Intervista a Jakuta Alikavazovic

11
Alice Volpi intervista Jakuta Alikavazovic intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.47 Pagina 1

description

Jakuta Alikavazovic intervistata da Alice Volpi

Transcript of Intervista a Jakuta Alikavazovic

Page 1: Intervista a Jakuta Alikavazovic

Alice Volpi intervista Jakuta Alikavazovic

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.47 Pagina 1

Page 2: Intervista a Jakuta Alikavazovic

2

L’architettura occupa un ruolo importante in Fugain blu, anzi è la prima cosa che si impone al lettore,grazie a quel prologo dedicato al cinema Londra-Luxor, luogo fantomatico e maestoso che diventa unvero e proprio personaggio, se non il protagonista dellibro. Era però già presente in Corps volatils (Points,2010), come una cancellazione, una disgregazione…L’architettura è innanzitutto un mezzo di localizza-zione e di identificazione, al contempo visivo e men-tale, perché abbiamo da un lato l’apparenza, lafacciata, e dall’altro la profondità e lo spazio interno.Dopodiché, c’è evidentemente la metafora della let-teratura come architettura, la metafora proustianadel libro-cattedrale. Io non ho certo la pretesa di scri-vere libri-cattedrale, ma scrivo dei libri-cinema…deserti. E poi l’architettura ha in sé un elemento ditensione, perché mi sembra davvero di parlare del-l’umano, della necessità di trovare un rifugio, unpunto fermo. E, nello stesso tempo, è una negozia-zione perenne con le forze del tempo e della distru-zione. Ha sempre bisogno di essere preservata.In Corps Volatils c’era questo versante, cupo e apo-calittico, o meglio malinconico, dell’architettura. Lapioggia corrodeva le facciate, a poco a poco tuttoscompariva. Qui si tratta piuttosto del luogo di unosradicamento, di una compensazione per delle per-sone che non hanno un loro territorio e che, diconseguenza, si appropriano di questo. Un luogoestremamente massiccio e imponente nella sua ar-chitettura, quasi un bunker, e che al tempo stessomantiene un lato immateriale e del tutto fittizio. Èun cinema, un luogo di circolazione di immagini,di fantasmi, di proiezioni. E ci sono queste personeche sono in qualche modo amputate di una parte diloro. Sono figli della diaspora che, di conseguenza,avvertono la mancanza di quel territorio. C’è dav-vero una tensione tra la volontà di conservare el’impossibilità di farlo. Un’impossibilità inevitabile,per ché il peggio è sempre certo.

In questi luoghi, però, c’è anche un aspetto memo-riale. Voglio dire che, oltre all’aspetto puramente ar-chitettonico, il luogo ha in sé anche la memoria ditutti i fatti che vi si sono svolti. Ci sono personaggi

A un occhio esperto,il Londra-Luxor ricorda il Medical College di Richmond, Virginia (1845), dedicato all’architetto, nonché medico, Imhotep. I muri dell’edificio si restringono verso l’alto, contrariamente a quelli del portico, che si allargano.La National Geographic Society ha lodato inoltre la monumentalità dell’edificio,accentuata dall’assenza quasi totaledi finestre.

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.47 Pagina 2

Page 3: Intervista a Jakuta Alikavazovic

3

che appaiono e scompaiono, tracce di quello che èavvenuto in passato.È vero, è proprio il luogo come posto della traccia edell’apparizione. Io ho sempre più la tendenza aconsiderare la letteratura come un fenomeno di ap-parizione di fantasmi. Ed è proprio quello che suc-cede nel cinema. C’è questa specie di stratificazionedella storia, che conduce fino ai fatti più recenti. Ei protagonisti sono inevitabilmente coscienti di fareparte del passato del luogo, che alla fine si incarnae torna a riproporsi. In realtà, è un po’ come unacasa infestata. Ma con qualcosa di più astratto, dipiù letterario, più verbale…

C’è anche, mi pare, una parte di gioco. In questa cor-nice antica incontriamo una galleria di personaggibizzarri, strampalati. Si ha l’impressione di trovarsiin certi film muti. C’è questo aspetto un po’ strano,in cui tutto è amplificato. C’è insomma un lato visivomolto forte. Inoltre, il romanzo è ambientato in uncinema in cui si muovono personaggi che hannoqualcosa di molto cinematografico. Quali sono statele tue fonti di ispirazione in questo senso?È interessante quello che dici sul cinema muto, per-ché ripensandoci è proprio vero. Ci sono influenzedi cui uno è perfettamente cosciente, come Ladonna che visse due volte di Hitchcock. Tutto quelloche avviene nel libro, o almeno tutto quello che av-viene all’inizio, e che innesca la narrazione, è esat-tamente come nel film di Hitchcock, con questastoria di una donna che cambia colore di capelli.E anche il cinema muto, sì, senza dubbio. Non ciavevo pensato, ma se ci penso ora è evidente. C’èperfino il personaggio del messicano, detto “ilMimo”, che è un personaggio muto, che ha fatto delsilenzio una sorta di sacerdozio. Poi, un’influenzacostante per me sono i film noir degli anni Quarantae Cinquanta: Un bacio e una pistola di Aldrich, peresempio, che trovo un film straordinario. Ne parloanche nel libro che sto scrivendo adesso. Sì, ho unapercezione della realtà che in un primo momentoè molto visiva, forse è un po’ un’ipertrofia della vi-sione… Inoltre, trovo che il processo di conver-sione sia molto interessante: capire come qualcosa

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.47 Pagina 3

Page 4: Intervista a Jakuta Alikavazovic

4

che non è letteratura diventi letteratura. Come unaforma d’arte, o un fenomeno, lasci una traccia pu-ramente verbale. Ci penso spesso. Voglio dire, allefrizioni tra i diversi modi espressivi.In Fuga in blu c’è una galleria di personaggi un po’umoristici, che si muovono all’interno di situazionistrane. A volte faccio in modo che si senta che èfinto. Proprio come nei film in technicolor si sen-tono le luci. In certi film di Hitchcock non si puòdire che i colori siano esattamente quelli della vitavera! Tutto è fatto in modo da mostrare l’artificio e,nello stesso tempo, da fare in modo che dopo un po’ce ne si dimentichi.

In Fuga in blu affronti la questione della guerra nellaex Jugoslavia, ma lo fai in modo indiretto. Il conflittoha un peso determinante sulla vita dei personaggi esui loro rapporti, ma agisce segretamente, come unnon detto. Cosa ha motivato questo approccio?Molto probabilmente la mia esperienza personaledel conflitto. I miei genitori sono originari della exJugoslavia. Mia madre viene dalla Bosnia, mio padredal Montenegro. Io sono nata a Parigi e ho semprevissuto in Francia. In Jugoslavia ci andavo durantele vacanze. Parlo il serbo-croato, anche se l’ho unpo’ dimenticato. E quindi all’epoca percepivo tuttocon questo sfasamento, questa distanza. Natural-mente la guerra era al centro delle mie preoccupa-zioni. Ma c’era questa distanza che a me sembravainfinita. E soprattutto ero molto giovane, una ra-gazzina. E questa specie di sfasamento… era molto

difficile. Tutto sommato, non ci dicevano molto.Prima di tutto, perché le informazioni non circola-vano granché. Era prima dell’esplosione di internet.La sera ascoltavamo Radio France Internationale,qualche volta avevamo gli aggiornamenti via tele-fono, ma non sempre era possibile. Tutto era im-merso in quel silenzio. Questo ha lasciatoun’impronta abbastanza forte su di me. A livello per-sonale, era una novità per noi, perché nella mia fa-miglia ci piace confrontarci su tutto. E in quelmomento, all’improvviso, c’era una nuova qualità disilenzio. E di inquietudine. Non c’era nessuna pos-sibilità di dialogo mentre quei fatti accadevano.Prima c’erano delle discussioni politiche. Ma a quelpunto, era finita. Dopotutto, non si può vivere il dia-logo politico nello stesso modo quando c’è un con-flitto in corso e si hanno parenti in pericolo, quandotutto è minacciato dalla rovina e dalla distruzione.Quindi il discorso non aveva più quella qualità digioco che aveva prima nella conversazione. L’artedella conversazione era scomparsa. All’improvviso,c’era solo preoccupazione. Un silenzio che nonavevo mai conosciuto prima.

Parlando delle persone che vengono dai Balcani, diciche la cosa che sanno fare meglio è mantenere il si-lenzio. Pensi che sia una qualità tipica delle personeoriginarie dei Balcani o è solo una battuta?Lo dicevo per ridere, e anche per tagliare l’erba sottoi piedi a un certo tipo di cliché sui Balcani. Il clichésecondo cui portiam gonne lunghe e beviamo vino

Dentro c’erano, oltre al cameriere, un vecchio messicano che chiama-vano “il Mimo” e sembrava vivere immerso in un torpore da mezcal,e un ragazzo eccessivamente spettinato (frutto della pazienza e delladestrezza), ingentilito da una cravatta sottile e da una piccola cicatricesu uno zigomo, che lavorava, ritratto della serietà e della concentra-zione. Era abbastanza commovente, in quanto mancino. Per questaragione (e in mancanza di carta assorbente), era tutto coperto diinchiostro, un inchiostro blu notte che strappava le parole a sé stesse.

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.47 Pagina 4

Page 5: Intervista a Jakuta Alikavazovic

5

mangiando formaggio di capra… Il cliché che chia-merei dei “Balcani-fisarmonica”, che è ancora incircolazione, soprattutto grazie a Kusturica. Era piùche altro un modo per riderci sopra. Al di là di que-sta situazione penso che il silenzio sia una virtù, sì.Sono intimamente convinta che l’ellissi, il nondetto, gli spazi bianchi e il silenzio, siano quantoc’è di più interessante in letteratura. Eppure, perrenderne la qualità siamo obbligati a parlarne. Citroviamo di fronte a una specie di ossimoro. Comeesprimere qualcosa che non è stato detto, che si fa fa-tica a dire, che non si può dire? E, alla fin fine, comedirlo? Penso che la cosa non sia priva di interesse.

In Fuga in blu la maggior parte dei personaggi siportano sulle spalle il peso di un passato compli-cato. E tuttavia riesci a farne degli esseri leggeris-simi, direi aerei, che rivendicano il loro diritto adimenticare. Questa rivendicazione del diritto al-l’oblio di sé stessi e di una storia traumatica è abba-stanza rara. Abbiamo più spesso a che fare con unaletteratura della memoria. Qual è la tua visione dellamemoria e dell’oblio?Al di là della necessità di una memoria sociale, e po-litica, se considero l’aspetto estetico, artistico, dellaquestione (ripeto, non parlo della mia visione so-ciale e politica), ho una visione della memoria chein realtà si ispira molto alla mnemotecnica. E, tor-nando alla prima domanda, è per questo che i luo-ghi sono così importanti. La mnemotecnica è unatecnica medievale di memorizzazione, un modo perricordare, perché all’epoca era complicato conser-vare i testi. E quindi bisognava assicurarne la conti-nuazione dentro di sé. La propria testa era ancorail posto più sicuro per salvaguardarli. E in questatecnica di ricordo ritroviamo il motivo architetto-nico. In pratica, ci si immagina uno spazio e si di-spongono le parti del discorso che si voglionoricordare, i vari episodi dei poemi epici per esem-pio. Stiamo parlando di testi di una lunghezza incre-dibile. È uno strumento che abbiamo perso.Insomma, disponi nello spazio quello che vuoi ricor-dare, e poi quando sei in una situazione di parola, dideclamazione, attraversi mentalmente quello spazio.

E grazie allo spazio che ti sei costruito nella testa,tutto ritorna. Basta entrarci. Per esempio, se dici:«Ho messo mio figlio in salotto» (è una specie dianalisi selvaggia, la mia!), oppure: «Nella bibliotecac’è la mia prima storia d’amore» eccetera. Basta at-traversare le stanze con la mente e tutto ritorna. Perconcludere, ciò che è molto interessante in questetecniche, e che ritroviamo menzionato nei nume-rosi trattati sull’argomento, è l’ultimo stadio del-l’arte della memoria, lo stadio più raffinato e piùcomplicato da padroneggiare che è l’arte dell’oblio.Perché, di tanto in tanto, è necessario azzerare tutto.Era considerata una vera e propria arte, e penso cheabbia avuto una grande influenza su di me. Ancheperché, di fatto, la possibilità del perfetto oblio stascomparendo sempre di più. In parte perché è in-dubbiamente impossibile per l’uomo, dal momentoche, comunque sia, ci sono sempre i sintomi chetornano a galla. La psicanalisi ne ha fatto strumentidi conoscenza, ma anche una fede. Nel senso che cidice che non è possibile dimenticare, e che se le coseriemergono siamo obbligati a confrontarci con esse.E d’altra parte è vero anche in termini di tecnologia,perché ci sono tracce ovunque. E anche quello checredevamo scomparso torna a galla, negli archiviinformatici, nella digitalizzazione dei manoscritti.È una specie di flusso generale, di memoria esternaall’individuo, che fluttua tra le nuvole. E alloraquello che mi chiedo è: esiste ancora un diritto al-l’oblio oggi? Ho accennato un po’ al libro che stoscrivendo adesso, che parla molto di questo.

Giusto per curiosità, in cosa consisteva la tecnicadell’oblio?Allora, c’erano diverse tecniche. Ce n’era una che misembra molto pratica, e che consiste nel cancellarementalmente un quadro. A poco a poco ti sbarazzidi tutto. Praticamente è un esercizio di meditazione.L’altro procedimento di cui ho avuto notizia pre-vede di immaginare tutto quello che si è memoriz-zato come dei personaggi, e di farli saltare fuoridalla finestra. È estremamente violento, l’oblio. Haqualcosa di una purificazione, e quindi di un sacri-ficio, di un assassinio. C’è una violenza nell’oblio,

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.47 Pagina 5

Page 6: Intervista a Jakuta Alikavazovic

6

ma una violenza che è necessaria, se controllata.Personalmente, quello che mi inquieta è l’incom-piutezza. Che può essere l’incompiutezza della me-moria di cui non si ha un controllo completo, chenon è interamente vissuta, e che perciò è una me-moria subita. Oppure l’incompiutezza di un oblioche in realtà non è un vero e proprio oblio, e chequindi prende la forma di un sintomo. Non pensarea qualcosa non significa averlo dimenticato.

Fuga in blu può essere letto anche come una rifles-sione sulla perdita delle origini. In particolare, defi-nisci la condizione degli esuli balcanici come unadistanza tra due punti di cui uno è perso per sempre.E d’altra parte, le due protagoniste, Esme e Arianasono caratterizzate una dalla sua assenza, e l’altradalla sua astrazione. Mi sembra che, in fondo, sitratti di due immagini di questa condizione ambi-gua. Da dove viene questa idea?Viene probabilmente dalla difficoltà che hanno lepersone a dire le cose, ad attribuirgli un nome. Pocofa, per esempio, ho detto: parlo il serbo-croato. Que-sta lingua si chiamava così quando ero piccola,quando l’ho imparata, ma adesso non si chiama piùcosì. C’è tutta una frammentazione del territorio, deinomi, del modo in cui chiamiamo le cose. E alla fine,uno è obbligato, ogni volta che ne parla, a riconfigu-rare tutto in modo intellettuale, per sé e per il suo in-terlocutore. C’è una distanza, un bisogno diintellettualizzare qualcosa che normalmente è unoslancio spontaneo della persona: l’origine è l’origine,la casa è la casa. Ma una volta che non c’è più, deviripassare ogni volta per quel frammento di storia di-struttrice che ha portato a fare di un luogo che esi-steva una finzione, o un passato. Che poi è la stessacosa. E allora mi chiedo: com’è che si fa? Era questal’idea.

L’idea della sospensione, dello scarto, di non essere néqui né là, può secondo te applicarsi alla condizione diqualsiasi esule, o la vedi più come una cosa propriadegli esuli dei Balcani?No, credo che sia una proprietà dell’esilio in gene-rale e più il ritorno è impossibile, più penso che

Amleto è la sede di un dolore.Vuole dormire non nell’oblio, ma nell’assenza; vorrebbe essere finalmente indifferente al dolore,vorrebbe essere un meccanismo.I miei pensieri sono le piaghe delmio cervello, il mio cervello èuna cicatrice. . . Braccia per af-ferrare gambe per camminarenessun dolore nessun pensiero.Lo zio si esercitava a recitarlo, dinotte, e questo testo rivelava lanatura profonda della sua per-dita, che era nello stesso temposimile a quella delle sorelle ediversa.

questo sentimento di perdita sia forte. La perditadei punti di riferimento, il disorientamento è po-tenziato ancora di più da quello spostamento for-zato che sono la diaspora, o l’esilio. E anchequando lo spostamento è scelto, in realtà è indottoda ragioni economiche o di altro tipo, e quindi su-bisci comunque un po’ questo disorientamento,questa perdita. Sia che si tratti di uno status sociale,della lingua materna, sia della necessità costante disaper rispondere in un’altra lingua. Il che puòanche essere una liberazione. Dipende dal modo incui è avvenuto lo spostamento, immagino. Ma c’è,per forza di cose, uno scarto dello sguardo. EdwardSaïd, in Riflessioni sull’esilio, finisce per dire (no,non so se finisce per dirlo, ma è così che me lo ri-cordo) che in definitiva la letteratura è questosguardo dell’esilio/dell’esiliato, per cui si è nellostesso tempo fuori e dentro.

Il tema della perdita era già al centro dei tuoi libriprecedenti, Histoires contre nature e Corps volatils.

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.47 Pagina 6

Page 7: Intervista a Jakuta Alikavazovic

7

Che ruolo ha nella tua scrittura?Per me si tratta davvero del motore della scrittura,o meglio del vuoto che permette il dispiegarsi dellanarrazione. È il vuoto del mozzo che fa girare laruota. È il vuoto centrale intorno a cui è costruitala ruota e che consente la rotazione, il movimento.E la letteratura è movimento. È un’arte del tempo,un dispiegarsi del tempo. Credo davvero che questamancanza originaria, questa perdita, che certoprende forme diverse a seconda dei libri, della miaevoluzione personale, sia un momento che c’è sem-pre. Può essere un punto cieco, oppure un’ellissi,

come in Histoires contre nature. Sono una specie dinovelle che si dispongono a raggio, come fram-menti intorno a un vuoto centrale che non è maichiaramente esplicitato. Anche in Corps volatils c’èla perdita, ma sotto un altro aspetto. Sì, è indub-biamente il motore della scrittura. Anche se è piùun dispositivo che il risultato di una perdita per-sonale. O se perdita c’è, potrebbe essere una per-dita di cui non ho coscienza e che si esprime nellaletteratura.

Fuga in blu è la storia di due sorelle che si riflettonol’una nell’altra come in uno specchio. D’altra parte,il tema dello specchio trova un riferimento concretonella galleria degli specchi del Londra-Luxor. Etutto il testo funziona in fondo come un gioco dispecchi, con delle corrispondenze più o meno na-scoste. I tuoi specchi però rinviano dei riflessi chenon sono mai del tutto simmetrici. Ci sono sempredelle false corrispondenze...È uno dei motivi che mi vengono dalla letteraturadi genere. Dal cinema e dalla letteratura di genere.È quasi il doppelgänger, il doppio inquietante, losdoppiamento. Uno dei momenti più angosciantidella storia del riflesso è il momento del riflesso au-tonomo. Il momento del distacco, quando all’im-provviso il tuo riflesso acquista un’autonomia. Questidevono essere ricordi cinematografici dell’infanzia,perché ho veramente in mente delle scene precise.All’improvviso il tuo riflesso vive di vita propria, edè come se la tua personalità fosse passata in lui. Èun motivo che ritroviamo molto recentemente inLynch, ma che in realtà attraversa tutto il genere delfantastico inquietante.

In Lynch, però, c’è un aspetto barocco abbastanzaevidente. Anche nel tuo libro, mi pare che ci sia qual-cosa dello specchio barocco. Avevi in mente qualcheopera o artista?È molto divertente lo specchio barocco. E più chesoltanto lo specchio, tutte le superfici riflettenti. Al-l’inizio del libro incontriamo il personaggio di Va-léry, che scomparirà abbastanza rapidamente.Valéry si guarda in un cucchiaino e dice, se non

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.47 Pagina 7

Page 8: Intervista a Jakuta Alikavazovic

8

sbaglio, che il suo riflesso non è conforme all’ori-ginale. Non lo giudica conforme, e quindi lo can-cella. Questo riflesso distorto è lo specchiobarocco, nella sua dimensione di gioco, e anche dimalinconia. La malinconia allo specchio. Penso aun quadro del Parmigianino che si chiama Autori-tratto allo specchio convesso. La mano che dipingeè molto più grande rispetto alla scala. L’artistamette in rilievo, fa risaltare lo strumento della crea-zione, la sua mano. Trovo estremamente interes-sante il fatto di giocare con il riflesso, cambiare lascala di grandezza, deformare una prospettiva inmodo da mettere qualcosa in risalto. Si può spin-gerlo sul versante della deformazione, come nelcaso di Valéry e del suo cucchiaino, come sul ver-sante della prova, degli indizi. Ma sempre in ma-niera ludica, un po’ come per la galleria deglispecchi. Siamo comunque nell’àmbito del gioco.

C’è tuttavia anche qualcosa che ha a che vedere conl’illusione. Qualcosa del mondo alla rovescia, del rap-porto tra reale e immaginario…Quello è lo specchio di Alice, è l’altra parte dellospecchio, il passaggio alla finzione, al gioco, alla let-teratura. Tutti i mezzi di rappresentazione che pos-sono essere la letteratura, o il cinema, o la pittura,sono nello stesso tempo specchi e finestre. Ha a chevedere con l’opaco e il trasparente. È un’illusione,nel senso che si tratta di una finzione, di una costru-zione, ma possiamo anche giocare con i gradi di rea-lismo, di fedeltà al reale. O al contrario, possiamopartire completamente verso l’illusione e mostrarlain quanto illusione, che esibisce la sua struttura e siimpone in quanto tale. E che diventa autonoma. An-cora una volta è il riflesso che prende il sopravvento.

Sempre restando sul piano degli sdoppiamenti, c’ènella tua scrittura una seconda voce, spesso intro-dotta da trattini o parentesi, che interviene a modi-ficare il racconto con commenti burleschi o ironici,spesso contraddittori. Essa produce un effetto di in-certezza che rimette in causa la stabilità di quelloche viene raccontato. Il che corrisponde perfetta-mente all’idea di vivere in un mondo instabile e

Il piano superiore del Londra-Luxor era un monumento al disorientamento; lo zio vi aveva provveduto lui stesso. Aveva supervisionato di persona la posa di pareti scorrevoli, paraventi e grandi specchi che rendevano lo spazioimpossibile da capire.

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.47 Pagina 8

Page 9: Intervista a Jakuta Alikavazovic

9

Sì – proprio un tizio del centre Pompidou. Un signor nessuno, davvero– un sorvegliante di sala. Un tipo giovane che aveva dei soldi e volevabarattarli con una certa gradazione di blu.

Fuga in blu è un libro attraversato dal colore, daquesto blu che appare e scompare. Cosa rappresentaper te questo colore?Non lo so, certe volte si è ossessionati da alcune coseche impregnano completamente la scrittura comeun tessuto che viene dipinto. E qui il blu era davveroquell’immagine che c’è in una delle ultime scene dellibro, e che in realtà è la prima scena che ho scritto.E poi, sai, quando uno scrive è un po’ stupido, soc-combe al fascino di un’immagine, di una scena, diuna musica interiore. Sì, uno diventa stupido, stu-pido come un innamorato. Dovevo assolutamentecapire cosa significasse quella prima scena, che inrealtà poi ho spostato alla fine del libro. Il libro si ècostruito su questa inversione. L’ultimo blocco cheè andato a costituire il libro è stato il Londra-Luxor.Fuga in blu è esistito quindi per molto tempo senzail Londra-Luxor. Torniamo sempre alla questionedello specchio!Perciò il titolo italiano del libro [in originale: LeLondres-Louxor] ha eliminato questa inversione. Ècome un ritorno alle origini della scrittura!

In Fuga in blu, però, il blu rappresenta anche la per-dita, la scomparsa. E nello stesso tempo è qualcosa dimolto prezioso: ci sono dei personaggi che lo rubano,altri che lo tengono nascosto come un tesoro. È un’idea legata a certi tipi di blu. E anche a quel-l’espressione francese che ha dato nome a un profumo:l’or bleu. È un’espressione magnifica e, per moltotempo, non essendo cresciuta in una famiglia franco-fona, non sapevo cosa significasse. Era qualcosa di mi-sterioso. Naturalmente, indica il momento delcrepuscolo, un momento che associo alla malinconia.Da qui viene questa costruzione della perdita. Ma inrealtà il blu come colore, come tecnica, come caricasimbolica, ha una lunga storia, perché è stato il coloredell’apparizione, e in particolare dell’apparizione della

opaco espressa da alcuni personaggi, come il Vicepre-sidente. Ma questa voce sembra essere anche qual-cos’altro…Io la sento come una specie di commentatore si-multaneo, in un certo senso. Corrisponde, primadi tutto, al rapporto che ho con il mondo, un rap-porto in cui c’è una voce che mi interroga su quelche succede. Ma mi sembra corrispondere ancheall’epoca, che è completamente invasa da rappre-sentazioni, illusioni, nozioni spesso contraddit-torie. E rispetto alle quali c’è una distanza. La pa-rentesi è una tecnica che mi appassiona. Perché,in qualche modo, è sia la voce dello scrittore nellalettura che, quando uno scrive, la voce del lettorenello scrittore. E poi soprattutto mi diverte mol-tissimo, mi fa ridere il fatto di creare questa spe-cie di presa di distanza attraverso la parentesi, at-traverso questa voce ironica senza un locutoreimmediatamente identificato o identificabile. Latroviamo in tutti i passaggi alla terza persona, intutto quello che è stile indiretto libero, dove in de-finitiva siamo dentro alla testa dei personaggi, enello stesso tempo non lo siamo, perché è una pa-rola indiretta, il frutto di una mediazione. E que-sto corrisponde anche a un principio architetto-nico. È quasi l’equivalente dell’illusione del luogo.Ogni volta, suona falso (è un po’ come i murivuoti, i controsoffitti, quella roba fintoegizia…).Suona falso ed è questa risonanza che entra ingioco nelle parentesi. Per ritornare a quello chedicevamo prima, è come il vuoto necessario al-l’interno della ruota. Ma è anche il vuoto neces-sario all’interno della struttura architettonica.Non si costruiscono dei tubi pieni, li si svuota,dopodiché abbiamo effetti d’eco. Penso che inquesta specie di seconda voce ci sia un po’ di tuttoquesto. Ma soprattutto, la trovo divertente, mi faridere.

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.47 Pagina 9

Page 10: Intervista a Jakuta Alikavazovic

10

vergine. È un colore nobile, perché in un certo sensoè il colore più immateriale. Quindi mi sembrava cor-rispondere perfettamente a questa estetica tra incar-nazione dei personaggi e suggestione, evanescenza, aquesta specie di incertezza sulla loro natura, sulla lororealtà. Penso che il blu si imponga come colore, allostesso titolo per cui i personaggi si impongono comepersonaggi di finzione. Non c’è una volontà di reali-smo. O forse il reale è ciò che è già andato perso.

La questione dello spazio, della geografia, è centralenel tuo libro. È una questione che, sotto diverse forme,ritorna nell’opera di molti autori contemporanei fran-cesi (basta pensare al manifesto per una “letteratura-mondo” o ai libri di Maylis de Kerangal). Da doveviene questo tema, quest’idea delle mappe, delle cartegeografiche, che ossessiona Esme? E perché, secondote, la geografia ha assunto così tanta importanzanella letteratura francese d’oggi?Non vorrei parlare in nome della letteratura francesed’oggi… ma penso che probabilmente sia dovuto auna riflessione sullo spazio nel momento in cui si èpersa la distanza, in cui tutti i punti sono raggiungi-bili, in cui possiamo andare dovunque. Élisée Reclus,che era un geografo anarchico e utopista, diceva:«Adesso che abbiamo esplorato la Terra e che nonabbiamo trovato il Paradiso, dobbiamo crearlo». Lotrovo molto divertente. Questo per quanto riguardala geografia. La questione della carta è ancora un’altra cosa. Lacarta e la mappa sono già una riflessione, un’intel-lettualizzazione dello spazio, e quindi della geogra-fia. Sono già un codice, un codice che non èso migliante. A meno di essere un pilota di aereo. Etuttavia produce un senso, mette ordine. Non cor-risponde alla nostra percezione, anzi è il suo contra-rio, perché normalmente siamo a rasoterra, abbiamoun sguardo orizzontale. Mentre lo sguardo dellacarta è uno sguardo verticale. È ancora una voltauna questione di distanza rispetto all’oggetto. È unaforma di comprensione che non è possibile se nonnella distanza. Ho un’affezione di tipo plastico perle carte. Sono belle, mi interessano. Trovo meravi-gliosa questa capacità di costruire intellettualmente

qualcosa che è somigliante e che al tempo stessospiega, chiarisce.

La carta è qualcosa che ha un rapporto diretto conl’oggetto che rappresenta o è qualcosa di parallelo?Ha un po’ delle due cose. Una carta senza la realtàa cui si riferisce è una carta? È interessante se pren-diamo, per esempio, le carte di quella che fu la Fe-derazione jugoslava e che naturalmente non esistepiù. La stessa cosa vale per molti altri paesi chehanno conosciuto uno spostamento delle frontiere.La carta continua a esistere, ma non esiste più inquanto carta. E allora che cos’è? Per esempio, seprendiamo – per continuare nella gioia – tuttequelle isole che sono state distrutte dallo tsunami,che cosa sono diventate le loro carte, adesso? Ma lacarta è anche la possibilità di orientarsi, è qualcosadi rassicurante. È diretta, indiretta, e rassicurante.

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.48 Pagina 10

Page 11: Intervista a Jakuta Alikavazovic

11

Indossava un vestito di un blu intenso, oltremare,

che persisteva sulla retina. Mi fece un effetto strano,

quel blu, aveva corpo e presenza eppure era

spirituale, immateriale, assente. Nel mondo antico

i primi blu erano considerati barbari;

più tardi, i colori ebbero il loro proprio luogo.

La struttura di Fuga in blu assomiglia a uno spae-samento geografico. Uno spaesamento creato dauna lunga serie di riferimenti all’architettura, aiposti, alle strade di Parigi, da un certo modo di gi-rarci intorno. Ma anche da tutto ciò che ritorna,dalle corrispondenze eccetera. La materia narra-tiva non si sviluppa secondo una linea precisa-mente temporale.Ho dei problemi con il racconto lineare, con latemporalità, perché penso che il tempo non tra-scorra nello stesso modo per tutti, né per tutto quelche accade. O almeno, non trascorre nello stessomodo per le mie voci contraddittorie. Lo spazio èper me un modo per risolvere il problema deltempo senza eluderlo.

intervista_jakuta_affinita_17mag12:Layout 1 17/05/2012 18.48 Pagina 11