristotele: “perché passeggia?” “al fine di essere sano”, cioè, al fine di

ottenere (o preservare) l'essere sano.

x è al fine di essere .

x = soggetto; = è passeggiante (per Aristotele “passeggia” è un

predicato); = un altro predicato (una proprietà che si vuole acquisire).

Per ritornare al senso del termine aitia, possiamo dire che il termine

possiede due significati, “perché” e “in vista di”. Il primo si distingue in tre

“perché”: il perché materiale, il perché formale, il perché efficiente (anche

se, in quest’ultimo caso, con qualche riserva).

Page 64: intro a aristotetele

64

9: La teleologia

Tra le quattro cause viste, si distingue quella che noi chiamiamo ‘causa

finale’, a cui Aristotele si riferisce con una formula composta dalla

preposizione eneka (‘in-vista’) più l’articolo o pronome relativo al genitivo

tou (‘di-qualche-cosa’ o ‘in-vista-di-cui’): ‘in-vista-di-cui’.

Ora, la causa finale fornisce una spiegazione che lega dei

comportamenti, che si possono esprimere con le proposizioni. Si possono

pensare due proposizioni che hanno una relazione tale che la prima cosa

espressa dalla prima proposizione accade per (allo scopo di) permettere la

seconda cosa (espressa dalla seconda definizione).

Es. Ho preso un taxi…non sono in ritardo.

Alla domanda ‘perché x?’ (‘perché ho preso un taxi?’) rispondo con ‘allo

scopo di y’ (‘allo scopo di non essere in ritardo’).

Si tratta di una risposta a un perché.

In generale, per spiegare un comportamento determinato si fa ricorso ai

desideri e alle credenze del soggetto del comportamento. C’è sicuramente

uno stretto legame tra spiegazioni di questo tipo e la formula ‘allo scopo

di’.

Es.: ‘perché hai preso un taxi?’ perché desideravo non arrivare in ritardo

+ perché credevo che il taxi fosse il mezzo più rapido per arrivare.

Ma, per Aristotele non c’è una relazione, almeno non nella trattazione

della sua teoria delle quattro cause, tra ‘allo scopo di’ e desideri e credenze.

Se consideriamo l’esempio di causa finale data da Aristotele

1) ho passeggiato a causa della mia salute

si potrebbe dire che tale frase corrisponda a

2) ho passeggiato perché volevo diventare sano.

Ma per Aristotele, tra le due frasi ci sono delle differenze:

Page 65: intro a aristotetele

65

i) in 1) la causa segue la mia passeggiata, cioè, è la salute la causa, e io la

posso ottenere grazie alla passeggiata. Si tratta del solo caso in cui la causa

segue l’effetto. Invece in 2) il mio desiderio e la mia volontà precedono la

mia azione (è perché voglio diventare sano che passeggio).

ii) ci sono casi in cui le cause non esistono, ma restano cause: per

esempio, ho camminato, non ho ottenuto la salute, ma la salute resta la

causa della mia passeggiata. E nel caso degli atti intenzionali?

Il finalismo nella natura

Fino ad ora abbiamo preso esempi di atti umani, che sono facilmente

spiegabili nei termini di desideri, credenze e volontà. Ma per Aristotele è

nella natura nella sua interezza che si trova il senso primo del finalismo.

Per esempio, possiamo individuare una spiegazione finale a certi

comportamenti animali: per esempio, il ragno tesse la sua tela allo scopo di

catturare le mosche. Questo però non ha nulla a che fare con la volontà i

desideri, le credenze del ragno. Almeno per Aristotele. Quindi, per il ragno

i) è vero che tesse la sua tela allo scopo di catturare le mosche

ii) ma è falso che tesse la sua tela perché vuole catturare le mosche.

Altri esempi aristotelici: le querce hanno lunghe radici per (allo scopo di)

radicarsi meglio, perché per esempio all’origine si trovavano in luoghi

particolarmente ventosi.

Aristotele non crede che gli alberi abbiano desideri e volontà; tuttavia,

essi manifestano (possiamo vedere letteralmente) dei comportamenti allo

scopo di qualche cosa.

Altri esempi, considerati lungamente nelle opere biologiche di

Aristotele: le parti degli animali. Per esempio, secondo Aristotele, gli

animali come noi possiedono denti aguzzi per lacerare il cibo e piatti per

masticarlo. In tutta una serie di casi comportamentali e forme naturali, si

possono invocare delle spiegazioni finali che non hanno nulla a che fare

Page 66: intro a aristotetele

66

con la volontà di animali e piante in questione. Bisogna poi aggiungere che

Aristotele non crede che nella natura ci sia finalismo ovunque: per

esempio, afferma che ci sono casi di eventi naturali senza spiegazione

finale, per esempio, il colore degli occhi.

Tuttavia Aristotele pensa che la finalità si trovi in natura quasi ovunque.

Qual è allora la differenza tra il finalismo aristotelico e il finalismo

diciamo standard ?

Normalmente, quando si parla del finalismo in natura, si pensa ad una

intelligenza (Dio, il Demiurgo platonico, ecc.) che fabbrica il mondo come

una macchina, in cui ogni pezzo ha la sua funzione, decisa appunto dal

Demiurgo. Questa per esempio è l’idea di Galeno, celebre medico e

filosofo del II secolo dopo cristo, che scrive un’opera per spiegare la

funzione di ogni parte, anche la più piccola, della mano umana.

Forse Aristotele attribuisce intenzioni del tipo demiurgico, se non alle

creature naturali e a un artigiano che le fabbrica, almeno alla natura stessa ?

Vi sono passi in cui Aristotele parla della natura come di un artigiano

intelligente, ma ce ne sono altri in cui Aristotele fornendo spiegazioni finali

dettagliate (per esempio, nei suoi scritti biologici), non fa alcun riferimento

ai progetti della natura o alle intenzioni dell’artigiano. Anzi, dà

l’impressione di voler spiegare una serie di comportamenti e forme naturali

senza assolutamente riferirsi a un disegno generale che governerebbe la

natura intera. Se allora non è possibile spiegare la teleologia aristotelica nei

termini di un piano intenzionale, allora la possiamo spiegare come una

sorta di funzionalismo. In generale, la maggior parte delle caratteristiche

strutturali e comportamentali degli animali e delle piante ha una funzione.

Tali caratteristiche, cioè, permettono attività essenziali, o almeno utili,

all’organismo. Si pensi ad esempio alle zampe palmate delle anatre, che

permettono all’anatra di nuotare, sapendo che nuotare è una parte

Page 67: intro a aristotetele

67

essenziale della vita di un’anatra.

Perché l’anatra è palmipede?

Allo scopo di nuotare.

Queste spiegazioni non hanno nulla a che fare con gli atti intenzionali: si

tratta di una funzione, e Aristotele vede ovunque nella natura delle

funzioni.

Come vedremo ora nel testo, non bisogna confondere il funzionalismo

aristotelico (‘allo scopo di’) con la teoria della selezione naturale, che non

utilizza spiegazioni finalistiche ma meccanicistiche: l’idea è che, per

esempio, l’anatra è palmipede a causa di ciò che precede (i suoi genitori,

anch’essi palmipedi) e non a causa di ciò che segue (‘allo scopo di

nuotare’). Cioè, l’eredità dell’anatra le permette di sopravvivere, mentre

invece, se il suo organismo non fosse adattato a una certa attività essenziale

per la sua sopravvivenza, non potrebbe sopravvivere, o vivrebbe con

difficoltà.

Testo scelto: Fisica II 8, 198b10-199a8

Prima di tutto bisogna dire che la natura si trova nelle cause in-vista-di cui, poi come

il necessario esiste nelle cose naturali. Infatti, tutti riconducono le cose a questa causa,

dicendo che, poiché il caldo è per natura tale e il freddo tale, ecc., tali cose sono e

divengono per necessità; 198b15 infatti, se essi invocano un’altra causa, appena l’hanno

toccata l’abbandonano—come colui che parla dell’amore e dell’odio, o l’altro

dell’intelligenza.

Ma si presenta una difficoltà, (1) che cosa impedisce alla natura di agire non in vista

di un fine né perché è meglio, ma come Zeus fa piovere—non per far aumentare il

raccolto ma per necessità? In effetti, l’evaporazione, essendosi innalzata, deve

raffreddarsi e, essendosi raffreddata e divenuta acqua, deve discendere; 195b20 e

quando questo capita, ne consegue che il raccolto aumenta. Ugualmente, se la raccolta

si perde sull’aia, non è in vista di questo scopo che piove (allo scopo che esso si perda),

ma ne risulta. (2) Quindi, cosa impedisce che sia così anche per le parti? Per esempio,

che i denti crescano per necessità, gli incisivi aguzzi 195b25 e adatti a lacerare, i molari

larghi e atti a triturare, che non siano stati generati in vista di ciò ma che si tratti di

coincidenza? Ugualmente per le altre parti dove sembra vi sia l’in-vista-di-cui. Ora,

dove tutto è accaduto come se fosse accaduto in-vista-di-cui 195b30 in questi casi le

cose sono conservate in quanto esse possiedono, per caso, una costituzione opportuna,

mentre le cose che non sono tali sono perite e periscono—come Empedocle dice dei

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68

bovini a muso umano.

(3) Ecco un argomento che potrebbe presentare delle difficoltà, e ce ne sono altri. Ma

è impossibile che sia così. In effetti, queste cose e tutte quelle che esistono per natura, si

producono come sono 195b35 o sempre o nella maggioranza dei casi, il che non è il

caso per le cose che dipendono dalla fortuna o dal caso: non si crede che è per fortuna o

per coincidenza se spesso piove in inverno, ma se piove durante la canicola, né se fa

caldo durante la canicola, ma se è così in inverno. 199a1 Se quindi queste cose

accadono o per coincidenza o in vista di qualche cose, e se non è possibile che esse

accadano per coincidenza o per caso, esse accadranno in-vista-di-cui. 199a5 ma tutte le

cose di questo tipo sono per natura, anche secondo coloro che sostengono queste tesi.

L’in-vista-di-cui si trova dunque tra le cose che divengono e sono per natura.

“Prima di tutto…intelligenza”.

Aristotele pensa che tutto ciò che accade, accada per necessità, e che

questo sia compatibile con la finalità, e questo contrariamente a coloro che,

ammettendo la necessità, rifiutino il finalismo.

Aristotele (a) deve giustificare l’ affermazione secondo cui la natura ha

un fine e (b) deve mostrare in che modo sia coinvolta la necessità nei

fenomeni naturali.

Infatti, gli altri ‘fisici’ riconducono i fenomeni alla necessità, cioè,

spiegano gli eventi naturali come il risultato necessario di ciò che precede.

Es: il caldo è per natura tale; il freddo è per natura tale. I fenomeni quindi

accadono di necessità; e i fisici di fatto accettano questa teoria, utilizzando

molto poco le altre cause che tuttavia menzionano. Per esempio, l’amore e

l’odio (Empedocle), o l’intelligenza (Anassagora). Aristotele vuol dire che

ci sono dei predecessori che hanno afferrato la causa finale, ma senza

svilupparla in maniera adeguata. Nella continuazione del testo troviamo (a),

cioè la giustificazione del finalismo.

Nel secondo paragrafo (“ma si presenta una difficoltà…muso umano),

Aristotele presenta una difficoltà contro la tesi del finalismo in natura. Si

tratta di un argomento in tre tappe:

(1) Aristotele constata che vi sono eventi naturali in cui si ha a che fare

con la necessità e non con il finalismo. Qui Zeus è menzionato non come

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69

causa finale, ma come causa meccanica. Zeus, afferma Aristotele, non invia

la pioggia per permettere al raccolto di aumentare; piuttosto, la pioggia

segue di necessità dalle condizioni preesistenti, e l’aumento del raccolto

segue di necessità. La pioggia dunque, è una spiegazione meccanicista.

Solo dopo la raccolta aumenta. Ma sarebbe stupido dire che il fine della

pioggia è l’aumento del raccolto, perché la stessa pioggia può far marcire il

raccolto, e sarebbe sciocco dire che il fine della pioggia è far marcire il

raccolto…La spiegazione sarà quindi: piove, e questo fa aumentare il

raccolto.

(2) Ora, nulla impedisce che questo accada anche in altri casi, per

esempio per le parti dei corpi organici (tipico caso di finalismo

aristotelico). Potrebbe succedere che i denti si producano per necessità, e

che le loro forme per le loro funzioni (incisivi per lacerare, molari per

masticare) siano il risultato di una causa precedente. Gli oppositori di

Aristotele potrebbero dire che i molari ‘omogeneizzano’ il cibo, senza per

questo ammettere che essi siano là a questo scopo. Sarebbe la selezione

naturale, dicono gli avversari, responsabile di certe conformazioni degli

animali (es. che l’oca sia palmipede). In questo modo, gli animali che

possiedono una costituzione appropriata (per caso e per fortuna, non allo

scopo di!) possono sopravvivere, gli altri no.

(3) Il resto del capitolo (capitolo 8 del secondo libro della Fisica)

contiene una serie di risposte al meccanicismo. Nel nostro testo ne abbiamo

solo una.

Prima premessa:

- le cose naturali si producono sempre o nella maggior parte dei casi.

Seconda premessa:

- quindi, le cose naturali non si producono per caso (= senza causa).

Terza premessa:

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70

le cose naturali capitano o per caso (=senza scopo) o con scopo.

Conclusione:

-le cose naturali accadono con uno scopo (infatti accadono nella maggior

parte dei casi).

Forma dell’argomento: ¬P (le cose naturali non accadono per caso); P (le

cose naturali accadono per caso) Q le cose naturali accadono con uno

scopo); quindi Q (le cose naturali accadono con uno scopo).

Difficoltà dell’argomento:

i) Aristotele utilizza la formula ‘per caso’ in modo ambiguo: una volta

nel senso di ‘senza causa’ (in opposizione a ciò che viene detto nella prima

premessa, e cioè che le cose naturali hanno quasi sempre una causa),

un’altra nel senso di ‘senza uno scopo’;

ii) la conclusione è troppo forte anche per lo stesso Aristotele, perché

egli non crede che tutte le cose naturali abbiano uno scopo.

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71

10: La psicologia

Testi principali: L’Anima; Sulla sensazione

Nell’universo aristotelico ci sono due distinzioni:

1) cielo/terra (mondo sublunare);

2) mondo sublunare (fatto di esseri viventi (animali, piante) e esseri non

viventi (pietre, ecc.) e mondo lunare (fatto di esseri viventi, cioè astri).

Gli esistenti del mondo lunare sono oggetto della scienza astronomica,

quelli del mondo sublunare sono invece oggetto di molteplici discipline

(biologia, zoologia, ecc.), inclusa la psicologia (che d’altra parte non è

chiamata così da Aristotele).

La psicologia si situa così tra le scienze della natura, ed è strettamente

apparentata alla biologia, e soprattutto alla zoologia. per A. la psicologia è

connessa sia alla scienza sperimentale che alla filosofia e alla logica,

perché per lui la distinzione tra scienze empiriche e scienze analitiche non

esisteva ancora.

La traduzione di psyché con ‘anima’ è ancora una volta fuorviante, anche

se è troppo radicata per cercare un’altra traduzione. In effetti, la psyché

aristotelica è ciò che fa la differenza tra gli esseri viventi e esseri non

viventi, sicché il fatto di essere vivente ha come conseguenza logica quella

di possedere una psyché. Questo significa che essa è posseduta da tutti gli

esseri viventi, anche dagli alberi. ‘Anima’ quindi non coincide con psyché,

nella misura in cui sarebbe stupido dire che gli alberi hanno un’anima.

Cos’è dunque la psyché?

E’ ciò che distingue gli esseri viventi dagli esseri non-viventi. Varie le

risposte che sono state date dai presocratici: aria; sangue; tipo di atomi che

si trovano ovunque nel mio corpo (Epicuro), ecc. Tutte queste sono risposte

materialiste, nel senso che si è pensato che l’anima fosse una parte fisica

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72

del corpo. Con Platone, però, si trova una risposta diversa: l’anima si

configura essere una parte del corpo incorporea, un principio attaccato al

corpo che lo fa funzionare.

Contrariamente a quel che si crede, nessun filosofo greco post-platonico,

con la parziale eccezione di Aristotele, ha accettato la soluzione platonica.

Perfino i primi cristiani (come ad esempio Tertulliano) hanno ritenuto che

l’anima fosse una parte corporea, altrimenti come sarebbe possibile che le

anime dei peccatori brucino all’inferno?

Aristotele non accetta né la soluzione materialistica, né quella platonica

secondo cui l’anima sarebbe un’aggiunta incorporea al corpo. Piuttosto, fa

una sorta di miscuglio delle due, difficile da spiegare perché lui stesso

procede per tentativi.

In De anima II, 1-2 Aristotele fornisce ben tre definizioni di anima.

Prima definizione: l’anima è la prima attualità di un corpo organico e

potenzialmente vivente.

Attualità: richiama la celebre teoria aristotelica di potenza/atto, che in

pratica presenta la distinzione tra ‘avere la capacità di divenire qualcosa’

(potenza) e ‘essere realmente qualcosa’.

Dire per esempio che i pomodori non sono rossi in atto ma in potenza

significa dire che essi hanno la capacità di diventare rossi. Essi saranno in

atto quando saranno effettivamente rossi. La distinzione potenza/atto è la

tematizzazione di un’idea conosciuta: vi sono cose che possono realizzarsi,

altre no. Es. sono in potenza a Parigi, ma non sono in potenza su Giove.

Prima attualità: rispetto ai vari gradi di attualità.

Di un corpo organico: di un corpo organizzato in parti che possono fare

qualcosa (organi) in atto, cioè realizzato.

L’anima come prima attualità di un corpo: per esempio, la prima volta

che un gattino ha aperto gli occhi per vedere.

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73

Potenzialmente vivente: per distinguerlo dalle macchine che

costituiscono anch’esse una organizzazione di parti ma non vivente.

Questa definizione significa grosso modo questo: possedere un’anima

significa essere un corpo dotato di strumenti d’azione che esso è pronto ad

utilizzare.

Seconda definizione: l’anima è la forma di un corpo vivente.

A. fornisce un’analogia. Consideriamo una sega per tagliare il legno:

dovremo scegliere il materiale adatto (es. metallo), e dargli una forma. Ora,

noi potremmo scegliere tra varie figure di sega (infatti posso utilizzare

seghe di varie forme per tagliare il legno), quindi non c’è un’unica figura

della sega. Ciò di cui A. parla quando nomina la forma sarà piuttosto la

funzione, la configurazione della forma. La psyché come forma del corpo è

appunto la capacità di questo corpo qui.

Questa definizione significa dunque: il possesso di un’anima dà al corpo

la capacità di vivere.

Questa però è quasi una tautologia, visto che essere vivi ha come

conseguenza logica avere la psyché.

Aristotele distingue quattro capacità psicologiche (che distinguono

appunto gli esseri viventi dagli esseri non viventi, che non possiedono

queste capacità):

1) la capacità di nutrirsi

2) la capacità di percepire

3) la capacità di pensare in senso lato

4) la capacità di movimento.

Secondo A., queste capacità formano una sorta di gerarchia. Ma ciò che

è importante sottolineare è che è sufficiente una sola capacità per essere

viventi (es. le piante, che posseggono solo la capacità di nutrirsi), e quindi

per possedere l’anima. L’uomo possiede tutti i tipi di capacità. E poi vi è un

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74

essere superiore, dio, che possiede 3) e 4) (questo però limitatamente ai

motori immobili, perché il motore immobile è appunto immobile), ma

certamente non possiede 1) e probabilmente neanche 2).

Testo scelto: L’anima, II 6, 418a7-25

418a7 In ciò che concerne ogni senso, bisogna innanzitutto parlare degli oggetti della

percezione. L’oggetto di percezione si dice in tre modi, di cui diciamo che due sono per

se, l’altro per accidente. Dei due 418a10 primi, l’uno è proprio a ogni senso, l’altro è

comune a tutti. Chiamo proprio quello che non si può percepire per mezzo di un altro

senso, e rispetto al quale non ci si può sbagliare, come per esempio la vista del colore,

l’udito del suono, il gusto del sapore. Il tatto, quanto a lui, ha come oggetto più

differenze. Ma almeno 418a15 ognuno giudica riguardo a queste cose e non si sbaglia

sul colore o sul suono, ma su ciò che la cosa colorata è, oppure dove essa sia, o su ciò

che produce il suono oppure dove esso sia. Le cose di questo tipo sono chiamate proprie

ad ogni senso, mentre il movimento, il riposo, il numero, la figura, la grandezza sono

comuni, perché essi non sono propri a nessun senso, ma comuni a tutti. In effetti, un

certo movimento è oggetto di percezione sia per il tatto sia per la vista.

418a20 Si parla di oggetto di percezione per accidente se per esempio questo bianco

è il figlio di Diare; è in effetti per accidente che lo si percepisce, perché ciò che si

percepisce è accidentalmente unito al bianco. E’ anche per questo che non si è

modificati dall’oggetto della percezione in quanto tale. Tra gli oggetti di percezione per

se, ci sono i propri che sono oggetto di percezione propriamente detti, ed è in rapporto

ad essi che 418a25 l’essenza di ogni senso è naturalmente determinata.

Nel testo scelto Aristotele tratta della percezione, e dichiara che

innanzitutto dobbiamo trattare gli oggetti della percezione. Perché

dobbiamo farlo? In effetti, per stabilire cos’è la percezione, potremmo

prendere tre direzioni possibili: i) considerare l’ente che possiede la

capacità; ii) considerare l’oggetto della capacità, iii) considerare la

relazione tra i due.

Per A. bisogna per prima cosa trattare l’oggetto della capacità, e non

spiega perché, ma forse la risposta è banale: è molto più semplice parlare

dell’oggetto della capacità rispetto agli organi di essa, poiché l’oggetto è

visibile, quotidiano.

Ora, ci spiega A. nella continuazione del testo, l’oggetto di percezione si

dice in tre modi, due per se (proprio e comune), uno per accidente. Il fatto

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75

che A. affermi che l’oggetto “si dice” in tre modi lascia aperta una certa

ambiguità: infatti, non si capisce se A. vuol dire che ci sono tre tipi di

oggetti di percezione o tre significati di un termine (“oggetto di

percezione”) ambiguo.

Sensibile per se:

oggetto di percezione proprio: è l’oggetto che appartiene a un solo senso

(il colore per la vista, il suono per l’udito, il sapore per il gusto);

oggetto di percezione comune: è l’oggetto che, afferma A., è comune a

tutti i sensi. Tuttavia, è difficile pensare ad un oggetto percepibile da tutti i

sensi. Inoltre, quando A. commenta uno degli esempi di sensibili comuni

(movimento, riposo, numero, figura, grandezza), e cioè il movimento, dice

che esso è oggetto di percezione sia per il tatto che per la vista. Quindi

dovremo ridurre la portata di quel che dice A. e affermare che i sensibili

comuni sono quelli percepiti da più di un senso. Comunque, anche

l’esempio di movimento come sensibile comune è un po’ discutibile.

Per ciò che riguarda la distinzione tra sensibili per se e sensibili per

accidente, l’esempio dato da A. è quello di ‘questo bianco figlio di Diare’.

per rendere l’esempio più chiaro, possiamo cambiarlo e riflettere sul colore

della mai borsa. Secondo Aristotele io vedo la mia borsa solo per accidente,

cioè grazie a qualcosa d’altro che appartiene alla borsa, il suo colore. Il

colore è accidente della borsa, ma è ciò che la vista vede propriamente.

Le due tesi aristoteliche, insomma, sono queste:

i) (tesi implicita): vediamo la borsa (e in generale le cose) solo grazie al

colore;

2) (tesi implicita): vi è una teoria della percezione con i cinque sensi

collegati e subordinati.

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11: La politica

Lo scopo dell’uomo—vedremo nell’etica, è quello di realizzare la sua

natura particolare, cioè la propria razionalità. Ma questo non basta: secondo

Aristotele, infatti, gli uomini non sono individui isolati, e l’eccellenza

umana non può essere praticata da un individuo isolato. Perché? Perché

per Aristotele l’uomo è per natura politico. E lo stato (che per Aristotele

coincide con la città-stato, cioè la polis, incarnata da Sparta e Atene) è

un’entità naturale. La politica di Aristotele, dunque, cioè lo studio dello

stato, si basa su una definizione di uomo come naturalmente politico, e di

stato come entità naturale.

Svilupperemo ora un poco l’idea di uomo come animale politico per

natura. L’altra idea, quella di stato come entità naturale, è invece sviluppata

nel testo scelto.

L’uomo è per natura animale politico

L’idea di uomo come animale politico viene sviluppata nel libro I della

Politica. La definizione (uomo =df animale politico) è subordinata alla

scienza della zoologia, di modo che la politica sembra ‘cadere’ sotto il

genere ‘zoologia’: l’uomo, cioè, risulta essere un animale di una certa

specie.

Nella Storia degli animali, 488a2ss., Aristotele presenta una distinzione

secondo cui gli animali si dividono in i) solitari e in ii) gregari.

Questi ultimi (gli animali che vivono assieme), si dividono a loro volta

in iia) non sociali (puramente gregari: per esempio le pecore, che vivono

assieme ma facendo ciascuna i fatti propri) e iib) sociali (che si aiutano a

vicenda, come uomini, api, vespe formiche, gru).

L’uomo poi, a differenza degli altri animali, è politico (cioè, abita la

polis con forme di governo—in questo senso anche le api per Aristotele

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77

sono politiche, perché ad esempio hanno l’ape regina, che è segno di

politicità) perché, come vedremo nel testo scelto, è il solo in grado di

percepire bene e male, giusto e ingiusto, e il comunicarsi queste cose

costituisce la base di famiglia e stato.

“Essere politico” (caratteristica essenziale dell’uomo) significa allora

abitare una comunità dove c’è qui governa e chi è governato, e questo

secondo leggi, che si deve assicurare siano rispettate. Invece gli animali

puramente sociali collaborano assieme, ma senza governo né regole

(=leggi). In tal senso, “politico” non è una caratteristica essenziale che

dipende dalla definizione di uomo (ugualmente celebre) come “animale

razionale”, perché abbiamo visto che anche le api sono in certo qual modo

politiche. La politica rientra nel quadro della zoologia, e questa

osservazione va presa seriamente: così come le formiche e le gru hanno

comportamenti determinati dalla loro natura, ugualmente l’uomo è per

natura (e non per convenzione) politico.

Questo però non significa che per A. tutti gli uomini sono politici. Come

per tutte le leggi naturali, anche la politicità dell’uomo vale “per lo più”,

cioè nella maggioranza dei casi. Le eccezioni sono dunque ammesse. Il

fatto che l’uomo sia per natura politico, e che quindi viva nella polis, non

impedisce che ci siano individui che fuori-polis, quelli che le hanno

fondate. Aristotele vuol dire che per garantire la vita politica l’uomo deve o

ha dovuto fare qualcosa fuori politica. Questo non è una contraddizione: da

una parte noi facciamo qualcosa per natura (cioè abbiamo un

comportamento politico); dall’altra, ogni tanto, bisogna fare qualcosa che

metta in moto il comportamento naturale. Si tratta insomma di una

tendenza naturale che ha bisogno di essere avviata.

Per A. quindi essere politico significa vivere nella polis. Lo stato ideale,

per il nostro filosofo, non deve mai superare i centomila abitanti, perché A.

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78

ha in mente città antiche come Atene e Sparta. Le città-stato in effetti

costituiscono la realtà di base per la teoria politica aristotelica. Il che è in

certo qual modo bizzarro, visto che Aristotele fu l’istitutore di Alessandro

il Grande, responsabile proprio della distruzione delle città-stato.

Nondimeno, A. non perse la convinzione della correttezza della città-stato

come forma corretta del viver civile.

Il cittadino

Data la tendenza naturale dell’uomo per il comportamento politico, ci si

potranno porre tre questioni:

1) chi deve governare, cioè quale forma di governo è per A. ideale;

2) in relazione a che cosa si deve governare, visto che il governo politico

in teoria non dirige tutta la vita dell’uomo;

3) quali sono le questioni politiche e quali quelle private.

In generale A. non ha trattato le varie questioni in modo chiaro, ma ci

sono indicazioni che portano a pensare che egli fosse totalitarista (cioè, che

pensasse ad uno stato forte e molto interventista nella vita degli individui) e

non molto interessato alla questione delle libertà individuali. E’ però vero

che ciò che resta della Politica di Aristotele è incompleto, e non possiamo

escludere che se ne fosse occupato

Quanto alla domanda 1), e cioè chi debba governare, la maggior parte

della Politica cerca di rispondere proprio a questo. Egli discute tale

questione sotto la rubrica più generale di “costituzione”, perché per lui

essere cittadino significa avere il diritto, e probabilmente anche il dovere,

di partecipare alla costituzione delle leggi e alle corti di giustizia. Questo

costituisce una differenza tra “cittadini” ed “abitanti della città”. I primi,

per essere tali, devono avere caratteristiche razionali, perché per A., anche

se l’uomo è “animale razionale”, vi sono uomini che non sono capaci di

ragionare, che di fatto sono la maggior parte del genere umano (i barbari,

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gli schiavi, i bambini, le donne). La teoria sulle donne ha basi

“scientifiche”: Aristotele dice che le donne sono mutilate, come i castrati

(egli osserva gli animali castrati e nota che hanno comportamenti

femminili…).

Chi deve governare, dunque? I cittadini sotto una determinata forma di

governo, tenendo presente che la forma di governo si applica solo alla

classe selezionata dei cittadini (nel senso che solo essi si occupano di

guerra, governo e culto. Gli altri obbediscono).

Alla domanda “chi deve governare?” ci sono tre possibili risposte:

i) una sola persona tra i cittadini (non necessariamente una monarchia

ereditaria);

ii) un piccolo gruppo

iii) tutti i cittadini.

Secondo queste tre possibilità, Aristotele presenta sei forme di governo

(che chiama costituzioni), di cui tre degradate in relazione alle altre tre (a

seconda che si segua l’interesse comune o quello privato)

forma positiva forma degenerata

- monarchia tirannia (potere assoluto)

- aristocrazia (da aristos =eccellente) oligarchia (potere di pochi)

- democrazia (da demos, popolo) ochlocrazia (ochlos = plebe)

Per ciò che riguarda i nomi, si tratta evidentemente di stipulazioni; ciò

che è importante notare è che ci sono sei tipi di governo che hanno valori

differenti: il meglio per A. sarebbe la monarchia, qualora si sia in presenza

di un uomo particolarmente eccellente; il peggio è la tirannia. Tra le due si

collocano (in ordine di valori) aristocrazia, democrazia, ochlocrazia e

oligarchia.

Di fatto, Aristotele ritiene che un uomo adatto alla monarchia non esiste;

quindi, realisticamente, opta per la democrazia, cioè per un governo di

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cittadini di ceto medio.

Da notare che A. riconosce che lo schema delle forme di governo non ha

molto valore perché troppo semplice. In effetti, egli ha riconosciuto che la

domanda non è “quante persone devono governare?”, ma “quali persone

devono governare?”. Per rispondere a questa domanda, ha individuato più

criteri: ricchezza, nobiltà di famiglia, valore militare, ecc.

In rapporto alla questione “chi deve governare?”, la risposta dipenderà in

ultima istanza dal tipo di governo. Secondo Aristotele ce ne sono diversi

tipi, tra cui esercito, marina, culto religioso: si tratta di tipi di “ministero”,

che hanno compiti diversi e che si occupano di parti diverse del governo

della polis. Per ognuna di queste parti, si risponderà diversamente: per i

preti con un’oligarchia ereditaria, per l’esercito con un’oligarchia non

ereditaria, per giustizia, leggi, ecc., con la democrazia. Le differenti forme

di governo funzioneranno insomma a seconda del “ministero” (termine

moderno che usiamo solo per chiarire ciò che A. aveva in mente), cosicché

esse saranno adatte a seconda della parte di governo in questione. La

domanda sarà allora: quale forma di governo in relazione a un ministero

dato?

Rispetto alle domande 2) e 3), la prima cosa da tenere presente è che lo

stato per A. è un’entità naturale, e come tale ha lo scopo di dare

l’opportunità di “vivere bene”. La buona vita è da A. identificata con

l’eudaimonia, che come vedremo nell’Etica, è lo scopo di ogni uomo. Dato

il valore etico dello stato, A. prevede un suo forte intervento nella vita dei

cittadini. Questo non tanto nell’economia (che riguarda innanzitutto le

famiglie, mentre lo stato non è possessore dei mezzi di produzione), anche

se lo stato interverrà con leggi che regolano il comportamento economico

dei cittadini. In compenso, l’intervento sarà forte nelle questioni sociali.

Page 81: intro a aristotetele

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Lo stato per natura

Nel testo scelto, Aristotele vuole dimostrare due cose

1) che la città è per natura

2) che la città è anteriore all’individuo.

Testo scelto: Politica I 2, 1252a25, 26 + 1253a1-25

1252a25 Se si esaminano le cose a partire dalla loro origine, qui come negli altri casi

si condurrà lo studio nel modo migliore.

1253a1 E’ evidente che la città (polis) è per natura, e che l’uomo è per natura un

animale politico (politikós): quindi, chi vive fuori dalla città (polis) per natura e non per

caso o è degradato o è sovra umano, proprio1253a5 come quello biasimato da Omero

“privo di fratria, di leggi, di focolare”. Infatti è così di natura e contemporaneamente

desideroso di guerra, giacché è isolato, come una pedina al gioco degli scacchi. Perciò è

chiaro che l’uomo è animale politico più di ogni ape e animale gregario. La natura,

infatti, come diciamo, non fa niente invano; 1253a10 e solo l’uomo, tra gli animali,

possiede la parola: certamente la voce è segno di ciò che è doloroso e gioioso, e per

questo ce l’hanno anche gli altri animali (fin qui giunge la loro natura, di avere la

sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di segnalarselo reciprocamente), mentre la

parola è fatta per mostrare il giovevole e il nocivo 1253a15 cosicché anche il giusto e

l’ingiusto; questo infatti è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli

solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, e delle altre cose; la

comunanza di queste cose costituisce la famiglia e la città. E per natura la città è

anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi. 1253a20 Infatti, il tutto dev’essere

necessariamente anteriore alla parte: infatti, soppresso il tutto, non ci sarà più piede né

mano, se non per omonimia, come se si dicesse una mano di pietra (tale sarà infatti una

volta distrutta), ma tutte le cose sono definite dalla loro funzione e capacità, sicché

quando non sono più tali non si deve dire che sono le stesse se non 1253a25 per

omonimia. E’ evidente dunque che lo stato (polis) è per natura e precede l’individuo.

La città è per natura

La prima frase mostra che A. ha lo scopo l’origine, l’evoluzione e lo

scopo dello stato. Per poter fare ciò, egli propone una sorta di metodo

genetico, cioè di considerare la storia dell’uomo politico dall’origine alla

costituzione dello stato. Tale analisi è basata sulla credenza, radicata in

Aristotele, nel progresso antropologico. Egli presenta una speculazione

antropologica progressiva e ottimista grazie alla sua tesi della teleologia

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82

naturale. nella parte non riprodotta del testo (quella che si trova tra la prima

fase è il testo che segue), Aristotele presenta il percorso che porta l’uomo

individuale alla polis, passando per le coppie uomo/donna,

padrone/schiavo, padre/figlio, per arrivare alla costituzione del villaggio e

poi alla polis.

Nella successiva parte del testo (“E’ evidente…gioco degli scacchi”)

Aristotele afferma che la città è per natura, e che l’uomo è per natura

animale politico. Abbiamo già visto la giustificazione della seconda

affermazione. Quanto alla prima, A. pensa che la città faccia parte delle

cose naturali come causa finale e come causa formale. Come causa finale

perché, come A. ha spiegato appena prima del passo, lo scopo della città è

l’associazione degli uomini, e la natura è un fine; come causa formale (cosa

che vedremo alla fine del testo) per ciò che si è già visto a proposito degli

organismi naturali. La città-stato è vista come un organismo le cui parti (i

cittadini) esercitano differenti funzioni che realizzano la loro essenza di

uomini. Sulla base della tendenza naturale all’associazione politica, A.

afferma che l’uomo è per natura animale politico, al punto che gli individui

al di fuori dello stato (per natura e non per caso: cioè essenzialmente non

politici) sono o degradati al livello delle bestie feroci (violenti come una

pedina isolata, forse non più umani), o sovrumani (abbiamo già visto che ci

dev’essere qualcuno che fonda le città, cioè che metta in moto la tendenza

naturale politica).

“Per ciò è chiaro che l’uomo…la famiglia e la città”.

L’uomo è animale politico più di ogni ape e animale gregario (per la

classificazione tra animali gregari, sociali e politici, vedi sopra, inizio della

lezione sulla Politica). La vera differenza tra l’uomo e gli altri animali

passa attraverso il linguaggio. Infatti, gli animali hanno la voce per

comunicarsi reciprocamente il doloroso e il piacevole (condizione

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necessaria ma non sufficiente per fondare lo stato. Ma solo gli uomini

hanno in più il linguaggio, grazie al quale manifestare il vantaggioso e il

nocivo, e in seguito il giusto e l’ingiusto, e finalmente il bene e il male.

Questi ultimi, rispetto al piacevole e al doloroso, sono valori sociali,

perché non hanno alcun senso al di fuori della vita in comune. Da questo

punto di vista gli uomini hanno uno strumento naturale in più degli altri

animali, il linguaggio, che permette la fondazione della città e della

famiglia.

La città è anteriore all’individuo

“E per natura la città è anteriore…è per natura e precede l’individuo”.

Abbiamo già visto questa tematica in rapporto alla teoria della teleologia

naturale. secondo A. la città è anteriore alla famiglia e all’individuo così

come il tutto è anteriore alla parte. Nei corpi di natura organica, infatti, le

parti si definiscono secondo la loro funzione e la loro virtù (nel senso di

capacità a svolgere la funzione in modo eccellente), in modo tale che se il

tutto è distrutto, anche la parte lo sarà, e resterà chiamata in modo

omonimo.

Esempio esplicativo: una mano si chiama mano e si definisce grazie alla

sua funzione nel corpo umano. se il corpo umano va distrutto, la mano non

avrà più la sua funzione. Essa continuerà a chiamarsi “mano”, ma senza

avere più la funzione grazie alla quale comprendiamo il termine “mano”

(sarà mano solo per omonimia: manterrà il nome, ma non avrà più la

definizione in comune con la vera mano, quella che svolge la propria

funzione nel corpo umano).

In questo modo A. ritiene di aver dimostrato che la città è per natura, e

anteriore all’individuo.

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12 La poetica

Testi principali: Retorica; Poetica

Torniamo un’ultima volta allo schema delle scienze che si trova

all’inizio di questa dispensa: scienze i) teoretiche (matematiche, filosofia,

ecc.), ii) pratiche (etica e politica) e iii) poietiche o produttive.

Le scienze produttive, di cui fanno parte retorica e poetica (ma anche le

tecniche), sono quelle che permettono di produrre qualcosa di differente

dall’azione stessa.

La Poetica, trattato molto breve, di cui ci è tra l’altro giunta solo una

metà, non parla tanto di emozioni, quanto di linguaggio. La maggior parte

di essa concerne ciò che i commentatori hanno considerato come un trattato

di teoria letteraria. Tuttavia, questo punto di vista non era quello di

Aristotele, perché per lui la Poetica sarebbe piuttosto un contributo alla

scienza poietica. Ciò significa che il suo scopo principale è quello di dirci

non come giudicare un’opera d’arte, ma come produrla. Infatti “poetica”

viene da poiein, che vuol dire “fare”, “fabbricare”.

Aristotele considera soprattutto la tragedia, e solo in modo subordinato

l’epica (la narrazione, come Iliade e Odissea). Ha sicuramente trattato

anche la commedia, ma la parte ad essa relativa non è giunta fino a noi

(sulla sua scomparsa si è basato il celebre libro di U. Eco Il nome della

rosa). Comunque si può dire che le osservazioni aristoteliche sulla tragedia

possono valere per l’opera d’arte in generale.

Natura e scopo dell’opera d’arte

Secondo Aristotele ciò che il poeta produce è un’imitazione (poiesis). Le

parole per il poeta sono come il legno per falegname. Il falegname non

produce del legno, ma se ne serve per produrre un tavolo; allo stesso modo

il poeta non produce delle frasi ma se ne serve per produrre un’imitazione

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degli eventi umani. L’oggetto della Poetica non è quindi la letteratura

concepita come prodotto delle belle lettere, ma una finzione nel senso di

una imitazione della realtà. Il problema è allora quello di come produrre

delle buone imitazioni.

C’è quindi una differenza di scopo tra la poesia e per esempio la storia:

Tucidide ed Erodoto avevano lo scopo di dire la verità sugli eventi umani

passati, Omero e Sofocle invece avevano lo scopo di produrre delle

imitazioni. Ma di cosa? Come sappiamo, si ha imitazione quando si

produce qualcosa che non esiste, ma che è un po’ come le cose che

esistono. Un caso celebre in Grecia era quello di un pittore che aveva

dipinto un quadro che raffigurava dell’uva. L’imitazione era così perfetta

che gli uccelli andavano a beccarla. Nella stessa maniera, Omero ha

prodotto dei guerrieri e dei personaggi come Ulisse che sono uomini, ma

non veri, e delle guerre che non hanno avuto luogo, almeno così come le

racconta Omero. Però Omero ha prodotto una cosa come la guerra, e dei

personaggi come degli uomini, e questo grazie alle parole. Aristotele non

ha concepito l’idea di un’arte non imitativa (come per esempio la pittura

astratta), probabilmente per ragioni storiche, e cioè che i quadri astratti non

esistevano. A. spesso infatti teorizza a partire dall’esperienza. Come

abbiamo visto, la sua teoria politica si basa sulla politica greca dell’epoca;

allo stesso modo la sua poetica si basa sulle opere poetiche che si

producevano alla sua epoca.

Due tipi di poesia

A. distingue due tipi di poesia:

i) quella drammatica: si tratta delle opere teatrali, cioè della tragedia

(come ho detto prima A. ha probabilmente trattato anche la commedia, che

però non possediamo più);

ii) la narrazione: si tratta dei poemi omerici, anche se è vero che le opere

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omeriche talvolta diventano un po’ drammatiche, quando per esempio

Ulisse parla in prima persona.

Comunque, come si è già detto, Aristotele si occupa soprattutto della

tragedia.

La tragedia e la catarsi

Lo scopo della tragedia è la catarsi (katharsis), la purgazione delle

emozioni. Come vedremo nel testo scelto, secondo A., attraverso la pietà e

la paura, la tragedia porta a compimento la purgazione di queste emozioni.

Questa è una teoria celeberrima e molto contestata. Sicuramente A. utilizza

il termine catarsi in modo metaforico, ma ci sono due metafore esplicative

possibili:

a) una è la purificazione religiosa: una volta purificati, si resta con le

proprie emozioni, ma in forma moderata;

b) un’altra è la purgazione medica: si prende un vomitivo, e vomitando

ci si purga sia delle emozioni, sia del vomitivo stesso. In tale contesto, le

emozioni dovrebbero sparire.

L’idea è insomma la seguente: assistiamo alla tragedia, e nella tragedia

vengono compiuti degli atti che suscitano paura e pietà. Inseguito, si

produce la catarsi, il che significa che espelliamo queste emozioni, che

sono anche le stesse emozioni che producono l’espulsione (il vomitivo).

Alla fine, saremo purgati di queste emozioni. nel primo caso, invece, quello

della purificazione religiosa, conserviamo le emozioni, ma in forma

moderata.

Non è facile stabilire in quale dei due sensi Aristotele utilizzi il concetto

di catarsi. Altri testi suggeriscono forse la purgazione medica.

Ci sono però alcune perplessità riguardo questa teoria:

1) non sembra che sia ciò che realmente accade quando assistiamo alla

tragedia. Non pare vero che, una volta vista la rappresentazione di Edipo

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re, si ritorni a casa con le emozioni più moderate, o anche senza emozioni;

2) di fatto Aristotele non spiega come avvenga questa purificazione.

Testo scelto: Poetica 6, 49b22-50a10

49b22 Discutiamo ora la tragedia, ricavando da ciò che si è detto quella che risulta la

sua definizione essenziale. Tragedia è dunque (1) rappresentazione (mimesis) di

un’azione nobile e completa, avente una propria grandezza, (2) con linguaggio elevato

49b25, separatamente per ciascuna delle specie nelle sue parti, (3) di persone che

agiscono e non tramite una narrazione, (4) la quale, per mezzo di pietà e paura, porta a

compimento la purificazione (katharsis) di siffatte emozioni.

Dico ‘linguaggio elevato’ quello fornito da ritmo e musica; separatamente per le

49b30 specie il comporre alcuni solo con versi, altri invece col canto. Poiché è agendo

che si realizza la rappresentazione, anzitutto di necessità una parte della tragedia sarà

spettacolo, un’altra la musica e un altro lo stile. E’ con questi mezzi che si realizza la

rappresentazione. Intendo per stile la stessa composizione 49b35 dei versi e per canzone

ciò la cui funzione è perfettamente chiara. Poiché è rappresentazione di un’azione, e un

atto è compiuto da attori, che devono avere un certo carattere quanto alle loro

disposizioni e quanto alle loro idee (grazie a questi noi diciamo anche 50a1 che le

azioni sono dotate di una certa qualità, ed è in seguito ad esse che tutti hanno successo o

falliscono), rappresentazione dell’azione è la storia (mythos); per storia intendo 50a5 la

composizione delle cose, per caratteri ciò secondo cui diciamo che chi agisce ha una

propria qualità, per pensiero tutto ciò con cui, parlando, si dimostra qualcosa o si

esprime un giudizio. E’ quindi necessario che di ogni tragedia ci siano sei parti grazie a

cui la tragedia ha una propria qualità: storia, caratteri, stile, 50a10 pensiero, spettacolo e

musica.

Questo testo è estremamente celebre anche per la storia del teatro. Infatti

la definizione della tragedia qui contenuta è stata presa a modello per la

produzione delle opere teatrali del XV-XVI secolo.

Il primo paragrafo definisce la tragedia. Il secondo paragrafo presenta

una serie di deduzioni a partire dalla definizione che stabiliscono le sei

parti essenziali della tragedia.

Definizione della tragedia

“Discutiamo la tragedia…di siffatte emozioni”.

La prima osservazione da fare è che non si tratta di una definizione

standard (del tipo genere + differenza specifica), ma di un’enumerazione di

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quattro elementi essenziali:

(1) si tratta di una rappresentazione perché, come abbiamo visto, la

poetica è mimesis, imitazione di un evento tramite parole;

- è rappresentazione di un atto completo. E’ possibile che si tratti di un

solo atto? E in che senso parla di “atto”? Parla davvero di una sola azione,

o di un evento, costituito da più azioni?

Inoltre, che significa “atto completo”? Per esempio, Edipo re ha una

continuazione (Edipo a Colono), e quindi non sarebbe completo, almeno

nel senso di “finito”.

- Aristotele poi parla di atto nobile, nel senso che non è qualcosa di

quotidiano.

- infine parla di atto che ha una sua grandezza, forse nel senso di

“importanza” o “influenza” che questo atto può esercitare sullo spettatore.

Ma perché affermare che tutto ciò è tipico della tragedia? Normalmente

si crede che ciò che è tipico della tragedia è che accade sulla scena

qualcosa di catastrofico, per esempio che muoiono tutti. E’ curioso che,

enumerando gli elementi della tragedia, Aristotele non menzioni questo,

che sembra il più caratteristico.

(2) la rappresentazione dell’atto dev’essere scritta in un linguaggio

elevato, “separatamente per ciascuna delle specie nelle sue parti”.

Aristotele spiega subito dopo che “linguaggio elevato” significa linguaggio

fatto di parti differenti, cioè versi e canzone. Quindi, quello che vuol dire è

semplicemente che la tragedia è un’imitazione prodotta da un linguaggio di

specie differenti, versi e versi in musica.

(3) questa rappresentazione si realizza tramite personaggi che agiscono e

non tramite narrazione. Qui Aristotele vuol semplicemente dire che la

tragedia è drammatica (drama = azione) e non narrativa, cioè che i

personaggi parlano e agiscono in prima persona, non grazie allo scrittore

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che racconta lui cosa succede.

(4) questa rappresentazione, tramite pietà e paura, giunge alla catarsi di

tali emozioni. Abbiamo già parlato di questa parte e delle due possibili

interpretazioni della catarsi.

Deduzioni

“Poiché è agendo…spettacolo e musica”.

Qui Aristotele deduce le sei parti della tragedia:

a) storia (la trama)

b) disposizione

c) stile

d) pensiero (dei personaggi)

e) spettacolo

f) musica.

La teoria di Aristotele è che queste sei parti sono conseguenze dirette

degli elementi della definizione della tragedia data, cosa che non è sempre

evidente.

In particolare, ci sono quattro parti che derivano dal primo elemento, e

due che derivano dal terzo.

(1) rappresentazione di un atto: da esso derivano spettacolo, musica,

stile, storia. D’accordo per la storia e lo stile (che è il mezzo di imitazione

dell’atto), ma perché credere che spettacolo e musica derivino direttamente

ed essenzialmente dalla tragedia come rappresentazione di un atto?

Per lo spettacolo si è proposto di considerare la seguente soluzione: lo

spettacolo è una rappresentazione visuale di un atto, ma anche un

meccanismo che ci tocca e che provoca in noi la catarsi.

Per la musica, invece, che è realizzata da canzoni cantate dagli individui

e dai cori, si è pensato che Aristotele non stia occupandosi della tragedia,

ma dell’opera tragica, quella che oggi chiamiamo opera.

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Si noti poi che lo stile riguarda solamente la composizione in versi,

ragion per cui è impossibile per A. avere una tragedia in prosa.

(3) Rappresentazione che si realizza tramite personaggi.

Da quest’altra caratterizzazione derivano gli altri due elementi essenziali

della tragedia, la disposizione e il pensiero dei personaggi. Aristotele

spiega che sono disposizione e idee che spingono i personaggi ad agire.

Aristotele in particolare spiega che la disposizione è il carattere dei

personaggi (per esempio, la disposizione ad agire male), mentre le idee

sono ciò che i personaggi esprimono attraverso le loro opinioni e

ragionamenti. L’importanza della disposizione e delle idee deriva

ovviamente dal fatto che sono esse che fanno agire i personaggi in vista

della realizzazione dell’atto tragico.